Laura Pugno

ARTICOLO n. 39 / 2023

DESERTO VERDE

Pubblichiamo un’anticipazione dal volume L’Anno del Fuoco Segreto (Bompiani) a cura di Edoardo Rialti e Dario Valentini, che ringraziamo. Il volume sarà in libreria il 17 maggio.

Siamo tutti bambini nel bosco, perduti, abbandonati. Sussultiamo a ogni rametto spezzato, ogni fruscio degli alberi è una mano tesa a proteggerci o forse a ghermirci. 
La scienza evolutiva e le immagini della religione si sovrappongono, rigirano tra le mani lo stesso oggetto scuro, sbozzato, come un manufatto ultraterrestre o una concrezione lavica nel quale pare di scorgere un volto dalla bocca spalancata. Siamo scimmie spaventate, il giardino dell’Eden è sbarrato alle nostre spalle, una spada fiammeggiante ci separa dal riposo e dall’abbraccio universale, la coscienza della nostra nudità ci esalta e ci umilia. Cerchiamo di leggere il mondo e vi proiettiamo speranze e minacce, sogni di comunione la cui dolcezza sbiadisce al risveglio, orrori e crudeltà che ci attirano come falene al fuoco. Gli uccelli cantano, il buio ci osserva. Avanziamo incerti su gambe malferme e ai bordi dei nostri desideri avvertiamo la pressione di tutto quell’oltre, lo popoliamo di demoni e dei. Ragazze emergono dalle nubi e ci tengono le braccia. Scarpette rosse ci fanno ballare fino a sanguinare e scavare una tomba nel terreno. Mozziamo la testa ai bambini e la chiudiamo in una cassa dove continuano a chiamarci con un pigolio. Facciamo l’amore con lupi e serpenti d’acqua. Infondiamo la nostra vita in un oggetto, lo riveliamo a chi lo spezza sotto il tacco. Ci svegliamo al mattino per scoprire che il nostro amore è stato portato via, o che lo abbiamo ceduto noi stessi al re della morte per ottenere un giorno in più sotto il sole.
I processi di razionalizzazione individuali e collettivi ci fanno incanalare le infinite varianti, tutte vere, tutte false, in percorsi lineari. La realtà e le storie diventano rette parallele o perpendicolari, finiscono bene o male, rassicurano la domanda sottesa: È vero? 
Dividiamo i racconti in generi, come altrettante finestre da cui affacciarsi sul mondo e noi stessi. 
Una storia deve essere tale per essere raccontata, eppure non è solo tutto ciò che in essa è taciuto a darle spessore autentico, ma anche l’infinita tempesta delle possibilità alternative, i suoi tradimenti e rovesci, l’irruzione di tutto ciò che pare contraddirla, come un viso angosciato allo specchio che si veda rispondere da un sorriso nel riflesso. 
Le definizioni aiutano e al tempo stesso limitano e uccidono. Si costruiscono templi solo per scoprire che alla fine il fuoco del sacrificio è sprezzato dal dio, che nel frattempo è volato via.


Edoardo Rialti, Dario Valentini

L’uomo davanti a lei era bendato, non poteva vederla. Aveva una mano legata alla sedia, era troppo distante, non poteva colpirla. E l’interrogatorio andava avanti da ore, senza nessun esito, solo quattro parole ripetute costantemente, ossessivamente, come un mantra, come una verità. La tenente Soledad Valverde si accasciò – il viso sul tavolo di plastica verde scheggiata, il contatto fresco di quella superficie sulla guancia – e si prese la testa tra le mani. Non fu che un attimo, si tirò su, si massaggiò le tempie. Aveva male alla testa e bisogno di bere, ma la bottiglia che aveva accanto – anch’essa di plastica, riutilizzata mille volte e probabilmente ormai tossica – era vuota.

I suoi compagni sarebbero stati ancora dall’altra parte dello specchio spia, a guardarla, a ridere dei tentativi di interrogatorio che con tanto accanimento aveva cercato di portare avanti? O se ne erano già andati e ora si stavano ubriacando nella cantina più vicina, con qualsiasi cosa riuscissero a trovare, qualsiasi cosa si potesse distillare dalla selva?

Tutte quelle ore non erano state altro che uno spreco di energia, di aria ed elettricità – la lampadina che illuminava debolmente eppure ferocemente quella sala sotterranea sporca e spoglia, l’impianto di aria condizionata quasi al limite delle forze, era quasi meglio ai tempi del vecchio ventilatore a pale, ma ormai non funzionava più, pendeva dal soffitto, inutilizzato, con quella che si sarebbe detta mestizia – e uno spreco anche delle sue, di forze. Non aveva funzionato. Per quanto le ripugnasse, alla fine di quella giornata, e mancava poco ormai, non avrebbe avuto altra scelta che affidare il prigioniero ai suoi compagni. La tenente María Mendoza avrebbe riso di lei, era l’unica altra donna della squadra, e la più feroce di tutti, donne e uomini. Sarebbe stata lei a incaricarsi delle torture, avrebbe preteso che Soledad assistesse, che imparasse il mestiere una buona volta, come diceva, con un sorriso splendido – perché María Mendoza era davvero bellissima – che si torceva in un ghigno, o almeno così sembrava a lei, Soledad. Era lei sola a vedere quello che vedeva, a incarnare la solitudine che sua madre le aveva impresso addosso nel nome? Ma questa soddisfazione no, non gliel’avrebbe concessa. Avrebbe chiesto il trasferimento per l’interno della selva, per il minuscolo villaggio di Las Luces, dove era cominciato tutto. Al comando temporaneo avevano bisogno di unità e più volte le avevano fatto capire che la sua domanda, se l’avesse presentata, sarebbe stata accolta con procedura immediata, forse con te parleranno, le aveva scritto il capitano Morales dall’accampamento. Forse anche io, non aveva scritto, potrei parlare di nuovo con te, se tu venissi qui, se tu tornassi, Soledad.

Davanti a lei, l’uomo – il suo nome era Elías Hayes – restava immobile come era sempre stato, un braccio appoggiato al tavolo, ripiegato davanti a sé, l’altro trattenuto dai legacci. Anche il sudore gli colava lentissimo sul viso. Era come se avesse rallentato di proposito la circolazione del sangue, ma come era possibile una cosa del genere? Il fascicolo che la squadra – di cui oggi anche lei, Soledad, faceva parte – aveva iniziato a compilare tanto tempo fa diceva che Elías Hayes praticava la meditazione vipassana. Forse era quella la ragione. La benda nera e sudicia che gli copriva gli occhi lasciava vedere tratti bruniti dal sole. Aveva più di sessant’anni, diceva ancora il fascicolo, lo confermavano i capelli grigi in cui spiccava ancora solo qualche ciocca spessa e nera. Era tarchiato e doveva essere più forte di quanto non sembrasse. Soledad rilesse le frasi per quella che le sembrò la millesima volta, avrebbe potuto ripetere il fascicolo a memoria se avesse voluto.

Elías Hayes era stato diplomatico per gli Stati Liberi all’epoca della loro fondazione, trenta o trentacinque anni prima, quando pezzi e pezzi di America Latina si erano strappati dalle nazioni a cui appartenevano per fondersi insieme, e sogni di libertà e giustizia sociale avevano accompagnato quella come tutte le altre rivoluzioni del passato. Trentacinque anni dopo, ne rimaneva ben poco, questo Soledad lo sapeva bene, questo non compariva nel fascicolo di Hayes, che era stato aggiornato al “caso Quinn”. Dopo la morte improvvisa della moglie Rocío in un’aggressione in Sudafrica, Hayes aveva lasciato l’incarico ed era diventato senza fissa dimora. Aveva molti amici in Europa, nei paesi dove era stato distaccato sia prima che dopo la nascita degli Stati Liberi, in Spagna soprattutto e in Francia. Poi aveva trascorso qualche anno in India, forse addirittura in Birmania. Di tanto in tanto veniva avvistato e segnalato, anche se il fascicolo era incompleto, e la ragione delle segnalazioni non era riportata. I fascicoli erano sempre incompleti in quel modo, e negli anni, Soledad aveva imparato a decifrare le assenze, il vuoto, ciò che non veniva messo nero su bianco. In questo caso, però, non ci riusciva, o non completamente.

Le segnalazioni si infittivano dalla data di pochi mesi prima, quando improvvisamente e senza motivo apparente Elías Hayes era rientrato in patria e si era stabilito nel villaggio di Violeta, nelle case di lamiera o baracche che sorgevano a poca distanza dall’edificio della capitanía dove si trovavano adesso. Aveva accettato l’invito di un amico antropologo, Ian Medina Quinn, che da qualche anno si era stabilito a Violeta, anche se conduceva le sue esplorazioni soprattutto nella zona di Las Luces, nell’interno della regione. Tra i due c’era una qualche differenza d’età, ma anche una solida amicizia. Stando al fascicolo, Hayes e Medina Quinn si era conosciuti quando Hayes era in carriera diplomatica in Spagna. Medina Quinn, la cui madre si era ritrovata in mano il passaporto degli Stati Liberi per lo ius sanguinis, aveva lavorato qualche anno in Ambasciata mentre completava gli studi. Poi Hayes era ripartito per nuova destinazione e Quinn aveva proseguito il percorso accademico, fino a diventare un’autorità nell’ambito della ricerca su quelli che allora si chiamavano, con una terminologia che Soledad non poteva impedirsi di trovare razzista, indigeni non contattati. Negli anni, il campo d’indagine di Ian Medina Quinn si era ristretto a poco a poco, a mano a mano che gli ultimi esponenti delle tribù amazzoniche che avevano evitato, o coscientemente rifuggito dopo pessime esperienze risalenti magari a qualche secolo prima, l’incontro con l’Occidente in una qualsiasi delle sue molte forme, erano entrati inevitabilmente in contatto con il mondo tecnologico avanzato, il mondo di cui anche lei, Soledad, faceva parte, nonostante tutto. E nonostante tutto in quella stanza, fuori da quella stanza, nella capitanía, i villaggi di Violeta e di Las Luces ma anche la stessa capitale, le sembrassero nient’altro che rovine, o forse reliquie sopravvissute di una civiltà sul bordo del collasso. Pochi paesi avevano riconosciuto gli Stati Liberi, c’era stato l’embargo, certo, ma… Soledad si scrollò quei pensieri di dosso, si costrinse a continuare, ancora una volta, la lettura. Doveva esserci, in quel dannato fascicolo, qualcosa, una traccia, una pista, un enigma che non aveva ancora scovato.

In un articolo molto discusso, uscito diversi anni prima su uno dei principali quotidiani del paese, La Voz que es nuestra, Medina Quinn aveva sostenuto che, per quanto la fondazione degli Stati Liberi fosse sembrata offrire, nei primi anni, speranze di sopravvivenza nei propri modi di vita per tutti gli indigeni dei nuovi territori – minacciati dall’industria estrattiva e da quella del legname, dal contagio culturale come dalle nuove malattie, dall’abbattimento di zone sempre più ampie di foresta amazzonica, dall’inquinamento delle acque, dall’estinzione degli animali, dalla catastrofe climatica già diventata semplicemente per tutti l’oggi, qui – ormai si poteva dare per assodato che le politiche del governo di Ciudad Dorada – perché così si chiamava, pomposamente, pensò Soledad, la capitale degli Stati, la città d’oro, come l’Eldorado sognato dagli antichi conquistadores, dai pazzi e dagli esploratori anche se quasi tutti la chiamavano semplicemente Dorada, come se fosse un’orata d’allevamento – non avevano più nulla di diverso da quelle di altri stati, del presente o del passato, alle prese con la stessa questione.

Medina Quinn non lo diceva apertamente, certo, il suo era un articolo scientifico e quasi tecnico, intessuto di dati e numeri, ma le conclusioni erano chiare. Per i non contattati, chiunque fossero, qualsiasi cosa veramente volessero, non c’era più spazio, non c’era più tempo, e dunque neanche speranza se anche questa deve per forza annidarsi in una piega dello spaziotempo piegato dall’oggetto che siamo noi, pensò Soledad sentendo ravvivarsi nella mente, con una fitta, i ricordi degli studi scientifici che avrebbe voluto proseguire presso l’Università di Dorada, e che aveva dovuto abbandonare quando suo padre era morto, investito per strada, e lei aveva intrapreso la carriera militare, per ritrovarsi in quella piega esatta, lì, in quella stanza, dopo ore di interrogatorio, davanti a quell’uomo. Elías Hayes, che doveva sapere che fine avesse fatto il suo amico Medina Quinn, dopo essere scomparso nella selva, Ian Medina Quinn e i suoi specchi, e che cosa c’entrassero, se davvero c’entravano qualcosa – perché per quanto i suoi superiori ne fossero convinti, a titolo personale Soledad Valverde si concedeva di dubitarne – con le misteriose apparizioni di luci in cielo che forse avevano dato il nome, decenni e decenni prima, al villaggio di Las Luces nelle profondità della selva e che ora, subito dopo l’arrivo dell’antropologo, e poi del suo amico, avevano ricominciato a infestare il cielo, terrorizzando gli abitanti e i loro animali.

Uno di quegli specchi, l’unico che era stato ritrovato nell’abitazione di Medina Quinn a Violeta, dove Hayes si era installato al suo arrivo, era davanti a lei, coperto da un panno, che Soledad sollevò. Era uno specchio antico, di fattura ottocentesca o forse ancora precedente, la tenente non avrebbe saputo dirlo, non sapeva niente di storia dell’arte. Lo specchio doveva essere di bronzo. Con qualche cautela Soledad vi cercò il riflesso del suo viso. La superficie che avrebbe dovuto essere riflettente appariva invece completamente oscura, brunita più del metallo dell’incastonatura, e la luce vi annegava. Con una rapidità dettata da un ingiustificato, si disse, timore, Soledad rimise il panno al suo posto. Da dietro l’altro specchio, lo specchio spia, le giunse qualcosa all’udito, un rumore, forse i suoi compagni erano tornati, forse solo María, e si stava godendo lo spettacolo. Era ora di riprendere l’interrogatorio.

I fatti, apparentemente – Soledad li ricapitolò per l’ennesima volta a beneficio del suo muto, passivo interlocutore – erano questi.

Dopo l’uscita dell’articolo, e le polemiche che aveva suscitato, Ian Medina Quinn era stato oggetto di aggressioni, in uno o due casi anche molto violente, da parte di gruppi estremisti. Cogliendo – o forse avendo provocato? – questo meraviglioso pretesto, con la scusa della sua sicurezza la capitanía generale della regione lo aveva messo sotto discreta sorveglianza, più discreta e più intensa di quanto non fosse già la vigilanza a cui era da tempo sottoposto. Da parte sua, il governo centrale aveva avanzato all’illustre studioso straniero – Quinn aveva la doppia cittadinanza, degli Stati Liberi per via materna ma anche europea, per parte di padre – l’offerta di una scorta, che era stata rifiutata, perché avrebbe interferito con le ultime possibilità di portare avanti gli studi a cui aveva dedicato gli anni e la vita. Invece, Quinn aveva chiesto e ottenuto di potersi trasferire a Violeta, che era poco più di un avamposto militare, e qualche casa sovrannumeraria, nel midollo stesso della selva, e nelle vicinanze dell’ancora più interna aldea di Las Luces, l’ultimo brandello di terra degli stati dove sembrava che gli indigeni non contattati ancora, forse, sopravvivessero in libertà.

La battaglia a cui Ian Quinn intendeva dedicare ora tutte le energie rimaste mirava alla creazione di un’area naturale ad accesso interdetto che proteggesse la zona da ogni ulteriore incursione civilizzatrice, consentendo così, forse, agli invisibili esseri umani che amava – se studium vuol dire: lungo amore – di un amore non ricambiato da decine di anni di andare avanti ancora, almeno fino alla fine della sua vita, nel modo a loro noto di vivere, e traendone per sé il beneficio egoistico di potersi continuare a dedicare – ancora: fino alla fine – all’unica cosa che aveva sempre fatto o voluto fare: studiare la loro esistenza. Medina Quinn non aveva famiglia, né moglie né figli, e neanche amanti, a quanto diceva il fascicolo. Sembrava completamente disinteressato a qualsiasi essere umano avesse già avuto contatti con la civiltà, o, riportava il fascicolo citando una battuta ironica dell’illustre antropologo, “avesse avuto la disgrazia di nascervi”.

A Violeta, Ian Medina Quinn aveva trovato pace, almeno in apparenza. Occupava una casa concessa dal governo al limitare del piccolissimo agglomerato, sulla frontiera estrema della selva che qui sprigionava tutta la sua incandescenza. Pescava e cacciava come tutti, compresi i militari della capitanía, aveva adottato un paio di cani randagi ma li lasciava vagare liberi, a rischio che venissero divorati dai giaguari, e di tanto in tanto si faceva vedere nell’unico minuscolo spaccio dell’aldea per comprare sapone o altri generi, alimentari e non, di prima necessità. Praticava quotidianamente la selva, prima con qualche abitante del paese contrattato come guida, poi sempre più spesso da solo, scriveva i suoi libri che pubblicava in Europa, dove era una sorta di celebrità – l’ultimo si intitolava Deserto verde – ma, in sostanza, non aveva più dato grattacapi. Se aveva avuto incontri, nel folto della selva, con indigeni non contattati, Medina Quinn non ne aveva fatto parola, e questo non sembrava da lui, per cui non restava che concludere, diceva il rapporto, che non fosse accaduto nulla di simile, se si escludeva la nota questione raccontata nell’ultimo documentario di Quinn, anch’esso intitolato Deserto verde, e per cui nel fascicolo si faceva riferimento a un altro dossier, che approfondiva dettagliatamente la vicenda. La sorveglianza sull’inquieto, ora non più così inquieto, studioso si era allentata, o almeno era entrata in sonno.

Forse per questo l’invito improvvisamente rivolto da Ian Medina Quinn a Elías Hayes, l’arrivo di questi a Violeta ospite dell’antico amico, e le spedizioni che i due avevano intrapreso nella selva con rinnovato vigore, avevano risvegliato attenzione e sospetti. Quinn doveva aver pensato che l’ex diplomatico Hayes fosse ancora dotato di contatti ed entrature che avrebbero potuto facilitare il suo progetto di istituzione dell’area protetta, aiutandolo a convincere della bontà dell’idea alti esponenti della capitale, magari la stessa ministra delle Foreste, che era stata allieva di Hayes nei corsi che questi per un certo periodo aveva tenuto a Scienze Politiche, indirizzo Relazioni Internazionali, all’Università di Dorada. Per questo, probabilmente Ian Quinn aveva invitato Hayes a vedere per conto proprio cosa stava accadendo – se è possibile vedere una scomparsa, in questo caso la scomparsa dei peraltro invisibili non contattati – sperando di suscitare in lui una risposta emotiva, fondamento di una successiva reazione politica. O forse, semplicemente, una vita come la sua, un’intera vita trascorsa in solitudine – o quasi, pensò Soledad, che aveva già completato più volte la lettura del fascicolo, aveva visto il documentario, Deserto verde, e sapeva di Quinn molto più dell’estensore di quelle note all’epoca in cui erano state scritte – cominciava a pesargli, e come Robert FitzRoy, il comandante dell’hms Beagle decenni e decenni prima, cercava la compagnia di un futuro Darwin nel viaggio verso le sue personali Galapagos, anche se qui a parti invertite. Fatto sta che Elías Hayes aveva prontamente accettato l’invito del suo amico, e pagato una cifra non indifferente – forse esorbitante sarebbe stato un aggettivo più appropriato – per un trasporto privato a Violeta in elicottero. Era stata lei stessa, Soledad Valverde, lo ricordava, ad accoglierlo all’arrivo, dato che l’unico eliporto nel raggio di chilometri era quello militare della capitanía.

A solo poche settimane dall’arrivo di Elías Hayes, lui e Ian Medina Quinn, l’ex diplomatico e l’antropologo, si erano già inoltrati più volte nella selva; e l’ultima volta senza guide, con zaini provviste e tende, diretti a Las Luces per via di terra, il che già di suo era una follia, dato che era molto più rapido e sicuro spostarsi tra i due villaggi per via d’acqua. Las Luces era più all’interno della selva di Violeta rispetto alla riva del Victor Jara, il grande fiume della regione, ma c’era un affluente con sufficiente portata d’acqua, El Infiel, che raggiungeva l’insediamento.

Al villaggio, i due, nonostante la grande esperienza di Quinn, non erano mai arrivati. Da quella spedizione, Hayes era rientrato da solo. Che ne era stato di Ian Medina Quinn? Era rimasto nella

selva, era morto, era stato ucciso? Dagli abitanti di Las Luces, dalle misteriose, forse aliene, luci in cielo che recentemente avevano rinnovato con vigore la propria antica e funesta presenza, dallo stesso Hayes resosi di colpo assassino per un movente ancora ignoto; o dai Victor Jara, i terroristi che ultimamente erano dappertutto e che avevano preso lo stesso nome del grande fiume, forse per segnare la loro appartenenza alla regione, forse per farsi gioco dei funzionari del governo degli Stati Liberi che, nei primi anni dopo la creazione della nuova realtà politica, avevano sparso a mani piene sulla mappa della zona i nomi delle più belle voci del secolo trascorso, assassinate o indotte al suicidio dalle mille dittature del continente, come per farle risuonare di nuovo, finalmente libere. È sempre la stessa musica invece, sembravano dire i Victor Jara scegliendo quel nome, non è cambiato nulla, siete come loro. Forse era proprio ai Victor Jara, che sostenevano di proteggere gli ultimi nascondigli dei non contattati con le armi, che si era unito Medina Quinn, ed era questo che Soledad Valverde, e la squadra di cui faceva parte, dovevano scoprire.

Da quando era ritornato, ed era stato prelevato e accompagnato alla capitanía, da quando era iniziato l’interrogatorio sulle sorti del suo amico, Elías Hayes, però, non aveva fatto altro che ripetere le stesse quattro parole: è diventato pensiero vivente.

Solo questo. Quattro parole, o sette.
Ian Medina Quinn è diventato pensiero vivente.
Come se fosse possibile, come se avesse un senso.
Ian Medina Quinn –

ARTICOLO n. 27 / 2023

SAFFO, LA RAGAZZA DI LESBO

Tasmania, Australia, 9 marzo 1825. Sul “Tasmanian and Port Dalrymple Advertiser” di quel giorno compare un lotto di beni venduti all’asta, tra cui alcuni quadri, e tra questi un ritratto immaginario di Saffo, la poeta vissuta sull’isola greca di Lesbo alla fine del VII secolo Avanti Cristo, la cui ombra dorata si allunga sulle migliaia di anni a venire, fino al giorno in cui si svolge questa scena dall’altro capo del mondo, fino a noi.

Come un’archeologa che dolcemente e tenacemente riassembli una statua ellenica in frantumi, sapendo che dovrà fare i conti con mancanze e vuoti, Silvia Romani, docente di Mitologia, Religioni e Antropologia del mondo classico all’Università Statale di Milano, già autrice di studi dedicati al mito di Arianna e ora di Saffo, la ragazza di Lesbo (Frontiere Einaudi), ne ricostruisce per frammenti la figura e il lascito: dall’Antichità ai giorni d’oggi passando per l’Ottocento, in cui il nome di Saffo diventerà emblema dell’amore delle donne per le donne e, più ampiamente, della libertà di amare senza tabù chi e ciò che si vuole. 

La Saffo di Silvia Romani può essere quindi paragonata a una statua di cui ricostruiamo tra ipotesi e lacune la bella figura, o a un ritratto impressionista sempre in fieri, in cui il tratteggio avviene per intense pennellate: dato che dell’autrice, che Odisseas Elitis descriverà come una creatura minuta e bruna «che tuttavia ha mostrato di essere in grado di sottomettere una rosa», e a cui Lawrence Durrell ha dedicato nel 1950 Sappho. A Play in Verse, non ci restano che esigue e spesso incerte notizie di vita. In più, dei molti volumi che un tempo componevano la raccolta della sua produzione poetica nella Biblioteca di Alessandria, non è arrivato fino a noi che un Inno ad Afrodite, più qualche brandello di componimenti in versi, sufficienti però a tramandarne la grandezza. 

Infinite riscritture e interpretazioni, tra cui, naturalmente, l’Ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi, e uno dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese – in cui a discorrere con la dea cacciatrice Britomarti è proprio l’autrice nata a Ereso e vissuta a Mitilene, sull’isola che si diceva fosse stata razziata dagli Achei diretti con le loro navi nere alla non lontana Troia, l’isola dove poi, dopo dieci anni di guerra, avrebbero fatto di nuovo sosta prima di intraprendere la lunga e spesso mortale via del ritorno – ci consentono di pensare a Saffo, scrive Romani, «anche come a una persona che ci è familiare. Il suo mondo è a un tocco di mano, sbattono le vele delle navi, si gonfiano i tessuti leggeri che indossano le compagne, si svelano i giardini dietro siepi di rose che paiono alberi. E Saffo è lì». 

La ragazza di Lesbo balza così fuori dalle pagine di questo libro come la prima poetessa «ad aver avuto il coraggio di dire “io” con tanta risoluta determinazione. E se pure ora sappiamo che quel pronome di prima persona vuol intendere talvolta un io più grande, un mondo intero, ugualmente raccontare di lei significa anche parlare di ciascuno di noi». Le sue parole sono le nostre parole, scrive Romani, cielo e mare, luna e stelle, rose e viole, e i suoi fantasmi quelli che abitano gli scenari diurni e notturni di tutti: «l’abbandono, la solitudine, la fine di un amore, la vecchiaia, la morte», e anche gli infiniti mondi del perturbante, se a un certo punto la studiosa ricostruisce il tiaso dove Saffo fu forse educatrice, e amante, di ragazze giovanissime nelle forme di un Picnic a Hanging Rock molto ante litteram, sulle tracce del romanzo del 1967 di Joan Lindsay ancora più che del notissimo film, di quasi un decennio successivo, di Peter Weir. 

Nell’era della letteratura in prima persona, e della vita più che mai in prima persona, la stella Saffo – e vogliamo immaginarla non lontana dall’asteroide Saffo 80 che nel 1864 le è stato dedicato – splende più intensa. Accanto al saggio di Romani varrà citare titoli recenti, e in primo luogo la Saffo per bambine e bambini di Io sono la mela, di Beatrice Masini, affermata autrice per adulti e ragazzi e direttrice editoriale di Bompiani. Nel volume, uscito per l’editrice palermitana rueBallu, collana Jeunesse ottopiù e illustrato da Pia Valentinis, figura un sottotitolo: Una storia di Saffo. “Una” e non “la” storia, perché, racconta Masini ai suoi (piccoli) lettori e lettrici, «tutto ciò che è stato raccontato in queste pagine non è successo. Sappiamo così poco di Saffo che qualunque cosa ci azzardiamo a scriverne è una fantasia». I papiri su cui erano state riportate le sue poesie, per esempio, «sono stati gettati via e sono finiti in una discarica, alla periferia della città egizia di Ossirinco, e sono rimasti sotto la sabbia per secoli», fino al loro ritrovamento nell’Ottocento. «Certe volte poemi, tragedie, poesie sono stati usati per imbottire delle mummie (il mondo antico era un posto dove non si buttava via niente. Pezzetti di papiro, tagliati, bucati, macchiati. E sopra le parole. Alcuni erano finiti a foderare la pancia della mummia di un coccodrillo», che possiamo ben dire essere un posto ben strano, conclude Beatrice Masini, per una poesia o un canto. 

Dall’Antichità nuda di oggetti, viva di passioni, in cui Saffo ha vissuto; al racconto di Beatrice Masini, non «basato sulla realtà, ma nemmeno del tutto inventato», attraversando un impossibile buco nero che immaginiamo collocato a sufficiente distanza dall’asteroide Saffo 80 perché non lo risucchi, ci catapultiamo da vicinanza estrema a distanza abissale. Dalla Saffo materica di Silvia Romani – la cui migliore resa in immagini è forse la vulnerabile, lattea statuetta che il Metropolitan Museum di Boston commissionò e poi rifiutò a Auguste Rodin, e di cui oggi, dopo i saccheggi di opere d’arte perpetrati dai nazisti, ci resta solo una fotografia – alla Saffo mediatrice cognitiva tra mondo interiore amoroso prima e mondo dopo l’invenzione della scrittura che la poeta canadese Anne Carson tratteggia in Eros il dolceamaro (Utopia, traduzione dall’inglese di Patrizio Ceccagnoli, con uno scritto di Emanuela Tandello). In questo primo saggio del 1986, rielaborazione della sua tesi di dottorato, Carson, da poeta a poeta, a partire dal Frammento 31 – meglio noto come Ode alla gelosia – fa di Saffo la prima detentrice di quello sguardo lirico che triangola il soggetto amato e l’Altro, simile agli dèi, che l’osserva nella distanza della composizione nero su bianco, nel nuovo spazio dentro la mente e dietro il cuore che la pratica solitaria della grande novità dell’epoca, la scrittura alfabetica, rende possibile. È lì che nasce l’ossimoro, esemplarmente incarnato nell’aggettivo dolcemaro attribuito a Eros. È lì che si afferma la compresenza degli opposti, che la scrittura diventa la dimora privilegiata del senso inteso come ambiguità, come irriducibile complessità. «Il sé prende forma al confine del desiderio, e una scienza del sé nasce dallo sforzo di lasciarsi quel sé alle spalle». È davvero una coincidenza, scrive Carson, «che i poeti che inventarono Eros, facendone una divinità e un’ossessione letteraria, furono anche i primi autori della nostra tradizione a lasciarci le loro poesie in forma scritta?» O, per porre la domanda in modo più diretto, che cosa c’è di erotico nella nascita dell’alfabeto? Una domanda a cui, sembra sorridere maliziosamente Carson, è impossibile rispondere. O forse una domanda di cui solo la poesia, sorride ancora più maliziosamente Saffo nella nostra mente, detiene la risposta. 

ARTICOLO n. 3 / 2022

LA POESIA È UNA NUVOLA?

Ritratto obliquo di Anne Carson

1. In obliquo

Questo è un attraversamento obliquo della poesia di Anne Carson passando per i suoi libri pubblicati in Italia. Da Eros il dolceamaro, uscito nel 2021 per la giovane casa editrice Utopia, nella traduzione di Patrizio Ceccagnoli, con uno scritto di Emmanuela Tandello; ad Autobiografia del rosso, inizialmente pubblicato da Bompiani nel 2000 e poi riportato in libreria da La nave di Teseo nel 2020, con traduzione di Sergio Claudio Perroni; ad Antropologia dell’acqua. Riflessioni sulla natura liquida del linguaggio, edizione italiana a cura di Antonella Anedda, Elisa Biagini, Emmanuela Tandello, Roma, Donzelli, 2010; a The Albertine Workout, edito da Tlon nel 2019, a cura di Eleonora Marangoni, con traduzione di Giulio Silvano; fino a Economia dell’imperduto, traduzione di Patrizio Ceccagnoli con uno scritto di Antonella Anedda, arrivato nel 2020 in Italia ancora attraverso Utopia, che sta pubblicando o ripubblicando tutta l’opera saggistica di Carson; e fino alla pièce teatrale del 2019 Norma Jeane Baker of Troy, edita da Crocetti nel 2021 a cura ancora di Patrizio Ceccagnoli con il titolo, scelto dall’autrice, di Era una nuvola – una versione dall’Elena di Euripide. È un attraversamento obliquo perché va per frammenti, senza porsi il problema dell’intero. Lavorerà sull’intero la lettrice, il lettore. Come il lavoro di Carson che presuppone infinitamente un prima, un’origine sempre letteraria, così faremo insieme qui. 

Eros il dolceamaro

2. Il confine della carne e del sé 

È la materia di Eros il dolceamaro, l’impossibile, il fatto di opposti. Sin da subito, lo sappiamo: tornare indietro a identificare un precedente, scrivere sempre a partire dal già scritto. Il desiderio erotico è innato in questa scrittura per /attraverso la scrittura di un Altro e tornerà nell’opera di Carson fino a Norma Jeane/Marilyn, passando per Gerione che desidera Eracle, passando per Albertine, tutta una teoria auerbachiana di figure di desiderati e desideranti, continua traslazione traduzione. Impossibile. Quindi, da farsi.  

3. Misurarsi con l’origine

E per misurarsi con l’origine, cosa c’è di meglio dei lirici greci? La prima origine in Occidente, il punto di partenza – seguirà, lo sa chi scrive, la seconda genesi nei trovatori provenzali, poi la terza matrice, l’origine oscura, il Novecento, da cui non si torna indietro, da cui si può solo andare oltre. Il nucleo già radiante: l’idea di Eros come mancanza e il suo influsso su di noi, la radiosa assenza, presenza assente, già amor de lonh? Carson stessa lo dice. Comunque, nostalgia dell’interezza, del prelinguistico? 

4. La grandiosa invenzione

Se «l’atto d’amore è un’ibridazione» in cui «si confondono i confini del corpo, le categorie del pensiero», o ancora, se «il paradosso è ciò che prende forma sulla lastra sensibile della poesia», qui Anne Carson è quasi Walter Ong nell’intuire che la scrittura, la grandiosa invenzione, ci racchiude nei confini del sé. «Le culture orali e scritte non pensano, non percepiscono la realtà né si innamorano nello stesso modo».

5. Ne consegue la guerra

Così il desiderio erotico diventa invasione, percepito da chi sperimenta per la prima volta questo nuovo sé racchiuso, uno in sé, compatto, giardino circondato da alte mura. Ciò che secondo Marguerite Yourcenar in Quoi? L’Éternité, in pieno rovesciamento dei termini, sarà ogni grande amore. 

6. Ne consegue l’entanglement

Nella dottrina degli effluvi di Empedocle, sussurra ancora Anne Carson, tutto respira con tutto. Tutto è già connessione quantistica. Ciò che è in connessione è perché non è lo stesso. «Il tu e l’io non sono una cosa sola». Se lo siano mai stati, rileva dell’irraccontabile, di ciò che è prima della prima origine. Lì questa poesia, forse nessuna altra poesia, ma è cruciale il forse, non può dire.

7.  Una forma di conoscenza

Innamorarsi diventa così una forma del conoscere. Diviene possibile l’ideale dell’io. In questa tensione è tutto Eros, la sua mancanza, il suo movimento, l’arco, la danza. Sia l’esperienza del desiderio che quella della lettura hanno qualcosa da insegnarci sui confini, ci dice Carson, e cita Werner Heisenberg: «esistono diversi tipi di conoscenza … che non possono essere simultaneamente a disposizione della nostra mente». 

8. Il maestro arriva quando l’allievo è pronto

Scrive Anne Carson, quando Eros entra dentro di noi, nel momento dell’inizio, dell’origine, «entriamo in contatto con ciò che è dentro di noi, in modo improvviso e sorprendente. Percepiamo ciò che siamo, cosa ci manca, come potremmo essere. (….). Una disposizione d’anima legata alla conoscenza comincia ad aleggiare sulla nostra vita», perché Eros «può insegnarci la vera natura di ciò che abbiamo dentro», è «il principio di ciò che siamo destinati ad essere».

9. Ne conseguono la mela e l’Albero della conoscenza del bene e del male?

Nel momento in cui ci vediamo come privati di quello che manca, e vediamo noi stessi, e dobbiamo conoscere nella mancanza. Le antiche saggezze riportano sempre nello stesso luogo?

Autobiografia del Rosso

10. Alla seconda potenza

Quello di Carson è scrivere sempre attraverso, ce lo siamo detti. Letteratura elevata alla seconda potenza. Cosa la porta a questo, cosa dice nascondendo l’autrice, cosa nasconde dicendo. Detto modestamente, in ogni (breve) biografia, lo studio dei classici, come «ciò che faccio per vivere». Omissione, attirare l’attenzione negando, negandosi. Un filo a cui aggrapparsi, come la corda di carne che tiene le ali del ragazzo-mostro Gerione. 

11. Heimlich unheimlich

Il mondo classico appare (ancora) a occhi europei familiare, heimlich? Quasi high concept, terreno conosciuto, magari anche chance di successo. Allo stesso tempo, lo sappiamo, nasconde oscurità, tanto più oscure quanto insospettate, invisibili. Non attraversate. Questa sensazione di familiarità in Italia generazione dopo generazione diminuisce. (Chi direbbe anche, attraverso il ceto e le classi). Forse ancor più con la distanza, spazio invece di tempo, attraversando l’oceano, con occhi dal Nordamerica. Domanda per cui non esiste una vera risposta, ci porta al numero 12.

12. Domanda che non può essere rivolta

Dove scegli di stare, tra il chiarore e l’oscurità? Davvero scrivi poesia chiara e trasparente sull’indecidibilità delle cose? (In fondo, è il gran tema del trobar clos). Non che sia mai stato risolto, né prima né dopo.  Ci porta a The Albertine Workout.

The Albertine Workout

13. Tenendo presente Albertine

L’opera vastissima di Proust si distilla in The Albertine Workout in una poesia di osservazioni brevissime, schegge e frammenti: è il residuo irriducibile, è quello che resta, ed è di questo residuo che dobbiamo dare conto, sembra dirci Carson? (Di nuovo, in un sussurro, siamo a chiederci fino a che punto la letteratura deriva dall’io, dal mondo, dall’io-e-mondo, e fino a che punto da altra letteratura, fino a che punto ciò che scriviamo è sempre stato già scritto?

14. Un altro modo di chiamare la traccia e l’aura

In che rapporto sono l’apparizione e la metamorfosi? Possiamo mettere in relazione questi termini con i poli opposti di poesia e prosa, che qui si avvicinano fino a toccarsi? Se sei davvero obbligata alla scelta, metafora o metonimia?

15. Quello che ci stiamo chiedendo in realtà

È cosa rimane della Grande Opera, anche nel senso alchemico.  La voce di questa poesia dice anche solo frammenti, schegge come di legno nella carne, spine?

Antropologia dell’acqua

16. Qual è la differenza tra incontro e scoperta?


E possiamo chiamare anche la poesia, come l’antropologia, una scienza di reciproca sorpresa? Un viaggio da cui non puoi tornare come sei partito, ma soltanto diverso – come qualsiasi viaggio, in realtà. Solo che, appena nascosto dai paesaggi della Galizia, questo è in realtà un viaggio nel regno dei morti.

17. Quattro frammenti a scelta

«Cos’è la paura dentro al linguaggio? Nessun incidente del corpo può impedirle di bruciare».

«Tu non puoi vedermi, sono al buio, in ascolto, come in un vortice». 

«I due modi di conoscere il mondo sono solo sottomettersi o divorare? Entrambi finiscono, più o meno, nello stesso posto».

«Mi domando se ci vengono inviati segnali come una voce all’interno della carne».

18. Un ritmo di vuoti e pieni

Pellegrinaggio, campeggio, nuoto hanno in comune l’essere traversate dello spazio e del testo, scandite da un ritmo di vuoti e pieni. Questo fa Carson in questo libro, di qui la poesia. In fondo sempre nient’altro che attraversamento di spazio e tempo ignoto.

19. Acqua è connessione

In un libro fatto di punti da collegare, di tracce disgiunte, una scrittura che ha una struttura quantica, a salti.

20. I personaggi maschili del libro

L’Imperatore – anche una carta dei Tarocchi – domina la Terra. Il mio Cid lotta senza tregua ancora dal mondo dei morti se seguiamo la leggenda. E il nuotatore dev’essere necessariamente il signore delle acque. Cosa è allora della voce femminile, Fenice che rinasce, cos’è suo, il regno del Fuoco?

Economia dell’imperduto

21. Paul Celan e Simonides

Come Phlebas il Fenicio di T.S. Eliot alle prese con la perdita, la più terribile perdita. E in Simonide, alle prese con quello che oggi chiamiamo profitto, su uno sfondo di lapidi. Per cosa scambiamo, per cosa sprechiamo oggi la poesia? Chi davanti a noi, e per che cosa, sta diventando fantasma?

Era una nuvola

22. Sono già tutti fantasmi

Elena spettro vivo secondo Euripide, in realtà era una nuvola. Così, onda-particella, nube di probabilità/possibilità, nient’altro che una sovrapposizione di stati. Elena spettro, spirito, Elena è Marilyn, Norma Jeane è Marilyn, Ben Whitaker, l’attore per cui fu scritta la pièce, è Norma Jeane, tutto è sempre anche qualcos’altro. La verità semplice per cui siamo sempre, sempre e ancora un ibrido con ciò che è oltre noi, per cui viviamo sempre nella metamorfosi. Potremmo mai uscirne?