ARTICOLO n. 60 / 2022

VIVO RICORDANDO SEMPRE TE

Dove sarò questa estate?

Felicità
è star solo
d‘estate
nella città deserta
sulla tazza del cesso
con la porta aperta.

Dino Risi, da Versetti Sardonici

Così parlò Dino Risi regista e poeta, prendendo in pochi versi semplici intensi e diretti, grazie al potere sintetico della poesia, come un haiku, scorciatoie del pensiero che diventano vie maestre che conducono verso… 

Verso cosa? Dappertutto, forse. E quindi da nessuna parte, forse? Questo è il problema? Ma no, nessun problema, sul dove essere o dove non essere in questa estate. Questo mi pare di aver confusamente capito.

È una fuga da fermo, poiché potrei, snocciolando un po’ di ginnastica amletica, esser rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni, in tono scettico-blue.

Davanti ai versi di Risi, io risi sguaiatamente la prima volta che li lèssi, come attraversato da un satori, da un risveglio inatteso di tutto me stesso, un ceffone dato da qualcuno per farti riprendere i sensi. 

E sempre più rido perché con l’età quei versi hanno preso in me la forma di un koan zen, una sorta di invito a osservare la realtà per come è nel qui e ora, senza tentare di risolverla come fosse un indovinello, no, ma a percepirla nella sua evidenza immediata, sbarazzando la mia mente dei suoi preconcetti, immagini predigerite e parole anchilosate dalla forza dell’abitudine, e che come uno Sherlock Holmes mi fa d’improvviso spalancare gli occhi ottusi e vacui come a quel personaggio che non capisce mai niente di quanto gli capita attorno quando Sherlock gli dice: «Elementare, Watson!»

E dunque rieccomi qui, in estate, novello Watson istupidito dalle temperature micidiali, in questo amletico guscio di noce, dalla cima di questo mio ermo colle, ovvero, come in alto così in basso, da questa tazza del cesso con una porta spalancata su Roma arida in fiamme ovunque e sull’orbe terracqueo, Re solitario come un numero primo. 

Visto da quassù il mondo in sfacelo di ora mi sembra un Apocalypse Now che ritorna sì, ma non come tragedia bensì come farsa, visto che la storia se deve ripetersi lo fa sempre due volte e in due diversi modi, come se l’estate fosse l’esempio assoluto dell’eterno ritorno dell’uguale (guarda chi si rivede…), specie perché avverto sempre più che in questa stagione il tempo e lo spazio sembrano diventare uguali a se stessi, ovunque tu vada, come in una lunghissima sfiancante tournée teatrale, ovunque tu cerchi ristoro e riparo dalla tortura di questa che non è più l’estate come l’ho conosciuta ma una punizione et diabolica et divina. 

Ti sei tanto ripetuto la poesia di Camus che «nel bel mezzo dell’inverno, ho scoperto che vi era in me un’invincibile estate»? E allora tiè beccati questa invincibile estate! E la sua sofferenza. E la sua indifferenza alla tua sofferenza da temperature assassine.

Come un Sisifo su e giù a sospingere il macigno di questa che chiamano estate. E la chiamano estate, questa estate senza te, sì, così mi cantavi, o divo Bruno Martino, con voce soave tanto da fare vibrare tutta l’iridescenza della luce estiva e i suoi miraggi nel colore del tuo suono pastoso. Come se in quella canzone ci fosse già, per paradosso, una memoria futura, una nostalgia del futuro degli amori già mentre da adolescente li vivevi, anche e soprattutto quelli immaginari, quelli che mai cominciarono e perciò più evocativi. 

Sì perché mi ricordo che l’estate un tempo era per gli amori, poi, con l’aumento inarrestabile delle temperature, è diventata una stagione perfetta per attivare strategie di successo per l’angoscia da riscaldamento globale (io stesso, mentre scrivo, non so se riuscirò ad arrivare alla fine dell’articolo, e, se ci riuscirò, quando lo avrò riletto sarò magari decrepito o forse sarò morto liquefatto prima, mescolato e indistinguibile dai resti di una lattina di Estathé. Per questo non vedo l’ora di cadere nel brand più lieve e languente della malinconia dell’autunno).

E così il riscaldamento globale ha trasformato il «dovrei paragonare te a un giorno d’estate?» (il primo verso del sonetto 18 di Shakespeare) in una beffa, se non in un insulto? E la chiamano estate, codesta carcassa, la chiamano ancora estate. Con o senza te. Ne succedono ormai troppe in questa stagione, così tante che nella dimensione catastrofale in cui sono immerso, invece che provare tristezza, dispiacere, rabbia, indignazione, mi capita di scindermi e proiettarmi, forse per un istinto di autoconservazione, in un altro tempo, in altre estati, quelle del passato, quelle dell’adolescenza, dove riuscivo a sentire quella stagione come un preludio a ciò che sarebbe arrivato dopo, nell’autunno e poi nell’inverno, una preparazione al futuro, che allora era una figura temporale che esisteva davvero nella percezione. E dove non sentivo separazione tra il mondo e me. 

L’estate scorsa ho registrato per Radio 3 La bella estate di Cesare Pavese. Non lo leggevo da tre decenni. Appena al microfono ne ho iniziato a registrare l’incipit ho avuto, come in botanica, una recrudescenza di tempo ritrovato (perdonami Marcel, ma è fatale invocare proprio te, specie in quest’anno di celebrazioni proustiane del centenario della tua morte). Tempo ritrovato, intendo, in qualità di lettore, essendo stato quello il tempo delle letture più importanti. Ma che lo fossero lo avrei riscoperto molto più tardi. E quel breve romanzo di bellezza lirica insieme agli altri due che compongono il trittico – Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, oggi lo so, per me contiene tutto quello che c’è da sapere sull’estate, almeno per come ricordo di averla vissuta a quell’età. «A quel tempo era sempre festa», inizia così. La protagonista è una ragazza che fa la scoperta dell’amore e delle sue illusioni, che conosce cos’è avere un corpo, anzi, essere un corpo, quel corpo in relazione al mondo che abita. Voglio aggiungere solo la frase, che conclude il terzo dei romanzi, come sintesi di tutto il senso: «È bello svegliarsi e non farsi illusioni. Ci si sente liberi e responsabili. Una forza tremenda è in noi, la libertà. Si può toccare l’innocenza. Si è disposti a soffrire».

È in quel tempo che vado a cercare il tesoro che si è formato in una dimensione per me mitica, ricco di incontri determinanti anche inconsapevolmente, e forse l’estate era proprio questo, uno stato di grazia, e non di disgrazia come è oggidì. Discorso da ecologista reazionario? Sì. Da nostalgico rompicoglioni ingusciato sull’ermo colle seduto sulla tazza? Ne ho le medaglie guadagnate sul campo per potermelo permettere, sissignore! E anche da sentimentale, aggiungo, ma senza il cinismo. Di quello mi basta già quanto il mondo ne produce ogni minuto secondo. Perderei il confronto. E ne pagherei il conto. La fatica sta nel non diventare cinico, e d’estate in natura i processi tendono più naturalmente e più inesorabilmente dall’ordine al disordine, ho questa sensazione sinistra dalle notizie che mi arrivano stando sulla tazza. Quindi preferisco la fatica di Sisifo, nonostante tutto, anche dovendo tirare bestemmie. Perché trovo ci sia qualcosa di superiormente comico e di simile a un koan zen in questo sforzo enorme che non dà risultato, e perché è la condizione più veritiera su ciò che è l’umano, per me.  

E cercare di immaginarlo felice sì, come lo immaginava Camus con quel sorriso capace di squarciare il cielo noncurante. Ma senza dimenticare che non c’è niente di più comico dell’infelicità, come dice il personaggio di Nell in Finale di partita di Beckett. E in estate, questa in particolare, dove sembra di essere in un Far West, tutto, non so perché, sembra favorevole alla commedia. In tutte le sue gradazioni: dalle foto dei selfie ai piedi con sfondo di spiagge mari e monti all’orizzonte, all’apoteosi delle pizzate coi cognati e i nipoti coi nuovi mostri che siamo diventati inflitte sui canali social a dimostrazione che l’estate è la più triste delle stagioni perché tutti si aspettano che tu, sì proprio tu, sia felice. «A me è maggio che mi rovina e anche settembre, queste due sentinelle dell’estate: promessa e nostalgia», scrive Patrizia Cavalli.

Ecco, diciamolo francamente finché ci si può avvalere della libertà di lamentela: l’estate andrebbe abolita. Non vedo il senso delle giornate che si allungano sempre di più quando ormai i nostri tempi di attenzione si accorciano sempre di più, non rivorrei indietro le estati vissute da garzoncello con quel tempo infinito e sfinito, non col fuoco che, oh sento divorarmi dentro di me ora e, peggio ancora, fuori di me, quello che, oh divora la Capitale. E farne un filmone? Che so, un bel Roma brucia?, titolone a sfondo socioambientalista ispirato a quello di guerra di René Clement Parigi brucia?, ma immaginato con la regia di Dino Risi.

Andrei in letargo steso sotto un ventilatore fissandone, come Martin Sheen sul letto di un albergaccio all’inizio di Apocalypse Now mentre fuori la guerra brucia Saigon, il mozzo attorno a cui girano ipnoticamente le pale («Trenta raggi convergono sul mozzo ma è il foro centrale che rende utile la ruota» dice il Tao Te Ching per significare che è il non-essere, il vuoto a costituire l’utilità delle cose) per risvegliarmi di colpo nella stagione preferita: nel bel mezzo di un gelido inverno del nostro scontento.

ARTICOLO n. 74 / 2024