Maria Nadotti

ARTICOLO n. 25 / 2021

Dove sono oggi i corpi?

Mio questo mio nome…
e degli amici, ovunque siano,
e mio il mio corpo provvisorio,

presente o assente…
MAHMUD DARWISH, MURALE

Dove sono, oggi, i corpi? E cosa ne è stato del corpo della polis? Non credete anche voi, lettrici e lettori, che, per provare a rispondere a queste domande, ci si debba affidare agli indizi, ai segni che con la loro presenza possono indicare altre cose più nascoste o non ancora avvenute? Sì, vi propongo di pensare allo scenario in cui – variamente disorientati, impauriti, confusi, malati o già bell’e morti – tutti ormai siamo, puntando lo sguardo sull’esistente così come è (come è stato fatto diventare) e sulle parole e le immagini che lo raccontano.

Operazione non facile, direte voi, visto che l’esistente è, oggi, metamorfico come un’anguilla, sovraccarico di interpretazioni, pronto a sgusciarci tra le mani come una donnola.

Allora, per evitare le secche più ovvie, mi servirò esclusivamente delle parole, rimandando al mittente quella spaventosa degenerazione figurativa che da oltre un anno mette fotograficamente in scena solo la rimozione dei corpi oppure la loro uniforme mortificazione o, più raramente, la loro colpevolizzazione.

Mi riferisco, nell’ordine, alle immagini sinistre delle città evacuate, dei cumuli di bare (oggi banditi dai media, come dalle testate statunitensi nei primi mesi della guerra in Iraq), degli anziani di là dai vetri delle RSA, dei malati intubati e attaccati a fili, macchine, monitor, delle code ai drive-in per tamponi e test antigenici e, più di recente, delle file dei vaccinandi, della vaccinazione in atto su corpi chissà quanto coscienti, consenzienti, condiscendenti, dei più o meno rassegnati, stoici VIP della politica, quelli che devono dare il buon esempio, in attesa del miracoloso vaccino-che-toglie-il-virus-del mondo, e infine delle aggregazioni selvagge, sleali, disobbedienti, incivili e tuttavia vitalissime di giovani e meno giovani che non intendono morir vivendo o vivere da morti.

Avrete notato che, accanto ai corpi esposti, letteralmente messi a nudo, di vecchi, malati e in corso di vaccinazione, a rendere ancor più chiara la loro impotenza e/o abdicazione alla libertà di scegliere o libertà tout court, è sempre presente il dominante corpo macchina corazzato del curante. E così un atto privato reso spudoratamente pubblico si carica di connotazioni che fino a non molto tempo fa erano riservate agli altri: i diversamente abili, i migranti, i rifugiati, i poveri, i senzatetto.

Cerchiamoli dunque qui gli indizi.

Da un lato nelle città desertificate, silenziose, spettrali, rese tali dalla negazione/interdizione dello spazio pubblico. Dall’altro in interni domestici gremiti, saturi, rumorosi, invasi dal lavoro e dalla didattica a distanza, e dunque non più privati. Spopolate e spogliate della loro funzione connettiva le prime, collegati a tempo pieno e ingarbugliati da cavi, fibre, schermi i secondi.

Città infestate, necrotizzate e narcotizzate. Abitazioni ridotte a loculi più o meno accoglienti e attrezzati, adibite a proteggere come bunker o fortini.

Medicalizzazione imponente e impotente, talora militarizzata, del territorio. Sconfinamento delle pratiche mediche dagli spazi ad esse preposti ai luoghi un tempo destinati all’arte, alla cultura, allo scambio commerciale, al tempo libero.

Una rincorsa affannata in attesa del miracolo che ci salverà, annunciato con toni profetici o variamente apocalittici, utile – quantomeno fino a oggi – solo ad ottenere uno strano misto di obnubilamento e passività: una delega di massa che passa proprio dai nostri rimossi e offesi corpi, pronti a confinarsi, murarsi vivi, uscire a tempo entro perimetri designati come nei paesi in guerra, farsi utilizzare alla cieca per sperimentazioni vaccinali su larga scala che neanche il più pazzo dei maghi merlini di vonnegutiana memoria avrebbe sognato di poter compiere in mezzo al gaudio riconoscente dei più.

E cerchiamoli in quel non-tempo o stasi che è diventata la nostra dimensione quotidiana: temporalità esplosa e frammentata, improgettabile, che soffoca e seda, costringendo a rimpiangere il passato, il tempo mitico della normalità.

Nel 2015, mentre osservavo il nostro paese attraverso la lente ad alta definizione della pubblicità cartacea, il paesaggio desolato in cui siamo oggi definitivamente immersi era già perfettamente a fuoco.

«I muri delle città contemporanee ripetono ossessivamente uno slogan senza trascendenza: il bene è nelle merci, la felicità nel potere d’acquisto, la libertà nel consumo.

E tuttavia i versatili corpi della pubblicità, ormai totalmente smaterializzati, come simulacri di plastica, astratti, seriali, identici tra loro, non sembrano parlare a noi e di noi, della nostra fragile umanità, dei nostri desideri e dei nostri bisogni reali. Invadendo con sbalorditiva prepotenza (finanche con la scusa di risanarlo) uno spazio che pubblico non è più, sovrappongono al paesaggio concreto un paesaggio apparente. Ecco perché decodificarlo pedissequamente, scambiando per corpi e situazioni reali queste malleabili effigi del nulla, mi pare fuorviante. A chi va a caccia di pubblicità sessiste, per esempio, propongo di indossare lenti multifocali e provare a vedere se questi pornografici corpi/guscio fatalmente privi di eros (la forza vitale che muove il pensiero, i sensi e gli affetti) non parlino d’altro, in particolare di due passioni tristi: il non amore di sé per quel che effettivamente siamo e una furibonda invidia sociale pronta a trasformarsi in depressione, amarezza, impotenza e rancore.

Se il corpo sociale della città, lo spazio un tempo condiviso da cittadini e cittadine, si è trasformato in merce, va da sé che ad aggiudicarselo sarà chi ha maggiore potere d’acquisto o maggiore potere tout court. Le raffigurazioni con cui lo riempie – importa davvero che siano sessiste, razziste, etaiste o altro? – non potranno che essere il riflesso spettrale di quella mutazione. A dispetto di qualsiasi progetto di illuminazione notturna, taxi rosa e altri proclamati antidoti, le vie delle città che si sono arrese alla necrofilia del capitale non saranno più sicure per nessuno: privatizzato e commercializzato, il comune terreno urbano si è convertito in territorio di rapina, in luogo che produce terrore.

Guardiamoli dunque ad occhi ben aperti questi giganteschi necrologhi. Oltre a proporci l’immagine di corpi senz’ombra che si riflettono in se stessi, ci dicono che, dove tutto è in vendita, i primi ad essere in pericolo sono i corpi reali, ridondanti, diseconomici, obsolescenti, spendibili.

E che il pericolo più grave consiste nella violenza che proprio i corpi reali portano inscritta su di sé: un’esposizione totale, una nudità indifesa. Lo riassumono con brutalità le immagini fotografiche che arrivano dalle zone colpite dal virus Ebola, da Gaza, Guantanamo, Lampedusa: spogli corpi malati, feriti, incatenati, stremati da un lato e superaccessoriati corpi-macchina (umanitari e/o bellici) dall’altro. I manifesti pubblicitari che a quel repertorio iconografico attingono con sublime imperturbabilità non ne sono che la perversa enfatizzazione.

Dirsi dalla parte dei deboli per vendere ai ricchi è la loro ultima, incomparabile degenerazione.» (Maria Nadotti, Necrologhi: Pamphlet sull’arte di consumare).

Difficile, tuttavia, immaginare allora una conversione così rapida e capillare. Arduo, anche solo due anni fa, supporre che tra il coincidente con l’altrove delle zone colpite dal virus Ebola, di Gaza, Guantanamo, Lampedusa e il nostro qui, tra il loro degli abitanti di quei luoghi o di chi da quei luoghi era in fuga e il noi, non ci sarebbe più stata soluzione di continuità. Che il mondo sarebbe diventato un continuum frastagliato di incertezza, precarietà, paura, illusione, stordimento, inganno. Che, per rinnovarsi, il sistema economico che è andato imponendosi ovunque – dal liberismo occidentale al socialismo di libero mercato cinese – avrebbe trovato una sorta di miccia ideale capace di sfoltire e disciplinare la popolazione mondiale terrorizzandola e inducendola ad accettare nuovi consumi e un inedito – e tuttavia tecnologicamente maturo – stile di vita.

Credo che in ognuna/o di noi, già dagli anni Ottanta, si fossero affacciati un paio di interrogativi inquietanti, ma il festino occidentale era talmente all’apice che farsi avanti con qualche perplessità sulle magnifiche sorti e progressive del mondo avrebbe richiesto un’audacia o un’abnegazione in conflitto con lo spirito di quei tempi sazi e storditi. L’arte, spia meravigliosa dell’a venire, stava già da anni indicando con precisione la via che avremmo imboccato. Videoarte, arte elettronica, videoinstallazioni stavano irreversibilmente soppiantando materiali, mezzi, forme, spazi e fruizione dell’arte tradizionale. Nelle biennali (quinquennali o decennali) d’arte contemporanea, già verso la metà degli anni Novanta la pittura pareva una forma pateticamente obsoleta, incapace di tenere il passo dei nuovi linguaggi. La digitocrazia aveva trovato la sua avanguardia e si preparava a usarla come cavallo di Troia per fare di tutti noi gli arresi, garruli e disincarnati consumatori di beni virtuali ad alto contenuto di onnipotenza: il narcisistico dappertutto in nessun luogo della telefonia mobile e della rete.

Più connessi dunque più liberi, più fermi dunque più mobili, più soli dunque più insieme.

Abbiamo abboccato e, quando la tecnologia digitale e relativo mercato hanno raggiunto il punto di compimento necessario a sostenere l’onda d’urto di una connessione contemporanea universale, aerei e treni si sono fermati, uffici, università e scuole si sono smaterializzati, negozi, ristoranti, musei, cinema, teatri, stadi & Co. sono evaporati.

I corpi, però, persistono e resistono. Troppi (numericamente) e troppo pochi (detentori di potere d’acquisto). Avrete notato che da circa un anno, nel nostro panorama mentale oltre che nel discorso pubblico, sono ricomparsi temi e termini che credevamo definitivamente spurgati dal nostro habitus (inteso nel senso di condivisione di uno spazio sociale e percettivo omogeneo: italiani, residenti, bianchi, produttivi, preferibilmente maschi o maschilizzati).

Tornati in auge – stavolta riferiti a noi, non a migranti illegali o fuoricasta – concetti e parole quali triage, confinamento, passaporto sanitario. Per il nostro bene, direte voi, eppure la storia insegna che certe pratiche tendono, una volta liberate, a uscire dal loro alveo.

Nel frattempo è accaduta una cosa strana, anch’essa appartenente alla sfera delle definizioni che, come si sa, sono l’anticamera della messa in atto. Sul piano lessicale la nostra società è stata spezzettata in categorie inedite. Senza dubbio a fin di bene – ma talora il bene (di chi?) può fare più danno del male (per chi?) –, i nostri corpi sono stati incasellati per età, abilità, funzione, utilità sociale o essenzialità rispetto ai bisogni della comunità nel suo complesso. E si è stabilito che alcuni mestieri sono essenziali e altri no, che alcune attività possono essere sospese e altre noi, che alcuni soggetti sono intercambiabili e altri insostituibili.

Di un certo numero di impieghi, attività e soggetti (o dovremmo chiamarli oggetti?) si è preferito non fare parola. Eppure sappiamo tutti che in questi mesi gli addetti alle pulizie, i trasportatori, i fattorini, le commesse dei supermercati, i conducenti dei mezzi pubblici… sono stati infinitamente più essenziali di qualsiasi giudice o docente universitario e che le donne hanno avuto un ruolo e carichi di lavoro da tempi delle caverne. Quando si è trattato di decidere chi vaccinare per primo, avete per caso visto qualcuno alzare timidamente una mano e dire: loro, per la buona ragione che sono stati e continuano a essere proprio i mestieri umili, precari, malpagati o non pagati affatto a far girare il mondo?

E invece no. Forse perché questi essenziali non sono soggetti di diritto, bensì corpi a perdere, ridondanti, sostituibili a costo zero, vera e propria carne da macello per democrazie che rifiutano la guerra, ma non i suoi ristori (nuovo, irresistibile lemma messo in uso da governi palesemente stanchi e assetati). Sì, i ridondanti sono diventati essenziali, ma un ridondante vale l’altro, e l’offerta è infinita.

Non è, questa logica, la stessa sottesa alla gestione necropolitica di un virus combattuto allarmando, isolando, confinando, svuotando le città, disciplinando, prima ancora che trattandolo medicalmente? Come se chi decide per tutte e tutti avesse paura di chi, sempre più numeroso, non ha niente da perdere ed è ben cosciente che l’annunciata immunità di gregge crea il secondo senza garantire la prima.

Quello che i fiori del prato raccontano in questa primavera esiliata va ascoltato con tutto il corpo, con la tenerezza delle mani e la durezza del cuore.

«Alla popolazione parrà infatti che sia andata totalmente distrutta l’ultima speranza di un qualunque ordine sociale. Prende quindi il sopravvento l’impulso a garantirsi la sopravvivenza personale e iniziano i saccheggi. Niente di più semplice e di più terribile. Tuttavia i nuovi tiranni non sanno nulla di come si comporti un popolo ridotto allo stremo. La paura impedisce loro di saperlo; sono soli su questo pianeta; anche i morti li hanno abbandonati.» (John Berger, «Pensiamo alla paura», in Abbi cara ogni cosa. Scritti politici 2001-2007).