Doreen Cunningham

ARTICOLO n. 22 / 2024

TORNARE NELL’ESTREMO NORD DELL’ALASKA

Pubblichiamo un estratto inedito dal volume oggi in libreria, Il canto del mare (Einaudi, traduzione di Duccio Sacchi).

Prima della nascita di mio figlio vivevo a Londra, avevo una vita sociale intensa ed ero una giornalista di successo. Una volta diventata mamma, le cose hanno preso una piega via via peggiore. Quando Max aveva un anno, nel 2012, mi sono ritrovata a vivere in un ostello per madri single, sull’isola di Jersey, di fronte alle coste del nord della Francia, dove ero cresciuta. Avevo speso tutti i miei risparmi in onorari di avvocati, per difendermi in tribunale dal mio ex, Pavel, e dimostrare che Max doveva vivere con me. 

Nell’ostello me ne stavo sulle mie, usavo il corpo come un’armatura, cercando di dare nell’occhio il meno possibile. Era tutto svanito così in fretta. Il lavoro regolarmente retribuito, il sonno, gli amici a cui non avevo più i soldi per telefonare, la mia stessa casa. Possedevo un appartamento nell’East London, ma non potevo venderlo, dato che valeva meno del mutuo che dovevo finire di pagare, e neppure ero in grado di estinguere l’ipoteca per andare a viverci. Senza contare che c’erano anche altre ragioni per non stare a Londra. 

Per me era come reimparare da zero a camminare e a parlare. E dato che il mondo sembrava non riconoscermi più, pensavo soltanto a prendermi cura di quello che era diventato il centro di ogni cosa, il mio bambino di un anno. 

Un giorno d’inverno avevo imboccato una viuzza appartata, lontana dalla zona dei negozi di Saint Helier, il maggiore centro abitato di Jersey, e avevo proseguito fino al banco alimentare situato al piano di sopra di un negozio di beneficenza dell’Esercito della salvezza. Un uomo sorridente ci aveva fatto strada oltre gli appendiabiti e su per le scale fino a una fila di armadi a muro al primo piano. «Prendi tutto quello che ti occorre e che riesci a portarti via», aveva detto. Me ne portai via di più. Una borsa di plastica era già sul punto di strapparsi. La campanella del negozio suonò mentre uscivo tenendo con una mano tre borse piene di scatolette e nell’altra il piccolo palmo di Max. 

All’improvviso una voce familiare: «Doreeen!» Una mia compagna di scuola ferma sulla strada, con un bel sorriso che ricordavo ancora a distanza di vent’anni. Eravamo amiche da ragazzine. «Sei tornata». 

«Ciao! Sono tornata, sì», risposi posando le borse per terra. 

«Non sapevo che avessi un bambino. Ciao, bello». Fece un cenno a Max e tornò a guardarmi. «Tuo marito è inglese?» Max saltellava, tirandomi per la mano. 

«Nessun marito. Siamo soltanto io e Max. Come stai? Sono secoli che non ci vediamo». 

La sua domanda successiva era già partita: «Sei tornata a casa dai tuoi allora?» 

Strinsi la mascella. «No, mamma sta troppo male». Risollevai le borse. 

«Ma quindi dove stai?» riprese accigliata. «Come te la cavi? Ti dà una mano qualcuno?» 

Mi era venuto mal di testa. Sentivo i manici delle borse tagliarmi la mano. Lasciai che Max mi tirasse dall’altra parte. «Stiamo bene. Mi ha fatto piacere vederti. Adesso scusa, devo andare, siamo in ritardo». 

Mentre tornavamo all’ostello passammo davanti alla vetrina di una panetteria, dove erano esposti vassoi di panini morbidi. Nel vetro vidi una barbona: indossava i miei vestiti e teneva per mano un bimbo adorabile. 

Qualche settimana dopo, un altro incontro mi fece cambiare rotta. Le donne come me, voglio dire le madri che avevano soggiornato di recente nella casa rifugio o che attualmente vivevano lì, avevano anche dei vantaggi. Un’associazione ecclesiastica organizzava una giornata di cure di bellezza tutta per noi. Ero arrivata qualche minuto in anticipo e spingendo i pesanti battenti di legno scoprii ammirata la vastità della sala inondata di luce. 

«Signore mio Dio, aiuta queste povere donne… sulla retta via… lontano da Satana». Il capannello di donne non mi aveva visto entrare. Pensai di tornarmene subito fuori ma il gruppo si era sciolto e le signore mi stavano già salutando sorridenti. Ricambiai con uno sguardo serissimo. Non pensavano mica che avessi bisogno di essere salvata? Una donna puntò dritta su Max e ci fece strada fino all’area bimbi gestita da volontari, tutti assistenti all’infanzia professionisti, mi rassicurò. Max la prese per mano e avanzando a passi incerti andò a dare un’occhiata ai giocattoli. Un’altra signora con una maglia a righe blu alla marinara e scarpe da barca cercò di guidarmi verso un altro angolo dove erano a disposizione massaggi, manicure e pediluvi. Non sarei stata il loro caso umano. Dovevo portare via Max. Diedi un’occhiata intorno e vidi mio figlio che in braccio a una signora stava scartando un regalo, un’autobetoniera giocattolo con tanto di autista e bicchiere rotante. Sprizzava felicità. Guardai di nuovo la sala. 

Cominciavano ad arrivare altre famiglie. Se proprio dovevo passare il pomeriggio a fare la donna di Satana, tanto valeva approfittarne. «Un massaggio alla testa andrebbe benissimo, grazie», dissi alla mia nautica accompagnatrice, dopo di che mi sedetti e chiusi gli occhi. Le sue dita accarezzavano come acqua il mio cuoio capelluto. All’inizio fingevo, fantasticando, di trovarmi in una spa. Ma la spa si trasformò in un mare. Non ero più nella sala parrocchiale. Ero tornata una bambina che correva a perdifiato sulle spiagge di Jersey e d’Irlanda. Poi mi si presentò alla mente l’immagine di una costa diversa, una costa artica, e posai lo sguardo su una vasta distesa di ghiaccio marino, che si perdeva in lontananza verso il polo Nord. Ero di nuovo in Alaska, dove ero stata in viaggio sette anni prima, di nuovo a Utqiaġvik, che prima si chiamava Barrow, e vivevo con una famiglia iñupiaq. La città si affaccia sull’oceano Artico, all’estremo confine settentrionale degli Stati Uniti. Gli iñupiat prosperano da migliaia di anni in questo luogo periodicamente inghiottito dal ghiaccio e dall’oscurità, uniti dalla loro antica cultura e dal rapporto speciale che hanno stretto con gli animali che cacciano, tra cui la magnifica e misteriosa balena artica. Laggiù non avevo soltanto visto le balene, avevo fatto parte di una grande famiglia di cacciatori, viaggiando con loro in un paesaggio di stupefacente bellezza e pericolosità. Mi ero sentita straordinariamente viva, connessa alle altre persone e al mondo della natura. Se solo avessi potuto sentirmi di nuovo a quel modo, e trasmettere anche a Max quella sensazione! «Mamma!» 

Tornai dall’Artide e riaprendo gli occhi mi trovai davanti il mio bambino. La signora sollevò le mani dai miei capelli. Avevo la testa più leggera. 

«Via». Max fece un gesto in direzione della porta. Ringraziai la mia massaggiatrice, presi Max per mano e me ne andai. 

Quella notte, mentre Max dormiva, lasciai perdere la ricerca a cui stavo lavorando da freelance e cercai in rete informazioni sulle balene artiche. 

Passando alle balenottere azzurre, guardai il mio video preferito di David Attenborough, in cui la creatura gigantesca emerge vicino alla barchetta del regista. Dopo di che finii su un articolo sulle balene grigie, una specie di cui non sapevo niente. Ne esistevano due popolazioni, c’era scritto, una nel Pacifico occidentale, l’altra in quello orientale. Fu allora che scoprii che ogni anno la popolazione orientale si trasferiva dall’oceano Artico ai luoghi di parto nelle lagune costiere del Messico, per poi migrare nuovamente a nord con i cuccioli appena nati. Tra andata e ritorno era un viaggio di più di quindicimila chilometri, come dire quasi due giri a nuoto intorno alla luna. Le balene viaggiavano in genere in prossimità delle coste sopra fondali abbastanza bassi coperti di alghe e si potevano avvistare lungo tutta la costa occidentale del Nord America. E mentre si facevano mezzo pianeta a nuoto le madri respingevano i predatori, crescevano la prole e allattavano. Erano la resistenza incarnata. 

Leggendo queste notizie sentii rinascere dentro di me una nuova forza. L’articolo diceva che nella Baja California era possibile vedere madri e cuccioli da dicembre ad aprile. Forse potevo portarci Max. Risi di gusto all’idea, ma continuai a pensarci. Sarebbe stato un modo per imprimere le balene nel suo subconscio, per insegnargli il sapore della libertà, per cancellare qualsiasi traccia di claustrofobia o di disperazione che poteva aver assimilato nella casa rifugio. Avrei potuto condividere con lui gli stimoli che mi davano le meraviglie della vita sottomarina. Sarebbe stato come i documentari di Attenborough con cui ero cresciuta, anzi, meglio ancora, perché sarebbe stato reale. Era gennaio. Madri e cuccioli dovevano già essere lì, nella Baja California. 

Mentre ero china sul computer, sul bordo del letto, di fianco a Max, sentii una voce, la voce di Billy, vicina e profonda, come se fosse seduto accanto a me, sulla banchisa in Alaska sette anni prima, a scrutare le balene. 

«A volte», disse lentamente, «vediamo una balena grigia». Era come se Billy mi stesse parlando attraverso i chilometri che ci separavano. 

Da quel momento avvenne tutto in fretta. Una corda calata dal cielo mi stava tirando fuori dalla finestra per portarmi di là dal mare. Il giorno dopo lasciai l’ostello e mi trasferii nella mansarda di un’amica. Ottenni un prestito, richiesi i visti. Seguiremo madri e cuccioli dal Messico fino in capo al mondo, spiegai a Max. Le balene nuoteranno e noi prenderemo l’autobus, il treno e la barca di fianco a loro. 

«Treno?» Max non aveva tutta questa smania per le balene, ma sicuramente adorava tutti i mezzi di trasporto. «Flash con me, mamma!» Prese il suo morbido cagnolino di peluche e si fermò vicino alla porta, pronto per partire. 

Mi dissi che dalle balene avrei imparato di nuovo a fare la mamma, a perseverare, a vivere. 

Sotto sotto, segretamente, quello che desideravo era tornare nell’estremo nord dell’Alaska, nella comunità che mi aveva offerto rifugio nell’aspra bellezza dell’Artico, e da Billy, il cacciatore di balene che mi aveva amato. 

© 2022 Doreen Cunningham
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