Emanuele Coccia

ARTICOLO n. 14 / 2024

CONTRO L’IDEALE DELL’INTELLETTUALE

tre strategie

Pubblichiamo la prefazione al volume di Zygmunt Bauman e Bruno Bongiovanni Intellettuali (Treccani). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

I vocabolari sono le forme più ingannevoli di rappresentazione della vita di un linguaggio. Nelle loro pagine le parole si affiancano l’una all’altra con pacifica indifferenza reciproca, senza gerarchie, senza ambizioni, come se nessuna badasse al proprio uso. Come se ciascuna fosse da sempre e per sempre legata a un significato in un matrimonio semantico che non può conoscere crisi e tantomeno divorzio. Sarebbe difficile immaginare qualcosa di più illusorio. 

Le parole in realtà sono, da sempre, il luogo di una duplice battaglia: quella relativa al loro significato (che proprio per questo non smette di mutare) e quella per il loro uso. I suoni che scivolano nelle nostre bocche o gli strani intrecci di linee su fondo bianco che popolano libri e quaderni sono stendardi e vessilli di una guerra continua che riguarda chi ha il diritto di parlare, in quali condizioni, quanto spesso, e in relazione a quale e quanta porzione di realtà sia possibile trasformare attraverso la presa di parola. Ogni discorso trasforma il reale: è per questo che vi è un continuo scontro. E in una guerra in corso le parole non si equivalgono: non hanno alcuna assicurazione a vita sulla validità e la legittimità del loro significato così come del loro uso e sono sempre sporche, piene di macchie di crimini passati di cui abbiamo dimenticato moventi e assassini.

Il termine intellettuale è, da secoli, il terreno di una delle guerre più sanguinose che culture ed epoche diverse si sono fatte e che continuano a farsi. Sarebbe ingenuo pensare che questa battaglia sia nata con la genesi del morfema “intellettuale”: il conflitto esisteva molto prima di Zola, Dreyfus e Clemenceau, prima degli usi che nel mondo intellettuale inglese si fecero di questa parola, ed esisterà anche in futuro. 

Il testo di Bauman sembra alludervi: il termine “intellettuale” è lo strumento verbale attraverso cui un gruppo ristretto di individui si è arrogato il titolo che conferiva loro una superiorità, assieme cognitiva e morale, rispetto al resto dell’umanità e proprio per questo una maggiore vicinanza al reale e al Bene.

D’altra parte, è questa prossimità alle fonti della realtà e della morale che conferiva a questo gruppo di persone un esonero dalle forme contemporanee di schiavitù – il lavoro – e la possibilità di avere un rapporto privilegiato con le forme del potere. Si farebbe male a pensare che questo tipo di configurazione sia propria solo alla modernità europea. Perché così facendo si riduce la posta in gioco espressa da questo termine a una semplice questione culturale, sociale o demografica. 

La posta in gioco è invece di natura antropologica: ogni volta che si pensa a cosa è una o un intellettuale si partecipa a un conflitto millenario e ubiquo sulla stessa natura della vita umana. Si tratta infatti innanzitutto di separare una dimensione, una funzione, una facoltà o potenza della nostra vita e di riconoscerle una sorta di superiorità gerarchica sulle altre. Poco importa che lo si chiami intelletto, ragione o spirito: l’idea di intellettuale presuppone che vi siano porzioni della vita umana (la sensibilità o il metabolismo chimico-biologico, per esempio) che partecipano meno della sua stessa natura o che riescono a esprimere in misura minore la nostra umanità. È proprio sulla base di questa frattura interna a ciascuno degli esseri umani che diventa possibile separare alcuni individui dagli altri: l’intellettuale è diverso da tutti gli altri esseri umani, perché è chi riesce a eliminare quanto della sua vita non partecipa di questa facoltà, e riesce a conferire a quest’ultima una forma di primato egemonico.

La natura di questa divisione è cambiata nel tempo e nello spazio: c’è chi la considera ontologica e separa due classi di umanità, chi la considera sociale o culturale, chi ne fa invece una forma di frattura politica. Resta che parlare di intellettuali significa aver frazionato l’umano al suo interno, creando un’articolazione gerarchica delle vite. Poco importa ricordare che questo frazionamento mirava a una riunificazione postuma dell’umano o a una forma di riconciliazione. L’ideale dell’intellettuale nasceva dalla divisione e produceva divisione. Non solo: c’era qualcosa di perverso in questa chirurgia interna alla natura umana. Perché l’intelletto, lo spirito, la ragione finivano per separare l’umano anche dal mondo invece di riportarlo verso di esso. È per questo che i suoi più acuti critici (da Davide di Dinant a Nietzsche) vi hanno visto il trionfo di un ideale ascetico e di rinuncia. 

È evidente oggi quanto una simile strategia sia ingenua, antiquata, insensata. L’ideale dell’intellettuale ha prodotto solo separazione: separazione all’interno dei popoli, separazione tra i popoli, separazione tra l’umanità e il resto del cosmo. Ha separato le forme dell’esperienza, ha opposto le culture, ha fatto della cultura qualcosa che non smette di allontanarsi dalla natura. Non si tratta certo di opporre a questo ideale un elogio romantico e altrettanto ingenuo dell’unità dell’esperienza e della riconciliazione universale. Ma si possono opporre a questo ideale tre evidenze, che coincidono anche con tre strategie, per far vivere il pensiero ovunque. 

La prima è di ordine psicologico. All’ideale dell’intellettuale che separava e gerarchizzava le forme dell’esperienza all’interno di ogni essere umano è necessario replicare con il principio che qualsiasi attività umana, qualsiasi forma dell’esperienza, qualsiasi espressione della nostra vita sia di natura spirituale, sia l’articolazione cioè di idee e di una mente che riarticola il mondo godendo di questa stessa attività. Poco importa che si tratti di mangiare, correre, scrivere, sognare, costruire oggetti o creare melodie. Il pensiero è ovunque. E si tratta di edificare una cultura che riconosca l’onnipresenza del pensiero. Da un certo punto di vista si tratta di ripetere il gesto che ha portato alla genesi dell’idea di arte in Occidente. […]

La seconda evidenza è di ordine politico. Viviamo in un mondo che è stato costruito a partire dalla possibilità per cose e persone di migrare senza interruzioni. E proprio perché tutto si mescola attraverso la migrazione, attribuire oggetti, artefatti e persone a un luogo specifico del pianeta è impossibile: la sola unica e comune provenienza è l’orizzonte planetario, che è il solo e unico “suolo” che accomuna tutto ciò che vive e tutto ciò che esiste. Anche per le conoscenze, i simboli, le idee è così. Quello che chiamiamo mondo digitale è uno spazio in cui le idee e i simboli non cercano luoghi in cui accumularsi – archivi o biblioteche – ma circuiti attraverso cui diffondersi. Si può dire che i social media sono gli spazi in cui le esperienze esistono nella misura in cui possono circolare: la verità è funzione del tramandamento. Un’idea – proprio come una moneta – è tanto più vera quanto più circola. In questo quadro, a circolare deve essere anche e soprattutto la soggettività: è l’io che deve viaggiare di corpo in corpo, di esperienza in esperienza, di mondo in mondo. Da un punto di vista tecnico, la capacità di un io di migrare è quello che il pensiero antico nominava come demone. […]

La terza evidenza è di ordine cosmologico. La scienza ha dimostrato da tempo che l’intelletto o la ragione non sono una parte della nostra esperienza o del nostro corpo, ma coincidono con il reale, anche e soprattutto non umano. Il pensiero, la ragione, lo spirito sono ovunque. Non solo in ogni forma di vita – perché tutti i viventi pensano, riflettono e agiscono sulla base del pensiero – ma anche nella materia non vivente. L’universo è un insieme infinito e in moltiplicazione perpetua di menti. Se l’intelletto è ovunque (e non solo in una porzione minima della vita di una frazione infima degli esseri viventi, gli uomini) essere intellettuali, aderire all’intellettualità significa cercare di trovare il modo di pensare dentro, attraverso e con le altri menti. 

Da questo punto di vista, il legame tra le menti non può più essere puramente cognitivo o intellettuale, ma erotico. Bisogna innamorarsi della mente altrui per poter pensare dentro e attraverso di essa. L’intellettuale del futuro è per questo una figura dell’amore, schiavo di un Eros capace di rivolgersi a qualsiasi mente.

E in fondo, scrivere un libro o un articolo, comporre una sinfonia, produrre un film, indagare, passare ore dietro la lente di un microscopio o davanti a un computer, osservare il comportamento degli elementi della materia non sono semplici espressioni della nostra razionalità. Sono attività che comportano soprattutto un enorme dispendio di desiderio e di amore. Ci vuole desiderio, tantissimo desiderio, per rimanere incollati a una pagina per ore e ore, per cesellare la più piccola virgola; ci vuole una devozione d’amore inaudita per seguire la vita di una mosca o di un batterio in una brutta e fredda stanza di laboratorio; ci vuole una passione bruciante, quasi disumana, per dedicare giorni a trovare il ritmo giusto per collegare due suoni o immagini in una sequenza che abbiamo già visto e sentito migliaia di volte. Ci vuole desiderio, e immenso ardore, per dedicare trenta, quaranta, cinquant’anni a qualcosa di così fragile e immateriale come una forma, un’idea, un linguaggio, un animale, un materiale. 

Gli intellettuali sono soprattutto degli amanti: padroni di un desiderio che ha imparato a rivolgersi e a farsi carico non solo degli esseri umani, ma anche di quasi tutti gli oggetti e gli eventi che popolano il nostro mondo. Come nel caso dell’amore per gli esseri umani, anche in questo caso l’oggetto può essere non plausibile, assurdo o fuori luogo: una particella che nessuno è riuscito a osservare per decenni, come il bosone di Higgs, pigmenti su una tela, un evento di cui non c’è traccia, una violenza passata, una lingua incomprensibile, un manufatto senza valore. Come tutti gli e le amanti, sono anche pronti a perdonare qualsiasi cosa all’oggetto del loro amore: la noia, la malizia, il minimo capriccio. Come tutti gli e le amanti, sono anche disposti a fare qualsiasi cosa per poter perseguire il loro amore: pronti a rovinare la loro vita e quella degli altri, ad abbandonare tutto, a trascurare tutto ciò che non ha nulla a che fare con l’amato. Più che i sacerdoti della ragione in una fantomatica città ideale, sono l’esercito violento di Eros. 

Dovremmo iniziare a chiamarli così: parlare di amateurs e amanti, là dove siamo abituati a parlare di intellettuali e intellighenzia.

Non si tratta di una precisazione secondaria. Perché chiamare amanti chi chiamavamo intellettuali significa cambiare le aspettative nei loro confronti. Non chiediamo un metodo a chi ama: l’amore non ha istruzioni, è un’ostinazione che inventa ogni volta un nuovo espediente per restare vicino all’oggetto amato. Dalle persone che amano non ci aspettiamo coerenza e nemmeno esemplarità: le persone che amano non predicano la giustizia, né cercano di mostrarsi moralmente superiori agli altri. Il dono che non smettono mai di fare alla società è semplicemente il fuoco della loro passione per il mondo. Questo mondo.

[© 2023 Emanuele Coccia. Pubblicato in accordo con Rosaria Carpinelli Consulenze Editoriali, Milano]