ARTICOLO n. 20 / 2022

ADDIO AL CALCIO

Ci allenavamo due volte alla settimana, noi dei Giovanissimi B, per il campionato della stagione 1980/1981. Io avevo sette anni e portavo una frangetta tagliata male. Ero il migliore della classe e masticavo chewing-gum per darmi arie da bullo, ma ero in realtà timido, effeminato e perdente. Tutto questo non impedì che entrassi nella squadra di calcio, non appena la Società Sportiva del paese si organizzò per metterne su una. I miei compagni di scuola, più atletici e fanatici di me, urlarono come scimmie quando si diffuse la notizia che ci avrebbero fornito gratis una muta professionale: maglie rosse fiammanti col numero dietro, pantaloncini immacolati bianchi, parastinchi e copri-parastinchi. Roba mai vista. Nessuno di noi aveva mai fatto parte di una squadra prima di allora. Io mi imbarcai nell’avventura soprattutto perché Marco, Michele, Gianni e gli altri thugs che frequentavo avevano detto sì; e perché all’epoca, in quel contesto di villaggio di provincia, semplicemente non ti potevi rifiutare, pena l’esclusione da tutto, l’isolamento sociale. A Badia si rischiava la derisione, la denuncia, il manicomio, la galera, a non seguire quello che facevano tutti: sia che si trattasse della decisione di non ricevere i sacramenti cristiani sia di quella di astenersi dal calcio. 

Era un misto di desiderio e di terrore; un incrocio fra il sentirsi inadeguati, non dotati, non atleticamente giusti, e l’essere sopraffatti da una irrefrenabile passione, da un raptus. Sentivamo che quella era l’occasione per superare una forma di giovanile vergogna, per dimostrare che non era peccato mettersi in mostra: il campo di calcio, lo avrei capito soltanto dopo, è prima di tutto un palcoscenico. Coi miei amici lo affrontavo a testa alta, e la paura bisognava farla passare. Perché di paura ce n’era eccome: il campo sportivo pareva sterminato e totalmente sproporzionato alle nostre coscine di rana. Il rettangolo di gioco incuteva terrore sempre, perfino il martedì e il giovedì, quando, senza né gli avversari né gli spettatori, a calpestarne l’erba eravamo soltanto noi e il Mister. 

Dante M. accettò con entusiasmo l’incarico di allenare noi ragazzini, perché era un ex calciatore dilettante, ma soprattutto perché quella per lui era una fantastica (e forse ultima) occasione di sogno e di evasione dalla realtà. Alto due metri, pesante cento chili, capello lungo biondo e baffo folto alla Roberto Pruzzo, fumava due pacchetti di Nazionali al giorno e beveva parecchi Campari, anche di mattina. Dante M. era un orango, uno yeti, un visigoto. Sempre sopra le righe, in maniera violenta e disperata cercava qualsiasi cosa che gli impedisse anche temporaneamente di lavorare. Eppure era un bravo cristo, una delle persone più pure e sincere che mi sia mai capitato di incontrare. In paese era un personaggio: gran frequentatore di bar, grande attore, eroe geniale della goliardia, della zingarata, della barzelletta volgare. Molto spesso gli capitava di fare a cazzotti con qualcuno, e noialtri, per questa sua fama di picchiatore, lo temevamo. Comunista, cacciatore, pescatore, tiratore al piattello, politicamente assai scorretto, ci chiamava «finocchi» con gusto sadico, faceva battute volgari sulle nostre mamme quando non ci impegnavamo nella corsa, dava del grassone al mio compagno di banco Bobo che era effettivamente sovrappeso. «Avanti Zeus, Dio della Braciola!» gli urlava. Ma in campo, con quel fischietto e i pantaloncini inamidati, sembrava un danzatore, mentre noi, ammaliati, zitti, lo guardavamo danzare. Come si guarda una divinità. Dante si scrollava di dosso in un colpo solo i cazzotti, il fumo, il bere, le donne, sua moglie, i debiti, i soldi, il governo, Craxi, Andreotti e Fanfani; si scrollava di dosso la fuliggine della vita e danzava per noi in quella pianura d’erba rigata di gesso. Quel pezzetto di terra era il cielo in cui lui, albatro liberato, splendido di bellezza volava. 

Ricordo bene il primo gol segnato in partita, una domenica mattina a Piancastagnaio, e la prima gomitata nelle costole data al centravanti del Pienza. Quanta paura, prima di entrare in campo, e al contempo che determinazione di esserci, di dimostrare. Ma che cosa avremmo mai voluto dimostrare? Me lo chiedo adesso. Forse che anche noi potevamo essere degli eroi. Come Maradona, Paolo Rossi, Platini, Zico, Socrates, Antognoni. Valorosi soldatini dentro qualcosa di più sicuro e più a portata di mano di una guerra. 

Ho visto su Mubi l’altro giorno un bel film di Céline Sciamma che si chiama Tomboy. La storia di una ragazzina che si trasferisce con la famiglia in un nuovo quartiere e decide di fingersi maschio. Il film racconta bene il rapporto tra natura e cultura chiamando in causa l’arbitrarietà della dicotomia maschile/femminile e delle pratiche che ne assicurano la perpetuazione. Il calcio, ad esempio. Nel film la piccola Laure, maschiaccio preadolescente, gioca partite di pallone al campetto insieme ai nuovi compagni; gioca bene, si mette in mostra, e alla fine riesce a segnare un gol. La camera segue i ragazzi da vicino, senza virtuosismi; tutto è semplice e tutto è naturale, sembra volerci dire. Quasi non c’è regia, non c’è spettacolo. È una partita a pallone fra ragazzini, innanzitutto: una faccenda elementare, semplice, naturale come la giovinezza. Ma lo sguardo della Sciamma, lo si capisce solo in un secondo momento, riesce ad aggiunge a questa naturalezza un elemento in più. Non lo si coglie da subito, ma poi arriva, precisa e implacabile, la sensazione che dentro quella innocente partitella di provincia sia contento un sacro rito. Un rito sacro al cui interno c’è un infedele. Un infiltrato, una spia: la femmina che non può (non potrebbe) giocare al gioco dei maschi e che quindi, con uno stratagemma, gioca.

Questa scena della partita mi ha toccato il cuore. Forse proprio perché mi ha ricordato quanto anche io, ai tempi eroici della squadra di calcio, fossi in fondo nient’altro che una maldestra pecora nera dipinta di bianco.

Qualcosa, nell’organizzazione del Mondo, e del calcio nel 1981 per l’appunto, mi costringeva a non essere me stesso. Mi costringeva a essere un me che non volevo essere; per vivere, per sopravvivere. Eppure, proprio non ci riesco a condannare, a imputare di colpevolezza. Non riesco a essere cattivo col calcio. Mi rendo conto di quanto esso sia indifendibile: un classico smoking gun case. Sono convinto, certo, della responsabilità di una certa cultura machista e performativa del gioco del pallone, in un momento storico come questo di giusta presa di coscienza delle tematiche relative al genere e alla sessualità. Eppure, maledizione, la scena di Tomboy non mi ha emozionato soltanto perché mi ha ricordato di tutte le volte che mi sono sentito femmina potenziale inespressa o repressa. No, sarebbe tutto troppo facile.

Dopo aver visto il film, prima di andare a dormire, ho tirato fuori dallo scaffale Addio al calcio di Valerio Magrelli, e anche la sua ultima raccolta fresca di stampa dal titolo Exfanzia.

I poeti son prodigiosi come i santi: riescono a evocare mondi lontanissimi nel tempo e nello spazio e li fanno collidere con oggetti, segni, tracce, sentimenti più noti e quotidiani. Addio al calcio ordina in novanta brevi capitoletti (il numero dei minuti di una partita) i ricordi calcistici di Magrelli, il suo rapporto col figlio, la sua relazione con il mondo del calcio. C’è un tono ironico, garbato, che permea il continuo flusso di comparazione fra ciò che è stato e ciò che adesso è, fra ciò che eravamo e quello che siamo diventati: è un inventario lirico di ciò che abbiamo perduto, per sempre, nello srotolarsi agonistico dell’esistere. Nell’appena uscito Exfanzia, che guarda caso si apre con una poesia che si chiama Una variazione da Addio al calcio, Magrelli dipana illuminazioni che hanno come scintilla di partenza, come da titolo, l’infanzia e la preadolescenza dell’uomo, viste dalla prospettiva dell’uomo che da quelle fasi biologiche è ormai lontano. L’exfanzia è illuminante per l’exfante proprio perché quadro da contemplare per rendere forse più beata l’attesa della morte; non c’è più niente da capire: a una certa età forse si raggiunge per forza una pace (una inquietante pace, nei casi peggiori) in cui i ricordi di giovinezza non costituiscono più indizi / inizi di autoanalisi. È sicuro: appartengo anch’io alla categoria di chi riesce a guardare il passato remoto rimanendo in questa sorta di pace anti-psicanalitica, proprio perché cosciente che in quel passato non c’è più niente da capire. In quel lontano quadretto di squadra di provincia, c’era un calcio che oggi non c’è più, c’era un ragazzo che oggi non c’è più; eppure, e a maggior ragione, di qual quadro colgo adesso la bellezza. Come fossi al cinema o in un museo, mi godo il suo incanto di mondo perduto (o meglio trasfigurato, divenuto fantastico, irreale).

Ecco perché ho pianto vedendo i ragazzini di Tomboy.

Poi passa il tram fuori dalla finestra, nonostante sia notte fonda qualcuno impreca per strada, e la magia si perde. Cerco di riacciuffarla ma non ci riesco. Mi si inchioda con decisione in testa un altro quadro: quello del presente, ancora non esposto al museo. Il quadro del calcio di oggi.

Viene per forza da chiedersi quanto il gioco del calcio continui a esercitare il suo potere incantatore, quanto continui a essere costruttore di sogni, trasversale e interclassista (com’era il calcio delle origini e com’è il calcio dell’exfanzia). Quanto rimanga oggi di questo suo potere ultraterreno, adesso che – lo sappiamo tutti – il gioco è cambiato, i calciatori son tutti troppo uniformemente muscolosi, la velocità è aumentata, il giro di affari è centuplicato, le partite si giocano tutti i giorni ma in televisione e andarle a vedere allo stadio è superfluo, eccetera eccetera. 

Durante i Mondiali dell’82, ci fabbricammo delle bandiere: oggi nessuno si costruirebbe più, da solo, una bandiera. Nessun ragazzino, né in città né in campagna. Quanto tempo è passato da quell’estinto atto? Quante vite? Quali altri modelli di vita il gioco del calcio ha accompagnato nel corso di questi quarant’anni? 

Tomboy e i due libri di Magrelli mi hanno fatto ricordare che il bastone lo facemmo con una canna di bambù che tagliammo al fosso che scorreva dietro casa di Jimmy, e che alla parte in stoffa ci pensò la nonna di qualcuno che aveva la macchina da cucire da sarta. 

Mi ha fatto pensare all’ultima volta che sono stato a vedere il Milan a San Siro, esattamente dieci anni fa, all’esperienza acustica dei tifosi sugli spalti in coro. E a fine partita, io e quei tifosi, a testa bassa, ancora tutti un po’ in trance, che camminiamo per raggiungere i mezzi, le macchine e i motorini, prima di far ritorno a casa, prima di tornare umani. 

Se non ricordo male dieci anni fa il fuoco sacro, a momenti, pareva ancora acceso.

Braci fioche spuntavano ancora sotto strati densi di cenere.

Dante M. è morto quindici anni fa. Pare di cirrosi epatica, solo e disperato. Alla fine degli anni Ottanta era persino riuscito a partecipare a due puntate del Maurizio Costanzo Show: diceva di avere un superpotere, saper riconoscere gli extraterrestri a fiuto.

A noi ha sempre voluto bene, penso spesso a lui e a tutto quello che ha fatto per noi ragazzini dell’U.S. Abbadia, categoria Giovanissimi B. Penso che sia stata quella una stagione magica, perché per incanto, tramite gioco del calcio, una comunione di felicità ebbe luogo. Come i miracoli, avvenne. Nell’Era dell’Ego, e a maggior ragione in questi terribili giorni di violenza, guerra e separazione, mi sono ricordato del potere che ha avuto il calcio nella mia vita: rendermi per la prima volta felice in mezzo agli altri.

Sì, viviamo giorni duri, eppure bisogna resistere. 

Come dice Magrelli: «non c’è pallone che non si sia perso o forato, e forse tutto questo vorrà dire qualcosa».

ARTICOLO n. 74 / 2024