Thomas Ligotti

ARTICOLO n. 11 / 2022

I LUNA PARK ALLE STAZIONI DI RIFORNIMENTO

Fuori dal Cabaret Cremisi c’era un mondo di pioggia e buio. Ogni tanto, se qualcuno entrava o usciva dalla porta del locale, si poteva vedere la pioggia incessante e scorgere la rapida apparizione del buio. Dentro era tutto luce ambrata, fumo di tabacco e rumore di pioggia sulle finestre dipinte di nero. Le sere come quella, seduto a un tavolo del localino opaco, mi prendeva sempre una specie di allegria infernale, come fossi in attesa dell’apocalisse e non me ne potesse importare un fico. Amavo immaginare che fosse la cabina di una vecchia nave sorpresa in mare aperto da una tempesta violentissima, o la carrozza salone di un lussuoso treno passeggeri che traballava sui binari agitato da venti feroci e martellato da pioggia demoniaca. A volte, nelle sere piovose al Cabaret Cremisi, pensavo di occupare un posto nella sala d’aspetto dell’abisso (esattamente quello che facevo, peraltro) e tra un sorso e l’altro di vino o caffè sorridevo triste e toccavo nel taschino della giacca il mio immaginario biglietto per l’oblio.

Tuttavia, quella sera piovosa di novembre, non mi sentivo tanto bene. Dalla pancia l’impressione di una nausea leggera sembrava segnalare l’imminente apparizione di un virus o di un’intossicazione alimentare. Immaginai che a rincarare la dose fossero anche i miei disturbi nervosi che, tra alti e bassi e in varie forme, non mancavano mai di manifestarsi in un’abbondanza di sintomi fisici o psichici. In effetti ero preda di un leggero panico, ma non per questo escludevo che la nausea avesse origini strettamente fisiche, virali o tossiche. Né escludevo la terza possibilità che tuttavia a quel punto della serata cercavo di non considerare. Quale che fosse l’eziologia del disturbo alla pancia, quella sera avevo bisogno di trovarmi in un luogo pubblico, così che se fossi svenuto – eventualità che temevo spesso – ci sarebbe stato qualcuno a prendersi cura di me o perlomeno a trasportare il mio corpo all’ospedale. Allo stesso tempo non cercavo alcun contatto ravvicinato con questa gente, e in ogni caso non sarei stato di compagnia, seduto nell’angolo del locale a bere tè alla menta e fumare sigarette leggere per non tormentare la mia pancia sofferente. Per tutte queste ragioni quella sera avevo portato con me il quaderno e lo tenevo aperto sul tavolo, come a dire che preferivo essere lasciato in pace a meditare su certe questioni letterarie. Ma quando attorno alle dieci entrò nel locale Stuart Quisser, l’immagine di me che seduto all’angolo con il quaderno aperto bevevo tè alla menta e fumavo sigarette leggere per tenere a bada la situazione della pancia malmessa non lo dissuase affatto dal proposito di sedersi al mio tavolo. Venne una cameriera. Quisser ordinò non so più quale vino bianco, io un’altra tazza di tè alla menta.

«Così adesso è tè alla menta» commentò Quisser mentre la ragazza se ne andava.
«Mi sorprende che tu ti faccia vedere da queste parti» feci io, a mo’ di risposta.
«Pensavo di provare a far pace con la vecchia Cremisi.»
«Fare pace? Non è da te.»
«Comunque sia, l’hai vista, stasera?»
«No. Alla festa l’hai umiliata. Da quella sera non l’ho più vista, neanche
nel suo locale. Non so se ne sei al corrente, ma è meglio non farsi nemica una come lei.»
«In che senso?»
«Nel senso che ha agganci di cui non sai assolutamente nulla.»
«Tu invece che ne sai. Guarda che li ho letti, i tuoi racconti.
Sei un paranoico dichiarato, parla chiaro e spiegati.»
«D’accordo, parlerò chiaro» dissi. «Voglio dire che se in ogni stretta di mano c’è un po’ d’inferno, figurarsi in un insulto sfacciato e umiliante.»
«E dai, avevo solo bevuto troppo.»
«Le hai dato dell’illusa senza talento
Quisser alzò lo sguardo verso la cameriera che veniva a portarci da bere, e con un cenno frettoloso mi intimò il silenzio. Quando la ragazza fu lontana, commentò: «Tra l’altro, mi dicono che la nostra cameriera è una fedelissima della Cremisi. Probabilissimo che vada a dirle che stasera sono qui. Chissà se è disposta a fare da intermediario con il suo capo e recapitare una richiesta di scuse per conto mio».
«Ma guarda in giro, alle pareti» dissi.
Quisser posò il bicchiere di vino e perlustrò il locale.
«Mmm» fece quando finì di guardare. «È più serio di quanto pensassi. Ha levato tutti i vecchi quadri. E quelli nuovi non sembrano per niente opera sua.»
«Non lo sono. L’hai umiliata
«Eppure dall’ultima volta sembra che abbia risistemato il palco. Ridipinto, o qualcosa del genere.»

Il cosiddetto palco di cui parlava Quisser era una pedana, all’altro capo del locale. La circondavano quattro lunghi pannelli decorati con sigilli d’oro e neri su uno sfondo rosso lucido. Il palco ospitava esibizioni assortite: reading di poesia, tableaux vivants, commediole di vario genere, spettacoli di marionette, proiezioni di diapositive artistiche, concerti e via dicendo. Quella sera, un martedì, il palco era buio. Non ci vidi nulla di diverso dal solito e domandai a Quisser che cosa gli sembrasse nuovo.

«Non so dirlo, ma sembra che gli abbiano fatto qualcosa. Forse sono gli ideogrammi neri e oro, qualunque cosa vogliano dire. Insomma, sembra la copertina di un menu del ristorante cinese.»
«Ti stai autocitando.»
«In che senso?»
«Il commento sul menu cinese. L’hai scritto nella recensione alla mostra
di Marsha Corker il mese scorso.»
«Davvero? Non ricordavo.»
«Dici per dire o davvero non ricordavi?» La mia voleva essere banale curiosità, visto che la pancia sottosopra sconsigliava di prendere posizioni troppo antagoniste.
«Va bene, me lo ricordo. A proposito, c’è una cosa di cui ti volevo parlare.
Mi è venuta in mente l’altro giorno e ho pensato subito a te e alla tua… roba» disse, indicando il quaderno aperto sul tavolo. «Non riesco a credere che non sia mai saltata fuori. Tu, poi, dovresti conoscerli. Pare che non ne sappia niente nessuno. Cose di vari anni fa, ma sei abbastanza vecchio da ricordarle. Devi ricordarle.»
«Ricordare cosa?» domandai, e dopo una brevissima pausa lui rispose:
«I luna park alle stazioni di rifornimento.»

La pronunciò come la battuta finale di una barzelletta, come chi è fiero di aver suscitato un’ilarità profonda e sorprendente. Avrei dovuto mostrarmi sorpreso ma anche dargli un cenno di intesa, questo lo sapevo. Non era fenomeno di cui fossi completamente all’oscuro, e la memoria gioca brutti scherzi. Questo, almeno, è ciò che risposi a Quisser. Ma mentre lui parlava dei suoi ricordi cercando di destare i miei, poco a poco colsi la vera natura e lo scopo dei cosiddetti luna park alle stazioni di rifornimento.
In quell’arco di tempo non potei fare altro per nascondere il male che pativo per colpa della pancia che bruciava e pulsava. Mi ripetevo, mentre Quisser parlava dei suoi ricordi dei luna park alle stazioni di rifornimento, che ad affliggermi era senz’altro l’insorgere di un virus, sempre che non fossi vittima di un’intossicazione alimentare. Quisser però era talmente preso dal suo racconto che non parve accorgersi della mia agonia.

Spiegò che i luna park alle stazioni di rifornimento erano ricordi della sua infanzia. La sua famiglia, cioè lui insieme ai suoi genitori, faceva lunghe vacanze in auto e spesso percorreva distanze lunghissime verso le destinazioni più svariate. Durante il tragitto era perciò naturale sostare in un certo numero di stazioni di rifornimento nei pressi di città o cittadine o in località più isolate e rurali. Là, spiegò Quisser, era più probabile imbattersi negli allestimenti ibridi che egli chiamava «luna park alle stazioni di rifornimento».

Quisser non pretendeva di sapere quando o come questi specializzati luna park, o forse queste specializzate stazioni di rifornimento, fossero venuti a nascere, né quanto fossero diffusi. Forse gliel’avrebbe potuto dire suo padre, che purtroppo era morto qualche anno prima; sua madre, invece, non era più in possesso delle proprie facoltà mentali avendo subito una serie di catastrofi psichiche non molto tempo dopo la morte del marito. Così, tutto ciò che restava a Quisser era il ricordo delle escursioni d’infanzia che lo portavano insieme a mamma e papà in qualche zona rurale, magari al crocevia di due autostrade (spesso, gli sembrava di ricordare, attorno al tramonto), e scoprire in questa località isolata una delle curiosità che definiva «luna park alle stazioni di rifornimento».

Erano immancabilmente stazioni di rifornimento, sottolineò, non stazioni di servizio ove fosse possibile effettuare riparazioni accurate di automobili o altri veicoli. All’epoca ci si trovavano al massimo quattro pompe di benzina, spesso soltanto due, e un modesto edificio che di solito aveva appiccicati addosso così tanti cartelloni e pubblicità da non far capire che cosa nascondessero. Quisser spiegò che da bambino prestava particolare attenzione ai cartelli pubblicitari del tabacco da masticare e che da adulto, divenuto critico d’arte, continuava a trovare molto attraenti le scatole di tabacco da masticare e non capiva perché nessun artista ne avesse ancora sfruttato le qualità immaginifiche e visive. Ebbi l’impressione, quella sera al Cabaret Cremisi, che la divagazione sul tabacco da masticare fosse un pretesto di Quisser per aggiungere credibilità alla sua storia. Questo dettaglio sembrava risultargli assai vivido. Ma quando gli domandai se ricordasse qualche marca particolare tra quelle reclamizzate alle stazioni di rifornimento con annesso luna park si mise un po’ più sulla difensiva, come se con le mie domande volessi contestare l’accuratezza dei suoi ricordi d’infanzia. Poi portò il discorso sulla questione che avevo sollevato sottolineando che l’aspetto luna park di questi luoghi non era esattamente annesso all’aspetto stazione di benzina, ma che l’uno non era mai troppo lontano dall’altro e che tra essi vi era senza dubbio un legame commerciale. La sua impressione, instillata in lui come il principio fondante di un sogno, era che un sostanzioso acquisto di carburante concedesse al guidatore e ai passeggeri di un veicolo il libero accesso al vicino luna park.

A questo punto della storia Quisser mi parve ansioso di spiegare che i luna park alle stazioni di benzina non erano nulla di sfarzoso: anzi, il contrario. Allestiti negli spazi vuoti a fianco o, talvolta, dietro le stazioni di rifornimento rurali, consistevano dei soli resti di veri luna park, dell’ossatura di scenari più grandi e ricchi. Di solito c’era un ingresso, un arco imponente pieno di luci colorate in contrasto innaturale con il vasto e spoglio paesaggio circostante, specie quando al tramonto, il momento in cui spesso o forse sempre Quisser e i suoi approdavano in una di queste remote località, l’illuminazione colorata dell’ingresso del luna park creava un effetto al contempo allegro e sinistro. Ma dopo che il visitatore giungeva nel vero e proprio spazio del luna park arrivava un momento di delusione di fronte all’armamentario di allestimenti che sembravano resti abbandonati, in un passato lontano, da un parco divertimenti itinerante.

Le attrazioni, spiegò Quisser, erano sempre poche e molto di rado funzionavano a dovere. Supponeva che fossero in buono stato all’epoca in cui le avevano installate come annesso alle stazioni di benzina, ma pure che quel periodo non fosse durato molto. Senza dubbio le attrazioni venivano chiuse ai primi segni di malfunzionamento. Quisser raccontò che non era mai riuscito a salirci, a parte la volta in cui suo padre gli diede il permesso di montare sul cavallo di legno di una giostrina defunta.
«Una giostra in miniatura» precisò, come se ciò desse alla rievocazione un’aura di significato o sostanza. Tutte le attrazioni, disse, erano in miniatura, versioni in scala ridotta di giostre o montagne russe che aveva visto e su cui era stato altrove. Accanto alla giostra in miniatura, che non si muoveva mai di un centimetro e restava sempre buia e silenziosa in un paesaggio rurale remoto, c’erano la ruota panoramica in miniatura (non più alta di una casa a un piano solo, precisò Quisser), e magari un autoscontro in miniatura o montagne russe in miniatura. Ed erano sempre tutti chiusi perché al primo segno di cattivo funzionamento, ammesso che fossero mai entrati in funzione, nessuno li riparava. Forse, pensava Quisser, considerati i componenti e i meccanismi miniaturizzati di queste attrazioni in miniatura, ripararle era impossibile.

Tuttavia fra le attrazioni ce n’era una piuttosto importante che ci si poteva aspettare quasi sempre aperta al pubblico o perlomeno a coloro i quali avevano riempito la propria auto del quantitativo minimo di benzina ed erano liberi di varcare la soglia illuminata sopra la quale le luci colorate, con il cielo vasto e ammaliatore del tramonto in una terra desolata rurale a fare da sfondo, componevano la scritta luna park. Quisser mi fece una domanda: come poteva un posto simile spacciarsi per luna park, o luna park da stazione di benzina, se non includeva la più vitale fra le attrazioni da luna park, ovvero i baracconi dove andavano in scena i numeri più strani? Forse, immaginò ad alta voce Quisser, esisteva una legge o ordinanza speciale che dava disposizioni precise, un qualche vecchio statuto ancora in vigore nelle zone isolate dove certe tradizioni hanno una persistenza che nei centri urbani sarebbe impensabile. Ciò spiegherebbe perché a meno di circostanze eccezionali (per esempio, condizioni meteorologiche cattive e pericolose) c’era sempre qualche tipo di baraccone ai luna park delle stazioni di benzina, anche se il resto delle attrazioni era buio e guasto.

Ovviamente questi baracconi, come li descriveva Quisser, non erano eccessivamente sofisticati, e questo per gli standard non solo di un comune luna park, ma anche di quelli che fungevano da attrattiva commerciale a una stazione di benzina fuori mano. Ogni sito possedeva una sola attrazione, che si presentava agli avventori sempre con la stessa immagine: un tendone, non molto grosso, di telo sporco e strappato. A un certo punto, sul perimetro del tendone, un lembo di tessuto aperto faceva da entrata a Quisser e ai suoi genitori, ma talvolta al solo Quisser. Sotto il tendone c’erano poche panche di legno infossate nella terra sporca e, a una certa distanza, un palchetto alto meno di trenta centimetri. A fornire l’illuminazione erano due banali lampade a stelo, ai lati del palco, sprovviste di paralume o altro genere di copertura; in tal modo i bulbi nudi gettavano all’interno del tendone luce forte e ombre spaventose. Quisser, parole sue, notava sempre i fili smangiati che serpeggiavano dalla base delle lampade e grazie a una serie di prolunghe trovavano infine una sorgente di elettricità presso la stazione di benzina, o meglio, all’interno del piccolo edificio di mattoni oscurato dalla selva di cartelloni che pubblicizzavano tabacco da masticare e altri prodotti.

Di solito, quando i visitatori del luna park alla stazione di benzina entravano nel tendone e prendevano posto su una panca davanti al palco, non ricevevano alcuna indicazione sulla natura dell’esibizione o dello spettacolo a cui stavano per assistere. Quisser sottolineò che non c’erano insegne o locandine a ragguagliare gli ospiti del luna park, né prima di entrare né dopo che si sedevano sulle vecchie panche di legno. Tuttavia, con una sola importante eccezione, ogni esibizione o spettacolo era grosso modo la stessa tiritera. Il pubblico si accomodava sulle panche di legno, la maggior parte delle quali stava per andare a pezzi o (come osservò Quisser) sprofondava nel terreno così storta che starci seduti era impossibile, e lo spettacolo cominciava.

I numeri cambiavano a seconda del baraccone e Quisser diceva di non rammentarli tutti. Si ricordava, però, quello del Ragno Umano. Un breve spettacolo in cui una persona con un costume buffo corricchiava da un lato all’altro del palco e ritorno, e usciva da una fenditura nel tendone alle sue spalle. La persona che indossava il costume, aggiunse Quisser, doveva essere l’uomo che faceva benzina, lavava i vetri e svolgeva altre varie mansioni alla stazione di rifornimento. Quisser ricordava che in tanti numeri da baraccone, come quello dell’Ipnotizzatore, la divisa da benzinaio (salopette unta grigia o azzurra) era ben visibile sotto i costumi di scena. Quisser confessò di non sapere con certezza perché avesse definito questo particolare numero «l’Ipnotizzatore», dal momento che l’esibizione non contemplava ipnotismo né ovviamente esistevano manifesti o locandine, fuori o dentro il tendone, che preparassero il pubblico a numeri di mesmerismo. Il teatrante non sfoggiava che un soprabito lungo e largo e una maschera di plastica, l’imitazione scarna e pallidissima di un volto umano, che tuttavia al posto degli occhi (o delle fessure per gli occhi) aveva due grossi dischi con disegnata una spirale. Per qualche momento l’Ipnotizzatore si rivolgeva al pubblico con gesti caotici, di sicuro perché aveva la vista oscurata dai dischi con le spirali, dopodiché arrancava fuori scena.

Quisser sosteneva di avere visto un gran numero di altri numeri da baraccone, tra i quali la Marionetta Ballerina, il Verme, il Gobbo e Dottor Dita. Con una sola importante eccezione, la routine era sempre la stessa: Quisser e i suoi entravano nel tendone e occupavano una panca marcia, e dopo pochi istanti l’artista faceva la sua breve comparsa sul palchetto illuminato da due banali lampade a stelo. L’unica deviazione dalla routine era il numero che Quisser chiamò «Lo Showman».

Laddove gli altri numeri da baraccone cominciavano e finivano dopo che Quisser e i suoi erano entrati nel tendone speciale e si erano seduti, quello del cosiddetto Showman sembrava sempre in corso. Non appena Quisser entrava nella tenda – precedeva sempre i genitori, disse – ne vedeva la figura che immobile e ritta al centro del palco dava le spalle al pubblico. Per qualche motivo non c’erano mai altri avventori quando al tramonto Quisser e i suoi si fermavano a far visita a uno di questi luna park alle stazioni di benzina – con le loro attrazioni difettose, di seconda mano – e infine raggiungevano la tenda dei numeri da baraccone. Questa situazione non sembrava strana né inquietante al piccolo Quisser, se non quando entrava nel tendone e vedeva sul palco lo Showman con la schiena rivolta alle poche file di panche vuote che sembravano pronte a spezzarsi non appena qualcuno vi ci fosse seduto. Ogni volta che Quisser si trovava di fronte a questa scena desiderava di girare subito i tacchi e andarsene. Ma in quel momento arrivavano i suoi, di corsa, diceva, e in un attimo eccoli seduti tutti e tre su una panca in prima fila a guardare lo Showman. Quisser ripeté diverse volte che i suoi genitori non colsero mai il terrore che aveva lui di questo particolare artista da baraccone. E dire che le visite ai luna park delle stazioni di benzina, in particolare ai baracconi, avvenivano per dare un po’ di svago a Quisser; suo padre e sua madre avrebbero preferito limitarsi a fare il pieno all’auto di famiglia e ripartire per la prossima tappa della vacanza.

Quisser insinuò che ai suoi genitori piaceva guardarlo assistere terrorizzato all’esibizione dello Showman, finché non chiedeva, esasperato, di tornare sull’auto. Al tempo stesso la vista di questo personaggio da baraccone, diverso da tutti quelli che ricordava, lo lasciava di sasso. Era lì, raccontò Quisser, di spalle al pubblico con un vecchio cilindro in testa e un mantello che sfiorava il palco sporco. Da sotto il cilindro dello Showman spuntavano ciocche di capelli rossi stoppose e lunghe che, parola di Quisser, somigliavano a una specie di nido di nauseanti parassiti. Quando misi volontariamente alla prova la memoria e l’immaginazione di Quisser domandandogli se i capelli non fossero in realtà una parrucca, mi guardò con disprezzo, come a sottolineare che i capelli rossi stopposi non li avevo visti io; lui li aveva osservati sotto il vecchio cappello a cilindro dello Showman. Gli unici altri dettagli visibili al pubblico, aggiunse, erano le dita dello Showman strette agli orli del mantello. Gli sembravano deformi, dita che si arricciavano in piccoli artigli di un color verdastro pallido. A sentire Quisser la posizione calcolatissima dell’uomo lasciava intendere che prima o poi, con un’improvvisa piroetta, egli si sarebbe rivolto al pubblico, sollevando all’altezza dei capelli rossi stopposi le dita schifose strette al mantello. Ma era sempre immobile. A volte Quisser aveva l’impressione che lo Showman spostasse la testa leggermente a sinistra o a destra, minacciando di rivelare un lato o l’altro della faccia in un orribile cucù! Alla lunga, però, Quisser concluse che si trattava di movimenti illusori e che lo Showman manteneva sempre un’immobilità perfetta, un manichino da incubo che con l’astensione totale da ogni gesto evoca ogni genere di fantasticheria.

«Nient’altro che un odioso raggiro» concluse Quisser, e fece una pausa per finire il bicchiere di vino. «E se si fosse voltato?» domandai. Mentre attendevo la risposta sorseggiai il mio tè alla menta, che non sembrava granché utile contro la nausea che pure, al contempo, non peggiorava. Accesi una delle sigarette leggere che per l’occasione fumavo. «Hai sentito?» ripetei a Quisser, che guardava verso il palco all’altro capo del Cabaret Cremisi. «Il palco è lo stesso» dissi a Quisser con una certa asprezza, attirandomi gli sguardi di gente seduta agli altri tavoli del locale. «I pannelli sono gli stessi e i disegni sono gli stessi.»
Quisser giocherellava nervoso con il calice vuoto.
«Quand’ero giovanissimo» disse, «in certe occasioni vedevo lo Showman, ma fuori dal suo habitat naturale, per così dire, del tendone.»
«Credo di averne sentite abbastanza, per stasera» lo interruppi, portandomi una mano alla pancia dolorante.
«Ma cosa dici?» chiese Quisser. «Te li ricordi, no? I luna park alle stazioni di benzina. Magari è solo un ricordo vago. Ero certo che almeno tu ne sapessi qualcosa.»
«Credo di poter dire» risposi a Quisser «che dei luna park alle stazioni
di benzina mi hai raccontato quanto basta a chiarirne il senso.»
«Ma quale “senso”, cosa dici?» domandò Quisser, lo sguardo ancora rivolto al palchetto in fondo alla sala.
«Be’, tanto per cominciare, i tuoi recenti ricordi, i tuoi presunti ricordi dello Showman. Stavi per dirmi che da bambino l’hai visto più volte, in diversi luoghi e occasioni. Magari da lontano, dal cortile di una scuola, di spalle. O dall’altra parte di una strada affollata, e quando l’hai attraversata lui non c’era più.»
«Qualcosa del genere, sì.»
«E stavi per dirmi che in seguito hai visto questa figura o le vaghe tracce
di questa figura riflesse e distorte nelle vetrine lungo il marciapiede, apparizioni fugaci nello specchietto retrovisore della tua auto.»
«Somiglia tantissimo a una delle tue storie.»
«Per certi versi sì» risposi, «e per certi versi no. Tu hai paura che se mai,
per caso, vedessi lo Showman voltarsi verso di te… ti capiterebbe qualcosa di terribile, molto probabilmente periresti all’istante ucciso da una sorta di monumentale shock.»
«Sì» fece Quisser. «Da un orrore insostenibile. Ma non ti ho raccontato la parte più strana. Hai ragione, ultimamente mi è parso di scorgere… quella figura, e l’ho vista da bambino, cioè, anche fuori dalla tenda e dal luna park. Ma la parte più strana è che ricordo di avere visto lo Showman altrove anche prima di incontrarlo tra i baracconi di luna park alle stazioni di benzina.»
«È qui che volevo arrivare» dissi.
«Dove?»
«A dirti che i luna park alle stazioni di benzina non esistono. Non ci sono mai stati, i luna park alle stazioni di benzina. Nessuno li ricorda perché non sono mai esistiti. È un’idea campata per aria.»
«Ma c’erano anche i miei genitori.»
«Esatto: tuo padre, morto, e tua madre, mentalmente disabile. Ricordi di aver mai parlato con loro delle tue esperienze vacanziere presso queste stazioni di benzina speciali, con annessi quei fantomatici luna park?»
«No.»
«Perché non ci siete mai andati. Pensa a quanto suona ridicolo. Stazioni di rifornimento in mezzo al nulla, che attirano clienti con la promessa di un ingresso gratuito a luna park in sfacelo: che roba ridicola. Attrazioni in miniatura? Benzinai che fanno numeri da baraccone?»«Non lo Showman» mi interruppe Quisser. «Lui non era il benzinaio travestito, mai.»
«No, certo che non era il benzinaio, perché era un’illusione. Tutta quanta è una scandalosa illusione, ma anche un genere molto particolare di illusione.»
«E quale genere di illusione?» domandò Quisser, che ancora lanciava occhiate verso il palco, dall’altra parte del Cabaret Cremisi.
«Non una comune illusione psicologica, se pensavi che stessi per dirlo. Non mi interessa per niente, quella roba. Mi interessa parecchio, invece, quando qualcuno è afflitto da illusioni magiche. Anzi, per la precisione, mi interessano le illusioni prodotte dalla magia-arte. E sai da quanto tempo subisci l’influenza di questa illusione magico-artistica?»
«Non ti seguo.»
«Semplice» dissi. «Da quanto tempo immagini queste insensatezze di luna park alle stazioni di benzina e, in particolare, questo personaggio che chiami Showman?»
«Penso che non avrebbe senso, a questo punto, ribadire che lo vedo da quand’ero bambino, anche se è esattamente come sembra ed è esattamente ciò che ricordo.»
«Certo che non avrebbe senso, perché senza dubbio stai delirando.»
«Ah, io starei delirando riguardo allo Showman, tu no riguardo a… com’è che l’hai chiamata?»
«Magia-arte. Perché da quando sei caduto vittima di questa particolare magia-arte hai cominciato a farneticare dei luna park alle stazioni di benzina e dei fenomeni che li accompagnano.»
«E da quando, di preciso?»
«Da quando hai umiliato la Cremisi dandole dell’illusa senza talento. Te l’ho detto, quella ha agganci di cui non puoi sapere assolutamente nulla.»
«Ma ti parlo di un ricordo d’infanzia che porto con me da sempre. Non da qualche giorno, come dici tu.»
«Invece sì, perché da qualche giorno hai preso a delirare. Forse non ti sei accorto che con la sua magia-arte ti ha inflitto l’illusione della peggior specie, che potremmo definire illusione retroattiva. E non sei l’unico ad averla patita, negli ultimi giorni, settimane o addirittura mesi. Da tempo tutti, da queste parti, sentono incombere la minaccia di questa magia-arte. Io stesso comincio a temere di averla smascherata con troppo, troppo ritardo. Tu sai com’è soffrire di illusioni di tipo retroattivo, ma sai com’è ritrovarsi vittima di un violento mal di pancia? Me ne sono stato qui, nel locale della Cremisi, a bere tè alla menta servito da una cameriera che è amica della Cremisi, convinto che potesse farmi bene alla pancia, ma può tranquillamente darsi che questa bevanda peggiori i miei disturbi o li trasformi in qualcosa di più serio e strano. E comunque, la Cremisi non è l’unica a praticare la magia-arte. Succede ovunque, da queste parti. Il vento l’ha soffiata qui, imprevista come nebbia in mare aperto, e tanti di noi ci si stanno perdendo. Guarda le facce in questa sala e dimmi se sei tu l’unica vittima di un’orribile magia-arte. La Cremisi avrà qualche avversario, ma pure alleati potenti. Come faccio a spiegarti con esattezza chi sono… un gruppo specializzato in magia-arte, senza dubbio, ma non posso limitarmi a dire, con frivola sicurezza: “Sì, dev’essere una gang di illuminati”, o di scienziati esoterici, come da qualche tempo in tanti hanno preso ad autodefinirsi.»
«Ma somiglia davvero a una storia delle tue» protestò Quisser.
«Certo, e non credi che lo sappia anche lei? Ma non sono io quello che va raccontando la fola grottesca dei luna park alle stazioni di benzina e del palco sotto il tendone non dissimile dal palco che sta in fondo a questo salone. Non riesci a levargli gli occhi di dosso, lo vedo bene, e lo vedono anche gli altri. So che cosa credi di vedere, laggiù.»
«Sempre che tu sappia di che cosa stai parlando» rispose Quisser, che ora si sforzava di distogliere lo sguardo dal palco all’altro capo della sala, «come faccio, io, adesso?»
«Puoi cominciare smettendo di fissare il palco. Non c’è niente da vedere, se non l’ennesima illusione di magia-arte. Non c’è nulla che sia necessariamente fatale o duraturo in questa sofferenza. Ma devi credere che guarirai, come ci crederesti se fossi vittima di una malattia non fatale. Altrimenti rischi che le illusioni si trasformino in qualcosa di più letale, a livello fisico, psichico, o entrambi. Ascolta il consiglio di uno che si diletta in storie di destini tragici e straordinari, e sta’ lontano da questa follia. Il mondo è strapieno di fatalità banali. Trovati un posto tranquillo e aspetta che sia una di esse a portarti via.»

Ora, finalmente, vedevo l’intensa convinzione espressa nelle mie parole fare qualche effetto su Quisser. Il suo sguardo non sfiorava più il piccolo palco dall’altra parte della sala ma puntava dritto su di me. La verità riguardo alle sue illusioni continuava in qualche modo a sconvolgerlo, ma sembrava decisamente più tranquillo. Accesi un’altra sigaretta leggera e mi guardai intorno senza cercare qualcosa o qualcuno in particolare, limitandomi a sondare l’atmosfera. Il fumo di tabacco che saliva nel locale era molto più denso, la luce ambrata aveva sfumature assai più cupe, e la pioggia con il suo rumore continuava a tormentare le finestre ridipinte di nero del Cabaret Cremisi. Rieccomi nella cabina della vecchia nave sconquassata da una tremenda tempesta in mare aperto, priva di sostegno e seriamente minacciata da forze incontrollabili. Quisser si alzò per andare al gabinetto e la sua sagoma attraversò il mio campo visivo come un’ombra nella nebbia densa.

Non ho idea di quanto tempo stette via Quisser. Mi concentrai assorto sulle altre facce nel locale e sull’ansia profonda che rivelavano, ansia non di tipo naturale, esistenziale, ma nata da preoccupazioni specifiche di natura misteriosa. Quale epoca incombe ora su di noi, sembravano dire. E senza dubbio le loro voci avrebbero parlato chiaro di certe preoccupazioni, se non fossero state ridotte a strambi malintesi e doppi sensi dalla paura di patire la medesima innaturale sofferenza che tanto aveva nuociuto alla mente del critico d’arte Stuart Quisser. A chi stava per toccare? Cosa si poteva dire ormai, o pensare, senza sentirsi minacciati dalla vendetta di gruppi e individui dagli agganci e dai legami potenti? Quasi riuscivo a sentire le loro voci che dicevano: «Perché qui, perché ora?»; ovviamente con altrettanta facilità avrebbero potuto chiedersi: «Perché non qui, perché non ora?». Non sospettava, questa gente, che non ci fossero norme speciali in vigore; non sospettavano, questi artisti fantasiosi, che fosse una pura e semplice questione di terrore cieco e indistinto che converge su un luogo preciso in un momento preciso senza alcun motivo preciso. D’altro canto, nemmeno sospettavano di essere stati loro stessi a evocare certe forze e legami potenti; di avere contribuito a portarli nel nostro distretto semplicemente desiderando che vi giungessero. Potrebbero aver tanto desiderato che qualcosa di maligno e innaturale si avventasse su di loro, ma per un po’ nulla era accaduto. Poi avevano cessato di desiderare e dimenticato i desideri che tuttavia, al contempo, avevano acquistato nuova forza e si erano distillati in una formula potente (chi può dirlo!) finché, un giorno, non era cominciata l’epoca terribile. Perché se davvero avesse detto la verità, forse questa cricca di artisti avrebbe espresso quale nuovo significato (quantunque negativo), per non dire di quale vigoroso brivido (quantunque straziante), quest’epoca di innaturale malvagità aveva portato alle loro vite. Che cosa significa essere vivi se non corteggiare ogni attimo il disastro e la sofferenza? Per ogni svago, per ogni brivido che la nostra natura di generati esige da questo mondo-luna park, anche a costo dell’apocalisse, ci sono rischi da correre. Nessuno è al sicuro, neanche gli artisti-maghi o gli scienziati esoterici, che sono i più illusi perché i più disposti a lasciarsi tentare da divertimenti di genere misterioso e innaturale, armeggiando da buoni artisti o scienziati con il caos intrinseco delle cose. Mentre guardavo le facce del Cabaret Cremisi e facevo i miei pensieri su quelle facce, un’ombra riattraversò il mio annebbiato campo visivo. Immaginavo di scoprire che l’ombra fosse Quisser, mio compagno di tavolo per quella sera, di ritorno dal viaggio al gabinetto, invece mi ritrovai davanti la cameriera che Quisser aveva detto essere fedele alla Cremisi. Mi domandò se volessi ordinare l’ennesima tazza di tè alla menta, e disse proprio così, l’ennesima tazza di tè alla menta. Cercai di non lasciarmi innervosire dal suo tono bizzarro e sarcastico, per non peggiorare l’attacco di nausea, e risposi che stavo per andarmene. Poi aggiunsi che forse il mio amico gradiva l’ennesimo bicchiere di vino indicando, di fronte a me, il calice vuoto lasciato da Quisser quando si era alzato per andare al gabinetto. Ma non c’era nessun calice di vino dall’altra parte del tavolo; c’era soltanto la mia tazza vuota di tè alla menta. Subito accusai la cameriera di aver portato via il calice, mentre mi ero lasciato distrarre dal sogno a occhi aperti sulle facce del Cabaret Cremisi. Ma lei negò di aver servito vino al mio tavolo e aggiunse che mi aveva visto solo dal momento in cui ero entrato nel locale e mi ero seduto al tavolo, sull’altro lato rispetto al palco. Dopo una scrupolosa ricerca al gabinetto tornai e tentai di trovare qualcun altro che, nel locale, avesse visto il critico d’arte Quisser parlare a lungo con me dei suoi luna park alle stazioni di benzina. Ma tutti dissero che non avevano visto nessuno.

Nemmeno Quisser, quando il giorno dopo lo rintracciai in un buco di galleria d’arte, sosteneva di avermi visto. Disse che quella sera l’aveva trascorsa da solo, a casa, per via di una certa indisposizione – un germe, disse – da cui si era ripreso. Quando gli diedi del bugiardo mi affrontò a muso duro, al centro di quel buco di galleria d’arte, e con un sussurro nervoso mi disse di «badare a quel che dicevo». Continuavo a spararle grosse, aggiunse, e in futuro avrei fatto meglio a usare più riserbo in ciò che dicevo e nella scelta delle persone a cui lo dicevo. Poi mi domandò se davvero avessi creduto saggio, durante una festa, aprire bocca per dare a una persona dell’illusa senza talento. C’era gente, disse, che aveva agganci e legami potenti, e io, più di chiunque altro, avrei dovuto rendermene conto, considerata la mia consapevolezza di certe cose e il modo in cui la esibivo nelle storie che scrivevo.
«Non che io sia in disaccordo con il tuo parere riguardo a tu sai chi» disse. «Ma avrei evitato di essere tanto esplicito. L’hai umiliata. E di questi tempi una cosa del genere rischia di essere pericolosissima, non so se hai colto.

Certo che avevo colto; soltanto non capivo perché certe cose le stesse dicendo lui a me e non io a lui. Non bastava, pensai in seguito, che patissi quel tremendo disturbo alla pancia? Dovevo sopportare anche il fardello di un’illusione altrui? Anche questa spiegazione, tuttavia, fu demolita da un’ulteriore indagine. Riguardo alla sera della festa proliferò tra le mie conoscenze e i miei sodali una ridda di storie riguardo a chi esattamente avesse pronunciato l’offesa umiliante e chi fosse di preciso la parte lesa. «Perché a me?» mi domandò la Cremisi quando le portai le mie più sentite scuse. «Quasi neanche ti conosco. E poi ho già abbastanza problemi. Quella stronza di cameriera mi ha tirato giù i quadri e al loro posto ci ha messo i suoi.»

Ciascuno di noi aveva problemi, sembrava, le cui origini erano irrintracciabili; problemi che si incrociavano come la traiettoria delle infinite gocce di pioggia di una tempesta che si fondono a creare una nebbia di illusione e contro-illusione. Della presenza attiva di forze e legami potenti non si poteva dubitare, ma sembravano senza faccia e senza nome, era un’impresa capire cos’avessimo fatto noi – una combriccola di illusi senza talento – per offenderle. Eravamo stati trascinati in un’epoca di magia disgustosa dalla quale niente ci offriva scampo. Sempre più spesso mi ritrovavo a rimuginare su quei ricordi di luna park alle stazioni di benzina, a cercare una risposta nel crepuscolo di campagne isolate dove giostre e ruote panoramiche in miniatura giacevano rotte in un paesaggio desolato.

Ma qui non c’è nessuno che presti orecchio alle mie umilissime scuse, nemmeno lo Showman che potrebbe trovarsi dietro qualsiasi porta (anche oltre la soglia del gabinetto, al Cabaret Cremisi). E qualunque stanza mi veda entrare può trasformarsi nel tendone al cui riparo io mi siedo, su una panca vecchia e traballante che sta per andare a pezzi. Lo vedo, adesso, lo Showman di fronte a me. I capelli rossi stopposi si avvicinano appena a una spalla, come se finalmente intendesse rivolgermi il suo sguardo, ma tornano indietro; la testa si muove appena verso l’altra spalla in questo interminabile e orribile gioco a fare cucù. E io non posso che aspettare, conscio che un giorno egli si volterà, scenderà dal palco e mi restituirà all’abisso che da sempre temo. Forse allora scoprirò che cosa ho fatto – cosa tutti noi abbiamo fatto – per meritare questo destino.

© 2015, Thomas Ligotti