Giulio Iacchetti

ARTICOLO n. 2 / 2023

COSA FARÒ DA GRANDE

L'anno che verrà

Fin da bambino, sentirsi chiedere che cosa avrei voluto fare da grande era un mantra che esaltava la mia dote di indecisionista cronico. In mio soccorso arrivavano gli incarti delle gomme da masticare (per tutti noi si trattava delle “cicche”, la parola chewing gum a Castelleone, nel 1971, era al di là dal venire). In quelle cartine uscivano dei pronostici del nostro futuro, ne ricordo alcune: “da grande farò l’astronauta” (disegno dell’astronauta) oppure: “farò lo scienziato” (disegno dello scienziato con camice e occhiali), la più ambita tra i miei amici: “farò il calciatore”. Di tutti e tre i pronostici, il più credibile per il sottoscritto era l’astronauta. Poter partire per la luna era più plausibile che giocare una partita di pallone e questa cosa la dice lunga sulla mia empatia con qualsiasi gioco di squadra, d’altro canto lo scienziato evocava anni di studi e di formazione, quindi anche no.

Sentirsi chiedere che cosa avrei voluto fare da grande valse sino alla soglia delle scuole medie, da lì in poi si cominciò ad accantonare la fantasia per iniziare a fare sul serio, ovvero a inquadrarsi socialmente.

Di fatto la scuola superiore ti indirizzava inesorabilmente verso una professione. I pragmatici istituiti tecnici avevano dei nomi che comodamente si traducevano in lavori: perito meccanico, geometra, ragioniere, e via così; quelli tra noi che potevano permettersi di fare i sognatori andavano ai licei.

In una di queste scuole tecniche, un professore, all’approssimarsi della fine dell’anno, ci chiedeva di formulare dei propositi per l’anno nuovo. Ricordo la mia desolazione nel saper allineare solo qualche povero pensiero relativo al miglioramento scolastico. Nessuna tensione ideale verso il futuro, solo la speranza di cavarmela senza esami di riparazione in modo da mantenere intatto il patrimonio dei giorni delle vacanze estive.

In realtà non facevo altro che rimandare l’appuntamento con le scelte definitive, mi sembrava di camminare su un trampolino da tuffi olimpici, passo dopo passo l’assicella prima o poi sarebbe terminata, vivevo quel tempo di sospensione come un condannato all’indecisione. E quel trampolino si prolungò sino nei paraggi della facoltà di Architettura, che scelsi solo in virtù di una incerta propensione per il disegno tecnico. A una debolissima vocazione verso l’architettura arrivò perentoria e provvidenziale la cartolina precetto che mi spinse giù nel baratro, non di una piscina, ma di un’enorme caserma operativa in quel di Bellinzago Novarese, e per dodici mesi qualcuno avrebbe deciso per me cosa avrei dovuto fare, come vestirmi, cosa mangiare, financo cosa pensare. 

Ricordo ancora lo smarrimento di ritrovarmi, dopo 52 settimane, fuori dalla porta carraia e in abiti civili, una bella giornata di sole con un borsone pieno di indumenti da lavare e un foglio di congedo che si traduceva in una parola con cui non avrei voluto avere a che fare, ovvero: libertà.

Ma alla fine ci si abitua a tutto, anche ad accettare che tra te e la tua vita non ci sia più nessun ostacolo, così dopo aver assecondato il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Difesa, ora mi toccava in sorte il Mistero dell’affrontare scelte mai fatte.

In realtà non successe niente di epico tra me e il mio futuro, nessuna scelta radicale, niente partenze per l’India per cercare se stessi: si comincia ad aiutare un cugino architetto, a frequentare oscuri corsi serali di disegno industriale, a limitarsi a tastare il terreno attorno per verificare cosa può sedare per un momento l’insoddisfazione per ciò che non si è, per ciò che non si ha. In questi casi si dovrebbe parlare di sopravvivenza, ma, se torno a quei giorni, più che “sopra(v)vivere” mi sembrava di vivere al di sotto di tutto. Ma si sa, il tempo è un medicinale che non richiede prescrizione medica, e così l’idea del futuro, e che cosa fare “dopo”, si assopiva lentamente tra impegni quotidiani, scelte subite (tante) e scelte in proprio (poche).

E poi, è tra le pieghe del tempo “minore”, ovvero del tempo non segnato da eventi epocali, che la vita prende sapore e una direzione. Il “che cosa farò?” diventa un “fare quotidiano” senza troppe sovrastrutture, e così ci si accorge che ciò che da sempre era un’innocente evasione (disegnare oggetti e in molti casi realizzarli) poteva diventare un lavoro in grado di dare un senso a tutto il casino combinato prima. E così è stato.

Ma che fine ha fatto l’insoddisfazione che mi ha sempre perseguitato? A dire il vero è sempre qui con me, si dice che se non si riesce a uscire dal tunnel convenga arredarlo. Nel caso della mia insoddisfazione cronica, non potendo guarirla l’ho accettata. In qualche modo, non essere mai pienamente soddisfatti di ciò che si è e si fa è uno stimolo per migliorarsi (mettiamola così).

Nonostante questo apparente stato zen che mi auto-attribuisco, quando comincia a profilarsi la fine dell’anno, l’idea di dare una sterzata alla vita, iniziare l’ennesima dieta, provare a programmare scelte (vegetarianismo, finire tutta la Settimana Enigmistica, affrontare LRecherche, riordinare l’archivio e così via…) sono scampoli di decisioni che potrebbero concedere l’illusione che si è ancora padroni di mischiare le carte della propria vita. Ma poi, tra armadi da sistemare, l’aprire e il richiudere in fretta uno dei tanti libri di Proust, si affaccia una domanda a cui non so rispondere, ovvero: da quando ho barattato il mio futuro e le scelte radicali con questi piccoli e asfittici propositi?E soprattutto: Perché nessuno mi chiede più che cosa farò da grande? Ma ancor di più: perché non comincio io una buona volta a chiedermi cosa fare da grande?!