Vinicio Marchioni

ARTICOLO n. 36 / 2024

VENTI GIORNI PRIMA

Pubblichiamo un estratto da Tre notti (Rizzoli). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Non lo vedeva da quel giorno all’ospedale. Andrea scorse la Fiat 127 parcheggiarsi davanti al cancello di casa loro. Da dietro la tenda della finestra del salone che dava sulla strada, vide scendere suo padre e stentò a riconoscerlo. Era magrissimo. Gli sembrò anche più alto. Lo vide chiudere lo sportello della macchina faticosamente, come se pesasse dieci volte di più. Gli sembrò che avesse la testa più triangolare, rispetto alla forma che ricordava. Vide suo padre appoggiare le mani sul cofano della macchina per riprendere fiato, poi incamminarsi verso la salitella che conduceva al portone. Prima che sparisse dalla sua vista, notò che gli abiti gli andavano grandi. I pantaloni erano stretti intorno alla vita sottile, mentre le gambe sembravano non esserci dentro alla stoffa, per quanto era abbondante. Camminando in modo incerto e appoggiandosi alla ringhiera del cancello, Dante sparì dalla vista di Andrea.

Ora l’uomo stava suonando al campanello di casa. Quella che era, ancora, casa sua.

La madre andò ad aprire. Il fratello era seduto al tavolo nella sala da pranzo, apparecchiata a festa, con tanto di tovaglia e servizio buono, per l’occasione. Andrea stette in piedi, tra la porta della sala e l’ingresso. La madre aprì la porta e, forse, non era pronta neanche lei a trovarsi davanti quel che restava di un uomo mangiato da un cancro.

Dante la salutò, con una voce che stentava a farsi udire. Come se il fiato non arrivasse a sostenerla.

La madre lo prese per mano e lo sostenne per sorpassare la soglia. Poi si girò verso Andrea, per farsi aiutare a farlo camminare.

L’uomo alzò lo sguardo sul figlio, riuscì a dire un ciao e a sorridere di una gioia che sembrò reale, nel rivederlo e nel rientrare dentro casa sua. Si guardò intorno, mentre lo sorreggevano verso la sala da pranzo. Ad Andrea parve talmente stanco da essere sul punto di addormentarsi. Arrivarono in salone, aiutarono Dante a togliersi un goffo borsello a tracolla che non gli avevano mai visto e il giubbotto, che gli stava come fosse di qualcun altro. Dante fece una carezza sulla testa del secondo figlio, rimasto seduto, composto e immobile. Forse ebbe paura di quell’immagine di uomo dalla cera grigiastra, con la pelle sottile e gli occhi enormi incassati in una testa tremendamente magra. Dante si sedette in quello che era stato da sempre il suo posto a quella tavola. Andrea ebbe la sensazione che si potesse spezzare se avesse fatto un movimento brusco. La madre era preoccupata e stupita. Disse al marito che non sarebbe dovuto venire in quelle condizioni, che guidare era pericoloso e che aveva messo in pericolo lui e gli altri per strada. Dante rispose che stava bene e non c’era pericolo. Andrea aiutò la madre a portare i piatti in tavola, tortellini in brodo, mentre il padre scambiava le parole che poteva con il figlio piccolo.

Mangiarono pressoché in silenzio. Dante ogni tanto chiudeva gli occhi, per riaprirli subito dopo. Oppure fissava lo sguardo in modo assente. La madre continuava a far finta di niente e a incitare i figli a parlare, a raccontare al padre qualcosa della scuola. Dante chiese di andare in bagno. Lo accompagnarono, gli chiesero se avesse bisogno di aiuto, ma lui disse che no, non ce n’era bisogno. Andrea e la madre chiusero la porta del bagno e tornarono in salone. La donna spiegò ai figli che era l’effetto delle medicine, fortissime, contro la malattia. Stettero in silenzio, anche per ascoltare ogni minimo segno che arrivasse dal padre. Non sentirono nulla per svariati minuti, allora si alzarono e prima stettero all’erta in corridoio, indecisi sul da farsi, poi aprirono la porta.

Dante dormiva seduto sul water, con la schiena sottile poggiata al muro e le braccia abbandonate lungo i fianchi.

Allora la donna lo destò con delicatezza, e nel farlo notò lo sgomento di Andrea, che osservava e stava pronto ad aiutare.

Dante sembrò riprendersi. Lo aiutarono a rivestirsi e, a quel punto, mentre gli stringevano la cinta dei pantaloni, Andrea realizzò quanto magra e stretta fosse la vita del padre. Quanto magre fossero le sue braccia. Quanta fatica aveva fatto per arrivare lì, guidando dalla campagna.

La madre si offrì di accompagnarlo. Insistette a più non posso, ma non ci fu verso.

Dante salutò il figlio piccolo, tenendo più tempo possibile le braccia sulle sue piccole spalle e guardandolo insistentemente.

Salutò la moglie – ancora lo era, non avevano divorziato mai legalmente – e tentò di abbracciare Andrea.

Il figlio avrebbe voluto abbracciarlo fortissimo, ed essere stretto da lui, ma quello che ricevette fu simile a un lenzuolo appoggiato addosso, talmente poca era la forza che riuscì a mettere il padre nell’abbraccio.

Si staccarono e l’uomo restò per un attimo a guardare il figlio.

Andrea lesse negli occhi del padre un dispiacere e un dolore che lo scossero. Poi Dante abbozzò un sorriso, a lungo.

Guardò allo stesso modo la moglie. A lungo.

Fece la stessa cosa con il secondo figlio, che era in piedi nel corridoio, a lungo.

Non volle nemmeno essere accompagnato alla macchina. Girò le spalle da cui si percepivano le ossa delle scapole e, lentissimamente, richiuse la porta di casa dietro di sé.

La madre e i due figli si affacciarono sul balcone. Lei li tenne abbracciati da dietro. Lo videro aprire a fatica lo sportello della 127 blu, quasi si muovesse al rallentatore. Dante alzò lo sguardo un’ultima volta. Nessuno fece altro, se non guardarsi. Lo videro entrare in macchina, fare manovra con difficoltà e allontanarsi nella strada.

Fu il suo modo di salutarli e, forse, di chiedere scusa.