Silvia Semenzin

ARTICOLO n. 78 / 2022

LA RABBIA E LA RASSEGNAZIONE

Il corpo di Giorgia Meloni nella transizione postmaterialista

Sono passati solo pochi giorni dalle elezioni che il 25 settembre hanno segnato la vittoria di Fratelli d’Italia, il partito guidato da quella che in questione di ore diventerà a tutti gli effetti la prima donna Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Inizia una nuova storia per l’Italia, dicono alcuni, ora tutto cambierà. Ma questa profezia suona piuttosto ingannevole a mio parere, specie guardando agli ultimi decenni del nostro zoppicante cammino politico. «Tutto deve cambiare affinché tutto resti come prima», recitava Tancredi nel Gattopardo di fronte allo sbarco in Sicilia di Garibaldi e i suoi mille e adesso, nei giorni che precedono la formazione del nuovo governo, questa frase mi rimbomba in testa come un mantra. Tomasi di Lampedusa ci aveva visto lungo quando parlava di come gli italiani affrontano la rottura tra il vecchio e il nuovo mondo, oscillando tra una classe in declino e una nuova classe determinata a mantenere vecchi privilegi, vecchie abitudini, vecchie tradizioni. Perché Meloni non segna necessariamente l’inizio del nuovo, anzi: Meloni rappresenta quel cambiamento esteriore e di sola apparenza che consente di lasciare intatto un sistema che lentamente, ma inesorabilmente, continua a putrefarsi dalla radice fino alla punta.

Anche se tre giorni dopo le elezioni migliaia di persone hanno rabbiosamente riempito le piazze in reazione ai proclami antifemministi dell’estrema destra al grido di «il corpo è mio, decido io», la mia percezione – specie come italiana all’estero – è che il sentimento più condiviso tra chi Meloni non l’ha votata non siano tanto la rabbia o la paura, ma piuttosto un’amara, incurabile, e a tratti riconfortante, rassegnazione. Nei giorni successivi alle elezioni le chiamate con amici e conoscenti si sono svolte tutte più o meno nello stesso modo: «Come va?» «Tutto bene, dai… a parte le elezioni». «Eh già. Chissà ora che faremo.» «Eh già. Vabbè, dai, parliamo d’altro».

Ad agosto scrivevo di un senso di crisi e di impotenza che attraversa le generazioni più giovani, rendendole sempre più apatiche, indifferenti, disinteressate. È assai banale asserire che la politica sia ormai troppo lontana dai cittadini, ma gli italiani pare si siano definitivamente arresi a questa verità, l’abbiano accettata e fatta loro, stando a guardare con un rassegnato realismo ciò che gli accade intorno, spesso forse senza nemmeno sforzarsi di capirlo. La politica non sa più raccontare il mondo in cui viviamo, figuriamoci rappresentarlo. E in effetti, guardando ai voti assoluti delle elezioni, ciò che salta all’occhio prima ancora della vittoria di Fratelli d’Italia è quel gigantesco buco astensionistico composto da oltre 16 milioni di elettori. 

Molte penne hanno giustificato questa tendenza come un fenomeno condiviso a larga scala dalle democrazie occidentali, sorvolando con eccessiva leggerezza su quanto esso sia invece un’espressione evidente della crisi sociopolitica che stiamo vivendo. La crisi postmoderna ha ormai raggiunto il suo apice: le identità di classe si sono tramutate in identità sociali e il rapporto tra classe e voto si è indebolito così tanto da diventare ormai quasi irrilevante. Fa riflettere infatti che, mentre le braci di ciò che rimane del PD segnano il loro minimo storico, il partito di Meloni sia stato specialmente capace di attrarre e conquistare anche il voto popolare contro quello che invece viene oggi considerato il voto borghese di sinistra. Certamente una buona percentuale di votanti di FdI proviene dai delusi degli altri partiti del centrodestra e del M5S, ma è ugualmente importante notare come, dopo anni di slogan sul fatto che tra destra e sinistra siano uguali, alla fine molte pance appartenenti alle classi medio-basse si siano convinte a optare per l’estrema destra perché più capace di mettere al centro il lavoro e la crisi economica, mentre la sinistra ha visto diluire i suoi voti in uno spaventoso astensionismo. Di quella sinistra che un tempo si occupava di disuguaglianze, di reddito e di diritti dei lavoratori oggi non resta che un ricordo offuscato da partiti che al massimo intavolano qualche timida discussione sui diritti civili, mentre il 90% della popolazione sta venendo letteralmente soffocata dalla crisi economica. Siamo, insomma, nel pieno di quella transizione postmaterialista che, secondo Nancy Fraser, baratta i diritti civili con i diritti economici, e così l’estrema destra è riuscita nella sua missione di convincere la classe media che la soluzione ai problemi causati dalla disuguaglianza vada ricercata nell’eliminazione dei poveri e non degli straricchi. Ma francamente, dopo quattro anni di governi multicolori, una pandemia e un’inflazione alle stelle, non sorprende affatto che in molti abbiano espresso la propria rabbia e la propria paura votando una leader che in qualche modo restituisce sicurezza. 

In Italia il contenuto ha lasciato spazio alla forma molto tempo fa. Chi parla di disuguaglianza e di povertà viene tacciato d’invidioso, perché noi italiani un po’ siamo così: amiamo i ricchi e disprezziamo chi sta peggio di noi, perché nella paura di scivolare sempre più in basso ci afferriamo alla speranza di poter un giorno riuscire nella scalata sociale. Il postfascismo che verrà, insomma, non è che una maschera costruita ad hoc per poter conservare nostalgicamente questa tradizione. Come scrive Alessandro Gandini, la nostalgia è un sentimento reazionario che nella nostra epoca offre un rassicurante rifugio di fronte alle contraddizioni del presente e alla nostra incapacità di immaginare uno spazio-tempo tutto nuovo. Cambiare la tradizione, invece, fa paura perché ci costringe a dover immaginare nuovi modelli sociali e produttivi basati su premesse completamente diverse come una sorta di salto nel vuoto.

Chi inneggia al cambiamento alludendo al fatto che Meloni sia una donna o è uno stolto o è un incosciente. Perché nella società in cui viviamo, le donne vincono solo quando mantengono intatto quel modello sociale basato sul mito della forza, della rabbia e del dominio. Meloni è un’esponente perfetta della triangolazione tra capitalismo, patriarcato e colonialismo, è una nuova pedina del puzzle che funge a perpetuare la tradizione e consentire a chi ha già tutto di non perdere nemmeno un pezzetto del proprio privilegio. Non a caso, infatti, durante la campagna elettorale abbiamo visto riemergere con forza la celebrazione del lavoro domestico femminile e della figura della madre come pilastro della famiglia tradizionale. 

Rimpiazzare le figure maschili con donne che hanno più o meno gli stessi identici privilegi non è affatto l’obiettivo delle lotte femministe socialiste. Il femminismo intersezionale ci racconta anzi come, al centro dei sistemi di sfruttamento e di oppressione, le questioni di classe si intersecano profondamente con il genere e con la razza. È da queste premesse che dovremmo allora attingere per immaginare nuovi futuri. Perché la rivoluzione delle coscienze, parafrasando bell hooks, passa in primo luogo attraverso la volontà di cambiare resistendo alla rassegnazione che ci pervade. Se desideriamo vivere in una società che, invece di sfruttare e opprimere i deboli, sia in grado di rimettere al centro del proprio funzionamento concetti finora considerati prettamente femminili, come la cura, l’affetto, la comunicazione e l’impegno, è necessario guardare oltre il nostro orticello capendo che la cura di sé passa prima di tutto dalla preoccupazione per gli altri. Ed è solo accettando la nostra profonda essenza politica che sarà possibile costruire una società che metta al centro il benessere dei propri cittadini.

Le sfide che abbiamo davanti sono molte. Per affrontarle sarà in primo luogo necessario chiedersi come contrastare le gerarchie seminate nel tempo da razzismo e patriarcato, che il sistema capitalista ha saputo sfruttare per dividere e distrarre le classi medio-basse portandole sempre più verso una lotta intestina contro se stessa invece che contro le classi più privilegiate. Rifuggire la politica dell’identità, capace solo di creare slogan cannibalizzabili da brand e aziende, è una necessità non più rimandabile. Il cambiamento deve venire da dentro, dalla ricerca di quel minimo comune denominatore tra gli oppressi che torni a sfociare nella ricerca e sperimentazione dell’organizzazione collettiva.Forse allora, affinché tutto cambi, è giusto che intanto tutto rimanga com’è. Ed è chissà questo il cuore di ogni reale rivoluzione: far accadere il cambiamento dall’interno affinché, una volta passata la sbornia di slogan e proclami, l’immaginazione di una società più giusta possa occupare le parti interiori della nostra anima fino a farci riesplodere la rabbia. Tuttavia, la rabbia che dobbiamo imparare a coltivare non ha nulla a che fare con l’effimera indignazione da social media di cui ci siamo intossicati negli ultimi anni. Si tratta piuttosto di una rabbia radicale e capace di ideare cambi a lungo termine, contrariamente al modus operandi nostra classe politica e dei programmi elettorali che ci vengono propinati come soluzioni al nostro malessere. Non possiamo più procrastinare calciando la palla in avanti e aspettando che i nostri diritti vengano erosi una goccia alla volta: è tempo di abbandonare la rassegnazione e riprendere le redini del nostro futuro, se ancora speriamo di poterne costruire uno.

ARTICOLO n. 63 / 2022

HO SOLO TRENT’ANNI, MA MI SENTO GIÀ ESAUSTA

Dove sarò questa estate?

Appollaiata su una seggiola della mia terrazza, respiro la brezza marina serale che avvolge Barcellona. In città fa caldo, sempre più caldo, ma alla sera si trova un po’ di sollievo nell’aria frizzante che arriva dal mare. Due gabbiani volteggiano sopra alla mia testa gracchiando e mi sembra quasi di sentirli ridere tra loro. È di nuovo estate e me ne accorgo quasi per sbaglio. 

Una pesante stanchezza mi annebbia mente e corpo mentre cerco a tutti i costi di rallegrarmi per l’arrivo della bella stagione e l’imminente pausa estiva. Dove sarò quest’estate? Come userò il prezioso tempo a mia disposizione? Che ho fatto finora e dove sono andati a finire gli ultimi mesi, gli ultimi anni? Per un attimo mi sembra di aver vissuto per un lunghissimo tempo come in apnea, incapace di prendere respiro in una forsennata corsa dietro alle continue preoccupazioni. La guerra, il Covid, il precariato, i governi che cadono, l’aumento dei prezzi, e ancora il caldo, le maree che si alzano, la nostra terra che brucia. In questo assoluto marasma il tempo a disposizione io non so più che cosa sia perché ormai sfugge via troppo rapido per ricordarsi di goderne.

A chi mi chiede che cosa farò quest’estate, rispondo: riposerò.

Ho solo trent’anni, ma mi sento già esausta. 

Avere trent’anni non è facile se si ha avuto la sfortuna di nascere quando è capitato a me, perché alla mia generazione, quella nata dopo il 1990, è stato chiaro quasi sempre che i sogni che avevamo non avrebbero mai trovato suolo fertile nella realtà che viviamo. Noi con le crisi ci abbiamo dovuto fare i conti da subito, giacché fin da che ne ho ricordo, “crisi” è stata la parola più utilizzata per descrivere il periodo storico che ci è toccato vivere: la crisi economica, la crisi della politica, la crisi climatica, la crisi dei valori. Così, a poco a poco, da uno stato di perenne crisi esterna abbiamo cominciato a scivolare verso una profonda crisi interiore, rifiutando da una parte di accettare davvero che la nostra vita sia finita ancora prima di iniziare, ma dall’altra privati della possibilità di fermarci per riflettere, respirare, guarirci. I ritmi forsennati della società ci impongono di lavorare senza sosta, programmare ogni minuto della nostra vita per non perderci nulla, sapere sempre esattamente dove stiamo andando e perché. In bilico tra speranza e rassegnazione, inseguendo l’utopia della realizzazione personale in un mondo che si è rotto, viviamo la vita sopravvivendo e spesso scordandoci della sua fuggitiva bellezza. 

Per far riecheggiare la forza della vita che si afferma ci serve allora l’arrivo dell’estate, che con il suo sonno e il suo tepore ci ricorda l’importanza di fermarci a osservare la crisi che sentiamo. 

Nonostante tutto, forse un po’ ingenuamente, io vedo infatti l’estate come una speranza dell’inizio del nuovo. Mi ricorda che sono viva, che esisto, che tutto ha senso se solo lo si cerca. L’estate per me è un dondolio del tempo in cui farci promesse e sperare che durino fino all’autunno. Così, quando arriva il caldo, mi obbligo con tutte le mie forze a uscire dall’apnea della quotidianità per ritornare a galla a prendere fiato. Per l’essere umano, si sa, respirare è un’esigenza fisiologica: in mancanza d’ossigeno, si muore. Questo respiro vitale che prendo d’estate funziona in me come una catarsi: è un tempo sospeso e rarefatto in cui trovo finalmente il coraggio di perdermi e purificarmi da tutta la fatica. Quando ero piccola amavo l’estate perché nella mia testa durava praticamente come il resto dell’anno. Era un’intera eternità in cui potevo sempre ridere e mi era concesso fare tutto ciò che più mi piaceva: andare al luna park, prendere lo zucchero filato, fare a gavettoni, leggere i libri di Roald Dahl uno dopo l’altro, fare nuove amicizie. 

Oggi invece è tutto un po’ più complicato. Viviamo in un mondo velocissimo in cui disconnettersi significa al massimo spegnere il computer, mettere il culo in macchina, su un treno o un aereo e andare a fotografare qualche posto nuovo convincendoci, mentre lo postiamo sui social, che “stiamo staccando” senza riuscire mai a farlo veramente. Così, a causa delle aspettative irrealistiche e dei ritmi disumani che ci vengono imposti, abbiamo perso gli strumenti per lenire il nostro dolore derivante dalla crisi. Ci vestiamo sempre e solo dello sguardo degli altri, mendicando attenzione e approvazione esterna, non sapendoci più guardare con i nostri occhi e incapaci di dare amore anche a noi stessi. Stanchi e nervosi come ci sentiamo, disconnettersi dalla pesantezza del mondo diventa vitale. 

Divertirsi il più possibile è l’imperativo dei giorni nostri a cui rispondiamo per lo più ammazzandoci di alcol e di droghe e bandendo quasi sempre la politica dai nostri discorsi, perché se qualcosa ci fa soffrire noi lo allontaniamo. Odiamo annoiarci. L’ozio e la noia sono i maggiori nemici da combattere. Ci terrorizza l’idea di non riempire ogni minuscolo frammento del nostro ipotetico tempo libero con qualche attività che ci diverta e ci ossessioniamo con la necessità costante di sentirci in movimento per non dover fare i conti con quell’horror vacui che diventa il nostro compagno di vita. Quando ero isolata da tutto e da tutti all’inizio del primo lockdown, ubriaca di pensieri e della vista che mi offriva il mio vecchio balcone sul Mercado de Santa Caterina, passavo le mie giornate ad immaginare ciò che avrei fatto una volta che sarei stata di nuovo libera. Giuravo ogni giorno a me stessa che, appena possibile, me ne sarei andata lontano per ritrovare quel tempo che mi sembrava perso. Non mi accorgevo ancora che, grazie a quel tempo sospeso, mi stavo scavando dentro.  

Qui nessuno ci ha mai spiegato che l’inizio del movimento inizia dalla frattura, dalla crisi, dal dolore e dalla noia. Nessuno ci ha insegnato come gestire ciò che ci accade ad esempio durante la pausa estiva, quando tutto sembra finalmente fermarsi e a noi non resta altro da fare che riflettere sulla condizione umana. Una volta ho letto da qualche parte che agosto è il mese in cui le persone divorziano di più. In sostanza, la gente passa l’anno a pianificare le vacanze e una volta ritrovatasi nella convivenza forzata e nella sospensione del tempo, implode. Probabilmente questo accade perché, da fermi, veniamo obbligati a fare i conti con noi stessi, a guardarci in faccia, a chiederci come stiamo, cosa che evitiamo meticolosamente di fare durante il resto dell’anno come a volerci proteggere dal peso dei nostri dubbi. Il problema è che, in assenza di un dialogo interno, diventa quasi impossibile crescere ed evolvere nel dolore del mondo, e per questo la noia e l’assenza di attività ricreative o produttive diventano ingredienti essenziali per stimolare i nostri processi di pensiero. 

Sconfiggere un dolore profondo senza saperlo comprendere e chiamare per nome è pressoché impossibile. Anche per questo, forse, Walter Benjamin diceva che la noia è l’apogeo del rilassamento mentale in cui si allena la mente a far entrare ogni tipo di pensiero intrusivo, apparentemente inutile e a volte distruttivo. Bertrand Russell, dal canto suo, in un saggio intitolato La conquista della felicità, scriveva invece nel 1930 che«una generazione che non riesce a tollerare la noia è una generazione di uomini piccoli, nei quali ogni impulso vitale appassisce»perché solo attraverso la noia diventiamo capaci di osservare ciò che ci accade attorno e ciò che in esso diventiamo. Se mi guardo intorno, la sensazione che ho è proprio che la mia generazione stia appassendo perché non si sa più annoiare e, di conseguenza, forse non sa più pensare. 

In un mondo che ripudia noia e dolore, l’ozio che da vita al pensiero diventa allora una forma di ribellione. 

Alla fine, quest’estate me ne andrò in Malesia e mi perderò nella selva, nei templi buddhisti e nel mare. Si tratterà di vero e proprio viaggio, e non di semplice turismo, in cui passo dopo passo mi porterò verso l’incognito del mio Io interiore per ritrovare quella spinosa sensazione di perdita e di solitudine. Il viaggio, con la sua partenza e il suo ritorno, voglio che sia la mia disconnessione capace di attivare i miei processi di pensiero ormai da tempo assopiti. Respirando dal polmone dell’Asia, cercherò di annoiarmi moltissimo ascoltando il canto delle cicale e guardando lucciole e stelle cadenti per far vagare la mente. Sperando di perdermi e poi mi ritrovarmi ovunque io sia, proverò a spogliarmi dei dolori più profondi osservandoli, fermandoli, capendoli. Lontana, sì, ma forse un po’ più vicina a me stessa, respirando con il coraggio di chi non si è ancora arreso e spera che il suo sognare possa durare almeno fino all’arrivo del prossimo freddo.