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ARTICOLO n. 61 / 2024

Di Silvia Ronchey

EROS

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

«Non vedi come soffrono le coppie legate dal piacere? Anche quando l’amore è felice e i corpi si congiungono e sono vicini a godere e Venere inonda la femmina, i due si avviluppano, mescolano la saliva con la lingua, premono le labbra contro i denti, ma è inutile: non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere», diceva Lucrezio (De rerum natura, IV, vv. 1105-1111). 

Ma se, scriveva tre secoli prima Platone nel Simposio, Efesto il fabbro, il dio del fuoco e delle fucine, apparisse in quel momento ai due amanti con i suoi strumenti e chiedesse: cosa volete? forse volete fondervi? Io potrei farvi diventare da due uno solo, finché sarete in vita e poi ancora nel mondo dei morti, loro stupiti e imbarazzati direbbero di sì, che è proprio quello che da tempo desideravano, da due diventare uno, congiungendosi e confondendosi (192d). 

Sempre nel Simposio Aristofane racconta che in origine gli esseri umani avevano quattro braccia e quattro gambe e due facce rivolte all’opposto su un’unica testa, e quando volevano muoversi velocemente rotolavano come una palla. Fu Zeus, per moderare la pretesa di perfezione di queste creature sferiche, a dividerle in due, incaricando Apollo di girare i loro volti in modo che guardassero di fronte. Ma gli esseri umani così scissi sentivano una terribile mancanza dell’intero originario e ognuno andava cercando la metà perduta e la abbracciava e cercava di fondersi con lei, fino a morire di inedia e di inazione. Perciò Zeus, impietosito, inventò l’unione sessuale e da allora ogni essere umano cerca di ritrovare così l’unità antica e di riunirsi alla metà mancante (189d-191d). 

«Ma coloro che trascorrono insieme tutta la vita — cito ancora — non saprebbero neppure dire che cosa vogliono ottenere l’uno dall’altro. Nessuno potrà credere che si tratti solo del piacere sessuale. È evidente che l’anima di entrambi vuole qualcos’altro che non è capace di esprimere. Di ciò che vuole ha un presentimento, e parla per enigmi».

 «La verità, vi prego, sull’amore», invocava Wystan Hugh Auden. Non c’è nulla di più beffardo del discorso di Aristofane nel Simposio e del suo mito degli uomini palla. Chi può dire di conoscerlo, l’amore?

Eros stesso è l’unico dio che non è né sapiente né ignorante. Nel Simposio c’è il famoso discorso di Diotima, dove dice (203e): «Eros non è mai sprovvisto né ricco, e d’altro canto sta in mezzo tra la sapienza e l’ignoranza». Segue spiegazione: «Gli è propria la tensione verso la sapienza, dunque è più ignorante dei sapienti; ma d’altra parte non è ignorante, perché gli ignoranti non desiderano diventare sapienti». 

Il fatto è che Eros è figlio di una mancanza: sua madre è Penìa, Povertà, che durante il banchetto per la nascita di Afrodite chiede l’elemosina alla porta degli dèi. Lì si imbatte in Pòros, figlio della dea Mètis, Intelligenza. Lui è ubriaco e lei lo seduce mentre è semincosciente. Dal connubio nasce Eros, che contiene in sé un’assenza, un’indigenza (penia), ma proprio da questa è spinto a cercare ogni via, sotterfugio, espediente (poros) per raggiungere ciò cui tende: così Platone, Simposio, 203b-e. In questo senso per Diotima Eros, non essendo né mortale né immortale, in una stessa giornata ora vive, quando trova una nuova strada (poros), ora muore ma ritorna di nuovo alla vita grazie alla natura del padre; ma ciò che si è procurato è poco e scorre sempre via (203e). 

Perché è vero che l’amore è una manìa, ossia una forma di follia in senso tecnico, classificata come tale dalla medicina dei greci oltre che dalla loro filosofia, per esempio nel Fedro di Platone. È vero che, come diceva Omero, l’amore fa perdere la ragione anche ai più saggi. È vero che scrolla la mente come una ventata che si abbatte sulle querce, come diceva Saffo. Che suscita nella psiche un’affezione bipolare: «Amo. Non amo. Sono pazzo. Non sono pazzo», come diceva Anacreonte. Che sgomenta chi dopo anni riconosce il suo «sguardo struggente sotto le palpebre scure», come Ibico: «Io tremo quando lo vedo venire / come un cavallo già vecchio / allenato a molte vittorie / controvoglia / si avvia alla gara dei carri veloci».

Ma è anche vero che solo attraverso questa emozione che “scioglie le membra” proprio come la morte al guerriero omerico (la formula omerica: «Si sciolsero le membra, e la vita volò via»), attraverso questa vana macina di ricchezza e miseria – tutto ciò che Eros accumula scorre via, per questo non è mai né povero né ricco –, di sapienza e ignoranza, questo continuo sperpero che chi ama fa di sé, l’amore crea quello stato di vuoto, di penuria assoluta, di vanificazione dei fini materiali di cui affolliamo la nostra esistenza per superficialità, per horror vacui, per orrore del vuoto, o semplicemente per conformistica, depressa accettazione delle regole della tribù. 

Eros sgombra il campo: procura un’alienazione mentale che ci salva dall’alienazione sociale, ci mette in contatto con l’assoluto, ci rende indifferenti a ogni status aleatorio, a ogni ricchezza illusoria, ci spinge a raggiungerne un’altra più profonda. Eros «ci svuota dell’estraneità e ci riempie di intimità» (Platone, Simposio, 197d).         

Per questo l’amante è più caro al dio e più divino dell’amato (180b). Il desiderio alimentato dalla mancanza fa sì che l’amante continuamente si ravvivi e la passione diventi tensione verso la ricerca di un inesprimibile bene e faccia di lui «un uomo destinato a vivere in modo bello» (178c) e a «creare nel bello, col corpo ma soprattutto con l’anima», come dice la maestra d’amore di Socrate, Diotima (206b-c).

Così, come nella fiaba di Amore e Psiche, Eros è il misterioso tramite dell’unica possibile conoscenza umana, il mezzo dell’unico possibile miglioramento individuale, il veicolo dell’unica possibile sintonia della psiche con il cosmo. Perché l’una e l’altro, per i greci, sono generati e permeati da Eros. 

Già per i presocratici Eros promuove la nascita di ogni cosa. Nella Teogonia di Esiodo emerge direttamente dal caos, nelle cosmogonie orfiche si identifica con la stessa energia cosmica: come racconta Aristofane negli Uccelli (693-699), dal seno sconfinato dello spazio primordiale, da Caos, Notte, Erebo, Tartaro, che ospitavano la materia senza che ci fossero ancora terra né aria né cielo, «la Notte dalle ali di tenebra generò un uovo pieno di vento, e da questo uscì Eros, sul cui dorso splendevano ali d’oro, ed era simile alla tempesta, e congiunto a Chaos nella vastità del Tartaro covò la nostra stirpe e questa fu la prima che venne alla luce».

Ed è così che gli umani, per citare Cole Porter, begin the beguine, cominciano la danza — una danza estenuante, come appunto la beguine. Nessun essere umano può essere defraudato della sua energia. È una forza che porta ordine al cosmo e un apparente disordine all’anima. Ma se raccogliendo la sapienza greca si contempla nel microcosmo dell’anima il processo ciclico di desiderio e tensione, unione e creazione, distacco e mancanza, sconvolgimento e rinnovamento che governa il grande cosmo, se ci si immerge nel suo vuoto e ci si specchia nel suo  caos, se ci si scioglie dalla sofferenza dell’io per cogliere nelle vicissitudini della psiche individuale il riflesso dell’anima del mondo, si può come i greci avere il dono di avvertire, nella beguine di Eros, il rumore di fondo dell’universo.

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ARTICOLO n. 60 / 2024

Di Ippolita

CONTROLLO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Potrebbe sembrare scontato legare il tema del controllo a quello delle tecnologie digitali ma forse non lo è così tanto, considerato che c’è chi si indigna anche solo all’idea di accostare i due termini.

Eppure non solo da tanti punti di vista la cosa può aver senso, ma c’è anche una buona biografia a sostenere un simile approccio. Certo, forse una biografia non troppo accademica, probabilmente eterodossa, ma certamente di un certo rilievo.

Volendo però fornire qualche elemento per un ipotetico sommario si potrebbe cominciare nominando la creazione della cibernetica, la nascita e lo sviluppo della rete internet, le intuizioni visionarie di Burroughs e le riflessioni di Deleuze sulle società del controllo, certi scritti un po’ dimenticati del Critical Art Ensamble e di Tiqqun, passando per le analisi di Stiegler e del Comitato invisibile per arrivare alla gran quantità di studi dedicati all’argomento degli ultimi quindici anni. E come tralasciare tutto il dibattito intorno alla sorveglianza, la trasparenza, la biometria e la privacy?

Da questi pochi elementi dovrebbe già essere chiaro il motivo per il quale appare oggi del tutto in cattiva fede tenere separato il discorso sulle tecnologie digitali da quello sul controllo, i due sono infatti il medesimo.

Andando dritto al punto: questi decenni e i prossimi si configurano sempre più come un era nella quale la governance delle popolazioni – che ha sostituito il governo democratico degli stati amministrando i flussi delle risorse invece di sviluppare una politica per i loro cittadini – si attua sempre più per via digitale – algoritmica – dando vita a società del controllo che si configurano mimeticamente come sistemi di sorveglianza e tracciamento diffusi e capillari.

La premessa indispensabile per questo scenario è la fusione della vita off-line con quella on-line, nella dimensione nota come on-life. Lo strumento che sigilla questo passaggio e lo rende possibile è attualmente lo smartphone, ma nuovi device potranno prenderne presto il posto. Già adesso questo strumento non è che una parte di un apparato più grande, e funzionando di fatto come un terminale di una serie di calcolatori “server” allocati in remoti datacenter, ma anche elaborando e scambiando informazioni con altri dispositivi, dallo smartwatch ai sistemi di pagamento digitale fino ai sistemi di domotica.

Considerato poi gli investimenti in settori quali l’intelligenza artificiale, i computer quantistici e la nanotecnologia è certo che, presto o tardi, la loro diffusione ridefinirà ulteriormente dinamiche, soglie, campi d’azione, possibilità.

Due sono le direttrici del controllo, quella attiva e quella passiva, che sono però strettamente intrecciate tra loro. La prima ha a che vedere con la presenza e l’attività sulle piattaforme di messaggistica e dei social media, ossia con l’esposizione di sé, del proprio corpo e dei propri pensieri, con l’espressione di like e in generale gli indicatori per la numerificazione dell’esperienza digitale. L’altra si riferisce a tutti quei momenti nei quali la nostra attività è tracciata senza che ce ne rendiamo conto – antenne dati e wi-fi, tempi di connessione, uso di app, siti visitati, profili seguiti, abitudini di consumo eccetera.

Entrambe queste direttrici si muovono però su un sostrato comune, la quantificazione del sé, la biometria. 

Se quest’ultimo elemento, com’è noto, ha subito prima un’accelerazione dalla teorizzazione dei sistemi cibernetici e poi una sua normalizzazione nell’industria dei dati, propria delle tecnologie digitali dei social media commerciali e delle altre piattaforme di comunicazione e consumo, è però in buona parte ignorata la sua genealogia che ne fonda i presupposti culturali. E passa dall’organizzazione dei corpi dei lavoratori nelle fabbriche della modernità.

Per la studiosa Simone Browne questa genealogia si può retrodatare ai registri compilati sulle navi schiaviste che servivano per tracciare, identificare e certificare la proprietà delle persone deportate.

Già da qui si possono indicare alcuni concetti fondamentali: l’identificazione, la profilazione, la proprietà, ma anche la previsione, la pianificazione, la programmazione. Sono questi i tasselli fondamentali da cui sorge la logica del controllo delle tecnologie digitali. E sembra avere sempre a che vedere con la gestione dei corpi altrui, corpi subalterni, corpi su cui si pretende la proprietà, oppure inseriti in una ben definita gerarchia, corpi di cui avvantaggiarsi per il proprio tornaconto privato.

Veri demoni dell’età cibernetica, profilazione e previsione sono ossessivamente presenti, dal calcolo balistico degli ordigni alle indicazioni di consumo della prossima primavera, dalla proposta di contenuti, contatti, prodotti, intrattenimento, alla gestione dello sviluppo di povertà e ricchezza nelle aree metropolitane, fino all’identificazione degli obiettivi da bombardare nelle zone di guerra. La guerra torna sempre, sembra essere il basso continuo della logica del controllo.

Questo legame con la violenza potrebbe sembrare paradossale ma non lo è. Se è vero che nelle società di controllo il potere esercita il suo lato “morbido” perché la governance pratica la gestione della vita attraverso la persuasione, l’intrattenimento, il consumo culturale, l’economia dell’attenzione, ossia attraverso il controllo del tempo delle coscienze e dei corpi quale valore economicamente calcolabile, è altrettanto vero che è sempre presente, quando necessario, il suo rovesciamento, il suo “lato ombra”, dove domina la coercizione e la forza bruta. Questo rovesciamento, questo “lato ombra” avviene quando la reificazione di soggetti e ambienti è completa e totale – come già prefigurato da Burroughs – ossia quando la numerificazione e la possibilità di uso che permette non lascia spazio a nessuna alterità possibile, configurando così la pura “società strumentale”. In entrambe – come ci invitava a riflettere Caronia – assistiamo al passaggio dalla tecnologia come protesi alla tecnologia come mondo, non solo per la dimensione dell’on-life richiamata inizialmente o per la pervasività delle tecnologie digitali nella vita quotidiana ma per la capacità dell’informazione di farsi mondo e di farsi interiorità. 

È in virtù della potenza dell’informazione di dare forma a soggettività che hanno interiorizzato un sistema di valori e una razionalità della vita sociale conformi al discorso del capitale che oggi possiamo dire che la logica del controllo è interiorizzata.  Ed è il carattere storico e culturale di questa logica che deve essere affrontato dietro e al di là delle tecnologie digitali.

In questo scenario dove l’esterno si fa interno e l’interno si fa esterno, il controllo è un vettore che parte da più lontano nel tempo e che produce, più che esserne plasmato, la cultura cibernetica. Essa è però l’incarnazione teorica di questa logica, mentre la tecnologia digitale ne è quella pratica.

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ARTICOLO n. 59 / 2024

Di Andrea Gentile

MEDITAZIONE

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

La parola del futuro è la parola che non ci sarà mai nel futuro: è la parola meditazione. La parola meditazione è la parola che non ci sarà mai, o che ci sarà sempre di più, ma stravolta, contorta, scaraventata giù, sotto un dirupo, la parola fatta bandiera, esposta come vessillo in ogni angolo della città, confusa, usata come slogan, perennemente fraintesa.

La parola del futuro che auspico è la parola senza parole, la parola in cui scompare la parola, la parola che prende una parola e la porta via, la fa cadere giù, non si vede più niente, non si sente più niente, neanche la parola, neanche il vuoto.

La parola del futuro deve essere la parola meditazione, e non lo sarà. Deve essere la parola che se ne va, la parola che sta per un attimo in silenzio. La parola che se ne sta in silenzio per una vita intera e anche di più.

«Yoga Chitta Vritti Nirodha» scrive Patanjali, e significa che lo yoga estingue le modificazioni mentali. E allora voglio immaginare un futuro che non ci sarà, un futuro senza parole, in cui cadiamo, tutti insieme, in uno spazio vuoto luminoso.

Un futuro dove stare proprio tutti lì, in quello spazio vuoto luminoso, insieme, a respirare insieme, ogni respiro è un respiro che non ho mai respirato, e quindi a co-spirare insieme, un futuro dove cospirare tutti insieme, uno dopo l’altro, un futuro senza vritti.

Ho scritto a un amico che ero felice, e che lo ero in quel preciso istante, e lui mi ha risposto che sto diventando un prete, e io gli ho chiesto da quando la felicità è di proprietà della religione cattolica, e poi ho scritto che se è così non si può che essere preti, preti per sempre, andare incontro alla felicità, andare incontro al mondo, essere intramati di mondo. 

Sei troppo spirituale, parlami della tua svolta mistica, mi hanno detto, sei diventato buddista, hanno detto ancora, e ho detto che non ho detto niente, che c’è il silenzio, che la parola del futuro non è il silenzio, è dentro il silenzio, la parola del futuro non è neanche più tra gli spazi bianchi, tra una lettera e l’altra, la parola del futuro è tutto uno spazio bianco, uno spazio vuoto luminoso.

E mi hanno detto ancora sei sufista, da quando segui il sufismo sei diverso, e hanno detto ancora che hanno detto ancora che sono meno mondano, non sei mai stato mondano, mi hanno detto, ma così è troppo, così stai esagerando, sei anche dimagrito, avrai perso quindici chili hanno detto, abbiamo detto, ho detto. 

Mi hanno detto che con il lavoro che fai dovresti tessere più relazioni, potresti conoscere il mondo intero, invece tu…

Mi hanno detto che con il lavoro che fai puoi farti tanti amici, che ti saranno utili, eppure tu non lo sai fare, mi hanno detto che si fanno anche tanti nemici.

La parola del futuro, allora, è benevolenza, la pratica di metta bhavana, spargere amore nel mondo, spargere amore a chi ti odia, a chi hai odiato, dare amore a chi non lo saprà mai, eroso da ciò che siamo, non ti nutrire di invidia e gelosia, ma anche sii consapevole di invidia e gelosia, lasciale andare, non sei tu a essere geloso, è la gelosia che passa, è lei che passa di qua, salutala e falla andare. 

Ecco, la parola del futuro è meditazione cioè meditare cioè medicare, cioè respirare, cioè co-spirare, cioè cospirare insieme, in uno spazio vuoto luminoso.

Eccola questa parola, la parola “meditazione”, anche lei vilipesa come tutte le parole, frullata dagli algoritmi, impacchettata e spedita da Amazon Prime in sole 24 ore, la parola che si porta dietro mondi immensi, la parola che è fuori dalla parola, l’unica parola che è fuori dalla parola, ma è dentro TikTok, è dentro Instagram, la parola che viene usata come un’Aspirina, marchio registrato. 

Eccola, la parola che viene bombardata giorno dopo giorno, ora dopo ora, la parola che viene uccisa negli ospedali pediatrici bombardati, la parola che si è nascosta nell’oblio delle guerre dimenticate, dell’invasione cinese del Tibet e in infinite altre guerre, negli imperi che vogliono mangiarsi le religioni, negli imperi che vogliono mangiarsi le meditazioni. 

Mi hanno detto Sei diventato troppo idealista, pensi ancora a quello che succede nel mondo, mi hanno detto che non si può empatizzare con chi è così lontano da te, mi hanno detto che non puoi piangere per una donna nera morta ammazzata perché non sei donna e non sei nera, mi hanno detto che è facile piangere dalla mia posizione, mi hanno detto che non puoi piangere perché non sei morta, solo i morti devono piangere, mi hanno detto, i vivi devono solo soffrire. 

Mi hanno detto che quello che scrivo non lo legge nessuno, che non si capisce come mai non metto a frutto le relazioni, mi hanno detto che proprio non lo so fare, mi hanno detto che non si sa perché non mi interessa, che se hai un ruolo di potere, mi hanno detto, lo devi sfruttare, mi hanno detto che è tutta una questione di essere presenti. 

Mi hanno detto che bisogna esserci, e non si sa perché io non ci sono, non sono mai dove dovrei essere, mi hanno detto, non vado alle cene. 

Mi hanno detto che vado a dormire troppo presto.

Mi hanno detto che sono diventato taoista, mi hanno detto che però mi vesto come un prete, mi hanno detto che mi vesto queer, mi hanno detto che prima ero elegante e adesso sembro pazzo, mi hanno detto che attraverso la classica crisi di mezza età, è normale, a quarant’anni ci si intenerisce, ma non ti preoccupare, poi passa, mi hanno detto, poi si torna a fare quello che si deve fare, a essere come si deve essere, a non pensare a tutto il resto, a odiare chi ti odia, a sfidare chi ti sfida, a gareggiare, poi si torna a fare quello che bisogna fare, mi hanno detto che bisogna pensare al futuro, sì, al conto in banca, mi hanno detto che sì, ne ho passate tante, ed è per questo che sono in questo e quest’altro modo, mi hanno detto che da un po’ parlo troppo poco, che anno dopo anno i dialoghi con me sono sempre più monologhi degli altri, che un tempo parlavo tanto, ero simpatico, adesso voglio stare lì, ad ascoltare. 

Mi hanno detto che la parola del futuro non sarà mai meditazione, saranno tutt’altre le parole del futuro, per esempio io, per esempio io, per esempio io-io-io, e poi c’è un’altra parola tutta nuova ma così antica, la parola algoritmo per eccellenza, la parola io-mio, io-mio, io-mio.

Io-mio sì che è una parola, altro che meditazione. 

Una parola vera, una parola che non puoi fraintendere, reinterpretare, confondere.

E allora voglio immaginare un futuro che non ci sarà, un futuro senza parole, senza parole vere, senza parole false, un futuro in cui cadiamo, tutti insieme, in uno spazio vuoto luminoso. 

Un futuro dove stare proprio tutti lì, in quello spazio vuoto luminoso, insieme, a respirare insieme, ogni respiro è un respiro che non ho mai respirato, e quindi a co-spirare insieme, un futuro dove cospirare tutti insieme. 

Un futuro dove respirare, ed essere tutto ciò che c’è attorno, noi tutte, noi tutti. 

Un futuro dove essere come alberi, come acque, come respiri, come montagne.

Un futuro dove essere le nuvole che volano via, sempre più in alto, poi si tuffano giù, per abbracciarci quando siamo sotto le lenzuola. 

Un futuro dove essere la brina del mattino, quei piccoli aghi di ghiaccio che sembrano mandati dal cielo per ricordarci che siamo tutti ancora qui.

Un futuro dove essere ciò che chiamate vigilia: il giorno prima. 

Voglio essere la veglia prima del momento, l’esitazione felice e malinconica del tempo dell’attesa, il momento che arriva, trema, e non vuole andare via. 

Il momento che spinge quel momento ad andare via.

Il presente da rincorrere, il futuro da rinchiudere, il passato da stringere forte. 

Voglio essere la crepa che c’è in ogni cosa, e la luce che entra in quella crepa. 

Voglio essere la rupe e tutto ciò che la rupe ha inghiottito nel lungo corso di questi lunghi secoli.

Voglio essere questo secolo. 

Quell’altro secolo, che è come quello che verrà.

Voglio essere i denti che battono per la paura, la pelle delle mani che raggrinzisce quando è gonfia d’acqua, il bordo dell’unghia del piede che penetra dentro la pelle, si incarna, si fa carne.

Voglio essere la carne.

Voglio essere il collo compresso con violenza, e strozzato da mani nemiche che non credevo nemiche. 

Il respiro, l’ultimo respiro, il respiro che deve ancora venire. 

Voglio essere le mani amiche che strozzano il collo nemico. 

Il nemico e l’amico. Quello che divide il mondo in nemici e amici. 

Voglio essere quel momento in cui, per un attimo, tutto questo finisce, finiscono i nemici, finiscono i pensieri, e noi, tutti, splendiamo della nostra stessa luce, abitiamo soltanto dentro noi stessi. 

Voglio essere l’unità che non siamo in grado di vedere, l’energia creatrice che trascende ogni tempo, ogni spazio.

Voglio essere il germoglio brucato dalla vacca in un punto sperduto dell’universo. 

Tutto ciò che nel mondo si disperde, dagli acari alle stelle. 

Voglio essere il lombrico mangiato dal rospo, e il rospo che mangia il lombrico.

L’onda che cresce, risale il fondale e si solleva fino a rompersi a riva. 

Voglio essere la riva e il fondale, la conchiglia spazzata via dall’onda, trascinata sulla sabbia.

La sabbia che arriva e che copre la conchiglia, che copre altra sabbia. 

Essere la sabbia che è alla luce e la sabbia che è all’ombra. 

Essere l’ombra che ci segue nel bosco, e ci fa compagnia tra i canti delle allodole.

La luce che certe mattine sembra ululare.

L’aratro che dissoda il terreno e il terreno dissodato, la formica uccisa dal passaggio dell’aratro, i muscoli delle zampe del cavallo che traina l’aratro, il contadino che ara: voglio essere l’aratro fermo, abbandonato, quando tutto è finito. 

Voglio essere il legno marcito dalla pioggia, la pioggia che marcisce, la bambina che piange, la mamma che picchia, il sangue che scende, la ferita che ricuce la pelle, la cenere che se ne va e che si fa dimenticare.

Voglio essere tutte le guerre dimenticate, le paci da dimenticare.

Voglio essere tutto ciò che finisce nell’immenso deposito sotterraneo delle dimenticanze, tutto ciò che dimentichiamo ogni giorno, noi tutti, che siamo passati da questo pianeta. 

Voglio essere la vetta della montagna, che congiunge il cielo e la terra. 

Voglio essere il trattino che unisce cielo e terra, montagna e mare, est e ovest, vita e morte, noi e loro, io e te, e abbatte ogni parola, abbatte ogni confine. 

Voglio essere una parola nuova, fatta di tutte le parole pronunciate da tutti gli esseri che sono vissuti sul nostro pianeta e su tutti gli altri pianeti.

Voglio essere la parola non pronunciata, quella silenziosa, quella detta da un salice, da un alligatore, da una salamandra.

Voglio essere una parola infinita, fatta di trattini, una parola unica che non ha più bisogno di trattini.

Voglio essere una parola così lunga che sarà pronunciata per intera, finalmente, solo quando sarà dimenticata.

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ARTICOLO n. 58 / 2024

Di Francesco D'Isa

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

“Intelligenza artificiale” è un’espressione che ormai è venuta a noia anche a chi si occupa di queste tecnologie. Con il trascorrere del tempo, l’hype verso un prodotto dai costi miliardari che promette o minaccia di salvare o distruggere l’umanità comincia a suonare credibile come i timori del millennium bug dopo il duemila. Alcune persone restano timorose e diffidenti, altre non rinuncerebbero più a queste innovazioni, ma nei grandi poteri economici – dove si prendono le decisioni – continuano movimenti di assestamento tra accordi e minacce.

Di recente, Apple ha siglato un accordo con OpenAI per l’utilizzo di ChatGPT; poco prima, Samsung aveva fatto lo stesso con Google per l’utilizzo di Gemini, tra i più celebri concorrenti a ChatGPT; Microsoft integra l’AI (powered by OpenAI) nel suo nuovo sistema operativo. Queste tecnologie entreranno presto anche nelle abitudini dei più scettici: sarà possibile rifiutarle? Ovviamente sì, nessuno ci ha mai obbligato a comprare uno smartphone, eppure lo abbiamo fatto, un po’ per moda, ma soprattutto perché è comodo. Non solo per le mappe, ma anche per le traduzioni, le foto, i treni, le informazioni, la banca, i giochi, gli appunti, le notizie… persino i social network sono utili. Le giuste critiche a queste reti capitaliste di controllo e persuasione non devono farci dimenticare che, se paghiamo un prezzo così caro, non è solo per dipendenza, ma anche perché troviamo utile conoscere persone e condividere esperienze e informazioni. Così come lo smartphone, anche l’AI scivolerà nelle nostre vite perché, banalmente, è utile.

“Intelligenza artificiale” non è solo un’espressione troppo diffusa, ma anche inaccurata. Non abbiamo una nozione chiara di “intelligenza” – anzi, la cambiamo via via che una mente non umana o una tecnologia ci supera in qualche ambito – e non sappiamo se e secondo quali criteri possiamo definire intelligenti queste macchine. Una calcolatrice è senza dubbio più abile di me nel fare i calcoli, un’ape vola e coordina i suoi movimenti meglio di me, le piante sanno comunicare tra loro attraverso i miceli. Il mondo vivente è pieno di intelligenze che ci superano, tanto che, come suggeriva Stanislaw Lem in Summa Technologiae, anche l’evoluzione è un’intelligenza sorprendentemente efficace, che opera attraverso il tempo e la statistica. La natura lo fa meglio e prima insomma, come suggerisce il recente libro di Giorgio Volpi (Aboca edizioni). Lenta e priva di un’intenzione consapevole, riesce a produrre una straordinaria varietà di soluzioni viventi con risultati che spesso superano quelli di un disegno intelligente e intenzionale. Nel ristretto ambito della manipolazione di simboli, è già innegabile che ChatGPT sia spesso più intelligente di noi, considerato che scrive e parla meglio di molti umani; tuttavia, come la calcolatrice, resta molto meno versatile, non essendo in grado di cose come muoversi nello spazio o di assimilare informazioni per il proprio apprendimento in tempo reale e con cinque sensi.

“Artificiale” è un termine ancor più sbagliato. Ogni tecnologia nasce e si sviluppa in una rete di conoscenze culturali e ambienti sociali, rendendo artificiosa l’idea che siano degli oggetti neutrali o separati dall’uomo. Nel caso delle AI, questa neutralità è ancora più fantasmatica, perché si tratta di strumenti la cui stessa materia prima sono i dati e i feedback forniti dagli umani. Miliardi di immagini e testi vengono dati in pasto agli algoritmi, grazie a un complesso e capillare lavoro di annotazione e di feedback fornito da umani, spesso sottopagati. Come scrive Josh Dzieza per The Verge, il ruolo dei lavoratori dell’annotazione dei dati è cruciale ma invisibile. Questi lavoratori, spesso situati in paesi con salari più bassi come il Kenya, svolgono compiti ripetitivi e tediosi. 

Joe, un laureato di Nairobi, etichettava riprese per auto a guida autonoma, un lavoro che richiede ore di annotazione per pochi secondi di filmato, pagato solo $10 ogni otto ore di lavoro. L’annotazione dei dati è essenziale per la funzionalità dei sistemi AI, specialmente per gestire i casi limite che i modelli di machine learning incontrano nel mondo reale. Un incidente con un’auto a guida autonoma di Uber ha evidenziato tragicamente la necessità di un’accurata annotazione dei dati. Nonostante l’importanza di questo lavoro per il funzionamento delle AI, i lavoratori sono spesso pagati poco e non hanno consapevolezza del valore del loro contributo. In altri casi, come quello di Surge AI, le aziende svolgono compiti di labeling più complessi e specializzati, che richiedono competenze specifiche, con paghe tra $15 e $30 all’ora, con alcuni lavori specialistici che raggiungono i $50 all’ora o più. Considerando tutto questo lavoro umano e l’importanza dei dati, l’AI non è poi così artificiale.

Nonostante l’hype eccessivo, le paure esagerate e il nome sbagliato, l’intelligenza artificiale è qualcosa che farà senza dubbio parte del nostro futuro, così come fa già parte del nostro presente. Di recente un’artista americana nota per la sua posizione contro le AI, Jingna Zhang, ha fondato Cara, un social network per artisti sul modello dei più grandi Behance o DeviantArt. La peculiarità principale di questo nuovo social è che filtra le immagini generate dall’AI, proibendone la presenza nel network. L’aspetto più interessante è osservare il walldi Cara e confrontarlo con, per esempio, quello di Civit Ai, un social dedicato solo ad arte prodotta con AI generativa: al netto della tecnica risultano spesso indistinguibili. Si tratta per lo più di ottime realizzazioni ma stilisticamente di maniera, molto simili tra loro, di frequente kitsch. Nulla di male in questo, anzi, sono spesso gradevoli se non eccellenti nel loro ambito, ma testimoniano come probabilmente, nonostante la resistenza di molti illustratori e illustratrici, queste tecnologie faranno parte degli strumenti degli stessi artisti che oggi le criticano, così come accadde con i software di computer graphics, una volta osteggiati dalla medesima categoria (forse con meno forza, ma va detto che ancora non esistevano i social).

L’esplosione di questa sempre più gonfia e meno credibile bolla sulle potenzialità dell’AI aiuterà senz’altro a integrare questi strumenti in molti ambiti lavorativi, che però non saranno in grado di sostituire l’operatore umano senza importanti nuove rivoluzioni, al momento non all’orizzonte. Questo ovviamente non significa che non avranno impatto sul mondo del lavoro, laddove un umano che usa le AI potrà sostituirne due che non le usano. Di recente girava una battuta di qualcuno che diceva che voleva AI per lavare i piatti e fare il bucato, non per creare opere d’arte. Ma a dirla tutta, come scrivono Helen Hester e Nick Srnicek, anche tecnologie come lavatrici e lavastoviglie non sono riuscite ad alleggerire il carico di lavoro delle donne a cui erano in origine destinate, che si è solo ingrossato di nuove mansioni casalinghe. Il problema insomma è politico e in ogni caso siamo lontani dalla meta.

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ARTICOLO n. 57 / 2024

Di Silvia Semenzin

DONNA

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

A cavallo tra la realtà fisica e una dimensione per lo più ignota, apro gli occhi. Non so dove sono, ma tutto intorno a me vedo un caleidoscopio di colori vividi e sfumature delicate in cui macchie di selva si mescolano a prati dorati e colline che sfiorano il cielo.

Una giovane donna è immersa in una danza vorticosa. I lunghi capelli neri, dritti e pesanti, sono raccolti in un milione di trecce spettinate e nastri impreziositi da fiori di diverse dimensioni. Il suo vestito, simile a un tradizionale huipil messicano, riflette figure straordinariamente geometriche dai colori accesi lasciando intravedere i suoi seni sodi, e a ogni movimento della donna, a ogni sua piroetta, i colori si mescolano tra loro a cascata creando un’orgia di luce. Tutto intorno a lei è vivo e non ha contorni. La sua danza è libera, spudorata, sensuale e il suo canto per un attimo mi riporta ad alcuni vecchi sogni di emancipazione.  

La donna si muove avvolta in un velo trasparente, i suoi occhi brillano. Mi guarda, sorride, mi invita a raggiungerla. Chiedo allora alla donna chi è, ma lei non risponde. Continua a volteggiare con lo sguardo fisso sull’immagine di sé stessa che ora uno specchio davanti a lei riflette. “Sono bella”, dice. “Non ho catene”. Muove le dita lunghe e nodose, e nella vertigine della sua gonna vaporosa lascio che si perda per un po’ il mio sguardo sognante. 

A un tratto però i nostri occhi si incrociano e un’ombra sinistra si affaccia tra le sue pupille. Intravedo qualcosa che la tormenta e che, al suo primo sussulto, incomincia a turbare anche me. La stanza si dipinge di un blu tetro, e a poco a poco, cala un’oscurità profonda e inquietante. Mi sembra che il ritmo della musica rallenti, che le note si diradino, che inesorabilmente la giostra intorno a noi incominci a fermarsi. Allungo la mano per provare a toccare la donna, ma le sue dita al contatto con le mie prendono a sgretolarsi.

All’improvviso il suo volto si deforma, il sorriso diventa grido, e a poco a poco I colori si sciolgono, si dissolvono. Adesso la donna è illuminata solo dal rosso e dal giallo di una fiamma vivace: sta ardendo viva. Legata a un grande pezzo legno asciutto e avvolta a una veste nera, pesante come il piombo, si dimena come una bestia impazzita che vorrebbe sottrarsi al suo destino, ma le sue lunghe dita sono state usate come corde che la mantengono salda al suo patibolo. Centinaia di occhi la inchiodano accompagnandola spietatamente nella bocca della morte. Sento un brusio in sottofondo, un bisbiglio che si fa sempre più fragoroso. Qualcuno strilla “puttana”, qualcuno ride, qualcun altro sputa sui suoi piedi scalzi. 

È un’immagine spaventosa, a tratti angosciante. La fiamma ha già ustionato pelle, i capelli sono lingue di fuoco, vedo brandelli di carne schizzare. Apro la bocca come per urlare ma non esce nulla. Vorrei salvarla, ma già presagisco la sua triste sorte e mi sento inerme. Una lacrima mi riga il viso mentre sfumano i lineamenti di quella donna troppo libera, e di lei rimangono solo le braci di un corpo represso e carbonizzato.


Esco dalla stanza di corsa, trafelata. Sono madida di sudore, il cuore mi esce dal petto. Ciò che ho visto mi perturba. Forse sto sognando? Mi prendo un momento per contare i secondi in cui l’ossigeno fresco risale le mie narici fischiando e poi tiepido le abbandona. Dove sono? 

Alzo gli occhi e capisco che sono arrivata nel bosco. Ci sono rami e foglie immersi in un manto di stelle e nel fruscio della notte. Una fronda ciondola, mi fa un cenno di saluto, ma io ho perso la strada per tornare e, invece di ricambiare, mi lascio andare ad un lamento. Continuo a pensare a quel ballo soffocato e a quell’odio spietato di cui non posso accettare l’esistenza. Che cosa spinge, mi chiedo, gli uomini a godere dell’annientamento?

La gentile fronda richiama la mia attenzione. Mi accarezza la testa, mi fa cenno di voltarmi e proprio lì, a cavalcioni tra il cielo e mantelli di felci giganti, intravedo il lembo di una lunga sottana a cui mi aggrappo con tutta la forza, come una bimba impaurita e bisognosa di rassicurazione. Risalgo velocemente l’alta figura passando attraverso i suoi orli di pizzo, la peluria delle sue cosce, i solchi delle sue natiche, e man mano che mi arrampico, sento una sensazione di crescente tranquillità e pace farsi spazio dentro di me. Raggiungo la cima. 

Il volto della donna è rugoso, ma bello. I suoi occhi sono brillanti incastonati tra il naso e la fronte, e sulla bocca indossa un sorriso radioso che risveglia in me alcune sensazioni familiari. Assomiglia un poco a mia nonna, penso, eppure è viva. Vorrei poterla abbracciare e accarezzare, e invece resto lì imbambolata senza sapere bene che dire. La donna mi osserva teneramente, poi sussurrando con voce lontana ma carezzevole mi chiede di avvicinarmi ancora un poco a lei. Mi accomodo così sul palmo della sua mano, lasciando che mi trasporti lontano dai ricordi più dolorosi. 

Arriviamo insieme nei pressi di un laghetto in cui scorgo il riflesso della luna, nuvole in corsa e grandi rami di pino. Siamo sole e delle fiamme di prima ormai sembra non esserci più traccia. Scruto la donna nei suoi occhi verdi e cristallini, e attraverso quello specchio distinguo il movimento di cerchi concentrici che si allargano nell’acqua. Il mio sguardo si rivolge di nuovo alla superficie del lago che ora gioca a nascondino con le fronde degli alberi, e il tempo mi sembra irrimediabilmente sospeso tra passato, presente e futuro. 

Chi è questa donna e che cosa mi vuole mostrare? Ruminando tra i miei ricordi confusi mi rammento di tradizioni ancestrali di cui mi è stato narrato, e ricordo in particolare di aver sentito a lungo ciarlare dei poteri magici della curandera. Ella è una madre, una figlia, una strega, una santa. Peccatrice e guaritrice di ogni ferita dell’anima, è colei che traghetta oltre le limitazioni del presente per abbracciare senza ansie l’infinità del futuro. La riconosco appena un fioco fascio di luce illumina le sue gote opache.

La curandera impugna un grosso bastone come fosse una matita e traccia cerchi nel lago che si tramutano in figure inizialmente smarginate. Guardo meglio nel riflesso dell’acqua e sobbalzando vedo il mio volto contorcersi fino a diventare quello di mia madre, poi quello di mia sorella, poi quello della danzatrice arsa sul rogo delle puttane. Tutto d’un tratto, donne di ogni forma, colore e dimensione si moltiplicano sotto ai miei occhi ruggendo all’unisono. Cantando, si prendono per mano fino a formare un cerchio compatto tra le sfumature, tra le stelle e le ombre, incarnando le forze contrastanti che plasmano il destino. Non ci sono corde né occhi giudicanti attorno a loro. I loro corpi nudi ora ruotano in un’unione sinuosa e simbiotica che mi appare invincibile. 

Alcune di loro mi tendono la mano, mi fanno cenno di unirmi. “Portaci con te”, mi esortano. “Ti serviremo per illuminare l’oscurità del presente”.

Scuoto la testa. È un’allucinazione, un’illusione, forse un’utopia. Eppure, finalmente capisco di non essere in un luogo fisico ma in uno stato d’animo, in un’esperienza di libertà e potenziale in cui ogni respiro porta con sé la promessa di un nuovo inizio o la magia di un sogno che può ancora diventare reale. 

La curandera mi ha donato il potere di scrutare il tempo. Dinnanzi, mi si stagliano infinite possibilità e fantasie non ancora realizzate. Non è solo una visione di ciò che potrebbe essere, ma un vero e proprio invito a creare e credere nel potenziale illimitato dell’essenza femminile. Uno sguardo su quel che verrà, non come qualcosa di predeterminato, ma come un arazzo in continua evoluzione, tessuto solo dalle nostre decisioni, dai nostri desideri e dalla nostra voglia di offrire visioni e ideali alternativi.   

Sta di nuovo sorgendo il sole. Mi volto ancora una volta a guardare la mia curandera prima di vederla evaporare per sempre in un pulviscolo dorato. Prima di andare mi strizza un occhio e da lontano bisbiglia: “Ogni volta che avrai paura, ora sai dove cercare”. 

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ARTICOLO n. 56 / 2024

Di Chiara Alessi

ANONIMO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Qualcuno, presumo un uomo, a un certo punto ha sentito il bisogno di scrivere il proprio nome dietro un vaso in terracotta che aveva appena realizzato, uno lo ha guardato, un terzo lo ha imitato. Qualche tempo dopo, qualcun altro ha pensato di poter rivendicare un valore economico discendente da quel nome; altri poi hanno fatto in modo che quei nomi valessero di più degli oggetti che firmavano. Su ogni idea che apparisse minimamente nuova ci si è affannati a mettere ciascuno la propria bandierina: i nostri bisnonni hanno inventato la proprietà intellettuale, i brevetti come “combustibili dell’interesse sul fuoco dell’ingegno”; i nostri figli hanno la cenere firmata.

Una delle critiche che sento fare più spesso da chi osserva i progetti è la mancanza di originalità di qualcosa; e parallelamente una delle ossessioni che riscontro di più nelle generazioni più giovani dei progettisti è l’ostinazione a inventare qualcosa di nuovo e immediatamente dopo trovare il modo per proteggere quella cosa dalla possibilità che qualcun altro la copi: non solo dare il proprio nome, ma evitare che qualcun altro metta il suo. E nel frattempo non succede assolutamente niente: abbiamo tantissime bandierine e pochissime idee nuove su cui metterle. Da una parte infatti l’accesso ai mezzi di produzione aperto a tutti ha messo sempre più persone nella condizione di poter fare. Dall’altra questo fare, produrre, immettere cose nel mondo con il proprio nome, che forse doveva servire come dispositivo inconscio per lasciare tracce di sé, rimandare i conti con la nostra inevitabile mortalità, ha accelerato lo schianto contro il limite delle risorse, forse non solo strettamente materiali, e così sono finite, prima di noi. Viviamo in un tempo storico fatto di linguaggi, prodotti, progetti, interventi ma anche ideali premasticati dal Novecento. Prendiamone atto: è molto più comune liberarci di cose, ma anche pensieri, idee, fedi, ideali, amori, stili appena nati, che non di quelli che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ma a meno di non volerci condannare alla noia del già visto, alla frustrazione del già pensato, all’infelicità del già fatto, se qualcosa di radicalmente nuovo non è possibile e non è immaginabile, forse dev’essere possibile immaginare almeno di rinunciare al “nuovo” come sinonimo di buono, interessante, degno. Decolonizzare l’approccio al fare. Liberare il fare dall’essere, avere, apparire. E, qui la dico grossa: ripensare quello che esiste fuori dal codice della paternità tradizionale. Togliere i nomi propri alle cose. Portiamo l’anonimo nel futuro.

Ora, voler portare “l’anonimo” nel futuro, fin qui, potrebbe sembrare più una reazione al dilagare di facce e nomi e firme e loghi e storie di sé ovunque, e un po’ effettivamente lo è. Ma non è solo un manifesto contro, è credo anche un antidoto per provare a salvarci dall’infelicità in cui ci schiacciano le unità di misura che abbiamo utilizzato finora per raccontare quello che abbiamo intorno: elenchi, novità, sapere, produzione, profitto, eroi, geni, protagonisti, artefici, successo, lenti attraverso cui ci arriva ogni cosa, anzi peggio, attraverso cui ogni cosa esiste oppure no.

Abbiamo compilato cataloghi di nomi, abbiamo fatto mostre intorno ai nomi, abbiamo scritto storie che sono elenchi di nomi, più o meno illustri, abbiamo raccontato i picchi della linea continua che li produceva, abbiamo registrato quello che stonava più del rumore bianco di sottofondo che lo faceva risuonare; abbiamo sostituito le immagini delle cose con le gigantografie dei loro autori; l’io, l’io, l’io, la messa in mostra della propria biografia. Bruno Munari, che proveniendo dall’avanguardia futurista se ne intendeva di vertigini dell’io, si era spinto a formulare la proposta di dare il prestigioso premio “Il Compasso d’Oro” a ignoti, ovvero a tutti quei tecnici, ingegneri, designer anonimi che avessero progettato cose d’uso non migliorabili, sensate, cioè pensate, semplici, pratiche, accessibili, intelligenti, spontanee, disintermediate. Riccardo Dialisi, che era stato tra i fondatori del movimento radicale di Global Tools, tra i primi e gli unici a rilanciare davvero l’artigianato non solo come espressione mondana, e a generare nella periferia napoletana alcune delle più interessanti espressioni di design dal basso, proponeva di sostituire il premio con il Compasso di Latta. Io dico: lasciamo perdere i premi. E lasciamo perdere pure i soggetti.  

Quando parlo di “anonimo”, infatti, io mi spingo un po’ più in là. Non è tanto questione di persona singolare o plurale, perché – a meno delle cose in natura, per le quali, infatti, pur di dare un autore, ci siamo dovuti inventare che sono creazioni di Dio – ogni cosa ha sempre almeno un io, un tu o un lui o in alcuni casi una stratificazione di interventi di noi, voi, essi all’origine della sua storia, e che spesso è un limite nostro non conoscere o riconoscere (o se non nostra, è colpa delle didascalie a non trasferirceli nel modo debito e corretto). Con “anonimo” non mi riferisco al soggetto, che proprio vorrei ci disinteressasse, ma all’oggetto, e indico quella produzione della cultura materiale o visiva per la quali Gio Ponti aveva trovato una definizione bellissima e contraddittoria: perché “anonimi” è un aggettivo delle cose per dire che sono cose senza aggettivi: cose che sembrano essere sempre state lì e che danno l’idea che lo saranno per sempre, cose senza segni, senza tempo e senza geografia, eppure al tempo stesso assolutamente generate in una storia e in uno spazio a volte molto precisi. Macchine minime, si dice con un’altra espressione felice: derivate direttamente dalle ragioni della loro materia, della loro pratica, della propria storia produttiva. Cose che non hanno un nome proprio, o ne hanno assorbiti molti e diversi a seconda del tempo e delle latitudini in cui sono nate. Cose senza bandierine.

L’“anonimo” non necessariamente è l’“archetipo”, e nemmeno il “prototipo” o l’“oggetto primo” o “platonico”, perché all’anonimo non interessa il primato, sta in terra e non nell’aria, non è un simbolo, né un segno, né un segnaposto, non è una cosa che sta al posto di un chi. 

Ma soprattutto l’anonimo non è l’anonimato. Non è la negazione del proprio nome o la volontà di tenerlo nascosto, è il nessuna volontà del nome. Non è la maschera attraverso cui lasciare segni, è il non segno. Non è la firma che dichiara “non mi troverai mai”, è l’oggetto che dice di “non perdere tempo a cercare la firma”. Non è l’io, è il noi. Non è il prima, è l’oltre. Quindi, ripensandoci, forse non è nemmeno da portare nel futuro, perché lo troveremo già lì.

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ARTICOLO n. 55 / 2024

Di Silvia Calderoni

SMISURATO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Bologna. Sono qui da qualche giorno in prova con Motus, la compagnia con cui lavoro da quasi vent’anni: stiamo per debuttare in città con il nuovo spettacolo, Frankenstein (a love story). In realtà non è la prima volta che lo mettiamo in scena ma i nuovi lavori, che iniziano acerbi a stare nel mondo, hanno bisogno di tempo per prendere sicurezza e imparare le leggi interne che li governano. Per questo mi piace pensare che ogni città è un nuovo debutto. È tarda mattinata, in teatro Theo e Daniela stanno finendo i puntamenti delle luci mentre Martina ed Enrico equalizzano i microfoni. Io non servo a niente dunque, dopo aver messo a posto i costumi, prendo qualche ora di stacco. Saluto Alexia in camerino e ancora con la tuta da training indosso il marsupio ed esco. E dal nero del teatro, ancora con l’eco del maniglione antipanico che sbatte dietro di me, divento tutta pupilla contratta dalla luce del sole. 

C’è un bel tepore, cammino sotto i portici vampireggiando e facendomi trasportare dalle scie della gente, aspetto che gli occhi si adattino al reale e io con loro. Faccio giusto in tempo a smettere di lacrimare che li vedo arrivare in due sulla stessa bicicletta: Eva e Omero, che coppia incredibile. È passato del tempo dall’ultima volta che ci siamo incontrate, i loro capelli sono molto più lunghi. Non mi hanno ancora vista, sono concentrati nel loro passo a due: è così disarmante la loro confidenza. 

Li osservo nella parentesi di tempo prima che il loro sguardo mi intercetti e mi godo la mia invisibilità sovrannaturale. Poi mi vedono e la mia apparizione riordina tutto. 

Ci abbracciamo, Eva lega la bici, ci sediamo a un tavolino del bar e ordiniamo un caffè. Facciamo sempre, come minimo, due cose contemporaneamente. Un dialogo serrato come se l’avessimo interrotto la sera prima ci possiede: non ci vediamo da mesi ma fanno così le amiche, lasciano i convenevoli sul tavolo ed entrano come due razzi nella materia profonda, negli aggiornamenti di vita, in questo come stiamo che è matrice di ogni cosa. Un torrente di parole che scavalla il caffè, scavalla la passeggiata, scavalla la spesa dal fruttivendolo e ci teletrasporta in un camminare balordo mano nella mano nella mano in tre, in direzione di una stamperia in via Ugo Bassi.

Bologna è stracolma di gente, di bar, di stuzzicherie, di cibo. E nel tempo di questi discorsi appassionati mi accorgo come le vie soffrano di un blocco intestinale. Sature, gonfie, sudate, unte, strabordanti di grassi.

“È ok per te se entro in stamperia dieci minuti mentre rimani fuori con Omero?”

Omero è una delle poche persone che conosco che esulta di felicità ogni volta che nel suo campo visivo entra una Fiat Panda, corridore instancabile con una spiccata passione nel confezionare gelati alla sabbia bagnata. 

“Nessun problema, stiamo qui sotto i portici, facciamo un giretto”.

Omero ha un grande dono, si sposta continuamente e mentre lo fa anche le cose e le persone che ha attorno si spostano con lui in una ristrutturazione continua dell’ambiente circostante. Ignora le regole dello spazio urbano muovendosi a un ritmo imprevedibile in qualsiasi direzione, risignificando segnali stradali, marciapiedi, semafori, flussi cittadini, auto, biciclette che sfrecciano veloci. È beatamente dentro il mio stesso mondo ma è lui a disegnarlo, piedino dopo piedino. Ogni stimolo diventa direzione, ogni oggetto abbandonato diventa vettore irresistibile verso il pavimento. Mischia con coraggio il camminare con il correre, il saltare con lo sdraiarsi a terra, le lacrime con lo sputo. Straborda di entusiasmo per la città che misteriosamente controricambia dimostrando d’avere abbastanza spazio per contenerlo. Fino a che in un preciso istante di questo scarabocchio cinetico, si ferma per sempre, immobile, incastrato in un mistero. 

“A cosa pensi?”
Mi verrebbe da chiedergli. 

È concentrato su ogni sua distrazione, una collezione infinita di false partenze. Omero quando si alza sulle punte dei piedi non arriva all’altezza del mio coccige e questo mi commuove.

Si sfila continuamente dalla mia mano mentre provo a serrare la presa, al contrario rimane manina docile quando la lascio respirare e in questo assaggio di anarchia mi trovo anche io incastrata in un mistero. E Bologna diventa Parigi a metà del Novecento e Omero diventa il mio Guy Debord. C’è tutto: stabilire una relazione particolare con la città, abitarla come se fosse la propria casa. Disegnare percorsi che non coincidono con il resto della moltitudine, inciampare nelle buste della spesa cariche di Parmigiano e verdure biologiche, sfrecciare tra i cammini premeditati e assopiti dei passanti. La metropoli è un labirinto e Omero cambia forma a ogni suo passo: si lascia condurre dalla città che lo prende, lo guida e per un attimo, la città stessa riprende fiato. Flâneur senza bisogno di teorizzarlo, Omero è un piccolo dandy a zonzo, in deriva. 

Dentro questa moltitudine di eventi indipendenti, con il cuore in gola, temo per ogni suo passo: immagino che sparisce dietro all’angolo, che cade e sbatte il mento e si taglia con una bottiglia affilata, che si punge con una siringa rimasta lì dagli anni Ottanta, che viene investito da ogni bici, ogni auto, ogni autobus, che viene sbranato da ogni cane che passa. Che viene rapito dagli alieni, seriamente. Nonostante queste visioni terrificanti mi trattengo per non anticiparlo su ogni sua mossa e all’improvviso, dentro questo mio esitare, respiro e mi faccio guidare da questo piccolo caleidoscopio dotato di coscienza. Tramite lui mi ritrovo a godere pienamente dello spettacolo che la città offre, lasciando spazio nella mia partitura visiva a ogni continuo urto di cui Omero fa esperienza camminando per la città. 

Eva esce dal negozio tenendo tra le braccia una busta piena di fotocopie. 
“Cosa ne dite di andare a prendere la bici e fare una passeggiata fino a Gare de l’Est?”

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ARTICOLO n. 54 / 2024

Di Luca Ravenna

UMORISMO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

“Capacità di rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Bene, lo scopro ora. Non mi ero mai posto il dubbio in precedenza. Non sapevo cosa fosse o forse lo sapevo senza saperlo, come tutti.

Qualche giorno fa stavo facendo un caffè con una macchinetta simil-Nespresso a casa della mia ragazza. Normalmente quando carico la cartuccia e sono insieme a lei fingo di essere in un ufficio milanese e mi metto a fare l’imitazione di un fantomatico capo ufficio fluido sui cinquanta anni che importuna in modo uguale giovani donne e giovani uomini, facendo valere il peso della sua innata simpatia.

“Avete letto quella pazza su Magazine coso? Ma quella è da internare o no?”
“No raga… io non ce la faccio!”
“Come va con la casa? Trovato qualcosa?”
“Ah, solo zone terribili? Cazzo con quel che ti paghiamo… Ahhahaha…”
“Come va con il pezzo per Gucci? Venuto figo? Camicetta top oggi eh… ahahahah”
“Mi Ami? Andati? Flop? Top? Droga?”
“Raga le cialde sono finite, facciamo la solita raccolta?”

Ma quel giorno ero stanco, ormai è un mese che mi trascino come uno zombie fra Milano e Roma fingendo di avere energie che non ho più. Ho terminato un tour bellissimo e molto intenso che mi ha portato in giro per l’Italia con il mio ultimo spettacolo. Sessantadue date in sette mesi. È stato esaltante, emozionante e stupendo, ma l’energia è completamente terminata e con essa anche la voglia di scherzare, ossia il desiderio di “rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Quando mi capita di parlare con qualcuno, non apprezzo più le battute su di me, sono estremamente paranoico rispetto al mio aspetto fisico, non sopporto le persone che fanno ridere, vorrei stare in campagna circondato dagli animali per un mese.

Sia chiaro: non mi sto lamentando. Sono felice di fare il lavoro più bello del mondo. Essere pagato per dire barzellette piuttosto complesse – questo è di fatto il mio lavoro – è qualcosa che va al di là dei miei sogni più vividi. Ma per farlo con enorme sincerità bisogna per prima cosa cercare di essere sinceri con se stessi. E se proprio devo esserlo, ora mi sembra difficile cavare umorismo dalla realtà che mi circonda.

Come sempre succede in questi casi è bene fare il punto della situazione e cercare di ripartire provando a decifrare cosa sia l’umorismo per me. Provo quindi a buttare giù una sorta di elenco, di punti, di idee, di leggi che seguo quando provo a scrivere qualcosa di divertente.

Vediamo se tornano utili a qualcuno. Non è un decalogo, non è nulla, solo una serie di pensieri sulla risata, l’umorismo che cerco di tenere a mente sia quando lavoro, che nella vita di tutti i giorni.

– “È molto simpatico/a” è una bellissima cosa da dire di una persona.

– “È un coglione/una cogliona” è la stessa identica cosa, detta da qualcun altro.

– Il lavoro di un umorista è surfare come una lumaca sul filo di un rasoio o sulla lama di un coltello, questa similitudine è mia non di Marlon Brando/Colonnello Kurz in Apocalypse now.

– A cosa punti una persona che sceglie di guadagnare facendo ridere, non si sa. Così è. I traumi infantili, essere stato bullizzato, non avere altre forma di difesa se non quella dell’ironia; non saprei, mi sembrano tutte idiozie. È un fuoco che arde? Non ne ho idea né mi interessa ormai. Ma è un desiderio difficile da spegnere.

– Non esiste applauso, risata, commento, di chicchessia che possa anche solo lontanamente avvicinare l’istante in cui, camminando per strada e ripensando a qualcosa, porta alla risata fra sé e sé. Le battute migliori, le piccole fratture della realtà in cui infilare le dita per provare ad arrampicarsi su una parete che con un po’ di tecnica porta alla scrittura di un monologo che sia divertente per sé e poi, se si ha fortuna, anche per gli altri. Quelle spaccature hanno a che fare con l’infinito dialogo che si ha con se stessi.

– Depositato quel seme, con la tecnica (banalmente segnandoselo su un taccuino), si può pensare di far crescere qualcosa che verrà prima o poi presentato al pubblico. Se avrà senso e sarà condivisibile dalle persone in ascolto, non sta certo all’autore deciderlo.

– Non è mai un monologo, ma sempre un dialogo. Prima con sé stessi, poi con il pubblico.

– “Quella cosa non fa ridere”, come dicono alcuni, è una frase che non ha senso. La risata non è oggettiva. È soggettiva. “Quella cosa non fa ridere me, adesso, perché ho i cazzi miei”.“Come me adesso”: così va bene, così si può dire.

– Per il palco: bisogna scrivere come si parla. Non c’è nulla di meno umoristico della forma mancata, della forma fittizia. Se – come spesso succede – un comico parla in modo eccessivamente forbito o distante dal suo vero modo di masticare la lingua ci si stacca immediatamente.

– Dimenticare il punto precedente. C’è chi riesce benissimo a parlare in modo diverso sul palco. Ognuno ha il suo stile. La comicità non ha regole, ma solo effetti. Chiunque provi a dare delle regole o dei voti se ne deve andare a fare in culo.

– Stare sul palco e scrivere sono due lavori differenti.

– Ci sono grandi autori e grandi perfomer, non sempre le due cose coincidono.

– Per trovare qualcosa di divertente da raccontare bisogna non ascoltare chi si ha davanti. Non è facile da spiegare né da accettare, ma è fondamentale ascoltare con mezzo orecchio. Con l’altro è necessario stare concentrati su se stessi. È doloroso perché può allontanare le persone, ma almeno per me funziona così. Se cerco qualcosa di divertente non posso ascoltare veramente chi ho di fronte.

– Di sicuro sono abbastanza abituato a cercare il pensiero laterale rispetto a tutto quello che accade intorno a me. Non saprei contare le volte che mi è stato rinfacciato il fatto di aver preferito una battuta di fronte alla possibilità di ascoltare il momento in cui mi trovavo, per il puro gusto di dire qualcosa di divertente. Da questo punto di vista non mi considero un artista, gli artisti veri sono quelli che sanno ferire gli altri, io qua e là potrei averlo anche fatto, ma ora come ora non saprei.

– Detto questo, amen. C’è di peggio.

– Ridere è sempre bello e giusto. Nessuno si è mai lamentato di aver riso per un’ora, era la frase con cui chiudevo le prime sere che organizzavo a Milano qualche anno fa. Non penso di aver mai detto nulla di più sincero sull’umorismo in vita mia.

– Niente ha senso finché non si trova qualcuno a cui raccontare di sé. Se non si ha qualcuno a cui raccontarlo è bene tenere un diario, una chat fittizia. Qualcosa per cui si possano mettere in fila delle immagini, dei momenti, una traccia. Più sono struggenti, più c’è lo spazio per ridere, solo che magari sarà qualcun altro a farlo notare. Fa niente. Esistiamo solo in base ai rapporti con gli altri. Anche questa frase è mia!

– Non esiste nulla finché non lo si racconta e finché non si cerca il lato divertente di qualsiasi storia, sennò quella storia rischia di essere solo una lamentela.

– Il tempo per una battuta è l’unica cosa che non si può insegnare. È qualcosa di magico, di inafferrabile. È una partitura scritta con l’inchiostro invisibile. Qualcuno la sa scrivere, ma solo per se stesso. Altri non lo sanno fare. È brutale da dire, ma così è.

– C’è sempre spazio per un aneddoto divertente, c’è sempre spazio per il ricordo di una storia. Chi non ha tempo o voglia di ascoltarli non merita la compagnia che gli viene regalata. Non sto parlando di palco, sto parlando di vita. Per fortuna esistono tante persone fra cui cercare ed esiste, se uno vuole, a un certo punto anche il palco.

– Non esistono momenti divertenti della propria vita che nel ricordarli non feriscano con la nostalgia. Quando si finisce di ridere e il rinculo degli ultimi singulti si spegne – magari a cena fra amici – e si afferra il bicchiere in tavola e si passa ad altro – a un amaro, al caffè, al conto – il sorriso si schiude sapendo che la storia è finita e si torna alla realtà. Come una folata di vento che fa sbattere la finestra. Il ricordo è passato, la storia anche e la vita anche. Quell’istante è per me struggente e dolorosissimo. Ma ce ne saranno altri, magari anche di più belli.

– Io diffido anche da chi mangia troppo in fretta, non mi piace che qualcuno ordini per il tavolo a cena, non amo chi parla di sesso senza che ci sia confidenza estrema. Non sopporto chi guida veloce in macchina o in generale si vanta di imprese esagerate al volante. Non sopporto chi parla di evasione fiscale o chi parla di soldi in generale. Non sopporto chi urla il proprio giudizio su un film mentre è ancora in sala o peggio a teatro.Ma soprattutto non sopporto chi non ride o ci tiene a dare l’impressione di non ridere mai, di non perdere tempo con l’umorismo. Non le persone che ridono poco o hanno una risata difficile. Parlo proprio delle persone sempre serie. Inculatevi! Trovatevi fra di voi al circolo degli inutili e andatevene a fare in culo tutti insieme.

– L’umorismo è come una carie nei denti. Fa male, ma senza non si possono espiare i propri peccati.

Quando si fa ridere qualcuno per qualcosa è una soddisfazione enorme. Non c’è nulla di più convincente a livello umano dell’ascoltare una risata, ma non bisogna dimenticarsi che la prima da ascoltare e da non dimenticare è la propria risata. Perché ridiamo solo per un motivo: per sentirci meno soli.

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