Marina Viola

ARTICOLO n. 48 / 2023

GOOMAH LO DICI A TUA SORELLA

Around The Table. Una serie americana in italiano

Tra tutte le domande che facevo a mia madre, quella che la irritava di più, che le dava talmente tanto fastidio da poter sentire le vibrazioni dei nervi come delle corde di un pianoforte, era la seguente: “Cosa c’è per cena?”

Adesso che la mamma sono io, condivido il suo fastidio. Non solo: lo capisco. Non è che le mamme stanno tutto il giorno a girarsi i pollici e hanno il tempo di programmare menù da ristoranti. Altrimenti un piatto di pasta, una bottiglietta d’acqua liscia temperatura ambiente e un frutto fanno diciotto euro, coperto compreso, s’intende. Anzi, ringraziare Iddio che qualcuno sia andato a lavorare per permettersi la spesa, che viene cucinata e trasformata in cibo da mettere in tavola! Ma non solo: la domanda potrebbe rappresentare l’inizio di lamentele ingiuste e inutili, non ammesse né mai concesse per nessuna ragione al mondo. Servono solo a far scattare urla di Tarzan. “Quello che passa il convento”, mi sentivo rispondere con quel tono lì ogni volta che ho osato chiedere. 

Invece, mia figlia Vera, impeccabile, me lo chiede tutte le sere. Ma lei va oltre, tasta terreni che io non ho mai azzardato prendere in considerazione: siccome non mi teme, osa lamentarsi. “Non mi piace”,” l’abbiamo già mangiato ieri”, “avrei voglia d’altro”. E io sono addirittura peggio di lei: so bene che questo mio grave errore mi porterà nel girone infernale in cui per punizione si viene sgridati dalle mamme per l’eternità. Io, che non ho polso, le chiedo cosa vorrebbe. Sento mia madre rigirarsi nella tomba ogni volta che pronuncio queste parole. Cedo perché sono pigra, quasi sempre stressata e non ho voglia di litigare, e perché l’importante è che mangi qualcosa. «Posso farmi le fettuccine (feducin) chicken Alfredo? Giuro che lavo tutte le pentole che uso». Me l’ha chiesto anche l’altra sera, storpiando come sempre le parole in italiano. Io, piuttosto di mangiare quella cagata, digiuno. Vera lo sa e infatti ne fa solo una porzione per sé.

Senza litigate, finalmente siamo tutti a tavola: Vera con il suo piatto puzzolente di pasta scotta e insipida con panna e pollo disgraziati, io, Ryan e Andrea con delle bistecche impanate e dell’insalata. C’è anche Martina, che da qualche tempo ha deciso di farsi chiamare Alex, perché è un nome neutro. Va bene: basta che mangi. Sembra che siano tutti contenti, ed è forse anche per questo che decido di rovinare il momento della happy family che mi fa tanto Mulino Bianco: «E comunque, ‘sta roba delle fettuccine (feducin) chicken Alfredo non è italiana. In Italia si mangia il primo, che sarebbe una pasta o una minestra, e il secondo, dove viene servita carne, verdure o pesce. Non si mischiano quasi mai. E si pronunciano FET-TUC-CI-NE e AL-FRE-DO, non come lo dici tu!» In tavola cala il silenzio, seguito da uno sbuffo all’unisono. Qualcuno alza gli occhi al cielo. Io mi verso il terzo bicchiere di vino e fingo di non capire.

È interessante come la cultura americana sia un mosaico che contiene aspetti di civiltà di altri mondi, lontanissimi da qui.Se non fosse per il genocidio dei nativi americani, si potrebbe usare senza sensi di colpa il termine Nuovo Mondo. Transit. È su queste coste che gli antimonarchici inglesi misero piede per primi. I ribelli, insomma. E da allora, con la vastità di terreno e ricchezze che piano piano si vennero a scoprire dall’Est all’Ovest, gli Stati Uniti diventarono e sono tutt’ora una calamita molto potente che attira popolazioni di ogni luogo. Lo so, la violenza, la marginalizzazione, lo schiavismo, il genocidio e altri piccoli particolari fanno parte integrante della storia americana e non bisogna dimenticarselo, ma mi viene da dire a noi europei che chi è senza peccato lanci la prima pietra. Comunque, il fatto di essere così vivamente multiculturale li rende ricchi, affascinanti, unici: tutti gli americani hanno radici da qualche altro angolo del globo.

Le persone provenienti dallo stesso Paese si raccolsero in comunità dove poter mantenere un’identità d’origine: Chinatown, Little Italy sono solo due dei mille esempi. Portarono con sé le proprie credenze, i propri valori, la propria cultura e il proprio cibo.  A differenza della società di provenienza, che negli anni si è evoluta, i connazionali d’oltreoceano hanno sempre mantenuto le usanze e i costumi legati al periodo storico in cui si trasferirono. Non sono mutate, non hanno avuto modo di stare al passo coi tempi. È per questo, per esempio, che qualche tempo fa uscì la notizia riguardo il Grana Padano. Pare che quello fatto negli Stati Uniti sia più simile alla ricetta originale, perché gli italiani che arrivarono allora non sono stati mai influenzati da certi cambiamenti. Sicuramente negli anni, in Italia si sono modificate le ricette o gli strumenti per produrne in grande scala. 

Come in Italia con la lingua inglese, anche qui si usano termini che, seppur molto storpiati o antichi, sono di origine italiana. Liz, una mia amica di origine siciliana, mi aveva raccontato che da piccola, era venuta a vivere con lei la goomahd. Facevo sì con la testa, ma non ho mai avuto la più pallida idea a cosa si riferisse, men che meno che fosse un termine di provenienza italiana. Poi, guardando la serie I Soprano, mi è stato tutto più chiaro: la goomahd è la madrina, mentre la goomah senza la di finale, è l’amante. Che ruolo abbia la comare in famiglia è ancora un mistero, ma basta googlare, come ormai si dice in Italia.  Quando sgrida i suoi figli, Liz finisce sempre con la parola kapeesh. Quando le chiesi cosa significasse e da dove derivasse il termine, si mise a ridere: «Ma come, non è italiano? It means do you understand…», capisci? Non ci sarei mai arrivata. Altre parole usate dagli italoamericani sono: maronn (Madonna), manigot (manicotti), goompà (compare, amico), regoat (Ricotta), mosaré (mozzarella), pastafazool (pasta e fagioli). Molti, come si nota, sono termini legati alla famiglia o al cibo, che sono i perni della comunità italoamericana.

Trovo molto interessante che negli Stati Uniti si possano scoprire ancora piccoli pezzetti di una società antica, di un’Italia che ormai non esiste più. L’immagine che mi balza in testa quando penso a questi residui di un linguaggio tra l’italiano e il dialetto, termini che per due secoli sono rimasti intaccati dalla modernità, è quella di un insetto dentro un pezzo di giada. Preservato con cura, come se il suo valore fosse inestimabile, come se perderlo significasse perdere anche le proprie origini. Eppure, è legato a un’Italia che invece ha subito mille trasformazioni: le due guerre, Mussolini, Hitler, la Democrazia Cristiana, il Milan, Berlinguer, Nilla Pizzi. E poi il sessantotto, il femminismo, le leggi sull’aborto e sul divorzio, gli anni di Piombo, Falcone e Borsellino, settecento governi diversi. Un luogo lontano ormai anni luce dalle goomahd di una volta. Sicuramente anche le culture provenienti da altri luoghi hanno mantenuto stretti e tramandato brandelli di un Paese che ormai non esiste più.  Un momento ben preciso della storia, rimasto intaccato e gelosamente tenuto puro dal tempo. 

Per motivi molto diversi, legati in parte alla tecnologia e in parte a questa cosa che tutti chiamiamo Internet, anche l’italiano si è arricchito di molti termini inglesi, anche fin troppo, a mio parere. In Italia fu Mussolini, la cui personalità non si può descrivere come versatile, elastica e nemmeno poliedrica, a vietare termini anglosassoni nella lingua italiana.

Il Popolo del luglio 1938 pubblicava il seguente commento:

«Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi, o di Londra, o d’America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare noi, come guardarono a Roma o all’Italia del Rinascimento…»

Certamente è un caso che il governo di destra della Presidente Meloni faccia le stesse critiche della “mascella che al cortile parlava” (cit. De Gregori): ci sono troppi termini inglesi nella nostra lingua. Interessante invece che le sia venuta in mente questa proposta dopo aver lanciato la scuola che lei chiama Made in Italy. Se non fosse per i cento euro di multa e per il terrore di passare per quella che sta con i fascisti, una piccola parte di me sarebbe segretamente d’accordo. 

Ogni volta che vengo a Milano, mi stupisco di quante parole inglesi siano ormai entrate a far parte del gergo. Sono sempre di più, tanto che ormai quando ne uso una, chiedo se si dice già anche in Italia. La risposta è sempre positiva. La cosa buffa è che spesso sono usate in modo sbagliato e sempre pronunciate sulla stessa onda di manigot. In poche parole, la pronuncia è talmente lontana da quella corretta, che non si capiscono proprio. Personalmente, poi, faccio sempre figure di merda perché le pronuncio come si dovrebbe o perché faccio fatica a decifrarle: i miei amici dicono che sono snob e che faccio finta di non capire. Ce la metto tutta, ma quando mi chiedono se ho il blutut, io davvero non ho la più pallida idea di cosa mi stiano chiedendo. Ripeto, è esattamente come quando non capisco la parola goomahd

Comunque, il dilemma su come pronunciare le parole inglesi quando si sta parlando un’altra lingua, se farlo in modo corretto o no, esiste eccome. Ne parlava anche David Sedaris, scrittore e genio americano, che per anni ha vissuto in Francia. Raccontava che una sera era a cena con degli amici francesi. Durante la conversazione, gli chiesero dove avesse vissuto prima di trasferirsi a Parigi. La risposta era: New York. Il suo dilemma, invece, era: pronuncio New York come lo pronunciano a Parigi o come si pronuncia veramente? Perché immancabilmente ci si sente un po’ snob, in questo hanno ragione i miei amici italiani, a pronunciare come si dovrebbe, ma allo stesso fa molto da ridere quando ci si impone di imitare il modo sbagliato per non fare brutte figure. Alla fine, per non passare per la saputella, mi sono imposta di dire blututColgatecol (call), o amburgher. Quando venni in Italia con Alex e Vera, mi presero molto per il culo: “Amburgher?!?”

Pronuncia a parte, ci sono parole di provenienza inglese usate solo in Italia. Per esempio, col (call). Non si dice, non si usa né negli Stati Uniti né in Inghilterra: qui, si dice meeting. Poi, che ci si incontri al computer o meno non è un dettaglio che pare interessi. Durante la pandemia, si lavorava in smartworking. Ma solo in Italia. Nei Paesi anglosassoni, di lavorava da casa (work from home). Un’altra: fare footing. Non sono neanche sicura che esista come termine (devo googlare), ma generalmente, quando uno si mette le scarpe da ginnastica, i pantaloni della tuta, una maglietta e gli airPods, va a running, non a jogging

Infine, spesso viene cambiato il significato di certe parole inglese usate nel linguaggio italiano. Questa cosa l’ho scoperta una sera di qualche anno fa. Ero a Bologna con degli amici ed eravamo seduti in un bar, tutti un po’ brilli. Loro continuavano a dire una parola in inglese che non capivo e a ridere come matti. Dopo aver chiesto, ho scoperto che in italiano dire la parola squèrt (squirt) è una roba erotica volgarissima. Qui la si usa quasi esclusivamente quando si sta per addentare un amburgher e ci si vuole mettere del checiap: non ha nessun connotato sessuale, ma piuttosto una parola che descrive un gesto banale, lontano mille miglia dalle luci rosse. Infatti, risposi a voce alta: “Ah squirt!”, perché la pronunciavano male. Ci fu una risata a crepapelle generale, di tutti quelli del bar, amici e non, e quelli seduti ai tavolini fuori. Solo quando i miei amici, con le lacrime agli occhi dal ridere, mi fecero il gesto di abbassare la voce e mi spiegarono, anche per me questa parola ha acquistato un connotato erotico. Quando tornai negli Stati Uniti, spiegai ai miei amici americani in quale contesto viene usato questo termine negli States. Magari mi ero persa qualcosa. Confermarono: mai sentito associato al sesso. 

Comunque sia, da allora aspetto il 4 di luglio manco fosse babbo Natale. Spero sempre che invece delle bandiere a stelle e strisce e birre acquose, venga fuori qualcosa di un po’ più piccante. E non lo dico per il checiap, che tra l’altro tanto bene non fa sicuramente.

ARTICOLO n. 33 / 2023

IL PEDIGREE DEL POLLO

Around The Table. Una serie americana in italiano

«È pronto!», urlo dalla sala. Dopo poco sento una porta aprirsi. È quella di Vera. «Puoi aiutare Andrea a scendere?», le chiedo quasi subito. Vera apre la porta della camera di suo fratello. La sento parlare. «Andrea, dài, vieni che è pronto. Stasera ci sono le bistecche impanate, quelle che tu chiami MAYO perché le mangi affogando ogni pezzo nella maionese. Dài, ti aiuto io. Andiamo ché poi la mamma si arrabbia…».

Con l’estrema e snervante lentezza che lo caratterizza, Andrea scende le scale tenendo in mano il suo iPad, che da tre mesi gli suona la stessa canzone: Enough To Be On Your Way, di James Taylor. Vera è già a tavola, si riempie il piatto con una bistecca impanata e degli spinaci. Ryan intanto sta tagliando la carne per Andrea. Io sono ancora in piedi: mi accorgo che chi ha apparecchiato ha dimenticato pane, acqua, maionese e il mio solito bicchiere di vino.  

«Stasera si mangia tutto quello che vi mettete nel piatto, perché questa cena mi è costata come un viaggio a Parigi in business class. Buon appetito a tutti». Sono ancora sotto shock per la mia esperienza pomeridiana a Whole Foods, il supermercato dietro l’angolo che per correttezza nei confronti dei clienti, si dovrebbe chiamare Gioielleria Commestibile. Quasi ogni prodotto è biologico. Se ne compri uno, come dire, normale, le cassiere ti guardano malissimo, e ti insultano con lo sguardo: «Se sei povera, vai a fare la spesa da un’altra parte, stronza!».

Per arrivare al supermercato, dopo aver varcato la soglia, ho preso le scale mobili che portano alla sezione che vende fiori, piantine grasse e bigliettini per i compleanni. Davanti alle scale, sfoggiata come un quadro di Monet, l’ortofrutta, tutta bella in ordine. Ogni mela o arancia viene accarezzata con tenerezza, a volte spolverata bene e delicatamente appoggiata sulle altre per formare una specie di piramide; le verdure sorridono e invitano i clienti a posarle sui loro carrelli verdi, anche loro biologici. Ho comprato degli spinaci che mi hanno ringraziato per mezz’ora. Ho anche preso due limoni e tre mele. Il totale aveva già superato di gran lunga i quindici dollari. D’altronde, ai ragazzi piacciono le bistecche impanate e gli spinaci… Dopo la frutta e la verdura, ci si trova davanti alla pescheria, dove i pesci vengono ammazzati a botte di complimenti: «Vedrai che sarai buonissimo! Ti cucineranno con spezie fenomenali! Se fossi nato salmone, vorrei essere venduto qui anch’io, mangiato da tutta questa bella gente, che rispetta l’ambiente e che ha delle pentole da mille dollari l’una». Un po’ più in là, la macelleria. Mi sono avvicinata per chiedere un petto di pollo, e il macellaio mi ha raccontato con entusiasmo della stirpe di provenienza del povero pennuto: famiglia onesta, nata e cresciuta in campagna, libera di svolazzare nell’aia, libera di avere le proprie idee politiche e i propri sentimenti. Una stirpe nobile, insomma. Un chilo di pollo figo mi è costato ventun dollari. Con la voce un po’ tremolante da magone, il macellaio ha aggiunto che le uova, della stessa aia, erano dietro di me. «Costano un po’, ma la qualità è irraggiungibile». In effetti, otto dollari per una dozzina di uova possono essere giustificati solo se ci trovi dentro un tuorlo d’argento. 

Mi ritrovo di fianco alla corsia delle creme di bellezza, dei saponi e delle vitamine. Lì non mi fermo dal 2004, e cioè da quando comprai uno shampoo senza guardare il prezzo e mi venne un mancamento. Finalmente sono di fronte al pane: metto due francesini in un sacchetto di carta. Dài, cosa vuoi che siano quattro dollari. Vado a cercare il pangrattato, e sono costretta a fare delle scelte importanti: biologico? Normale? Aromatizzato al rosmarino? E le briciole: piccole, un po’ più grandi, soffici o dure? Per paura degli sguardi violenti delle commesse, prendo quello biologico, briciole piccole, non aromatizzato. Costa tre dollari di più, ma almeno non vengo umiliata davanti a tutti. Mi serve anche il burro (otto dollari e cinquanta), l’olio (diciassette dollari e quarantanove centesimi) e una bottiglia di vino scarso, al modico prezzo di ventun dollari. 

Quando la ricevuta della spesa viene sparata violentemente fuori dalla cassa, tutti noi veniamo colpiti da tremori incontrollabili, dalla mancanza di salivazione e dal dubbio di essere stati presi per il culo. Si prendono le scale mobili per scendere, si va in macchina e si piange. Neanche questa volta avremo i soldi per il cinema: andati tutti in spinaci e petti di pollo.

Per cui, quando un po’ più poveri ma felici, ci ritroviamo attorno al tavolo, se qualcuno si permette di dire frasi del tipo: non ho fame; do gli avanzi ai cani, non mi piacciono gli spinaci, io mi trasformo in Goldrake e spacco tutto. 

Sono appena tornata da Milano, dove sono stata a casa di mia madre. Di fronte al palazzo c’è un supermercato, molto più piccolo di Whole Foods, anche perché si trova in Italia, dove le dimensioni sono a portata d’uomo. Sono andata a fare la spesa anche lì: uova, formaggio, yogurt, pasta, cioccolato Novi con nocciole (due tavolette, vino (Pecorino buono), due etti di salame Milano. Alla cassa, mentre aspetto, tiro fuori dal portafogli la carta di credito. La cassiera, di marcato accento milanese, fa un po’ di battute sulle tavolette di cioccolato che mi fanno ridere. «Sono venticinque euro», mi dice dopo avermi dato un sacchetto. «No, scusi, è impossibile!», a cui lei risponde: «Eh sì, ha comprato il vino più caro…», come a dire che costa tanto per quello. 

Capisco che gli stipendi italiani e quelli statunitensi sono molto diversi, e che il costo della vita è direttamente proporzionato a questo fattore. Capisco poi che Whole Foods non è il tipico supermercato, ma quello dei fighetti o delle persone pigre come me, che non hanno voglia di prendere la macchina per andare a fare la spesa da un’altra parte. È ovvio che le aie americane hanno l’aria condizionata e i polli fanno massaggi e pedicure almeno due volte la settimana, mentre i poveri cristi italiani sono cresciuti in fattorie e vivono in modo semplice e onesto. Capisco tutto, ma mi sembra che il confronto fra il supermarket americano e quello italiano mostri senza ombra di dubbio che i prezzi di Whole Foods siano talmente esagerati da trasformarsi addirittura in un’ingiustizia etica e sociale.

Ogni quotidiano, italiano o americano, parla ogni giorno di salute: come invecchiare bene, come avere rapporti sessuali dopo la menopausa, come fare esercizio fisico una volta al mese. Ma il tema più importante è l’alimentazione. Spiegano che bisogna mangiare molta frutta, verdura e legumi, e meno carne o pane. Aggiungono che l’olio d’oliva, il latte magro, il pesce appena pescato e la dieta mediterranea siano necessari per una vita lunga e gioiosa. Negli ultimi anni, poi, si è aggiunta l’importanza di mangiare cibi biologici, non trattati con pesticidi.

Ma tutto ciò richiede un certo agio sociale: se il pesce fresco costa troppo, può essere acquistato soltanto da un ristretto gruppo di persone. Stessa cosa per quanto riguarda una mela, un grappolo d’uva, un’insalata, un petto di pollo biologici. Sono più sani, ma costano il doppio. Un cheeseburger da McDonalds costa due dollari e cinquanta; una mela biologica anche. Solo che il primo ammazza il fegato, ma sazia; la seconda fa bene, ma sazia per venti minuti. Nel 2013, in una zona povera di Detroit è stato aperto Whole Foods, che notoriamente ha prezzi molto alti. Fortunatamente, i manager del nuovo supermercato hanno capito che nessuno avrebbe fatto la spesa lì e dunque hanno abbassato considerevolmente i prezzi. Una storia a buon fine, ma talmente rara che attira l’attenzione dei mass media.

Ci sono principi che dovrebbero essere uguali per tutti, senza distinzione di genere, etnia o età. Mangiare sano è uno di questi. Negli Stati Uniti, le persone con la pelle di colore scuro sono discriminate anche per quanto riguarda l’alimentazione. La popolazione economicamente svantaggiata mangia cibo preconfezionato, frutta e verdura in lattina invece che fresca, cibi pieni di zuccheri e carboidrati perché ha poche scelte. Infatti sono loro che sviluppano diabete, obesità, ipertensione, e che hanno il colesterolo alle stelle. Noi, con i nostri bei branzini al forno e con la nostra verdurina, cresciuta solo per noi, siamo più sani perché possiamo permettercelo. 

Questo fenomeno di discriminazione alimentare è molto studiato dai sociologi americani che lo chiamano food desert, il deserto del cibo. Il termine viene usato per descrivere zone per lo più rurali o ai margini delle città abitate da persone a basso reddito (per lo più minoranze) che non hanno accesso a supermercati perché sono a chilometri di distanza oppure vivono in zone in cui i prezzi sono troppo alti per le loro tasche. Di conseguenza, sono costretti a comprare il cibo nei negozietti che non vendono nulla di fresco, ma junk food (cibo spazzatura). Fortunatamente, ci sono sempre più iniziative volte a diminuire il più possibile il disagio che questo fenomeno causa.È strano pensare che fare la spesa possa diventare un atto discriminatorio, che spendere così tanto per beni di prima necessità significhi entrare in una macchina del male, che ripudiamo con forza. L’immagine che mi balza agli occhi è quella di un serpente che silenzioso si intrufola nella nostra vita e contribuisce ad aumentare ulteriormente il gap tra chi può e chi no. È facile dimenticare la realtà di persone che non conosciamo, perché nel nostro quotidiano non sono che numeri in uno studio statistico. Fa un po’ impressione, pensavo pulendo la cucina, che anche quando si fa la spesa ci si trovi coinvolti, anche inconsapevolmente, in una macchina sociale iniqua e terribile. Aveva ragione mia madre, quando ci diceva che tutto quello che facciamo anche senza accorgercene deve essere considerato un atto politico.

ARTICOLO n. 24 / 2023

FIGLI CHE SI SCOPRONO NON ETEROSESSUALI

Around The Table. Una serie americana in italiano

I nomi dei personaggi di questa serie sono inventati, anche se avrei tanto voluto chiamare mia figlia Vera, ma ho perso quella discussione sui nomi. Pazienza. Falsi anche alcuni (pochi) dei racconti di famiglia. Ma, credetemi, non sono una bugiarda: pensate che l’enorme balena bianca si chiamasse davvero Moby Dick? O il ragazzino di Ida, Useppe, o la tipa che perde la scarpa Cenerentola? E io mi adeguo.

Eravamo tutti e cinque a tavola: io, mio marito Ryan e i nostri figli Andrea, Martina e Vera. Si chiacchierava del più e del meno e si cercava di convincere Andrea (autistico ventiseienne tendenzialmente asociale) di stare a tavola con noi, con i soliti scarsi risultati. «Ah, a proposito», dice Martina, che stava frequentando il primo anno di università, «sono di genere non binario». Rispondo: «Bene, sono contenta!». 

In effetti, è da quando Martina era piccolina che ha sempre preferito amici maschi, perché le femmine litigano sempre; il monopattino alle bambole, perché dopo un po’ che noia, vestiti di colori neutri piuttosto che il rosa, a parte un periodo di principesse scemato molto velocemente. Le avevo comprato le Barbie, nascondendo al meglio possibile la mia insofferenza nei confronti di corpi sproporzionati, capelli che a toccarli vengono un po’ i brividi e vestiti improbabili. Ci ha giocato per due, tre settimane al massimo. Al pomeriggio, dopo la scuola, andava al parco di fronte a casa (allora abitavamo a Brooklyn, ma poi ci siamo trasferiti a Cambridge, nel Massachusetts) a incontrare Henry, Zac, Anton, Maceo: la sua banda. Tornava sporca e sudata. Stanca e felice. Ha avuto, a dire il vero, un’amica femmina, ma quando la madre telefonava per chiedere se Martina volesse andare da lei a giocare, Martina mi faceva cenni con le mani per farmi dire di no. 

Quando le ho imposto di cercare uno sport, quello che le piaceva di più, perché non è che si può stare in camera davanti al computer tutti i pomeriggi, ha scelto il roller derby, un gioco violento e di contatto, giocato sui pattini a rotelle, con atlete esclusivamente femmine, quasi tutte lesbiche. Lì ha cominciato a frequentare più ragazze, ma non quelle che da piccole giocavano alle bambole. Erano molto neutre per quanto riguarda il genere, e spesso tra loro nascevano amori detti e non detti. Martina era entrata a far parte di quel gruppo con estrema naturalezza. Io e Ryan eravamo convinti che fosse anche lei lesbica, ma un giorno ci ha annunciato, sempre con la naturalezza di cui sopra, di aver conosciuto un ragazzo. In Internet. Il ragazzo era un tipo dell’Alabama, che lei voleva andare a conoscere. Dopo lunghi pianti e ancor più lunghe discussioni, siamo arrivati a un compromesso: se vuole, può venire lui. Che infatti puntualmente è arrivato, lui con degli stivali da cowboy bianchi francamente improponibili e io con un bicchiere di vino (il terzo) pieno fino all’orlo.

Oltre che essere terrorizzata del fatto che sicuramente la mia bambina di diciotto anni fosse in camera sua a far l’amore (l’ho preparata bene? Cosa faccio, busso e le dico di non avere senso di colpa, che anche la mamma e papà ogni tanto lo fanno? Li avrà dei condom? Credo di averle detto che se non vuole fare nulla, per l’amor d’un Dio, deve saper dire di no, ma non sono sicura) ero stupita, e non poco, del fatto che si fosse innamorata di un maschio. Ricordo, nel panico generale, di aver chiesto a Ryan: «Ma scusa, non era lesbica?»

La sera a cena, quando ha annunciato il suo cambio di genere, ero molto contenta di aver scoperto un aspetto importante di lei. Anche per Martina deve essere stata una liberazione: è una conquista importante capire chi si è e condividerlo con gli altri, malgrado non sempre sia una notizia accolta a braccia aperte. Molte persone infatti cercano di sopprimere la propria identità di genere. parte qualche storia con delle ragazze, finora ha sempre preferito avere morosi Mi ha spiegato, perché la maggior parte di quelli della mia generazione è un po’ ignorante sul soggetto, che essere di genere non binario non ha nulla a che fare con la preferenza sessuale: una persona come mia figlia si sente un po’ in mezzo tra il sentirsi donna o uomo, ovvero non riesce a sentirsi a suo agio né quando si dichiara maschio né quando si dichiara femmina. È attratta da maschi o come Martina, di genere non binario (ma nati col pisello, per intenderci).

La sua richiesta è stata che da quel momento, quando parlavamo di Martina, avremmo dovuto usare un pronome neutro: they. È un pronome plurale, è vero, ma per ora sembra essere il più gettonato. Ho fatto molta fatica a ricordarmelo, perché è grammaticalmente sbagliato, ma da qualche anno a questa parte ho fatto passi da gigante: non mi sbaglio quasi mai. 

A Cambridge, dove viviamo, la gente è particolarmente liberal, nel senso che è aperta alle diversità di razza, di classe e di genere. Moltissimi ragazzini delle medie e del liceo si sono dichiarati di genere diverso da quello che è stato dato per scontato alla loro nascita, perché è una città che accetta le diversità con molta disinvoltura: per anni abbiamo avuto una sindaca gay, nera e musulmana, per esempio. I ragazzi qui si sentono compresi e accettati. A scuola non si percepisce discriminazione da parte dei compagni o degli insegnanti. Infatti, molti studenti preferiscono fare coming out a scuola prima di farlo a casa, perché esistono alcune culture che fanno fatica ad accettare questo tipo di discorsi.

Quando anni fa Martina ha annunciato la sua vera identità di genere, non ho potuto fare a meno di pensare che se fossimo in Italia, il suo futuro sarebbe molto più difficile, anche se percepisco un vento di cambiamento. Ho letto di molti genitori che raccontano di figli simili a Martina; i giornali ne parlano sempre di più, intervistano sessuologi e psicologi su questo tema. Mi sembra di capire che alcune cose stanno cambiando. 

Due anni fa stavo ancora lavorando al mio ultimo libro, in cui mi sono posta molte domande su come affrontare da genitori la sessualità dei propri figli senza piangere o senza volersi buttare giù dalla finestra. Avevo appena finito il capitolo in cui descrivevo la rivoluzione di genere come una delle più significative della Storia con la esse maiuscola. Per i maschietti ancora adesso si mette il fiocchetto azzurro (il colore dei principi) per le femminucce quello rosa (il colore delle Barbie). Siamo il risultato di millenni in cui siamo stati guidati dagli uomini, i “protettori” di noi povere femminucce deboli e servili. Se non ci fosse un genere considerato superiore, non ci sarebbero le discrepanze maschiliste che noi donne subiamo senza neanche accorgercene. Nel capitolo cercavo di spiegare come le dichiarazioni sul proprio genere, esprimere quello che si è senza timore, aggiungano un senso alla nostra sacrosanta libertà. L’editor che mi aiutava mi ha chiamato che a Milano erano le tre di notte per dirmi che avrei dovuto cambiare o addirittura togliere quel capitolo, «altrimenti ti leggeranno solo le lesbiche e quelli di estrema sinistra», gruppo, tra l’altro, di cui sarei fiera di avere tra i miei lettori. Diceva: «è tutta una questione di moda, questi ragazzini sono privilegiati e davvero non hanno nient’altro a cui pensare? Un’americanata che in Italia non capiterà mai». Sono stata gentile, ma ben ferma sulla mia posizione: che vantaggio avrebbe un ragazzino ad annunciare che si sente femmina se non è vero? Sono temi difficili da accettare e da condividere con genitori, amici, insegnanti. Altro che moda. C’è dietro a tali dichiarazioni una grossa sofferenza, che parte dal terrore di non essere accettati per come si è. Tzè… la moda… È complesso essere cresciuti in una società storicamente omofoba. Figurati te: una moda… Una delle poche volte in vita mia in cui ho avuto ragione: me lo ricordo perché mi capita raramente.

Gli Stati Uniti sono un Paese notoriamente bigotto, ancora lì a discutere se il diritto di abortire è la strada più sicura per arrivare all’Inferno. È un Paese complesso, pieno di problemi sociali, strutturali; è un Paese violento, fervido sostenitore del diritto di comprarsi tutte le armi che si vuole, difensore spietato della proprietà privata. Ci vivo da trent’anni e posso affermare di aver visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Eppure, benché Cambridge sia particolarmente aperta mentalmente, non è certamente un’eccezione: negli Stati Uniti i diritti per le persone LGBTQ sono diventati leggi. Si chiama TITLE IX quella che proibisce la discriminazione nelle scuole; il TITLE VII (parte del Civil Rights Act, approvato nel 1964) condanna discriminazioni sul lavoro. Si chiama FEDERAL FAIR HOUSING ACT l’atto giuridico in materia di alloggi che vieta discriminazioni per quanto riguarda case o appartamenti in affitto o sul diritto di ottenere un mutuo. Nel 2020 è stato stipulato che non occorre più mostrare documenti medici per certificare il proprio genere sul passaporto americano. Ma soprattutto: è federalmente proibito discriminare persone dello stesso sesso (o genere) che si vogliono sposare o che vogliono adottare o avere dei bambini. Il che significa che, quando uno o una della coppia muore, per esempio, l’altro ha diritto all’eredità. Significa che se John e Steven si sposano, i loro diritti sono esattamente uguali a quelli di Giorgio e Susanna. E queste sono solo alcune delle leggi antidiscriminatorie: non siamo certamente ancora arrivati all’uguaglianza di diritti fra le persone cisessuali e tutti gli altri, ma la strada pare ben spianata per altre leggi. 

L’Italia, invece, è considerato il Paese dell’Europa occidentale peggiore per quanto riguarda i diritti LGBTQ. Non lo dico io, lo afferma ILGA, un’associazione mondiale in difesa dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali e trans. In Italia, se si nasce fuori dagli stereotipi, non è possibile sposarsi, né adottare. La legge ZAN, che tutela crimini o incitamento all’odio, sembra essere sparita dai programmi legislativi. Nel 2007, Romano Prodi propose un disegno di legge per la tutela dei diritti di persone come Martina, ma poi finì tutto in un enorme nulla. 

Ho parlato di leggi antidiscriminatorie, perché malgrado ci siano discriminazioni in entrambi i Paesi, il fatto che esistano obbliga anche la società, volente o nolente, di accettare e accogliere la presenza di persone diverse da loro. In Italia, per ora, facciamo ancora fatica. Mi è stato confermato anche qualche tempo fa, quando in Italia è nata un’ennesima polemica sulla presenza di una cantante trans, Rosa Chemical, a Sanremo. La deputata di Fratelli D’Italia Maddalena Morgante, nel suo discorso intenzionato a stoppare la “promozione di propaganda transgender”, non si vergogna a sostenere che «la rivoluzione fluida era già da tempo sul palco dell’Ariston, ma trasformare Sanremo nell’appuntamento più gender fluid di sempre è del tutto inopportuno. La TV rimane il principale mezzo di informazione e i minori sono la fascia principale di ascoltatori. Il Festival della Canzone rischia di diventare l’ennesimo spot del gender fluid e della sessualità fluida e che da sempre Fratelli d’Italia contrasta». A proposito di tutele delle minoranze, appunto.

Sono palesi le differenze tra la riflessione tradizionalista della signora Morgante e le serate dedicate ai premi per cinema e musica qui, negli Stati Uniti. Forse l’evento più simile al Festival di Sanremo è quello dedicato ai Grammy, cioè alla musica contemporanea con la differenza che questi vengono seguiti in tutto il mondo, mentre sul nostro Festival non troveremo certamente articoli sul New York Times. Il premio per il disco migliore dell’anno è stato vinto da Harry Styles, ex-membro del famosissimo gruppo One Direction. Che, nonostante l’abbigliamento, classificato come “gender fluid fashion”, non ha mai voluto condividere le sue preferenze sessuali. Ha vinto anche l’artista tedesca Kim Petras, la prima trans a vincere nella categoria Best Pop Duo. Oltre a loro, in gara c’erano più di dieci artisti LGBTQ. Ai Golden Globes una persona trans ha vinto l’ambito premio Emma D’Arcy e molti altri sono stati concorrenti. I giornalisti più seguiti su CNN negli Stati Uniti sono gay e non lo nascondono: Anderson Cooper, il più conosciuto, ha avuto un figlio grazie a una gravidanza surrogata, cosa che in Italia viene vista come un atto demoniaco.

Detto questo, spero di non passare per una di quelle persone convinte che gli Stati Uniti siano una specie di paradiso terrestre: lo è per chi è bianco, maschio, ricco, cristiano ed eterosessuale, proprio come Fabio Volo (ma in inglese). Per tutti noi che ci viviamo cercando di stare a galla, è un esperimento per capire se le persone che arrivano da tutto il mondo possano convivere in pace. La strada è ancora molto lunga, ma la speranza è l’ultima a morire.