ARTICOLO n. 27 / 2021

Istanti di felicità

TRADUZIONE DI GALA MARIA FOLLACO

La felicità, e le cose che le assomigliano, secondo me sono proprio come le uova. Sono preziose, ma se le stringiamo troppo forte si rompono, e se le trattiamo con eccessiva delicatezza cominciano a pesarci. Ecco perché, come si è sempre detto in ogni parte del mondo, il metodo migliore per accostarsi alla felicità è sicuramente quello della casalinga che, infilata la confezione delle uova nel cestino della sua bicicletta, pedala verso casa a gran velocità e senza pensieri. Se una volta a casa si accorge che due o tre uova si sono rotte, non se ne cruccia più di tanto, dice: «Oh no, si sono rotte! Mah, pazienza, le posso sempre ricomprare», quindi si mette all’opera con quelle che le sono rimaste. A me questo sembra l’atteggiamento migliore.

L’infelicità di solito deriva da una mancanza di equilibrio. L’infelicità cui mi riferisco non è quella materiale, ma interiore. Ecco perché, a mio avviso, non si può essere realmente felici se si cerca continuamente di riconoscere i cosiddetti «istanti di felicità». E in fondo che importa?

Ho l’impressione che gli istanti di felicità siano una cosa leggermente diversa. Il passato è pieno zeppo di quelle che ci sembrano «splendide giornate», ma si tratta per lo più di ricordi abbelliti dal tempo, mentre i momenti di felicità così intensa da farti pensare «Ecco, adesso potrei anche morire» non si ripetono mai e a poco a poco inevitabilmente sbiadiscono. Sono combinazioni di elementi a determinarli, è il clima, lo stato d’animo, le condizioni fisiche, le relazioni interpersonali, i luoghi: sono tutte queste cose messe insieme. I tipi un po’ malinconici, come me, confidano nella «forza». Non possiamo farci niente: più ancora della felicità, ad attirarci è l’intensità di certi istanti. Ma forse è così perché sono ancora giovane, quindi non mi do per vinta. Sogno il momento in cui mi accorgerò di essere diventata «la casalinga con le uova».

Vi faccio qualche esempio di istante che ho vissuto.

Al secondo anno di università c’era un ragazzo per il quale mi ero presa una bella cotta. Mi piace tutt’ora, ma non come a quei tempi. Era un tipo veramente strano, molto intenso. Quando l’ho conosciuto tutte le mie certezze sono crollate, è stato come rinascere. Era una persona forte, per sottrarmi alla sua influenza e riprendere il controllo della mia vita ci sono voluti due o tre anni, lui stesso all’epoca era giovane e totalmente irrazionale, un vero spasso.

In quel periodo uscivamo spesso in gruppo, restavamo a bere per tutta la notte, quindi i miei ricordi sono piuttosto confusi, ma quanto sto per raccontare dev’essere capitato poco dopo il nostro primo incontro. Quella sera eravamo tutti su di giri, non so perché. Era molto tardi ed era evidente che non avremmo fatto in tempo a rincasare, tuttavia saremmo morti se avessimo mandato giù anche solo un altro goccio. A un certo punto lui, completamente ubriaco, disse: «E va bene, tutti a casa mia! Vi fermate a dormire da me». Per me era una specie di divinità, quindi non mi sembrava vero che all’improvviso mi avesse invitato a casa sua. Mi sentivo come un ragazzino patito della chitarra che si fosse appena preso un complimento dal mitico Chabo degli RC Succession.

A casa della divinità avremmo incontrato il padre, la madre e la sorella. Non direi che ne ero innamorata, più che altro ero affascinata dalla vita che conduceva, lo guardavo e pensavo «C’è gente che vive in questo modo incredibile», quindi ero felicissima di poter andare a casa sua. Certo, ero l’unica ragazza del gruppo, per di più ubriaca, e non mi posi affatto il problema: «Chissà, forse agli occhi dei suoi familiari risulterò un po’ sfacciata». Non stavo nella pelle, ero come i primi giapponesi che solcarono i mari alla scoperta di terre straniere.

Camminavamo tutti insieme nel tepore di una notte di primavera al suono di grosse risate. A metà strada ci fermammo in un convenience store per mangiare onigiri e inari sushi, e continuavamo a chiacchierare allegramente. Ricordo che proprio in quel momento mi fece un gran sorriso e, porgendomi un inari sushi, disse: «Yoshimoto, prendine un altro». Se ancora oggi mi ricordo un episodio così insignificante è perché in quell’istante, a notte fonda in quel quartiere residenziale, ho pensato: «Sono felice!». E forse, prima di allora, non mi ero mai resa conto di quanto lo fossi.

Da quel momento ho cominciato a riflettere proprio sulla nostra percezione della felicità.

A seconda delle persone, può essere un buon esercizio.

Lo scorso Natale, di ritorno da un concerto che si era tenuto ad Asakusa, mi sono fermata al ristorante dove lavoravo part-time. Ero andata al concerto con le mie colleghe, le quali mi avevano detto che quella sera ci avrebbero dato un bonus. La cameriera del primo turno aveva in mano una busta chiusa di colore marroncino al cui interno, dicevano, c’era il bonus. «E aprila allora», le avevamo detto, e con nostra grande sorpresa – credevamo che ci fossero sì e no duemila yen – ci trovò diecimila yen. La somma era così spropositata rispetto alle mie previsioni che andai a prendermela tutta felice. Quel giorno era una certa Yumi a coprire l’ultimo turno, una ragazza bellissima, molto socievole e un po’ bizzarra. Dopo essermi fatta dare la busta dal capo, le domandai: «Yumi, hai ritirato il bonus?».

«Sì, ma non ho ancora guardato nella busta. Quanto ci sarà?»

«Diecimila yen! Ecco, guarda».

Nel ristorante non c’era neanche un cliente, Yumi spalancò gli occhi e gridò: «Eeeh!?». Poi cominciò a ripetere che era fantastico, arrossendo visibilmente.

«Giusto adesso che avevo un gran bisogno di soldi, oh, che gioia, chi si aspettava una cifra del genere? Ah, il proprietario è stato veramente generoso, accidenti, sono così felice che sono diventata tutta rossa!», disse dandosi dei colpetti sulle guance. Mi sembrò di aver fatto qualcosa di buono. Non dicemmo una parola, ma sentii che era Natale. In quel momento, l’intero ristorante fu testimone dell’istante carico di gioia che Yumi stava vivendo.

Ancora: a casa ho un gatto.

Ne ho diversi, in verità, ma tra loro ce n’è uno che si chiama San-chan, adora i gamberetti e gli basta vederne uno per tirar fuori un «Mi-aaaao!!» differente da tutti gli altri. Lo fa nell’istante in cui gli mostro il gamberetto. Poi, quando glielo metto davanti come a dire «Ecco, è tutto tuo», lui mi guarda per un momento e, con le movenze e l’espressione, sembra chiedermi «Posso mangiarlo per davvero?». È così buffo che qualche volta mi diverto a tenerlo sulle spine, ma quando poi gli do il permesso lo divora in un sol boccone. Nessun indugio. Pura felicità.

Vorrei concedermi anch’io piccole gioie come queste.

Sugli istanti di felicità
Penso che anche i più inclini all’infelicità, prima o poi, riescano a trovare la pace. Forse perché, nel bene o nel male, con il passare degli anni si impara a conoscersi. Io stessa sono molto più serena rispetto a quando avevo diciassette o diciotto anni. La vita è lunga, ma per un diciassettenne è facile pensare che «l’oggi equivale al sempre», ed è una sensazione di disagio che mi ricordo a ogni lettera ricevuta da qualche liceale. È come se ognuna di loro pensasse di dover essere felice, come se si sentissero in dovere di rincorrere una felicità esteriore. A queste ragazze, soprattutto, vorrei donare almeno un istante di felicità intensa.

KOFUKU NO SHUNKAN by Banana YOSHIMOTO
Copyright © 1989 by Banana Yoshimoto
All rights reserved
Japanese original edition publishedby Kadokawa Shoten Publishing Co., Ltd., Japanas a part of the book “Painatsupurin”
Italian language translation rights arranged with Banana Yoshimoto through ZIPANGO, S.L.

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