Antonio Galetta

ARTICOLO n. 42 / 2024

CIÒ CHE MI MANCA. L’OASI, LA GIUNGLA, LA LETTERATURA

I

In Harry a pezzi (1997), mentre Woody Allen scende in ascensore verso il fondo dell’inferno, una voce registrata dice: «Quinto piano: borseggiatori della metropolitana, mendicanti aggressivi, critici letterari».

E io non so se sia vero, ma anni dopo, durante una cena a margine delle riprese di To Rome with Love (2012) cui era stato invitato, un critico letterario di mia conoscenza sostiene di aver chiesto conto ad Allen di questa battuta. Il mio conoscente trovava che quell’umorismo fosse intollerabile, perché la critica letteraria («Almeno quella fatta bene») sarebbe a suo dire più o meno l’opposto della malafede, il contrario dell’inganno, addirittura «l’unica forma di discorso in cui la cattiveria coincide con la pietà».

Woody Allen, stando a questo resoconto, nemmeno ricordava di aver fatto quella battuta, ma incalzato riconobbe che, se anche aveva esagerato, comunque il suo bersaglio non era la disciplina in sé e per sé, ma i suoi atleti – non la critica letteraria, ma i critici: almeno alcuni, e specie gli assenti.

Il critico letterario gli chiese di essere più preciso.

Allen bevve a garganella un calice di vino, sorrise con garbo, cambiò argomento: «Perché siamo qui?», chiese imbarazzato. «Di cosa parliamo veramente quando parliamo di libri? Il pistacchio di Bronte è poi così diverso dal pistacchio comune?»

Vera o falsa che sia, questa storiella penso dica qualcosa di importante sul posto che chi fa critica letteraria ricopre oggi nella società. È il posto del prete ubriacone: se puoi non lo inviti, se parla non lo ascolti, e ti dà l’impressione di predicare ai convertiti anche quando si lancia in imprese missionarie. «Se questi sono i preti», ti fa pensare, «allora forse sarebbe meglio che restassero nelle chiese».

Appena esce dai luoghi in cui la sua legittimità non è posta in questione – università, pagine dedicate sui quotidiani, riviste di settore, alcuni blog, qualche profilo social –, la critica letteraria viene insomma mal sopportata. La si ignora, la si fraintende, la si spernacchia senza indugi. Perché?

La prima risposta è senz’altro nella marginalità in cui, prima della critica, versa oggi la letteratura. Quando ci viene voglia di scrivere pubblicamente, le strade sembrano tre: rivolgersi a una nicchia, svilire il messaggio, tacere. La cosa suscita talvolta una specie di compiacimento della decadenza, sembra quasi dolce non importare a nessuno, e inevitabile (se non virtuoso) anteporre il marketing a tutto il resto, ma forse l’accento andrebbe posto su ciò che ognuno può fare per cambiare questa situazione.

Letteratura e critica sono più marginali di quanto potrebbero.

Ciò che mi manca è un margine – angusto, inestimabile – su cui lavorare: riuscire ad affermare che no, non sono un prete, né vorrei esserlo, ma credo valga la pena di parlare di letteratura con semplice serietà.

Dov’è che sbaglio? Perché?

Ne parlo spesso con un’amica più esperta di me, una critica letteraria dell’università che ogni tanto scrive anche sui giornali. Io ho ventisei anni, lei una sessantina. La vado a trovare una volta a settimana. Ordiniamo una maxi-pizza, due birre, una coca, e mangiamo chiacchierando sulla penisola di marmo: poi ci spostiamo sul divano di pelle. Accendiamo la consolle e passiamo ai discorsi seri.

L’altra sera abbiamo provato EA FC 24 sulla Playstation 5 che si è regalata per il compleanno. Io le ho chiesto com’è che siamo arrivati a questa situazione. Lei mi ha esposto la teoria delle tre morti.

«Il problema, Anto, è che negli ultimi trent’anni siamo morti tre volte, e chi se ne accorge cerca di agonizzare con dignità», ha detto la mia amica guardando entrare in campo la mia Juventus e il suo Real Madrid. «Mentre gli altri, tutti gli altri, parlano a una piazza vuota».

«Però chi muore poi rinasce, a quanto pare», ho detto rincorrendo Brahim Díaz.

Vlahovic per Chiesa, sponda a Rabiot, doppio passo, lancio verso Cambiaso – fuori. Peccato.

«La prima volta siamo morti negli anni Novanta. Non sapevamo più in cosa credere, a che titolo parlare. Quando non sai cosa dire né come dirlo l’industria ha campo libero. Era finita la Storia, figurati la critica: restavamo noi. Gli specialisti disorientati di una specialità di cui nessuno sentiva più il bisogno… ‘fanculo!»

Uno a zero per me. Danilo su ribattuta.

«Era fuorigioco».

«Avanti: qual è la seconda morte?»

Silenzio. Una partita sporca, tutta falli a centrocampo.

«Embè?», ho detto dopo un po’, cercando di marcare Vinicius Jr. con Rugani.

«I blog, Anto – i blog. Che sembravano un fermento inaudito, e poi era una guerra tra bande. Quando il conflitto non si fa nell’interesse generale, l’industria ha campo lib– tie’, sotto il sette! Palla al centro».

«… dicevi?»

«Dicevo che le tue sono banalizzazioni. Tu vuoi fare il risotto con la nutella, e non si può».

La partita è finita 4 a 1 per lei, e comunque la terza morte sarebbero i social network: se tutti parlano è come non parlasse nessuno, la critica si riduce a pubblicità, eccetera. Tutto giusto, ma mi sembra che la mia amica – da critica universitaria piena d’esperienza quale è – abbia un po’ nostalgia dell’autorevolezza che ha dovuto rispettare nei suoi maestri. Trovo che la nostalgia sia quasi sempre sospetta. E secondo me essere ritenuti autorevoli a prescindere è persino più brutto che restare sconosciuti ingiustamente.

Di queste cose mi capita di parlare anche con un mio coetaneo che fa l’influencer di libri (28.000 follower). Ci incrociamo in biblioteca e, anche se siamo molto indaffarati – io leggo perché devo, lui perché gli va –, ogni tanto ci prendiamo un momento per noi. Mi invita nel suo bilocale. Mangiamo insieme.

«Ma quindi non vivi in una stanza damascata con i micetti e le tisane?», dico per sfotterlo un po’.

Poi, dondolandomi sul sedile da gamer che mi presta per pranzare, gli infliggo la mia idea.

“Tutto fumo e niente arrosto” sarà pure lo slogan dell’impostura, dico, ma “tutto arrosto e niente fumo” rischia di diventare l’epitaffio dell’intelligenza mal spesa. Ciò che mi manca è una quantità di fumo commisurata al peso dell’arrosto: una scrittura che faccia i conti con il fatto che nessuno è tenuto ad ascoltarla, e proprio per questo cerchi di non annoiare (o impressionare) nemmeno chi la seguirebbe in ogni caso; un discorso che non abbia paura di essere interessante, ma si imponga di esserlo (si consenta di esistere) solo quando può cogliere le cose alla radice. Ben venga il fumo che valorizza l’arrosto!

Appena pronuncio questo strambo motto, il mio amico mi interrompe a bocca piena.

«’tto wronzo, ’ta’ wiwi-hando i’ wio wavo’o!», dice sputacchiando risotto e funghi.

«Eh?!»

Inghiotte, mi guarda infastidito. «“Tutto fumo e niente arrosto”, dici? Stai criticando il mio lavoro!»

«Ma va’…»

Ehm ok forse un pochino, penso tra me. Ma ti prego, non chiedermi di argomentare!

«Sì invece. Qual è il punto? Né con i tromboni, né con i televenditori. Io, per te, sarei il televenditore».

Silenzio. Non ce l’ho con lui, però in effetti la penso all’incirca così.

«Bah» dico però. «Una volta tanto sarei per la via di mezzo…»

«Non c’è una via di mezzo. Lo sai che ci sono piccole fabbriche di bulloni che fatturano più delle maggiori case editrici? O l’oasi protetta o la giungla: non c’è altro. O il privilegio o il mercato: se tutti ragionassero come voi, domanda e offerta si ignorerebbero a vicenda».

Voi chi?, vorrei chiedere, ma il risotto ai funghi non mi è mai sembrato così triste. Non so più cosa dire.

Sono nato nel 1998, sto per finire un dottorato in letteratura italiana tra Università di Pisa e Sorbonne Université, scrivo su riviste cartacee e online, il mio primo romanzo uscirà per Einaudi a settembre del 2024. Quando ho invitato a cena la mia amica accademica e il mio amico influencer, le cose sono andate più o meno come all’inizio di Kill Bill volume 1: mazzate, mobili all’aria, pause sornione quando mi affacciavo dalla cucina. Eppure, senza saperlo, concordano su un punto: entrambe credono che non ci sia alternativa alla condizione del prete ubriacone. Solo che poi l’accademica si chiude in convento, e l’influencer spretato scarica Tinder. Ciò che mi manca è un modo per non fare né una cosa né l’altra.

II

Due volte, nell’ultimo anno, per via della critica letteraria mi sono trovato coinvolto in risse social violente e inaspettate. La prima volta avevo analizzato criticamente Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (Laurana 2022); la seconda avevo espresso perplessità su come si discute a RicercaBO, storica rassegna dedicata agli scrittori emergenti cui ero stato invitato per leggere un estratto del mio romanzo.

In entrambi i casi ho fatto come mi diceva il mister quando giocavo a pallone: no al fallo, sì al contrasto. Mi mancava la possibilità di dire che le cose belle possono anche avere dei difetti. L’ho detto con tutta la mia parzialità, senza presumere di avere ragione: perché stiamo celebrando un capolavoro che – secondo me, e per questi motivi – non c’è? Perché ribadiamo stanche ortodossie anziché valutare i testi per quel che sono? Non volevo essere scorretto, ma neppure ero disposto a tirare indietro la gamba.

«Se così tanta gente reagisse ai miei lavori potrei anche vomitare», mi ha detto la mia amica accademica.

E l’influencer di libri: «Bello, bravo. Ma eravate quarantaquattro gatti in fila per tre con il resto di zero. Sicuro che non ti stai rivolgendo ai due liocorni?»

Le discussioni che ho suscitato, per me, sono state in gran parte infruttuose, simili com’erano allo scandalo per la lesa maestà. Ma credo che sia valsa la pena di suscitarle: c’è stato anche un dibattito più serio, grazie al quale ho avuto una piccola conferma del fatto che, per quanto sarebbe ragionevole lamentarsi della propria marginalità o arroccarsi su di essa, un margine scomodo ma prezioso c’è ed è abitabile – ci sono persone che, se solo riesco a raggiungerle, mi parlano e ascoltano, mi mettono in crisi.

Per raggiungerle in modo sensato, però, mi sembra che occorra rifiutare tanto il privilegio quanto il mercato, cioè tendere a un’idea di normalità che includa il conflitto come una cosa scontata, doverosa, e rifiuti di agire sulla base della prudenza strategica o del tornaconto privato.

Ci vuole conflitto, ecco, e deve essere disinteressato.

Avete presente le frecciatine sui social, le recensioni d’opportunismo o di cortesia, gli sfoghi, le lagne, i deliri culturalistici spacciati per avanguardia, il carrierismo mascherato da meticolosità, le raffinatezze che sanno di polvere e muffa, l’enfasi che nasconde il vuoto di contenuto, l’intransigenza così ostentata da somigliare al settarismo, la licenza autobiografica che diventa prigionia ombelicale?

Ecco: anch’io talvolta rischio di fare molte di queste cose, ma ci vorrebbe (credo) l’esatto contrario – e dirlo mi sembra tanto ingenuo quanto necessario.

Perché il punto, secondo me, è che non dovremmo mai essere noi che scriviamo o studiamo, ma sempre e soltanto ciò di cui proviamo a parlare: perché i libri non sono un monumento a chi li scrive (o a chi li pubblica, o a chi ne parla), ma uno dei più preziosi terreni comuni che abbiamo.

III

E insomma. Io provo a dire queste cose, ma in realtà non ho ancora trovato una mia misura: lavoro per l’università, ma non credo che ciò che finora ho prodotto faccia di me un buon critico accademico; cerco di scrivere sulle riviste, ma tendo spesso a complicare indebitamente le cose. La mia certezza è che, più di tutto, mi interessa scrivere romanzi (non tanto fabbricare risposte, quindi, se non esprimendo delle contraddizioni); e per il resto, di solito, uno dei miei limiti è non saper fare molto di meglio che rivendicare inappartenenza e disorientamento.

L’altra notte, però, il folletto che si siede sulle pance degli indisposti – le orecchie a punta, le dita nodose – è venuto a trovare anche me. Mi ha sorriso, mi ha accarezzato. Provavo a scacciarlo ma non lo raggiungevo. E lui, saltellando sul mio stomaco, mi ha lasciato sul lenzuolo un foglietto piegato in quattro. L’ho aperto al mattino: era una specie di strana ricetta.

Risotto con la nutella (una terza via tra l’oasi e la giungla):

  • Riso 500g;
  • Nutella qb;
  • Analisi scanzonata e parziale del campo letterario.

Be’, la Nutella ce l’ho, il riso pure… e così il quadro, semplificando a tremolaterra, mi sembra questo: la critica universitaria è autorevole, ma spesso respinge perché non sa (e a volte non può) uscire dai propri codici; la critica sui giornali è interessante, ma spesso superficiale e d’occasione; la critica sui blog è libera, ma troppo contenta di rivolgersi a una nicchia; la critica sui social è divertente, ma spesso – anche a malincuore – si limita a dire «Va’ che bello, garantisco!». Non voglio straparlare, so di fare un torto alle eccezioni meritevoli e me ne scuso, ma mi sembra che le tendenze egemoniche siano più o meno queste. (il folletto sorride, sorride, mi approva e mi spalleggia).

Poi certo, parlare a tutti non si può, i lettori sono pochi… ma il problema è che, in contesti anche molto diversi tra loro, io stesso alle difficoltà oggettive rispondo troppo di frequente con scelte di comodo, anche se ogni esempio ha poi un controcanto. Di seguito racconto tre aneddoti che mi sono realmente capitati – uno sui giornali cartacei, uno sull’università, uno sui blog; se non vi interessano, saltateli pure.

Primo aneddoto. Il romanziere in rampa di lancio e la mangrovia bonsai

Io: «Ciao caro, ti scrivo perché ho letto il tuo articolo sulle rappresentazioni letterarie dell’inquinamento a Kuala Lumpur e non sono d’accordo con la tua tesi. Come fai a dire “basta coi romanzi d’invenzione sfrenata, ma documentati come inchieste” e “dateci più polizieschi erotico-esotizzanti”? Non capisco!»

… passano ore…

Io: «Ci sei? Non volevo essere aggressivo, scusami, però è una questione a cui tengo molto».

Lui: «Galetta, ciao! Sono opinioni: rispettiamocele a vicenda. Davvero dobbiamo litigare per dei libri?»

… non passa mezzo minuto…

Io: «Certo che dobbiamo litigare! E proprio perché sono opinioni».

Lui: «Senti, non mi ritengo responsabile di ciò che ho scritto. La redazione mi ha commissionato l’articolo e mi ha detto che tesi sostenere. Tra l’altro quei polizieschi fanno schifo anche a me…»

(Qui, leggendo, penso: “Ma se li scrivi anche tu!”, e poi mi vergogno perché non è vero: mi fa comodo pensarlo, ma in realtà il romanziere in rampa di lancio è un artista che stimo)

Sempre lui: «… mi interessa stare su quel giornale. Fa bene ai miei libri, e intanto guadagno due spicci. Non credo che della letteratura importi una mangrovia bonsai a qualcuno, quindi ciccia».

Controcanto

Diverse persone di mia conoscenza non sono più state contattate dai quotidiani nazionali dopo aver difeso o rifiutato di esprimere un’idea.

Ipotesi e domanda

Sui quotidiani nazionali la critica letteraria può essere condizionata da interessi aziendali o privati, dalla linea editoriale o da valutazioni d’opportunità. Qual è la giusta misura del compromesso?

Secondo aneddoto. La dottoranda e la prudenza

Convegno all’Università della Transnistria del Nord, cena sociale. Sono molto incuriosito dal progetto di ricerca di una dottoranda che non conoscevo, sulle rappresentazioni della caccia nella letteratura scandinava del XII secolo. Domando, domando, fingo di saperne qualcosa. Mi sembra assurdo e meraviglioso che un argomento così astruso possa nascondere tanta complessità.

«… e quindi so che è un po’ palloso, ma la spartizione della selvaggina, secondo me, è un topos non tanto lontano dal nostro… dal nostro… oh. No, niente. Lasciamo stare. Chi hai detto che è il tuo tutor?»

La dottoranda guarda il piatto come avesse appena commesso un errore stupido e grave. «Scusa, non è il caso», dice poi. «Questa cosa non l’ho mai detta a nessuno. Preferisco conservarla per la tesi».

«E va be’, ma io studio il romanzo italiano di oggi, figurati se…»

«Non mi va. Ho paura che qualcuno mi rubi l’idea e la pubblichi prima di me. Non tu, eh! Ma ho paura».

Controcanto

Una persona di mia conoscenza ha inviato la propria tesi di laurea a studiosi più esperti per averne un parere. Gli studiosi più esperti l’hanno plagiata senza citarla.

Ipotesi e domanda

L’università chiede di produrre a ciclo continuo una critica letteraria che rispetti molti vincoli formali, e di custodire i propri lavori inediti come un’azienda assediata dalla concorrenza custodisce le invenzioni non ancora brevettate – ma le pubblicazioni richiedono mesi (se non anni), e spesso hanno una circolazione che tanto valeva mandare una mail agli interessati. Qual è la soglia oltre la quale la prudenza degenera in paranoia, e il desiderio (la necessità) di confronto diventa sventatezza autolesionista?

Terzo aneddoto. Incagli e disincagli su sfondo blu cobalto

«Anto, forse non dovrei dirtelo, però Blogger mi sta troppo sul culo. Sai Scrittore Inedito? Blogger ha rifiutato di pubblicargli un racconto».

«Aspe’, dici Incagli e disincagli su sfondo blu cobalto? L’ho letto, mi è piaciuto».

«E certo! Blogger è il primo fan di Scrittore Inedito, solo che ora è in rotta con Controblogger: teme che se pubblica Scrittore Inedito (autore storico di Controblog), Controblogger monti un altro casino».

«Be’, che monti ciò che vuole. Qual è il problema? Già non pagano una lira…»

Silenzio. Vengo guardato con compassione e ironia.

«Blogger ha paura di essere delegittimato a forza di retorica. Un po’ lo capisco, ma Incagli e disincagli è un mezzo capolavoro – ci metterebbe niente a finire sul podio annuale di Rivistina Neglettuccia! E Blog, al di là di tutto, sarebbe la sede perfetta: è un peccato che finisca altrove per paura della critica…»

«Mmh. Perché non ne parli con Blogger?»

«Io? Ma di questa storia non dovrei sapere niente! Me l’ha detta il Viceblogger di Blog, in confidenza…»

Controcanto

Blogger e Controblogger svolgono un lavoro fondamentale e impagabile di selezione e pubblicità. Senza di loro, la letteratura italiana sarebbe un’altra cosa: forse meno plurale, di certo più istituzionalizzata.

Ipotesi e domanda

Sui blog i giudizi di valore sono spesso in odore di lite tra paesani. Come bucare questa bolla?

Cos’altro? Mi ricordo di quando, durante una riunione di redazione di uno dei principali periodici nazionali dedicati alla letteratura, un articolista chiese «Ma a chi ci stiamo rivolgendo?», e la direzione rispose «Non lo sappiamo». Mi viene in mente quel che dice la (secondo me) più brava scrittrice della mia generazione: che niente, per chi scrive, è difficile quanto ricevere un parere sincero sui suoi sforzi.

Tra la letteratura e la società, insomma, c’è di mezzo la società letteraria, ma il problema di questo gruppo intermedio è che chi ne fa parte spesso non vede le persone diverse da sé: parliamo a noi stessi o a target più merceologici o astrattamente culturalistici che umani, non sappiamo mediare con chi non condivide i nostri codici, e anche per questo siamo più marginali di quanto potremmo.

Il punto, però, è che a fare le spese di questa situazione non sono soltanto (né principalmente) gli scrittori, i critici universitari, i recensori, i blogger, gli influencer o i cosiddetti lettori forti.

Sono, piuttosto, le persone simili a quella che io stesso ero ancora pochissimi anni fa, e che in parte sono ancora oggi: è chi avrebbe anche certe curiosità, certe domande, e forse più entusiasmo che mezzi, e una disponibilità genuina e acerba a vivere la letteratura come un’occasione per conoscere il mondo e arricchire o mettere in crisi la propria esperienza, ma non possiede gli strumenti necessari a decodificare certi linguaggi, non ha avuto il tempo di mettere a fuoco la ragion d’essere di certi problemi o i retroscena di certi cinismi. Io ho avuto la fortuna di andare all’università e di frequentare persone più lucide di me, ma sono cresciuto lontano da ogni metodo e quasi da ogni libro: da un certo punto in poi non ho fatto altro che scrivere e leggere, ma se fossi stato solo un po’ più sfortunato non avrei capito granché di ciò che sia oggi in Italia la letteratura – avrei continuato, più che altro, ad avere l’impressione di un deserto dove ci si ammazza per la sabbia, di un vuoto coperto dall’ego ancora più vacuo degli scrittori, di una corsa senza senso a chi sparisce più in fretta dalle librerie.

Queste immagini così comuni sono desolanti quanto superficiali (oltre che false in buona misura), e che circolino così tanto è un vero peccato: ciò che mi manca è una critica rigorosa ma interessante, delle voci umili quanto intransigenti, un dibattito che almeno provi a suggerire anche a chi non ne sa niente che la letteratura attuale esiste ed è viva anche al di là delle pressioni del mercato e dell’autopromozione di chi la scrive.

Di questa vitalità provo a parlare in concreto ogni giorno nei modi che posso, e qui parlo in astratto – e obbedendo al folletto – di ciò che secondo me la ostacola e la nasconde. Poi vabbe’: è ora di pranzo. Accendo il gas, verso la cannella nel burro. Peso il riso e lecco la crema di nocciola dal mignolo. Mezz’ora dopo ho rovinato una padella. Mi sa che la mia analisi era tutta sbagliata.

IV

Balzac, da qualche parte, scrive che la felicità è poter dire ogni cosa con la certezza di essere compresi.

Questa frase mi commuove. So che il diritto di dire tutto e la garanzia di non parlare a vuoto non piovono dal cielo, e so che non basta protestare contro un linguaggio per creare di colpo un contesto comunicativo diverso. Ma credo anche che chi scrive o studia la letteratura sia un membro della società come gli altri (non deve mettersene al di sotto, non può porsene al di sopra, muore ogni volta che scarta di lato); e quando ci penso capisco una cosa: ciò che mi manca più di tutto è la capacità di ricominciare ogni volta da capo, in ogni testo e ogni frase. Vorrei saper sempre parlare come se ci incontrassimo per la prima volta al bar e stessimo per morire di lì a poco – mi piacciono gli aperitivi, d’accordo, e soffro un po’ di horror vacui; ma magari, in punto di morte, mentire e sproloquiare mi verrebbe più difficile.

Che bello sarebbe! Hai due minuti per dire le cose fondamentali a un altro essere umano… provi a dirle con seria semplicità… ti sbagli, vieni frainteso e (diciamo che) va bene così.

Poi muori e tutto si fa più distante, manca la voce. Lo sfondo diventa scena e la scena diventa sfondo. Non è che ti dissolvi: aleggi. E non è che scompari: ti rarefai. Premi ovunque e tutto preme su di te. Ti sembra che ciò che ti è sempre mancato sia un modo per essere intero. Ti accorgi che, malgrado i buoni propositi, sei caduto ora nel sussiego ora nella sciatteria, ora negli opportunismi ora nell’ortodossia, e tanto hai rincorso la tua libertà che alla fine sei diventato schiavo della tua rincorsa.

E poi lo senti, lo sai. Presto precipiterai per conficcarti nel tuo posto: al quinto piano dell’inferno, tra mendicanti aggressivi e borseggiatori del metrò.

Satana sorride, il risotto con la nutella è quasi pronto.

«La morte sua», ti dice sghignazzando tra palme e liane, «è una spolverata di pistacchio comune».