Sara Poma

ARTICOLO n. 35 / 2021

Per un mondo parallelo pieno di speranza

INTERVISTA DI MARCO MARINO

M.M. Sara, nel tuo nuovo podcast, Prima, hai voluto ricostruire la storia di Maria Silvia Spolato, la prima donna che ha fatto coming out pubblico in Italia. È molto bella la descrizione che ne fai nella sigla: «è la storia di come stavano le cose prima e di come, grazie al coraggio di Maria Silvia e di persone che come lei hanno lottato, sono diventate più semplici. Anche per me». Quando senti per la prima volta quell’«anche per me» ti spiazza, perché ti dà subito modo di capire che chi sta raccontando la storia non è una semplice narratrice.

S.P. L’aderenza con la storia che si racconta è molto importante. Soprattutto se utilizzi uno strumento come il podcast. È possibile raccontare storie lontane da te, ma il racconto per voce, per sua stessa natura, deve possedere un’autenticità che solo con pochissimi altri mezzi riesci a replicare. C’è la voce in primo piano, che instaura una relazione molto intima fra te che parli e chi ti ascolta. Che in quel momento spesso vive un’esperienza solitaria. I podcast di solito si sentono da soli, in cuffia. Desideravo mettere in chiaro da subito, in un punto importante come la sigla, che ricorre in ogni episodio, quell’«anche per me», perché si capisse che c’era un motivo profondo e personale per cui stavo raccontando quella storia. Non ero una semplice osservatrice, ma una persona che ha potuto avere un certo tipo di vita anche grazie a quella storia che stavo raccontando. A tutto ciò che era avvenuto prima. Non so quanta consapevolezza ci sia stata nel farlo, ma c’è stata sicuramente una necessità nella scrittura. Sottolineare quell’aderenza.

M.M. Si intrecciano, nel podcast, la storia di Maria Silvia Spolato e la tua. Ne esce fuori un racconto di due vite parallele che vivono e affrontano, a distanza di molti anni, comuni esperienze – la paura di essere sbagliate; le letture e la coscienza di non essere sole; il coming out e il coraggio di dirsi. Potresti raccontarci la prossimità e la distanza fra la tua storia e quella di Maria Silvia?

S.P. Me ne sono resa conto mentre ci lavoravo, di questo forte intreccio che si è venuto a creare, quando ero quasi arrivata alla fine. Sai, la mia è una generazione di mezzo, e per questo penso di aver avuto un punto di osservazione privilegiato. Ci sono degli elementi di enorme distanza, storica e sociale, rispetto a quella che poteva essere stata l’esperienza di Maria Silvia Spolato, nata nel ’35, e delle altre donne che racconto nella serie. Però, allo stesso tempo, la mia esperienza, confrontata con quella di un ventenne di oggi che si scopre gay, o non-binary, o trans, è altrettanto diversa. Probabilmente quello che legava la me ventenne alla Maria Silvia Spolato ventenne era la totale assenza di rappresentazione. Anzi, se pensiamo alla generazione di Maria Silvia, l’unica rappresentazione che veniva data dell’omosessualità era qualcosa di terribile, lo racconta bene Stefano Bolognini, il giornalista che intervisto nella seconda puntata: l’omosessualità era legata esclusivamente ai fatti di cronaca; gli omosessuali venivano descritti come malati, persone da curare. E al di fuori di questa narrazione aberrante, per le donne omosessuali dell’epoca non c’era alcun tipo di rappresentazione; e io che ho avuto vent’anni negli Ottanta posso dire che nemmeno noi disponevamo di alcun tipo di rappresentazione. Infatti, mi ha reso molto felice, ma non mi ha sorpreso, che io e la poetessa Edda Billi, che ha novant’anni e intervisto nella prima puntata, avessimo in comune lo stesso libro letto da ragazzine che ci ha fatto pensare «ah, allora non sono l’unica donna omosessuale sul pianeta terra!». Era Il pozzo della solitudine di Radclyffe Hall. Forse chi adesso ha vent’anni questo problema non ce l’ha, fortunatamente basta guardare una serie su Netflix. Adesso i problemi sono altri.

M.M. C’è un’altra trama sotterranea di Prima che mi piace pensare ti leghi a Maria Silvia. Mi riferisco al tuo podcast precedente, Carla, in cui presti la voce alle pagine del diario di tua nonna, una ragazza del Novecento recita il sottotitolo. Anche Maria Silvia era una ragazza del Novecento, ed entrambe hanno vissuto il secondo dopoguerra cercando di affermare – certo, in modi diversi – la propria indipendenza. Trovo nella sigla di Carla un altro passaggio incredibilmente significativo, nelle tue parole nonna Carla «non ha mai smesso di guardare al futuro piena di un’incrollabile speranza». Secondo te, pure Maria Silvia era animata da quell’incrollabile speranza?

S.P. Per Maria Silvia non ci avevo mai pensato. Però, certo, lei era figlia dello spirito del tempo degli anni Settanta. Parlando e conoscendo le sue compagnie di lotta, tutte mi raccontano di un sentiero che abbracciavi, e percorrerlo da donna significava avere un coraggio straordinario, era come se entrassi in un universo parallelo in cui tutto era pieno di speranza: perché le cose succedevano, le cose cambiavano, lo spirito di comunità era fortissimo. È questo lo sguardo che mi hanno restituito le compagne di Maria Silvia. Che a quel tempo sarà stato sicuramente anche il suo.

M.M. Un’altra domanda che desidero farti: per rintracciare quell’incrollabile speranza, in un tempo come il nostro che sembra non possederne, di speranze, è necessario guardare al passato?

S.P. Personalmente sì, per me, guardare dietro a quei momenti storici, mi aiuta a trovare la speranza nel presente, nel futuro, nella possibilità che le cose cambino: se il nostro passato è stato popolato da personalità eccezionali come Maria Silvia, non c’è dubbio che avremo figure come lei anche oggi e domani. Credo che questo continuo sguardo all’indietro abbia anche una funzione salvifica sul presente. Non è tanto uno sguardo nostalgico ma qualcosa che ricarica l’ottimismo. Parlo per me, attenzione, non so se è così per tutti. Io penso di essere una persona tendenzialmente ottimista, e queste storie mi aiutano, mi hanno aiutato.

M.M. Adesso che hai terminato il podcast chi è per te Maria Silvia Spolato? Come continua a seguirti?

S.P. Sono partita da una figura bidimensionale, una fotografia che avevo visto on-line, che la ritraeva mentre teneva stretto un cartellone, e da una pagina Wikipedia piena zeppa di notizie sbagliate. Ma proseguendo le ricerche, Maria Silvia mi si è mostrata come persona estremamente complessa. Ineffabile, in qualche modo. Infatti, sono rimaste insolute tantissime domande che hanno a che vedere proprio con quella sua complessità. Quello che riesco a dirti è che, ricomponendo pazientemente i tasselli della sua storia, mi sono accorta che Maria Silvia non era solo una foto o una pagina Wikipedia. E non era nemmeno soltanto un simbolo, la prima donna scesa in piazza a dichiarare la propria omosessualità. Era molto, molto di più.

M.M. Abbiamo discusso dell’istanze di cambiamento che hanno mosso Maria Silvia e le sue compagne di lotta a scendere in piazza negli anni Settanta. Una militanza necessaria, che ha costruito la società più aperta in cui viviamo oggi. Però, troppo spesso, quando si tratta di proposte necessarie come il ddl Zan, il nostro Paese sembra essere un muro di gomma: una società aperta, sì, ma solo moderatamente. Perché?

S.P. Perché purtroppo l’Italia è un Paese ancora estremamente provinciale, e deve fare tantissimi passi avanti. Probabilmente, se torno alla mia esperienza, quello che mi porto dietro come retaggio della mia generazione è un senso di relativismo. Di accettazione, forse troppo estrema, di cose che dovrebbero essere diverse. Io dico che mi sono sposata, ma in realtà io mi sono potuta unire civilmente, con tutta una serie di differenze rispetto al matrimonio. Però dico: «ah, cavoli, almeno l’ho potuto fare!». Oppure: «Mai avrei pensato di poterlo fare». Invece, se poi mi fermo a pensare davvero, capisco che no, io dovevo avere il diritto di farlo prima e in altri termini. Eppure, c’è una parte di me che si accontenta dei microcambiamenti che ci sono stati o che ci saranno. Sul fatto che l’Italia sia così restia a certe cose di buon senso, lo imputo al fatto che siamo un Paese che subisce fortemente un’influenza cattolica. E spero davvero che le cose cambino.