Martino Beria

ARTICOLO n. 46 / 2023

IL POMODORO DEMONIACO

La mistica del cibo

Se vi foste trovati su un’imbarcazione affacciata sulle rive del nuovo mondo, conquistadores intenti a studiare dove attraccare, vi sareste quasi di sicuro imbattuti in un intrico di rampicanti, vegetazione massiccia e movimenti furtivi nella penombra, un muro imponente di vita che pulsa arrogante e non si cura di nascondersi.

Non è un caso che a molti sembrasse di essere approdati nell’Eden, dove bastava allungare un braccio per trovare cibo offerto dagli alberi.

Una delle piante che avrebbe catturato la vostra attenzione sarebbe stata un groviglio verde acceso, ricco di frutti variopinti dall’aspetto invitante, tondeggianti e turgidi, con quest’aura pericolosamente invitante.

La verità è che la natura delle Americhe era tanto generosa quanto estremamente insidiosa, e bastava ingerire per errore una pianta e le conseguenze potevano essere ben poco gradevoli.

La pizza, la pasta, gli gnocchi rievocano idealizzazioni tipicamente italiane del pomodoro. Rosso, dolce al punto giusto, lo infondiamo di italianità, lo eleggiamo a simbolo di una mediterraneità, di una napoletanità, di una sicilianità che non ammetteremmo mai che qualcuno possa toglierci.

Un simbolo, il pomodoro, quasi scontato per noi italiani, che oggi porta significati non poi così prevedibili rispetto a qualche secolo fa.

Insieme alle patate, tra i prodotti del Nuovo Mondo che hanno subito un lungo e intricato processo di accettazione, i pomodori sono tra i donu dell’orto che hanno incontrato maggiori resistenze al loro arrivo in Europa. I simboli cambiano da un’epoca a un’altra e da una società a un’altra, e sono prodotti culturali, nati da un sentire collettivo, in costante movimento.

Sentito collettivamente come ortaggio per la sua succosità e dolcezza, il pomodoro si è guadagnato un posto di primato nelle cucine del mondo, ma non sempre è stato così ben visto.

Quando, all’inizio del XVI secolo, gli esploratori spagnoli incontrarono per la prima volta i pomodori in America Centrale, si dimostrarono piuttosto scettici rispetto al loro consumo: sulle prime lo scambiarono per una pianta di belladonna che, nell’Europa di allora in cui l’Inquisizione e le persecuzioni contro le streghe erano all’ordine del giorno, non era un vegetale che godeva di una buona reputazione.

Le solanacee – come il giusquiamo, la belladonna, la mandragola e la tromba d’angelo – non solo erano note per essere estremamente velenose: erano anche considerate frutti del diavolo, creati da forze maligne invisibili.

Streghe e belladonna per le superstizioni europee dell’epoca correvano di pari passo, venivano entrambe legate alla sfera del non-noto, del malvagio, facenti parte di quell’insieme di ingredienti usati per la produzione di pozioni e infusi diabolici, che portavano alla licenziosità, alla prostituzione e ad altre attività poco ortodosse.

Anche un’altra pratica, in uso nel centro America, faceva sì che il pomodoro, per quanto innocente, non fosse ben visto: i cronisti spagnoli riportano con disgusto che gli Aztechi sacrificavano i loro prigionieri di guerra, tagliando loro il cuore ancora pulsante per offrirlo al dio Sole. La carne rimanente di alcune delle vittime veniva poi preparata a mo’ di stufato condito con pomodori e peperoncini e servita ai nobili.

Sebbene gli studiosi non siano d’accordo sulla misura in cui il cannibalismo fosse praticato dalla comunità azteca, concordano sul fatto che avveniva occasionalmente, soprattutto per scopi rituali.

Pratica più malvagia e diabolica non poteva esserci per le menti dei conquistadores, che vedevano il Nuovo Mondo come “Terra di Dio” e, così, trovavano ancor più forti motivazioni per le loro missioni di conversione forzata.

Sembravano invece dimentichi che in madre patria, sempre in nome di Dio, ardevano pire per eliminare con il fuoco l’imprevedibilità femminile, le così chiamate “streghe”.

Gli Aztechi usavano i pomodori anche come medicina: purtroppo, la maggior parte delle loro ricette medicamentose sono tuttora molto difficili da eseguire. Per esempio, per curare l’acne si preparava una maschera di escrementi di lucertola, fuliggine e succo di pomodoro.

La bevanda per la convalescenza e il rafforzamento generale ci suonerà certamente molto più gradevole: succo di pomodoro appena spremuto, semi di zucca macinati, paprika gialla e succo d’agave cotto. Per l’asma e altri disturbi polmonari si mettevano i pomodori cotti, il più possibile caldi, sul petto, strofinandoli non appena erano abbastanza freddi assieme al copale, una incenso resinoso derivante dalla pianta di Icica icicariba.

Per i Maya il pomodoro era un alimento di uso quotidiano. Credevano che il succo di pomodoro aumentasse il sangue rosso in cui risiede la forza vitale dell’essere umano, rafforzandone così il corpo. Con il succo di pomodoro fresco si curavano anche le infezioni della pelle e le emorroidi.

La parola tomato, pomodoro in lingua inglese, deriva dalla parola azteca tomatl, che significa “una cosa rigonfia”, mentre i botanici europei hanno dato altri nomi a questo frutto sospetto. Il primo fu lycopersicum, “pesca del lupo”. 

Il termine “pesca” deriverebbe da una descrizione non molto dettagliata di un’antica pianta velenosa egiziana – presumibilmente la mandragola – che aveva anch’essa bacche di colore giallo oro e che il famoso medico romano Galeno aveva citato nei suoi scritti.

Il “lupo” derivava dal fatto che gli europei pagani chiamavano “piante lupo” tutte le piante velenose, caustiche o addirittura “maligne”.

L’illustre medico tedesco e membro della Royal Society dottor Michael B. Valentini (1657-1721), scrisse: il pomodoro «è chiamato ‘pesca del lupo’ perché, sebbene sia piacevole agli occhi, se la gente lo mangia, può venirne uccisa, proprio come dai lupi». Il frutto era chiamato anche “mela d’oro dall’odore fetido”.

Il termine pomodoro è da attribuire al botanico senese Pietro Andrea Mattioli, che per primo documentò il frutto in Italia nel suo Medici Senensis Commentarii del 1544, dove lo definì mala aurea. Lo stesso botanico lo ha tradotto letteralmente in italiano come “pomo d’oro” (per il suo caratteristico colore giallo oro prima dell’ultima fase di maturazione) prima nel suo Commentario a Dioscoride (1574) e poi nel suo Herbarius.

Altri botanici del XVI secolo pensarono a nomi più amichevoli per la nuova pianta, come “mela dell’amore” (poma amoris) o “mela del paradiso”.

Ma anche questi nomi trasmettono una diffidenza di fondo, una paura dell’erotismo e della sensualità. Il frutto, succoso e rosso come le labbra voluttuose, e pieno di semi viscidi, ricordava agli studiosi una fatale tentazione femminile. In Germania, una ragazza attraente viene ancora chiamata “pomodoro caldo” – che potrebbe però rivelarsi aspro – o “pomodoro capriccioso” – e una donna capricciosa viene chiamata “pomodoro con pepe”.

Quando il pomodoro divenne noto, gli studiosi dell’epoca si chiesero se potesse essere il frutto proibito che cresceva sull’Albero della Conoscenza Proibita nel Giardino dell’Eden. Il loro sospetto derivava dal resoconto di Cristoforo Colombo del suo terzo viaggio, che lo aveva portato fino alla foce del fiume Orinoco, sulla costa nordorientale del Sud America. Colombo scrisse che la regione era bella oltre ogni misura, la vegetazione era rigogliosa, gli animali erano pacifici e gli indigeni erano belli e in perfetta salute. Era convinto di essere approdato ai confini del Paradiso, il Giardino dell’Eden descritto nei testi sacri. 

Era mai possibile che i numerosi pomodori selvatici che crescevano in quel luogo fantastico fossero i discendenti del frutto proibito? 

Il nome “mela del paradiso”, già citato in precedenza, si diffuse relativamente. Per esempio, era il nome usato nei Paesi dell’Impero asburgico – Boemia, Slesia, Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Voivodina) e Tirolo; in Scandinavia sono ancora note come “mele del paradiso”: paradisaebleparadisaepplerajčica, o paradižnik, questi i nomi usati in questi luoghi. E oggi a Vienna solo i forestieri comprano “tomate” al famoso Naschmarkt; i viennesi acquistano Paradeiser.

Nell’Odenwald, vicino al Reno, i locali chiamano ancora il frutto “pomo d’Adamo” in ricordo della prima vittima della seduzione femminile. Anche se la gente diffidava di questo esotico “pomo d’amore” o “pomo d’oro”, esso trovò posto nei giardini europei come pianta decorativa, non da mangiare bensì come ornamento, troppo bello per non nascondere insidie.

Quest’aura di bellezza da temere attribuì al pomodoro poteri eccitanti e afrodisiaci che gli valsero appunto nomi come “pomme d’amour” in francese, o Liebesapfel in tedesco, o “love apple” in inglese.

Nella seconda metà del 1600 in Francia, gli spasimanti ne donavano grappoli ornamentali alle loro dame, a far intendere i loro desideri inesprimibili, e stuzzicarne l’appetito erotico.  Gli alchimisti lo impiegavano in pozioni e filtri magici.

Per molto tempo il succo di pomodoro è stato considerato una pozione d’amore segreta, che agli occhi dei Puritani “porta alla licenziosità”.

A poco a poco, però, se ne scoprirono le proprietà medicinali: il frutto rosso era ritenuto in grado di guarire ferite di vario tipo, tanto che il suo succo fresco veniva versato direttamente nella ferita per prevenire l’accumulo di pus e spalmato sulla cute contro lo sviluppo dell’erisipela. Gli esperti di medicina sperimentarono tinture a base di gambi freschi. L’idea derivava dalla forte somiglianza dei frutti della belladonna, che veniva usata per le pustole e le malattie della pelle di natura scrofolosa, come quelle causate dalla sifilide e dall’abuso di pomate al mercurio. 

Secondo il modo di pensare dell’epoca, era logico che questo “pomo d’amore” alleviasse i sintomi della sifilide, la malattia venerea con cui la dea dell’amore sensuale, Venere, aveva colpito l’umanità. Dopotutto, furono i marinai di Colombo a contrarre per primi la terribile malattia sessualmente trasmissibile, portandola con sé dal Nuovo Mondo. La dottrina medica dell’epoca affermava che il luogo in cui aveva origine una malattia era anche quello in cui si poteva trovare la cura.

Ma bisognerà attendere il XVI secolo prima che gli europei prendano in considerazione l’idea di mangiare pomodori, che dovettero passare attraverso i consueti processi di accettazione culturale.

L’incorporazione di questi prodotti nuovi, come molti provenienti dal Nuovo Mondo, entrarono nel meccanismo di sostituzione per diventare accettabili gastronomicamente: l’atteggiamento verso queste novità esotiche era di grande cautela e curiosità, tanto che ci si impiegò più o meno tre secoli prima che il pomodoro (e i suoi compagni, la patata, il mais, il peperoncino, il peperone) venisse adottato definitivamente, entrando nella dieta occidentale in modo così profondo e sistematico che sarebbe difficile immaginare le cucine europee senza di esso.

Il trucco è stato credere di poter trattare i nuovi prodotti in ricette tradizionali, dimostrando la capacità dei sistemi alimentari di rigenerarsi grazie ad apporti esterni e al tempo stesso riaffermare la propria identità: incorporare l’ignoto assimilandolo a sé.

Gli italiani furono i primi a osare mangiare il temuto frutto. Forse fu un innamorato respinto che volle togliersi la vita con la poma amoris, la mela dell’amore; forse cadde sul pane abbrustolito o nella pasta con olio d’oliva, aglio e prezzemolo. In ogni caso, il botanico Gioacchino Camerario il Giovane (1534-1598) scrisse: «In Italia molti hanno l’abitudine di mangiare questi frutti cotti con sale, aceto e olio, ma si tratta di un cibo molto poco salutare». 

In prima battuta si provò a friggerlo in padella come i funghi e le melanzane, ma l’evento decisivo che ne segnò il lancio fu la sua trasformazione in salsa di accompagnamento, utilizzata dal XVII secolo con carni e pesci e infine con la pasta.

Col tempo, l’Italia divenne la seconda patria del pomodoro, che si unì in matrimonio intimo con la pasta, sancendo il definitivo trionfo della pummarola.

Dal Settecento inizia la vera e propria “rivoluzione rossa”, a partire da Napoli, e la pasta si colora di rosso, non solo al Sud ma anche al Nord.

Interi campi di pomodori venivano coltivati anche nell’Italia settentrionale. I contadini della regione di Parma furono i primi a conservarli cucinando il succo o essiccando i frutti al sole.

Attraverso la riduzione del pomodoro a salsa, fu adattato a una fisionomia tipica della tradizione europea: già dal Medioevo i trattati di cucina dedicano moltissima attenzione alle salse, indispensabile accompagnamento a ogni piatto. Anche il pomodoro fu quindi accolto nelle cucine del vecchio continente solo dopo la sua riduzione morfologica a qualcosa di noto: una salsa, che lo rendeva decifrabile dagli usi tradizionali, aggiungendo nuove note di colore e sapore.

Invece, gli europei settentrionali e occidentali e i nordamericani impiegarono molto tempo per superare il grande tabù, anche se l’erborista William Salmon (1644-1713) riferì di aver visto crescere il pomodoro nelle prime colonie americane – nell’attuale Carolina del Sud, nel 1710 – presumibilmente solo come pianta ornamentale. Un colonnello americano di nome Robert Gibbon Johnson fu dichiarato pazzo nel 1820 quando annunciò che il 26 settembre avrebbe mangiato pubblicamente un intero cesto di pomodori seduto nel suo portico. Il giorno stabilito, più di duemila curiosi si presentarono per assistere allo spettacolo e, tra lo stupore di tutti, sopravvisse. 

Nel 1866 nella Germania settentrionale il “pomo d’amore” era considerato una pianta ornamentale, mentre nella Germania meridionale veniva coltivato e consumato come contorno o come ingrediente di zuppe. Ma scienziati e medici nutrivano ancora dei dubbi: sostenevano che, in quanto verdura che produce acidi, il pomodoro acidifica il sangue e i tessuti del corpo, esponendoli a reumatismi, gotta e artrite e, peggio ancora, favorendo il cancro. Oggi sappiamo che è esattamente il contrario. 

Solo dopo il 1920 il pomodoro è diventato veramente popolare negli States. L’industria agroalimentare ha coltivato enormi campi di pomodori ibridi standardizzati nelle nuove aree coltivabili nel deserto della California meridionale. Di conseguenza, il mercato statunitense fu inondato di succo di pomodoro, concentrato di pomodoro, pomodori in scatola, zuppa di pomodoro e ketchup. Per le star di Hollywood, il succo di pomodoro divenne parte del rituale quotidiano al pari del succo d’arancia e degli spinaci; e durante il Proibizionismo un cocktail popolare, il Bloody Mary, mascherava bene la vodka che si nascondeva al suo interno. 

Oggi l’americano medio consuma circa cinque chili di pomodori all’anno.

Non molto tempo dopo, i medici hanno trovato il modo di attestare notevoli vantaggi per la salute di questo ortaggio appena diventato di moda e redditizio. Essi riferirono che i pomodori sono buoni per la digestione, i disturbi dell’ira, la gotta, la polmonite e le affezioni cardiache e renali. I pomodori freschi aumentano la secrezione del pancreas e stimolano il movimento intestinale. Inoltre, sono ricchi di vitamine di alta qualità, tra cui la vitamina C, il carotene, la tiamina e la vitamina E, la “vitamina della fertilità”. Viene raccomandato per contrastare l’acidità di stomaco, la stitichezza, per fluidificare il sangue e per i disturbi legati alla gotta. Si usa anche appenderne gli steli e le foglie negli armadi per tenere lontane tarme e insetti.

Gli antroposofi, tuttavia, hanno ancora dei dubbi sul pomodoro. Notano che questa pianta non ha la forza per crescere sul suo stesso stelo essendo “appesantito dalla materia”. Il botanico Alfred Usteri (1869-1948), di orientamento antroposofico, era sospettoso di quella che definiva «una pianta rapace che prospera sui propri rifiuti e detriti compostati». Egli sostiene che il pomodoro riflette il materialismo che ha messo radici all’inizio del XV secolo e che è l’immagine speculare dell’egoismo umano che ha portato al razzismo, al nazionalismo e al consumismo. Il pomodoro, quindi, può causare malattie nell’essere umano, che rappresentano l’espressione fisica di queste configurazioni mentali. In altri scritti antroposofici ci sono anche avvertimenti sulla “forza espansiva in eccesso” del pomodoro e sulle “forze formative sbagliate che possono contribuire a promuovere il cancro, i reumatismi e la gotta”.

È interessante notare che recenti ricerche indichino ancora una volta il contrario: il pomodoro è anticancerogeno. Infatti, i casi di cancro sono statisticamente meno numerosi nelle zone in cui si consumano molti pomodori. Uno studio ha dimostrato che, grazie all’alta concentrazione di carotene e licopene, è particolarmente benefico per il cancro ai polmoni. Il contenuto di licopene del frutto lo rende anche uno degli alimenti antiossidanti più quotati.

E che dire delle folli fantasie che ritenevano il pomodoro una pianta stregata in grado di provocare pazzia e allucinazioni? Il glicoalcaloide solanina presente nelle foglie e nei gambi dei pomodori è davvero velenoso; può causare nausea, irritazioni alle vie biliari e ai reni, fluttuazioni cardiache, sudorazione profusa, crampi e perdita di coscienza, ma non è assolutamente uno psichedelico. 

A inizio maggio è il momento in cui pianto i pomodori in orto. Queste minuscole piantine, nate da un singolo seme di un frutto, in brevissimo tempo, con il calore del sole della stagione e poca acqua, raggiungeranno una stazza notevole e si riempiranno di grappoli pelosi, pieni di fiori gialli.

Il mio orto a metà giugno diventa un’esplosione di pomodori di ogni genere, pronti a soddisfare la mia voglia di freschezza o a riempire vasi di conserva.

Fino a fine settembre, se lasciate fare, le piante di pomodoro produrranno frutti, riempiendo ciotole su ciotole di frutti ogni settimana.

Non a caso questa pianta veniva vista come infida e demoniaca: da un solo seme si poteva avere un raccolto notevole, una vera stregoneria, opera del demonio.

Io, come molti di voi, ormai accetto che questo frutto azteco sia il protagonista della mia cucina estiva. E mentre mi mangio una frisa coloratissima e profumatissima, mi immergo nel fascino della storia di questa pianta magica.

ARTICOLO n. 30 / 2023

L’ASPARAGO, AFRODISIACO E ARISTOCRATICO

La mistica del cibo

La leggenda narra che il re Juan Carlos, assaggiando un piatto di asparagi, abbia esclamato «están cojonudos!» (“sono cazzuti”), e che da allora siano stati etichettati con questo nome suggestivo, che li distingue da molti altri.  Questi sono gli asparagi di Navarra, chiamati direttamente “cojonudos”, un prodotto che si caratterizza per essere più grande del normale, anche se, dicono, questo non toglia nulla al loro sapore. Coltivati nella parte alta della fertile valle del fiume Ebro, in Navarra, e raccolti a mano, sono un simbolo dell’ispanicità. Sembra quasi che, per gli spagnoli, il simbolismo sia direttamente legato al nome fortemente didascalico, senza sforzo alcuno nell’essere pudichi, anzi, facendosi forti di questo singolare primato mondiale.

Per me, il primo asparago dell’anno è sempre stata una piccola festa, perché voleva dire che la primavera era, finalmente, arrivata. Ricordo benissimo come, quando lavoravo al ristorante, la cella si riempisse di asparagi, cipolle novelle e fragole, unendo i loro profumi in un’unica fragranza inaspettata e gioiosa. Da poco prima di Pasqua alla fine di maggio, gli asparagi hanno accompagnato le mie primavere, sia che li usassi in cucina, sia che li mangiassi per diletto.

Nel Nord Europa, la stagione degli asparagi è un periodo dell’anno molto speciale. Pasqua e Pentecoste, che vengono celebrate con la stessa gioia del Natale, non sarebbero complete senza un piatto di asparagi imburrati.All’inizio della primavera, quando gli asparagi freschi iniziano a comparire sui banchi dei mercati, tutti sanno che il freddo è finito: questo ortaggio porta con sé, in qualche modo, la promessa di calde giornate estive dopo il lungo inverno.

Pianta dalla storia millenaria, i suoi germogli hanno forma cilindrica, il che li rende da sempre un simbolo fallico.Anticamente si credeva che bastasse sotterrare corna di montone forate perché i turioni (così si chiamano i germogli della pianta d’asparago che consumiamo in cucina) crescessero di loro sponte. Un fallo vegetale e il montone, anch’esso simbolo di potenza sessuale, uniti in un unico rito, per un prodotto dai poteri prodigiosi!

Gran parte dell’aura dell’asparago riguarda la sua reputazione di afrodisiaco ringiovanente. In effetti, alla base di questa descrizione c’è la convinzione che questi germogli fallici, dalla crescita prodigiosamente rapida, aumentino il desiderio e la potenza sessuale. Gli antichi greci attribuivano gli asparagi alla dea dell’amore, Afrodite. I Beoti facevano corone di asparagi per le spose. Il poeta Apuleio, autore de L’asino d’oro, avrebbe conquistato il cuore della ricca vedova Pudentilla con un filtro d’amore contenente asparagi, code di granchio, uova di pesce, sangue di colomba e lingua di uccello (il matrimonio gli valse un processo per stregoneria, ma fu assolto).

Questa pianta della famiglia dei gigli è decisamente aristocratica. I libri di cucina la elogiano come la migliore delle verdure, lodata in molti modi dai tempi antichi a oggi. Faraoni, imperatori, re, generali e grandi capi spirituali, poeti principeschi come Goethe e buongustai come Brillat-Savarin: tutti loro mangiavano e mangiano asparagi con grande entusiasmo. Ne consegue che gli antichi fitoterapeuti astrologi vedevano nell’asparago la firma del dio Giove, signore e fruitore di tutti i piaceri sensuali. Per gli antichi egizi l’asparago era un alimento sacro; per questo motivo lo includevano nelle offerte agli dèi. Durante gli scavi della Piramide di Saqqara, gli archeologi hanno rinvenuto preziose stoviglie con tracce di cibo identificate come asparagi. Fasci di punte di asparagi – insieme a fichi, meloni e altri cibi sontuosi – sono stati trovati anche nelle tombe di ricchi egizi sepolti circa cinquemila anni fa. All’incirca nello stesso periodo in Cina, gli ospiti onorati venivano trattati con un rilassante pediluvio agli asparagi al loro arrivo. Gli antichi greci erano soliti raccogliere asparagi selvatici, ma gli antichi romani si spinsero oltre, sviluppando i metodi di coltivazione necessari per la domesticazione di questo ortaggio.

Il modo in cui l’asparago è sempre stato consumato – e in alcuni casi lo è ancora – lo rende quello che gli antropologi chiamano cibo “cerimoniale”, ovvero, cibo consumato in un contesto speciale. I delicati germogli primaverili di questo membro della famiglia delle Liliacee si adattano perfettamente all’immagine della natura che finalmente si risveglia in primavera e alla resurrezione pasquale. Per la cena di Pasqua gli asparagi vengono spesso serviti con il prosciutto, e per una buona ragione: in questo abbinamento si annida un elemento simbolico arcaico. Un tempo, infatti, il maiale era considerato un simbolo di vita, gioia e fertilità per i Celti-Germanici-Slavi del Nord Europa. In alcune occasioni speciali, le tribù germaniche sacrificavano un maiale o un cinghiale per Freyt, dio fallico della fertilità e fratello della bellissima dea Freya. Si credeva che in primavera i due gemelli celesti attraversassero la campagna su un carro, mentre Freya spargeva fiori dalla carrozza. In epoca precristiana la gente celebrava una festa orgiastica di maggio durante il periodo della luna piena. Si innalzava il palo fallico del maggio, si ballava in cerchio e ci si abbandonava a un amore sensuale ed estatico. Dopo la cristianizzazione dell’Europa, questa festa fu trasformata in Pentecoste, che celebrava lo Spirito Santo che scendeva sul popolo per esprimersi nella lingua comune. Per questo motivo, in alcune regioni europee, il pasto della Domenica di Pentecoste consiste in lingua cotta di vacca servita con asparagi.

Tornando in epoca romana, si tramanda che Cesare Augusto fosse particolarmente ghiotto di asparagi, forse perché i germogli erano considerati uno dei più grandi afrodisiaci: e si sa, quello che fa l’imperatore, lo fanno tutti. 

Le cronache storiche riportano che l’imperatore Carlo V (1500-1558), sovrano dell’Impero asburgico, fece una visita inaspettata a Roma durante il periodo del digiuno. Poiché non c’erano molte provviste a portata di mano con così poco preavviso, il cardinale incaricato ebbe un’idea che salvò la situazione: fece preparare ai cuochi tre diversi piatti di asparagi, serviti su tre diverse tovaglie profumate e accompagnati da tre diversi vini squisiti. Si dice che l’imperatore sia stato conquistato da queste prelibatezze primaverili, tanto da lodarle per molti anni a venire.

I piatti a base di asparagi erano molto apprezzati anche alla corte del Re Sole (Luigi XIV). Chi voleva conquistare Madame de Maintenon, la seconda moglie del re, doveva solo portarle una nuova ricetta a base di asparagi. Tutte le ricette che ricevette dettero vita a un libro, e la zuppa di asparagi alla Maintenon è ancora oggi nota tra i buongustai. 

C’è inoltre un aneddoto di lungo corso che riguarda gli asparagi e la Roma dei Cesari. Ce lo racconta Plutarco in una delle sue Vite parallele, la De vita Caesaris. Siamo fra il 54 e il 53 a.C. quando Cesare e i suoi generali giungono a Mediolanum, cioé Milano, durante le vittoriose campagne belliche contro le Gallie. Invitati nella domus di Valerio Leonte, vengono festeggiati con un enorme piatto di asparagi al burro, tipico condimento celtico. I generali romani si sentono offesi per quell’ “unguento” – che le matrone dell’Urbe usavano come belletto – sparso sugli asparagi. Ma Cesare, inappuntabile, divora gli asparagi e ringrazia il padrone di casa, poi chiama a raccolta i suoi generali ed esordisce con una delle frasi capitali sull’estetica del gusto: »de gustibus non dispuntandum est», sui gusti non si discute. 

L’asparago godeva fama di afrodisiaco, e al tempo stesso di anticoncezionale: a tali fini erano utilizzati il decotto della pianta, oppure se ne usavano i semi misti a quelli di aneto, ma secondo alcune fonti anche un sacchetto di turioni nascosti tra le vesti poteva fungere allo scopo.

Aveva grande fama di afrodisiaco anche tra gli antichi greci e romani, che però pare ne avessero opinioni contrastanti: tuttavia lo stesso Plinio lo raccomanda come alimento utile ad accrescere l’eros. Viene prescritto e utilizzato come afrodisiaco anche nel periodo medievale e rinascimentale: il medico cinquecentesco Castore Durante scrive nel suo Herbario novo che gli asparagi, »mangiati caldi con un poco di sale e butiro, provocano al coito».

Oltre che come afrodisiaco, Plinio lo consigliava come cibo salutare per lo stomaco; consigliava inoltre la radice, tritata e bevuta in vino bianco, per espellere i calcoli, calmare le lombalgie e i dolori renali. Sempre secondo Plinio, l’asparago funzionava come deterrente per le api: a tal fine, bisognava aspergersi di asparago tritato e imbevuto d’olio perché le api non si avvicinassero a pungere!

A Francavilla Fontana, con i rami si intrecciavano le corone di spine utilizzate dai confratelli nelle processioni della Settimana Santa.

Sebbene questo pregiato ortaggio sia stato posto sotto il dominio di Giove, non vi risiede in modo esclusivo. I medici medievali, non a caso, lo attribuivano anche a Venere, la dea planetaria che governa gli organi urinari e sessuali. Di conseguenza, questi medici prescrivevano di cuocere l’asparago in acqua o vino e di berlo per aumentare la produzione di sperma e stimolare la libido. I medici galenici umorali prescrivevano la pianta anche per le ostruzioni del fegato, della milza e dei reni, nonché per i calcoli renali, poiché era considerata “diluente, diuretica e divisoria”. 

Dapprima pianta selvatica infestante, che cresceva lungo i bordi delle strade e i binari della ferrovia, nel XVII secolo l’asparago iniziò a essere coltivato in Europa centrale come ortaggio e pianta medicinale.

Da quel momento in poi viene citato nei libri di erboristeria. Negli speziali la radice era chiamata “officinale” – da cui deriva il nome botanico officinalis – che significa che si trovava nell’officinarum, il laboratorio degli speziali. Questo significa anche che la radice di asparago era riconosciuta dai medici galenici come una vera e propria medicina, in particolare per la “fluidificazione del sangue”, per i “dolori alle anche” (reumatismi, sciatica), per l’epatite, per i calcoli renali e per i disturbi urinari. Pietro Andrea Mattioli (1501-1577), medico personale dell’imperatore asburgico, scrisse nel suo libro di erbe del 1544: «L’asparago fa venire agli uomini desideri piacevoli», una convinzione condivisa anche dalla gente più semplice, come recita un ironico detto popolare svevo: «Il pastore sa bene perché ha gli asparagi nel suo orto». In Transilvania era noto come “fuso nei pantaloni”. In Stiria, regione dell’Austria che un tempo fu Slovenia, il vino con i semi di asparagi veniva prescritto contro la sterilità. 

Nella medicina rinascimentale lo si prescriveva come afrodisiaco, «mangiati caldi con un poco di sale e di butiro».

Nella fitoterapia moderna, l’asparago è ancora considerato un efficace diuretico. I preparati a base del germoglio prodigioso vengono consigliati per i calcoli renali, gli edemi, l’artrite, i reumatismi, la gotta, l’insufficienza cardiaca e le affezioni del fegato e della milza. Come tale, è efficace per il diabete, i disturbi cardiaci e le affezioni renali minori.

L’asparago è presente anche in alcuni ricettari magici: tra le antiche ricette rinvenute a fini etno-antropologici dal tossicologo Malizia (una selezione da formulari, manoscritti e testi che vanno dal 1400 agli inizi del 1800), si ritrova insieme ad altri ingredienti nella composizione di un impiastro indicato nella forma di un »composto per riparare la verginità perduta» e come »rimedio per recuperare la virilità».

Ritorna qui la singolarissima credenza magico-popolare per cui, se si sotterravano delle corna di montone forate, da lì nasceva un asparago, come vi raccontavo poco fa.

Come spesso nella storia, la forma rievoca il simbolo che si associa a un oggetto e l’asparago era quindi chiaramente associato alla sessualità in virtù della forma dei turioni, che rammentano il pene in erezione: e così, secondo la teoria della segnatura, il consumo dei germogli di questa pianta influisce in modo benefico sull’organo umano a cui i germogli assomigliano.

In effetti la pianta, soprattutto quella selvatica, è ricca di sostanze energetiche: vitamina A, B, B2, amminoacidi e oligoelementi che migliorano le funzioni renali e ne rimuovono i sedimenti. 

L’asparago era considerato un tonico sessuale anche in altre culture. Gli indù lo attribuivano al loro “cupido”, Kamadeva, che poteva aiutare una bella fanciulla, la giovane Parvati, ad abbindolare persino il dio più ascetico, Shiva; ciò avvenne aiutando Parvati a distrarre il dio asceta ricoperto di cenere per il tempo sufficiente a farlo innamorare di lei. Anche se in seguito sposò Parvati, lo yogi estremo Shiva si infuriò per aver interrotto la sua profonda meditazione e ridusse Kamadeva in cenere con il suo terzo occhio infuocato. Scioccate, le dee implorarono Shiva di riportare in vita il dio dell’amore e del desiderio sensuale. Shiva finalmente acconsentì e riportò in vita Kamadeva, ma non avendo più un corpo divenne ancora più insidioso, soprattutto quando invisibile scagliava le sue frecce al miele nei cuori più sfortunati.

Nella tradizione medica indiana dell’Ayurveda, sebbene l’asparago selvatico (satavar o satamuli: sat = cento, muli = radici) sia usato anche come tonico del cuore e del cervello è generalmente considerato una pianta curativa per i disturbi sessuali e l’infertilità, soprattutto perché si ritiene che aumenti l’ojas, l’energia luminosa generale. Il succo delle radici viene cucinato con burro chiarificato (ghee), succo di limone, miele, pepe lungo (Piper longum) e latte per creare un afrodisiaco che aumenta lo sperma, favorisce la produzione di latte materno e tonifica l’utero. 

In una tradizione simile, i musulmani cucinano le radici (safed musli) nel latte come sostituto del salep, il famoso elisir a base di bulbi di orchidea per aumentare la prestanza maschile e per “addensare e aumentare lo sperma” (de Vries 1989, 303). 

In Cina, l’asparago (conosciuto da più di cinquemila anni con il nome di Tien men Tong) è utilizzato come diuretico ed espettorante. Germoglio prediletto dai regnanti, quando scende di classe assume aura di prezioso, proibito, afrodisiaco, un po’ come quasi tutti gli alimenti nobilitati dall’attenzione delle mode dei potenti. Ed è proprio in una delle città austroungariche più aristocratiche che ho potuto consumarli alla maniera austriaca: una volta, da ragazzino, mi sono trovato a Vienna, a mangiare in un ristorante lungo il Danubio, dove dicevano di servire i migliori asparagi fritti della capitale! Erano effettivamente buoni, ma era forse più suggestiva tutta la scenografia attorno, rimane il fatto che per me gli asparagi bianchi si gustano al meglio bolliti e quelli verdi abbrustoliti direttamente in padella, con olio e sale: la semplicità paga sempre quando l’ingrediente è prezioso.

ARTICOLO n. 22 / 2023

LA CIPOLLA DI MARTE E DI LUNA

La mistica del cibo

Accendo la stufa economica e ascolto lo scoppiettio della legna che prende pian piano. La cucina e la casa iniziano a mutare, a farsi più piccole, accoglienti, si sente nell’aria l’odore della ghisa che si scalda ed entro in una dimensione parallela di rusticità che mi riporta nelle campagne francesi, in una tipica casa contadina dal tetto di paglia.

All’imbrunire, la cipolla diventa più dolce, un ingrediente amico, che può diventare alimento principe di una cena scalda cuore.

Sotto al lavello di marmo tengo sempre un sacco di cipolle dolci francesi, proprio per questi momenti.

Le sbuccio, ne pregusto la succosità all’interno della croccantezza delle sue foglie: gli strati commestibili di questo bulbo sono a tutti gli effetti delle foglie modificate.

Succosa, leggermente piccante e dolce al punto giusto, croccante, è la cipolla perfetta da mangiare assieme ai čevapčiči, uno dei cibi che mi preparava d’estate mia nonna in Slovenia.

È lei che mi ha insegnato a mangiare la cipolla cruda dicendomi: «la cipolla è come una mela!» e a seguire ha mollato un morso pieno a una cipolla bianca enorme. Ci sono rimasto di stucco, ma ho imparato una lezione: la cipolla non è ostile, ma è un simbolo, risveglia in noi un classismo interiorizzato.

In epoca romana classica le persone colte evitavano chi puzzava di cipolla, e “mangiatore di cipolle” era un termine dispregiativo. Tuttavia, Varrone, un romano contemporaneo di Cesare, scrisse: «I nostri nonni erano persone molto rispettabili anche se le loro parole puzzavano di aglio e cipolla».

Il cibo è sempre stato segno di identità sociale, tanto che andava di pari passo con la propria estrazione, e chi non rispettava questa regola attentava al privilegio di classe, evadendo l’ordine sociale.

Zuco Padella, contadino della campagna bolognese, dopo essere stato colto a rubare le pesche del suo padrone, Messer Lippo, catturato con una trappola per animali, viene punito con un lavaggio di acqua bollente e la frase che gli viene detta rimarrà nella storia: »Un’altra volta lassa stare le fructe de li miei pari e mangia de le tue, che sono le rape, gli agli, porri, cepolle, e le scalogne col pan de sorgo».

Il mangiare cipolla è da sempre stato simbolo della bassezza sociale, di una condizione di non-agio. Un mangiare da contadini, lavoratori o soldati, tanto da essere conditio sine qua non della razione kappa dei soldati romani, e data ai gladiatori, prima dei combattimenti, per aumentarne il furore bellico.

La cipolla è una delle prime piante addomesticate al mondo: nel Neolitico veniva coltivata in India, Cina e nel Mediterraneo orientale. Lo storico greco Erodoto ha notato come un’iscrizione sulla piramide di Cheope in Egitto indichi la quantità di cipolle, aglio e ravanelli mangiati dagli schiavi che la costruirono. 

Per i Pitagorici la cipolla aveva proprietà afrodisiache, quindi era un alimento da evitare nella propria dieta. Un bulbo che è pregno di significati e credenze erotiche, forse per la sua forma sensuale evocativa che assume se tagliato per lungo.

Una dose giornaliera dell’umile bulbo era considerata una condizione necessaria per un’attività erotica intensa e gratificante.

Si pensava infatti che contenesse la piccantezza di Marte, il dio responsabile dell’ardore. Per questo motivo i Greci ritenevano che le cipolle stimolassero il desiderio sessuale e la vivacità generale. Per i Romani non era diverso, come afferma questo detto sull’impotenza maschile: «Se le cipolle non possono aiutare, niente lo farà!»

L’Ayurveda indiano sostiene inoltre che la cipolla nutre il seme dell’uomo (shukra), per cui i medici la prescrivono per aumentare la quantità di sperma.

In effetti, i penitenti e gli asceti indiani (sannyasi) che hanno rinunciato alla mondanità e alla procreazione evitano di mangiare cipolle e aglio in qualsiasi circostanza, avendo questi una forza eccessivamente distraente.

La zuppa di cipolle è anche una famosa specialità francese che, si riteneva, portasse a delle “longue nuits de fole”, lunghe notti di follie sessuali: la soupe à l’oignon come afrodisiaco a basso costo!

Era considerata dai popoli mediterranei un miracoloso stimolante del desiderio, tanto che il poeta Marziale, in un celebre epigramma (dal Liber XIII), consiglia di saziarsi di cipolle per risolvere problemi con le voglie e con la moglie.

Cum sit anus coniunx et sint tibi mortua membra,

nil aliud bulbis quam satur esse potes.

Se hai una moglie vecchia e hai perso il vigore delle membra, le cipolle possono solo servire a saziarti.

Nella loro conquista delle terre del Nord, i legionari romani portarono con sé varietà di cipolle coltivate che piantarono nei loro giardini. I Celti e i Germanici erano entusiasti di questo nuovo “porro”, soprattutto perché l’aglio orsino, chiamato anche “ramsons” o “aglio selvatico”, era già considerato sacro dagli abitanti del Nord, che lo consideravano vitalizzante, depurativo del sangue e afrodisiaco.

Questo “porro” straniero, per il quale i barbari usavano vari nomi, come ynnlek, allouk, oellig, ublek o ullig, entrava nell’orto di ogni donna, dove, si dice, rimaneva. Il botanico tedesco Hieronymus Bock (1498-1554), che aveva sentito parlare del culto della cipolla sacra da parte degli Egizi, commentò: «Anche noi tedeschi non possiamo fare a meno di questi beni divini. […] Ci sono molti che credono che se mangiano un po’ di cipolla cruda a stomaco vuoto come prima cosa al mattino saranno protetti dall’aria cattiva e velenosa per tutto il giorno. […] Molti la usano per piacere lussurioso, altri per uso medico». Inoltre, egli notò che in Germania quasi nulla era più usato delle cipolle per preparare le torte tanto che ancora oggi nelle regioni della Germania meridionale la torta di cipolle rimane una specialità.

Le cipolle e l’aglio non hanno solo la piccantezza di Marte, ma appartengono anche alla luna acquatica e alla purezza, al candore. L’antichità classica e il primo cristianesimo vedevano nella cipolla un altro aspetto dei vari membri della famiglia dei gigli: erano visti come simboli di purezza, innocenza e verginità. In Grecia si credeva che i gigli nascessero dalla terra dal latte che colava dai seni di Era, la regina del cielo. Per i cristiani, il giglio divenne un simbolo dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria: l’arcangelo Gabriele scese dal cielo con un giglio bianco in mano quando annunciò il concepimento a Maria. Queste credenze si basano sulla percezione che le piante di giglio non sono del tutto ancorate a terra: le loro radici sono poco profonde e il modo in cui i bulbi si arrotondano alla base ricorda una goccia d’acqua. Questi bulbi simboleggiano il percorso compiuto dalle anime che si incarnano quando passano dall’alto dei cieli, attraversando la porta della luna fino alla sfera materiale della terra. Ma simboleggiano anche il ritorno dalla terra all’eterno grembo dell’essere.

La cipolla, una pianta triennale del genere Allium cepa, cipolla-aglio o allium, è originaria delle steppe asiatiche, un clima estremo al quale si è completamente adattata. Nella primavera umida, le piccole cipolline iniziano a germogliare e ad assorbire luce e calore fino all’inizio dell’estate. Più tardi, quando il clima diventa più secco, si formano i bulbi succulenti e semisotterranei, cioè le cipolle mature a grandezza naturale.

L’anno successivo questi germogliano in fiori e semi. Nel frattempo, per sopravvivere all’inverno secco e gelido delle steppe, i bulbi immagazzinano le forze vitali acquose della luna nella loro pelle stratificata, arricchendola di glicosidi solforati. Secondo gli alchimisti di un tempo, lo zolfo è un trasportatore di luce e calore. È questa combinazione di acqua lunare e di energia del fuoco di Marte che conferisce alle cipolle il loro straordinario potere curativo.

Porri selvatici e cipolle di vario tipo si trovano anche nelle steppe dell’America settentrionale, dove i nativi americani li raccoglievano per scopi alimentari e curativi. Il nome “Chicago” deriva appunto da una parola degli indiani Fox che significa “un luogo che puzza di cipolle selvatiche”. Proprio come le loro controparti eurasiatiche, i nativi americani usavano le cipolle per le punture d’insetto, le infezioni e le infiammazioni; estraevano il veleno e il pus dai carbuncoli e dagli ascessi con cataplasmi di cipolla o con uno sciroppo di cipolla ridotto (un metodo particolare degli Irochesi). Per guarire raffreddori e sinusiti, gli indiani Piedi Neri mettevano le cipolle su rocce arroventate e ne respiravano il vapore caustico. Le donne native americane in allattamento bevevano decotti di cipolla per trasferire le sue qualità curative ai loro bambini nel loro latte!

Le cipolle hanno una lunga storia nelle usanze popolari, nel simbolismo e nelle pratiche curative di India, Cina e Mediterraneo orientale. Ad esempio, il simbolo cinese di “intelligente” è lo stesso di “cipolla”. Le levatrici cinesi tradizionalmente toccavano la testa del nuovo nato con una cipolla, affinché crescesse intelligente.

La cipolla era una pianta sacra anche nell’antico Egitto di cinquemila anni fa.

I bulbi di cipolla venivano offerti agli dèi e messi nelle mani, sugli occhi o sui genitali delle mummie. Sulle cipolle si facevano giuramenti sacri. La pianta, delicata e succosa, era dedicata alla grande dea Iside e ai suoi sacerdoti era vietato mangiare cipolle. Iside è la padrona della periodicità della luna e dei ritmi femminili. Gli egizi credevano che la crescita della cipolla fosse legata alle fasi lunari, così come lo è il ciclo mestruale.

Il geroglifico egizio che indica la luna nella sua forma calante e crescente è una cipolla. La luna dà alle piante la loro energia vitale e governa i liquidi della vita. In quanto padrona della luna, la dea governa anche sulle acque, il latte cosmico della vita. La cipolla assorbe questo latte cosmico; quando una persona mangia quella cipolla, le ghiandole si attivano, comprese quelle riproduttive. Così, la cipolla divenne anche un simbolo di lussuria e procreazione. L’antica parola egizia che indicava i testicoli, oltre al geroglifico della luna di cui sopra, era la stessa che indicava la cipolla.

Questo bulbo così a buon mercato è stato a lungo un alleato dei poveri, sia come alimento che come importante guaritore, soprattutto per coloro che non potevano permettersi una visita medica.

Ancora oggi è una tra le piante curative più utilizzate nella medicina popolare. 

Cataplasmi a base di cipolle finemente tritate e cotte al vapore sono utilizzati con successo per molti disturbi, tra cui infezioni sinusali, ascessi e foruncoli, infiammazioni polmonari, infezioni alle orecchie medie e tonsilliti. Il pastore svizzero e guaritore Johann Künzle (1857-1945) ha sottoscritto l’uso tradizionale quando ha annunciato che: «Le cipolle tritate e cotte al vapore tirano fuori la malattia in modo così forte che diventano nere e puzzolenti; le cipolle assorbono il veleno della malattia».

La credenza nella capacità del bulbo di assorbire il veleno e le “radiazioni” negative era condivisa dall’Inghilterra all’Europa orientale. Gli inglesi appendevano un mazzo di cipolle in cucina per “assorbire la sfortuna” e addirittura indossavano una cipolla come amuleto o la strofinavano sulle piante dei piedi per far uscire le malattie dal corpo. In Boemia e nelle montagne di Erz, le cipolle bianche consacrate venivano appese in salotto il giorno dei Re Magi “perché attirano e neutralizzano le febbri”. Allo stesso modo, gli abitanti delle campagne olandesi appendevano un cesto di lino con cipolle tritate sopra un bambino malato che implorava. Si credeva che la cipolla fosse in grado di allontanare non solo malattie e pestilenze, ma anche streghe malvagie, spiriti maligni e vampiri. 

Per la nostra tradizione italiana, si pensa che portare una cipolla in tasca protegga dal malocchio. I serbi infilavano una cipolla tra i seni di una giovane sposa per proteggerla dai cattivi desideri che i vicini invidiosi potevano nutrire nei suoi confronti.

E queste superstizioni sulle cipolle si sono diffuse ben oltre l’Europa. In India, nei periodi di peste del bestiame, i contadini appendevano cipolle dipinte di rosso a una corda che attraversava l’ingresso del villaggio. In Cina era comune indossare una “collana” di cipolle durante l’epidemia di colera. In molti luoghi era considerato di buon auspicio per un convalescente sognare una cipolla, un segnale che garantiva il ritorno alla salute.

Lo sciroppo di cipolla (succo di cipolla ridotto in miele o zucchero), antinfiammatorio, espettorante e sedativo, è popolare in molti luoghi per la bronchite o la tosse persistente: questa ricetta è conosciuta sia in India che in America, portata dall’Europa dagli olandesi della Pennsylvania. Per il naso che cola, il guaritore naturale svizzero Alfred Vogel (1902-1996) consiglia il decotto di cipolla: cipolle a fette in infusione con acqua bollente, da sorseggiare durante la giornata. 

La medicina popolare raccomanda anche di tenere un cataplasma di cipolla calda per quindici minuti sui muscoli affaticati dalla lombalgia. Le articolazioni reumatiche, la sindrome del dolore sciatico e il dolore neuropatico, persino le punture d’insetto e le verruche, possono essere trattati con cipolla cruda appena tritata. Per un trattamento simile, le fette di cipolla cruda e salata possono essere avvolte sui calli durante la notte. Insomma, un toccasana per ogni male!

Non c’è da stupirsi, quindi, che si sia sviluppata un’intricata tradizione intorno alla coltivazione delle cipolle. Le cipolle da seme venivano messe nel terreno nel segno del Capricorno affinché diventassero sode e dure, mentre in Acquario sarebbero marcite e in Sagittario sarebbero spuntate senza formare un bulbo. Quando le si piantava nel terreno si consigliava di farlo con rabbia, imprecando, in modo da rendere le cipolle vigorose.

I contadini europei usavano le cipolle come oracolo durante i dodici giorni di Natale: si sbucciavano dodici bucce di cipolla, una per ogni mese dell’anno, poi le si cospargeva di sale. Il mattino seguente, in base a quanta umidità vi si era accumulata durante la notte si prevedeva la quantità di precipitazioni che si sarebbero verificate nei mesi corrispondenti dell’anno successivo. 

L’oracolo della cipolla è conosciuto in tutta Europa. Le giovani donne usavano la cipolla anche come oracolo matrimoniale. La Vigilia di Natale mettevano una cipolla per ogni scapolo conosciuto in un angolo del caldo salotto. Il 6 gennaio, per l’Epifania, vedevano se qualcuna era germogliata: nessun germoglio voleva dire nessun matrimonio per l’anno seguente.

Si pensava anche che le cipolle piantate il Venerdì Santo, giorno in cui il Signore fu inchiodato alla croce, sarebbero state pungenti, facendo “scorrere molte lacrime” quando mangiate.

Un detto siciliano dice: “iu manciu cipudda e a iddu c’abbrucianu l’occhi” (io mangio cipolla e a lui bruciano gli occhi): c’è chi si lamenta senza ragioni, e chi invece mangia cipolla, ovvero accetta la sua condizione con umiltà, anche se da lamentarsi ne avrebbe a buona ragione.

Ma perché la cipolla ci fa così piangere? Sono il solfuro di allile e propile, che assieme costituiscono uno dei più potenti lacrimogeni mai inventati. Il composto solforato allicina ha un effetto antivirale e antimicrobico. Inoltre, l’allicina rafforza il sistema immunitario aumentando l’attività delle cellule killer. Ostacola l’ossidazione del colesterolo nel sangue, proteggendo così dall’arteriosclerosi.

I “mangiatori di cipolle” regolari hanno valori ematici migliori; questo perché l’allicina rallenta l’adesione delle piastrine e accelera lo scioglimento dei puntini nel sangue. Inoltre ostacola i batteri nitrificanti e quindi lo sviluppo di nitrosammine carcinogeniche nell’intestino. Ma i benefici per il sangue non finiscono qui: gli acidi fenolici e i flavonoidi della cipolla hanno anche un effetto benefico sul sistema circolatorio, compreso l’abbassamento dei livelli di zucchero nel sangue dei diabetici. 

Mia nonna ha origini umili, nata nelle campagne della Slovenia dell’Ovest: mi ha insegnato tante cose della vita in campagna, oltre a cucinare, e anche a mangiare cipolle. Da quel giorno, non ho più visto la cipolla come un alimento da evitare, ma come un ingrediente che di per sé poteva essere principe di un pasto prelibato, di alta gastronomia!

Cruda o cotta, ridotta nel vino, flambata con il rum o messa sott’olio, la cipolla è uno degli ortaggi che preferisco, da sempre, nella mia cucina.