ARTICOLO n. 96 / 2022

IL FEMMINISMO SECONDO BELL HOOKS

Speciale bell hooks

Durante la campagna elettorale, l’opinione pubblica si è scervellata per mesi per rispondere a una domanda mal pensata e mal posta: Giorgia Meloni è femminista? Una questione che dovrebbe far saltare dalla sedia chiunque pratichi il femminismo, non tanto perché Meloni, contrariamente alla sua collega francese Marine Le Pen, non ha mai cercato di associarsi a questa parola (anzi, ne ha preso spesso le distanze, attaccando un po’ genericamente “le femministe”), ma perché è davvero assurdo attribuire il femminismo a qualcuno, a maggior ragione a una persona che lo ha sempre disprezzato. Ma questa domanda negli ultimi anni è diventata sempre più popolare nonché rivolta ai soggetti più disparati.

Chiedersi se qualcuno sia o non sia femminista a prescindere da ciò che la persona pensa o fa è la conseguenza di un grande fraintendimento: il femminismo è una caratteristica dell’individuo, non più una pratica o una teoria politica. Basta esistere in quanto donne in un contesto patriarcale per essere femministe. Non contano le idee, i fatti, il posizionamento politico. Il femminismo è per tutti, vero, e non ci sono barriere per chi voglia abbracciarlo. Ma il percorso ora è inverso: qualcuno da fuori decide chi è e chi non è femminista, cercando prove, facendo congetture. In un discorso, in una decisione e a volte soltanto in un’esistenza si cerca un legame con il femminismo.

Quello che ha portato a questo fraintendimento è stato un processo lungo, passato anche da una rilettura spesso superficiale della vita di donne eccellenti del passato. Figure che avevano senz’altro una grande consapevolezza della subalternità femminile, che hanno lottato per uscire da uno stato di minorità, ma che non facevano parte di un movimento. Se oggi essere femministe è una qualità apprezzata, quasi desiderata, è anche perché il femminismo si è normalizzato e da forza di opposizione e messa in discussione dell’esistente, da questo esistente è stato gradualmente inglobato. Questo processo era già stato registrato da bell hooks nel suo libro del 1984 Feminist Theory: From Margin to Center

Nella prefazione alla terza edizione, hooks racconta che cominciò a scrivere questo volume quando avvertì, nella sua militanza, che il femminismo era incapace di produrre una pratica che si prendesse cura dei bisogni di soggetti diversi dalla donna bianca della classe media. Non solo, la voce delle femministe nere era ignorata o ghettizzata. Il loro destino era quello di parlare esclusivamente dei problemi razziali, come se il colore della loro pelle venisse prima dell’assunto che univa alla radice le femministe: l’esperienza di essere donne. Dopo Ain’t I a Woman, scritto a 19 anni e uscito in quel 1981 che produsse anche Donne, razza e classe di Angela Davis, hooks tornò sul tema con uno sguardo ancora più radicale.

Il tema del libro, infatti, non è soltanto l’assenza di chi sta ai margini dal discorso, ma un’analisi più generale di come il femminismo si sia gradualmente allontanato dall’essere pratica della vita, per diventare uno status symbol o al peggio una parola come tante altre. bell hooks, richiamandosi all’analisi di Zillah Eisenstein, parla di un femminismo che ha adottato inconsciamente l’“ideologia competitiva e atomistica dell’individualismo liberale”, che riproduce gli interessi di classe della borghesia che da sempre si è imposta al centro del movimento. Questi interessi si riflettono nella definizione di femminismo come semplice “parità di diritti”. Parità con chi?, chiede hooks. Una donna bianca della classe media scambierebbe il suo posto con un uomo nero? Vorrebbe essere considerata una sua pari?

Il femminismo raramente si è posto questa domanda, arenandosi su concetti come “parità” o, ancora peggio, “uguaglianza”, o al contrario forzando una situazione comune a tutte le donne, per altro segnata dalla sofferenza e dalla minaccia della violenza sessuale. Nel 1984, anno in cui uscì Feminist Theory, la concezione di femminismo come parità stava diventando egemonica persino nelle tradizioni della differenza sessuale. Si era alla conclusione del “decennio delle donne” proclamato dall’Onu e inaugurato con la Conferenza mondiale delle donne di Città del Messico nel 1975.  In queste conferenze, le rappresentanti politiche di tutto il mondo (e le varie first ladies) si riunivano per discutere i problemi delle donne e creare una strategia di sviluppo per quello che era considerato il “terzo mondo”. Se queste conferenze hanno avuto un ruolo fondamentale nell’implementazione delle politiche di genere a livello globale, per certi versi hanno contribuito anche all’istituzionalizzazione del femminismo e alla sua trasformazione, specie in ottica umanitaria, da forza politica a forza morale. 

hooks aveva intuito la direzione in cui stava andando questo processo: la cooptazione da parte di chi detiene il potere, favorita da una certa cecità del movimento femminista nel riconoscere che esistono altre oppressioni oltre a quella sessuale e che gli uomini non sono i veri nemici del femminismo. Il femminismo non è più una forza che mette in discussione il potere, lo rigetta o lo utilizza per mettere fine al dominio, come il Black Power, ma una forza che vuole impossessarsi di quel potere per farne ciò che vuole. Per avere, in altri termini, pari diritti nell’esercizio del potere, compreso quello del dominio. 

Il percorso che hooks comincia ad abbozzare nelle pagine di Feminist Theory oggi è arrivato a una sorta di punto di non ritorno. Politici di ogni ideologia, da Pedro Sanchez a Marine Le Pen, si dichiarano femministi e, quelli che non lo fanno vengono resi tali, anche contro la loro volontà. Le aziende di qualsiasi settore fanno i salti mortali per proporsi come parte di un movimento che dovrebbe essere fatto dalle persone e non dalle società per azioni. Sarebbe troppo facile addossare tutta la colpa al femminismo, ipotizzare un suo tradimento o addirittura un suo fallimento. 

Il problema, piuttosto, sta in questa cooptazione che hooks cita più volte nel suo testo. Di cui il femminismo detiene una certa responsabilità, che la filosofa non nega: “I gruppi maschili dominanti sono stati in grado di cooptare le riforme femministe e renderle utili agli interessi del patriarcato suprematista bianco e capitalista perché le attiviste femministe hanno ingenuamente creduto che le donne erano in opposizione allo status quo, avevano un sistema di valori diverso da quello degli uomini e avrebbero esercitato il potere nell’interesse del movimento femminista. Questo assunto le ha portate a prestare poca attenzione nel creare sistemi di valori alternativi che includessero nuovi concetti di potere”. Oggi che il femminismo è tornato al centro del dibattito politico, con un’adesione senza precedenti a livello globale, è necessario che produca un nuovo discorso sul potere. Non più in termini di empowerment o del superamento individuale della paura nei suoi confronti, ma provando a immaginarsi qualcosa di radicalmente diverso. 

ARTICOLO n. 33 / 2024