ARTICOLO n. 22 / 2021

Tentare l’Impossibile

Quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra,
ciascuno nella sua misura,
su per giù gli stessi sentimenti che io nutro verso l’oceano
HERMAN MELVILLE, MOBY DICK

C’è una grande chiglia che mi aspetta sempre attraccata al porto. La sensazione di essere pronti a salpare è pura vitalità. Opera viva è detta la parte della nave immersa in acqua, quella che scandaglierà gli abissi. Opera morta è chiamata quella che resterà all’asciutto. Basterebbe questo per raccontare il cammino di ogni nuova creazione.  

Partire per un nuovo progetto, per un film, per un romanzo è cercare qualcosa che non conosco e che non voglio conoscere prima. Non ho nessun appiglio a cui far riferimento, sono fragile ma ho una certezza: al ritorno di ogni viaggio non sarò più come prima.

Sono sola di fronte a quello che conosco da sempre, in compagnia dei fantasmi e cerco di farli apparire esattamente come potrebbe accadere una seduta spiritica. Non posso voltarmi verso quello che ho già fatto. Anzi, il conosciuto, l’avvenuto, tutti i film che ho già girato e più di tutto il successo, grande o piccolo che sia stato ogni volta, inteso più come participio passato che come evento, mi soffoca in una rete da cui devo liberarmi per tornare all’oceano.

Il successo è l’altra faccia della persecuzione, diceva Pasolini. Ma non sono gli altri che ti imprigionano che lo si creda o no, sei tu che perseguiti te stesso obbligandoti a una forma vecchia e certa e dunque non più pericolosa e fertile. Facile o difficile che sia, in ogni caso, conoscere l’effetto di questa distanza è possibile. Scomparire ogni volta e ritrovare una forma sempre vergine è il miraggio a cui tendo. Non essere ri-conoscibile e dunque ri- conosciuta, ma invece conoscermi di nuovo è l’ambizione.

Tentare l’impossibile mentre si cerca, siano immagini per un film o parole per un romanzo, si tramuta in quello che è un viaggio dove il naufragio è uno degli esiti possibili, e dove sia sempre possibile naufragare insieme al progetto; senza pericolo, senza l’abisso non c’è nemmeno il viaggio. All’inizio, mentre giravo i primi film, cortometraggi, dipingevo la pellicola.

Era pellicola 35 millimetri, il grande fotogramma era un quadro che aggredivo con colori e smalto, Senti Amor Mio: un film di nove minuti, la storia beckettiana di due postini e di un pacco che non sarà mai recapitato per i vicoli stretti e dalla luce sontuosa di una Palermo incantata, l’opera lirica e le voci del mercato di Ballarò, una delle tante dichiarazioni d’amore fatte a quella città. Il colore sul fotogramma che riempiva l’immagine era il tentativo di andare oltre l’immagine, di aprirla per scoprire che cosa c’era dentro, interrogarla fino a quando non avveniva una trasformazione alchemica grazie al colore. Quando lo proiettarono al cinema i colori sovrastavano il girato, lo avevano cancellato e cambiato completamente la drammaturgia della storia. Il mondo che avevo immaginato era un grande testo e i colori l’avevano riscritto emotivamente.

Se quello che guida è la bussola dell’esploratore, può sempre succedere che la bussola impazzisca, che le traiettorie sulla carta si confondano e all’improvviso ti trovi nel mezzo della foresta, o peggio ancora: nel mezzo del nulla, del perfettamente ignoto.

La vertigine del nulla è indescrivibile. Non perché sia liricamente romantico farlo e l’emozione ti sovrasti, piuttosto perché non ne conosci le parole, l’unica cosa a quel punto è inventarle, inventare un linguaggio con cui il nulla possa prendere a parlare. E il linguaggio è creatura viva che scaturisce dalla visione. La vista per me è il senso della meraviglia. I territori dell’inesplorato non hanno ancora parole per essere raccontati e non hanno immagini per essere visti, almeno non quelle esistenti. A quel punto del sentiero si aprono due strade: la poesia o la profezia, facoltà data all’arte che coincide con l’ignoto.

Aggredire l’ignoto è un gioco che comincia da bambini e poi, può continuare fino a quando nessuno ti ferma. C’erano certe mattine luminose di cui ricordo solo i riflessi della luce bianca spalmata sul marmo del pavimento di casa, sarà stato quel baluginare luccicante, quell’idea di flutti marini a farmi balenare in testa l’idea di permettere al pesce rosso di tramutarsi in un terrestre. Se noi ce la facevamo perché lui non poteva provarci? Avevo preso la boccia piena d’acqua e accuratamente avevo tracciato due solchi, due piccoli ruscelli sul pavimento del salotto, poi infilato le mani e preso il piccolo pesce che si dimenava ignaro del suo destino, l’avevo appoggiato delicatamente in quel ruscello. L’animale percorreva affannato il solco d’acqua e poi terminava miseramente la sua corsa agitandosi disperatamente sul pavimento. L’intervento misericordioso di mia madre che portava in salvo la creatura, come la botticelliana Madonna del Mare è conservato al riparo nella mia memoria, salvandomi da un senso di colpa che mi avrebbe perseguitato.

Ma subito dopo, quando la tragedia era scongiurata, tornava ad affacciarsi prepotente una questione.  Perché non era stato possibile condividere con il pesce rosso la mia esistenza terrestre? Non c’era limite che mi dissuadesse dal credere che se solo il ruscello fosse stato più lungo, se solo la traiettoria fosse stata più accurata, se solo qualche dettaglio dell’operazione fosse stato curato meglio, avrei potuto raggiungere il risultato.

Conservo di quell’esperimento la precisa sensazione che ricorre in me adulta ogni volta che di fronte a un divieto apparentemente logico mi ripeto: tutto è possibile. La gamma dei possibili si amplia a dismisura o si assottiglia per sempre se gli permettiamo di farlo. La soglia può variare e le variabili sono la misura del nostro spirito d’avventura. È una vita che della ricerca fa il suo stesso cammino, non anela alla meta, ma al percorso fatto. L’animo da pioniere mi porta a credere che ci sia sempre altro da scoprire.  E in questo la fantasia è strumento indagatore, al contrario di quanto potrebbe sembrare. In questo periodo storico si è portati ad attribuire alla fantasia la connotazione di fuga dalla realtà.

L’artista, in tutti i campi ma nel cinema in particolare, ha più ascolto come lacchè della cronaca, la dittatura del realismo ci attende con i suoi militari schierati. Ma davvero il realismo nulla ha a che vedere con la realtà. Il realismo è funzionale a una visione artistica che fa della propaganda il suo fine e ne condivide i presupposti ideologici. Secondo Arshile Gorky l’arte nasce dove la fantasia sostituisce la memoria.  Sua madre gli raccontava storie mentre lui bambino schiacciava la faccia a occhi chiusi sul suo lungo grembiule. Le storie e i ricami sul grembiule si confondevano nella sua testa e per tutta la vita hanno continuato a dipanare immagini. Così la fantasia come creatrice di una realtà mi porta a disfare in continuazione la tessitura della narrazione.

Ho necessità di partire per immaginare ogni racconto da una storia vera, per vera intendo realmente accaduta. Voglio che quella storia trovi riscontro in un corpo, in una voce, in un testimone. Poi a poco a poco riavvolgo il filo, la srotolo come farei con un gomitolo fino a quando la storia che ritrovo si è modificata attraverso la fantasia.

Quando ho scritto il mio primo film, Tano da Morire, avevo per le mani una storia di mafia classica, quella di un piccolo boss di quartiere, avevo letto tutti gli atti del processo, seguito la cronaca sulla sua vita, maneggiato a lungo le fotografie della sua famiglia. Ma dopo tutto questo ho abbandonato la strada che ogni traccia mi suggeriva e sono andata alla deriva. La realtà mi era servita da banchina, da attracco, per farmi navigare in acque sconosciute. Così ho fatto un musical su quella storia di mafia.

Ricordo perfettamente la prima volta che sono entrata in una sala cinematografica, avrò avuto più o meno sei anni, ero con mio padre a Milano in una grande sala di Viale Abruzzi. Era un pomeriggio estivo. Due cowboy seduti a un tavolaccio mangiavano avidamente da un piatto bianco candido dei fagioli. Quella visione meravigliosa suscitava il desiderio di partecipare e di sedermi allo stesso tavolo per mangiare con loro, la mano calda e rassicurante di mio padre non era bastata a trattenermi, volevo entrare di corsa nello schermo e andare dall’altra parte, agguantare quei fagioli.

Non era possibile, mi era stato detto. Non era possibile passare dall’altra parte dello specchio, come dice Monk nella Rosa Purpurea del Cairo: «Va’ vai a vedere com’è il mondo: quello non è cinema, è vita vera! È vita vera e qui tornerai» ma io non potevo crederci. Ma intanto l’emozione di quella visione si era stampata intatta nella memoria che comunemente viene definita a lungo termine (mentre quella a breve termine viene chiamata in modo molto significativo memoria di lavoro). Se ricordare non significa semplicemente replicare, ma ogni volta ricreare le esperienze, raccontarle secondo una nuova narrazione, diventa altrettanto fondamentale dimenticare. La necessità di dimenticare ogni volta e il richiamo della memoria sono il filo teso su cui camminare.

In questo gioco a sfuggire la memoria e in questa ossessione a non perderla, vincitore a volte è il primo, a volte la seconda. Cammino in mezzo con l’impossibile desiderio di meravigliarmi ogni volta e lo struggente attimo in cui perché succeda devo abbandonare quello che conosco. Il mio prossimo film è infatti la storia di una donna che perde la memoria. 

La grande chiglia è pronta a salpare, meglio alleggerire il carico. In mare aperto anche un solo ricordo ti fa provare il desiderio di tornare indietro mentre poche miglia più in là in mezzo al nulla potrebbe aspettarti la meraviglia.

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