ARTICOLO n. 41 / 2021

GUERRA

ESTATE A VENEZIA

Sei arrivato a Venezia che faceva già caldo, era inizio giugno. Venivi da Milano che non ti rispondeva più al telefono, venivi da quella piatta e desolata città priva di sentimenti dove nulla accade e nulla si muove, ma l’avevi imparato troppo tardi. Milano è ferma, statica, perenne nella sua immobilità, l’unico modo per darle vita è agitarsi, muoversi, avanti e indietro in continuazione, dentro e fuori in continuazione, come un massaggio cardiaco, l’unico modo possibile per darle vita, un cuore. Te l’eri immaginata come Parigi dove è possibile stare fermi e guardare, dove è possibile vedere il mondo che invecchia mentre tu nemmeno te ne rendi conto. I caffè a Parigi servono a quello, a guardare cosa succede, dimenticandosi finalmente di se stessi, ma lasciando se stessi sopra al palco.

Sei venuto a Venezia che l’estate già si palesava nell’umidità ossessiva che non ti abbandona mai, nemmeno quando sembra che una leggera brezza possa salvarti la camicia. Prima, poco prima, venivi da Roma. Caterina ti parlava a voce bassa e sorriso sempre aperto e dolce, avevi amato il suo tono di voce, elegante e accogliente. Quella sera nel trambusto del Perù lei parlava con quel movimento tranquillo delle labbra e tu invece ti domandavi se i suoi genitori l’avevano chiamata così per quella canzone, quella di De Gregori, l’età dei suoi corrispondeva, pensavi e intanto non l’ascoltavi più.

A Venezia è impossibile mettere a fuoco, ma è obbligatorio guardare, mai come lì osservare e capire corrispondono, mai come a Venezia nulla è mai del tutto comprensibile, tutto è sempre aperto e passibile di correzione e cambio di rotta. Dipende dal tempo, dalla marea, dal fatto che qui tutto si muove, tutto è vivo e in mutazione. Faceva caldo e tu avevi trovato un posto dove stare, una casa dove vivere. La città verso sera tornava vuota e il bacino di San Marco all’imbrunire ti ricordava una natura morta di Giorgio Morandi, nessun contorno definito, solo oggetti sospesi. Pensavi di sentirti libero, ma sapevi di aver scelto un posto dove terraferma e campagna, Mirano e New York sono sinonimi. Per sentirti libero quell’estate avevi scelto di essere esterno e altro, solo con gli occhi.

A Venezia non ci si perde, anzi ci si ritrova sempre al punto di partenza. Lo avevi capito dopo pochi giorni, giravi e giravi, ma giravi troppo, tanto che sempre in quelle quattro calli finivi, ma senza mai capirne il senso. E così stremato dal caldo che da sempre ti ammazza, tu uomo di montagna (negato per la montagna) ti sei seduto e sei tornato da dove eri partito, lontano da chiese e da musei, lontano dalle persone se possibile. Già perché non capivi nulla di quello che ti dicevano. A Venezia il dialetto è lingua, è corpo puro. E prima di arrivare alla lingua la strada è lunga e passa quasi sempre per le mani.

Ti sei seduto in un posto perché era vuoto, non che i turisti non ci fossero, ma se inizi ad abitare a Venezia scompaiono come umani e restano come ingombri, fastidiosi come i piccioni. Elementi di una guerra in corso che non lascia tregua. D’estate Venezia diventa una città in perenne resistenza, non che i turisti siano gli invasori, ma ricordano molto i sacchi di sabbia alla finestra, il segnale più evidente di una lotta che vada come vada farà più male che bene.

Ti sei seduto e non hai capito più niente, hai smesso per una volta nella vita di lottare contro i mulini a vento che girano come pazzi in vestaglia nella tua mente. Pensavi di bere acqua e hai bevuto vino, pensavi di mangiare insalata e hai mangiato pesce, pensavi di non prendere nessun dolce e lo hai preso. Ti sei imposto per avere il caffè e hanno riso come fosse uno scoppio e te lo hanno offerto. Ma sei restato, hai provato a non badare a tutta questa confusione a non confondere l’accoglienza con l’ostilità. E hai imparato a guardare le mani che a Venezia sono legni grossi, di quelli che si trovano alla deriva sulle spiagge, legni contorti, ma buoni per fare barche. Erano mani grosse che avevano movimenti leggeri, buone per accarezzare, per cucinare e offrire, per darti improvvisamente – non richiesto, ma ben compreso – rifugio, che sia per mezz’ora che sia per la notte.

Sei stato fermo e hai iniziato a capire che dovevi mettere distanza per mettere un po’ a fuoco prima che il movimento ti sorprendesse nuovamente e ti lasciasse ancora una volta perduto. Avevi capito che non dovevi inseguire che dovevi lasciar scorrere perché a fissare le cose, a dargli un nome e una casella rischiavi solo di costruirti schemi e pregiudizi, e a Venezia in calle chi ha pregiudizi poi cammina solo.

Poi un giorno è arrivata Eleonora, non la vedevi da mesi, ti è sempre piaciuto il suo sorriso. Non tanto quando ride e subito chiunque capisce che è di Roma, ma quando sta come sul tram e la linea della sua bocca diventa irregolare come quella che Schulz disegna come bocca ai suoi Peanuts. Di solito quando Eleonora è così o si è dimenticata qualcosa o qualcosa la sorprende. Subito ti ha fatto l’elenco delle cose che avevi visto in oltre un anno che eri lì, ma tu non avevi visto nulla e giusto per non incorrere nella classica domanda, «Ma allora cosa hai fatto?», hai finto e anche se lei probabilmente se ne è accorta ha fatto finta di niente e ti ha trascinato alla Scuola Grande di San Rocco.

Era passato un anno dal tuo arrivo, e ora la pandemia iniziava a mollare un poco la presa, ma la città restava straordinariamente deserta e i piccioni con cui avevi ingaggiato – secondo te – una relazione emotiva e sensoriale erano sempre più affamati e aggressivi. La Scuola Grande era vuota, ci eravate solo tu, Eleonora e pochi altri. Tu vagavi, lei sembrava più sistematica, a te piacevano le sedie rosse.

Vi siete trovati entrambi a fissare il pavimento e avreste voluto attraversarlo a quattro zampe, almeno tu avresti voluto, come quando d’estate a casa giocavi sul pavimento di marmo freddo e liscio al giro d’Italia con dei piccoli ciclisti in plastica e un paio di dadi. Attraversavi dalla sala alla cucina, dalla camera da letto alla lavanderia e sudavi fino a scivolare e a restare stremato a «fine tappa» con il caldo addosso e tutto madido di sudore.

Siete usciti, lei ti ha parlato e tu l’hai ascoltata, ma fino a quando non siete entrati in una vecchia bottega di carte marmorizzate non è che hai capito molto, tuo solito. Di fronte alle carte ebru Eleonora ha iniziato a perdere la testa, il signore, l’artigiano che le faceva era elegante e affilato, le parlava con un tono di voce lento e accarezzava con delicatezza i fogli. Le ha mostrato dei quaderni rilegati e anche delle cornici. Non le diceva più di quanto fosse necessario e lei sembrava essere in apnea, mentre tu iniziavi a capire cosa lei ti aveva tentato di dire per tutto il giorno, ma hai deciso comunque di tacere. Eleonora ha comprato due quaderni e una piccola cornice, era felice come una bambina e si vedeva. «Mi chiamo Alberto», ha detto il signore, tu gli hai stretto la mano, Eleonora ha detto «Mi chiamo Eleonora» e gli ha baciato la guancia come fosse in un tempo eterno.

I nomi a Venezia sono sempre i nomi propri così che anche i cognomi, se proprio servono diventano nomi propri. I nomi a Venezia resistono e pesano, si riconoscono subito e si sa subito a chi appartengono. Non ci possono essere dubbi. E non perché siano nomi strani o particolarmente originali, ma perché in mezzo alla laguna il suono di un nome diventa subito anima. Anche qui ci è voluto tempo, ma poi hai capito.

Hai capito con il tuo passo lento che inciampa comunque, con la tua espressione ottusa che concede sempre così poco all’allegria. E allora Agnese che è Agnesetta, Alberto, Alberta e poi Albertina, Gigi e Toni, Giorgio e Carlo e poi certo Franca e Franco e poi ancora una volta come se non ti fosse bastato Enrica ed Enrico. Hai lasciato a santa marghe Eleonora che partiva. La stazione non ti piace, in stazione non ci vai, Venezia è in mezzo alla laguna e di vie di fuga non ne vuoi più sapere.

I nomi quindi, quelli che ti hanno fatto ridere come quando eri bambino: Aldo Strasse, Denti d’oro. Bisogna stare attenti con il passato a Venezia perché è ineluttabile quanto il futuro, qui tutto è in equilibrio non si parteggia per una parte o per l’altra se no si finisce in acqua. E il passato è numeroso a Venezia e procura quel sottile e irresistibile piacere che non è altro che annegamento, il piacere sottile che arriva poco prima del soffocamento totale.

E tu che sei venuto a Venezia per non farti corrodere dall’euforia di futuri fatti di parole e di corpi vecchi, hai iniziato a giocare pericolosamente con il passato, fino ad innamorarti delle schiene: un uomo alto che ti precedeva tutte le mattine a comprare i giornali e che seguivi lungo le calli, un ponte e poi un altro.

Lo riconoscevi dall’odore del fumo della sua sigaretta, lo sentivi arrivare fino a te e stranamente non ti infastidiva. Non hai mai avuto la curiosità di guardarlo in faccia, ma ti piacevano le sue camicie ampie e a scacchi e il rumore dei suoi passi: un giorno siete andati a tempo con i piedi e hai temuto che si voltasse, non l’ha fatto e hai avuto l’impressione che anche lui fosse del gioco.

E poi la schiena di bambino che avevi visto neonato e poi crescere inseguendolo per farlo ridere, prima i suoi passi incerti poi sempre più veloce. E poi hai smesso, non sai perché, ma hai smesso. 

Se hai mai abbandonato qualcuno, quelli sono stati sempre i figli non tuoi: li hai visti crescere o in alcuni casi li hai fatti crescere con pazienza e parole inusuali per il tuo carattere, ma poi arriva sempre un punto che diventi estraneo e li lasci. Lo hai già fatto troppe volte e lo hai fatto anche a Venezia dove ti salva giusto la luce, dove è sempre possibile coltivare una distanza ottica accettabile, sai che non lo perderai di vista anche se hai perso il suo affetto. Chiedi di lui in continuazione come fosse un parente lontano mentre corre a qualche centinaia di metri da te lungo le Zattere, esagitato ed euforico come ricordi di essere stato tu alla sua età. E questo ti fa nuovamente paura.

Altro che Parigi, Venezia sì che non finisce mai e hai imparato cosa è il Lido, cosa sono le isole e cosa è quel lungo viaggio lento che è stare in barca in mezzo alla laguna. Hai imparato come impari tu: addormentandoti mentre altri remano, coprendoti quando c’è il sole e scoprendoti quando tutti sanno che pioverà. Hai capito, hai capito male, ma qualcosa in testa ha iniziato a suturare e poi piano piano le cicatrici si sono levigate fino a lasciarti solo un’ombra sul corpo. Quando hai iniziato a comprendere che non è sempre necessario ferirsi per capire qualcosa, sei arrivato in piazza San Marco, avevi bisogno dello stupore, avevi bisogno di vederla come per caso. L’hai lasciata per ultima pur sapendo che ci sarà sempre altro ancora, ma intanto sei arrivato come si arriva al desiderio, con concitata noncuranza. Ci sei arrivato e per te è stato come tornare a casa, senza bisogno di ribadire a te stesso chi sei perché tutto è lì da vedere. Che è anche l’unico modo possibile per stare in mezzo ad una piazza senza occuparne lo spazio, diventando tu stesso quella pietra o quel coppo, quella porta o quella maniglia. Eccola lì piazza San Marco con la sua bottiglia dal collo lungo, con la brocca panciuta e l’anfora con le curve sinuose, la tazzina senza manico davanti a tutto. Ecco la linea del mare su cui si stagliano tutti questi oggetti, slegati da te, dalla tua storia e dalle tue ridicole noie quotidiane. Vorresti un kipferl come ti ha spiegato in un vecchio documentario Goffredo Parise che forse in maniera un po’ troppo compiaciuta, ma divertente se ne mangia più d’uno tra i piccioni e l’orchestrina in una giornata di fine anni Settanta. Vorresti capire come si fa a restare senza ingombrare, ad amare senza opprimere, a domandare senza pretendere una risposta. Guardi l’orizzonte, ascolti i rumori e tutto riconduce all’acqua, anche il caldo che proprio ora sembra darti un po’ di tregua. Chiudi gli occhi e li riapri, sei a Venezia e non hai visto nulla, puoi esserne felice.

ARTICOLO n. 74 / 2024