ARTICOLO n. 9 / 2024

DIALOGO TRA UN QUASI-VEGANO E UN NON SO

Un progetto di liberazione

A — Quindi sei passato al veganesimo.

B — Non precisamente: sono vegetariano da anni, ma da qualche mese sono quasi vegano.

A — Quasi?

B — Provo a spiegarmi. Innanzitutto essere vegani al 100% è quasi impossibile: lo sfruttamento animale è così pervasivo da rendere difficile scovarne ogni traccia in ciò che consumiamo.

A — Questo argomento però vale per chiunque.

B — Certo, infatti non giustifica. Per quanto mi concerne continuo a indossare maglioni di lana (ma non ne compro di nuovi), bevo vino anche non vegano, o mangio le uova di un’amica di mia suocera le cui due galline conducono un’esistenza serena. Infine resto aperto sulla questione dei bivalvi allevati, anche se non mi capita quasi mai di mangiarli. Definirmi vegano senza queste precisazioni sarebbe ipocrita; ma non mi sento nemmeno un vegetariano tout court — non mangio più latticini e sto andando in un’altra direzione.

A — Insomma non è una rivoluzione, è una riforma.

B — Se vuoi. Ma il principio di base resta ridurre il più possibile qualsiasi forma di dolore animale, cominciando dall’alimentazione. A mio avviso ragionare in termini più gradualistici (senza che ciò diventi una scusa per indulgere in eccezioni che tornano a essere regola) non cambia in modo irreparabile la sostanza — posto che si continui a tenere d’occhio l’obiettivo e migliorare. È un po’ come dire che fra chi fuma una sigaretta a Capodanno e chi si fa due pacchetti al giorno non c’è alcuna differenza, sono entrambi fumatori.

A — Ti si potrebbe obiettare che un’etica con queste “mani avanti” sulle incoerenze non è una buona etica.

B — O forse la giubilante caccia alla minima incoerenza altrui è uno degli automatismi peggiori di questa società: tu puoi trovare macchie nel mio stile di vita, e ci mancherebbe altro, ma se lo fai mentre ti sbafi una fiorentina non sei molto credibile. Eppure c’è questa sete di assolutismo unita a un atteggiamento da tribunale permanente che va ben oltre la critica. Sono sempre le etiche altrui a dover essere scevre di compromesso, sempre gli altri a dover essere modelli di coerenza morale; forse serve per tranquillizzarsi la coscienza, non so.

A — E se l’obiezione venisse da un vegano rigoroso?

B — Ti direbbe che io non sono vegano, e avrebbe assolutamente ragione: da cui il “quasi”, che spero non risulti un gioco di parole o l’ennesima etichetta inutile. Sarei lieto di discuterne; ma sto discutendo con te. Che sei onnivoro.

A — Avanti, allora: argomenta la tua scelta.

B — Il primo motivo è il grande rimosso del dolore animale. In estrema sintesi, non trovo giustificazioni per far soffrire e uccidere maiali polli e mucche visto che esistono alternative efficaci sia per l’alimentazione sia per il vestiario. La domanda di partenza resta quella di Bentham: “Il problema degli animali non è, possono ragionare? né, possono parlare? ma, possono soffrire?” Quelli di cui ci nutriamo per la maggior parte possono soffrire di certo. E l’allevamento industriale è una sequela di orrori: ti risparmio video e reportage, ormai si trovano ovunque; se vuoi puoi cominciare dal classico Liberazione animale di Singer o da Se niente importa di Foer.

A — Però qui c’è un po’ di antropomorfismo, non trovi? Gli animali non sanno di dover morire, non hanno le nostre aspirazioni e la nostra idea di futuro.

B — Di sicuro quegli animali intuiscono il pericolo e, come detto, possono indubbiamente soffrire: è una questione di sistema nervoso centrale, non del modo in cui valutiamo la loro capacità intellettiva — un tema senz’altro importantissimo, ma che viene dopo l’applicazione del rispetto morale. Il fatto che un pesce non urli non implica che farlo crepare soffocato sia per lui indifferente. Lo stesso vale per costringere maiali in una gabbia, limitare il loro movimento, e più in generale farli nascere per destinare loro una vita di sofferenze con una condanna a morte già scritta. Può sembrare riduzionismo, ma senza questa premessa non si va molto lontano. Non voglio antropomorfizzare loro — voglio animalizzare noi.

A — E se mi nutrissi solo di carni provenienti da allevamenti sostenibili?

B — Sarebbe già meglio, ma dovremmo intenderci sulla presunta “sostenibilità” con dati concreti e fuori da ogni etichetta di marketing. Inoltre anche in questi casi il dolore non manca. Puoi tenere le tue mucche in libertà e non in orribili celle, ma se vuoi latte e formaggio dovranno essere fecondate e ti toccherà separarle dai figli — un evento straziante, come per ogni madre (stavolta non ti risparmio un video che non ho risparmiato a me, quando mangiavo ancora Parmigiano, ma mi voltavo dall’altra parte). Infine dovrai comunque uccidere gli animali di cui ti nutri: la macellazione non è mai stata un affare indolore, e gestirla su scala planetaria — un massacro di quasi cento miliardi di individui, di cui diciotto miliardi sprecati — moltiplica inevitabilmente la sofferenza. Il che ci porta a un altro punto: nutrire la Terra con allevamenti “sostenibili”, qualsiasi cosa significhi, è impossibile. Allora perché non smettere? O almeno, perché non porsi radicalmente il problema?

A — E i bambini, li fai crescere vegani? E la sperimentazione animale? E…

B — Aspetta. Tutti questi sono temi scottanti di bioetica: possiamo e dobbiamo parlarne, ma almeno cerchiamo di raggiungere un accordo di base — il modo in cui consumiamo gli animali, e l’effetto che fa alla Terra.

A — Ecco, a proposito: non pensi che il veganesimo sia un privilegio dei paesi ricchi? Come deve comportarsi chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, se uno di quei pasti è a base di carne o pesce?

B — Ovviamente deve mangiare carne o pesce. Non mi sognerei mai di predicare regimi di vita all’orbe terracqueo senza distinzioni: però vorrei persuadere le persone che possono cambiare e non lo fanno. Inoltre ciò consentirebbe di alimentare meglio anche l’enorme fetta di persone denutrite: invece di coltivare campi per sfamare animali, li coltiviamo per sfamare noi.

A — Quindi non è una moda.

B — Ma no. Forse il vegano modaiolo — potremmo chiamarlo il vegano fighetto: e Milano, dove vivo, è un po’ il suo habitat naturale — il vegano fighetto, dunque, difficilmente si porrà la questione in termini davvero radicali; magari vedrà nel veganesimo una semplice dieta. Ma non è una dieta: è una pratica politica e un progetto di liberazione.

A — Tuttavia è anche una dieta. E l’idea di campare a tofu e insalata…

B — Figurati. A me piace mangiare bene. Del resto già parlare di “cibo vegano” è sviante, quasi fosse un regime triste che rimpiazza i nostri “buoni vecchi piatti tradizionali”: ma la pasta e fagioli, la polenta e funghi, la caponata, le zuppe di legumi, la vignarola, la panzanella, la farinata, i carciofi alla giudia, gli spaghetti al pomodoro — ecco: sono “cibo vegano”?

A — Ammetterai però che cucinare verdure richiede tempo, e non tutti ce l’hanno.

B — Richiede più tempo di sbattere una fetta di pollo in padella, sì. Ma ogni cambiamento significativo ha un costo, per quanto minimo: anche l’idea che si diventi vegani con uno schiocco di dita è parte della tendenza fighetta di cui parlavo.

A — Ma non ti mancano la carne o il pesce?

B — No.

A — E il formaggio?

B — Talvolta. Una mozzarella è sempre appetitosa, ma rinunciarvi non è un grosso sacrificio.

A — E le proteine e tutto il resto?

B — Bisogna fare attenzione all’equilibrio fra cereali, legumi, semi oleosi, frutta e così via; ma non è poi molto diverso da altri regimi alimentari. Ho fatto gli esami del sangue di recente ed era tutto in ordine — incluse le proteine totali e la famigerata vitamina B12.

A — Però la carne è importante.

B — In realtà non è mai stata centrale per la massa se non da metà Novecento in poi, quando la produzione è quadruplicata.

A— Ok, sui diritti degli animali ho capito l’argomento. Poi?

B — Un attimo: preferisco non parlare di “diritti”, che è un termine teoricamente piuttosto impegnativo, quanto di schietta libertà. Qui superiamo Bentham: oltre alla capacità degli animali di soffrire dobbiamo riconoscere loro la capacità di dirigere la propria vita, senza antropomorfizzarli da un lato o ridurli a meri schiavi dell’istinto dall’altro. Evitare di prenderli come nostra proprietà significa anche riconoscere davvero le loro esistenze infinitamente varie e complesse, abbandonando il concetto di una “animalità” generica. Pensiamo solo alla molteplicità sensoriale che le varie specie mettono in campo: ne parla molto bene Ed Yong nel suo affascinantissimo Un mondo immenso.

A — Torniamo al punto?

B — Sì, scusa: il riscaldamento globale. All’incirca il 15% delle nostre emissioni climatiche sono causate dall’allevamento, che occupa anche la maggioranza delle terre agricole; senza contare lo spreco di acqua e il processo di deforestazione che comporta.

A — Ci sono ben altre azioni urgenti da fare per combattere le emissioni, in primo luogo cambiare la produzione energetica e il modo in cui ci spostiamo.

B — Sono d’accordo, ma smettere di sfruttare gli animali è una delle più tattiche più immediate e non contraddice il resto. Posso impegnarmi per le energie rinnovabili anche mangiando lasagne di verdure, no?

A — Ti ricordo però che anche determinate colture sono dannose per l’ambiente — l’avocado per esempio consuma moltissima acqua — senza contare che frutta e verdura possono avere una notevole impronta carbonica a causa del trasporto. Infine certi prodotti vegani sono comunque molto processati.

B — Ma mica mangio avocado tutte le settimane. È ovvio che occorre buon senso, ma in generale simili argomentazioni odorano di cattiva fede: si punta l’indice contro l’impatto di questa o quella singola coltura, dimenticando i danni assai maggiori inflitti dall’allevamento (che, a quanto pare, aumenterà ancora).

A — Be’, è quasi ora di pranzo. Che mi dici se addento un toast al prosciutto?

B — E che ti devo dire? Buon appetito.

A — Non mi insulti?

B — Scherzi? Se selezionassi le persone in base a quel che mangiano dovrei smettere di parlare con quasi tutti i miei cari, e del resto io stesso sono stato felicemente onnivoro per la stragrande maggioranza della mia vita. Si mangia insieme da sempre: in famiglia, tra amici e tra colleghi: immaginare il singolo consumatore scisso da influenze esterne è troppo comodo — e una paradossale concessione al modello capitalistico. Ritengo però che alla lunga, ognuno a modo proprio, tali resistenze possano e debbano essere superate: insomma non ti insulto, ma non ti dico nemmeno che fai bene.

A — Non sei un estremista.

B — Se per “estremismo” intendi un atteggiamento poliziesco, no: oltre a trovarlo sgradevole in generale, credo nuoccia alla causa avvalorandone la caricatura più diffusa — il moralismo, il senso di superiorità. Si è più interessati a difendere la propria immagine invece di persuadere gli altri con le difficoltà che questo implica. Ciò detto, non mi metto a fare lezioni di militanza ad alcuno.

A — Forse lo sdegno è anche una reazione al pregiudizio nei propri confronti.

B — Può darsi. Già quando ero “solo” vegetariano c’era sempre qualcuno che alzava gli occhi al cielo o reagiva come se lo stessi implicitamente accusando; e so quanto sia complicato difendere certe scelte in ambienti diciamo conservatori — la propria famiglia innanzitutto.

A — Su questo tornerò. Comunque l’obiezione di fondo, la mia quantomeno, resta: con tutti i problemi che abbiamo, chi se ne frega delle bestie. La vita implica darsi delle priorità, e così la politica.

B — Certo, è la replica più diffusa e credo vada considerata seriamente, anche perché siamo tutti nati in una società onnivora fondata sull’antropocentrismo. Ma anche questo è un pensiero estremista, no? Giustificare a ogni costo il diritto a sfruttare animali.

A — Ma un certo grado di antropocentrismo è ineliminabile, altrimenti una vita suina varrebbe quanto una vita umana. E finché non sono stati risolti i problemi umani — dubito a breve — dedicarsi agli animali è un’offesa nei confronti del prossimo.

B — Non è un’argomentazione pericolosamente simile a “Finché non sono stati risolti i problemi degli italiani, dedicarsi ai migranti è un’offesa nei nostri confronti”?

A — No. In questo caso siamo tutti umani.

B — Ok. Però il veganesimo non mette affatto in secondo piano il nostro specifico dolore. Anzi: come abbiamo già visto implica un miglioramento del clima, un aumento di cibo per gli umani, e l’abbandono di certi lavori mortificanti e indegni (non è bello passare la giornata in mattatoio o stipare in un camion decine di animali terrorizzati). E certo non ostacola le lotte che hanno come fine un incremento di libertà sostanziale, dal femminismo alla redistribuzione delle ricchezze; anzi, queste forme di attivismo si legano spesso nella pratica dei movimenti. Il veganesimo è anche un’educazione all’eguaglianza, e apre alla ricchezza del mondo naturale senza le lenti rosa della civiltà carnista — che da un lato decanta tale mondo in un’oleografia di piccole fattorie e mucche sorridenti, e dall’altro lo sfrutta industrialmente senza pietà.

A — E se il mondo diventa vegano, gli allevatori che fanno? Del loro dolore non ti importa?

B — Il mondo non diventerà mai vegano così, di colpo, e del resto vale per ogni cambiamento su ampia scala. Si possono studiare strategie. Del resto anche un mondo senza combustibili fossili è quanto mai auspicabile, ma che ne sarà di tutte le persone che lavorano nel settore? È il ragionamento di chi vuole mantenere lo status quo per interesse: in realtà non gli importa affatto dei lavoratori.

A — E se uno decidesse di spendere tutte le sue energie per dedicarsi (e riprendo il tuo esempio) a soccorrere i migranti nel Mediterraneo?

B — Mettere in competizione le giuste lotte è cattiva polemica. Comunque: quante energie davvero richiede cambiare dieta? Tolti i nobilissimi casi, sempre citati come paravento, concordo con Singer: l’idea per cui gli umani vengono prima “è più spesso una scusa per non fare nulla né per gli animali umani, né per quelli non umani”.

A — Però, parliamoci chiaro — e con questo torno al tema dell’ambiente conservatore: se propinassi tutto ciò a uno dei tuoi ex-compagni delle medie, in provincia, la reazione sarebbe: “Ma secondo te non devo sentirmi libero di mangiare quel che mi pare? Dopo una giornata di lavoro? Ma che vuoi da me?” E tralascio le volgarità in aggiunta.

B — Sicuro.

A — Ecco. Davanti a questa risposta, che si fa? Che si dice al pranzo di Natale mentre gli altri affettano il salame, o in pizzeria con quelli della palestra, o in trattoria con i tuoi colleghi? Fuori dalle nicchie più o meno bendisposte, là dove discutere è più difficile ma davvero si può fare la differenza, quali sono le tattiche?

B — Eh.

A — Parlavi del vegano fighetto: e se lo fossi un pochino anche tu, non per fini ma per comodità? Se non fossi più abituato a mangiare fuori dalla tua bolla?

B — Guarda, è il muro contro cui si scontra ogni movimento radicale, e non ho risposte sagaci: occorre valutare caso per caso, avere pazienza, non assumere atteggiamenti sacerdotali. Realisticamente, già instillare il dubbio è un successo. L’alternativa è chiudersi in un ghetto e ripetersi “Ho ragione” allo specchio, senza incidere in alcun modo.

A — Speravo in qualcosa di più.

B — Mi spiace. Intanto spero di convincere te.

A — Un’altra cosa sulle diseguaglianze. Anche nella filiera di frutta e verdura ci sono terribili storture: pensa al caporalato nei campi di pomodori in Puglia. Il business dell’agricoltura non è meno colpevole di quello dell’allevamento, da questo punto di vista.

B — Non solo, il fenomeno è diffuso anche a nord: un report di Terra! parla dello sfruttamento in Lombardia nella produzione di meloni e insalate in busta (oltre che nella filiera dei suini). Ripeto: è un aspetto da tenere nella massima considerazione, ma non lede i principi-base.

A — Ma se a me gli animali non interessano proprio?

B — Nessuno ti chiede di pensare a loro tutto il tempo. Il veganesimo non è l’estensione del concetto di “carino” al regno animale, dalle pecore ai grilli: come ho detto, è un progetto di liberazione. L’aspetto emotivo è una molla fondamentale, ma senza razionalità ha il fiato corto: quasi tutti provano ripugnanza nel colpire un animale, quantomeno un vertebrato, eppure lasciano che altri — spesso persone senza scelta — lo facciano. Perciò diffido un po’ del vocabolario sentimentale: chi dice di amare tutte le bestie, come chi afferma di amare l’intera umanità, mi fa venire i brividi. L’amore è selettivo e capriccioso, e qui abbiamo bisogno d’altro: franco materialismo, azione diretta.

A — Ma secondo te perché è così difficile far passare il tema?

B — Perché non abbiamo un’educazione al riguardo. Ovvio: se portassimo bambini e genitori in gita al mattatoio le conseguenze sarebbero disastrose per il business. Tuttavia c’è anche un motivo più profondo. In un passo poco noto ma davvero sorprendente, Leibniz disse che non percepiamo l’ingiustizia di uccidere le bestie per mangiarle “perché non abbiamo timore che esse cospirano contro di noi”.

A — In pratica perché siamo più forti.

B — Sì. In Dalla predazione al dominio, Gianfranco Mormino commenta così la frase: «Ciò che condanna gli animali alla situazione presente è una dinamica del tutto simile a quella esercitata nei confronti di tutti i deboli, ossia di chi sappiamo non essere in grado di resistere e vendicarsi»; e quindi «intere categorie umane, non sufficientemente minacciose da rendere pericoloso il loro sfruttamento, subiscono una sorte simile a quella degli animali».

A — E vorresti cambiare tutto ciò cambiando la tua dieta?

B — Ma no. Nessuno da solo conta granché: ma la pratica individuale può diventare collettiva, e serve a vivere già ora in un futuro possibile.

ARTICOLO n. 33 / 2024