Chiara Galeazzi

ARTICOLO n. 5 / 2023

DICIANNOVE ANNI DI “SCRIVERÒ DI PIÙ”

L'anno che verrà

Benvenuti nel 19esimo anno in cui il mio buon proposito è “scrivere di più”. Un proposito difficile da quantificare legato a un’attività che dà soddisfazioni e molte rogne. Rimasto immutato nonostante il passaggio alla maggiore età, all’inizio della carriera lavorativa e all’aver superato i trent’anni, l’auspicio ha lo stesso indice di fallimento di quello di perdere 5 chili entro l’estate, ma molti più sensi di colpa, perché è un proposito che lega la stima di sé alla prospettiva lavorativa, unione che è la grande fortuna degli psicoterapeuti del nuovo millennio. Di seguito, la cronologia di come questo proposito si è insinuato nella mia vita e come è stato in vario modo disatteso.

(Qualcuno esperto di come si danno le notizie potrebbe avere da ridire sul fatto che non si sia aspettato il 2024 per pubblicare un anniversario tondo, il 20esimo. I motivi sono due: per prima cosa si spera che il prossimo anno non stiamo ancora dietro a ‘sta stupidata e il buon proposito sia “provare a indossare di più il giallo”, o qualcos’altro di frivolo; la seconda è che è l’unica idea che mi è venuta in mente, per cercare di realizzare questo proposito anche nel 2023.)

2004

Nel 2003, a 16 anni, mi innamoro di uno che mi dice che dovrei mandargli delle mail dove gli racconto cose, perché secondo lui la scrittura è un’attività bellissima che dovremmo condividere. Il problema è che io mi vergogno di fargli leggere quello che scrivo perché penso che lui sia un genio della scrittura, così apro un blog anonimo dove racconto quello che avrei dovuto raccontare a lui. È un’attività molto divertente, molto più che rispondere alle mail di questo tizio che nel frattempo mi scrive che devo scordarmi una relazione a distanza con lui e che si è messo con una sua compagna di classe. A Capodanno 2004 mi dico che dovrei “scrivere di più”, intendendo sul blog. Il buon proposito si realizza per il semplice fatto che l’anno prima il blog era stato aperto per neanche quattro mesi. Prima e unica volta in cui il buon proposito ha successo, arrivo persino a dire a un prete che mi chiede cosa voglio fare da grande: «Io voglio scrivere per far ridere la gente». Il prete mi guarda con pietà.

2005

Insisto sul punto dello scrivere di più, ma quest’anno c’è dell’ambizione: c’è questa cosa della blogosfera, mi dico che 18 anni è il mio momento per diventare una giovane blogstar, anche perché, imbevuta di ageism, mi convinco che se non sfondo nella letteratura entro la fine del mio diciottesimo anno di vita posso tranquillamente considerarmi una fallita. Questa scadenza è già stata rimandata di qualche anno, visto che nel 2004 il successo dei libri di Melissa P. e Zoe Trope (mie coetanee) mi fanno già sentire in ritardo. Ovviamente l’entusiasmo per il blog e il fatto che non sia diventata una blogstar entro febbraio mi fanno scrivere meno, e l’uscita del libro di Margherita F. celebrato come il più rappresentativo dell’adolescenza in Italia mi fa sentire già sconfitta. Anche l’aver sbagliato un congiuntivo nel tema di maturità non aiuta. La cosa migliore che scrivo è la mail in cui mando a cagare quello là che mi convinse a scrivere – non perché mi abbia convinto a scrivere, per altri motivi.

2006-2009

Finito il liceo a metà 2005, due amici mi consigliano di leggere i libri di David Sedaris e Walter Fontana, scoprendo così cosa vuol dire scrivere per far ridere la gente. La reputo una cosa per me impossibile, ma ormai mi ero incistata su questa cosa della scrittura, quindi mentre studio comunicazione all’università passo tutti i Capodanni a dire che dovrei scrivere di più ma non so bene di cosa. Scribacchio sul blog quattro stupidate, metto qualche battuta scema su FriendFeed, continuo a leggere e guardare gente che fa molto ridere e mi incupisco. L’unico anno in cui il proposito si realizza è il 2009, quando un sito di recensioni cinematografiche mi chiede di collaborare in cambio di andare a vedere film gratis. Io non so niente di cinema, ma non sarà l’ignoranza sul tema a fermarmi, che poi è il principio su cui si fonda buona parte della professione giornalistica.

2010

Il Capodanno del 2010 arriva un mese dopo la mia laurea. Il piano per la ricerca di un lavoro è trovare una redazione di una rivista e piazzarmi lì a scrivere. Non volevo fare la giornalista, volevo scrivere – forse la categoria di persone peggiore che si possa trovare nella redazione di un giornale. Quindi “scrivere di più” era un auspicio lavorativo, ma anche un piano per farmi notare nel caso ci volesse più tempo del previsto per trovare un posto in redazione. Il blog l’avevo praticamente abbandonato, guardare a 22 anni quello che scrivevo a 17 o 18 anni era grande fonte di imbarazzo. Questo “scrivere di più” non aveva una casa, e se non posso pubblicare qualcosa da qualche parte non vedo perché scriverlo. A marzo 2010 entro nella mia prima redazione, ma in quella fase a noi stagisti non ci facevano scrivere, inizialmente non avevamo neanche accesso alle riunioni di redazione. Anche il fatto che ogni consegna io la viva con l’angoscia di chi aspetta il referto di un esame specialistico richiesto d’urgenza non aiuta. Scrivo poco, ma cose significative: il primo articolo pubblicato su un cartaceo, la prima intervista, cose così. 

2011-2015

Nel momento in cui prendo gusto all’idea di scrivere, le responsabilità dentro la redazione diventano tali da non lasciarmi il tempo per farlo. Passo gli anni a chiedere a persone che lavorano fuori dalla redazione di scrivere cose che vorrei scrivere io. Ogni Capodanno mi dico che basta, l’anno prossimo scriverò di più, delegherò tutto il resto. Appena lo faccio, mi ritrovo un’altra cosa da fare che non è scrivere. Roba bella alcune volte, enormi dita nel culo altre volte. Nel 2015 trovo una collaborazione con un mensile, che dura 4 mesi perché poi cambia direttore e quello nuovo mi schifa. Nel frattempo, il provider del mio blog fa saltare in aria i server, con mio enorme sollievo.

2016-2017

Entro in un’altra redazione, dove sono già disillusa dall’idea di scrivere più spesso di quanto facessi nella precedente, ma dato che nel frattempo ho iniziato a lavorare come autrice per un programma comico mi dico: devo scrivere più cose comiche. Per farci cosa non è dato sapere. Magari sui social? Magari sì, ma tanto non lo faccio. La realizzazione del proposito di scrivere nel 2017 potrebbe arrivare a una svolta grazie a un licenziamento arrivato a sorpresa. E invece sono troppo impegnata ad andare in sbattimento per la partita iva per fare qualsiasi altra cosa.

2018-2019

Compresi i meccanismi della partita iva (o meglio, arresa al fatto che non esiste partita iva senza angoscia), il proposito si concretizza nel rimettere insieme un paio di contatti per pubblicare dei pezzi mentre faccio altri lavori. Questa attività costituisce circa l’1,5% dei miei guadagni – non solo perché paga poco, ma pure perché lo faccio poco. A furia di frequentare comici, nel 2019 la formulazione di questo buon proposito prosegue con “per provare a fare stand-up”, ma il dio della procrastinazione mi ha preservato da una figura di merda. A fine 2019 mi regalano un abbonamento a Masterclass, la prima cosa che faccio è guardare la serie di lezioni di David Sedaris dove ribadisce quello che dice in tutte le interviste: lui scrive tutti i giorni, prende appunti costantemente. Dice che ogni testo che scrive viene riscritto almeno 6-7 volte, anche 10. Io non ho manco voglia di rileggere quello che scrivo alla fine della prima stesura, figurati. Mi chiedo se questo proposito abbia poi così senso.

2020

A Capodanno bevo e poi rilancio: è l’anno giusto per scrivere un libro. Per puro caso azzecco sul fatto che è un ottimo anno per stare chiusi in casa a scrivere, ma l’angoscia del lockdown non mi permette di farlo, poi quando il lockdown finisce c’è il tempo all’aria aperta da recuperare, e insomma ci siamo capiti. In un momento di follia pubblico un racconto su un sito di self-publishing e succede un miracolo: arrivano delle persone a chiedermi di scrivere cose. Scopro che funziono solo con il senso di colpa. Non è l’anno in cui scrivo di più, ma è quello in cui scrivo delle cose che davvero mi interessano: i cazzi miei. Qualcuno mi chiede se ho “cose nel cassetto” da fargli leggere, vorrei metterlo in contatto con la me nell’universo parallelo in cui si realizzano tutti i buoni propositi, che ha cassetti pieni di racconti e non ha mai superato i 55 chili di peso.

2021

Ribadisco il buon proposito del libro, di cui non ho manco aperto un file Word, poi mi guardo attorno: tutte le persone della mia cerchia hanno pubblicato o stanno per pubblicare un libro (non tutte-tutte, ma più del 50% sì). Comincio a farmi domande sull’editoria, sul senso che può avere pubblicare un libro in un momento così pieno di libri, sulla percezione della scrittura umoristica. Tutte domande che mi faccio invece di scrivere.A un certo punto mi viene un coccolone per cui finisco in ospedale un mese e mezzo, unico periodo in cui non scrivo senza sensi di colpa perché c’ho la scusa che non va un braccio. Appena esco a dicembre scrivo un raccontone per un giornale, la mia fisioterapista mi dovrà rimettere a posto la spalla per le successive tre sedute, ma è una grande soddisfazione. Quattro giorni dopo è l’ultimo dell’anno.

2022

Parto carica a pallettoni, prometto cose a chiunque, poi ogni volta che mi metto alla scrivania mi vengono dei fastidiosissimi formicolii al braccio sinistro, lascito del coccolone e spiegati con dei “boh” dai medici. Fino ad agosto io vorrei solo parlare con la psicologa e farmi scrocchiare dal fisioterapista, ma ho promesse da mantenere. In autunno il mio neurologo mi dice che va tutto bene, e allora con slancio mi risiedo alla scrivania e mi faccio prendere dalla foga, finché dopo circa 3 ore non mi ricordo che aver scritto è bellissimo, scrivere no. Allora mi alzo per fare una pausa di circa 72 ore e poi riprendo, non riuscendo a mantenere un sacco di promesse.

2023

Il 2 gennaio scrivo su un foglio che quest’anno devo scrivere tutti i giorni, poi mi prendo due giorni di ferie dal mio proposito. A seguito del secondo buon proposito, “diventa più diligente”, mi metto a recuperare gli arretrati del 2022, tipo questo testo qua, che è l’arretrato più veloce da smazzare. Ne ho un altro da chiudere entro un mese. Se riesco a chiudere quello, stai a vedere che è l’anno in cui ricomincio a guidare – perchélimitarsi solo a danni virtuali?

ARTICOLO n. 56 / 2022

TORNA A FARE LA TUA VITA

Dove sarò questa estate?

Che bravi quegli artisti che si mettono lì a immaginare scenari, la gente li riguarda dopo decenni e dice «Beh, XYZ aveva capito le sorti dell’umanità con larghissimo anticipo! Aveva previsto tutto!». Buon per loro, io se allungo lo sguardo verso la prossima settimana trovo almeno tre motivi per farmela sotto. E con “prossima” non intendo la settimana che segue quella in cui scrivo questa frase, intendo qualsiasi settimana segua quella del presente in cui starete leggendo queste parole. Ho passato il mese di giugno a sentir dire da esperti in fisica che il tempo non esiste, che non esiste passato, presente o futuro, e non posso che concordare visto il modo in cui gestisco le scadenze. Negli ultimi periodi avere degli esperti in materia dire questa frase è stato anche vagamente consolatorio, ora che il presente è terribile e il futuro è attesa della disgrazia, che poi è essa stessa disgrazia (mi dovete scusare, è difficile trattenersi ogni volta che si può storpiare la citazione sul piacere di Lessing, ma personalmente è stato ancora più difficile ricordarsi che era stato lui a scriverla, infatti io ero convinta che fosse di Antoine de Saint-Exupéry, messa lì forse in un momento un po’ sexy de Il Piccolo Principe, di cui ricordo il merchandising ma non la trama). 

C’è il problema che in estate è praticamente impossibile non pensare al futuro, più che in qualsiasi altra stagione. Tutte le domande sono declinate al futuro. «Cosa farai?» «Dove andrai» «Quando partirai?». Quando ho comprato i biglietti per vedere le letture di David Sedaris e l’appartamento per stare alcune settimane al Fringe Festival di Edimburgo rispondevo a questa domanda con un entusiasmo insopportabile. Ora che la data si avvicina, lo accompagno a un «Certo, vediamo come va con questa nuova variante», oppure «Eh, sperando non ci siano problemi coi voli», per familiarizzare con la sfiga. Non che quest’anno non abbia già abbastanza familiarizzato con la sfiga, visto che a ottobre ho avuto un’emorragia cerebrale e da lì in poi ogni momento è stato legato a quello: andare a fisioterapia, riprendere a camminare, imparare a stare in equilibrio, fare gli esami, andare al pronto soccorso per puttanate, uscire con gli amici, comprendere la mortalità non più come concetto astratto ma come realtà, sentir formicolare costantemente, smettere di fumare, smettere di entrare nei vestiti, smettere di rispondere educatamente alla domanda «Ma quindi adesso come stai» dopo la centesima volta che viene posta. 

Quest’ultima cosa non è vera: la domanda «Ma quindi adesso come stai?» ha un suo gusto perverso per il dolore, ma spesso mi viene fatta col tono di chi si aspettava che stessi peggio. È successo da giugno, quando ho ricominciato ad avere una vita sociale fuori dal mio cerchio ristretto, quindi molte persone mi rivedevano per la prima volta dopo aver messo like al mio post di Instagram in cui annunciavo dell’ictus. Molte donne me lo chiedono con gli occhi tristi e le mani congiunte al petto.  Se rispondo «Bene» in modo sbrigativo, ma comunque sincero, inclinano la testa di lato e aggrottano le sopracciglia, insoddisfatte. Vorrei tirare un cazzotto in mezzo alle loro sopracciglia aggrottate. Non so chi abbia educato noi donne a queste pose davanti a chi ha un problema di salute, non so bene neppure che sentimento stiamo inscenando quando facciamo così. Forse partecipazione, forse pietà, forse sete di dramma, tutte cose che non voglio vedere mentre scrocco birre alla festa di un’agenzia pubblicitaria. Con gli uomini è diverso, loro cercano più una prova di quello che è successo, chiedono direttamente «Cosa ti è rimasto?». Allora racconto cosa non posso ancora fare, della sensibilità alla spalla sinistra che non ho recuperato e non so quando o se recupererò, dei formicolii e del dolore a braccio e spalla sinistri. Prima di arrivare sull’orlo del pianto, esclamo «Ma rispetto a prima, VUOI METTERE?» e nel clima di festa generato da questa frase i miei interlocutori mi tirano una fortissima pacca sulla spalla sinistra. Prendono sempre la sinistra. Grazie ai miei nervi impazziti, il ricordo di questa pacca riverbera per i muscoli del braccio tutta la sera. Una volta una persona che conosco e che normalmente sa comportarsi mi tirò una serie di pugnetti sul braccio sinistro, strillai di smetterla perché quello era «Il braccio dell’ictus», mi rispose «E allora?». Ai tempi mi offesi fortissimo, invece quell’indelicatezza un po’ mi manca. Soprattutto ora che si avvicina settembre. 

Mi è sembrato di capire che per un freelance le cose vanno bene quando tante persone ti chiedono «Cosa farai a settembre?». Ultimamente me lo chiedono più che in passato, credo perché quest’anno è stato baciato dalla fortuna sul lavoro. Ovviamente non mi sono goduta nulla di ciò che ho fatto, soprattutto perché ogni cosa bella ha avuto delle fastidiosissime ripercussioni fisiche: ad aprile scrivere un racconto molto apprezzato di 12 mila battute mi è costato due sedute ravvicinate di fisioterapia per scollare la scapola sinistra, allungare il muscolo pettorale, inserire tre nuovi esercizi con bande elastiche e altri aggeggi Decathlon nella mia già ingolfata routine di ginnastica posturale; a fine maggio, un cambio improvviso della sveglia per un lavoro importante mi ha provocato lunghe fascicolazioni muscolari sul fianco sinistro, che a loro volta hanno provocato 5 ore di attesa in pronto soccorso dove la diagnosi è stata «Mah» e un «Può provare a prendere questa benzodiazepina prima di dormire» – e se c’è una cosa che ho imparato da questa vicenda è che se un medico dal nulla ti propone una benzodiazepina, tu la vai a comprare anche se non la vuoi assumere, tanto le benzodiazepine fanno effetto anche solo a tenerle vicine. 

Ora il mio corpo somiglia sempre di più a quello che era prima. Il braccio formicola meno spesso, l’estensione della zona in cui la sensibilità è sputtanata diminuisce. Mi sembra di vedere una fine, ma non è vero. A settembre dovrei scoprire che cosa mi ha provocato l’emorragia cerebrale. Fino a questo momento le risonanze magnetiche hanno escluso tante cose, ma non hanno confermato una causa precisa perché il sangue non era ancora del tutto sparito, «Ce n’è ancora un pochino la zona coperta, non mi azzarderei, aspettiamo settembre per rifare tutto. Ma tu torna a fare la tua vita di prima, eh», mi disse il neurologo a marzo davanti alle curve del mio cervello e dei suoi vasi sanguigni. Me lo disse nel periodo in cui mi girava la testa ogni volta che provavo a camminare e stare troppo seduta mi faceva venire tutti quei problemi posturali. Potevo stare in piedi, ferma. Tornare alla mia vita di animale da stalla. 

Ovviamente gli chiesi il perché di quei giramenti, e davanti a tutti gli esami disse: «Mah, sarà l’equilibrio». Col tempo ho capito che se un medico non ti caga, è un ottimo segno. Vuol dire che sei clinicamente poco avvincente. Quello che è stato l’atto più sconvolgente dei miei 35 anni di vita, per lui era un lunedì mattina. Mi ci sono voluti mesi di livore per le mancate risposte prima di capire che il problema non era lui, ero io, che stavo troppo bene per le sue attenzioni. Ma io ci casco ancora, e forse è questa mia ottusità il motivo per cui vorrei che questo settembre non arrivasse mai. Per il mio medico le opzioni sono due: la prima è che ci sia una piccola malformazione che probabilmente stava lì dalla nascita e che va tolta in radiochirurgia, la seconda è che non vedremo nulla e non sapremo mai come è successo. Il mistero della seconda opzione infastidisce il mio medico, ma alla mia domanda «E che succede se non si trova nulla?» lui rispose «Se non c’è niente, non recidiva», e da quel momento sogno una risonanza immacolata e di rispondere alla domanda «Come mai ti è successo?» con un sagacissimo «È stata la mano di Dio». In realtà già do delle risposte carine su cosa mi ha provocato l’emorragia, spesso quando qualcuno mi fa arrabbiare dico che quando farò la risonanza mi troveranno sul sito dell’emorragia la sua faccia. Faccio le battute sul fatto che dovranno rimuovere chirurgicamente quella faccia. Poi penso che potrebbero dovermi davvero togliere qualcosa chirurgicamente, e impongo le mani sulla scatola delle benzodiazepine. 

«Che cosa farai a settembre?», mi chiedono persone che a volte neanche sanno cosa è successo a ottobre dell’anno scorso, quindi devo spiegare l’antefatto per dire che non so di preciso cosa farò, perché ho due giorni in ospedale che mi diranno cosa farò nell’inverno seguente. Potrei essere liberissima, potrei esserlo un po’ meno.  Raccontare questa vicenda ora che i problemi sono pochissimi e i miglioramenti enormi è quasi un piacere. Vedo la faccia di chi pensa che quello che mi è successo è il peggior incubo, mentre per me diventa un lunedì mattina un po’ particolare. Poi di fronte all’eccesso di incognite, declino qualsiasi offerta mi venga fatta. Per me non è così strano dire «no» a delle offerte di lavoro: una volta trovato un impegno soddisfacente che paghi le spese e mi permetta di risparmiare qualcosa, il resto viene attentamente valutato e spesso rifiutato perché non mi reputo all’altezza o semplicemente, perché preferisco poltrire. Ora dico «no» immaginando lo scenario peggiore. Forse era questa la «vita di prima» che intendeva il medico, quella in cui la risposta è «no», in attesa che a ottobre qualcuno mi chieda «Cosa hai fatto a settembre?» per potergli rispondere «Mah, un paio di visite, per il resto un cazzo».