Marco Risi

ARTICOLO n. 85 / 2023

TRASFORMARE LA REALTÀ IN UNA STORIA

Non avrei mai pensato di intervistare mio (ora ex) marito, ma la vita è bella perché imprevedibile e dunque eccomi qua, a fare domande al regista Marco Risi, padre di mio figlio. Parleremo di cinema, argomento che lo interessa più di ogni altro, e salvo il fatto che risponderà alle mie domande allungato sul divano a piedi scalzi, i crismi di una vera intervista saranno rispettati, mi è bastato schiacciare il tasto play del registratore per materializzare un diaframma perfetto.

Francesca d’Aloja: Hai cominciato a lavorare nel cinema nel 1982, le motivazioni che ti hanno spinto a intraprendere questo percorso sono sempre le stesse o sono cambiate in corso d’opera?

Marco Risi: In realtà ho cominciato un bel po’ prima: nel ’70 come assistente alla regia di mio zio Nelo e poi con Alberto Sordi, Duccio Tessari e il mio amico Carlo Vanzina. Però, sì, le motivazioni sono sempre quelle.

F. d.A. E cioè?

M. R. Il desiderio di raccontare, di trasformare la realtà in una storia. Fin da piccolo, quando qualcosa succedeva intorno a me, a casa, o per strada, fantasticavo su come tramutare ciò che vedevo in immagini proiettate su uno schermo. Da ragazzo andavo anche tre volte al giorno al cinema, e ancora ricordo la sensazione, uscendo dalla sala, di sentirmi diverso rispetto a quando ero entrato. Sono cresciuto con il cinema, non soltanto da un punto di vista familiare. Certamente il fatto di avere un padre regista probabilmente mi ha condizionato.

F. d.A. Anche se tuo padre tendeva a separare la vita privata da quella professionale…

M. R. Sì, è vero, non ci coinvolgeva, a me e mio fratello. Non ci portava sul set per esempio. Però quando da ragazzo ho attraversato un momento difficile fu lui a propormi di collaborare insieme a Bernardino Zapponi alla stesura della sceneggiatura di Caro Papà.

F. d.A. Trovo molto interessante che tuo padre ti abbia fatto “debuttare” in un film che metteva in scena un figlio (terrorista) che vuole uccidere il padre… materiale ghiotto per uno psicanalista!

M. R. Allora potremmo aggiungere che il ragazzo incappucciato che spara al padre, interpretato da Gassman, è mio fratello Claudio! Forse ha prevalso il passato da psichiatra di papà.

F. d.A. Dopo questo “battesimo” ti sei sentito “autorizzato” a cimentarti nel suo stesso mestiere?

M. R. Oddio, no. Non ho mai espresso apertamente il desiderio di fare il regista, me ne sono guardato bene… In fin dei conti non cercavo un’investitura da parte sua, me la sono cavata da solo, anche se ogni tanto gli facevo leggere delle cose che avevo scritto, sketch, piccole scene, davanti alle quali reagiva o con freddezza o con indifferenza… Insomma, diciamo che non è stato molto incoraggiante. Probabilmente voleva mettermi alla prova e valutare se il mio fosse soltanto un desiderio, diciamo così, fatuo.

F. d.A. E alla fine hai fatto il tuo primo film.

M. R. Sì, anche se avrei voluto esordire con il mio terzo film [Colpo di fulmine, n.d.r], una storia che sentivo molto più consona ai miei gusti, però le condizioni per farlo non erano ancora mature e ho optato per una commedia, Vado a vivere da solo, che mi servì più che altro a dimostrare le mie capacità. Quando lo vide mio padre il suo commento fu: “Sei un professionista”. Non ho mai capito se fosse un complimento. Non credo.

F. d.A. Il protagonista era Jerry Calà, che hai scelto anche nei due successivi.

M. R. Sì, dopo Vado a vivere da solo girai Un ragazzo e una ragazza, scritto insieme a Furio Scarpelli. Andarono entrambi molto bene, e questo mi incoraggiò a realizzare Colpo di fulmine, il racconto di un amore platonico e tutt’altro che morboso fra un trentenne nevrotico bisognoso di innocenza e una bambina di undici anni. Lo proposi a vari attori, fra cui Nanni Moretti, ma il successo dei due precedenti impose la partecipazione di nuovo di Jerry Calà, senza il quale non sarei riuscito a montare il progetto. Però quella volta non andò così bene, tanto che mio padre, attribuendo gli scarsi incassi alla presenza di Jerry Calà, se ne uscì con una delle sue fulminanti battute: “Levategli l’accento”.

F. d.A. Poi, a un certo punto, la svolta. Basta commedie.

M. R. A me piacciono molto le commedie, però fu grazie a Scarpelli che cambiai, se vogliamo dire così, direzione. Nel periodo in cui lavoravamo insieme mi segnalò una sceneggiatura, scritta da Marco Modugno, ambientata all’interno di una caserma. Non era certo una commedia, trattava di abuso di potere, nonnismo, conflitti generazionali. Mi sembrava interessante. Insieme a Stefano Sudrié e Scarpelli abbiamo apportato delle modifiche alla sceneggiatura originale e così è nato Soldati 365 giorni all’alba. Si apriva per me un nuovo capitolo che con Mery per sempre, arrivato subito dopo, ha trovato la sua quadratura.

F. d.A. Con quel film, per il quale fu coniato il neologismo “neo-neorealista”, hai avuto la sensazione di aver trovato la tua personale chiave espressiva?

M. R. È stato un passo importante per la mia vita. Lavorare con ragazzi senza nessuna esperienza cinematografica, avere a disposizione una “materia grezza” e dunque purissima mi ha stimolato a osservare le cose, e se vogliamo la realtà, da un altro punto di vista. Un’esperienza nuova che ho voluto replicare con Ragazzi fuori, seguito ideale di Mery per sempre. Avevo voglia di tornare a girare a Palermo e inoltre mi sembrava giusto offrire a quei ragazzi, alcuni dei quali davvero notevoli, un’altra occasione per esprimere il loro talento.

F. d.A. A te interessa avere uno stile? Riconoscerti in uno stile ed essere riconosciuto per uno stile?

M. R. Non so se posso ritenermi un autore, e non so nemmeno se la cosa mi interessi, mi considero semmai un artigiano. Più che al mio stile mi adeguo al film, vengo guidato dal sentimento che provo verso la scrittura, i personaggi… mi metto al servizio del film e non il contrario. Certo ogni tanto, mentre lavoro, mi chiedo: “ma si riconosce che è un mio film?”

F. d.A. È importante essere riconoscibili?

M. R. Se ambisci a essere considerato un autore, sì.

F. d.A. Facciamo un esempio: William Friedkin era un autore o un regista?

M. R. Friedkin era un grandissimo regista, i suoi film sono tutti diversi e non riconoscibili, però è fuor di dubbio che nessun altro avrebbe potuto fare l’Esorcista come l’ha fatto lui. E non solo quello, pensiamo a Cruising. Esiste una schiera di registi, di grandi registi, soprattutto americani, che non vengono ricordati come autori. Se per esempio oggi fai il nome di John Sturges, in pochi sanno chi sia, eppure ha realizzato film come La grande fuga, I magnifici sette o il dimenticato Giorno maledetto, bellissimo, con un formidabile Spencer Tracy nella parte di un veterano di guerra senza un braccio, che va a indagare su un fattaccio avvenuto in uno sperduto villaggio del sud e scopre che tutti gli abitanti sono colpevoli. Chi non si considera autore in un certo senso è più libero, sia di sbagliare che di fare grandi film. Inoltre la definizione di autore è ambigua:Scorsese è indiscutibilmente un autore, però non scrive i suoi film, mentre qui difficilmente un autore viene considerato tale se si limita alla regia.

F. d.A. È difficile oggi capire quale direzione stia prendendo il linguaggio cinematografico. Un tempo i “generi” connotavano un’epoca, più precisamente dei decenni: il neorealismo del dopoguerra, la commedia all’italiana degli Anni Sessanta, i film d’impegno Anni Settanta, …

M. R. I linguaggi si sono moltiplicati e il cinema si è parcellizzato in nuove forme espressive, frantumandosi. Se ci pensi bene, in tutti quei film, pur con approcci diversi, si raccontava la realtà. La commedia all’italiana, ad esempio, ha rappresentato la società italiana meglio di qualsiasi altra forma espressiva, idem il neorealismo e, in fondo, si potrebbe dire che anche la commedia all’italiana era neorealismo, in chiave comica. Una volta chiesi a Scarpelli perché avessero smesso, lui e i suoi colleghi sceneggiatori, di raccontare il nostro paese con la stessa ferocia e leggerezza di un tempo. Lui rispose che l’insorgere dei cosiddetti anni di piombo aveva messo fine all’ironia. Nessuno avrebbe osato fare una commedia sulle Brigate Rosse. Io penso invece che si sarebbe potuto tentare di sbeffeggiarli, di avere questo coraggio. Con mio fratello avevamo anche scritto un soggettino nel quale le Brigate Rosse entravano in crisi con un ostaggio perché si stava avvicinando l’estate, le vacanze! Comunque sì, il racconto degli Anni Settanta nel cinema si alternava fra film d’impegno e commediole inoffensive, ma la capacità di rappresentare la società con quell’insolenza, quell’amarezza, quel saper far ridere graffiando si sono via via perduti.

F. d.A. Così come il filone dei film “d’impegno” portato avanti da Petri, Rosi, Pontecorvo e poi Bellocchio, Bertolucci, …

M. R. Già. La società si è progressivamente disimpegnata, grazie anche o sarebbe meglio dire per colpa dell’arrivo delle TV commerciali, e così i registi che dovevano rappresentarla, quella realtà.

F. d.A. Anche tu ti sei cimentato con i film d’impegno.

M. R. Sì, ma al contrario dei registi che hai menzionato, dalla forte connotazione politica, io ho cercato, semmai, di fare film d’inchiesta.

F. d.A. Non posso fare a meno di citare una tua frase che la dice lunga sul tuo impegno, o meglio disimpegno, politico: “Io non ho fatto il ’68 perché abitavo sulla Cassia”.

M. R. Ecco, appunto. È una battuta ovviamente, ma non così lontana dalla realtà. Mi sono sempre tenuto a una certa distanza dalla politica, nella vita come nella professione. Ho scelto la strada dell’inchiesta, stimolato da Andrea Purgatori, con il quale abbiamo scritto Il muro di gomma sulla strage di Ustica e Fortapásc sull’omicidio del giornalista del Mattino Giancarlo Siani.

F. d.A. Com’è nata la vostra collaborazione?

M. R. Mentre giravo Ragazzi fuori a Palermo si presentò il produttore Maurizio Tedesco accompagnato da Andrea Purgatori, che non conoscevo personalmente, per sottopormi il trattamento de Il muro di gomma, scritto da Andrea a seguito del suo lungo lavoro di indagine sulla tragedia del volo Itavia. Inizialmente non ero completamente convinto, ma l’incontro con Giovanna Giau, vedova di Alberto Bonfietti, morto nella sciagura, cambiò il mio atteggiamento. La bellezza del suo sguardo, l’assenza di risentimento e la pacata rassegnazione riguardo all’impossibilità di arrivare a una verità, anzi, alla verità, mi convinsero che fosse giusto fare il film, eticamente giusto.

Lo stesso avvenne con Fortapásc: l’incontro con il fratello di Giancarlo Siani fu determinante per convincermi a realizzare il film, il fattore umano vince sempre sulle parole. Ricordo ancora quando a casa sua mi mise sulle ginocchia le camicie di Giancarlo, un gesto di fiducia che non ho dimenticato. Dei film scritti insieme ad Andrea, Fortapásc è quello a cui sono più legato, e pensare che non ci siano più né Andrea né Picchio [Libero De Rienzo, che nel film interpretava Siani, n.d.r], né Corso Salani del Muro di gomma mi rattrista molto. 

F. d.A. L’uscita del film Muro di gomma fu determinante per la riapertura dell’inchiesta su Ustica.

M. R. Non esattamente, diciamo però che contribuì a tenere le luci accese, sì. E certamente è stato per me e per Andrea, che su quei fatti aveva indagato con tenacia, motivo di grande orgoglio. Al di là del valore artistico, un film può aiutare a riaccendere l’attenzione su fatti che la cronaca, e non solo, tende a dimenticare. Rivedendo il film mi accorgo che avrei potuto raccontarlo in maniera meno diretta, io penso che la realtà si possa restituire anche inventandola. Non è necessario, anche quando si tratta di fatti realmente accaduti, essere fedeli alla loro veridicità. La realtà può essere interpretata senza essere tradita, è questo ciò che fanno gli artisti. Altrimenti tanto vale fare un documentario. Ogni tanto è bello prendersi delle libertà, tentare degli azzardi. Ecco, forse è proprio l’azzardo ciò che oggi, spesso, manca nel cinema. Detto questo Andrea Purgatori mi manca tantissimo e con lui si stava pensando a un altro progetto, un altro film, ancora una volta su un giornalista: Mino Pecorelli.

F. d.A. Senza nulla togliere all’importanza dei film d’inchiesta, che come abbiamo detto possono contribuire mediaticamente a illuminare le zone d’ombra su fatti e misfatti, personalmente sono un po’ stufa dei film “tratti da una storia vera”. Nella letteratura come al cinema si è persa la voglia di inventarle le storie, non credi?

M. R. Mah, diciamo che un po’ si è perduto il gusto del racconto, dell’invenzione, lo si vede anche dalla quantità di remake. Oggi si privilegia l’autofiction, si raccontano storie personali legate comunque alla realtà. Io nel mio piccolo ci ho provato con L’ultimo Capodanno (tratto dal libro di Niccolò Ammaniti, n.d.r.), a fare un film che di realistico aveva ben poco, ma come sai non è andata molto bene.

F. d.A. Uno dei più grandi flop del cinema italiano! Diventato però un cult movie.

M. R. Si è creata una piccola setta di cultori. L’insuccesso clamoroso de L’ultimo Capodanno è tuttora un mistero, ma d’altra parte l’esito commerciale di un film è sempre imprevedibile. Contribuiscono tanti fattori, nessuno dei quali può essere previsto in anticipo. Sono molto legato a quel film, mi sono divertito, sia durante la stesura della sceneggiatura con Niccolò che sul set.

F. d.A. A chi lo dici… 

M. R. Facevi una bella fine! [il personaggio che interpretava Francesca veniva trafitto da un razzo scagliato da uno dei condomini del palazzo in cui era ambientato il film, n.d.r.]Quella scena era piuttosto complicata. La macchina da presa, che era stata fissata con una carrucola su dei cavi, doveva precipitare dall’alto e arrestarsi a pochi centimetri dal tuo viso… Il macchinista mi sussurrò in un orecchio: “Quanto me dai se non la fermo?”

F. d.A. Già, il solito cinismo der cinema! Delle diverse fasi creative di un film quale ti piace di più?

M. R. Al primo posto metto la fase delle riprese, poi la scrittura e infine il montaggio. Sul set c’è vita, confusione, mi piace avere gente intorno e governare la nave.

F. d.A. Al di là delle capacità professionali, cosa non può mancare a un regista?

M. R. L’energia. Se ti manca l’energia è finita. Sul set è molto importante comunicare entusiasmo e passione. Altra regola è quella di non mostrare, se mai dovesse presentarsi, la propria indecisione. La troupe deve poter contare sulla determinazione del regista, altrimenti non ti segue e vai a sbattere sugli scogli.  

F. d.A. Molti registi si sono legati professionalmente a uno specifico attore dando vita a connubi artistici indissolubili, penso a Fellini con Mastroianni, Scorsese con De Niro (e adesso con Di Caprio), Sorrentino con Tony Servillo, De Sica con la Loren e lo stesso tuo padre con Gassman. Quando questo accade penso sia una fortuna per entrambi, non credi? 

M. R. A me piace lavorare con gli attori, diciamo però che preferisco i non professionisti. Con gli attori di mestiere possono sorgere dei conflitti, soprattutto se metti in discussione la loro preparazione, e in quel caso spesso parte un tira e molla spiacevole. Gli attori sono fragili, hanno bisogno di essere accuditi. Ultimamente ho abbandonato l’utilizzo del combo per tornare a stare accanto alla macchina da presa, così da seguirli in diretta, stargli accanto, vicino. Credo sia più rassicurante per loro. Il fatto è che io so quello che voglio, ma più che altro so quello che non voglio, e quando un attore fa qualcosa che non voglio, che non mi piace, allora intervengo drasticamente, ma se propone una modifica, un suggerimento riguardo al suo personaggio che ritengo giusti, ben venga. Detto ciò, quello che dici è vero. Stabilire un forte rapporto con un attore, un’attrice, non solo favorisce il lavoro ma anche i tempi di lavorazione poiché l’intesa annulla le divergenze, ci si capisce al volo senza bisogno di spiegare, diventa tutto più fluido. Inoltre si costruisce qualcosa insieme, si va nella stessa direzione.

F. d.A. C’è un attore in particolare con cui ti piacerebbe lavorare?

M. R. Joaquin Phoenix. Non succederà mai, lo so. Lui è un grandissimo attore. Va oltre: imprevedibile, folle e pieno di talento. Sicuramente è bello lavorare con i professionisti, a me però fanno arrabbiare quelli che mettono in discussione la sceneggiatura dimenticando che su quella virgola, su quella parola, su quel punto esclamativo lo sceneggiatore ci ha passato del tempo, ne ha discusso insieme agli altri sceneggiatori prima di decidere, e quando l’attore si presenta sul set senza aver studiato la parte adducendo la scusa che “sennò viene meccanica”. Ma io ti piglio a calci in culo! Altro che meccanica!