Silvia Semenzin

ARTICOLO n. 67 / 2023

FARE L’AMORE CON GENTILE IMPRUDENZA

La temperatura dell'estate

C’è un luogo a Barcellona in cui la vecchia muraglia romana incontra i vizi della contemporaneità.
Si trova nel casco antico della città, che in alcuni punti è sopravvissuto quasi intatto al passare del tempo. Proprio lì, incastrata tra minuscoli viottoli maleodoranti e all’apparenza indistinguibili, si nasconde una piazzetta fiocamente illuminata dai lampioni e incorniciata dagli alberi. Noi la chiamiamo “la piazzetta segreta” perché ogni volta ci dimentichiamo – o fingiamo di dimenticarci – come si chiama davvero. Quando ci viene voglia di raggiungerla dobbiamo sempre reimparare il cammino per arrivarci, tiriamo a indovinare, giochiamo a chi la trova per primo. Costeggiamo la cattedrale lasciandoci piazza Jaume I alle spalle, attraversiamo le antiche torri, scendiamo di appena una baixada e poi, puntualmente, ci perdiamo. 

È proprio questo alone di mistero che circonda quel luogo che riempie di incanto ogni nuovo incontro avvenuto nei suoi pochi metri riempiti da tavolini traballanti. La piazzetta segreta è testimone dell’esistenza di molte storie nate a bassa voce. È a lei che gli amanti affidano le loro inconfessabili promesse d’estate, quelle che si fanno sussurrando mentre tutto sembra possibile, quando le antiche mura riparano appena un poco dal caldo torrido e dagli sguardi curiosi dei turisti che affollano il centro città. Qui gli archi gotici diventano portici sotto ai quali nascondersi per scambiarsi baci appassionati. 

È lì, in quella precisa piazzetta, che ho pensato per la prima volta che l’amore assomigliasse alla follia. Come si fa, mi chiedevo osservando gli amanti con occhi avidi, a innamorarsi d’estate quando il caldo soffocante diventa un monito pronto a ricordarci che non esiste futuro? Come si stringe la mano di uno sconosciuto immaginando di poter costruire mentre si ha l’impressione che il mondo intorno vada in fiamme? Quanta speranza è racchiusa all’interno dei fuochi di cuori ignoranti e incuranti di quella che chiamano “l’estate più fresca del resto della tua vita”?


Mentre ci penso sento un tonfo al cuore. La chiamano eco-ansia ed è una sensazione di paura e impotenza che si prova quando ci si sofferma a pensare allo stato di salute del nostro pianeta. L’eco-ansia ha lo stesso rumore dei sogni infranti: è la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla distruzione inesorabile dei nostri ecosistemi nell’era antropocentrica, è il senso di colpa paralizzante che si insinua dentro di noi quando analizziamo il valore delle nostre scelte ecologiste individuali per limitare i danni dell’imminente apocalisse, è la percezione vivida che il mondo, così come l’abbiamo conosciuto, sia destinato alla morte. 

Secondo il filosofo ambientale Glenn Albrech sono sempre di più gli stati psicoterratici negativi che si scatenano in risposta ai cambiamenti di equilibrio tra umanità e ambiente, e la mia generazione purtroppo ne è la principale vittima. Nel 2021, la rivista Environment International pubblicava un articolo scientifico in cui suggeriva una correlazione tra l’aumento delle alte temperature e il deterioramento del benessere psichico umano, riscontrando un’impennata estiva di ricoveri ospedalieri e visite al pronto soccorso per condizioni come ansia, depressione o schizofrenia, così come un picco di suicidi e omicidi. Quest’idea è ben nota anche nel campo della psicologia, che da anni racconta come i periodi di clima caldo siano tendenzialmente caratterizzati da maggiori esplosioni di violenza e rabbia, sia verso sé stessi che verso gli altri. D’estate il nostro battito cardiaco accelera, il nostro respiro si accorcia, e la nostra capacità di gestire gli sbalzi emotivi associati al disagio si abbassa: diventiamo insomma più impulsivi perché troppo concentrati sulla regolazione del nostro corpo. Io stessa, nonostante durante l’inverno desideri ardentemente l’arrivo del caldo e sia disposta a percorrere anche grandi distanze per ritrovarlo, nei mesi estivi mi sento più irascibile, come se insieme alla terra andassi a fuoco anche io. Questa sensazione aumenta progressivamente di anno in anno, creando solchi profondi come calanchi che erodono la mia stabilità mentale e, insieme a lei, la mia illusione di non star sprofondando nella più totale follia. Così l’estate, un tempo simbolo di libertà e infinite possibilità, oggi mi terrorizza.  

Osservando un’altra volta gli amanti della piazzetta segreta ricordo con tenerezza le mie prime estati spagnole, quando il tepore estivo non faceva paura e insieme a lui sopraggiungeva anche l’illusione dell’amore. Lo aspettavamo con ansia a vent’anni, eccitati e avidi di conoscere il mondo e saggiare i limiti della fugace libertà che ci offrivano quei mesi di pausa. Io accoglievo con gioia il caldo asciutto di Madrid che annunciava il suo arrivo con aliti di vento roventi che non spettinavano mai i capelli. Ero spensierata, piena di vita e ottimista, e ai primi canti di rondine diventavo felice. Allora pensavo con ingenuità e un pizzico di presunzione che il cambiamento climatico l’avremmo fermato in tempo, noi della Facoltà di Scienze Politiche di Somosaguas, e in quella credulità di bambina nemmeno l’amore mi incuteva timore, anzi: bramavo di lasciarmi consumare dal desiderio fino a rendermi cenere. 

Ma oggi? Dove resta spazio per l’amore quando tutto sembra essersi perso e l’eco-ansia somiglia più che altro alla resa? Sembra che ormai possiamo affacciarci all’Altro solo in forma mutilata, consci della possibilità che tutto finisca prima ancora di iniziare e che la promessa di passare la vita insieme al proprio essere amato somigli più a una condanna da scontare insieme che a una promessa di futuro. Anche per questo molti dei miei coetanei stanno abbracciando la scelta di non mettere al mondo dei figli al fine di evitar loro la sofferenza che sarebbe vivere in un mondo devastato dall’ebollizione globale. Fare figli è da egoisti, dicono, è inutile esasperare ulteriormente il nostro mondo sovrappopolato con scelte riproduttive irrazionali. È folle sforzarsi di pianificare, edificare e immaginare il domani mentre le nostre certezze sul mondo si sgretolano insieme alle città.   


Eppure, agli amanti della piazzetta tutto questo non sembra interessare. A ben guardarli si direbbe che se ne infischino della paura, della rabbia e dell’odio che gli esplodono intorno, perché la fine del mondo per loro esiste solo nei baci, nei corpi riscaldati, nello sfinimento del desiderio insaziabile. Solo allora mi risuonano in mente le parole di bell hooks nel suo meraviglioso trattato sull’amore e sulla possibilità che esso ci offre per essere catalizzatori del cambiamento.

Nella pratica dell’amore, dice hooks, impariamo a resistere, a prosperare e a guidare in qualsiasi circostanza, e amando cresciamo spiritualmente imparando a immaginarci come parte di un unico organismo con un unico cuore pulsante. Mentre la paura paralizza, l’amore autentico e gentile ci attiva.

Abbracciare un’etica amorosa significa vivere la propria vita prendendosi la responsabilità di qualunque atto, parola e pensiero che formuliamo, senza mai dimenticare l’essenziale interconnessione delle nostre esistenze.Solo comprendendo appieno il significato dell’amore si può davvero metterlo in atto. Esso non include solo l’amore romantico ed erotico, ma anche quello amicale e familiare, così come le spinte amorose ed empatiche che possiamo provare verso uno sconosciuto o qualcuno che appena conosciamo. L’amore in questo senso rappresenta un impegno, un compito, un’abilità da acquisire che richiede determinazione, dedizione e talvolta fatica; tuttavia, esso è l’unica forza politica a cui ancora possiamo affidarci per sperare di salvarci di fronte alle minacce di distruzione e dissoluzione che si prospettano davanti, perché l’amore, e solo l’amore, è ancora in grado di orientare le decisioni collettive sulla base della cura e della creazione attraverso l’incontro con gli altri.

Gli amanti della piazzetta ancora non lo sanno, ma il loro amore che profuma di imprudenza ora si è acceso dei colori della speranza.

Finalmente sorrido.

ARTICOLO n. 54 / 2023

ALLA RICERCA DEL PIACERE PERDUTO

Sesso, godimento, desiderio

Alcuni anni fa, in un periodo in cui ero ancora una balda e giovane studentessa universitaria, mi capitò di vedere un documentario spagnolo su sessualità ed eros in Giappone. Il documentario, che si intitolava L’Impero dei Senzasesso, raccontava come la terra nipponica detenesse già ai tempi (il 2013) il record mondiale di astinenza sessuale, con oltre il 40% della popolazione tra i 18 e i 35 anni che si dichiarava vergine e non interessato/a ad avere un incontro sessuale o una relazione. 

La cosa più curiosa, però, è che il Giappone era (ed è) al contempo il paese con un’industria sessuale altamente redditizia, posizionandosi tra i primi paesi al mondo esportatori di pornografia, bambole gonfiabili e addirittura androidi studiati ad hoc per soddisfare i piaceri sessuali degli astinenti. Infatti, mentre gli incontri sessuali di coppia continuano la loro inesorabile decrescita, lo stesso non si può dire dell’autoerotismo e del consumo di pornografia di ogni tipo. Gli onakura, ovvero negozi dedicati alla masturbazione (principalmente maschile) ed equipaggiati di cassette pornografiche, sex toys e addirittura dipendenti pagate per guardare,proliferano nelle città giapponesi ormai da anni. Sono ambienti scuri, isolati e solitari che i frequentatori apprezzano molto poiché, dicono, trovano l’idea di un rapporto sessuale o romantico estenuante e preferiscono appagare il proprio desiderio in solitaria senza bisogno di interfacciarsi con un essere umano. 

Se ai tempi in cui consumai quel documentario il Giappone mi sembrava un mondo distante, distopico e ai limiti dell’assurdo, negli ultimi anni mi è capitato di ripensare spesso alle storie degli hikikomori (“i reclusi”), dei parasaito shinguru (“i single parassiti”, ovvero persone che vivono con i genitori oltre i vent’anni) e, in generale, alla sekkusu shinai shokogun (“sindrome del celibato”) giapponese, cominciando a scorgere i sintomi di queste tendenze anche nelle società occidentali, sebbene naturalmente con alcune alterazioni. Ciò che mi risulta particolarmente intrigante è la trasversalità di un’astinenza sessuale che sembra trovare il suo nucleo non tanto in un completo abbandono del piacere, quanto più in una forte crisi delle relazioni umane.

In effetti, di recessione sessuale si parla sempre più spesso anche da noi, e se ne parla soprattutto nei termini per cui essa pare affliggere specialmente le generazioni più giovani. Già da prima della crisi sanitaria del Covid-19, nel 2018, la rivista Atlantic battezzava questo fenomeno pubblicando un articolo dal titolo Perché le persone giovani fanno così poco sesso?, il quale riportava alcuni dati rilevanti sulla vita sessuale della cosiddetta Gen Z e dei Millennial che, secondo numerose ricerche condotte in diversi paesi occidentali e orientali, stava subendo un notevole calo sia nella quantità che nella qualità. Anche in Italia il fenomeno è stato indagato soprattutto dopo la pandemia e, nel 2020, uno studio dell’Università di Firenze e di Catania ha mostrato come oltre la metà dei giovani si dichiarasse non appagato sessualmente. 

Ma da dove arriva il rifiuto del sesso in una società ormai sempre più pornificata in cui la rappresentazione sessuale è diventata parte integrante della nostra cultura e quotidianità? A questa domanda e a tutte le sue contraddizioni è dedicato l’ultimo saggio di Stella Pulpo, intitolato C’era una volta il sesso: Divagazioni ombelicali per ritrovare il piacere perduto in uscita in questi giorni con Feltrinelli Urra. Nel volume, l’autrice – già nota al pubblico femminile millennial per il suo storico blog “Memorie di una Vagina” – indaga con ironia e rigorosità il fenomeno del calo del desiderio sessuale e, di conseguenza, del nostro piacere. Mettendo a nudo il suo trascorso personale prima come donna, poi come femminista e infine come madre, Pulpo fa dialogare una moltitudine di fenomeni che costellano il mondo della sessualità sollevando una serie di riflessioni importanti sul legame tra la recessione sessuale e un’angoscia esistenziale sempre più pervasiva. Attraverso un’analisi leggera ma mai superficiale, l’autrice raccoglie diverse ricerche e punti di vista che la portano alla conclusione che le cause della recessione sessuale vadano ricercate nel sistema capitalista (basato sui concetti di competizione e individualismo) e l’incertezza del futuro (nero, precario e imprevedibile), i quali sviluppano delle conseguenze mortali sulla nostra libido e sul nostro piacere. Del resto, già nel 1955 il sociologo Herbert Marcuse scriveva nel suo Eros e civiltà che una società votata al lavoro, schiava dei ritmi capitalisti e vittima della repressione erotica sarebbe stata destinata all’infelicità e al disagio psicosociale. Che una società stressata, arrabbiata e impaurita faccia fatica a ricavarsi del tempo per pensare al piacere non è una novità (tanto che l’etnografa Kristen Ghodsee addirittura sostenne attraverso uno studio antropologico del 1990 che i sistemi socialisti e improntati alla collettività migliorassero l’appagamento sessuale e la qualità dell’intimità). 

E in effetti, chi riesce a dirsi oggi davvero immune a stati mentali deleteri per la salute come l’ansia, la depressione, lo stress, il senso di solitudine e di abbandono e la stanchezza? In questi ultimi anni, duri e tesi, abbiamo normalizzato così tanto il malessere psicologico che sembriamo esserci ormai arresi a un’esistenza in cui il piacere, in tutte le sue forme, viene relegata all’ultimo posto nella lista delle nostre priorità. Il tempo e lo spazio dedicati all’intimità non solo si sono assottigliati, ma hanno preso sempre più la forma dello smarrimento, della mancanza di interesse vero l’Altro, del mito della performance e soprattutto della criminalizzazione del piacere come attività non produttiva. In altre parole, le strutture sociali hanno contribuito a modellare e orientare il nostro desiderio fino a ridurlo ai suoi minimi storici, mantenendolo vivo unicamente all’interno di quelle attività che vengono ritenute proficue per il sostenimento dello status quo.

È questo il caso, ad esempio, della fertilità, del lavoro domestico e riproduttivo, e del desiderio maschile, concetti ancora profondamente radicati ai dogmi patriarcali e alla divisione dei ruoli sociali secondo regole binarie. Come bene spiega l’approccio femminista marxista, in Italia rappresentata dai preziosi contributi di Silvia Federici, non è infatti possibile analizzare le contraddizioni del sistema capitalista senza coglierne l’intersezione con il sistema patriarcale, poiché il capitalismo non solo è compatibile con lo sfruttamento e la produzione di gerarchie, ma ne è anche il principale produttore e fruitore. Proprio per questa ragione la disuguaglianza di genere, e tutti i costrutti culturali che essa si porta con sé, diventano una preziosa fonte di sussistenza per il sistema dominante. E anche per questo il piacere può esistere solo in una formula mercificata, commerciale e sempre più relegata all’ambito individuale. 

In questo senso, anche Stella Pulpo ragiona su come gli stereotipi di genere, i tabù e in generale la “maleducazione sessuale” siano complici di un sistema che finisce per sopprimere il piacere e il desiderio a favore di un’insoddisfazione vitale. Ed è qui che temi caldissimi come il consenso, la comunicazione, l’educazione al piacere, il poliamore e la fluidità relazionale emergono sottoforma di argomenti di cui non possiamo più ignorare l’esistenza, pena fustigarci con vite preimpostate e prescelte per noi, fatte di regole che non funzionano più e che limitano il raggiungimento del nostro piacere. Il calo del desiderio sessuale ed erotico, allora, simbolizza più il guasto di un sistema economico, politico e sociale di matrice capitalista-patriarcale che ci inibisce, ci intristisce, ci affatica e ci dissolve. In un mondo ormai pervaso di coach motivazionali, mindfulness e manuali che suggeriscono di pianificare i nostri momenti di piacere come se fossero appuntamenti di lavoro, Pulpo suggerisce l’adozione di una “resistenza erotica” che sfidi il sistema e, parafrasando Elisa Cuter, ci aiuti a ripartire dal desiderio. 

Non è molto lontana la sua posizione da quella di adrienne maree brown, che nel suo libro Pleasure Activism: La politica dello stare bene, pubblicato nell’estate dello scorso anno, immagina una militanza e una resistenza che mettano al centro proprio il concetto del piacere, inteso in senso ampio come rivendicazione della felicità, della soddisfazione, dell’umorismo, delle arti, e ovviamente anche del sesso. L’attivismo del piacere, secondo maree brown, attinge alla felicità e allo stare bene come una nuova forma di produzione di giustizia, liberazione e guarigione, mantenendo lo sradicamento dell’oppressione come l’obiettivo finale a cui ogni lotta dovrebbe aspirare. «Quando sono felice, ne beneficia il mondo», scrive l’autrice, ricordandoci che anche lo spazio e il tempo per il piacere fine a se stesso sono un diritto, e che, in assenza del godimento e della gioia necessari per scegliere di vivere a pieno la nostra vita, forse nemmeno le disuguaglianze, le ingiustizie e i sistemi oppressivi possono venire davvero sconfitti e radicalmente sovvertiti. 

Ci troviamo in un punto morto della storia in cui l’individualismo e l’egoismo che caratterizzano le società capitaliste del nuovo millennio stanno creando fratture difficilmente sanabili. Forse, però, se ricominciassimo a mettere a fuoco le nostre vite attraverso la lente del desiderio con una maggiore consapevolezza di noi stessi e dei nostri bisogni, si potrebbero finalmente creare nuovi spazi di riflessione politica e nuove utopie a cui aspirare.

Anche perché, se i nostri corpi nascono ed esistono per poter provare piacere, non è alquanto contro natura vivere in un sistema che punta a eliminare ogni fonte di benessere? O è forse preferibile un mondo fatto di onakura in cui rinchiuderci in solitaria per evadere dai dolori del mondo? Io, personalmente, preferisco credere nella resistenza erotica. La lotta per la liberazione del piacere non è più rimandabile.

ARTICOLO n. 78 / 2022

LA RABBIA E LA RASSEGNAZIONE

Il corpo di Giorgia Meloni nella transizione postmaterialista

Sono passati solo pochi giorni dalle elezioni che il 25 settembre hanno segnato la vittoria di Fratelli d’Italia, il partito guidato da quella che in questione di ore diventerà a tutti gli effetti la prima donna Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Inizia una nuova storia per l’Italia, dicono alcuni, ora tutto cambierà. Ma questa profezia suona piuttosto ingannevole a mio parere, specie guardando agli ultimi decenni del nostro zoppicante cammino politico. «Tutto deve cambiare affinché tutto resti come prima», recitava Tancredi nel Gattopardo di fronte allo sbarco in Sicilia di Garibaldi e i suoi mille e adesso, nei giorni che precedono la formazione del nuovo governo, questa frase mi rimbomba in testa come un mantra. Tomasi di Lampedusa ci aveva visto lungo quando parlava di come gli italiani affrontano la rottura tra il vecchio e il nuovo mondo, oscillando tra una classe in declino e una nuova classe determinata a mantenere vecchi privilegi, vecchie abitudini, vecchie tradizioni. Perché Meloni non segna necessariamente l’inizio del nuovo, anzi: Meloni rappresenta quel cambiamento esteriore e di sola apparenza che consente di lasciare intatto un sistema che lentamente, ma inesorabilmente, continua a putrefarsi dalla radice fino alla punta.

Anche se tre giorni dopo le elezioni migliaia di persone hanno rabbiosamente riempito le piazze in reazione ai proclami antifemministi dell’estrema destra al grido di «il corpo è mio, decido io», la mia percezione – specie come italiana all’estero – è che il sentimento più condiviso tra chi Meloni non l’ha votata non siano tanto la rabbia o la paura, ma piuttosto un’amara, incurabile, e a tratti riconfortante, rassegnazione. Nei giorni successivi alle elezioni le chiamate con amici e conoscenti si sono svolte tutte più o meno nello stesso modo: «Come va?» «Tutto bene, dai… a parte le elezioni». «Eh già. Chissà ora che faremo.» «Eh già. Vabbè, dai, parliamo d’altro».

Ad agosto scrivevo di un senso di crisi e di impotenza che attraversa le generazioni più giovani, rendendole sempre più apatiche, indifferenti, disinteressate. È assai banale asserire che la politica sia ormai troppo lontana dai cittadini, ma gli italiani pare si siano definitivamente arresi a questa verità, l’abbiano accettata e fatta loro, stando a guardare con un rassegnato realismo ciò che gli accade intorno, spesso forse senza nemmeno sforzarsi di capirlo. La politica non sa più raccontare il mondo in cui viviamo, figuriamoci rappresentarlo. E in effetti, guardando ai voti assoluti delle elezioni, ciò che salta all’occhio prima ancora della vittoria di Fratelli d’Italia è quel gigantesco buco astensionistico composto da oltre 16 milioni di elettori. 

Molte penne hanno giustificato questa tendenza come un fenomeno condiviso a larga scala dalle democrazie occidentali, sorvolando con eccessiva leggerezza su quanto esso sia invece un’espressione evidente della crisi sociopolitica che stiamo vivendo. La crisi postmoderna ha ormai raggiunto il suo apice: le identità di classe si sono tramutate in identità sociali e il rapporto tra classe e voto si è indebolito così tanto da diventare ormai quasi irrilevante. Fa riflettere infatti che, mentre le braci di ciò che rimane del PD segnano il loro minimo storico, il partito di Meloni sia stato specialmente capace di attrarre e conquistare anche il voto popolare contro quello che invece viene oggi considerato il voto borghese di sinistra. Certamente una buona percentuale di votanti di FdI proviene dai delusi degli altri partiti del centrodestra e del M5S, ma è ugualmente importante notare come, dopo anni di slogan sul fatto che tra destra e sinistra siano uguali, alla fine molte pance appartenenti alle classi medio-basse si siano convinte a optare per l’estrema destra perché più capace di mettere al centro il lavoro e la crisi economica, mentre la sinistra ha visto diluire i suoi voti in uno spaventoso astensionismo. Di quella sinistra che un tempo si occupava di disuguaglianze, di reddito e di diritti dei lavoratori oggi non resta che un ricordo offuscato da partiti che al massimo intavolano qualche timida discussione sui diritti civili, mentre il 90% della popolazione sta venendo letteralmente soffocata dalla crisi economica. Siamo, insomma, nel pieno di quella transizione postmaterialista che, secondo Nancy Fraser, baratta i diritti civili con i diritti economici, e così l’estrema destra è riuscita nella sua missione di convincere la classe media che la soluzione ai problemi causati dalla disuguaglianza vada ricercata nell’eliminazione dei poveri e non degli straricchi. Ma francamente, dopo quattro anni di governi multicolori, una pandemia e un’inflazione alle stelle, non sorprende affatto che in molti abbiano espresso la propria rabbia e la propria paura votando una leader che in qualche modo restituisce sicurezza. 

In Italia il contenuto ha lasciato spazio alla forma molto tempo fa. Chi parla di disuguaglianza e di povertà viene tacciato d’invidioso, perché noi italiani un po’ siamo così: amiamo i ricchi e disprezziamo chi sta peggio di noi, perché nella paura di scivolare sempre più in basso ci afferriamo alla speranza di poter un giorno riuscire nella scalata sociale. Il postfascismo che verrà, insomma, non è che una maschera costruita ad hoc per poter conservare nostalgicamente questa tradizione. Come scrive Alessandro Gandini, la nostalgia è un sentimento reazionario che nella nostra epoca offre un rassicurante rifugio di fronte alle contraddizioni del presente e alla nostra incapacità di immaginare uno spazio-tempo tutto nuovo. Cambiare la tradizione, invece, fa paura perché ci costringe a dover immaginare nuovi modelli sociali e produttivi basati su premesse completamente diverse come una sorta di salto nel vuoto.

Chi inneggia al cambiamento alludendo al fatto che Meloni sia una donna o è uno stolto o è un incosciente. Perché nella società in cui viviamo, le donne vincono solo quando mantengono intatto quel modello sociale basato sul mito della forza, della rabbia e del dominio. Meloni è un’esponente perfetta della triangolazione tra capitalismo, patriarcato e colonialismo, è una nuova pedina del puzzle che funge a perpetuare la tradizione e consentire a chi ha già tutto di non perdere nemmeno un pezzetto del proprio privilegio. Non a caso, infatti, durante la campagna elettorale abbiamo visto riemergere con forza la celebrazione del lavoro domestico femminile e della figura della madre come pilastro della famiglia tradizionale. 

Rimpiazzare le figure maschili con donne che hanno più o meno gli stessi identici privilegi non è affatto l’obiettivo delle lotte femministe socialiste. Il femminismo intersezionale ci racconta anzi come, al centro dei sistemi di sfruttamento e di oppressione, le questioni di classe si intersecano profondamente con il genere e con la razza. È da queste premesse che dovremmo allora attingere per immaginare nuovi futuri. Perché la rivoluzione delle coscienze, parafrasando bell hooks, passa in primo luogo attraverso la volontà di cambiare resistendo alla rassegnazione che ci pervade. Se desideriamo vivere in una società che, invece di sfruttare e opprimere i deboli, sia in grado di rimettere al centro del proprio funzionamento concetti finora considerati prettamente femminili, come la cura, l’affetto, la comunicazione e l’impegno, è necessario guardare oltre il nostro orticello capendo che la cura di sé passa prima di tutto dalla preoccupazione per gli altri. Ed è solo accettando la nostra profonda essenza politica che sarà possibile costruire una società che metta al centro il benessere dei propri cittadini.

Le sfide che abbiamo davanti sono molte. Per affrontarle sarà in primo luogo necessario chiedersi come contrastare le gerarchie seminate nel tempo da razzismo e patriarcato, che il sistema capitalista ha saputo sfruttare per dividere e distrarre le classi medio-basse portandole sempre più verso una lotta intestina contro se stessa invece che contro le classi più privilegiate. Rifuggire la politica dell’identità, capace solo di creare slogan cannibalizzabili da brand e aziende, è una necessità non più rimandabile. Il cambiamento deve venire da dentro, dalla ricerca di quel minimo comune denominatore tra gli oppressi che torni a sfociare nella ricerca e sperimentazione dell’organizzazione collettiva.Forse allora, affinché tutto cambi, è giusto che intanto tutto rimanga com’è. Ed è chissà questo il cuore di ogni reale rivoluzione: far accadere il cambiamento dall’interno affinché, una volta passata la sbornia di slogan e proclami, l’immaginazione di una società più giusta possa occupare le parti interiori della nostra anima fino a farci riesplodere la rabbia. Tuttavia, la rabbia che dobbiamo imparare a coltivare non ha nulla a che fare con l’effimera indignazione da social media di cui ci siamo intossicati negli ultimi anni. Si tratta piuttosto di una rabbia radicale e capace di ideare cambi a lungo termine, contrariamente al modus operandi nostra classe politica e dei programmi elettorali che ci vengono propinati come soluzioni al nostro malessere. Non possiamo più procrastinare calciando la palla in avanti e aspettando che i nostri diritti vengano erosi una goccia alla volta: è tempo di abbandonare la rassegnazione e riprendere le redini del nostro futuro, se ancora speriamo di poterne costruire uno.

ARTICOLO n. 63 / 2022

HO SOLO TRENT’ANNI, MA MI SENTO GIÀ ESAUSTA

Dove sarò questa estate?

Appollaiata su una seggiola della mia terrazza, respiro la brezza marina serale che avvolge Barcellona. In città fa caldo, sempre più caldo, ma alla sera si trova un po’ di sollievo nell’aria frizzante che arriva dal mare. Due gabbiani volteggiano sopra alla mia testa gracchiando e mi sembra quasi di sentirli ridere tra loro. È di nuovo estate e me ne accorgo quasi per sbaglio. 

Una pesante stanchezza mi annebbia mente e corpo mentre cerco a tutti i costi di rallegrarmi per l’arrivo della bella stagione e l’imminente pausa estiva. Dove sarò quest’estate? Come userò il prezioso tempo a mia disposizione? Che ho fatto finora e dove sono andati a finire gli ultimi mesi, gli ultimi anni? Per un attimo mi sembra di aver vissuto per un lunghissimo tempo come in apnea, incapace di prendere respiro in una forsennata corsa dietro alle continue preoccupazioni. La guerra, il Covid, il precariato, i governi che cadono, l’aumento dei prezzi, e ancora il caldo, le maree che si alzano, la nostra terra che brucia. In questo assoluto marasma il tempo a disposizione io non so più che cosa sia perché ormai sfugge via troppo rapido per ricordarsi di goderne.

A chi mi chiede che cosa farò quest’estate, rispondo: riposerò.

Ho solo trent’anni, ma mi sento già esausta. 

Avere trent’anni non è facile se si ha avuto la sfortuna di nascere quando è capitato a me, perché alla mia generazione, quella nata dopo il 1990, è stato chiaro quasi sempre che i sogni che avevamo non avrebbero mai trovato suolo fertile nella realtà che viviamo. Noi con le crisi ci abbiamo dovuto fare i conti da subito, giacché fin da che ne ho ricordo, “crisi” è stata la parola più utilizzata per descrivere il periodo storico che ci è toccato vivere: la crisi economica, la crisi della politica, la crisi climatica, la crisi dei valori. Così, a poco a poco, da uno stato di perenne crisi esterna abbiamo cominciato a scivolare verso una profonda crisi interiore, rifiutando da una parte di accettare davvero che la nostra vita sia finita ancora prima di iniziare, ma dall’altra privati della possibilità di fermarci per riflettere, respirare, guarirci. I ritmi forsennati della società ci impongono di lavorare senza sosta, programmare ogni minuto della nostra vita per non perderci nulla, sapere sempre esattamente dove stiamo andando e perché. In bilico tra speranza e rassegnazione, inseguendo l’utopia della realizzazione personale in un mondo che si è rotto, viviamo la vita sopravvivendo e spesso scordandoci della sua fuggitiva bellezza. 

Per far riecheggiare la forza della vita che si afferma ci serve allora l’arrivo dell’estate, che con il suo sonno e il suo tepore ci ricorda l’importanza di fermarci a osservare la crisi che sentiamo. 

Nonostante tutto, forse un po’ ingenuamente, io vedo infatti l’estate come una speranza dell’inizio del nuovo. Mi ricorda che sono viva, che esisto, che tutto ha senso se solo lo si cerca. L’estate per me è un dondolio del tempo in cui farci promesse e sperare che durino fino all’autunno. Così, quando arriva il caldo, mi obbligo con tutte le mie forze a uscire dall’apnea della quotidianità per ritornare a galla a prendere fiato. Per l’essere umano, si sa, respirare è un’esigenza fisiologica: in mancanza d’ossigeno, si muore. Questo respiro vitale che prendo d’estate funziona in me come una catarsi: è un tempo sospeso e rarefatto in cui trovo finalmente il coraggio di perdermi e purificarmi da tutta la fatica. Quando ero piccola amavo l’estate perché nella mia testa durava praticamente come il resto dell’anno. Era un’intera eternità in cui potevo sempre ridere e mi era concesso fare tutto ciò che più mi piaceva: andare al luna park, prendere lo zucchero filato, fare a gavettoni, leggere i libri di Roald Dahl uno dopo l’altro, fare nuove amicizie. 

Oggi invece è tutto un po’ più complicato. Viviamo in un mondo velocissimo in cui disconnettersi significa al massimo spegnere il computer, mettere il culo in macchina, su un treno o un aereo e andare a fotografare qualche posto nuovo convincendoci, mentre lo postiamo sui social, che “stiamo staccando” senza riuscire mai a farlo veramente. Così, a causa delle aspettative irrealistiche e dei ritmi disumani che ci vengono imposti, abbiamo perso gli strumenti per lenire il nostro dolore derivante dalla crisi. Ci vestiamo sempre e solo dello sguardo degli altri, mendicando attenzione e approvazione esterna, non sapendoci più guardare con i nostri occhi e incapaci di dare amore anche a noi stessi. Stanchi e nervosi come ci sentiamo, disconnettersi dalla pesantezza del mondo diventa vitale. 

Divertirsi il più possibile è l’imperativo dei giorni nostri a cui rispondiamo per lo più ammazzandoci di alcol e di droghe e bandendo quasi sempre la politica dai nostri discorsi, perché se qualcosa ci fa soffrire noi lo allontaniamo. Odiamo annoiarci. L’ozio e la noia sono i maggiori nemici da combattere. Ci terrorizza l’idea di non riempire ogni minuscolo frammento del nostro ipotetico tempo libero con qualche attività che ci diverta e ci ossessioniamo con la necessità costante di sentirci in movimento per non dover fare i conti con quell’horror vacui che diventa il nostro compagno di vita. Quando ero isolata da tutto e da tutti all’inizio del primo lockdown, ubriaca di pensieri e della vista che mi offriva il mio vecchio balcone sul Mercado de Santa Caterina, passavo le mie giornate ad immaginare ciò che avrei fatto una volta che sarei stata di nuovo libera. Giuravo ogni giorno a me stessa che, appena possibile, me ne sarei andata lontano per ritrovare quel tempo che mi sembrava perso. Non mi accorgevo ancora che, grazie a quel tempo sospeso, mi stavo scavando dentro.  

Qui nessuno ci ha mai spiegato che l’inizio del movimento inizia dalla frattura, dalla crisi, dal dolore e dalla noia. Nessuno ci ha insegnato come gestire ciò che ci accade ad esempio durante la pausa estiva, quando tutto sembra finalmente fermarsi e a noi non resta altro da fare che riflettere sulla condizione umana. Una volta ho letto da qualche parte che agosto è il mese in cui le persone divorziano di più. In sostanza, la gente passa l’anno a pianificare le vacanze e una volta ritrovatasi nella convivenza forzata e nella sospensione del tempo, implode. Probabilmente questo accade perché, da fermi, veniamo obbligati a fare i conti con noi stessi, a guardarci in faccia, a chiederci come stiamo, cosa che evitiamo meticolosamente di fare durante il resto dell’anno come a volerci proteggere dal peso dei nostri dubbi. Il problema è che, in assenza di un dialogo interno, diventa quasi impossibile crescere ed evolvere nel dolore del mondo, e per questo la noia e l’assenza di attività ricreative o produttive diventano ingredienti essenziali per stimolare i nostri processi di pensiero. 

Sconfiggere un dolore profondo senza saperlo comprendere e chiamare per nome è pressoché impossibile. Anche per questo, forse, Walter Benjamin diceva che la noia è l’apogeo del rilassamento mentale in cui si allena la mente a far entrare ogni tipo di pensiero intrusivo, apparentemente inutile e a volte distruttivo. Bertrand Russell, dal canto suo, in un saggio intitolato La conquista della felicità, scriveva invece nel 1930 che«una generazione che non riesce a tollerare la noia è una generazione di uomini piccoli, nei quali ogni impulso vitale appassisce»perché solo attraverso la noia diventiamo capaci di osservare ciò che ci accade attorno e ciò che in esso diventiamo. Se mi guardo intorno, la sensazione che ho è proprio che la mia generazione stia appassendo perché non si sa più annoiare e, di conseguenza, forse non sa più pensare. 

In un mondo che ripudia noia e dolore, l’ozio che da vita al pensiero diventa allora una forma di ribellione. 

Alla fine, quest’estate me ne andrò in Malesia e mi perderò nella selva, nei templi buddhisti e nel mare. Si tratterà di vero e proprio viaggio, e non di semplice turismo, in cui passo dopo passo mi porterò verso l’incognito del mio Io interiore per ritrovare quella spinosa sensazione di perdita e di solitudine. Il viaggio, con la sua partenza e il suo ritorno, voglio che sia la mia disconnessione capace di attivare i miei processi di pensiero ormai da tempo assopiti. Respirando dal polmone dell’Asia, cercherò di annoiarmi moltissimo ascoltando il canto delle cicale e guardando lucciole e stelle cadenti per far vagare la mente. Sperando di perdermi e poi mi ritrovarmi ovunque io sia, proverò a spogliarmi dei dolori più profondi osservandoli, fermandoli, capendoli. Lontana, sì, ma forse un po’ più vicina a me stessa, respirando con il coraggio di chi non si è ancora arreso e spera che il suo sognare possa durare almeno fino all’arrivo del prossimo freddo.