Valentina Furlanetto

ARTICOLO n. 16 / 2024

IL FILO DELLA VITA DI ROSA E DI BASAGLIA

Cento anni di Franco Basaglia

Pubblichiamo un estratto da Cento giorni che non torno (Laterza) di Valentina Furlanetto. Ringraziamo l’editore e l’autrice per la disponibilità.

Cent’anni dopo la nascita di Basaglia, seduta alla scrivania, cerco di dipanare il groviglio di fili di queste vite parallele. Si intrecciano storie di guerra, povertà, sofferenza, storie di una crescita economica che pure ha lasciato indietro moltissimi individui fino a schiacciarli: e penso alla malattia mentale. 

Il filo della vita di Rosa e il filo della vita di Basaglia, ma anche di Lorenzo, che a più di quarant’anni dalla legge 180 è morto legato a un letto, e di tutti noi, che almeno una volta nella nostra vita abbiamo avuto una crisi d’ansia o un periodo difficile, almeno una volta ci siamo chiesti se siamo sani o se siamo malati e se davvero abbia un senso questa distinzione. Ci siamo domandati se le persone che ci circondano stanno bene e cosa dovremmo fare per aiutarle, se la malattia mentale è una cosa lontana e pericolosa o vicina e innocua, se ci appartiene, come funziona, come si cura, se le possiamo dare la colpa di tutto ogni volta che succede qualcosa di apparentemente inspiegabile, se possiamo chiuderla nel recinto e finalmente liberarcene, noi che il più delle volte ci pensiamo sani, razionali, che ci illudiamo che non ci riguardi. E invece.

Da bambina passavo molto tempo da sola. Avevo un fratello molto più piccolo con cui non potevo sperare di giocare dalla mia nonna paterna, Maria, non c’era nessun altro bambino. Trascorrevo pomeriggi assolati e infiniti con la nonna ad aspettare che i miei genitori tornassero a casa. Il tempo non passava mai, credo per entrambe. Lei ogni tanto sollevava la testa dal suo lavoro a maglia e mi sorrideva, spesso mi chiedeva se avevo fame, era sempre preoccupata che avessi mangiato abbastanza: anche se avevamo appena pranzato, anche se stavamo ancora mangiando chiedeva continuamente “hai fame?”. Io fame non ne avevo mai e questo le dava ancora più ansia, raddoppiava le sue raccomandazioni. In quei lunghi pomeriggi leggevo, disegnavo, facevo i balletti davanti al vetro del forno, guardavo assieme a lei la telenovela Andrea Celeste in tv, così straziante, così gonfia di retoricae così carica di sventure da far sembrare le nostre esistenze fortunate. Poi scappavo fuori e gironzolavo per il giardino.

Oppure accadeva che stessi sola con i miei pensieri nel cortile d’asfalto della scuola elementare. Ero così piccola rispetto alle altre bambine che non andavo bene per la maggior parte dei giochi, e allora per puro spirito di sopravvivenza, prima ancora di essere scartata, mi sottraevo e facevo immensi giri a vuoto nel cortile.

In tutte queste occasioni di solito i pensieri si ripetevano, si muovevano in cerchio, e ricordo che a un certo punto ho iniziato a sentire delle voci. Erano voci che sussurravano le stesse parole ossessivamente, a volte intere frasi, a volte parole singole. Mi ronzavano nell’orecchio, monotone e insistenti, come una cantilena. Poi si spegnevano e magari tornavano il giorno dopo o a distanza di qualche settimana. Anche sforzandomi, non ricordo cosa dicessero. Ma ricordo che erano voci benigne, che riconoscevo, che talvolta mi facevano compagnia, che sembravano un mantra, una nenia, qualcosa che mi cullava, che faceva da sfondo, che compiva un movimento sempre uguale che tornava sempre al punto di partenza. Anche se non erano minacciose, a un certo punto queste voci hanno iniziato a turbarmi, a essere invadenti e costanti, e soprattutto io ho iniziato a pensare che forse ero matta e che fosse qualcosa di cui preoccuparmi. Non avevo nessuna voglia di parlarne a mia madre, ero certa che lei, sempre così ansiosa, si sarebbe allarmata.

Ma se stavo diventando pazza? Alla fine gliene parlai. Mi chiese solo se queste voci mi inquietavano, se dicevano cose che mi spaventavano, se mi davano ordini, se erano aggressive. Le dissi di no, lei mi rassicurò, mi disse che a tanti bambini accade, che facevo bene a parlargliene, ma che non dovevo preoccuparmi. Ho continuato a sentire queste voci per qualche tempo, mi hanno fatto compagnia senza più allarmarmi, fino a che sono sparite e non sono più tornate.

Anche Lorenzo aveva sentito le voci da bambino? Erano voci buone o voci cattive? Si era spaventato? Anche lui era stato rassicurato che non si trattava di niente di grave oppure gli avevano detto che era “matto”, che era malato? E se anche era “matto”, perché lo avevano legato? Sì, in passato si faceva così, ma non erano pratiche ormai superate? La risposta alla follia, alla diversità, all’imponderabile è sempre stata chiudere, dividere, legare. Ma non avevamo fatto tanti passi avanti? E dove siamo esattamente oggi?

La questione del legare o meno i pazienti, come quella del rinchiuderli negli istituti o lasciarli liberi, ha radici antiche e, si sperava, superate. John Conolly, ad esempio, già tra il 1839 e il 1849 aveva messo in piedi un movimento per eliminare le misure di contenzione e le porte chiuse nel manicomio di Hanwell in Scozia. Per la sua epoca era un rivoluzionario.

Nella sua opera Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi (1856) Conolly scrive: »non solo è possibile dirigere un grosso manicomio senza applicare ai pazienti la coercizione fisica, ma dopo l’abolizione totale di tale metodo di controllo, le caratteristiche di un manicomio subiscono un graduale e benefico cambiamento».

Per lo psichiatra inglese, che Franco Basaglia citerà poi nei suoi scritti, «la sicurezza e il buon comportamento dei pazienti dipendono completamente dalla cura e vigilanza ininterrotta degli infermieri; e al sistema repressivo va sostituito ­­­un metodo di cura sostenuto dalla serena collaborazione di ogni singolo dipendente, così che tutti siano gentili, protettivi e, per così dire, familiari. Per l’attuazione di questo piano è quindi indispensabile che tutto il personale sia concorde».

Insomma, il coinvolgimento di infermieri e medici e il lavoro di équipe che poi Basaglia metterà in atto trovano in Conolly un antesignano importante.

Il medico inglese descrive anche i risultati positivi della sua esperienza: »Ci portano dei giovani impazziti da alcune settimane che, per lo spavento o l’ignoranza dei parenti, sono stati messi dentro dalla polizia, esposti a maltrattamenti e ingiurie, sono state loro imposte le manette e alla fine inviati in manicomio al colmo della esasperazione per tutto ciò che avevano subìto. Un esempio notevole di tale stato di cose fu una giovane diciottenne, la cui guarigione ebbe inizio il giorno del ricovero: pur essendo in preda a crisi maniacali e con tendenze suicide al momento dell’accettazione, lasciò l’istituto perfettamente guarita. Dopo due giorni che la fanciulla era nel reparto, sparirono i gesti incomposti e l’aspetto pazzoide; si fece notare per l’aspetto mite e la gentilezza, ma conservò un lucido ricordo di come era stata trattata prima di essere mandata da noi». Il medico inglese era il pioniere del cosiddetto “no restraint”, il sistema di trattamento dei malati mentali che esclude i mezzi di coercizione meccanica o li consente solo in casi estremi (se il paziente ha una tendenza a ferirsi o a ferire gli altri). Ma allora perché Lorenzo era stato legato?

Negli anni Quaranta Franco Basaglia, adolescente, giocava spesso a Campo San Polo a Venezia, ancora oggi un luogo dove i ragazzini si incontrano, giocano a palla, si scambiano chiacchiere, dispetti, scherzi. A pochi metri c’è la laguna, ma all’interno del campo quasi non se ne avverte la presenza: se non fosse per l’odore salmastro che sale quando fa caldo, ­­­si potrebbe essere ovunque. 

Franco Basaglia passava molte ore con i compagni di classe e gli amici a giocare sotto casa a Venezia, talvolta nei fine settimana con la famiglia si spostava sulla terraferma, con il padre visitava i mercatini di antiquariato, una sua passione. Erano gli anni del fascismo, ma in famiglia si parlava poco di politica, anche se da parte di madre ci sarà una medaglia d’oro, Giovanni Faccin, ufficiale di carriera che l’8 settembre preferì suicidarsi piuttosto che consegnarsi ai tedeschi.

Così, mentre l’Italia fascista si lanciava nella guerra con scriteriato entusiasmo, Franco Basaglia ragazzo giocava a Campo San Polo e camminava per le calli di Venezia con i libri sottobraccio per andare a lezione, e a una settantina di chilometri di distanza, in piena campagna veneta, Rosa, figlia di un falegname, cadeva a terra, investita da un’auto.

Fu un brutto incidente. Il conducente scappò. Non si scoprì mai il colpevole, probabilmente un gerarca fascista, chi altri poteva disporre di un’automobile in campagna a quei tempi? La cartella clinica riporta che «fu investita da una macchina con trauma cranico e frattura dell’osso frontale, di cui rimane evidente infossamento a sinistra». Rosa entrò in coma e venne trasportata in ospedale. 

Nessuno pensava che ce l’avrebbe fatta, tanto che non la operarono neppure alla gamba, dove aveva riportato una frattura, convinti com’erano che sarebbe comunque morta, né pensarono di operarla alla tempia, che presentava una ferita importante, perché allora non esistevano né la strumentazione né le competenze scientifiche per intervenire.

Per mesi Rosa rimase incosciente in ospedale. Le sorelle, i genitori, il fratello erano rassegnati al peggio, invece dopo qualche mese Rosa si risvegliò. Sopravvisse, ma da quel momento iniziarono i problemi. La commozione cerebrale da trauma le lasciò in eredità frequenti mal di testa, convulsioni e crisi epilettiche durante le quali perdeva conoscenza, il suo corpo si muoveva a scatti, senza alcun controllo; quando usciva dalle crisi, Rosa avvertiva un senso di confusione ed estraneità che per qualche tempo non la rendeva partecipe della vita quotidiana. Per queste crisi, per questi disturbi, venne più volte ricoverata in manicomio. Da qui ha inizio la sua storia di malata psichiatrica.

ARTICOLO n. 95 / 2022

LUCIANO BIANCIARDI RIBELLE E ANARCHICO OGGI A MILANO

Il giovane rider sfreccia in via Brera, sfiora i consulenti finanziari e le influencer in posa, li supera, prosegue sulla sua bicicletta, rapido e deciso. Dietro di sé lascia una scia di risentimento, che però si dilegua velocemente, evapora nell’aria satura di precarietà. Neppure la rabbia trova spazio per esplodere nella città che va di fretta. Eccolo Luciano Bianciardi a cento anni dalla sua nascita, il 14 dicembre 2022, camminare in questi vicoli dove adesso lo ricordano, lo celebrano, lo citano, gli dedicano premi. Dove ti giri c’è un convegno a lui dedicato, un omaggio, un libro ristampato. Eccolo Bianciardi che osserva questa irritante beatificazione postuma, alla quale, se potesse, probabilmente si sottrarrebbe. Proprio lui che era arrivato da Grosseto a Milano nel 1956 per distruggere tutto: il mondo borghese, i simboli del boom economico, il progresso che già allora lasciava indietro tanti, faceva esplodere contraddizioni e corrompeva la vita culturale. Voleva far esplodere tutto come il protagonista del suo libro più importante, La vita agra, pubblicato nel 1962, che arriva a Milano per far saltare in aria con una bomba il Torracchione, il grattacielo, per vendicare l’incidente provocato dalle carenze nella sicurezza in miniera che avevano provocato la morte di molti minatori. Il Torracchione rappresentava la ditta da cui dipendeva la miniera. La vita agra era ispirato a una storia vera, quella dei minatori di Ribolla, che Bianciardi aveva raccontato con Carlo Cassola nel libro I minatori della Maremma. Una tragedia che scava in lui una profonda rabbia e che gli fa elaborare un testo – La vita agra appunto – che anticipa tanti temi di oggi: lo sfruttamento del lavoro, il precariato, la condizione di coloro che restano indietro o vengono uccisi nella corsa al profitto, il consumo delle persone, dei diritti, del suolo.

Eccolo Bianciardi a Brera che si stringe nel cappotto e cammina nella nebbia in via Fiori Chiari e Fiori Scuri, verso l’Accademia dove studiavano i pittori suoi amici, verso la Pinacoteca, l’Orto Botanico, il Bar Jamaica, sempre al civico 32, dove negli anni Sessanta parlava con Jannacci e Ripa di Meana. Brera allora – c’è da non crederci – era un quartiere bohémien, a un passo dal centro città, ma frequentato da pittori e studenti. Non era quel salottino borghese di oggi, turistico, pittoresco ma finto, percorso da turisti asiatici e ricche signore. Brera era “indie”, così si direbbe ora. Era il luogo degli irregolari, il più affasciante dei quali forse era il pittore Furio Cavallini – grande amico di Bianciardi – che dipingeva, ma aveva anche fatto l’operaio, era squattrinato, dormiva in una officina, pasteggiava a cappuccini e aspettava che qualcuno lo invitasse a cena. Adesso Bianciardi quando entra al Bar Jamaica tutti lo guardano, ma è solo perché ordina una grappa, chi più ordina una grappa a Milano? Nel locale, “molto instagrammabile”, si fanno i selfie i turisti che bevono Moscow Mule o al massimo Negroni. Sull’account Instagram del bar c’è anche una foto del film tratto dal suo romanzo, con Elio Crovetto, Giovanna Ralli e Ugo Tognazzi. Ma tutt’attorno il quartiere è irriconoscibile. I locali si chiamano ancora “Pescheria” o “Trattoria”, ma di pescheria e trattoria non hanno nulla. Sono posti fintamente rustici, in realtà pretenziosi, molto cari e dove di solito si mangiano – piuttosto male – cose turistiche, a volte esotiche, a volte tipiche milanesi, come il Ramen o il Poke. In città i boschi sono verticali e bellissimi ma costano 15 mila euro al metro quadro e in periferia ti affittano un sottoscala spacciandotelo per un appartamento. Le piscine pubbliche vengono affidate dal comune a società estere private, che le ristrutturano e ne fanno posti bellissimi, ma le tariffe lievitano, i ragazzi dei quartieri di periferia e i giovani immigrati che non hanno i soldi per pagare restano seduti fuori, sui marciapiedi, con la sacca del nuoto ai piedi. Qualcuno si perde, qualcuno si salva da solo, ma è solo un caso, non è merito di nessuno. Bianciardi cammina perplesso e disorientato per questi vicoli, fra negozi delle catene di abbigliamento e raffinate boutique, guarda le insegne, che non riconosce più, schiva la folla che si muove, la città che lui non ama.

E poi eccolo che alza il viso e lo vede, il Torracchione. È ancora lì, svetta in mezzo ad altri grattacieli, ancora più alti, ancora più imponenti, che nel frattempo sono stati costruiti: City Life, Gioia 22, il “Curvo” di Libeskind. Ha vinto lui, il Torracchione, che nel romanzo rappresenta – sei anni prima del Sessantotto – tutto quello contro cui lottare per cambiare le cose, per sabotare quell’idea di progresso che era in realtà è appiattimento, anche culturale e intellettuale, per vendicare gli ultimi, quelli che il boom aveva lasciato indietro, aveva tradito, aveva ucciso. Ma poi – nel romanzo – il protagonista trova un lavoro e una fidanzata e un po’ alla volta si dimentica del perché era arrivato a Milano, subentra l’apatia. Il rivoluzionario disilluso e rassegnato, venuto da fuori per fare la rivoluzione, si accuccia al caldo ai piedi del Torracchione e invece di farlo esplodere inizia a servirlo, a essere parte del sistema, un ingranaggio come un altro. La Vita agra è un libro feroce, caustico, disilluso, che critica e attacca il sistema. Tuttavia, con grande sorpresa di tutti, anche dello stesso Bianciardi, il romanzo ha un enorme successo. Invece che arrabbiarsi, sentirsi offesa, invece di insultarlo, la borghesia milanese ne va pazza. Lo invita a incontri e feste, lo chiama per le interviste, lo vuole conoscere, lo corteggia. E lui si lascia corteggiare, intervistare, lusingare, ma con un forte senso di disagio e frustrazione, perché disprezza tutto di quegli ambienti e si chiede in cosa abbia dunque sbagliato. La cosa curiosa è che a un certo punto verità e finzione sembrano sovrapporsi e coincidere: lui aveva raccontato di un provinciale venuto in città per distruggere il simbolo del capitalismo che tutto corrode e poi viene assorbito dalla città e corrotto dal capitalismo senza neanche rendersene conto.

E Bianciardi teme di fare la stessa fine. Di questo meccanismo è consapevole e tuttavia ne è quasi affascinato. «Anziché mandarmi via da Milano a calci in culo – scrisse al suo amico Terrosi in una lettera – mi invitavano a casa loro». E lui ci andava. Ma sapeva che il rischio era di fare la fine di quel writer clandestino dalla penna feroce che scrive di anarchia e libertà, ma poi va a Milano e a una festa incontra il direttore di uno studio creativo di una agenzia di pubblicità di Porta Nuova che il giorno dopo lo chiama per fare il copy e quindi l’anarchico writer inizia a usare la sua penna feroce per la campagna pubblicitaria di una azienda di caramelle. Sa che il rischio è di fare la fine degli scienziati che parlano di ambiente o salute, denunciando le carenze di prevenzione e le nostre responsabilità, ma che a un certo punto diventano delle star televisive e si dimenticano il motivo per cui sono andati in televisione e parlano di cinema, di sport, di tutto ciò che gli chiedono. Bianciardi però è un puro, o almeno ci prova e ne paga le conseguenze. Eccolo quindi in Via Solferino, cammina lungo la via dove aveva anche vissuto in una piccola pensione, oltrepassa il portone del Corriere della Sera, il grande giornale, che un giorno sotto la direzione di Montanelli gli aveva offerto una prestigiosa e ben pagata collaborazione. Quando uscì La vita agra Montanelli ne rimase profondamente colpito, tanto che pubblicò un articolo, Un anarchico a Milano, che lodava il libro e il suo autore. Lo chiamò, gli fece un’offerta. Le lodi del direttore del Corriere della Sera e l’offerta di lavorare per il prestigioso quotidiano, invece che inorgoglirlo, lo mandano in crisi. Montanelli gli offriva trecentomila lire per due pezzi al mese. Bianciardi, licenziato da Feltrinelli, si manteneva allora con delle traduzioni e qualche articolo di giornale. Quell’offerta quindi era un’occasione unica, era molto di più di quello che riusciva a racimolare traducendo forsennatamente giorno e notte dall’inglese. Però era anche una resa. Si chiede se può stare dalla stessa parte di coloro che ha criticato, se può scrivere per un giornale che rappresenta il Torracchione che vuole far saltare in aria. E dice di no. Rifiuta quel mondo perché lo disapprova, resta ai margini, con suo cappotto liso, la grappa, la rabbia, il sarcasmo.

Eccolo ora Bianciardi che passa oggi in via Solferino e guarda verso da giù le finestre più alte del palazzo del Corriere della Sera, eccolo che forse ripensa a quell’orgoglioso ritrarsi, chissà se lo rivendica o se si pente, se pensa che sia stato un gesto punk e libero o un atto codardo e perdente. Se si gira e rigira questo dubbio nella testa o se fa spallucce, se ne frega e continua a camminare per la città arrivando a un certo punto davanti alla Scala, dove due studenti dormono su un divano. Protestano per il caro affitti. Un fotografo sta scattando delle foto per un servizio che una rivista patinata vuole fare su di loro, su questa protesta originale alla corsa sfrenata dei prezzi che umilia i fuori sede, costringe le giovani coppie ad andare a vivere fuori Milano, impedisce agli studenti che non possono permetterselo di studiare in città, soffoca la cultura, la gioventù, la città stessa. E allora su questo divano colorato davanti alla Scala di Milano va in onda questo gesto ribelle e folle e giusto e anarchico. Bianciardi osserva i due studenti arrabbiati, il divano, la folla di curiosi che ci gira attorno e il fotografo che sbuffa, che chiede che collaborino un po’ questi due, che si mettano in posa, perché la Rivoluzione per funzionare deve avere le sue luci, la sua iconografia, la sua estetica. Per diventare virale la Rivoluzione deve farsi bella. E allora Bianciardi trattiene il respiro. E anche il fotografo per ragioni opposte trattiene il respiro. Ed entrambi guardano lo studente e lo studente sul divano impreca, fa un gesto inequivocabile, gira loro le spalle. E si mette a dormire.