Giulia Paganelli

ARTICOLO n. 18 / 2023

L’ULTIMO BLOCKBUSTER SULLA TERRA

In Oregon è rimasto l’ultimo Blockbuster della terra. Un tempo questo colosso colonizzava col suo servizio di noleggio ogni città sufficientemente grande da poter contenere abbastanza appassionati di cinema, ma l’arrivo delle piattaforme di streaming ha via via eliminato questo gesto intimo e collettivo, la voglia di recarsi in un luogo, prendersi il tempo giusto e scegliere due o tre pellicole da fagocitare in una manciata di giorni. Però il Blockbuster Bend esiste e resiste, diventando un luogo quasi sacro nel tempo come lo fu l’Oracolo di Delfi: persone da tutto il mondo si recano in pellegrinaggio per replicare quel gesto nostalgico e famigliare o semplicemente per provare il brivido della prima volta. Durante il Super Bowl è andato in onda uno spot ambientato in un futuro post apocalittico in cui tutto è morto e polveroso, ma il Blockbuster Bend ancora vive e insiste nel perpetuare quel gesto: raccolgo la custodia vuota dallo scaffale, mi reco al bancone e in cambio mi viene fornita la pellicola che dovrò inserire obbligatoriamente in un lettore DVD se non addirittura in un VHS. Quale sarebbe il vostro ultimo film? Questa domanda mi risuona con lo stesso fastidio e la stessa apprensione di quando mi chiedono una classifica dei lungometraggi che ho amato di più. Sono quelle liste che rassicurano e trovano spesso una sistemazione comoda nelle somiglianze e nelle differenze che riscontriamo quando misuriamo noi stessi con le storie che ci hanno cambiato la vita. Allo stesso tempo, però, sono anche richieste leggere che non tengono conto della dimensione emotiva e privata, quel battito sordo in fondo al ventre, il posto in cui dormono tutti i racconti che in qualche modo per noi hanno significato cambiamento, aggiunta, una nuova coperta con cui avvolgersi di notte, la luce accesa sul comodino perché non sai mai che mostri possono nascondersi dentro l’armadio. Però continuo a pensare a quel Blockbuster, e se ormai ho rinunciato a scegliere un solo film per la mia notte, la parte che preferisco di questa intrusione dall’Oregon è senza ombra di dubbio la finestra spalancata sul videonoleggio che ha cambiato la mia vita.

Dovete sapere che la mia storia con i film è iniziata prestissimo, complice un padre che mi ha trasmesso quell’amore puro per le storie e un negozietto di Maranello che ogni venerdì riusciva a trovare almeno tre titoli in grado di stuzzicare la curiosità del mio vecchio. Quando tornava a casa dal lavoro faceva sempre finta di essersi dimenticato di fermarsi al videonoleggio mentre io gli saltavo intorno, smaniosa di sapere che cosa avremmo guardato nel weekend. Era un momento magico, oggi posso definirlo così con consapevolezza, perché come potrei spiegare diversamente quel movimento curioso che seleziona una storia basandosi su pochi elementi e che la fa sedimentare nel tempo e nello spazio per anni e anni, facendoci imparare a memoria battute e formule, mimare gesti e intere scene, cercare nel mondo reale quello che abbiamo visto trasmettere da un televisore? I più cinici diranno che non è magia, ma sono i neuroni specchio che impongono un processo di identificazione e che, queste nuove facce, noi le indossiamo per essere un’ipotetica versione migliore o per diventare completamente qualcun altro. Così nel tempo sono stata la Morgana di Excalibur (1981), la Deborah di C’era una volta in America (1984), Mia Wallace in Pulp Fiction (1994), la Jenny che urla in mezzo al Campidoglio per Forrest Gump (1984) e Laura Palmer, Shelly Johnson e Audrey Horne a seconda di come mi alzavo alla mattina nella mia personale Twin Peaks. I miei genitori non hanno mai posto troppi veti su quali film o meno avrei potuto guardare con loro, tanto meno sulle serie e gli sceneggiati che agli inizi degli anni ‘90 andavano ancora fortissimo in RAI. Non avevamo nemmeno un genere preferito, da validissimi spettatori assoluti guardavamo qualsiasi cosa, ed eravamo capaci di passare dalle musiche straordinarie de Il segreto del Sahara alla penna di Pupi Avati per Voci Notturne, una miniserie diretta da Fabrizio Laurenti che ancora oggi disturba il mio sonno. Ecco, in mezzo alla meraviglia dobbiamo riconoscere che il prezzo da pagare per una vita da spettatrice libera fin dalla prima infanzia è il bagaglio di incubi in agguato nei periodi di maggiore stress.

Tutte le storie che entrano dai nostri occhi creano fotogrammi che si agganciano a frammenti di emozione ancora in costruzione. Quando guardiamo un film o una serie TV si creano dei ponti tra noi e i personaggi dello schermo, e passeggiandoci sopra abbiamo il potere di indossare quelle maschere o metterle in bocca e masticare, ingoiare e digerire fino a renderle profondamente parte di noi. Crescendo e studiando ho capito che certamente la visione ha un potere emotivo, comportamentale ed economico enorme, spesso sottovalutato o sminuito, non solo sui singoli, ma anche sulla performance collettiva che ne scaturisce. Per quanto mi riguarda, ho ricordi vivissimi dell’estate 1991. Nonostante il caldo afoso sono certa di aver dormito con la coperta fino alle sopracciglia, abitudine che ho ancora oggi, e con le ascelle adese al corpo, stringendole fortissimo, per paura di essere morsicata. Avevo appena finito di leggere IT di Stephen King dopo aver guardato il film di Wallace con i miei genitori. Vorrei dirvi che crescendo le cose sono migliorate, in realtà ho solo capito che quella visione in me ha creato una scatola caricata a molla e che nei momenti di forte stress il coperchio si spalanca nella notte e fa uscire un pagliaccio con i denti lunghissimi che punta dritto alla mia ascella destra. Se è vero, però, che i prodotti audiovisivi non fanno morti, è anche vero che diventa fondamentale, nell’era dei social network, fermarsi sulla Vista come senso che distrugge e costruisce, entra ed esce, chiude e apre, generando piccoli spifferi o grandi correnti.

Nella storia dell’Occidente sono stati sterminati popoli interi a causa della Vista, sono stati emulati comportamenti omicidi, sono stati propagandati messaggi all’inconscio, senza consenso, e lavati più cervelli che medaglie apposte sulle divise. Secondo Michel Foucault è proprio attraverso gli occhi che riceviamo l’educazione più rigida su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, messaggio che viene veicolato dal modo in cui dividiamo i corpi in sani e malati, innocenti e colpevoli, conformi e non conformi. Il Blockbuster Bend e la mia prima pellicola sono parzialmente consapevoli di questo passaggio, perché la superficie economica è molto più spessa di quanto sia forte l’analisi socioculturale sottostante. Quando le storie raggiungono i nostri occhi si portano dietro comportamenti che noi potremmo adottare, modi di dire e di pensare, ma anche un’industria che vive esattamente di questa miscela tra noi e quello che vediamo. Il processo educativo e performativo della visione ha sempre un cuore economico, se non altro perché così è strutturata la parte di mondo in cui viviamo. Può essere un guadagno monetario immediato o a lungo termine, oppure la creazione di abitudini e consuetudini che, nel tempo, diventano terreno fertile per altre pratiche di guadagno che ancora devono essere inventate e che, a loro volta, saranno sfruttate nel qui-e-ora oppure si trasformeranno in un nuovo trampolino di lancio. La cosa vera è che quelle storie ci arrivano veicolate dai corpi rappresentati, e che questi involucri non sono semplici insiemi di cellule epiteliali e vasi sanguigni, ma una maschera semantica che attraversa la nostra pelle e instilla inevitabilmente qualcosa che può essere innescato o sfruttato da altre persone per ottenere qualche vantaggio. Non ho tardato molto a capire, per esempio, che il mio corpo sugli schermi non ha valore se non quando deve essere l’involucro del cattivo della storia, manifestare povertà estrema e isolamento, fare da stampella muta al protagonista o alla protagonista della storia. Il mio corpo è il mostro delle storie che preferisco, qualcosa di oscuro e maligno che deve essere sconfitto e risolto, annientato e silenziato. Mentre attacco il cavo HDMI al lettore Blu-Ray e faccio partire Buio Omega per la millesima volta penso a Phineas Tylor Barnum e alla sua gallina dalle uova d’oro, quello che lui decantava come The Greatest Show on Earth e probabilmente aveva anche ragione: il Freak Show

Nella seconda metà dell’Ottocento, a ridosso della seconda Rivoluzione Industriale, il Corpo riveste un ruolo sociale consolidato: dimmi cosa indossi e ti dirò chi sei. A seconda della forma del corpo, dei vestiti, del peso, dell’altezza, della mobilità, del colore della pelle, del sesso esibito, le persone potevano essere associate a precise categorie sociali. In realtà, il corpo ha sempre svolto questo ruolo perché primo baluardo a servizio, appunto, del senso della Vista. Ma nel corso dell’Ottocento l’acuirsi di trattazione politica e le filosofie sul lavoro e sul salario e i moti del 1848 e la crisi incontrovertibile dell’aristocrazia mettono la borghesia nella posizione favorevole per ereditare il potere della nobiltà – e con essi anche tutti i vincoli per mantenere quel potere – restando a contatto col popolo e non chiusa dentro la corte di un palazzo. Questo passaggio del potere dalle mani di un cerchio significativamente chiuso a una classe sociale larga e diffusa, a contatto diretto con le categorie più povere, impose la Vista come strumento atto a identificare, catalogare, sorvegliare e punire chiunque fosse considerato esterno al sistema stabilito di norme. In questo contesto storico trova terreno fertilissimo la monetizzazione della non conformità, un’operazione poderosa di marketing sociale in cui la legge della domanda e dell’offerta non è solo economica, come dicevamo prima. I Freak Show rappresentano la coperta di Linus di una classe sociale che paga per vedere la diversità trattata come un fenomeno da circo, l’esposizione circense di corpi considerati devianti che vengono ridotti a oggetto di divertimento per chi mantiene invece l’ordine stabilito dai poteri. Nelle fiere e nei luna park, persone con caratteristiche fisiche fuori dalla norma vengono esposte e usate per spettacolarizzare il mostruoso e renderlo remunerativo, certo, ma anche pedagogico nei confronti del pubblico: chi oserebbe mai non seguire rigorosamente i diktat sul corpo sapendo che una briciola di deviazione potrebbe portare loro a divenire bestie da esibire e umiliare pubblicamente? 

La parte, però, più interessante di questo fenomeno fu effettivamente il modo in cui andò a evolversi una volta sgonfiata la curiosità per la novità. Nel 1872 Barnum decise di lasciare New York, in cui inizialmente sostava il suo spettacolo, e di renderlo itinerante. In quel momento, buona parte dei materiali in vitro e collezionati a sostegno dello spettacolo furono donati alla Smithsonian Institution di Washington e alla Tuff University, contribuendo alla revisione della teratologia, lo studio della mostruosità: da disciplina di supporto per studi biologici e medici a brand strategy per l’attività museale e non solo. I Musei di Anatomia Comparata rivedono le loro collezioni e iniziano ad avere focus specifici sui corpi che maggiormente possono attirare l’attenzione del pubblico pagante. Ci sono teche piene di alcol con dentro feti fatti a pezzi, raccolte embriologiche complete dall’uovo fecondato al formato del nono mese di gravidanza, tanti preparati anatomici degli organi vitali, sezioni longitudinali e trasversali di corpi umani adulti. E poi ci sono i corpi interi, i mostri. Il rapporto tra le didascalie e le immagini è un esercizio di sapere e di potere del sapere perché, se alla vista abbiamo un mostro, le parole sono mutuate dalla medicina e acquisiscono criterio di veridicità. Guardiamo i mostri, ma siamo alleggeriti da eventuali turbamenti perché ci stiamo facendo una cultura. E funziona. Funziona fino alla nascita dei social network, che su questo principio del corpo da guardare e da incamerare come oggetto del nostro piacere senza alcuna coscienza sociale hanno costruito un impero e un inferno. 

Nelle scorse settimane molte persone hanno parlato del “trend delle ragazze col sondino” un naming affascinante e deleterio a sua volta per intendere ore e ore di dirette di ragazze vittime di anoressia nervosa e dei comportamenti degli utenti, dei genitori e del personale medico a riguardo. In alcuni casi si è arrivati a parlare di narcisismo delle ragazze che, ottenendo attenzione, ne vogliono sempre di più, ma anche di colpevolizzazione dei genitori che assecondano e promuovono questi spazi in cui le ragazze mangiano, per esempio, in diretta e gli utenti sotto applaudono o scherniscono. Eccolo, il Freak Show. Ci sono due aspetti non trascurabili quando si cerca di fare analisi sociali di questo tipo: 1) studiare e storicizzare il qui-e-ora sociale perché non ci interessa il gossip, ma la dinamica generale e imperitura del mondo in cui viviamo che non è spuntato in una notte ma in secoli 2) non trasformarci a nostra volta in Barnum, sfruttando i corpi altrui per portare avanti il nostro show personale. La dinamica che sottende ai trend di Tik Tok ha un’origine ben precisa nella Vista e nel potere che attribuiamo a questo senso, sia come mittenti che come destinatari. Così, il corpo che si mostra vuole essere visto non per narcisismo, ma per ingannevole necessità prodotta dal disturbo di cui è vittima. Ci sarebbe un enorme discorso sul reale consenso in questo senso, ma criticare l’agency delle persone demandandola completamente ai genitori o alle persone vicine non funziona perché, se da un lato abbiamo un disturbo grave del comportamento alimentare capace di uccidere le persone, dall’altro abbiamo persone non preparate a gestirlo e in totale improvvisazione. Mancano le strutture sanitarie adeguate, gli interventi domiciliari, i processi educativi per tutte le generazioni, non solo per le persone più giovani, perché di fronte a questi corpi tutti quanti – ripercorrendo le stesse dinamiche cognitive del pubblico del Freak Show – proviamo stupore e superiorità. Questo è quello che accade quando la Vista svolge il ruolo di selezionatore del nostro interesse perché in realtà non compie solo questa procedura, ma stabilisce un dentro e un fuori dal nostro perimetro. E visto che selezioniamo quel perimetro sulla base del nostro gusto personale, pensiamo non solo di avere una voce in capitolo, ma anche il potere di sottomettere quello che vediamo al nostro volere. Così il passaggio da corpo in esposizione a corpo che fa cose per soddisfare il pubblico è innescato dallo stesso filo che sorveglia e punisce, sottomette e plasma, educa e forma i corpi dall’inizio della loro rappresentazione. 

Il movimento che effettua il pubblico non è nulla di diverso dal gesto intimo e nostalgico riportato alla mente da quel Blockbuster Bend: sfogliamo una copertina dopo l’altra, ne selezioniamo una che potrebbe soddisfare il nostro sguardo e il nostro gusto, la appoggiamo sul bancone e aspettiamo di ricevere in cambio qualcosa da fagocitare in una manciata di giorni. Poi torniamo, riportiamo quanto ci avevano dato perché ha già finito il suo tempo e passiamo alla prossima. Alla prossima pellicola, al prossimo mostro, al prossimo trend.

ARTICOLO n. 7 / 2023

CORPO E IDENTITÀ A TAIWAN

Intervista a Chi Ta-Wei

Poco prima di Natale ho parlato con Chi Ta-Wei, l’autore di Membrana, romanzo distopico edito da ADD Editore. Quello che ne è uscito è un dialogo in cui ci siamo persi e ritrovati dentro terreni simili, ma mai identici, capaci di surfare sui corpi e sulle identità, ma anche di renderci uno spaccato etnografico sulla Taiwan di ieri e di oggi che smantella l’etnocentrismo a cui siamo abituati e ci conduce – con l’eleganza e la gentilezza Chi Ta-Wei – al silenzio orientato all’ascolto.
Partiamo. 

Giulia Paganelli: La prima cosa che ho pensato leggendo Membrana è che la definizione “distopia” non fosse più così esatta come nel 1995. Per quanto esistano dispositivi e tecnologie divergenti rispetto al nostro presente, il futuro raccontato in questo romanzo è terribilmente umano e plausibile: crisi climatica, razzismo, lotta sociale, corpi addomesticati, dinamiche di potere. Che nuova vita ha oggi Membrana rispetto alla sua pubblicazione? 

Chi Ta-Wei: Ho scritto la Membrana negli anni ’90, quando Taiwan è stata riaperta al mondo dopo il suo periodo di legge marziale (dalla fine degli anni ’40 alla fine degli anni ’80). Le persone nella Taiwan post-marziale erano molto curiose del mondo là fuori: i temi del cambiamento climatico (inclusa la distruzione degli strati di ozono) e del razzismo nei paesi occidentali erano già ben noti ai telespettatori di Taiwan a quel tempo. Lo studioso francese Michel Foucault era già molto in voga tra gli accademici di Taiwan, quindi ho più o meno imparato a conoscere “Punizione e disciplina” (del corpo) secondo Foucault dai miei professori universitari.

Molti lettori internazionali affermano gentilmente che Membrana sembra erudito. Ma devo ammettere che riflette semplicemente ciò che uno studente universitario medio, come me, ha imparato al college e dai media negli anni ’90.

Ma ovviamente Membrana, scritto negli anni ’90, sembra ironico negli anni ’20. Per esempio, in realtà i nostri buchi nello strato di ozono stanno guarendo! (secondo i programmi radiofonici che ascolto), eppure, allo stesso tempo, il nostro cambiamento climatico diventa molto peggiore di quanto potessimo mai aspettarci. Quando ho fatto il mio tour del libro in Italia nell’autunno 2022, i lettori italiani di ogni città mi hanno informato delle insopportabili ondate di caldo in tutta Italia in estate.

Membrana rifletteva una fase precedente dell’uso di Internet prima della comparsa di Google e dei social media. Ma i titoli di fantascienza (e non) pubblicati intorno al 2020 non possono aggirare la tirannia degli algoritmi che fanno soffrire molti di noi (soprattutto adolescenti). Membrana sembra non aver previsto la nascita e la prevalenza dei social media.

Se dovessi scrivere una nuova fantascienza, rifletterò sui mali dei danni causati dal cambiamento climatico, sulle sofferenze dei social media e sulle conseguenze nefaste del razzismo (contro le persone asiatiche e BIPOC) come abbiamo visto negli anni ’20.

G.P. Proviamo a fare un gioco. Siamo nel 1985 e devi raccontare a Donna Haraway il tuo romanzo senza usare la parola “corpo”.

C.T.-W. La domanda è affascinante. Il Manifesto Cyborg di Donna Haraway è stato effettivamente pubblicato nel 1985, mentre Membrana è stato pubblicato per la prima volta nel 1995. Ma immagino che non abbia molta importanza se mi immagino di essere nel 1985 o nel 1995.
Ecco:

Cara professoressa Haraway, 

sono un tuo ammiratore. Ho scritto un romanzo di fantascienza, Membrana, in cui una bibliotecaria più giovane (il cui genere è incerto) è risentita nei confronti della madre lesbica, che è una bibliotecaria anziana. La madre lesbica alla fine cerca di fare pace con la figlia alienata.

Definisco la parola “bibliotecario” in senso lato. Io stesso sono stato una persona molto nerd e libresca fin da bambino, e molti sconosciuti mi hanno chiesto perché sono così attaccato ai libri. Ad esempio, portavo spesso con me dei tomi anche quando andavo in discoteca da giovane gay, perché preferivo leggere piuttosto che ballare e flirtare con estranei. Ho anche portato libri da leggere nei bagni pubblici di Taiwan. È così difficile spiegare la mia idiosincrasia (con i libri), quindi mento semplicemente agli estranei dicendo che sono un bibliotecario di professione (non credo che la bugia sia convincente).

In Membrana considero i due personaggi dei bibliotecari, e li sento più o meno simili a me. Quando li chiamo bibliotecari, non intendo dire che lavorano nelle biblioteche o nelle librerie. Voglio dire piuttosto che lavorano con i dati: producono, fanno circolare, consumano e persino rubano dati. La madre lesbica è affermata perché sa come vendere dati ai consumatori. Momo, invece, sembra “ottimizzare” (una parola molto banale e popolare negli anni ’20) i dati dei propri clienti, ma in realtà ne abusa rubandoli.

Cara professoressa Haraway, lei è nota per essere una sostenitrice del “femminismo cyborg”. Secondo il suo studio, tutti sono cyborg. Trovo che la sua argomentazione sia molto correlabile al mio romanzo e a me stesso, ma direi che nel mio romanzo ognuno è più un assemblaggio di dati che un cyborg. Se guarda da vicino i miei personaggi, scoprirà che sono solo immagini di pixel.

G.P. Inutile nascondere che il mio interesse riguarda prevalentemente i corpi. Nella primissima pagina Momo pensa che “c’è un confine invalicabile tra il nostro corpo e le cose esterne”. Penso sia tanto lineare quanto vero e che quel confine si chiama Identità. In che modo questo libro voleva parlare di corpi e di identità? E oggi, mantiene la sua premessa? 

C. T.-W. Hai ragione, Membrana rifletteva la mia preoccupazione per i temi del corpo e delle identità negli anni ’90. E Membrana ha sostenuto che sia il corpo che le identità sono fluidi e persino artificiali: possono essere fabbricati da malfattori.

Il corpo e le identità negli anni ’20, tuttavia, sono più mutevoli di quanto immaginato in Membrana, e questo grazie all’egemonia di foto e video digitalizzati su Internet. I giovani di molte società (Italia e Taiwan incluse) vedono più corpi, soprattutto corpi nudi, rispetto a noi in passato, ma i corpi in questione sono generalmente rappresentazioni digitali (di solito alterate) di corpi piuttosto che corpi in carne e ossa. E non si può negare che molti giovani, soprattutto donne, siano rimasti sbalorditi nel trovare le foto e i video digitali del proprio corpo diffusi in rete e scaricati da migliaia di sconosciuti semplicemente perché le loro foto e i video realizzati durante le intimità sono stati diffusi non consensualmente (da ex- fidanzati o ex-fidanzate o hacker). Come insegnante universitario, mi trovo obbligato a parlare con studenti che potrebbero diventare fonti/vittime/consumatori di tali immagini trasmesse illegalmente. Ammetto che Membrana non prevedeva il caos della circolazione abusiva di tali rappresentazioni del corpo.

Le discussioni sulle identità diventano molto più trendy di quanto avessi mai immaginato. Potrei essere all’antica ora, perché sono sorpreso di scoprire che alcuni dei miei studenti “non sono più gay”, ma si dichiarano “non binari” o “transgender”. Sempre più giovani diventano simpatizzanti delle persone transgender e si arrabbiano molto quando scoprono che le persone transgender non hanno i servizi igienici che desiderano/meritano a Taipei. E molti giovani ora vogliono parlare delle loro complicate identità razziali: ovviamente non sono cinesi (e quindi molto diversi dalle persone in Cina), ma trovano che anche l’etichetta “taiwanese” non sia abbastanza precisa. Ci sono molte sottocategorie/sotto-identità sotto (o, oltre) “taiwanesi”: taiwanesi con antenati indigeni (e quale tribù indigena? Ci sono così tante tribù indigene a Taiwan…), o taiwanesi con alcuni antenati dalla Cina e alcuni indigeni antenati, e così via.

Ma devo anche ammettere che la comprensione dei corpi e delle identità all’interno di un college è ovviamente molto diversa da quella al di fuori di un college. Nella società taiwanese in generale, molti non sono abbastanza pazienti per capire cosa sia una persona transgender o non binaria, o come alcuni taiwanesi siano diversi dagli altri taiwanesi. Credo che i corpi e le identità mostrati in Membrana possano ancora sembrare bizzarri al grande pubblico di Taiwan.

G. P. Trovo geniale l’idea di prendere una cosa super mainstream e desiderata degli anni ‘’80 come l’abbronzatura a ogni costo e rivelarne il lungo termine. Penso che questo sia, tra tantissime cose, anche un racconto sulla nostra mala gestione del tempo data dalla velocità di esecuzione per ottenere un risultato immediato. Anche in questo Membrana prevede tanto del nostro attuale futuro. È un libro sui corpi, ma è anche un libro sulla richiesta costante di performance da parte dei corpi, non è vero?

C. T.-W. Abbronzarsi o meno rimane un problema a Taiwan. Molti di noi sanno che abbronzarsi potrebbe causare il cancro, ma onestamente i saloni di abbronzatura rimangono piuttosto popolari tra le persone gay di Taiwan (e tra le persone gay di molti paesi occidentali). Su Instagram vediamo spesso ragazzi giovani e belli mostrare torsi appena – artificialmente – abbronzati nei loro post. In realtà molti di questi ragazzi lo sanno bene: anche se abbronzarsi in questo modo non porta al cancro, sicuramente farà invecchiare troppo in fretta la pelle, esfoliando anche la giovinezza su cui puntano così tanto. Ma molti di loro non possono resistere al richiamo dei saloni di abbronzatura.

Ti farebbe sorridere, Giulia, sapere che al giorno d’oggi i taiwanesi spesso dicono casualmente che qualcuno (un’attrice, una cantante, o un amico, un parente) dovrebbe davvero “essere mandato in un negozio di automobili per la riparazione”. Significa che la persona in questione dovrebbe sottoporsi a un micro (o maggiore) intervento di chirurgia plastica. Trovo questo detto popolare esilarante, perché Membrana paragona un cliente sotto le dita del protagonista a una macchina in un’officina automobilistica. A Taiwan, negli ultimi 20 anni, sempre più giovani hanno iniziato a spendere molti soldi nelle cliniche di bellezza. E molti medici anziani si lamentano che molti dei loro colleghi più giovani lascino i grandi ospedali per le cliniche di bellezza, che pagano decisamente molto meglio. Ottimizzare le palpebre di un ragazzo è solo più redditizio che operare sul cuore di una vecchia signora.

G. P. Il passaggio sulla velocità e la fretta del risultato si rispecchia anche nei discolibri. Come cambia il rapporto tra corpo biologico e culturale in una società in cui modifica la materia ma non impara dai suoi errori perpetuando le stesse strutture di controllo e potere? 

C. T.-W. Vorrei risponderti da un’altra angolazione: possiamo riconsiderare il nostro rapporto con la velocità e l’urgenza? Possiamo riconoscere che non abbiamo bisogno di essere così veloci come speravamo, e che i cosiddetti bisogni nella nostra vita non sono così urgenti come presumevamo? Molti di noi riconoscono razionalmente di essere impazienti o addirittura violenti con i nostri cari e noi stessi quando siamo di fretta. Sappiamo anche molto bene che diventiamo più gentili con i nostri cari e con il nostro stesso corpo quando impariamo a rallentare il nostro ritmo.

È interessante notare il divario tra il corpo biologico e il corpo culturale. Onestamente, il nostro corpo biologico è così vincolato dalla biologia e non può essere veloce come speriamo. Quando i bulbi oculari cercano di mettersi al passo con gli aggiornamenti in continua evoluzione sui social media per ore, si seccano e alla fine si ammalano. I nostri bulbi oculari e i nostri cervelli saranno sovraccarichi e sull’orlo della distruzione/esplosione. Suggerisco di ammettere che il nostro corpo biologico non può essere sempre sincronizzato con il corpo culturale, che sembra non essere vincolato dalla biologia, in modo da poter essere sufficientemente restaurati per prendere decisioni con calma e gentilezza di fronte a coloro che esercitano violenza.

G. P. Arriviamo a parlare di corpi e di ascensore sociale. Anche in Membrana esistono corpi di serie A e corpi di serie B (androidi). Come raccontiamo i corpi non conformi nel mondo nuovo? Che tipi di marginalizzazioni sono plausibili e quali sono, invece, scomparse? 

C. T.-W. La tua domanda in realtà mi ricorda che forse ci sono quattro tipi, anziché due, di corpi in Membrana. Come dici tu, i corpi privilegiati, che devono essere ottimizzati dai corpi degli androidi; i corpi degli androidi, che vengono utilizzati per ottimizzare coloro che sono in grado di pagare per questa ottimizzazione. È chiaro che i corpi da ottimizzare rimarranno e prospereranno, mentre i corpi che vengono utilizzati per ottimizzare gli altri semplicemente scompariranno, come se fossero aziende più piccole da fondere con le grandi imprese tecnologiche. I più grandi divorano i più piccoli. Et voilà, è monopolio.

Oltre ai due tipi di corpi di cui sopra, tuttavia, finalmente riconosco che ci sono anche altri due tipi di corpi in Membrana: i corpi che possono sopravvivere sotto il mare (questi corpi includono sia l’umano che l’androide corpi) e i corpi (umani e non) che vengono lasciati sulle terre sotto il sole. La narrazione di Membrana è così concentrata sui corpi già sotto il mare che semplicemente ignora quelli che sono rimasti sulle terre. Sì, sulle terre ci sono androidi combattivi, che vengono menzionati di volta in volta nel romanzo. Ma sono rimasti anche esseri umani sulle terre? Il romanzo non parla di loro.

In altre parole, possiamo dire che coloro che sono al sicuro sotto il mare sono come i migranti che arrivano con successo nei loro paesi dei sogni (continente europeo e Regno Unito), mentre quelli che sono lasciati sulle terre e virtualmente lasciati morire sono come i migranti-to-be, che finiscono bloccati nelle loro terre colpite dalla guerra o bloccati nel mezzo del Mar Mediterraneo. Ciò che abbiamo imparato e visto sulla migrazione negli ultimi dieci anni mi spinge a pensare anche all’esistenza di questi ultimi due corpi.

G. P. Momo è un corpo in transizione. Noi lettori comprendiamo leggendo che questo movimento non ha a che fare tanto con l’operazione di rimozione del pene – raccontata come qualcosa di normale routine ma noi sappiamo che ancora oggi non lo è – quanto con la miscela che si crea tra Momo e Andy, il suo androide speculare. In quel momento ho provato lo stesso disturbo sentito mentre leggevo il traffico di corpi dell’antropologa Nancy Scheper-Hughes, ma anche Non lasciarmi di Ishiguro. Eppure siamo una società in cui i corpi sono oggetto costante e raramente soggetto, come possiamo invertire questa rotta, come possiamo smettere di essere il repository o la scorta di qualcuno posto su un gradino più alto della scala?

C. T.-W. Sollevi una questione importante, ma purtroppo in qualche modo sento che il traffico di corpi, insieme a quello di esseri umani, non cesserebbero, ma diventerebbero più complicati e più sfuggenti per noi da fermare. Il traffico di corpi a cui ti riferisci spesso deriva da una persona priva di un organo specifico, che acquista un organo sostitutivo da qualche altra parte, di solito rubato a un prigioniero politico o a una vittima senza fissa dimora. Non è una sorpresa che il traduttore in lingua inglese di Membrana, il professor Ari Heinrich, sia anche noto per le sue ricerche sul prelievo di organi in Cina. Il suo saggio più importante sull’argomento si chiama Chinese Surplus.

È interessante notare che in realtà si è occupato sia di scrivere il suo Chinese Surplus sia di tradurre la mia Membrana allo stesso tempo. In Chinese Surplus, Heinrich non vede la fine del business del prelievo di organi, ma osserva solo che ci sono variazioni crescenti di questo terribile business in questione.

Sappiamo che negli anni ’20 del 2000 siamo in un mondo con un contrasto ancora più drammatico tra ricchi e poveri. È altamente possibile che i poveri vengano costretti a vendere parti di loro stessi ai ricchi.

Inoltre, trovo che il traffico di corpi di cui parli non possa essere separato dal traffico di esseri umani in generale. Come una persona a cui manca un organo potrebbe desiderare un organo sostitutivo, una famiglia che ha bisogno di una domestica potrebbe desiderare di avere una ragazza a sua disposizione. Sembra che non ci si liberi mai dalle ombre del traffico di esseri umani. Molto tempo dopo la presunta fine della schiavitù e della tratta transatlantica dall’Africa alle Americhe, troviamo ancora casi di tratta di esseri umani di persone di ogni colore, di ogni continente, in varie forme.

Cito questo non solo perché il traffico di organi e corpi e il traffico di esseri umani condividono somiglianze, ma anche perché trovo che siamo sfidati dal problema del traffico di esseri umani online. Molti adolescenti scelgono di lasciare la casa per estranei, semplicemente perché sono convinti delle parole e dalle manipolazioni ricevute sui social media.E questi adolescenti finiscono per diventare ostaggi o essere rapiti. È una forma di tratta di esseri umani digitalizzata. E ho detto da qualche parte in questa intervista con te che molte giovani donne in tutta l’Asia scoprono che le foto o i video dei loro corpi nudi vengono diffusi online e scaricati da migliaia di sconosciuti. Queste donne vengono anche rapite o derubate online, ma arrivano a essere anche vittime della tratta di esseri umani. 

G. P. Membrana vuole essere un libro queer, o meglio, ha lo slancio di essere inserito nella letteratura queer, senza però fare affidamento all’auto-fiction, e il suo rinnovato successo proprio nell’anno del Nobel ad Annie Ernaux, che di questo genere ha fatto scuola, è molto interessante. C’è una conversazione lunga, secondo me, da fare sul transfert emotivo che l’esperienza personale usata come strumento innesca nel lettore, ma anche su quanta manipolazione attua. Per parlare di corpi non è necessario, secondo me, parlare della storia del proprio corpo, ma credo che sia impossibile parlare di corpi senza averne esperienza diretta. Ne parliamo?

C. T.-W. Mi piacciono e rispetto i libri di Annie Ernaux, in cui il suo candore mi sorprende e mi commuove. Ammetto che, quando leggo i suoi libri, mi chiedo segretamente se sono disposto a scrivere di me con un candore simile. La mia risposta ora è “no”. La mia personalità è semplicemente diversa.

In quanto donna soggetta a così tanti sguardi da uomini eccitati o ostili per decenni, Ernaux deve conoscere anche i vantaggi e gli scotti per farsi guardare da così tanti lettori in agguato sulla sua vita. Non sono una donna, ma sono cresciuto come un uomo gay in una società taiwanese un tempo molto omofobica. Negli anni ’90, quando ero uno studente universitario che cercava di esplorare la vita gay in un ambiente omofobo, ero propenso a fare in modo che la mia narrativa riflettesse le mie esperienze personali. Sapevo chiaramente che i lettori queer a Taiwan negli anni ’90 apprezzavano e preferivano la narrativa (locale o internazionale) che fosse più o meno autobiografica, poiché presumevano che una narrativa apparentemente autobiografica potesse aiutarli a conoscere i modelli di ruolo queer (il queer scrittore come personaggio queer della letteratura) così come conoscono se stessi, come se tale finzione fosse uno specchio sollevato sui volti di questi lettori.

Anche adesso, nel 2020, nonostante tanti lettori queer siano molto più esposti e orgogliosi di manifestare loro stessi a Taiwan, preferiscono ancora le opere letterarie che si suppone siano autobiografie. Senza mezzi termini, il voyeurismo funziona. Negli anni ’90 volevo essere guardato e allo stesso tempo odiavo essere guardato. Da un lato, avevo bisogno di essere abbastanza visibile da avere amici, alleati e incontri ero-romantici. Ma d’altra parte, non volevo essere molestato dai guardoni (sono stato molestato e perseguitato di tanto in tanto, quando ero giovane). A causa della mia mentalità contraddittoria, ho pubblicato due tipi di narrativa molto diversi tra loro nello stesso periodo. Ho pubblicato storie molto esplicite e sessuali sugli uomini gay negli anni ’90 a Taiwan, che potrebbero funzionare come finestre per coloro che vogliono guardare alla vita gay clandestina (alcuni di questi racconti sono già tradotti in inglese, ma nessuno è ancora disponibile in italiano, nda). E, contemporaneamente, ho pubblicato Membrana, che trasmette i miei pensieri “astratti” su corpi e identità negli anni ’90 ma che, stranamente, non mostra praticamente alcuna rappresentazione “concreta” di uomini gay. Penso che all’epoca di Membrana la percezione di essere guardato come un fenomeno da circo mi avesse stancato, così, nel romanzo, ho scelto di rappresentare solo donne (molto diverse da me) ma nessun uomo (l’unica eccezione è un omosessuale basato sul regista italiano Pier Paolo Pasolini, ma anche questo personaggio è al di fuori della narrazione piuttosto che al suo interno, nda).

In futuro sarò più felice di scrivere narrativa più speculativa, che non sia associata alla mia vita. Mi sento più libero di quanto non mi senta osservato. Dal momento che ci sono già molti scrittori taiwanesi che mostrano felicemente le proprie esperienze ero-romantiche e la vita familiare nel XXI secolo, non credo di aver bisogno di unirmi al loro campo, che è già molto affollato.

ARTICOLO n. 91 / 2022

NON SARAI MAI UNA PRINCIPESSA CON QUESTE CICATRICI

Il corpo culturale

Ho l’abitudine di camminare guardandomi sempre le punte dei piedi perché da piccola venivo costantemente ripresa per il mio modo trasognato di andare avanti scontrandomi spessissimo con pali e tombini. Non sarai mai una principessa con queste cicatrici. Le mie ginocchia erano un campo minato e le mie nonne erano solite dirmi che ero nata con la cerbottana al posto della corona. Quello che non tenevano in considerazione era che io non mi ero mai sentita poi così regale perché avevo imparato subito che le principesse hanno un corpo diverso dal mio, parlano spesso con i topi e vengono salvate dal principe che arriva nel momento giusto della storia, quello che impedisce, appunto, fratture e ferite. Ero certa di non voler parlare con nessun roditore, ma ero altrettanto sicura che nessuno sarebbe venuto a salvarmi dai miei mostri perché ero una di loro. 

Ho ripensato alle principesse poco tempo fa, una mattina d’estate in cui camminando per il centro di Modena sono passata davanti a un portone padronale con un buco, probabilmente causato da un calcio, nella parte inferiore di legno. Mi sono fermata per guardare qualcosa che ho colto solo perché sono stata addestrata a guardare per terra. La ferita aveva aperto uno spazio su un pavimento di ceramica tassellato in verde scuro e crema, un lavoro manuale davvero notevole, quasi romantico. Ho pensato che presto quel buco sarebbe stato riparato e di quel pavimento da ballo uscito da una fiaba ci saremmo dimenticati, perché, nonostante la sorpresa e l’illusoria potenza che solo un finto segreto sa dare, la sostituzione prende sempre il monopolio dei nostri slanci attentivi e, strato su strato, trasforma il cambiamento in normalità e la normalità in abitudine. La rottura del legno in qualche modo verrà digerita fino a trasformarsi in una tappa necessaria, un momento utile per ripristinare la struttura ma con nuovi materiali. Ricordo che dopo qualche istante un signore si è schiarito flebilmente la voce accanto a me e in quel momento mi son resa conto di essere rimasta più del tempo consono stabilito per guardare dentro casa di altre persone. Certo, con voi ora potrei giustificarmi dicendo dolcemente che stavo pensando al Kintsugi, arte giapponese di riparare le ceramiche rotte con l’oro perché diventino più belle e preziose, ma il fatto è che al massimo si arricchiscono senza, però, modificare la loro già decisa funzione: una tazza resta una tazza. Bellissima, certo, ma pur sempre una tazza. No, in realtà stavo pensando alle sale da ballo, alle scarpette di cristallo e al fatto che, nonostante tutti gli eventi lesivi ricevuti, il corpo culturale della Principessa è uno scrigno sigillato che ammiriamo dall’esterno nella sua bellezza, ne riconosciamo la forma e la funzione, prendiamo come benchmark per decretare il successo o l’insuccesso delle nostre vite amorose.

Mentre mi spostavo velocemente per far passare il signore e riprendevo a camminare verso il portico dall’altra parte della strada, ho pensato che come le porte anche i corpi culturali – quei modelli di cui parlavamo nell’articolo scorso, ricordate, le ombre nutrite di storie che si posano sul corpo biologico e ne colmano segni e marchi per trasformarli secondo il tempo e lo spazio – si rompono e si ricompongono cercando di mimetizzare la frattura e che non è il modo in cui assorbiamo quella dissincronia a renderci consapevoli della struttura, perché diventa una nuova normalità troppo velocemente per lasciare memoria. No, è quello che ci facciamo in mezzo che permette di vederne la striscia di polvere in controluce, il maldestro tentativo di raccogliere i pezzi senza prestare attenzione alle irregolarità, continuando a chiamare le cose col loro nome anche quando non lo sono più, per il momento almeno. Così, in quella mattina d’estate, pensando alle principesse, mi sono venute in mente Leslie Van Houten, Patricia Krenwinkel e Susan Atkins, le ragazze di Charles Manson.   

Joan Didion in The White Album ci fornisce le coordinate per navigare questo torrente melmoso. «Noi ci raccontiamo delle storie per vivere. La principessa è imprigionata nel consolato.» In questa auto-etnografia Didion mette in fila gli eventi a cui ha assistito dal 1968 fino alla fine degli anni ‘70. «Se siamo scrittori viviamo grazie all’imposizione di una linea narrativa sulle immagini più disparate, alle idee con cui abbiamo imparato a congelare la mutevole fantasmagoria che costituisce la nostra effettiva esperienza.» Nelle notti tra l’8 e il 10 agosto 1969 si consumarono l’eccidio di Cielo Drive e il massacro LaBianca, l’omicidio di sette persone condotto dalla Famiglia Manson. Conosciamo Susan, Leslie e Patricia da lì, dalla notte in cui uccisero Sharon Tate e gli amici che malauguratamente erano in quella casa per tenerle compagnia durante la gravidanza in assenza del marito Roman Polanski e da quella successiva in cui accoltellarono Leno e Rosemary LaBianca per punizione. A Manson, infatti, non era piaciuto il caos che si era generato a Cielo Drive e aveva deciso di salvare le sue ragazze da quel disastro, caricandole sul suo destriero e portandole a Waverly Drive, la casa dei coniugi LaBianca, per una pratica dimostrazione sul campo. «Sto parlando di un periodo – scrive ancora Didion – in cui ho iniziato a dubitare delle premesse di tutte le storie che mi fossi mai raccontata, una condizione comune, ma che trovo preoccupante.» Come una porta rotta da un calcio che lascia intravedere un pavimento bellissimo al suo interno, la cattura delle ragazze di Manson e il racconto che loro stesse portavano avanti della loro vita e di quella di Charles permise al pubblico di formulare un dubbio fino a quel momento scampato dalla velocità di riparazione delle crepe precedenti. La storia delle ragazze, infatti, era una fiaba perfetta in cui le fanciulle, denigrate da cattive matrigne e padri orchi, erano state salvate dal principe Manson che le aveva condotte nel suo castello e trasformate in principesse. Ed effettivamente il racconto filava perfettamente. Solo che, come regalo di nozze e al posto di un giardino di rose, c’era stato il ventre gravido squartato di Sharon Tate. Non era possibile per lo spettatore usare quelle idee atte a congelare e semplificare la «mutevole fantasmagoria dell’esperienza», perché erano quelle stesse idee a scoordinare il reale dalla narrazione. Se partiamo, infatti, dall’immagine – l’ombra di Platone, il corpo culturale – che appare nella nostra mente quando sentiamo pronunciare la parola “principessa” ci rendiamo conto che quel corpo non è fatto solo di componenti biologiche – anch’esse comunque pressoché standardizzate dal modello – ma che a quel corpo associamo diversi comportamenti sociali e biografici che contribuiscono, nel tempo e nello spazio, a mantenere in vita la struttura di quel corpo nonostante le rotture. Il pericolo arriva, infatti, non quando si rompe il modello, ma quando le parole e i discorsi del mondo reale rimandano a un corpo culturale che non si frattura per assorbire una realtà non del tutto combaciante, ma respinge totalmente l’associazione cognitiva. Quando dentro questo corpo culturale cadono le fratture del mondo reale e immoralmente trovano uno spazio che ci fa inorridire, quando il confine tra racconto collettivo e mostro si perde. Andando avanti e indietro per il corridoio pensando a come srotolare questa pergamena ho pensato che sia giunto il momento di scomodare Pierre Bourdieu e parlare di habitus

Bourdieu descrive l’habitus come lo spazio che si occupa attraverso una performance sociale competitiva composta da una serie di disposizioni e istruzioni acquisite, fondamentali per vivere all’interno di un campo sociale. Fa riferimento ai comportamenti che nel mondo reale permettono ad alcuni di superare altri, perché lo scopo dell’habitusè imporre una visione del mondo precisa, ruoli sociali, categorie cognitive e modelli attraverso cui guardare il mondo, percepirlo e tramandarlo da soggetto dominante a soggetto dominante, da maggioranza a maggioranza, tornando a quel fenomeno collettivo maieutico che produce ombre, corpi e mostri. Sono le parole, ancora una volta, a trasmettere strutture culturali, educative e plasmanti e non si limitano chiaramente a portare avanti ciò di cui ci rendiamo conto, ma anche tutto l’upside down a esse collegato e che arriva fino all’inizio della nostra storia. Così, quando le parole ci portano alla Principessa, noi, all’immagine, associamo una serie di comportamenti, spazi e performance in modo automatico: un castello fatato, un giovane paladino su cavallo bianco che salva la principessa, e vissero per sempre felici e contenti. Cosa succede se invece a questo corpo si aggancia una performance sociale imprevista, di eguale forza ma totalmente contraria a quanto preventivato, come il massacro di Cielo Drive? Be’, si crea una frattura come nella porta.

Foucault la chiama rottura epistemologica, cioè quel momento in terza persona di chi per un attimo viene distratto e riesce a guardare la storia da fuori, scoprendo che al suo interno si nascondono bugie. La struttura, infatti, e stabile e immutabile sono in apparenza. La scoperta, che quel corpo culturale, quell’insieme di storie – parole -, comportamenti tramandati e stabiliti dal plasmare collettivo, sono metodicamente resi invisibili e impercettibili, trasformati in abitudini in quanto inganno antico dell’Ombra di Platone. Quello che vediamo sul muro della Caverna, infatti, è una sequenza di discontinuità, di rotture e ferite che producono nuovi paradigmi conoscitivi che a loro volta modificano le regole del gioco per preservare il modello silente, il corpo della principessa. Nella frattura si insinua una luce, nella rottura riusciamo a vedere cosa si nasconde all’interno della ceramica perfetta del guscio e scopriamo le imperfezioni del modello, la struttura fragile. Dura solo un momento, però, prima che un altro corpo culturale prenda spazio nella narrazione per assorbire l’incongruenza, metta in scena un particolare e lo renda il nuovo punto d’attenzione nella storia.In questi giorni sono ripassata davanti al portone per ricordarmi la frattura, ma nella parte inferiore, quella un tempo spaccata, c’è un pannello di legno simile ma più nuovo rispetto al resto della struttura. Ho pensato che dovrebbero riammodernare anche il resto della porta, per eliminare quella discontinuità.  Ho provato a ricordarmi il motivo del pavimento, l’ho perso da qualche parte, ma quel nuovo pannello è esattamente nel posto in cui dovrebbe essere. Almeno, così mi hanno insegnato.

ARTICOLO n. 81 / 2022

ERO IO LA CATTIVA DELLE MIE STORIE?

Il corpo culturale

Ripeto ossessivamente gesti e comportamenti da sempre, costruendo una casa involontaria di costanti e sicurezze che, puntualmente, combatto e distruggo. Sulla soglia del buio, ovunque io mi trovi nel mondo, mi siedo sul gradino della porta d’ingresso e scrivo storie sui mostri. Lo faccio da quando, bambina, inventavo fiabe su quegli alberi enormi che sovrastavano la casa al mare, fissandomi sul momento preciso in cui la luce smetteva di filtrare e iniziavano a crearsi ombre sui muri delle abitazioni che potevo raggiungere a occhio dal mio balcone. Una danza macabra via via sempre più affusolata, che declinava progressivamente nella notte. 

Avevo imparato a riconoscere quella sensazione fredda e rigida sulla punta delle dita, l’artiglio leggero e nitido dell’inquietudine. Stavano per uscire i mostri da sotto al letto. Mi eccitava quel pericolo, il potere e la paralisi che ne derivavano, ma non avevo mai abbastanza tempo per poter far salire l’unghia fino alla gola, venivo puntualmente redarguita per aver fatto tardi a cena, aver fatto tardi per la doccia, aver fatto tardi per uscire. Prima di dormire, però, tornavo su quel tremito sommerso, e l’attrazione verso quel mondo non poteva che porre una domanda terribile, e bellissima, allo stesso tempo: ero io la cattiva delle mie storie?

Negli anni ho progressivamente smesso di andare tutte le estati in quella casa coperta dagli alberi, ma ho iniziato a riprodurre quel movimento tra luce e ombra in tutti i posti che mi hanno portata via da lì. L’ho fatto dal terrazzo spoglio del mio palazzo di Praga pieno di escrementi di piccione e di topo, dalla finestra dell’archivio storico di Sumperk mentre guardavo le foreste delle mie streghe, dai gradini di pietra della biblioteca scientifica di Harvard prima di un congresso, dal ponte del traghetto che mi riportava a Hiroshima. Ho guardato le ombre del mondo e le ho scritte, ho cercato nelle venature fluide che precedono il mondo lunare uno schema forse, sicuramente qualcosa che potesse, ancora una volta, costruire una casa di costanti e sicurezze su cosa sono i mostri, capire quando lo diventano, sapere se io alla fine sarei stata la cattiva della mia storia o, forse, se mai avrei avuto il coraggio di mollare la presa. Poi, una sera, seduta sul bracciolo del divano di casa mia, quello che guarda da una finestra davvero molto grande il resto del mondo dall’alto, ho smesso di fissare le ombre e di averne paura, buttandomici in mezzo. Lì, al buio, ho tirato forte dalla sigaretta e ho pensato alla caverna di Platone. 

All’inizio del settimo libro della Repubblica, Platone racconta di questi prigionieri incatenati sin da bambini dentro una grotta, il collo stretto, la faccia al muro. Possono vedere solamente le ombre che vengono proiettate grazie a ciò che avviene alle loro spalle: una porta da cui entra la luce si scaglia contro un muretto sul quale vengono depositati oggetti. 

In questa condizione, i prigionieri sono convinti che le ombre siano l’unica verità quando in realtà sono solo void areasche si colmano di ciò che loro vogliono vedere. Il mito prosegue con la liberazione di un prigioniero che, rendendosi conto delle statuette, comprende anche l’artificio dell’ombra e decide di uscire dalla caverna per vedere gli oggetti in piena luce. Ma, una volta tornato dentro per liberare i compagni, non essendo più abituato al buio viene deriso e non creduto. 

Nell’interpretazione tradizionale, le ombre rappresentano l’εἰκασία (eikasia) che nella lingua greca, da Omero in poi, conduce all’immaginazione e all’immagine. Dobbiamo andare con la testa sott’acqua per arrivare più vicini alla meta.L’immagine-ombra di Platone non è prodotto innocuo, ma qualcosa che si produce e si consuma solo offrendosi alla vista, capace di produrre eidolon, idolo, ed eikon, icona, rappresentazioni che appaiono verosimilmente reali ma nascondono, grazie alla radice in comune con la parola phantasma, la menzogna. L’ombra di Platone è, in sostanza, uno stereotipo contrapposto all’Idea che è archétypon, immagine primitiva e vera. Il gioco dell’ombra inizia da qui. Infatti, il movimento che compiono i prigionieri è quello di inserire nello spazio buio della proiezione un significato. Questo significato viene partorito da un processo collettivo che decreta cosa sia quel buio, cosa rappresenti e come si debba usare, in quel momento, all’interno della caverna. 

Successivamente, la definizione data all’ombra di quell’oggetto sarà un modello di comparazione che si adatterà nel tempo e nello spazio ai cambiamenti fisiologici. Infatti, se sul muro della caverna si proietta una delle prime ruote, ancora spigolate, quella diventa la ruota con cui verranno successivamente confrontate le altre che verranno chiamate tali. Ci saranno ruote viste e considerate idonee, coerenti, giuste, e altre che devieranno dal modello iniziale. Ma nel corso del tempo, quella che i prigionieri chiameranno Ruota cambierà notevolmente diventando rotonda, per esempio, ma continuerà a essere un modello a cui fare riferimento in modo meccanico perché precostituito. Ciò che permetterà l’adattamento al tempo che cambia e allo spazio che muta sarà ciò che i prigionieri decideranno di inserire o togliere via via che la conversazione tra loro genererà nuove dinamiche.

Seduta sul bracciolo di quel divano, buttando fuori il fumo dalle narici, ho pensato che le ombre sono solo corpi opachi fino a quando non vengono colmate di storie. Sono le narrazioni della notte dei tempi che forgiano la spada con cui tagliamo il nostro velo della percezione e, con buona pace di Schopenhauer, quello che troviamo non è mai un’immagine primitiva vera (l’archetipo), ma sempre un’immagine derivata e bugiarda (lo stereotipo), utile alla maggioranza per mantenere uno status quo. Non a caso, infatti, i prigionieri rimasti nella grotta deridono colui che torna.

La sorte dell’ombra non è diversa da quella di qualsiasi altro corpo. I corpi che indossiamo, infatti, vengono spogliati del loro valore biologico e rivestiti con modelli culturali e figure cognitive che in realtà non esistono, ma permettono di ordinare e dividerli tutti in tanti contenitori facilmente codificabili: magro/grasso, bianco/nero, abile/disabile, cis/queer, conforme o non conforme. Quando Aihwa Ong scrive Da rifugiati a cittadini, nel raccontare le prove che i cambogiani arrivati ai campi devono superare per poter accedere agli Stati Uniti si ferma sul decalogo dedicato al corpo. Come vestire, che odore emanare, quali espressioni facciali prediligere, quanto sia importante trasformare le linee marcate di differenza per poterle rendere amalgamabili con il nuovo contesto. «I segni e i marchi del corpo biologico vengono così riempiti di nuovo significato culturale, modulando il corpo culturale e uccidendo quello biologico»I corpi dei rifugiati cambogiani si svuotano di loro stessi per riempirsi dei nuovi modelli di riferimento o, se preferite, di nuove storie. Così, per esempio, l’odore delle spezie sui vestiti non resta mai solo una fragranza, ma si trasforma già in un ricordo affettivo perché viene colmato di racconti, famiglia e focolare. Questo modello, però, deve nuovamente svuotarsi e riempirsi perché nella nuova destinazione l’odore familiare ha altre caratteristiche predeterminate e ciò che per i cambogiani è abitudine negli Stati Uniti di nuovo diventa un segnale di pericolo, qualcosa su cui ci si gioca inclusione ed esclusione. I corpi culturali, come le ombre, sono fatti di sazietà ed esaurimento in un eterno movimento simile a quello paziente delle onde.

Ma se è vero che, come le ombre, anche i corpi vengono nutriti di storie, non è altrettanto vero che tutti i corpi si nutrono della stessa materia di cui sono fatte le ombre.

Come queste, infatti, anche i corpi vengono saziati di racconti collettivi che conducono a una formulazione precisa: creare mindful bodies, corpi pieni di mente, permette di inserirli all’interno di schemi predeterminati, e questi schemi diventano dei modelli a cui ambire o da cui fuggire. Il corpo del rifugiato cambogiano deve assoggettarsi alle regole imposte dal contesto culturale in cui approda per poter essere accettato e inserito nella scala normativa di riferimento. Ma anche il corpo femminile deve sottostare a diktat estetici per poter accedere alla società, seppur sempre subordinata alla soddisfazione dello sguardo maschile. E ancora, nessuno di noi esce nudo per strada ma sappiamo di doverci minimamente vestire.

Tutti i corpi, specialmente nel contesto occidentale, subiscono questo passaggio, perché le storie che raccontiamo intorno a un fuoco simbolico hanno un valore educativo e plasmante, individuale e collettivo. Fin dalla creazione dei miti e alla loro successiva evoluzione in leggende, eroi ed eroine – ma anche i mostri – sono fisicamente determinati e divisi in un rapporto dicotomico tra buoni, belli e moralmente retti, e cattivi, brutti e privi di morale.

Questo serve per generare un conflitto costante attraverso cui le dinamiche di potere si mantengono in vita. Se sappiamo cosa è sbagliato, per contrappasso troveremo ciò che è giusto e perseguibile. E qui si annoda l’ombra che per valore storico e culturale accoglie ciò che deve essere nascosto, la paura gelida che sentivo da bambina su quel balcone, i mostri.

L’universo delle narrazioni sommerse è popolato di creature dai corpi distorti, devianti e mutanti, quelli che sulla superficie diventano i corpi non conformi e, quindi, marginalizzati. Siamo noi, tutti i giorni, a tenere lo sguardo fisso sulla parete della caverna e usare gli stereotipi per decretare il nostro successo. La formulazione del corpo mostruoso riguarda le storie, certo, ma anche il modo in cui partecipiamo all’atto collettivo di partorire narrazioni e stereotipi che rispondano a una sola enorme domanda: sono io la cattiva della mia storia? Come i prigionieri della caverna di Platone, seduti spalle al fuoco, soli, guardiamo la parete su cui la paura di fallire, enorme, si proietta dimenticandoci di essere noi, in fondo, i mostri.