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ARTICOLO n. 47 / 2023

ESISTE ANCORA L’ITALIANO LETTERARIO?

Questo intervento è stato letto dall’autore alla Camera dei Deputati, in occasione del Forum della lingua italiana, tenutosi il 23 maggio 2023.

“Seguono il navigatore e finiscono con la macchina nell’Oceano Pacifico”. 

Qualche anno fa, tre persone in vacanza hanno seguito con una tale fiducia le indicazioni del navigatore che, pur a un passo dal cadere nell’oceano, sono andate avanti, perché il navigatore ne era certo: la strada giusta era quella. Poco importa che quella non fosse una strada, ma il modo migliore per finire, appunto, nell’oceano.

Leggendo questa notizia su un importante quotidiano nazionale – nella fittissima mole di informazioni e dati prodotti in ogni istante e destinati all’oblio in ogni istante – potremmo chiederci come è successo? E quando è successo? Come è successo, quando è successo, che la nostra specie, la specie cui apparteniamo, ha iniziato a lasciarsi condizionare così tanto dalla realtà esterna? Quando ha iniziato a essere invasa da una così intensa assenza mentale?

Il nostro cervello è esploso a dismisura per milioni di anni. Quasi da sempre, ci è stato possibile, davanti a un cielo stellato, sentire la presenza di milioni di galassie. Sentire l’immensità. Sentire l’infinito. 

Uso la parola sentire e non capire, perché comprendere di essere felici, per esempio, è ben diverso che sentire di essere felici, così come comprendere di provare dolore è molto diverso dal sentire il dolore. Quando qualcosa si sente, la si vive. Se la si capisce, non sempre c’è la conversione: non sempre la stiamo vivendo sulla nostra pelle. 

Si potrebbe dire che i tre turisti, prima ancora che capire il pericolo di finire nell’oceano, non l’abbiano sentito. Non erano affatto nel presente. Con la mente, erano da un’altra parte, come capita in vario modo, a noi tutti, ogni giorno. Per questo appaltavano le decisioni al navigatore. 

La loro caduta nell’oceano, scenografica ma non così drammatica, può suggerire un sorriso, ed è giusto così: sorridere è un atto molto umano, se possiamo. Non deve però farci dimenticare che quei turisti siamo noi. E che noi tutti, ogni giorno, mettiamo sempre più da parte questo sentire, questo vivere nel presente, questo vivere nell’istante.

Si trattava di tre giapponesi in Australia ma, per quanto nel mondo sembra che ci siano ancora persone che non ne siano convinte, ogni essere umano è uguale a un altro: ha sangue rosso e lacrime salate, prova molto amore, prova molto dolore. Ognuno è responsabile della sua vita, certo, ma ognuno di noi è nell’universo, e quindi ogni essere umano (così come ogni essere vivente) siamo noi. Noi non siamo nella natura ma siamo la natura. Non ci siamo noi da una parte e il mondo dall’altra: noi siamo il mondo. 

Naturalmente il punto interrogativo che chiude il titolo di questo intervento – esiste ancora l’italiano letterario? – si configura come un piccolo muro di Berlino, che tiene fuori un’altra parte della domanda: esiste ancora l’italiano letterario, nell’era della distrazione, della disattenzione, o nell’epoca algoritmica che ha messo al centro, come forse mai prima d’ora, le istanze dell’ego? Ego che come una scheggia impazzita invade il mondo, esplode nei mille rivoli del personal branding, fino al confine, spesso superato, dell’autocelebrazione?

E poi: esiste ancora l’italiano letterario, in un contesto in cui il dibattito (letterario e non) si contrae, si spettacolarizza, si infantilizza e in cui è sempre più esasperata la sovrapposizione – tutta del nostro Ventunesimo secolo – tra prestigio e numeri, talento e consenso, in cui in sostanza è molto più facile confondere il successo con l’opera artistica?

E infine: esiste ancora l’italiano letterario in un tempo in cui il nostro sentire è a rischio?

Non si può che chiedere scusa alle grandi domande per le piccole risposte. 

La risposta è sì. 

È innegabile che sono tempi ostici per la lingua letteraria, ma finché esisterà la nostra specie, ne sono convinto, esisterà questa scintilla, questo incantesimo.

Prima di addentrarci, però, è necessario specificare che cosa si intende, qui, per “letterario”. Naturalmente la prospettiva non è qui quella di un linguista, o di un sociologo della lingua, ma di uno scrittore o al massimo di un lettore.

Se prendiamo una ciotola d’argilla piena d’acqua e la svuotiamo, la ciotola ora è vuota. Così sembra. Eppure la ciotola è piena d’aria. Eppure il vasaio, per impastare l’argilla, ha avuto bisogno di acqua. Eppure il vasaio, per cuocere l’argilla, ha dovuto usare il fuoco. E senza l’aria, il fuoco non avrebbe divampato e il vasaio non avrebbe respirato. E poi: il fuoco non sarebbe stato possibile senza legna. E poi: senza la pioggia, senza il sole, senza la terra, non sarebbero cresciuti gli alberi. Quella ciotola, allora, ai nostri occhi può essere vuota, ma è evidentemente piena: di acqua, di aria, di fuoco, di terra, per esempio. 

Lavorare con l’italiano letterario – usare la lingua dentro uno spazio letterario – significa proprio questo: guardare ciò che non si vede. Indossare lenti speciali che permettono di andare oltre l’apparenza, oltre la forma. Reinventare il mondo, ma non a tavolino. Abbattere le pareti del linguaggio. Andare incontro all’ignoto.

L’ignoto non è un fatto vago. È qualcosa di concreto. È lo spazio non previsto, non immaginato. È lo spazio dove non siamo mai stati, il tempo che non pensavamo di poter vivere. Tuffarsi, con le parole, in questo ignoto, significa creare un fatto nuovo: qualcosa di impensato.

In questo senso, lavorare con l’italiano letterario è un atto politico.

La letteratura è fatta di materia, di presente, di virgole, di spazi, di punti e a capo. Ma è viva solo se sa fare questo tuffo nell’ignoto. Così la politica. È fatta di emergenze – come quella molto drammatica di questi giorni -, è fatta di piccole decisioni della vita quotidiana, ed è fatta di presente: ma non è viva se non sa guardare ciò che non si vede. Andare incontro all’ignoto, creare un fatto nuovo, passare dall’arte del possibile all’arte dell’impossibile. Permettere, quindi, ai significati, di proliferare.

Posso scrivere: Maria spegne la luce. Oppure posso scrivere: la luce spegne Maria. 

Se deve esserci una frase giusta e una sbagliata, per la letteratura quella giusta è la seconda. La prima è una frase didascalica, narrativa. È tutto chiaro. La seconda genera infiniti significati. Come può una luce spegnere Maria? E che significa spegnere? È tale l’intensità del fascio di luce da accecarla? O solo da addormentarla? O da immalinconirla? E che tipo di luce è? Da dove arriva? E chi è questa Maria? Una bambina? Di che tempo? O è Maria di Nazareth? Che cosa è successo?

Nel 1980, il poeta Andrea Zanzotto incontra gli studenti di una scuola di Parma. Uno studente gli chiede: «Come mai la poesia contemporanea è spesso difficile da capire?» Il poeta risponde: «C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così […]. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto».

Questa definizione è sicuramente da estendere alla letteratura tutta, e non solo alla poesia. 

L’atto letterario – come l’atto politico – equivale al cammino di un pellegrino. Se ogni viaggio separa la partenza da un arrivo, rischiamo di considerare gli spazi intermedi come un tempo inutile, da dimenticare, o da vivere il più velocemente possibile.L’atto letterario – come, credo, quello politico – invece deve abbattere l’idea di percorso. Tutto ciò che c’è in mezzo tra la partenza e l’arrivo non è più intermedio: è una transizione, una catena di momenti da vivere il più intensamente possibile. Non bisogna accelerare per superarli e per arrivare alla meta – ci sono percorsi lunghi, e non esistono scorciatoie. Bisogna viverli. Appunto: sentirli. In questo modo, tutto diventa reale. Lo spazio in cui viviamo è reale. Il tempo che viviamo è reale. 

L’evento di oggi – leggo – nasce allo scopo di “valorizzare la lingua italiana in una prospettiva legata allo sviluppo culturale del paese”.

Non ho gli strumenti o, come si dice, le ricette, per immaginare come sia possibile valorizzarla. Spero tuttavia che sia possibile, un giorno, quantomeno suggerire che la nostra lingua – la nostra “materna locutio”, quella che, scrisse Dante, “riceviamo senza alcuna regola imitando chi ci nutre” – possa essere valorizzata nella sua complessità, e non bistrattata, trattata solo come uno strumento. Che possa servire a perforare le nostre certezze, i nostri tic, i nostri dualismi. Che possa essere utile a chi scrive, a chi legge, a chi fa politica, a chi vive nelle nostre città e nei nostri paesi, a ricordarci che qualunque sia la nostra attività bisogna essere come specchi. Lo specchio non può fare niente per riflettere un’immagine: può soltanto mantenersi pulito. Che possa, infine, essere il veicolo che ci spinga, come i tre turisti giapponesi, a tuffarci nell’oceano – nell’“oscurità da eccesso”, nell’ignoto, nella vita, nel futuro – ma questa volta senza GPS. E così, nuotare verso nuovi significati che non conosciamo.

ARTICOLO n. 46 / 2023

IL POMODORO DEMONIACO

La mistica del cibo

Se vi foste trovati su un’imbarcazione affacciata sulle rive del nuovo mondo, conquistadores intenti a studiare dove attraccare, vi sareste quasi di sicuro imbattuti in un intrico di rampicanti, vegetazione massiccia e movimenti furtivi nella penombra, un muro imponente di vita che pulsa arrogante e non si cura di nascondersi.

Non è un caso che a molti sembrasse di essere approdati nell’Eden, dove bastava allungare un braccio per trovare cibo offerto dagli alberi.

Una delle piante che avrebbe catturato la vostra attenzione sarebbe stata un groviglio verde acceso, ricco di frutti variopinti dall’aspetto invitante, tondeggianti e turgidi, con quest’aura pericolosamente invitante.

La verità è che la natura delle Americhe era tanto generosa quanto estremamente insidiosa, e bastava ingerire per errore una pianta e le conseguenze potevano essere ben poco gradevoli.

La pizza, la pasta, gli gnocchi rievocano idealizzazioni tipicamente italiane del pomodoro. Rosso, dolce al punto giusto, lo infondiamo di italianità, lo eleggiamo a simbolo di una mediterraneità, di una napoletanità, di una sicilianità che non ammetteremmo mai che qualcuno possa toglierci.

Un simbolo, il pomodoro, quasi scontato per noi italiani, che oggi porta significati non poi così prevedibili rispetto a qualche secolo fa.

Insieme alle patate, tra i prodotti del Nuovo Mondo che hanno subito un lungo e intricato processo di accettazione, i pomodori sono tra i donu dell’orto che hanno incontrato maggiori resistenze al loro arrivo in Europa. I simboli cambiano da un’epoca a un’altra e da una società a un’altra, e sono prodotti culturali, nati da un sentire collettivo, in costante movimento.

Sentito collettivamente come ortaggio per la sua succosità e dolcezza, il pomodoro si è guadagnato un posto di primato nelle cucine del mondo, ma non sempre è stato così ben visto.

Quando, all’inizio del XVI secolo, gli esploratori spagnoli incontrarono per la prima volta i pomodori in America Centrale, si dimostrarono piuttosto scettici rispetto al loro consumo: sulle prime lo scambiarono per una pianta di belladonna che, nell’Europa di allora in cui l’Inquisizione e le persecuzioni contro le streghe erano all’ordine del giorno, non era un vegetale che godeva di una buona reputazione.

Le solanacee – come il giusquiamo, la belladonna, la mandragola e la tromba d’angelo – non solo erano note per essere estremamente velenose: erano anche considerate frutti del diavolo, creati da forze maligne invisibili.

Streghe e belladonna per le superstizioni europee dell’epoca correvano di pari passo, venivano entrambe legate alla sfera del non-noto, del malvagio, facenti parte di quell’insieme di ingredienti usati per la produzione di pozioni e infusi diabolici, che portavano alla licenziosità, alla prostituzione e ad altre attività poco ortodosse.

Anche un’altra pratica, in uso nel centro America, faceva sì che il pomodoro, per quanto innocente, non fosse ben visto: i cronisti spagnoli riportano con disgusto che gli Aztechi sacrificavano i loro prigionieri di guerra, tagliando loro il cuore ancora pulsante per offrirlo al dio Sole. La carne rimanente di alcune delle vittime veniva poi preparata a mo’ di stufato condito con pomodori e peperoncini e servita ai nobili.

Sebbene gli studiosi non siano d’accordo sulla misura in cui il cannibalismo fosse praticato dalla comunità azteca, concordano sul fatto che avveniva occasionalmente, soprattutto per scopi rituali.

Pratica più malvagia e diabolica non poteva esserci per le menti dei conquistadores, che vedevano il Nuovo Mondo come “Terra di Dio” e, così, trovavano ancor più forti motivazioni per le loro missioni di conversione forzata.

Sembravano invece dimentichi che in madre patria, sempre in nome di Dio, ardevano pire per eliminare con il fuoco l’imprevedibilità femminile, le così chiamate “streghe”.

Gli Aztechi usavano i pomodori anche come medicina: purtroppo, la maggior parte delle loro ricette medicamentose sono tuttora molto difficili da eseguire. Per esempio, per curare l’acne si preparava una maschera di escrementi di lucertola, fuliggine e succo di pomodoro.

La bevanda per la convalescenza e il rafforzamento generale ci suonerà certamente molto più gradevole: succo di pomodoro appena spremuto, semi di zucca macinati, paprika gialla e succo d’agave cotto. Per l’asma e altri disturbi polmonari si mettevano i pomodori cotti, il più possibile caldi, sul petto, strofinandoli non appena erano abbastanza freddi assieme al copale, una incenso resinoso derivante dalla pianta di Icica icicariba.

Per i Maya il pomodoro era un alimento di uso quotidiano. Credevano che il succo di pomodoro aumentasse il sangue rosso in cui risiede la forza vitale dell’essere umano, rafforzandone così il corpo. Con il succo di pomodoro fresco si curavano anche le infezioni della pelle e le emorroidi.

La parola tomato, pomodoro in lingua inglese, deriva dalla parola azteca tomatl, che significa “una cosa rigonfia”, mentre i botanici europei hanno dato altri nomi a questo frutto sospetto. Il primo fu lycopersicum, “pesca del lupo”. 

Il termine “pesca” deriverebbe da una descrizione non molto dettagliata di un’antica pianta velenosa egiziana – presumibilmente la mandragola – che aveva anch’essa bacche di colore giallo oro e che il famoso medico romano Galeno aveva citato nei suoi scritti.

Il “lupo” derivava dal fatto che gli europei pagani chiamavano “piante lupo” tutte le piante velenose, caustiche o addirittura “maligne”.

L’illustre medico tedesco e membro della Royal Society dottor Michael B. Valentini (1657-1721), scrisse: il pomodoro «è chiamato ‘pesca del lupo’ perché, sebbene sia piacevole agli occhi, se la gente lo mangia, può venirne uccisa, proprio come dai lupi». Il frutto era chiamato anche “mela d’oro dall’odore fetido”.

Il termine pomodoro è da attribuire al botanico senese Pietro Andrea Mattioli, che per primo documentò il frutto in Italia nel suo Medici Senensis Commentarii del 1544, dove lo definì mala aurea. Lo stesso botanico lo ha tradotto letteralmente in italiano come “pomo d’oro” (per il suo caratteristico colore giallo oro prima dell’ultima fase di maturazione) prima nel suo Commentario a Dioscoride (1574) e poi nel suo Herbarius.

Altri botanici del XVI secolo pensarono a nomi più amichevoli per la nuova pianta, come “mela dell’amore” (poma amoris) o “mela del paradiso”.

Ma anche questi nomi trasmettono una diffidenza di fondo, una paura dell’erotismo e della sensualità. Il frutto, succoso e rosso come le labbra voluttuose, e pieno di semi viscidi, ricordava agli studiosi una fatale tentazione femminile. In Germania, una ragazza attraente viene ancora chiamata “pomodoro caldo” – che potrebbe però rivelarsi aspro – o “pomodoro capriccioso” – e una donna capricciosa viene chiamata “pomodoro con pepe”.

Quando il pomodoro divenne noto, gli studiosi dell’epoca si chiesero se potesse essere il frutto proibito che cresceva sull’Albero della Conoscenza Proibita nel Giardino dell’Eden. Il loro sospetto derivava dal resoconto di Cristoforo Colombo del suo terzo viaggio, che lo aveva portato fino alla foce del fiume Orinoco, sulla costa nordorientale del Sud America. Colombo scrisse che la regione era bella oltre ogni misura, la vegetazione era rigogliosa, gli animali erano pacifici e gli indigeni erano belli e in perfetta salute. Era convinto di essere approdato ai confini del Paradiso, il Giardino dell’Eden descritto nei testi sacri. 

Era mai possibile che i numerosi pomodori selvatici che crescevano in quel luogo fantastico fossero i discendenti del frutto proibito? 

Il nome “mela del paradiso”, già citato in precedenza, si diffuse relativamente. Per esempio, era il nome usato nei Paesi dell’Impero asburgico – Boemia, Slesia, Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Voivodina) e Tirolo; in Scandinavia sono ancora note come “mele del paradiso”: paradisaebleparadisaepplerajčica, o paradižnik, questi i nomi usati in questi luoghi. E oggi a Vienna solo i forestieri comprano “tomate” al famoso Naschmarkt; i viennesi acquistano Paradeiser.

Nell’Odenwald, vicino al Reno, i locali chiamano ancora il frutto “pomo d’Adamo” in ricordo della prima vittima della seduzione femminile. Anche se la gente diffidava di questo esotico “pomo d’amore” o “pomo d’oro”, esso trovò posto nei giardini europei come pianta decorativa, non da mangiare bensì come ornamento, troppo bello per non nascondere insidie.

Quest’aura di bellezza da temere attribuì al pomodoro poteri eccitanti e afrodisiaci che gli valsero appunto nomi come “pomme d’amour” in francese, o Liebesapfel in tedesco, o “love apple” in inglese.

Nella seconda metà del 1600 in Francia, gli spasimanti ne donavano grappoli ornamentali alle loro dame, a far intendere i loro desideri inesprimibili, e stuzzicarne l’appetito erotico.  Gli alchimisti lo impiegavano in pozioni e filtri magici.

Per molto tempo il succo di pomodoro è stato considerato una pozione d’amore segreta, che agli occhi dei Puritani “porta alla licenziosità”.

A poco a poco, però, se ne scoprirono le proprietà medicinali: il frutto rosso era ritenuto in grado di guarire ferite di vario tipo, tanto che il suo succo fresco veniva versato direttamente nella ferita per prevenire l’accumulo di pus e spalmato sulla cute contro lo sviluppo dell’erisipela. Gli esperti di medicina sperimentarono tinture a base di gambi freschi. L’idea derivava dalla forte somiglianza dei frutti della belladonna, che veniva usata per le pustole e le malattie della pelle di natura scrofolosa, come quelle causate dalla sifilide e dall’abuso di pomate al mercurio. 

Secondo il modo di pensare dell’epoca, era logico che questo “pomo d’amore” alleviasse i sintomi della sifilide, la malattia venerea con cui la dea dell’amore sensuale, Venere, aveva colpito l’umanità. Dopotutto, furono i marinai di Colombo a contrarre per primi la terribile malattia sessualmente trasmissibile, portandola con sé dal Nuovo Mondo. La dottrina medica dell’epoca affermava che il luogo in cui aveva origine una malattia era anche quello in cui si poteva trovare la cura.

Ma bisognerà attendere il XVI secolo prima che gli europei prendano in considerazione l’idea di mangiare pomodori, che dovettero passare attraverso i consueti processi di accettazione culturale.

L’incorporazione di questi prodotti nuovi, come molti provenienti dal Nuovo Mondo, entrarono nel meccanismo di sostituzione per diventare accettabili gastronomicamente: l’atteggiamento verso queste novità esotiche era di grande cautela e curiosità, tanto che ci si impiegò più o meno tre secoli prima che il pomodoro (e i suoi compagni, la patata, il mais, il peperoncino, il peperone) venisse adottato definitivamente, entrando nella dieta occidentale in modo così profondo e sistematico che sarebbe difficile immaginare le cucine europee senza di esso.

Il trucco è stato credere di poter trattare i nuovi prodotti in ricette tradizionali, dimostrando la capacità dei sistemi alimentari di rigenerarsi grazie ad apporti esterni e al tempo stesso riaffermare la propria identità: incorporare l’ignoto assimilandolo a sé.

Gli italiani furono i primi a osare mangiare il temuto frutto. Forse fu un innamorato respinto che volle togliersi la vita con la poma amoris, la mela dell’amore; forse cadde sul pane abbrustolito o nella pasta con olio d’oliva, aglio e prezzemolo. In ogni caso, il botanico Gioacchino Camerario il Giovane (1534-1598) scrisse: «In Italia molti hanno l’abitudine di mangiare questi frutti cotti con sale, aceto e olio, ma si tratta di un cibo molto poco salutare». 

In prima battuta si provò a friggerlo in padella come i funghi e le melanzane, ma l’evento decisivo che ne segnò il lancio fu la sua trasformazione in salsa di accompagnamento, utilizzata dal XVII secolo con carni e pesci e infine con la pasta.

Col tempo, l’Italia divenne la seconda patria del pomodoro, che si unì in matrimonio intimo con la pasta, sancendo il definitivo trionfo della pummarola.

Dal Settecento inizia la vera e propria “rivoluzione rossa”, a partire da Napoli, e la pasta si colora di rosso, non solo al Sud ma anche al Nord.

Interi campi di pomodori venivano coltivati anche nell’Italia settentrionale. I contadini della regione di Parma furono i primi a conservarli cucinando il succo o essiccando i frutti al sole.

Attraverso la riduzione del pomodoro a salsa, fu adattato a una fisionomia tipica della tradizione europea: già dal Medioevo i trattati di cucina dedicano moltissima attenzione alle salse, indispensabile accompagnamento a ogni piatto. Anche il pomodoro fu quindi accolto nelle cucine del vecchio continente solo dopo la sua riduzione morfologica a qualcosa di noto: una salsa, che lo rendeva decifrabile dagli usi tradizionali, aggiungendo nuove note di colore e sapore.

Invece, gli europei settentrionali e occidentali e i nordamericani impiegarono molto tempo per superare il grande tabù, anche se l’erborista William Salmon (1644-1713) riferì di aver visto crescere il pomodoro nelle prime colonie americane – nell’attuale Carolina del Sud, nel 1710 – presumibilmente solo come pianta ornamentale. Un colonnello americano di nome Robert Gibbon Johnson fu dichiarato pazzo nel 1820 quando annunciò che il 26 settembre avrebbe mangiato pubblicamente un intero cesto di pomodori seduto nel suo portico. Il giorno stabilito, più di duemila curiosi si presentarono per assistere allo spettacolo e, tra lo stupore di tutti, sopravvisse. 

Nel 1866 nella Germania settentrionale il “pomo d’amore” era considerato una pianta ornamentale, mentre nella Germania meridionale veniva coltivato e consumato come contorno o come ingrediente di zuppe. Ma scienziati e medici nutrivano ancora dei dubbi: sostenevano che, in quanto verdura che produce acidi, il pomodoro acidifica il sangue e i tessuti del corpo, esponendoli a reumatismi, gotta e artrite e, peggio ancora, favorendo il cancro. Oggi sappiamo che è esattamente il contrario. 

Solo dopo il 1920 il pomodoro è diventato veramente popolare negli States. L’industria agroalimentare ha coltivato enormi campi di pomodori ibridi standardizzati nelle nuove aree coltivabili nel deserto della California meridionale. Di conseguenza, il mercato statunitense fu inondato di succo di pomodoro, concentrato di pomodoro, pomodori in scatola, zuppa di pomodoro e ketchup. Per le star di Hollywood, il succo di pomodoro divenne parte del rituale quotidiano al pari del succo d’arancia e degli spinaci; e durante il Proibizionismo un cocktail popolare, il Bloody Mary, mascherava bene la vodka che si nascondeva al suo interno. 

Oggi l’americano medio consuma circa cinque chili di pomodori all’anno.

Non molto tempo dopo, i medici hanno trovato il modo di attestare notevoli vantaggi per la salute di questo ortaggio appena diventato di moda e redditizio. Essi riferirono che i pomodori sono buoni per la digestione, i disturbi dell’ira, la gotta, la polmonite e le affezioni cardiache e renali. I pomodori freschi aumentano la secrezione del pancreas e stimolano il movimento intestinale. Inoltre, sono ricchi di vitamine di alta qualità, tra cui la vitamina C, il carotene, la tiamina e la vitamina E, la “vitamina della fertilità”. Viene raccomandato per contrastare l’acidità di stomaco, la stitichezza, per fluidificare il sangue e per i disturbi legati alla gotta. Si usa anche appenderne gli steli e le foglie negli armadi per tenere lontane tarme e insetti.

Gli antroposofi, tuttavia, hanno ancora dei dubbi sul pomodoro. Notano che questa pianta non ha la forza per crescere sul suo stesso stelo essendo “appesantito dalla materia”. Il botanico Alfred Usteri (1869-1948), di orientamento antroposofico, era sospettoso di quella che definiva «una pianta rapace che prospera sui propri rifiuti e detriti compostati». Egli sostiene che il pomodoro riflette il materialismo che ha messo radici all’inizio del XV secolo e che è l’immagine speculare dell’egoismo umano che ha portato al razzismo, al nazionalismo e al consumismo. Il pomodoro, quindi, può causare malattie nell’essere umano, che rappresentano l’espressione fisica di queste configurazioni mentali. In altri scritti antroposofici ci sono anche avvertimenti sulla “forza espansiva in eccesso” del pomodoro e sulle “forze formative sbagliate che possono contribuire a promuovere il cancro, i reumatismi e la gotta”.

È interessante notare che recenti ricerche indichino ancora una volta il contrario: il pomodoro è anticancerogeno. Infatti, i casi di cancro sono statisticamente meno numerosi nelle zone in cui si consumano molti pomodori. Uno studio ha dimostrato che, grazie all’alta concentrazione di carotene e licopene, è particolarmente benefico per il cancro ai polmoni. Il contenuto di licopene del frutto lo rende anche uno degli alimenti antiossidanti più quotati.

E che dire delle folli fantasie che ritenevano il pomodoro una pianta stregata in grado di provocare pazzia e allucinazioni? Il glicoalcaloide solanina presente nelle foglie e nei gambi dei pomodori è davvero velenoso; può causare nausea, irritazioni alle vie biliari e ai reni, fluttuazioni cardiache, sudorazione profusa, crampi e perdita di coscienza, ma non è assolutamente uno psichedelico. 

A inizio maggio è il momento in cui pianto i pomodori in orto. Queste minuscole piantine, nate da un singolo seme di un frutto, in brevissimo tempo, con il calore del sole della stagione e poca acqua, raggiungeranno una stazza notevole e si riempiranno di grappoli pelosi, pieni di fiori gialli.

Il mio orto a metà giugno diventa un’esplosione di pomodori di ogni genere, pronti a soddisfare la mia voglia di freschezza o a riempire vasi di conserva.

Fino a fine settembre, se lasciate fare, le piante di pomodoro produrranno frutti, riempiendo ciotole su ciotole di frutti ogni settimana.

Non a caso questa pianta veniva vista come infida e demoniaca: da un solo seme si poteva avere un raccolto notevole, una vera stregoneria, opera del demonio.

Io, come molti di voi, ormai accetto che questo frutto azteco sia il protagonista della mia cucina estiva. E mentre mi mangio una frisa coloratissima e profumatissima, mi immergo nel fascino della storia di questa pianta magica.

ARTICOLO n. 45 / 2023

NANNI MORETTI IN FUGA

Il sol dell'avvenire

L’immagine è quella di un uomo di quarant’anni, capelli lunghi e ondulati, fisionomia sottile. Quest’uomo vaga lungo un viale con gli occhi arrossati dalle lacrime, cammina senza pace. È ottobre, è Parigi e quel viale è Boulevard Raspail che quel giorno di ottobre del 1984 apparirà ancora più grigio di come già non sia solitamente. Un viale che è un lungo vuoto che scava non poca angoscia nel mezzo di Montparnasse. Quell’uomo è Jean-Pierre Léaud e ha saputo da poco che François Truffaut è morto. L’uomo che lo ha cresciuto e formato proprio come un padre è morto all’assurda età di cinquantadue anni. Léaud non si dà pace e forse non si darà pace mai più. Siamo nel mezzo degli Anni Ottanta, ma i francesi ancora non lo sanno. François Mitterrand è presidente già da tre anni, molti sono delusi, ma in qualche modo Ronald Reagan e Margaret Thatcher appaiono ancora lontani e con loro appaiono lontane le facce orribili di anni che si pretendono leggeri e spensierati e che non saranno altro che il primo volgare rigurgito di una mostruosità antropologica che oggi i nostri anni accolgono invece con assurda ovvietà. 

La fine della storia non riguardava la storia in sé, i cicli economici e di potere, ma avrebbe riguardato invece le nostre stupide facce intrise di espressioni sempre più prive di memoria. La morte di Truffaut segna in un certo senso un passaggio, illuminato ancor di più durante le sue esequie dall’icastico viso atrocemente bello e straziante di Fanny Ardant. Appariva in quel giorno di lutto sui volti dei presenti la grana spessa del tempo e della memoria. Le storie erano ancora visibili come tatuaggi fissati nel pensiero di chi le aveva vissute e ben percepibili da chi ancora allora sapeva leggere nel prossimo. Gli occhiali scuri erano indossati per non esibire il proprio dolore: quanto stridore con gli occhiali scuri di oggi, inforcati invece solo per evidenziarlo durante funerali assordati dagli applausi. Il gesto è il medesimo, ma l’effetto è decisamente di verso opposto. 

François Truffaut lottò fino all’ultimo, non tanto con la malattia, ma con la propria meraviglia che aveva la forma del fare cinema, e non derogò mai alla propria arte come al proprio desiderio. Quello che allora aveva assunto la forza di un’utopia del possibile oggi, nella migliore delle ipotesi, è solo una pericolante perdita di controllo, un fare cinema ridotto ai minimi termini e sovrastato da apparenza mista a paura, angoscia e panico da sala vuota.

E allora bisognerebbe tornare a Jean-Pierre Léaud, alla sua mano. La immaginiamo mentre scorre sottile tra i capelli per fermarli dietro all’orecchio prima che ricaschino oltre, mossi dal vento e dallo sconforto di quell’ottobre. Torniamo a un attore fragilissimo come dovrebbero essere forse sempre gli attori. Un artista cui va conquistata la fiducia perché si possa fidare e affidare, perché possa essere controllato facendosi guidare fino al punto di offrirsi al proprio pubblico libero e vivo per sé e per gli altri. E vivo per sé e per gli altri Léaud lo è stato in maniera assoluta e splendida. 

Un piacere per gli occhi, un dono raro. Ed è di questa forma di controllo, che seppe offrire Truffaut, e di questa forma di fiducia che seppe offrire Léaud che oggi latita sempre più un’arte cinematografica decadente e a tratti moribonda, in parte nei suoi contenuti, quasi sempre nella sua fruizione. Un cinema che da sala è diventato da cameretta, una forma di fruizione ridotta che non riguarda ormai più il popolare, ma quella che si dice una sua nicchia; che sia ceto medio, più o meno riflessivo conta ormai ben poco.

E attorno a questa forma insieme di riduzione e di mancanza sembra parlare il cappio che sta al centro della scena de Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Cappio con cui dovrebbe impiccarsi il protagonista del film di Giovanni, Silvio Orlando, ma che al tempo stesso sembra destinato proprio a Giovanni. Un regista, quello interpretato da Nanni Moretti, non esplicitamente depresso o privo di idee, perché molti film ha ancora in mente di fare, ma rinchiuso in una gabbia critica e soprattutto autocritica, ormai incapace di cogliere la realtà e il suo senso.

Un suicidio, una morte che aleggia attorno a tutto il film di Nanni Moretti come al film che Giovanni pretende insistentemente come politico. Una morte quasi desiderata, una fragilità esposta eppure inedita al punto da capovolgere il ruolo e il compito di un regista che pare ormai in balia degli eventi (Giovanni) e privo di una poetica che da sempre lo ha caratterizzato (Nanni Moretti). 

Nanni Moretti, in anni in cui il cinema italiano declinava pericolosamente riducendosi a pochi autori (e ancor più a pochi spettatori) e a una produzione di bassa qualità, ha – con Sogni d’oro (1981), Bianca (1984) e La messa è finita (1985) mostrato un’idea del cinema netta e anche divisiva. Un regista che ha sempre imposto un controllo ossessivo nella regia, nel controllo del set e nella caratterizzazione dei suoi personaggi. Moretti ha rappresentato un cinema innovativo, ma fortemente classico nella visione generale, segnato da un tentativo di controllo a tratti assoluto che ha in qualche modo reso impraticabile uno sguardo permeabile, ampio e curioso su una società e su una realtà che il regista romano non sembra più in grado di leggere, prima ancora che di rappresentare. Se nel 1984 Michele Apicella in Bianca uccideva i suoi amici perché non poteva controllarne le storie, oggi Giovanni preferirebbe fare da sé uccidendosi e lasciando perdere tutto il resto. È come se la fragilità dell’attore – quella di Jean-Pierre Léaud sperso lungo Boulevard Raspail – si fosse trasferita ad un regista diventato lui stesso il fulcro e il centro della scena, ma al tempo stesso la sua negazione: perché senza di lui – «mi viene da dirgli: spostati un po’ e fammi vedere il film» disse Dino Risi, non resta più nulla, non c’è nessuna scena, nessun film. Un regista che non controlla, un regista che non decide si trasforma in un film che non può esistere.

Un film su se stesso e per se stesso? Forse, ma anche un film su un regista senza alcuna possibilità di controllo, su un regista che ha perso il controllo di ogni cosa. Un regista che diviene totalmente attore esponendo una fragilità però non curabile. Nessuno dietro la camera può più guidare lui e la scena. Gli attori provano a fare da sé, a darsi un ruolo per conto proprio, ma tutto questo non può funzionare a lungo e infatti non funziona, né nel film nel film e ancor meno nel film stesso. Il funzionare è basilare per ogni macchina perché significa senso e ragione e tutto questo Il sol dell’avvenire non lo ha, restando per altro comunque lontano dall’ambizione di una utopica macchina celibe. E il continuo incespicare in citazioni e autocitazioni – divertenti per chi segue Moretti da quaranta anni – offrono il ritratto di una passione triste che sembra volere per principio oppure ciò che è stato (e non è più ripetibile) a ciò che potrebbe funzionare e forse pure meravigliare.

Un regista può essere sordo (sempre François Truffaut in La nuit américaine) oppure cieco (Woody Allen in Hollywood Ending), ma non può essere fragile, soprattutto se la fragilità va a determinare una totale perdita di controllo, o meglio una voluta perdita di controllo. Il sol dell’avvenire mostra il corpo di un regista che non può – ovviamente – essere il regista di quaranta anni fa, ma al tempo stesso non offre una possibilità diversa di sguardo al possibile regista di oggi e così anche allo spettatore (salvo che per gli spettatori groupie di quaranta o venti anni fa). 

È un garbuglio, un nodo scorsoio pericoloso che rivela una debolezza che non sta solo in Nanni Moretti, ma che probabilmente il regista romano tende a riflettere da una società che della nostalgia ha fatto una mitologia, senza accorgersi però che i reperti vanno maneggiati con cura e non utilizzati come vettovaglie buone per tutti i giorni. Una tensione che resta priva di dramma e colma di stanchezza.

Una stanchezza reale eppure vacua, perché incapace di offrire un’utopia, o anche solo una possibile forma di resistenza. Il controllo è una forma di equilibrio oltre il quale tutto diviene ingestibile, ma è anche una forma di adattamento continuo capace di aggirare la stanchezza. Per raggiungere il quale non basta citare “la storia”, ma occorre mettere in discussione ciò che è stato per individuare una nuova strada, quella più adatta, dare in sostanza un equilibrio (sempre mobile) alla storia e alla sua morfologia.

Mettersi in discussione non appartiene proprio a Il sol dell’avvenire che gioca sì con la storia, immaginandola con i sé, ma con l’unico obiettivo di confermare un’idea precisa e già data. Dare forma a una certezza non dovrebbe appartenere al cinema e alla sua capacità di creare nuovi immaginari. In questo falso movimento che appartiene sempre più all’ultimo Moretti, sicuramente da Tre piani in poi, si avverte una perdita comune del ruolo del regista, di quel mestiere oscuro che lo stesso Ettore Scola faticava a spiegare ai suoi genitori (Silvia Scola, Paola Scola, Chiamiamo il babbo), ma che si palesava in un saper fare dentro al quale ogni elemento della troupe acquistava pienamente senso. 

Ne Il sol dell’avvenire si avverte un liberi tutti, una resa al cambiamento e un assoluto disinteresse per come questo cambiamento possa essere interpretato. Una pretesa di centralità che trasforma la voce di Moretti intesa come sguardo, intuizione e intelligenza in una parodia di se stesso.

Mentre Marco Bellocchio che esordì nel 1965 ancora sembra divertirsi come un pazzo giocando su più piani e con più forme di cinema, Nanni Moretti abbandona il campo chiedendo ai propri attori di fare da sé in un finale celebrativo di un passato che si vorrebbe come una scatola ermeticamente chiusa, ma che rischia solo di dare forma a un presente inadeguato, mentre il mondo vive tensioni inedite e mutazioni radicali. Forse queste attrici e questi attori sapranno fare meglio da soli, alcuni già stanno da altre e in altre parti, ma abdicare al ruolo di guida per un regista come Nanni Moretti assume il segno grave di una sottovalutazione del dolore (proprio e altrui) in nome di una sopravvalutazione di se stessi. Tornando a quell’ottobre del 1984, non si può non vedere come le foto dei funerali di François Truffaut mostrino una forza cinematografica che certamente riguarda solo in parte il grande regista francese. Tra gli scatti si può cogliere a fianco di Fanny Ardant l’interprete dell’uomo misterioso, quello che avvicinandosi alla coppia Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) e Christine Darbon (Claude Jade) in Baisers volés avverte Christine del proprio amore per lei, un amore definitivo e assoluto al punto da dirsi pronto ad attenderla quando lei avrà deciso di “abbandonare il mondo del provvisorio” per unirsi a lui. Chiaro, quello era un tempo in cui non era necessario cercare “il cinematografico” perché tutto per certi versi lo era già, ma credere nel cinema e nella sua funzione vuol dire anche saper creare un immaginario al di là di se stessi e che vale sempre più di se stessi.

ARTICOLO n. 44 / 2023

IL CORPO DELL’ATTRICE, IL CORPO DELL’AUTRICE

Un dialogo

Si può chiamare in tanti modi: contenitore, confine, carne e, in definitiva, possiamo affermare che il corpo è uno spazio che occupa spazio. Generatore di amore, di sgomento, di ammirazione, il corpo non è solo un accidente e non è da investigare solo per estetica o scopi medici, ma è un viaggio, una mappa, una fotografia di quel che siamo, rivelatore di futuro e memoria del passato. Erotico nella sua capacità di legarsi e creare ponti fra: persone, cose, luoghi. 

È su questo oggetto insieme terreno e misterioso che Sonia Bergamasco, attrice raffinata, poeta, musicista sempre alla ricerca di domande, più che di risposte, affida il proprio ragionare e le proprie memorie al suo primo libro in prosa dal titolo Un corpo per tutti, Einaudi. È qui che dispiega i motivi per cui per un’attrice il corpo è tutto e che cosa significa, per lei, avere scelto questo mestiere, che di corpo e di voce ha bisogno, non a caso si dice “dare corpo a un personaggio”, che non è solo un prestito, ma un saper plasmare o modificare una materia già viva. La biografia di un mestiere, come recita il sottotitolo, più che di un’attrice, un libro essenziale per chiunque voglia avvicinarsi alla recitazione e per chi di recitazione sa un bel nulla, come me. Non un memoir, ma una testimonianza, scritto con lingua tersa, onesta e diretta su un mestiere che non parla solo di lei, dell’attrice, ma che riesce a parlare di tutti e a tutti. 

Volevo darle del lei, perché sono sempre molto eleganti le interviste dal tono cortese. Alla fine, però, ha vinto la spontaneità, le risate in un giovedì mattina, quando la distanza dei nostri corpi si è accorciata e abbiamo chiacchierato di che cosa è il corpo, di come lo raccontiamo. 

Melissa Panarello: Per parlare del corpo, inizi dalla voce. Nel libro l’hai resa terrena, anzi terrosa, quando da tutti è considerata aerea. 

Sonia Bergamasco: E questo discorso ti è tornato? 

M.P. Molto! Tu fai gli esempi di Marlon Brando, da cui ti aspetteresti una voce densa e sensuale e invece, scrivi, aveva un timbro opaco e strascicato. Oppure di Monica Vitti, il cui timbro definisci rugginoso e gorgogliante, “slacciato” dalla sua figura. Io ho pensato a Pino Daniele, alla sua voce così sottile che proveniva da un corpo massiccio. E anche a me stessa, che sono alta un metro e quarantanove ma ho la voce di chi supera abbondantemente il metro e mezzo. E di te io ricordo più nitidamente la voce che il viso. 

S.B. Sono così felice che tu lo dica perché la voce è sempre stata in primo piano, per me, anche quando era selvaggia e ineducata. Ha camminato passo-passo con me nel mio percorso di consapevolezza. È il segnale di un tutto, fa parte di un tutto e lo rappresenta. Un attore, un’attrice, sono un coro di voci. Poi c’è la voce quotidiana, quella dritta, della lettura quotidiana, e quella con cui ti presenti.

M.P. È una cosa che capisco benissimo perché ha a che fare anche con la letteratura: ciò che si scrive è diverso da ciò che si dice e ovviamente da come lo si fa. Nei libri una cosa a cui presto moltissima attenzione è la voce dell’autore, dell’autrice. Non tanto quello che scrive né come lo fa ma il timbro, la vibrazione che avverto fra le pagine. Tu nel libro ti definisci un’attrice immersiva, e come scrittrice come ti senti? 

S.B. Ci ho poi ripensato, in realtà. Immersiva lo sono nel senso che il desiderio è quello di sciogliermi nell’altro, però rimane sempre un margine di forma che non riesce a essere completamente abbandonata e quindi c’è un’alchimia necessaria. Nella scrittura forse quello che cerco è il desiderio di pulizia, di chiarezza e di ricomporre drammaturgicamente visioni articolandole in un racconto. Ho cominciato poi con la poesia perché è in rapporto strettissimo con quello musicale, che è stata la mia prima strada e quindi immagino che dalle letture e dallo studio e dall’essere sempre a contatto con un linguaggio musicale, il passaggio a una lingua poetica sia stato molto diretto e facile. Se oggi devo dirti quale scrittore o scrittrice si avvicina più alla mia idea di scrittura, ti dico Annie Ernaux. 

M.P. Mi sono chiesta anche io che tipo di scrittrice sono e di certo posso definirmi immersiva. Questo ha molto a che fare con l’eros, se ci pensi, ovvero l’eterno rapporto fra le cose, che poi è anche il rapporto con il pubblico, come scrivi nel libro. Cos’è l’eros nel tuo lavoro? 

S.B. L’energia che scorre e che rende necessario, credibile e potente quello che si sta raccontando e in definitiva si sta vivendo insieme. Un soffio vitale, uno strumento che unisce e passa attraverso, inteso come legame. 

M.P. Per me l’eros non ha a che fare con il sesso o meglio, ha pure a che fare con il sesso quando è legame; è più che altro un filo invisibile che lega il dentro e il fuori, il te e il me.

S.B. Se ci pensi è potentissimo anche nel bambino piccolissimo. 

M.P. A proposito di bambini, un’altra cosa che mi è venuta in mente leggendo il tuo libro è che a un certo punto i neonati, dopo pochi mesi, si rendono conto di avere un corpo. Mi ero dimenticata di questo fatto, ma ora che ho di nuovo una figlia appena nata mi accorgo che lei non è consapevole di avere delle mani. Lo scoprirà fra qualche settimana e in quel momento si definirà nello spazio. Tu quando l’ha scoperto?

S.B. Ero una bambina allo specchio, avrò avuto sette o otto anni. Mi guardavo per capire chi fossi, facevo piccoli movimenti nello spazio per cercare di definirmi attraverso quello strumento magico che è lo specchio, che sembra riflettere il nostro corpo e invece ci porta chissà dove. Non saprei circostanziare i tempi in cui sono venuta a patti con il mio corpo, so solo di averci messo un bel po’ a non essere soltanto l’idea di un corpo. Però c’è stato anche molto gioco, che mi ha aiutato a sciogliere molte tensioni e incomprensioni che partono da lontano. E forse recuperare il gioco perduto dell’infanzia attraverso il lavoro d’attrice non è casuale, è una possibilità di riappropriarmi del mio corpo intero, di viverlo pienamente e consapevolmente attraverso una forma amata, che è appunto quella del gioco. 

M.P. In questo in effetti gli attori sono dei privilegiati, cioè nella scoperta del proprio corpo. Immagino che i turbamenti e gli scoramenti nei confronti del nostro corpo li abbiamo tutti, voi però avete, per mestiere, la possibilità di attraversarlo e di compiere questo viaggio. Uno scrittore no, si dimentica di avere un corpo. 

S.B. Sì, nella scrittura è più complicato. Però se tu affronti il racconto anche in voce, e se dai corpo a questo racconto e cerchi un rapporto con il pubblico, riesci a recuperare una dimensione più erotica. 

M.P. Un mio amico dice di essersi innamorato di sua moglie per il modo in cui occupa lo spazio. Tu come lo occupi? E che valore dai al corpo delle persone che ami e che condividono con te lo spazio?

S.B. Mi piace la dimensione fisica dell’abbraccio. Ho necessità di vicinanza e presenza. Questo perché caratterialmente, per molto tempo e per timidezza, mi sono preclusa tante possibilità. E adesso, riscoprendo una forma più libera di me stessa, ho il desiderio di stare insieme. 

M.P. Questo in realtà ha molto a che fare con la leggerezza, a un certo punto scrivi che è stata per te una conquista. 

S.B. Bisogna arrivarci alla leggerezza, oppure la possiedi di tuo, anche se è rarissimo. Per arrivarci devi passare attraverso quella che è la tua storia, che anche il tuo corpo ti chiede. Poi ognuno ha i propri tempi, e ciascuno ha i propri traguardi. 

M.P. In effetti uno dei consigli più utili che mi hanno dato da ragazzina, quando ero molto appesantita da sovrastrutture e insicurezze, è stato: sii pop. Una cosa che allora mi sembrò un insulto e invece con il tempo ho capito che essere pop è il regalo più grande che puoi fare a te stesso e ha a che fare con la leggerezza. A un certo punto dice una cosa coraggiosissima: l’arte, la cultura, non servono a niente. Che cosa può riscattare la cultura, oggi? 

S.B. Non si può appesantire l’opera o il gesto artistico di qualsiasi tipo con una missione, significato o descrizione. Bisogna affrontare l’opera per quello che è: una voce che ci dovrebbe aprire a ulteriori possibilità, illuminandoci dentro, che ci deve sconvolgere. Nell’arte non può esserci una visione moralistica del fare, altrimenti entriamo nella scuoletta, in qualcosa che ha a che fare con il ministero. 

M.P. Nel tuo libro parli spesso di memoria. Cosa è la memoria del corpo?

S.B. La memoria vive nello spazio interno del corpo e nello spazio esterno della rappresentazione. C’è insomma un disegno complessivo, quelle memorizzate dall’attore non sono parole in orizzontale che vengono assorbite in una zona più o meno nota del cervello. Scivolano nei muscoli, nelle intenzioni più profonde, devono essere dimenticate, sciolte nel corpo per essere rivissute come azione. Altrimenti restano vuote, come tutte le parole che non vengono davvero vissute dal corpo. Tutte le parole che noi stiamo usando adesso, le mie, le tue, sono parole che passano attraverso un’esperienza fisica, una memoria del corpo, un’esperienza emotiva. È questo che l’attore e l’attrice devono sempre replicare per dare vita a quello che dicono, a quello che fanno, altrimenti è tutto morto. 

M.P. Stai compiendo un viaggio alla scoperta del mestiere dell’attore, dell’attrice. Ti vedremo mai nei panni di Eleonora Duse? 

S.B. Nei panni della Duse no, però la voglio raccontare. Il desiderio è quello di parlare del mio mestiere attraverso un’artista assente, perché di lei non abbiamo quasi nulla se non immagini fugaci, fotografiche, e un solo film in bianco e nero che non la rappresenta compiutamente. In questo periodo è quasi un’ossessione, è un momento della vita in cui sento la necessità di guardare attraverso. Non voglio parlare di me, penso solo che questo mestiere sappia parlare di noi. 

M.P. Io ho capito una cosa leggendoti: gli attori sono la nostra casa, quella di tutti noi. Siamo noi che vi abitiamo, allora. 

S.B. E per questo c’è una grossa responsabilità da parte nostra, di essere all’altezza di questo. Il desiderio però è quello e quando ci riesci tutto rimane vivo e ti regala qualcosa che nessuno mai più ti potrà portare via. 

ARTICOLO n. 43 / 2023

KAFKA. L’ADESIONE AL MONDANO

Pubblichiamo un’anticipazione dalla raccolta di saggi Kafka: (Mimesis) a cura di Riccardo Panattoni e Rocco Ronchi in libreria da oggi. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Schiacciato dall’ammirazione. È quel che provo oggi leggendo e rileggendo Franz Kafka. Da ragazzo ero entusiasta e sfrontato, e invece di ammutolirmi venivo eccitato dalla scoperta di quel modo di raccontare che non somigliava a nessun altro. La lettura mi riempiva di desiderio, un desiderio tanto pungente quanto imprecisato era il suo oggetto. Dire che era la letteratura sarebbe troppo vago: leggerla, studiarla, scriverla, insegnarla? O tutte queste cose insieme? Come impadronirsene? Da dove cominciare? 

Esattamente come si apre il Meridiano Mondadori dei Racconti di Kafka (a quell’epoca di Meridiani se ne trovavano a metà prezzo o anche meno nel Remainders di piazza San Silvestro e nelle librerie dell’usato a via del Pellegrino, a Roma), e cioè con la Descrizione di una battaglia, così ebbe inizio la mia ondivaga carriera di scrittore. 

Già verso la mezzanotte alcune persone si alzarono, sinchinarono, si strinsero le mani, dissero che era stato molto bello e passarono poi dallampia porta nellanticamera per infilarsi il soprabito. 

Fu la struttura della frase a farmi incamminare. Cinque principali coordinate infilate una appresso all’altra, una oggettiva subordinata alla quarta principale e una finale subordinata alla quinta: semplicissimo e funzionale, una partenza subito movimentata, promettente. Ho ancora preciso il ricordo di me che sfogliavo il Meridiano con crescente meraviglia: Smascherato un gabbamondoInfelicità dello scapoloRiflessioni per un cavaliereLa condannaIl cruccio del padre di famigliaSciacalli e arabi (da quel momento e ancora adesso, per me, il culmine assoluto della prosa narrativa) e poi il testo letterario che ho riletto più volte in vita mia, vale a dire Un medico di campagna, fin quasi a mandarlo a memoria nella versione italiana di Rodolfo Paoli, a cui resto irrimediabilmente affezionato. Quindi il mio preferito proprio perché minore nel suo formato, eppure così commovente e comico, Il cavaliere del secchio. Ah, Il cavaliere del secchio! Quando la moglie del carbonaio si stringe al petto il lavoro a maglia, quel gesto domestico inequivocabile… 

Un amore fisico, sensuale, verso il dettaglio.

O quando, racconta il medico di campagna, poggiato l’orecchio sul petto nudo del ragazzo malato, per auscultarlo, questi »rabbrividisce a contatto della mia barba bagnata». 

Ecco, più che per le sue massime insuperabili (se tento di riprodurle mi confondo e parafrasandole le sciupo) o per le sue visioni profetiche, è per questo, precisamente per questo, cioè per aver dato nome al brivido del ragazzo malato, che Kafka merita il titolo di “veggente”. 

Sul fianco destro, verso lanca è aperta una ferita grande come il palmo di una mano; di color rosa, in diverse gradazioni, scura in fondo, più chiara verso gli orli, leggermente granulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aperta come la bocca duna miniera. Vista da lontano è così. Ma da vicino appare ancora più grave. E come guardarla senza ansar lievemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei di suo, spruzzati anche di sangue, brulicano, trattenuti nellinterno della ferita, colle testine bianche e le numerose zampine tendenti verso la luce. Povero ragazzo, nessuno ti può aiutare… 

(N.B. Volevo chiudere la precedente citazione, ma non sapevo dove, non trovavo le connessure, il discorso formava un tutt’uno, inarrestabile… come un nastro di Moebius.) 

Ho scoperto la sua orrenda ferita; questo fiore nel tuo fianco ti farà morire. La famiglia è felice, perché mi vede allopera; la sorella lo dice alla madre, questa al padre, il padre ad alcuni ospiti che entrano, in punta di piedi, tenendosi in bilico con le braccia distese, dalla porta rischiarata dal lume della luna. »Mi salverai?» sussurra singhiozzando il giovane, abbagliato dalla vita che ferve nella sua ferita. Così è la gente del mio paese. Chiedono dal medico sempre l’impossibile… 

Sgombro il campo dall’equivoco: per me “veggente” è colui che vede la realtà, nella realtà, non oltre di essa, poiché ciò che si trova oltre di essa è comunque realtà. Il veggente riesce a sopportare la visione di ciò che semplicemente è, e a reggerla insieme (per uno scrittore vuol dire nella gabbia della pagina – che non è solo un formato tipografico). Nessun elemento di ciò che il suo sguardo contempla è irrilevante, dunque gli occorre pazienza e un notevole coraggio per accettare la dismisura del compito di indagarla. La sua eventuale attitudine mistica consiste, semmai, in questa accettazione integrale dell’esistenza, di cui nulla va deprezzato come residuo o scarto. 

Ed ecco un narratore che la vulgata vorrebbe ripiegato su se stesso, introverso e sognatore, timoroso della vita che costantemente lo elude e lo mortifica e dunque proiettato verso mondi interiori o ulteriori – insomma un simbolista, un cabalista, uno scrittore di incubi – e invece risulta implacabilmente fattuale, fisico, sensuale, attivo. Kafka incalza il suo lettore investendolo con una serie ininterrotta di gesti, ambienti, abiti (tantissimi abiti minuziosamente illustrati, nella sua prosa, come nemmeno in Francis Scott Fitzgerald…), gente che si veste e si spoglia, entra ed esce, protesta, minaccia col pugno chiuso, cappelli che si levano nel saluto, pozze di birra in terra, chiodi sporgenti che graffiano le scarpe, cavalli irrompenti, ferite, frustate, asce, lanterne, carbone, sciacalli che bevono sangue, gambe doloranti, baci a cameriere, sottane che scivolano sul pavimento. E poi cinghie, catene, forbici, pulci, dadi… 

Lasciano attoniti le descrizioni come quella che dà inizio al Cacciatore Gracco, con quelle frasi allineate una appresso all’altra, come fosse l’ekphrasis di un paesaggio fiammingo, per due pagine di pura registrazione visiva, fino a spezzarsi con la secca domanda che l’uomo in barella rivolge al sindaco (il quale, va notato, ha in testa »un cilindro listato a lutto»: ma perché “listato a lutto”? come gli sarà venuto in mente, a Kafka, questo dettaglio?): »Chi sei?» 

Dunque l’effetto spiazzante e inebriante che scambiavamo per onirismo e per un attributo della letteratura fantastica, catalogandolo secondo l’equivoca formula del “realismo magico”, si deve, al contrario, proprio alla cocciuta resistenza di Kafka ad alterare la realtà, ad apportare una qualsiasi modifica al suo dettato, per esempio arricchendola o stilizzandola alla maniera primitiva o stravolgendola oppure ancora scavalcandola per volare chissà dove, secondo le ricette e i manifesti programmatici di una delle tante baldanzose avanguardie della sua epoca. È singolare come Kafka vi resti totalmente estraneo: non ostile (Kafka non è ostile a nulla), bensì, alieno. Forse deriva da qui il turbamento che tuttora si prova nel leggerlo, mentre, tanto per fare un esempio, ci suonano innocuamente scontati, oramai, i cari tartagliamenti futuristi o il déréglement programmatico di Breton, Aragon e soci, che allora destavano scandalo. Siamo talmente disabituati a questa nettezza, a questo aderire senza ritegno al lessico minimo di cui sono formate la lingua e la vita, da scambiare il brivido che ci comunicano per una deformazione onirica. Come quella coniugale, la fedeltà al reale è in effetti un’ossessione più morbosa ancora del desiderio di evaderne.

Di “magico” la scrittura di Kafka ha piuttosto il carattere della vocazione, della più elementare nominazione. »La magia non crea, bensì chiama»: è dunque una forma di appello, di classificazione e certificazione dell’esistente, grazie a cui si rende manifesto e, per così dire, glorioso, tutto ciò che normalmente resta negletto. L’esatto opposto della trascuratezza. Nominando – allinea, giustappone, mette ordine, illustra. È un mezzo di contenimento. Edifica un equivalente verbale del mondo, per renderne lo splendore che sarebbe altrimenti opacizzato. Mentre la musica potenzia le emozioni, la scrittura le mette in chiaro. 

Sono tornato, ho attraversato lingresso e mi guardo intorno. È la vecchia fattoria di mio padre. Lo stagno nel mezzo. Vecchi attrezzi inservibili, aggrovigliati luno sullaltro, impediscono di passare alla scala del solaio. Il gatto è appostato sulla ringhiera. Un panno mezzo strappato, legato una volta per gioco attorno a un palo, si agita al vento. Sono arrivato. Chi ci sarà ad accogliermi? Chi aspetta dietro luscio di cucina? Dal camino esce fumo, stanno preparando il caffè serale. Sei a tuo agio, ti senti a casa tua? 

Talvolta questo inventario magnifica lo “splendore della vita” da cui siamo circondati, talvolta invece suscita un pungente senso di estraneità – che però fa risaltare in modo ancora più tagliente il profilo delle cose. L’estraneità come una pellicola di smalto. 

È la casa di mio padre, ma le cose vi stanno freddamente luna accanto allaltra, come se ognuna di esse fosse intenta alle proprie faccende che io ho in parte dimenticato e in parte non ho mai conosciuto.

Può darsi che la sorprendente e inesausta “adesione al mondano” di Kafka derivi, come sostiene Ferruccio Masini, da una radice spirituale ebraica, secondo la quale non si può e non si deve svalutare l’immanenza poiché è in essa che si rinviene la possibilità stessa del miracolo. Il mondo visibile include il mondo invisibile, esattamente come l’amore sensuale include quello celeste: e proprio perché lo contiene, la materia trova nello spirito le forze necessarie a nasconderlo in sé fino a farcelo scordare. Quel che chiamiamo “romanzo” (e la ragione per cui resta distinto dalla “poesia” e della “filosofia”) non è che una sfrenata, sacrificale dedizione al mondano, una devozione assoluta verso il visibile e le sue figure (umane, animali, naturali), al fine di renderne evidente il mistero costitutivo senza bisogno di ipotizzarne e indagarne un altro che si nasconda dietro le sue apparenze. Se un dio si degna di abitare il romanzesco, si tratta di un Augenblicksgott, una divinità momentanea, un dio del batter d’occhio, che esaurisce la sua funzione in ogni singolo accadimento, e scompare una volta compiuto il suo miracolo, miserabile oppure portentoso, che ora potrà essere una festa da ballo, ora un convegno amoroso o una grande battaglia, una visita medica, un paio di orecchini rubati, venduti, impegnati, smarriti e poi riapparsi, la scrittura di una lettera maliziosa o straziante, una vendetta tra bande di ragazzi, una sbronza, un naufragio, l’uccisione di un mostro e quella di un innocente, un atto di coraggio e uno di codardia – alcuni di questi eventi clamorosi, altri senz’altro banali, ma tutti egualmente decisivi, nessuno irrilevante – per il romanzo, intendo, solo per il romanzo, e non per la storia o per la morale o per la legge, che invece avanzano la giusta pretesa di soppesare e discriminare. Il grano e il loglio nelle pagine di romanzo hanno pari valore e pari opportunità – e così i buoni, i cattivi, i mediocri. Non stupisce nelle conversazioni di Kafka il persistente richiamo a Goethe, allo scrittore olimpico per eccellenza (»Goethe ha detto quasi tutto ciò che può essere detto su noi uomini»), e ancora di meno stupisce quello a Kleist, e alla sua lingua »chiara e universale», alla sua prosa »senza acrobazie verbali, senza commenti e senza elementi di suggestione».

Molti tuttora si affaticano a interpretare allegoricamente l’impenetrabile Davanti alla legge; mentre io fin dalle prime letture ne trascuravo il significato (troppo arduo per me da scandagliare e comunque inattingibile – e chissà, almeno in parte una beffa, addirittura una parodia, un pastiche di parabola chassidica), mentre mi sentivo irresistibilmente attratto dalla pura sciarada delle frasi, quella concatenazione implacabile che invano avrei cercato per tutta la vita di riprodurre, riuscendo tutt’al più a simularla.

E siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell’oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. 

Sto dicendo soprattutto della seconda parte del racconto, la cui prodigiosa progressione si incrocia, a canone inverso, con la regressione del povero uomo di campagna verso la vecchiaia e la morte. Le ultime quattordici frasi del racconto, da »Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano senza interruzione» al rintocco fatale di quell’«Ora vado a chiuderlo» formano una sequenza che è pura Ἀνάγκη, Ananke, qualsiasi forza per i Greci si nascondesse in quel nome: la necessità, ciò che non può che essere, ed essere esattamente così – insomma, l’ineludibile, l’inesorabile. E tutto come effetto di una sciarada di frasi! Che si leggono d’un fiato con la sensazione di esservi costretti.

La lettura di Kafka rappresenta spesso un’esperienza punitiva e soverchiante, ma proprio per questo fonte di godimento. Il disagio è causato dalla elementarità dell’incardinamento sintattico, dalla linearità quasi disumana del discorso e dalla sua capacità di avvincere malgrado la storia stia conducendo, obiettivamente, a una delusione, a un fallimento, o a una vera e propria catastrofe: come nella discesa nel Maelstrom descritta da Poe, quello sprofondare nel vortice, ecco, suscita ammirazione, e persino una paradossale forma di sollievo. Perché, insomma, se ha da essere per forza così, che sia. Se alla fine K. deve morire senza aver mai saputo di cosa era accusato – ebbene, che muoia! 

(Per una volta non suona enfatica l’espressione francese “je suis ravi”: una lettura di questo tipo è a tutti gli effetti un rapimento). 

“Inesorabile” vuol dire, alla lettera, che è inutile rivolgergli preghiere (in-ex-orare), non cederà alle suppliche, se è scritto che deve accadere accadrà comunque, spazzando via l’ostacolo di ogni parola superflua – ma non di colpo, bensì per gradi, una frase dopo l’altra. Invece che risalire in superficie si sta scendendo nel cerchio inferiore, anzi si è oramai scesi. Inesorabilmente. Come appunto nel Maelstrom. 

Proprio per la sua gradualità, la sua sconcertante progressione (sconcertante appunto perché imperturbabile, si direbbe quasi burocratica – in definitiva una “pratica da sbrigare”, come quelle che Kafka si ritrovava sulla sua scrivania di impiegato presso l’Istituto di Assicurazioni per gli Infortuni sul Lavoro), il cambiamento di livello non viene immediatamente avvertito, le ombre si allungano proiettate in un altrove (il futuro? il destino? o semplicemente le proposizioni che seguiranno?), seminando un’inquietudine calma, come nelle pagine di apertura del Processo, o nella minuziosa descrizione della macchina ad aghi che infligge la pena al condannato ne La colonia penale, o nell’intero impianto di un romanzo esasperante come è Il castello. La sintassi in perenne movimento, ma mai per un istante in subbuglio, sempre ben allineata e sommessa, talvolta persino scolastica, infila i quadri degli episodi l’uno nell’altro sicché risulta impossibile scollarsene – sei costretto, sì, costretto ad andare avanti, spinto in avanti. E intanto le ombre si allungano, cambiano forma…

Anche per questo fu geniale l’idea di Orson Welles di commissionare il prologo del Processo all’animatore Aleksandr Alekseev, con la sua magica tavola di spilli, una complicatissima macchina produttrice di visioni ondeggianti, ombre, immagini in metamorfosi perenne e senza spiegazioni – perfetta dunque per Davanti alla legge come per Il naso di Gogol’ o Una notte sul Monte Calvo. Fantasmagorie create da una tecnica certosina. Un milione di spilli che perforano lo schermo cambiando inclinazione, simili a quelli che iscrivono la sentenza nella carne del condannato. 

Una macchina romanzesca automatica come quella di un feuilleton ottocentesco e indifferente come il congegno che infligge il supplizio al condannato ne La colonia penale viene applicata da Kafka (impersonalmente – ma stavolta sul serio, assai più sul serio che presso naturalisti e veristi, che quella macchina avevano inventato) per narrare sequenze di fatti a prima vista poco significativi, puntando esclusivamente sulla chiarezza della concatenazione sintattica, che risulta trascinante appunto perché insindacabile, non soggetta ad alcuna trattativa. L’effetto comico che ormai molti sostengono essere la chiave giusta in cui vada letto Kafka, sostituendo un nuovo dogma a quello canonico dell’angoscia, dell’incubo e dell’assurdo che ancora imperava ai tempi in cui iniziavo a leggerlo io (e da cui discende l’infelice e abusato aggettivo “kafkiano”), sta tutto in questa millimetrica impassibilità, che al cinema negli stessi anni veniva raggiunta e perfezionata da Buster Keaton, un altro autore che lascia sbigottiti per la ritrosia a farsi catalogare. Che cosa infatti sarebbe il suo cinema – esistenzialismo, surrealismo, slapstick? Fa ridere, non fa ridere, oppure fa pensare – ma a che cosa, esattamente? Insomma, cosa produce, a cosa conduce la sfilza di disavventure inanellata da quell’uomo perplesso in camicia e pork-pie hat messo di traverso? 

Kafka si ritaglia un ruolo laterale nel processo della vita: diceva di non essere un giudice, semmai uno sottoposto al giudizio – anzi no, ancora meno, »un semplice usciere ausiliario». Anche per questa, chiamiamola così, modestia, bandisce dalla sua pagina ogni tipo di virtuosismo narrativo o linguistico, poiché «il virtuoso adopera la sua destrezza per porsi al di sopra delle cose». Mentre Kafka non è mai “al di sopra”, non può essere al di sopra di niente e di nessuno. La corda della realtà non è tesa in aria, ma vicino a terra: la terra su cui saltella un po’ goffamente la grigia cornacchia del suo cognome. Sarebbe sciocco e artificioso dunque sforzarsi a »introdurre miracoli negli avvenimenti quotidiani»: «è la normalità a essere già di per sé miracolosa!» avvisava Kafka a beneficio del giovane amico Janouch, il segreto si nasconde qui vicino, »ce l’abbiamo sotto il naso», non ha bisogno di nascondersi »dietro avvenimenti straordinari» né noi di alonarlo con effetti poetici o magici. Basta attendere, e il mondo »ti si torcerà davanti in estasi», in attesa di essere semplicemente descritto. »La quotidianità è il più grande romanzo di gangster che ci sia…». 

L’azione prosegue magari tortuosa ma imperterrita in una specie di presente assoluto (anche quando i verbi si coniugano al passato remoto), un susseguirsi che non s’interrompe mai con flashback, antefatti, riprese, come se la mano non si staccasse mai dal foglio per un ripensamento, o meglio, come se la mente che in realtà è torturata senza posa dai ripensamenti non rinunciasse mai a darne subito ragione sulla pagina, qui e ora, pur continuando il suo cammino. Una mente in movimento, in perenne trattativa con se stessa. 

Si porti a esempio lo strepitoso capitolo ottavo del CastelloAspettando Klamm. È inutile che io qui ne riassuma la circostanza: sono nove pagine di pura frustrazione lavorata all’uncinetto, non si potrebbe tirarne via un filo o una frase che si smaglierebbe tutta, e culminano nella scena del cocchiere che dalla sua slitta offre un po’ di cognac e di ospitalità all’agrimensore infreddolito e deluso – e subito K. si sente rivivere, si rianima nel morbido delle pellicce che ricoprono l’interno della slitta, e al profumo dolce e caldo del liquore. Così la sua mortificante attesa si è trasformata per miracolo (il miracolo del cognac?) in esultanza, e in un sentimento assurdo quanto autentico di invulnerabilità. 

Allora parve a K. che qualsiasi collegamento con lui fosse stato interrotto e che egli fosse più libero ora di quanto fosse mai stato, e potesse stare lì, in quel luogo altrimenti vietato, ad aspettare tutto il tempo che voleva, e avesse conquistato tale libertà come nessun altro sarebbe forse stato capace di fare, e a nessuno fosse lecito toccarlo o scacciarlo, anzi neppure dirgli una parola, solo che (questa convinzione era almeno altrettanto forte) nulla fosse tanto insensato, tanto disperato, quanto questa libertà, questa attesa, questa invulnerabilità.

È probabile che oggi qualsiasi casa editrice rifiuterebbe il manoscritto del Castello, qualsiasi consulente lo mollerebbe dopo averne “annusato” (si dice così nel gergo editoriale) qua e là gli smisurati dialoghi, le sfinenti tirate su chi è Klamm, dove sta Klamm, cosa desidera Klamm, e quando arriva Klamm – cioè il tipo di questioni che, alleggerite e stralunate, trent’anni dopo l’uscita del romanzo avrebbero fatto la fortuna del teatro di Samuel Beckett. Eppure di quel libro ostile e inclemente resistono per me come puri oggetti di venerazione innumerevoli pagine, paragrafi e periodi come quello che qui sotto riporto, formato da dodici proposizioni, con le subordinate che si aggrovigliano intorno a uno spunto semplicissimo (»Il padre cercava intanto di spogliarsi da sé…») per cedere poi al passo spedito delle tre coordinate che chiudono l’azione – per il sollievo del lettore. 

Il padre, sempre scontento che la madre fosse accudita per prima, cosa che però succedeva solo perché la madre era ancor più bisognosa daiuto di lui, cercava intanto di spogliarsi da sé, forse anche per punire la figlia della sua presunta lentezza, ma sebbene avesse cominciato dalla cosa più semplice e superflua, dalle enormi pantofole in cui i suoi piedi quasi nuotavano, non riuscì assolutamente a sfilarsele, dovette ben presto rinunciarci con un roco rantolio e si appoggiò di nuovo rigido alla sedia.

Questa era la mia lavagna, il mio esercizio, a questo tipo di scuola l’apprendista scrittore andava pieno di voglia di imparare ed emulare, mettendoci tutta la diligenza possibile, quella a cui lo stesso Kafka fa cenno quando parla dei »compiti a casa ben fatti».

»Alla scrivania, lì è il mio posto, la testa fra le mani, quella è la mia posizione». Tutto qui il mestiere dello scrittore. Ci vogliono anni per tirar su il secchio, e un istante solo perché esso ripiombi giù nel pozzo. 

Il principio comunque è elementare: va nominato anche ciò di cui non varrebbe la pena parlare, anzi soprattutto quello, »per non tralasciare nulla, affinché dopo non nascano discussioni» – lo stesso atteggiamento, beffardo ma in definitiva onesto, che tiene il guardiano della Porta della Legge, quando intasca i doni con cui l’uomo di campagna tenta di corromperlo affinché lo lasci entrare: »Li accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa». La prosa di Kafka è egualmente imparziale: accetta tutto, alla maniera dei grandi scrittori realisti, e dei santi. A torto si crede che questi ultimi rinuncino a tutto pur di scalare i cieli: in verità se li guadagnano accogliendo tutto.

Dicevo che non esistono passato e futuro nella prosa di Kafka, non nel senso dei tempi verbali, ma dell’eventualità che la narrazione possa spostarsi avanti e indietro, o arrestarsi per poi riprendere da un punto remoto dopo lo stacco, oppure cambiare voce, come la letteratura ha imparato a fare dal nono libro dell’Odissea, nel momento in cui Ulisse comincia a narrare in prima persona le sue passate disavventure. Unità di tempo e di azione caratterizzano i racconti e i romanzi di Kafka come (credo) in nessun altro scrittore moderno, il che rende spaventosamente semplice la struttura complessiva che li regge: una pura sequenza di fatti. Basterebbero a illustrare questo principio le ultime inarrestabili pagine del Processo, di abbacinante nitore fattuale, o (un esempio come un altro), i Fragmente dell’autunno 1920. 

Due uomini sedevano a un tavolo di rozza fattura. Una lampada a petrolio vacillante pendeva sopra di loro. La mia patria era lontana. 

«Sono nelle vostre mani», dissi. 

«No», disse uno dei due uomini, che si teneva ben dritto e affondava la mano sinistra nella barba piena, «sei libero e per questo sei perduto». 

«Allora posso andare?» chiesi. 

«Sì» disse l’uomo e mormorò qualcosa al suo vicino mentre gli carezzava benevolmente la mano. 

»Il sospetto costante è che si tratti di Verismo», ha scritto Roberto Calasso, e non dello “straordinario” nel senso dei racconti di Poe. Le mie impressioni di lettura di questo ultimo anno concordano con quelle di Calasso: in controluce appare Dickens, piuttosto che Hoffmann – anche perché all’interno dell’impianto solidamente realistico in Dickens è presente e incluso anche lo straordinario, il bizzarro, l’eccentrico, persino il delirante. Del resto non vi è nulla di più palpabile e concreto del delirio. La vita di noi uomini ne è la prova. Per cui mi sono messo a caccia di pagine e spunti dickensiani, ed eccone di seguito un paio, dai Quaderni in ottavo

Sopra una panca di pietra accanto alla porta, stava seduto un uomo gigantesco, le gambe accavallate, le mani incrociate sul petto, la testa appoggiata indietro, con lo sguardo rivolto al cespuglio di fronte a lui, che gli toglieva tutta la visuale. Guardai involontariamente, con aria interrogativa, la donna. »Questo è il mammalucco», disse lei, »non lo sai?». Scossi la testa, guardai di nuovo l’uomo con stupore, specialmente il suo alto berretto di pelo d’agnello, ma poi venni fatto entrare in casa dalla vecchia. In una piccola stanza sedeva a un tavolo coperto di libri ben ordinati un vecchio signore con la barba, in veste da camera, che di sotto la campana del lume da tavolo guardò verso di me. Naturalmente pensai di essermi sbagliato, e mi volsi per uscire dalla stanza, ma la vecchia mi sbarrò la strada, e disse al signore: »Il nuovo ragazzo del latte». »Vieni qui, piccolo marmocchio», disse il signore ridendo. Io mi sedetti allora su un panchettino vicino al suo tavolo, e lui accostò il suo viso vicinissimo al mio.

Potrebbe essere un capitolo espunto da Grandi speranze, l’atmosfera di mistero è la stessa di quando Pip incontra i forzati lungo il Tamigi. O ancora leggete questa: 

Un gran berretto tondo di agnello gli stava ben calcato sulla testa. Dei folti baffi gli si aprivano, rigidi, sul viso. Quanto al vestito, portava un largo cappotto marrone tenuto raccolto da un poderoso sistema di cinghie che ricordavano i finimenti di un cavallo. In grembo aveva una corta sciabola ricurva dentro un fodero pallidamente rilucente. I piedi erano infilati in un paio di stivali di montone provvisti di speroni, un piede era posato su una bottiglia di vino rovesciata, l’altro, sul pavimento, era un po’ rialzato, e col calcagno e lo sperone puntato contro il legno.

Di nuovo il berretto di agnello! Be’, se non si tratta di vero e proprio realismo, è il romanzo di avventure, che dal realismo discende. Abbiamo detto che nulla appare mai cruciale, nelle storie di Kafka. Si procede gradualmente per intensificazione, ed è questo forse l’unico elemento davvero fiabesco, il tratto comune con lo schema antico di costruzione dell’avventura (oggi dei videogiochi), vale a dire un modello a gradini, col superamento (o il fallimento) di prove in successione sempre più difficili, una sequela di controlli, ostacoli, di porte e di guardiani sempre più ostili, man mano che scemano le forze per affrontarli e aumenta quella che in Kafka sembra la condizione umana più diffusa: la stanchezza. Sentirsi venir meno, eppure continuare, continuare… continuare. Avevo cominciato ad appuntarmi i brani in cui si di- chiara l’invincibile stanchezza dei personaggi di Kafka, ma poi, a mia volta stanco, ho smesso, sono innumerevoli, se ne potrebbe riempire un intero quaderno. Ho immaginato lo stremo di questo insonne che riempie incessantemente i suoi, di quaderni, in vista di un’opera che secondo lui avrebbe dovuto restare privata e quindi cessare definitivamente di esistere, pagine di »documenti personali di debolezza umana» da cui invece gli amici »si sono messi in testa di cavare letteratura». 

Com’era possibile che lui dovesse sentirsi così invincibilmente stanco proprio in quel luogo, dove nessuno era stanco o dove piuttosto tutti erano continuamente stanchi, senza che però il lavoro ne risentisse, ma anzi, pareva che ne traesse giovamento? Se ne poteva dedurre che si trattava di una stanchezza di tutt’altro genere da quella di K. Lì era stanchezza nel bel mezzo di un lavoro felice, qualcosa che all’esterno pareva stanchezza, ma che in realtà era quiete indistruttibile, pace indistruttibile. Se a mezzogiorno si è un po’ stanchi, questo fa parte del felice corso della giornata. 

Le prove da superare in successione del Castello ricordano avventure come quella di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, l’enigmatico poemetto anonimo del XIV secolo: e anche lì il vanaglorioso Galvano non le superava, anzi falliva, ritirandosi pieno di vergogna. In verità, il romanzo cavalleresco fin da sempre, e non solo al suo tramonto con il Don Chisciotte, inanella sconfitte e umiliazioni. Il fallimento dunque non è affatto una peculiarità “moderna” (Onegin, Oblomov, Zeno Cosini, Madame Bovary, gli Indifferenti, il console Firmin, Lily Bart, l’agrimensore K.), anzi, sembra essere fin dall’antichità il destino segnato degli eroi, e non appannaggio degli anti-eroi contemporanei. Sterilità, nevrosi, vergogna, impotenza, indecisione, lacrime copiose, involontaria comicità, solitudine, follia e ripiegamento sono iscritti nel codice dei miti millenari. Il Re Pescatore non se l’è inventato Eliot per The Waste Land, sanguinava da secoli, forse da sempre. Sarebbe un’occasione d’oro riconsiderare le categorie dell’Antico e del Moderno servendosi di Kafka come guida, facendo luce sulle epoche in vista di una loro riconfigurazione. 

(Nell’Edda di Snorri Sturluson, il castello del Gigante che ha beffato Loki, l’astuto dio beffatore, e umiliato lo strapotente Thor, facendolo battere nella lotta da una vecchietta, si rivela vuoto, illusorio. Quando sconfitti e derisi gli dèi lo abbandonano, alle loro spalle il castello si dissolve). 

Ho detto che la costruzione a gradini tipica di molte sue storie (dalla singola pagina lavorata delle brevissime prose come Il rifiuto, al grande formato del Processo e del Castello, e anche del picaresco America) ha di fiabesco soprattutto il principio dell’intensificazione. Intensificazione di cosa? Del dolore, della sensualità, dello spirito avventuroso, della mesta allegria, del distacco oppure, sul lato opposto dello spettro emotivo, del riso compassionevole – quel tipo di mitezza caratteristico di chi ha doppiato il capo della conoscenza ma depone ogni tentazione di compiacersene. Non più contrastanti tra loro, convergono in un medesimo punto compimento e distruzione, quasi come fossero sinonimi, e forse in effetti lo sono. »Vi è un punto oltre il quale non vi è ritorno. Questo è il punto da raggiungere». Stupiscono il coraggio di un’affermazione tanto perentoria, e, persino nel culmine dell’angoscia, la mancanza di tragicità. Il tragico è stato prosciugato dalla stessa tragedia in corso, come le lacrime consegnano a chi le ha versate il sollievo dell’aridità. Il dissidio viene composto dalla precisione con cui lo si prende su di sé, lo si fa proprio in modo integrale. Non so se abbia senso parlare di rassegnazione, o stoicismo, o di sublime saggezza, o di semplice assunzione di responsabilità artistica verso la vasta materia della vita. Si potrebbe persino sostenere che vi sia maggiore compiutezza artistica in certi appunti da quaderni e fogli sparsi, che si rinvenga, cioè, una suprema per quanto paradossale finitezza nel non-finito kafkiano. Forse perché nell’ossessività circolare dei frammenti più ancora che nello svolgimento romanzesco (il quale necessita sempre di qualche aggiustamento di tiro in vista di ciò che seguirà) è presente in purezza il realismo radicale di Kafka, cioè la registrazione senza interferenze o diaframmi, sino al limite della tollerabilità, di ciò che appare vivente: figure, forme e gesti. Tutto reso attuale e stagliato in una transitorietà assoluta che, a ben pensarci, sta agli antipodi del progetto romanzesco. Certi incipit formidabili restano per forza sospesi, e interrotti, appunto perché a loro modo compiuti, esausti, perfezionati e dunque liquidati dalla loro stessa perfezione. Compimento e distruzione, compimento nella distruzione. 

Prendiamo alcuni dettagli gratuitamente esatti come, ad esempio, questo che segue: il bambinesco gioco al rialzo del trombettiere. 

All’ombra dell’albero, sedeva un giovane che si dondolava sulla sedia, incurante di tutto ciò che accadeva intorno, lo sguardo perduto in cielo a seguire il volo degli uccelli, e che si esercitava in segnali militari su un corno da caccia. Era una cosa utile come qualsiasi altra, ma ogni tanto il comandante ne aveva abbastanza, e allora, senza alzare gli occhi dal lavoro, faceva cenno al trombettiere di smetterla; e quando questo non serviva, si girava e gli urlava qualcosa; allora per un po’ c’era silenzio, finché il trombettiere, solo per provare, ricominciava a soffiare piano e, vedendo che lo si lasciava fare, a poco a poco riportava il suono all’intensità precedente. 

Ah! Andrebbe mandato a memoria questo periodo zeppo di incisi che suonano ironici ma sono il contrappeso di un’azione con un’altra azione, che serve a completare la precedente, a campire poco alla volta il quadro, passando da un senso all’altro, dall’udito alla vista e viceversa, come si passa dal suono dello strumento (il corno) alla voce umana (dello spazientito comandante) e poi di nuovo al suono – il quale monta poco alla volta, subdolo e impertinente, fino a tornare allo stesso livello di prima. Il trombettiere soffia e guarda gli uccelli, il comandante in maniche di camicia redige il suo piano di battaglia e intanto strilla al soldato di smetterla. 

L’accostamento sinestetico più azzardato e violento che io conosca, dopo quello di Inferno, XIII (“sì de la scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue”), l’ho trovato in Kafka: »Dalla finestra accanto alla porta di casa, che era ricoperta di assi, salvo una piccola fessura, uscivano fumo e baccano» (il corsivo è mio). 

E forse solamente in Kafka (e in un modo minore e posato, in Raymond Roussel, o prima ancora, con la pedanteria dell’illuminista perverso, in Sade, oppure nella Morgue di Gottfried Benn – che era suo coetaneo, ma con un surplus di estetismo) troviamo questa imperturbabilità nella narrazione di ciò che è perturbante: come se fosse proprio l’imperturbabilità della descrizione, il suo andamento distaccato, procedurale, ad accentuarne l’effetto inquietante. 

(Forse non è inutile rammentare come su alcune modalità rappresentative escogitate da Kafka ci abbiano campato intere squadre di movimenti letterari e non letterari, legioni di scrittori e singoli autori, fino all’École du regard e a Peter Handke, passando per la Neue Sachlichkeit. Solo che il suo non era precisamente uno stile letterario, bensì il precipitato di una forma peculiare di esistenza, una postura umana a cui concorrevano troppi fattori perché non fosse inimitabile.) 

Continuare a scrivere si trasforma nello scrivere continuamente. Rivela il suo carattere coattivo, di Ananke, costrizione, necessità. Forse solo a un primo livello il meccanismo cieco e inarrestabile che agisce nel Processo è quello della legge, che spinge K. attraverso mille peripezie (alcune delle quali sfiorano il ridicolo, ed è infatti lui il primo a riderne) fin nella cava dove verrà giustiziato. Piuttosto, si tratta della scrittura. La macchina che procede inesorabile, malgrado le sue lentezze, i suoi giri a largo, i periodi di latenza per cui ci si dimentica persino di quello che si è fatto e detto, è la scrittura, è la scrittura il demone meschino e il nobile lottatore che non abbassa mai la guardia, che non chiude mai occhio, mai, costringendoti a pagare “una bolletta della luce molto alta”, come diceva Kafka al diciassettenne Janouch, a causa delle notti passate a leggere e scrivere. Per quanto ci vada cauto con le letture allegoriche (credo di averlo dimostrato sin qui), sono considerazioni strettamente letterarie a farmi avanzare questa ipotesi. Ad incalzare autore e personaggio del romanzo sono le Erinni del romanzo stesso, della necessità di scriverlo, e scriverlo in quel modo. 

Io molto di rado anzi quasi mai sono riuscito a lasciarmi trascinare così, o piuttosto, trainare, come fosse un dispositivo meccanico, dal puro potere della lingua in cui scrivo; mai sono riuscito a tapparmi le orecchie e a non prestare ascolto alle continue interferenze, prima fra tutte quella della mia stessa intelligenza che finiva per costituire un intralcio con le sue pretese analitiche e la saccenteria, laddove la sola necessità sarebbe stata di procedere senza indugi nella connessione verbale; e poi tutte le altre suggestioni che è il talento medesimo a disseminare come trappole lungo il cammino – la finezza psicologica, il gusto di una pagina ben riuscita, le bellezze proprie della lingua adoperata, la duratura influenza delle letture compiute e persino il fatto di porsi modelli alti di letteratura (come quello di Kafka, appunto) che se almeno un poco possono fungere da argine contro la mediocrità, quella personale come quella del tempo a cui si appartiene, alla stessa stregua ostacolano il dettato, lo inceppano, sciupandone la trasmissione. E poi l’orgoglio, la debolezza, le fissazioni, il carattere, la volontà un po’ ingenua di far fruttare le ore passate in solitudine, non ammettendo neanche morti di averle sprecate. »Nessuno può sbarazzarsi di sé».

La scrittura oscilla sempre tra i poli della pretesa di dominio e della propria esistenziale impotenza, tra la discutibile concretezza del risultato e gli sforzi penosi per raggiungerlo, tra la gravità solenne del compito e il sospetto di una sua totale superfluità, che niente e nessuno potrà riscattare, nemmeno col conseguimento di elevate vette artistiche, le quali, in definitiva, rischiano di suonare persino più futili e decorative dei risultati mediocri. I cosiddetti capolavori non riscattano chi li ha realizzati, anzi, non di rado, lo dannano. Lo scrittore è perciò un ibrido, »la sua stanchezza è quella del gladiatore dopo la lotta, il suo lavoro è stato imbiancare l’angolo di una stanza d’impiegato» (negli Aforismi di Zurau). Non si può quindi impedire a nessuno di ridere alle spalle di un’attività così opinabile, svolta da una figura tanto controversa: gladiatore, circense, imbianchino, impiegato. 

C’è una porta in casa mia a cui finora non avevo fatto attenzione. Si trova in camera da letto, nel muro che confina con la casa accanto. Non me ne ero fatta alcuna idea, anzi non sapevo neppure che esistesse. Eppure è ben visibile, anche se la sua parte di sotto è nascosta dai letti […]. Ieri è stata aperta… 

Prendiamo la morbosa fissazione per le porte, segrete o monumentali, che segnano l’accesso ad altre sale ed altre porte, in infilata. Stanze private in cui però si aprono innumerevoli accessi. Solo nell’indice tematico di Aforismi e frammenti figurano ventiquattro voci relative alle porte. Un’ossessione simile a quella che mezzo secolo prima aveva covato Lewis Carroll e mezzo secolo più tardi infesterà l’immaginazione di Hitchcock, Polanski, del Kubrick di Shining. »Era una porticina bassissima, quella che conduceva in giardino, non molto più alta degli archi di metallo che si piantano in terra nel gioco del croquet». Le svolte narrative sono porte che in una storia si aprono e si chiudono, da lì irrompono sconosciuti, o Gregor Samsa riesce a fatica a uscire dalla sua stanza diventata una tana. Dietro a una porticina che si era sempre pensato immettere in un ripostiglio, un uomo vestito come un macellaio (»indossava un indumento di cuoio scuro, aderente, che lasciava nudi il collo fino a mezzo petto e tutte le braccia») ne sta bastonando altri due. Sono le inquietanti e sofistiche icone della possibilità, dunque una risorsa per infinite variazioni narrative. Le porte non sono in verità simboli di nulla. 

… corro di là e vedo che la porta, la porta a me finora sconosciuta, viene aperta lentamente e che nello stesso tempo i letti vengono scostati con forza straordinaria. Io grido: »Chi è? Cosa volete? Pia- no! Attenti!» e mi aspetto di vedere entrare una squadra di uomini violenti, ma è solo un giovane esile che, appena la fessura è sufficiente, scivola dentro e mi saluta lieto. 

La condizione è la seguente. Da questa condizione occorre, comunque, ripartire. 

Egli ha sete, e dalla fonte è separato solo da un cespuglio. Lui però è diviso in due: una parte abbraccia con gli occhi l’insieme, vede che egli è lì e che la fonte è a un passo, ma una seconda parte non nota nulla, ha tutt’al più la vaga intuizione che la prima parte veda tutto. Ma poiché non nota nulla, egli non può bere. 

Ecco, quando sento di scadere, che il mio dono nello scrivere lo sto, più che buttando via, utilizzando solo per difendermi o farmi bello, per temporeggiare e per ingannare me stesso prima che gli altri, allora torno a leggere qualche pagina di Kafka, qua e là, che mi ripesca, mi riporta in una zona di aria rarefatta eppure stranamente respirabile. Non voglio dire che mi salvi, anzi, in un certo senso, aumenta il mio sconforto, mi scoraggia con le sue formulazioni vertiginose ed esatte, di cui sono appena in grado di accarezzare la superficie. Quella sì, è in grado di riprodurla e imitarla chiunque abbia un minimo di talento, e io da giovane quel minimo lo avevo, e infatti la imitavo, indulgendo a un virtuosismo da cui proprio Kafka mette in guardia perché un artista lo adopera »per porsi al di sopra delle cose», dunque per mettersi al sicuro. Essendo l’insicurezza forse il vizio più temibile ma anche la principale virtù di uno scrittore. 

ARTICOLO n. 42 / 2023

PLAGIO O ISPIRAZIONE?

Arte Activa Volume 2

Dopo un po’ di tempo che si indossano gli occhiali non ci si accorge di averli sul naso, perché il cervello considera l’informazione inutile. La vita d’altronde è faticosa e richiede il massimo del risparmio energetico, motivo per cui non amiamo mettere in discussione schemi comportamentali e convinzioni acquisite, al punto da non percepire nemmeno la loro presenza. È il caso degli occhiali, ma anche quello del diritto d’autore, una serie di norme che, nonostante siano relativamente giovani e in continuo mutamento, vengono spesso date per scontate.

Proviamo a percorrerne velocemente la storia: la paternità dell’opera è un’idea antica e già Marziale si lamentava di chi imitava i suoi versi, sebbene l’aneddoto più famoso veda come protagonista Giordano Bruno, scoperto a plagiare quasi parola per parola alcune opere di Marsilio Ficino durante le sue lezioni a Oxford. Al tempo non era prevista una pena e la condanna consisteva per lo più nella vergogna: Bruno, ad esempio, fu cacciato da Oxford. Questi diritti diventano più precisi in parallelo a mutamenti politici e tecnologici legati alla nascita della stampa, e nella tarda metà del quindicesimo secolo apparvero a Venezia le prime forme di tutela di editori e stampatori. Per avere qualcosa di vicino al copyright contemporaneo però si deve aspettare l’Inghilterra e lo Statuto di Anna del 1710, e in seguito la Francia della rivoluzione. Quest’ultimo è un momento interessante su cui vale la pena dilungarsi, perché per strappare i diritti intellettuali dalla gestione della (smantellata) monarchia, la proprietà delle opere dell’ingegno vennero trasferite ai rispettivi autori. Era l’idea del filosofo illuminista Diderot, cui si opponeva parzialmente un altro intellettuale, Condorcet, che nei suoi Fragments sur la liberté de la presse (1776) sosteneva che un’opera, in quanto vettore di idee, non doveva essere considerata privata, e che la legge doveva permettere a più uomini contemporaneamente di usare le stesse idee, perché figlie di un processo collettivo. Si tratta forse di una delle prime formulazioni nella direzione dell’idea di “pubblico dominio”, ma ebbero la meglio furono le idee di Diderot e il 13 gennaio 1791 la legge Le Chapelier garantì i diritti d’autore per cinque anni dopo la morte, che nel 1793 vennero prolungati a dieci con la legge Lakanal. Questo limite temporale nei secoli si è sempre più allungato, anche per difendere gli interessi di potenti detentori di diritti come la Disney Company, che, nel 1998, a ridosso della scadenza di un’opera di Topolino, riuscì a far estendere i diritti postumi fino a settant’anni, con quello che ironicamente è stato chiamato il “Mickey Mouse Protection Act”. A tutto questo si aggiunge l’invenzione del concetto di trademark, che ha una diversa e complessa sfera di applicabilità e che non possiede limiti di tempo al rinnovo.

Negli anni molti studi hanno messo in dubbio il valore dell’attuale regolamentazione del diritto d’autore, sia per la sua efficacia che per la sua equità, ma non entrerò nel merito di un dibattito molto complesso e combattuto. Se volessimo estrapolare l’essenza delle critiche, potremmo dire che per molti le attuali legislazioni del copyright limitano la creatività e l’innovazione, non garantiscono una giusta remunerazione per gli autori ma vanno solo a vantaggio delle grandi aziende, limitano l’accesso alle opere culturali, non tengono conto della natura collaborativa e collettiva della produzione culturale, sono inadeguate alle tecnologie digitali, limitano la ricerca e ostacolano i cambiamenti sociali. Sono critiche che in larga parte condivido, ma com’è ovvio hanno subito anch’esse delle contro-critiche. Quel che mi interessa però non è proporre un’indagine sul diritto d’autore, ma sugli effetti che questo mutevole concetto filosofico e legislativo ha avuto sull’arte e sugli artisti.

Come dicevo in precedenza, i plagi hanno una storia antica. Nel caso della scrittura, che è un linguaggio notazionale in cui può essere ambiguo il riferimento (il significato delle parole) ma non la formulazione del testo (la posizione delle lettere) è da sempre molto facile individuare quando e quanto un’opera viene copiata. Più complesso, ma comunque verificabile, è il caso della musica, anch’essa legata a un linguaggio notazionale, cui però va aggiunto l’aspetto performativo. Girolamo De Simone ne tratteggia una bella storia, che ci insegna come nella musica il plagio sia una prassi molto comune sin dall’antichità. Un esempio su tutti: «il grande Mozart, amato dagli dèi e filmicamente odiato da Salieri per il suo genio, si divertì a copiare temi di altri compositori. Nella Ouverture del Flauto magico vi sono temi di Cimarosa e di Clementi, considerato il “padre della musica pianistica”. Mozart, come ricorda Luciano Chailly, “ebbe molte accuse di plagio per ‘prestiti’ da Gluck, Haydn, Paisiello, J. Christian Bach, Sarti, ed altri”». Non sono un esperto di musica ma ricordo che mio padre, un melomane dall’orecchio quasi assoluto, riconosceva dopo pochi istanti chi aveva preso da chi e cosa. I casi erano innumerevoli, spesso tra celebrati maestri. Ecco che sorge il problema del plagio, che da un punto di vista formale è irrisolvibile: quand’è che si tratta di plagio e quando di legittima ispirazione? O, per tradurlo nei termini legali, quando un’opera è sufficientemente trasformativa? Il caso dell’arte visiva, che a differenza di musica e scrittura non ha (quasi) mai un linguaggio notazionale di riferimento, può essere d’interesse nell’esplorare questo difficile discrimine.

Come nella musica, anche in quest’ambito le accuse di plagio hanno una storia antica che non possiamo ripercorrere, ma basta aprire un libro di storia dell’arte per riconoscere e scoprire gli innumerevoli plagi – o ispirazioni – di cui ha vissuto e vive l’arte. A uno sguardo severo ogni -ismo della storia dell’arte potrebbe essere una forma di plagio, data la somiglianza interna tra diverse opere appartenenti al barocco, al neoclassicismo, l’impressionismo, l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo, la pop art, l’arte povera… queste opere vengono accomunate in -ismi appunto per la presenza di somiglianze riconoscibili. Il problema è stabilire quando si tratta di plagio e quando di ispirazione e il problema del problema, per così dire, è che questo criterio non è in alcun modo oggettivo, ma cambia con il mutare della sensibilità culturale, storica e geografica. Giovanni Carlo Ballola scrisse che «se Mozart fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe dovuto passare molto tempo, per i suoi plagi, in un’aula di Pretura». Eppure oggi non facciamo a meno delle sue opere.

Di esempi di vere e proprie denunce nell’arte se ne possono fare moltissimi. Jeff Koons ne ha subite (e perse) diverse, Isgrò ne ha vinta una contro i Rolling Stones, Shepard Fairey è stato messo in difficoltà dalla Associated Press, Damien Hirst è stato spesso accusato di plagio e ha provocatoriamente confessato che tutte le sue opere sono copiate, anche se spesso non ricorda da chi. Anche l’arte astratta è soggetta a plagio, come dimostra il caso in cui Emilio Vedova ha sconfitto Pierluigi De Lutti – e in effetti nell’osservare i loro quadri qualcosa mi fa dire che sono molto simili, cosa che non direi per la foto di Obama e l’opera di Fairey. Nel caso Vedova-De Lutti la fama del primo sopravanza quella del secondo, ma pensiamo a Mimmo Rotella, che anni dopo l’artista francese Jacques Villeglé ha utilizzato senza subire denunce la tecnica inventata da quest’ultimo, il décollage, per quadri molto simili e per di più molto più quotati.

La legge non è il mio ambito e a essere sincero mi dispiace solo quando una persona più ricca di un’altra pretende del denaro da quest’ultima per aver violato una proprietà intellettuale, dato che non ci vedo alcun vantaggio collettivo. Certo, la legge vale per tutti, ma permettetemi di storcere il naso verso l’avidità di alcune denunce. Sappiamo inoltre che le leggi possono cambiare, così come le sensibilità e i rapporti di potere cui fanno riferimento. Il professore di Diritto Privato Roberto Caso scrive in alcune preziose slide a proposito del plagio che «il giudizio deve seguire una valutazione complessiva e sintetica, non analitica, incentrata sull’esame comparativo degli elementi essenziali delle opere da confrontare, dovendosi cioè valutare il risultato globale o l’effetto unitario». Parafrasato nel mio impreciso linguaggio mi sembra significare che non esiste una regola precisa e bisogna valutare caso per caso secondo criteri comuni. Già, ma quanto sono comuni questi criteri?

Qui entra in gioco la nostra sensibilità – nostra come quella degli artisti – e come questa sia cambiata nel tempo. È esemplare l’esempio della Brillo Box di Andy Warhol. La grafica della scatola Brillo di cui si appropriò Warhol era stata creata nel 1961 dal pittore espressionista astratto James Harvey (1929–65), che si guadagnava da vivere anche come grafico commerciale. Durante una lezione a un gruppo di studenti americani, prima di rivelare la reazione di James Harvey a Brillo Box ho chiesto come avrebbero reagito al posto suo: pongo la stessa domanda a chi mi legge, se non conosce l’aneddoto. La totalità (sottolineo, la totalità) degli studenti avrebbe denunciato Andy Warhol. Secondo il resoconto del filosofo e critico d’arte Arthur Danto, Harvey era presente al vernissage di Warhol presso la Stable Gallery. «Harvey rimase sconcertato… si rese conto che aveva progettato delle scatole che la Stable Gallery vendeva per diverse centinaia di dollari, mentre le sue non valevano nulla. Ma Harvey certamente non considerava le sue scatole opere d’arte». scrive Danto. Il mercante d’arte newyorkese Joan Washburn, che aveva già organizzato due mostre di Harvey presso la Graham Gallery, era al vernissage con l’artista. «Fu sopraffatto», ricorda Washburn. Quando gli viene chiesto se Harvey fosse arrabbiato, rispose: «No. Lo trovò divertente. Tutti quelli che entrarono alla Stable Gallery quella sera si divertirono». Io la penso come James Harvey, e se anche volessimo ascrivere la cosa a una casuale comunanza caratteriale è innegabile che molta della grande arte del Novecento sarebbe ora a rischio di denuncia, se non proprio illegale. Per fortuna le gallerie d’arte sono ancora terra franca, a patto che i lavori siano pezzi unici venduti come opere d’arte, ma non siamo più nei primi del secolo scorso, e gli artisti vivono anche (se non soprattutto) di altri ambiti editoriali, dove le leggi sono diventate sempre più restrittive. Anche la sensibilità degli stessi artisti è cambiata, assecondando sempre più l’individualismo della società occidentale a discapito del collettivismo che pur è vitale per ogni creazione artistica. Può sembrare strano, ma gli artisti sono tendenzialmente animali possessivi e conservatori.

Per tornare a stile e diritto d’autore, vale la pena analizzare il caso del musicista Robin Thicke, che è stato considerato colpevole di plagio e condannato a rimborsare oltre sette milioni di dollari per Blurred Lines, un brano del 2013 che la famiglia dello scomparso Marvin Gaye aveva trovato troppo somigliante a Got To Give It Up del 1977. In questo delicato caso, se consideriamo che a essere protetta dal diritto d’autore era solo la sequenza di note e che questa è differente nelle due canzoni, ci potrà stupire che Thicke abbia perso la causa per via della somiglianza stilistica tra i brani. Lasciamo ora perdere le leggi, che come dicevamo possono cambiare, e ascoltiamo semplicemente le due canzoni: Blurred Lines e Got To Give It Up. In base alla nostra sensibilità potranno sembrare troppo simili o sufficientemente diverse, ma non c’è nulla di oggettivo cui appellarsi. Per me vale la seconda, senza contare che trovo assurdo che a lamentarsi siano stati gli eredi e non l’artista, dato che questi non hanno creato un bel nulla ma solo ereditato dei diritti. Ma soprattutto concordo con Tim Wu, quando, commentando questo caso, scrive: «Provate a considerare quanti artisti sarebbero danneggiati se una tale sentenza fosse emessa con maggiore frequenza. Tutti sanno che i Rolling Stones hanno copiato lo stile di Chuck Berry e di altri artisti R’n’B. I primo album dei Rush ricorda molto i Led Zeppelin – che, tra gli altri, si erano rifatti a Robert Johnson. E questo non vale solo per la musica. Georges Braque e Pablo Picasso portarono avanti le idee di Paul Cézanne per sviluppare il Cubismo, uno stile che, a sua volta, è stato imitato da diversi altri pittori. Ci sono centinaia di esempi simili. Suggerire che questo verdetto incoraggerà un cantautorato migliore significa mal interpretare la storia delle arti. La libertà degli artisti e di altri creatori di copiarsi a vicenda è legata al principio che le idee non possono essere soggette a copyright, una nozione essenziale per la libertà d’opinione e per l’espressione artistica».

Sia in Italia che all’estero si susseguono ormai da decenni critiche politiche ed economiche alla gestione del diritto d’autore, che in modi diversi argomentano la tesi che chi fa arte non trae alcun vantaggio dalla limitazione della diffusione delle proprie opere e che i vantaggi vadano solo ad autori affermati e grandi aziende. Ciononostante queste norme si sono fatte sempre più restrittive e forse in futuro lo diverranno ancora di più. Di recente, per esempio, si parla molto della liceità o meno dell’uso di materiale protetto da copyright per addestrare i sistemi di machine learning, liberi o proprietari che siano. In Europa si sta già votando per costringere le aziende a rendere trasparente il proprio dataset, che al momento è tale solo per i software open source. La trasparenza è sempre la benvenuta (al netto della difficoltà dei controlli, perché il dataset non è contenuto nel software), ma per molti questa decisione va nella direzione di vietare il training su materiale non proprietario. Se questa fosse la strada e se fosse adottata globalmente, il futuro delle intelligenze artificiali sarà probabilmente nelle mani dei monopoli delle big tech che possono permettersi o già possiedono i diritti di grosse moli di dati, come suggeriscono i progetti AI di Adobe e di Shutterstock. Anche le varie alleanze in corso (Adobe con Google, Shutterstock con Microsoft) sembrerebbero confermare questa ipotesi. Fa comunque eccezione l’industria bellica, che per sviluppare sistemi di riconoscimento iper-umani non può certo farsi problemi di copyright – ma evidentemente per molti gli usi militari sono il pericolo minore. Un altro caso notevole è la recente vittoria in tribunale della Galleria dell’Accademia contro una casa editrice che aveva usato l’immagine (sottolineo: l’immagine) del David di Michelangelo senza pagar loro un canone. Un bene comune fuori dal diritto d’autore da secoli di fatto non è più comune. La notizia ha ricevuto sia critiche che lodi, tra cui quelle del Ministro della Cultura, ma a mio parere queste ultime testimoniano come la sensibilità nei confronti dei beni pubblici si sia distorta negli anni. Per quale motivo non posso guadagnare usando un bene che è patrimonio dell’umanità da cinquecento anni? Dovremmo pagare i diritti agli eredi o agli autoproclamati custodi di ogni invenzione, opera e tecnologia che utilizziamo a partire dalla ruota? Purtroppo questo è il segnale che abbiamo perso qualunque idea di “patrimonio dell’umanità”, un bene trasversale alle nazioni e agli usi, parte della storia di ciascuno di noi e su cui nessuna persona, azienda o nazione può accampare primati.

Nel parlare di copyright risulta evidente che la ragion d’essere di queste norme è economica più che ontologica. Come Kirby Ferguson infatti, credo che l’arte sia sempre un remix e un’operazione collettiva. Se Picasso fosse nato cinquecento anni prima sarebbe forse diventato un pittore, ma di certo non quello che conosciamo, perché non avrebbe avuto accesso alle rivoluzioni artistiche e tecnologiche dei secoli a venire. Non solo Picasso non ha alcun merito per le scoperte passate, ma non può neanche arrogarsi quello di moltissime a lui contemporanee, che lo hanno aiutato a plasmare la sua poetica – sua come quella di chiunque altro. Togliamo da Guernica quello che non è possibile imputare all’estro creativo del Maestro: l’invenzione di materiali e tecniche usate, quella del linguaggio attraverso cui sono state apprese, delle opere d’arte che ne hanno influenzato la genesi, delle persone e delle cose che gli hanno suggerito alcune idee, del contesto culturale che altri hanno costruito, della guerra, eccetera – del quadro rimarrà ben poco. Riprendo qui con piacere alcune affermazioni di Condorcet, che pur con i limiti del contesto culturale in cui si inseriva era giunto a intuizioni molto interessanti: «C’è un’incertezza inevitabile nel limite da cui si deve cominciare a considerare come nuovo, come frutto del genio, il risultato di un’operazione dell’intelletto umano», scrive il filosofo, che poi oltrepassa il problema dichiarando che il genio non è un dono fatto dalla natura a qualche essere umano privilegiato, ma una facoltà comune inegualmente ripartita. È forse il momento di accorgerci che gli occhiali che indossiamo senza accorgercene stanno diventando così scuri da nasconderci il truismo che ogni opera dell’ingegno è collettiva.

ARTICOLO n. 41 / 2023

NON HO ALCUN RISPETTO PER MICHEL FOUCAULT

Intervista di Giulia Paganelli

Ci sono studi e libri da cui non è possibile prescindere quando si sceglie di varcare la soglia degli studi umanistici e sociali. Sexual Personae (Luiss University Press) è uno di questi. Io e Camille Paglia sulla carta siamo interlocutrici lontane, provenienti da due periodi storicamente e culturalmente ben distinti e inevitabilmente incisivi nella nostra formazione accademica e analitica. Abbiamo scoperto, in realtà, di avere in comune alcune cose importanti come il valore che diamo alla conoscenza storica nello sviluppo delle scienze sociali e antropologiche, l’urgenza di vedere il sistema accademico modificarsi e ristrutturarsi nelle scienze umanistiche perché così non funziona, l’amore profondo che diventa ossessione per i collegamenti nel tempo e nello spazio – e chissà come sarebbe davvero avere un pomeriggio di tempo e nessun limite tecnologico per tracciare nuove bisettrici in questi Atlanti cognitivi e simbolici. Entrambe da piccole volevano fare le egittologhe, entrambe da grandi abbiamo fatto percorsi tortuosi perché studiare solo una cosa non ci sembrava abbastanza. Ci sono, anche, incompatibilità fortissime che riguardano i nostri femminismi perché sicuramente Paglia fa parte di un’ondata precedente che difficilmente potrà mai sfociare nel movimento intersezionale, pratica che oggi è mia anche se non ne condivido molte delle modalità violente con cui si srotola nel mondo digitale. Ma anche questo è, indubbiamente, un percorso che ha bisogno di nuova teoria e di nuova tecnica, nuove voci e nuovi inizi, ma anche viaggi inversi che ritornino all’origine delle cose per far sì che gli orrori e gli errori non si ripresentino e su questo siamo d’accordo entrambe. Ma più di ogni altra cosa siamo due persone che credono nella conversazione critica e nel dibattito che nasce quando posizioni contrarie e distanti si mettono a sedere e parlano di società e dinamiche generali, senza cannibalizzarsi a vicenda. Il resto sono solo chiacchere.  

Giulia Paganelli: In un dialogo con Jordan Peterson, lei dice che «le religioni sono la vera rivoluzione». Io sono atea, ma sono anche un’antropologa e le cosmogonie così come le grandi religioni contemporanee mi permettono di acquisire moltissime informazioni sui sistemi culturali che osservo. Le chiedo se può approfondire per noi questo punto, in che modo le religioni sono una vera rivoluzione per gli studiosi del nostro tempo. 

Camille Paglia: Dopo le manifestazioni per i diritti civili e le proteste contro la guerra degli anni ’60, l’istruzione universitaria negli Stati Uniti e nel Regno Unito iniziò a spostarsi verso un orientamento apertamente politico, negativo nei confronti della cultura occidentale, che veniva descritta come irrimediabilmente sessista, razzista e imperialista. Tra le voci influenti che hanno assunto alcune o tutte queste posizioni c’erano Herbert Marcuse e Edward Said. Negli anni ’70 iniziarono continui attacchi al “canone” della grande letteratura e arte occidentale, che fu sempre più sostituito da opere contemporanee con un messaggio apertamente politico. Uscendo dalla scuola di specializzazione all’inizio degli anni ’70, pensavo che il curriculum universitario avesse un disperato bisogno di una profonda riforma, ma credevo che il “multiculturalismo” sarebbe stato meglio raggiunto da una riorganizzazione della struttura universitaria attraverso un modello interdisciplinare che fondesse le scienze umane e sociali. Le discipline umanistiche, a mio avviso, richiedevano un importante riorientamento verso la storia, come nell’ampia borsa di studio dei professori tedeschi della fine del diciannovesimo secolo, che erano profondamente eruditi in molteplici discipline. Uno degli ultimi grandi studiosi di quella tradizione è stato il marxista Arnold Hauser, i cui quattro volumi The Social History of Art (1951) mi hanno profondamente colpito quando stavo facendo ricerche per la mia tesi di dottorato a Yale.

Altre persone certamente hanno visto anche i limiti della struttura dipartimentale accademica standard. Tuttavia, in mezzo alla pressione per inserire nel curriculum materie nuove e urgenti come il femminismo e la letteratura afroamericana, gli amministratori universitari hanno erroneamente superato la loro autorità creando rapidamente unità di “studi” indipendenti, come studi sulle donne, studi afroamericani, studi sui nativi americani – al di fuori della supervisione accademica dipartimentale. A mio avviso, questi argomenti estremamente importanti e vitali sono stati purtroppo fortemente politicizzati fin dall’inizio, polemicamente ostili alla cultura occidentale e imponendo una semplicistica dicotomia oppressore-oppresso a tutti i discorsi sulla società e sull’arte.

Sostengo fortemente il multiculturalismo come ideale animatore dell’istruzione superiore. Ma mi oppongo alla politicizzazione ristretta e stridente che ora regna. Questa pratica ben intenzionata ma grossolanamente riduttiva trascina i giovani nelle liti contemporanee provinciali che sono diventate sempre più monotone ed estenuanti. Sebbene io sia atea, sostengo che la vera rivoluzione nell’educazione sarebbe quella di fare della religione comparata il fondamento del curriculum universitario di scienze umane. Vedo le grandi religioni del mondo come giganteschi sistemi di simboli contenenti verità complesse sulla vita umana. Al contrario, il marxismo manca di una metafisica e non vede altro nell’universo che politica ed economia.

La mia ultima raccolta di saggi, Provocations, contiene la mia dichiarazione di apertura per un dibattito del 2017 alla Yale Political Union, dove ho difeso la risoluzione (un argomento che avevo proposto), “La religione appartiene al curriculum”. Lì affermo: «nessuna società o civiltà può essere compresa senza fare riferimento alle sue radici religiose. Ogni studente dovrebbe laurearsi con una familiarità di base con la storia e i testi sacri, i codici, i rituali e i santuari delle principali religioni del mondo: induismo, buddismo, giudeo-cristianesimo e islam».

Ristampato in Provocations è anche il mio lungo saggio, “Cults and Cosmic Consciousness: Religious Vision in the American 1960s” (un ampliamento di una conferenza all’Institute for the Advanced Study of Religion di Yale). Qui sostengo che la massiccia influenza delle religioni non occidentali sui ribelli anni ’60 è stata stranamente dimenticata. Il buddismo zen era un tema importante nel movimento Beat degli anni ’50 a San Francisco, che ispirò direttamente la “controcultura” degli anni ’60 in quella città. L’era hippie fu soffusa di influenze dall’induismo, che ebbe inizio in California quando Ravi Shankar dimostrò il sitar al Monterey International Pop Festival nel 1967. La sua performance elettrizzante può essere vista nel documentario Monterey Pop. I sitar furono presto ascoltati in tutta la musica rock degli anni ’60, introdotta da George Harrison dei Beatles, la cui visita di gruppo in India per studiare con il Maharishi Mahesh Yogi finì in un fiasco.

La mia pratica come interprete della letteratura e dell’arte deriva in ultima analisi dall’antropologia, in particolare dalla “critica del mito”, le cui origini risalgono all’impatto della Cambridge School of Anthropology della fine del diciannovesimo secolo sullo psicologo Carl Jung. In Provocations è inclusa anche la mia conferenza alla New York University sull’analista junghiano Erich Neumann, il cui libro del 1955, La grande madre: un’analisi dell’archetipo, ha fortemente influenzato il mio primo libro, Sexual Personae (1990).

G.P. Da piccola volevo fare l’egittologa, ero sicura che sarebbe andata esattamente in questo modo. Poi ho incontrato Hegel e mi sono lasciata affascinare, arrivando poi solo alla fine del mio percorso accademico a occuparmi nuovamente di “archeologia” come parte fondamentale per codificare il mondo in cui vivo. Sexual Personae è un libro che nasce, secondo me, da un istinto simile. La Storia è imprescindibile per lo studio dei fenomeni complessi, siamo d’accordo?

C.P. Che coincidenza! Anch’io volevo essere un’egittologa. L’archeologia è stata la mia prima ambizione professionale, ispirata da una visita d’infanzia al Metropolitan Museum of Art di New York. Sono rimasta sbalordita e innamorata delle magnifiche sculture in granito rosso di un faraone inginocchiato che fa offerte agli dèi. Solo molti decenni dopo ho scoperto che il faraone era una donna: la regina Hatshepsut!

In seguito ho abbandonato il mio obiettivo di archeologia quando mi sono resa conto che tutti i grandi monumenti erano già stati scoperti e che probabilmente sarei stata condannato a rimontare vasi rotti, cosa per la quale non avevo pazienza. In risposta alla tua domanda, sì, la conoscenza della storia è certamente cruciale per tutto l’insegnamento e lo studio. Ma sin dall’ascesa della “teoria” chic postmodernista, troppi professori di discipline umanistiche hanno giocato ai filosofi dilettanti e hanno irresponsabilmente scartato studi storici approfonditi.

G.P. Da poco in Italia è uscito per Blackie Edizioni il racconto di Simone Wade Foucault in California, una sorta di etnografia sulla prima esperienza di Michel Foucault con LSD. Una volta tornato in Francia, si dice che il filosofo buttò via metà del lavoro scritto per quella che conosciamo oggi come Storia della Sessualità perché, cito, »quella fu l’esperienza migliore della sua vita, la più introspettiva». C’è spazio, secondo il suo punto di vista, per una rilettura delle opere precedenti di Foucault alla luce di questo evento? 

C.P. Non ho alcun rispetto per Michel Foucault, la cui conoscenza era strettamente limitata all’Europa solo dall’Illuminismo. Foucault non sapeva nulla dell’antichità classica o del Medioevo, e le sue osservazioni su quei periodi sono imprecise e a volte ridicole.

Le mie forti obiezioni a Foucault e ai suoi discepoli sono ampiamente contenute nel mio saggio-recensione, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf“, che è stato ristampato nella mia prima raccolta di saggi, Sex, Art, and American Culture (1992). Molte persone credono che Foucault fosse un erudito, ma non lo era. Era gravemente carente come ricercatore di materiali storici. Nella sua ristretta attenzione all’ideologia del potere, non aveva alcun istinto per l’arte o l’estetica. Ha rifiutato assurdamente la psicologia nella sua analisi della sessualità.

Inoltre, Foucault nascose disonestamente il suo enorme debito con i grandi sociologi Émile Durkheim e Max Weber. Durkheim, la vera fonte di Foucault, aveva già studiato carceri e codici penali ed esplorato i principi della classificazione e della tassonomia. C’era un libro del 1985 di J.G. Merquior che ha messo a nudo in modo divertente molti degli elementari errori di fatto commessi da Foucault. Come ho detto in “Junk Bonds”, un giorno la gente guarderà indietro, come facciamo noi alla mania del diciottesimo secolo per Emanuel Swedenborg, e vedrà Foucault come il Cagliostro del nostro tempo. Ma intanto lasciatemi semplicemente dire questo: non ci sono donne in Foucault. Nessuno se n’è accorto?

G.P. In Italia esiste questa credenza diffusa nella finta Ideologia del gender. Certo, buona parte del lavoro in questo è stato fatto dalla destra che ha spinto e creato narrazioni mostruose con una comunicazione costante e martellante, ma dall’altra parte il terreno occupato da questa propaganda, penso, sia stato prodotto dalla mancanza di una conversazione onesta e accessibile da parte della sinistra. Abbiamo avuto leader di sinistra lontani dalle persone e dalla lotta di classe, chiusi dentro una bolla intellettuale e forzata in cui si parlavano tra loro mostrando all’esterno solo incoerenze. Come si recupera tutto questo terreno perso? 

C.P. Sì, sono assolutamente d’accordo sul fatto che molti di sinistra, in particolare professori delle università statunitensi, sono spesso molto lontani dalle persone per cui affermano di parlare. Abitano davvero in una “bolla intellettuale” arrogante.

Quando ero al college, a metà degli anni ’60, ho visto gente di sinistra genuina tra i miei compagni di studio. Erano appassionati nelle loro convinzioni e modi, e parlavano con il linguaggio semplice e diretto della classe operaia. La sinistra accademica, al contrario, ha troppo spesso favorito una “teoria” grottescamente pretenziosa in un codice mandarino d’élite.

Sono certa che il mio disprezzo per il linguaggio snob dei teorici postmoderni derivi dalla mia esperienza infantile tra gli immigrati italiani della classe operaia. Tutti e quattro i miei nonni, così come mia madre, sono nati nell’Italia rurale povera: la famiglia di mia madre in Ciociaria e la famiglia di mio padre in Campania. Sono nata in una piccola città industriale nello stato di New York in cui gli italiani erano emigrati per lavorare nella grande fabbrica di scarpe. Un nonno era un barbiere, e l’altro era un operatore esperto di questa difficile macchina per stirare la pelle. Forse solo un contatto personale diretto e sostenuto di quel tipo può illuminare l’autentico sistema della moderna classe sociale.

G.P. Vorrei parlare della scrittura e della comunicazione digitale. Io penso che lo spazio infinito di Internet permetta di non stringere i discorsi dentro a trafiletti e parole contate su giornali e riviste, allo stesso tempo però questo aumenta anche i contenuti falsi e la proliferazione di fake news, nonché la strumentalizzazione delle stesse per la propaganda politica. Penso, per esempio, allo scandalo che investì Cambridge Analytica. Cosa ne pensa e come possiamo prevenire questo fenomeno? 

C.P. Il Web ha rivoluzionato le comunicazioni sia in positivo che in negativo. Sì, lo “spazio infinito” di Internet è una liberazione, ma è anche una maledizione. Nei media statunitensi c’è stato un grave declino della qualità dei commenti politici e culturali proprio a causa dell’assenza di limiti di spazio. Quando negli anni ’90 scrivevo più regolarmente per giornali e riviste cartacee tradizionali, mi piaceva davvero la rigida disciplina del limite di parole: condensare il proprio articolo a 1000 o anche 800 parole richieste dava grande potere e chiarezza. Oggi, al contrario, molti articoli analitici scorrono in continuazione in modo fiacco, monotono e con un ordine poco distinguibile. Manca la fase finale della riduzione della prosa al suo argomento essenziale.

Ho iniziato a scrivere per il Web molto presto, dal primo numero di Salon.com nel 1995. È sorprendente ricordare che il Web non è stato preso sul serio all’inizio. In effetti, quando sono diventata editorialista al Salon, un importante giornalista del Boston Globe mi ha detto che stavo sprecando il mio tempo e che nessuno nei principali mezzi di informazione considerava seriamente il Web. Come sono cambiate le cose! Il mio saggio del 2003 “Dispatches from the New Frontier: Writing for the Internet”, che descrive le mie esperienze a Salon.com, è ristampato in Provocations.

Purtroppo il web ha distrutto o ferito gravemente innumerevoli giornali e riviste, che hanno perso la loro base economica e lottano per la sopravvivenza. Negli Stati Uniti, ciò ha minato i giornali regionali più piccoli e aumentato il potere dei media aziendali con sede a New York e Washington DC, che sono uniformemente sostenitori del Partito Democratico. Sono una democratica registrata che mette in discussione o rifiuta gran parte dell’attuale dogma democratico.

L’enorme problema odierno delle fake news ingannevoli e della palese propaganda peggiora ogni anno. I giovani dovrebbero essere formati presto su come valutare la credibilità delle fonti di notizie. Penso che dovrebbero esserci lezioni obbligatorie di logica formale tradizionale a livello di scuola pubblica. Gli studenti hanno bisogno di esercitarsi nel seguire argomentazioni sequenziali e nel riconoscere distorsioni, errori e conclusioni non supportate.

G.P. Infine, una domanda diretta: la ricomparsa di fascismi e neonazismi in Europa ci dice che dalla storia non abbiamo imparato nulla? E se sì, come è avvenuto questo processo? 

C. P. La parola “decadenza” appare nel sottotitolo di Sexual Personae perché penso che la cultura occidentale sia attualmente in una fase “tardiva”, di graduale declino. Decadenza non è un termine negativo per me: il mio libro esamina molti esempi di meravigliosa arte della fase tarda, come le sculture manieriste contorte e morbosamente sensuali di Michelangelo nelle Cappelle Medicee. Lo stile decadente ha caratteristiche ricorrenti come androginia, voyeurismo e compressione o distorsione dello spazio. Sono fortemente attratta dall’arte decadente e dai suoi eroi, come Oscar Wilde e Andy Warhol.

Tuttavia, la storia mostra che le fasi successive, come nella Roma imperiale o nella Germania di Weimar, possono innescare una reazione da parte dei nazionalisti militanti che chiedono un ritorno alle virtù semplici e stoiche dei lontani antenati. Penso che sia qui che ci troviamo ora, poiché la cultura occidentale su entrambe le sponde dell’Atlantico ha perso fiducia in se stessa ed è stata eclissata da una forza crescente in Asia.

ENGLISH VERSION

G.P. In a dialogue with Jordan Peterson you say that “religions are the real revolution”. I’m an atheist but also an anthropologist: cosmogonies as well as the great contemporary religions allow me to acquire much information on the cultural systems I observe. I would like to ask you to elaborate more on this: how are religions a real revolution for today’s researchers?

C.P.  After the civil rights demonstrations and anti-war protests of the 1960s, university education in the U.S. and U.K. began to shift toward an overtly political orientation, negative toward Western culture, which was portrayed as irredeemably sexist, racist, and imperialist.  Among influential voices taking some or all of those positions were Herbert Marcuse and Edward Said. In the 1970s, sustained attacks began on the “canon” of great Western literature and art, which was increasingly replaced by contemporary works with an overtly political message.

Emerging from graduate school in the early 1970s, I thought that the university curriculum desperately needed major reform, but I believed that “multiculturalism” would be best achieved by a reorganization of university structure via an interdisciplinary model blending the humanities and social sciences. The humanities, in my view, required a major reorientation toward history, as in the wide-ranging scholarship of late-nineteenth-century German professors, who were profoundly erudite in multiple disciplines.  One of the last great scholars in that tradition was the Marxist Arnold Hauser, whose four-volume The Social History of Art (1951) deeply impressed me when I was doing research for my doctoral dissertation at Yale.

Others certainly also saw the limitations of standard academic departmental structure.  However, amid the pressure to bring urgent new subjects such as feminism and African-American literature into the curriculum, university administrators wrongly exceeded their authority by rapidly creating free-standing “studies” units–such as Women’s Studies, African-American Studies, Native American Studies–outside departmental scholarly oversight.  In my view, these extremely important and vital topics were unfortunately heavily politicized from the start, polemically hostile to Western culture and imposing a simplistic oppressor-oppressed dichotomy on all discourse about society and art.

I strongly support multiculturalism as an animating ideal of higher education.  But I oppose the narrow, strident politicization that now rules. This well-intended but crudely reductive practice drags young people down into provincial contemporary quarrels that have become increasingly monotonous and exhausted. Although I am an atheist, I maintain that the real revolution in education would be to make comparative religion the foundation of the university humanities curriculum. I view the great world religions as gigantic symbol-systems containing complex truths about human life. In contrast, Marxism lacks a metaphysics and sees nothing in the universe but politics and economics.  

My last essay collection, Provocations, contains my opening statement for a 2017 debate at the Yale Political Union, where I defended the resolution (a topic I had proposed), “Religion belongs in the curriculum”. There I state: “No society or civilization can be understood without reference to its religious roots. Every student should graduate with a basic familiarity with the history and sacred texts, codes, rituals, and shrines of the major world religions–Hinduism, Buddhism, Judeo-Christianity, and Islam.”

Also reprinted in Provocations is my long essay, “Cults and Cosmic Consciousness:  Religious Vision in the American 1960s” (an expansion of a lecture at the Institute for the Advanced Study of Religion at Yale). Here I argue that the massive influence of non-Western religions on the rebellious 1960s has been strangely forgotten. Zen Buddhism was a major theme in the 1950s Beat movement in San Francisco, which directly inspired the 1960s “counterculture” in that city. The hippie era was suffused with influences from Hinduism, which began in California when Ravi Shankar demonstrated the sitar at the Monterey International Pop Festival in 1967. (His electrifying performance can be seen in the documentary, Monterey Pop.) The spiritual floating notes of the sitar were soon heard throughout 1960s rock music, pioneered by George Harrison of the Beatles, whose group visit to India to study with the Maharishi Mahesh Yogi ended in fiasco.

My own practice as an interpreter of literature and art ultimately derives from anthropology, specifically “myth-criticism”, whose origins were in the impact of the late-nineteenth-century Cambridge School of Anthropology on psychologist Carl Jung. Also included in Provocations is my New York University lecture on the Jungian analyst Erich Neumann, whose 1955 book, The Great Mother: An Analysis of the Archetype, greatly influenced my first book, Sexual Personae (1990).

G.P. When I was young, I wanted to become an Egyptologist. Then I met Hegel, who fascinated me deeply. Then it was “archeology” all over again, which kicked in as a fundamental part to codify the world I live in at the end of my academic path. In my opinion, Sexual Personae comes from a similar instinct. History is essential for the study of complex events, do you agree?

C.P.  What a coincidence! I too wanted to be an Egyptologist. Archaeology was my first professional ambition, inspired by a childhood visit to the Metropolitan Museum of Art in New York. I was stunned and enamored by the magnificent red granite sculptures of a kneeling pharaoh making offerings to the gods. Only many decades later did I discover that the pharaoh was a woman – Queen Hatshepsut!

I later abandoned my goal of archaeology when I realized that all of the great monuments had already been discovered and that I would probably be doomed to reassembling broken pots, for which I had no patience. In response to your question, yes, knowledge of history is certainly crucial for all teaching and scholarship.  But ever since the rise of chic postmodernist “theory”, too many humanities professors have played amateur philosopher and irresponsibly discarded in-depth historical study.

G.P. Recently, in Italy, Blackie Edizioni published Simone Wade’s Foucault in California, a sort of ethnography about Michel Foucault’s first experience with LSD. It is said that when he returned to France, he threw away what he wrote up to that moment and started again from scratch, giving birth to what we know today as The History of Sexuality: he defined it as, and I quote, »the best experience of his life, the most introspective». Do you think, considering this event, that there could be room for a reinterpretation of Foucault’s previous works?

C.P. I have no respect whatever for Michel Foucault, whose knowledge was narrowly limited to Europe since the Enlightenment. Foucault knew nothing about classical antiquity or the Middle Ages, and his remarks about those periods are inaccurate and at times ridiculous.

My strong objections to Foucault and his disciples are contained at great length in my review-essay, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf”, which was reprinted in my first essay collection, Sex, Art, and American Culture (1992). Many people believe that Foucault was erudite, but he was not. He was severely deficient as a researcher of historical materials. In his narrow focus on the ideology of power, he had no instinct for art or aesthetics. He absurdly rejected psychology in his analysis of sexuality.

Furthermore, Foucault dishonestly concealed his enormous debt to the great sociologists Emile Durkheim and Max Weber. Durkheim, Foucault’s true source, had already studied prisons and penal codes and explored the principles of classification and taxonomy. There was a 1985 book by J.G. Merquior that amusingly exposed many of the elementary factual errors made by Foucault. As I said in “Junk Bonds”, some day people will look back, as we do at the eighteenth-century craze for Emanuel Swedenborg, and see Foucault as the Cagliostro of our time. But meanwhile let me simply say this: there are no women in Foucault. Has no one noticed?

G.P. In Italy, many believe in Gender Ideology – which is a hoax. Certainly, part of the blame goes to right-wing parties who constantly pushed and created appalling narratives about it. On the other side, I personally think that this was also a product of the absence of an open and accessible conversation from left-wing parties. We have had many leftist leaders who were far from people and class struggle, sealed inside their forced intellectual bubble and only showing on the outside their contradictions. How do we fill the gap that left-wing parties left?

C.P. Yes, I absolutely agree that many leftists, especially professors at U.S. universities, are often far removed from the people they claim to speak for. They do indeed inhabit an arrogant “intellectual bubble”.

When I was in college in the mid-1960s, I saw genuine leftists among my fellow students.  They were passionate in their beliefs and manner, and they spoke with the simple direct language of the working class. Academic leftism, in contrast, has too often favored grotesquely pretentious “theory” in an elite mandarin code.

I am certain that my own contempt for the snobbish language of postmodern theorists comes from my childhood experience among working-class Italian immigrants. All four of my grandparents, as well as my mother, were born in impoverished rural Italy–my mother’s family in Ciociaria and my father’s family in Campania. I was born in a small industrial town in upstate New York to which Italians had migrated to work in the vast shoe factory. One grandfather was a barber, and the other one was an expert operator of the difficult leather-stretching machine. Perhaps only direct, sustained personal contact of that kind can illuminate the authentic system of modern social class.

G.P. I would like to talk about writing and digital communication. I think that the endless space of the Internet allows us to go beyond discourses inside paragraphs and a limited number of words in newspapers and magazines. At the same time, it increases the spreading of fake news and their manipulation for propaganda. I think, for example, about the Cambridge Analytica scandal. What do you think of it and how can we prevent this from happening? 

C.P. The Web has revolutionized communications in both positive and negative ways. Yes, the “endless space” of the Internet is a liberation, but it is also a curse. In the U.S. media, there has been a severe decline in the quality of political and cultural commentary precisely because of the absence of space limits. When I was more regularly writing for mainstream print newspapers and magazines in the 1990s, I actually enjoyed the strict discipline of the word limit: condensing one’s article to a required 1000 or even 800 words gave great power and clarity. Today, in contrast, many analytic articles run on and on in a slack, dull way and with little discernible order. They are missing the final stage of stripping prose down to its essential argument.

I began writing for the Web very early–from the first issue of Salon.com in 1995. It is startling to remember that the Web was not taken seriously at first. Indeed, when I became a columnist at Salon, a prominent journalist at The Boston Globetold me that I was wasting my time and that no one in the major news media regarded the Web seriously. How things have changed! My 2003 essay “Dispatches from the New Frontier:  Writing for the Internet”, which describes my experiences at Salon.com, is reprinted in Provocations.

Unfortunately, the Web has destroyed or seriously wounded innumerable newspapers and magazines, which have lost their economic base and are fighting for survival. In the U.S., this has undermined smaller regional newspapers and increased the power of the corporate media based in New York and Washington, D.C., who are uniformly supporters of the Democratic party. I am a registered Democrat who questions or rejects much current Democratic dogma.

Today’s enormous problem of deceptive “fake news” and blatant propaganda is getting worse each year. Young people should be trained early in how to assess the credibility of news sources. I think there should be required classes in traditional formal logic at the public-school level. Students need practice in following sequential argument and in recognizing distortions, fallacies, and unsupported conclusions.

G.P. Lastly, a very straightforward question: could the reappearance of Fascism and neo-Nazism in Europe be suggesting that we haven’t learnt anything from history? And if so, how did this process take place?

C.P. The word “decadence” appears in the subtitle of Sexual Personae because I think that Western culture is currently in a “late” phase of gradual decline. Decadence is not a negative term for me: my book examines many examples of marvelous late-phase art, such as Michelangelo’s twisted, morbidly sensual Mannerist sculptures in the Medici Chapel.  Decadent style has recurrent characteristics such as androgyny, voyeurism and compression or distortion of space. I am strongly drawn to decadent art and its heroes, like Oscar Wilde and Andy Warhol.

However, history shows that late phases, as in imperial Rome or Weimar Germany, may trigger a reaction from militant nationalists calling for a return to the simple, stoic virtues of the distant ancestors. I think that is where we are now, as Western culture on both sides of the Atlantic has lost faith in itself and is being eclipsed by a rising force in Asia.

ARTICOLO n. 40 / 2023

PRODAJE SE

Un viaggio jugoslavo

Il viaggio è stato lungo, più lungo del previsto. Ceniamo al Poema di Popovača. Il nome italiano non fa presagire nulla di buono. Intorno a noi il buio della notte, rare case con i mattoni forati a vista. Nella sala che sa di fumo, due tavoli più in là, sta una coppia. Si vede che è una delle prime uscite. Ci trasmettono una certa tenerezza: i due si tengono la mano, chiacchierano, si scambiano sguardi languidi mentre la pizza di fronte a loro si raffredda. La nostra invece no. Appena ce la portano, la ingurgitiamo con appetito, cercando di non curarci che al posto del pomodoro c’è l’ajvar, una salsa di peperoni leggermente piccante, e che il prosciutto non è tra i più saporiti.

Solo al mattino capiamo davvero dove siamo. La villetta di fronte al nostro alloggio, a Potok, ha due leoni azzurri ai lati del cancello; potremmo essere in Veneto, pensiamo subito, se non fosse che attorno non vi è nessuna azienda a conduzione familiare, con relativa flotta di furgoncini bianchi e magazzino strabordante, nessuna bandiera autonomista, nessuna statale congestionata dal traffico. Solo campi, rimesse agricole, galline, case senza l’intonaco o fatte di legno annerito come baite mancate. 

Arriviamo a Podgarić che è ancora presto, dopo aver percorso una strada piena di curve tra alti alberi e improvvise aperture nella campagna. Facciamo colazione in auto: biscotti e succo di frutta che abbiamo acquistato poco prima in un piccolo negozietto che ci aveva sorpreso per l’ampia selezione di lumini da cimitero esposti in ingresso. Come se la morte qui fosse più diffusa di altrove. 

Tra la pioggia sottile che non smette di cadere, avvistiamo il primo spomenik, parola croata che su per giù significa “memoriale” o “monumento”. È in cima ad una collina, in un luogo assai scenografico. Lo raggiungiamo superando una recinzione e avanzando in un campo mezzo allagato. L’erba è zuppa, piena di funghi. Solo successivamente scopriamo che una stradina seminascosta ci avrebbe permesso di raggiungerlo più agevolmente. Con le scarpe sulla terra bagnata, pensiamo alle migliaia di mine che ancora infestano le campagne circostanti. 

La struttura alata, alta dieci metri e larga venti, trasmette tutta la forza del béton brut, la concretezza del reale e insieme un senso di mistero e di spiritualità. Il suo colore grigio ricorda quello dei pilastri delle tante casupole qui intorno. Proviene da un altro mondo, il monumento, e noi ci sentiamo soli, lontani dal nostro tempo. La patina di passato che lo ricopre (insieme al muschio, nella parte esposta a Nord) ci affascina, un po’ come può avvenire per effetto dell’estetica giapponese del wabi-sabi. Da quassù, dominiamo un paesaggio brullo, un piccolo laghetto artificiale su cui si distende un breve pontile di legno. L’Hotel Garić che vi si affaccia dev’essere pieno d’estate; ora è chiuso e silenzioso, sembra anch’esso abbandonato. Si sente solo il belare delle pecore che pascolano a valle, il suono dei nostri passi. Sarà per la voluta asimmetria dell’arco che sorge poco distante, una sorta di Stargate, per come le forme del monumento dialogano con le colline circostanti o forse per la pioggia, ma l’atmosfera è disturbante, malinconica, greve. Podgarić è stata base logistica e ospedaliera della Resistenza iugoslava; ai nostri piedi sono tumulati i resti di centinaia di partigiani e a giudicare dalla presenza di una corona di fiori ormai spoglia, qualcuno se ne ricorda ancora. Eppure il sito ci sembra destinato all’abbandono o, peggio, a diventare icona pop, sfondo per video musicali e spot pubblicitari. A Houston ne esiste già una versione fatta interamente di Lego.

L’intero territorio della ex-Jugoslavia è punteggiato da decine e decine di monumenti incredibili. Non stanno al centro delle piazze cittadine, ma là dove le battaglie, le stragi, le persecuzioni hanno avuto luogo (anche a opera di italiani, come a Podhum, vicino Fiume), quasi che la funzione del ricordare possa essere garantita anche, forse meglio, lontano dagli occhi della gente. 

Le forme e la simbologia di questi monumenti sono nuovi al nostro sguardo mediamente educato alla tradizione estetica occidentale; sono certamente vicini al brutalismo socialista e all’ideologia che promuoveva, ma in modo autonomo, come del resto relativamente autonoma è stata la Jugoslavia dall’Urss. Gli spomenik sono stati costruiti quasi tutti tra gli anni Sessanta e la fine dei Settanta, quando il governo titino cercava di rafforzare l’unità nazionale e di ricucire le ferite della guerra. Si trattava di ricordare le atrocità commesse durante l’occupazione nazi-fascista, ma anche, forse soprattutto, di dimenticare le divisioni etniche che di lì a poco sarebbero riesplose con tragiche conseguenze. Poi, a seguito del disgregamento della Federazione Jugoslava, queste testimonianze uniche sono state distrutte, vandalizzate o nel migliore dei casi abbandonate. Sono finite per parlare d’altro, ancora una volta. I memoriali eretti dal nuovo governo croato sono meno ambiziosi: piccole lapidi con una lista di nomi e il simbolo cristiano della croce.

Dopo pranzo (mangiamo un čobanac, il piatto dei pastori, uno stufato di carne tipico della Slavonia, un gulash più brodoso che scalda le ossa e l’anima), ci perdiamo nelle stradine secondarie verso il confine bosniaco. Case col tetto a spiovente curate in maniera maniacale (vasi di fiori coloratissimi disposti in ordine crescente, altrettanto ordinate cataste di legna da ardere), fienili e prati incolti scorrono nei finestrini. Prima veniamo seguiti dall’auto di una società di sicurezza privata, poi avvicinati da un furgone rosso di un bar (sic!) da cui scende un uomo che ci consiglia di andarcene: siamo in una zona calda, ci dice, è pieno di migranti che attraversano il confine proprio in questa strada. Siamo nel mezzo della cosiddetta “rotta balcanica” e non lo sappiamo. Premono sulle frontiere dell’Europa i disperati, mentre i potenti delle nazioni osservano il panorama imbarazzante delle migrazioni dai loro schermi. Li immaginiamo, gli oscuri burocrati, lavorare in sinergia per il nostro bene, per evitarci ogni seccatura; e gli agenti segreti che ascoltano con le cuffie lo stormire del vento, i fruscii delle foglie – le cimici sono state posizionate con cura – tentando di tracciare i movimenti di chi attraversa i fiumi, le montagne, i confini.

A Jasenovac l’impressione di sacralità è ancora maggiore; e molto più mesta, sarà anche per il treno posto poco distante che ricorda tante altre tragedie del Novecento. Il camminamento che conduce allo spomenik è fatto di traversine ferroviarie. Siamo nel luogo dove sorgeva uno dei più importanti campi di sterminio del collaborazionista Stato Indipendente di Croazia. Qui, per mano del regime degli ustascia, hanno trovato la morte un numero imprecisato, ma altissimo, di serbi, ebrei, zingari e comunisti. L’enorme fiore di cemento alto più di venti metri ideato da Bogdan Bogdanović ci pare bello soprattutto per come dialoga con il resto del paesaggio (il verde dei prati, la campagna). Sull’erba, cumuli e depressioni circolari sorgono in corrispondenza degli edifici del campo ora scomparsi – esempio ante litteram di land art? – come se la terra ribollisse e la vita potesse risorgere. È un monumento di resurrezione, quello che abbiamo di fronte, possente eppure armonico. Un inno alla vita celebrata in modo assai meno didascalico di quanto possa sembrare. In una sua intervista, Bogdanović racconta che la scelta del fiore è stata dettata anche da ragioni di opportunità politica: si trattava di ricordare, appunto, senza alimentare odi etnici e religiosi. Su internet vediamo delle foto dell’inaugurazione del 1966: una folla di persone, come mossa da un’invisibile mano, si accalca lungo le ali di cemento, quasi a volersi unire alla struttura. Il sito, questa volta, non è abbandonato. Ci sono anche delle indicazioni turistiche. Eppure siamo soli, ancora. 

Dopo aver risolto qualche problema con i colori della Polaroid, piccolo vezzo vintage che ci permettiamo, ripartiamo verso Osijek. Come sempre amiamo perderci; è il nostro modo di comunicare con i luoghi, soprattutto con quelli più reticenti. Prendiamo una stradina sterrata che costeggia il fiume Sava che separa Croazia e Bosnia. Sul nostro percorso troviamo numerosi ostacoli: rami e tronchi caduti, strettoie, buche, fango. Ogni oggetto qui è un confine tra noi e il resto, tra noi e la natura che ci appare improvvisamente selvaggia e indomabile. Sulla sponda bosniaca del fiume si intravedono celati accampamenti, tende solitarie erette, immaginiamo, per riparare qualche povera provvista, i resti di un falò di chi nottetempo ha tentato la fortuna a nuoto.

Tra pochissimo il sole sarebbe tramontato. Ma a tratti la Sava compare tra le fronde placida e bellissima, del colore dell’oro, poi sempre più rossastra, come le foglie multicolori degli alberi. La conversazione tra noi si fa più rada. Osserviamo con ansia le mappe sui telefoni che non hanno campo. Il ponte che avrebbe dovuto immetterci nuovamente in una strada conosciuta è crollato. Ne rimangono solo i pilastri al centro di un canale secondario. Prendiamo in considerazione l’ipotesi di tornare indietro, ma la strada è troppo stretta. Non ci rimane che avanzare lungo questo confine, tra i versi lontani di animali sconosciuti.

Al crepuscolo, due cavalli ci sbarrano la strada. Uno è bianco, l’altro baio, maestosi si stagliano nello spazio. Fermiamo il furgoncino, spegniamo il motore, scendiamo. Loro non si muovono di un centimetro. Ci guardano con i loro occhi grandi, puri, non ci stanno giudicando, ci guardano come se fossimo due uomini e basta. 

Per la maggior parte di noi Croazia significa il mare di Krk, le spiagge di Pag, le feste a Novalja, le code al confine la settimana di Ferragosto, l’Istria e le gite in barca. Sappiamo però che i Balcani sono la porta tra la nostra casa e l’Est Europa, sempre misterioso e affascinante. Nei nostri ricordi d’infanzia portiamo le spore di guerre dimenticate, qualche nome, suggestioni che facciamo fatica a organizzare, ma che ci rendono questo mondo non del tutto alieno.

Il fiume è come tutti gli altri. Quali significati porta con sé l’idea di fiume? L’acqua appena rotta in superficie trasporta zolle di terra bruna, rami, cadaveri di piccoli animali. L’aria è umida. Una costellazione di boe lontane brilla come la schiena del mare alla luna. Ripensiamo all’organo marino di Zara: le brevi onde comprimono l’aria in canne invisibili; il suono è sublime, echeggia nel vuoto, una musica del tutto inumana, eppure così naturale. La stessa che sentiamo ora.

Nel bosco, dopo parecchi minuti di auto, la seconda epifania: vediamo una dozzina di uomini silenziosi fissare la foresta. La loro presenza incongrua ci inquieta. Sono disposti a circa venti metri uno dall’altro. Guardano tutti nella stessa direzione, non verso il fiume, il fiume che di solito è perfetto per le razzie dei pesci gatto che mangiano uccellini morenti, gatti, piccoli roditori per poi essere cucinati sulle braci, ma verso l’interno. Non capiamo il perché di questa postura. Abbiamo letto dei respingimenti illegali e inumani, di una bambina morta nel fiume Dragogna (stavolta tra Croazia e Slovenia) nel tentativo di oltrepassare un altro confine. Vicino a noi, una bambina ha lasciato la mano della mamma mentre era in mezzo al fiume, la corrente l’ha trascinata via, il suo corpo non si è neppure trovato, naviga sul Danubio o forse addirittura in mare aperto. Ci domandiamo: se un migrante sbucasse improvvisamente da quei rami laggiù, salisse rapidamente quest’argine e ancora bagnato, con occhi supplicanti ci chiedesse aiuto, che faremmo? Cominciamo a precisare: aiuto per cosa? Per raggiungere il primo villaggio o per raggiungere l’Italia? Un modo come un altro per aggirare la questione. Che faremmo se qualcuno ci chiedesse aiuto? Tenderemmo la mano a quella bambina? Quello che pensiamo di essere coincide con quello che siamo davvero?

Dopo un’ora di sterrato, sbuchiamo in un piccolo villaggio di stalle, trattori e di case a un piano. Siamo inseguiti da un’auto grigia, che poco dopo accende i lampeggianti. Il primo contatto con il mondo lasciato il fiume è la polizia in borghese. L’agente in tuta da ginnastica grigia scende dall’auto. Ci chiede un sacco di informazioni: chi siamo, dove andiamo, che cosa fotografiamo. In effetti non siamo venuti per i migranti, non siamo venuti nemmeno per gli spomenik. Perché allora siamo venuti? Ci fa aprire le borse, il cruscotto. Alla fine l’uomo, serio, ci intima di andarcene. Questo non è un buon posto dove stare.

Proseguiamo verso Osijek allora, via da quel confine. Alloggiamo in una casa a un piano, fuori città. La proprietaria per l’occasione si è trasferita dalla figlia nella casa a fianco. È una donna grassa e rubiconda. Ci dona delle merendine a forma di orsetto ripiene di latte condensato appena ci vede, forse le sembriamo sciupati. Alle pareti della casa ci sono i ritratti di quelli che immaginiamo essere i suoi figli e i nipoti (in uno scatto, uno indossa la divisa jugoslava da marinaio); qualche libro, qualche vecchissima guida del parco naturale lì vicino, una serie di amari e liquori pieni di polvere nella vetrinetta della cucina che non assaggiamo. La signora esce da casa della figlia con un modem in mano, da cui pende un cavo. Internet! Internet!, ci dice, come fosse una ricchezza inestimabile. Si vede che ci tiene a darci un buon servizio.

Il giorno dopo, ci perdiamo a Nord della città capoluogo della Slavonia, tra campi percorsi da una rete di canali e le paludi del parco naturale. Non possiamo non sentirci a casa: potremmo essere tra le barene della nostra laguna, sugli argini del Delta del Po. Pescatori in giubbotto mimetico sono in fila sulla riva di un canale. Visti da lontano, con il binocolo, fanno impressione. Sembra sia in corso una manifestazione sportiva, un torneo. E poi rane, ricci, lontre, casette per il bird watching dappertutto.

Nel vicino paese di pescatori, Kopačevo, ogni casa ha una carpa disegnata sulla porta. Le campane della chiesa bianca, appena vicino all’unico bar, la domenica suonano per dieci minuti almeno. La carne grassa del pesce gatto sfrigola nella cucina di qualche taverna. Edifici fatiscenti o non finiti recano non sappiamo con quale speranza la scritta Prodaje se (si vende), mentre incongrui e sbiaditi cartelli turistici punteggiano questa desolazione. Passeggiamo per il paese: un’unica strada su cui si affacciano case e anziani sospettosi. Ci accompagnano due cani randagi: uno è grande e slanciato, l’altro più tozzo si muove a fatica. Istintivamente ci è simpatico. Il posto ci sembra allegro, con le sue case basse, colorate, con le sue carpe disegnate, con le campane che suonano per un tempo lunghissimo.

Invece Vukovar è scura e seriosa; città martire della guerra di indipendenza croata del ’91. La torre idrica, quasi distrutta dalle bombe, è stata conservata per ricordare la passata devastazione. Al centro, un enorme albergo abbandonato conserva i segni della battaglia, come molte altre abitazioni. Il Danubio è bellissimo a quest’ora, il confine con la Serbia si accende dei colori del tramonto. Immaginiamo di percorrerlo tutto, di arrivare a Belgrado e poi proseguire fino al mar Nero. I pescatori in riva al fiume si scaldano accedendo piccoli fuochi sui massi dell’argine artificiale. A giudicare dalla loro età, tutti hanno vissuto giorni terribili, non riusciamo a non pensarci. Da noi sono ormai pochissimi quelli che possono dire di aver visto direttamente la guerra. Come può vedere il mondo, o anche solo un fiume che è un confine, chi ha vissuto un assedio di ottantasette giorni?  

Al parco Dudik c’è l’ennesimo spomenik. Cinque coni alti 18 metri, sormontati da una punta di rame e circondati da monoliti a forma di barca, quasi che sotto l’erba ci fosse una città sommersa di cui restano appena visibili pinnacoli misteriosi, come il campanile del lago di Resia. Non vi è alcuna indicazione. Il sito, recentemente restaurato su pressione della comunità serba, è in evidente stato di abbandono. Qui è avvenuta una delle più cruente esecuzioni di civili per rappresaglia contro la Resistenza partigiana. Nel boschetto di gelsi (Dudik) dove siamo, c’erano le fosse comuni. Per terra, giacciono i resti di qualche passata commemorazione, una corona distrutta con scritte in cirillico (che qui è sempre più mal sopportato). Stando alle indicazioni di Bogdanović, il progettista è ancora lui, il visitatore dovrebbe arrivarci come arriverebbe alla leggendaria tomba di Porsenna. Tutti questi monumenti, in effetti, implicano una esplorazione e una scoperta. Se fosse voluta, l’assenza di indicazioni sarebbe geniale. 

Vicino, in un campo di calcio non recintato, si gioca una partita. Il silenzio è irreale. Anche il pubblico tace assorto nel sole freddo. Sentiamo i calciatori ansimare. Poi un urlo improvviso: la squadra di casa ha segnato. La partita finisce poco dopo, pacche sulle spalle. Più in là, il muro di una casa è perforato da numerosi proiettili, una barca giace sul ciglio della strada non si sa da quanto.

A cena mangiamo un pesce gatto che non avremmo mai mangiato in altre occasioni. A casa, osserviamo con un certo disgusto i pochi pescatori che si affacciano sul Fratta Gorzone, il corso d’acqua più inquinato d’Italia, denso e grigio, per pescare questi bestioni infestanti che hanno la carne grassa con un riconoscibilissimo sentore di fango. Prima di ripartire tentiamo di acquistare una zucca; sono esposte in una carriola appena fuori dal nostro alloggio. Ma le kune mancano e non c’è modo di pagarla in altro modo. 

Attraversiamo la frontiera bosniaca a Bosanska Gradiška, superando un ponte sulla Sava, il fiume che avevamo precedentemente costeggiato. La fila infinita di Tir in attesa dei controlli doganali ci fa capire che stiamo uscendo dall’area Schengen. Giungiamo a Banja Luka, capitale della Republika Srpska, una delle due entità territoriali in cui è stata divisa la Bosnia ed Erzegovina dopo la guerra, quella a maggioranza serba. Durante la cena, in un locale fumoso, ubriachi in tuta da ginnastica e giovani donne vestite di tutto punto ridono sguaiatamente. Pensiamo che qui morte e vita debbano presentarsi in forme estreme, grottesche. Le famiglie non possono che essere quelle descritte da Danilo Kiš.

Scendiamo verso Sud. La strada si distende tra montagne rocciose, boschi, verdissime colline. La natura forte e impenetrabile non pare adatta ad ospitare l’uomo. Eppure avvistiamo, uno dopo l’altro, piccoli fuochi ardere tra le valli apparentemente disabitate, colonne di fumo che ci fanno percepire l’umano per indizi. Nei rari centri abitati, altri fumi. Sono quelli dei fuochi accesi per distillare la rakija, bevanda nazionale, quasi sempre prodotta da prugne o mele fermentate. Enormi alambicchi in rame stanno sui cortili delle case, come delle piccole locomotive ferme alla stazione. Uomini sono accovacciati attorno alle fiamme, come i pescatori di Vukovar.

Entriamo nella cosiddetta Federazione croato-musulmana. A Donji Vakuf i cimiteri islamici sono a bordo strada. Lapidi semplici a forma di piccolo obelisco riportano solo il nome del defunto. Nessuna foto. Sono dappertutto: vicino ai cortili delle case, sul ciglio della strada; i cimiteri sono diffusi e non protetti da alcuna barriera visiva – muretto, recinto, alberi – quasi che fosse inutile nascondere la morte, radunarla in luoghi specifici per toglierla dalla vista. Il sepolcro è elemento del paesaggio che però ci appare tutt’altro che mortifero. Nei pressi di una moschea, alcuni ragazzi grigliano la carne a pochi passi dalle sepolture. Ridono e scherzano e sorprendentemente non ci sembra irrispettoso.

Sulla collina Smetovi si gode della vista completa sulla città di Zenica. Da quassù brillano al sole le finestre dei lontani palazzi e le colonne di fumo bianchissimo che escono dalle tante ciminiere della zona industriale. Alle nostre spalle, l’ennesimo spomenik: una sorta di enorme cavatappi costruito nel ’68 e poi ricostruito in anni più recenti dopo essere stato distrutto. Qui i cetnici massacrarono più di trenta combattenti partigiani impegnati contro l’occupante nazi-fascista. La collina oggi è un luogo di aggregazione: troviamo decine e decine di famiglie, ciascuna con tavolo, sedie, asciugamani. Tanti sono i musulmani: le donne portano il velo e gli uomini non bevono birra. Un gruppo di amici sta cucinando fagioli e stinco di vitello. Uno di loro, che ha vissuto per venticinque anni in Texas, ci informa che il tempo di cottura è stimato in 4 ore. 

La notte è tesa, un vestito appena stirato pieno di strappi. Nel piccolo paese che attraversiamo, la locanda è illuminata a fatica, i morsi delle tenebre non lasciano scampo alle lampare. Entriamo trattenendo il respiro. Un solo tavolo dove quattro uomini mangiano stancamente (occhi acquorei per il fumo, braccia possenti e sporche, bocche deformate da sorrisi alcolici, una è deturpata da una cicatrice). Ci avviciniamo al bancone. Un cameriere anziano e panciuto sta lustrando posate e bicchieri. È possibile mangiare qualcosa? La fame ci attanaglia, ci morde lo stomaco, un modo come un altro per sentirsi umani e mortali. Seduta ad un tavolo, persa nell’ombra, una donna fuma silenziosa. Il cameriere ci pensa un po’, poi fa un cenno affermativo con la testa. Ci fa accomodare ad un tavolo tra gli altri sparecchiati. Dalla finestra vediamo la strada che si perde nel vuoto, la nostra immagine riflessa sul vetro. La sovrapposizione delle immagini è perenne, il mescolamento impossibile. Più in fondo, i resti di una gru dimenticata, un paio di vagoni ferroviari trasformati in stalle. L’oste arriva poco dopo. Ci apre il menù sotto gli occhi, non parla. Lo scambio è ridotto ai minimi termini. Questo, almeno, bisognerebbe imparare: adottare una comunicazione sostenibile, amica dell’ambiente. Decifriamo solo in parte le lettere che compongono una lingua straniera; le pagine sono unte, le sfogliamo con due dita. Antipasti, piatti di pesce, piatti di carne, contorni. Non riusciamo a deciderci, non abbiamo voglia di leggere. Quando torna, dieci minuti dopo, ordiniamo la prima cosa che ci viene in mente. Lui dice che non c’è scuotendo la testa. Indichiamo un’altra pietanza. Non c’è neppure quella. Allora interviene indicandoci un piatto, un singolo piatto, l’unico disponibile. Ci arriva una brodaglia rossastra nella quale pezzi di carne galleggiano qua e là come scogli perduti, iceberg fumanti. Mangiamo lo stufato con il pane, sollevati, finalmente, dall’assenza di scelta. 

Il giorno seguente, facciamo colazione all’Hotel Pino di Sarajevo; è un albergo di lusso immerso nella natura. Potremmo essere in Alto Adige. Lì vicino ci sono i resti del villaggio olimpico che ospitò i giochi invernali del 1984. La pista da bob abbandonata è diventata un’attrazione per turisti; noi la vediamo di sfuggita, nascosta testimonianza dell’esistenza di un paese che non esiste più e che non abbiamo conosciuto. L’intera città, la capitale multietnica e affascinante, non ci si svela. Sembra nascondere le tracce di quell’assedio sanguinosissimo e logorante di cui abbiamo solo letto.

Il mercato di Džemala Bijedića è un tumulto di persone di tutte le età ed etnie. La gente si accalca tra bancherelle di montagne di vestiti, scarpe, cappelli, cinture, orologi, attrezzi di ferramenta. Qualcuno si prova un vecchio cappotto in vendita per pochi marchi. Tre donne stendono un lenzuolo al sole per tastarne la qualità. Sorrisi sdentati, mani tremanti, qualcuno azzanna le solite salsicce ficcate dentro a panini scaldati sulla griglia. Ci sembra impossibile comprare qualcosa, eppure in questo mercato, tra questi volti, c’è quello che stiamo cercando. Allontanandoci, incontriamo una signora dall’aria dignitosissima; espone su un telo ciò che ha da vendere: due paia di calzini, una bambola sporca, qualche forcina per capelli.

A Vogošća l’ennesimo monumento. La città è stata una delle più colpite dalla guerra civile che ha dilaniano il paese tra il ’92 e il ’95. Nessuna informazione, solo una struttura rettangolare di cemento con incisioni e bassorilievi. Al centro si apre una ferita, uno squarcio: potrebbe rappresentare il dolore che non si rimargina o forse la forza vitale che continua a uscire da quella che è a tutti gli effetti una cripta. Da sopra la collina dove sorge lo spomenik si vede la nuova moschea, bianca, col minareto di vetro. Assomiglia a una piscina. Un gruppetto di giovani che fumano marijuana ci osserva indifferente.

Ritorniamo verso Nord. Lungo la strada le presenze antropiche sono come al solito scarse. Il terreno è pieno di doline e depressioni. Qualche venditore di miele o di cavoli cappucci. Arriviamo a Bihać che è sera, dormiamo in un appartamento vicino a un fiumiciattolo e una piccola cascata. La memoria, ancora. Bihać è stata protagonista di episodi particolarmente cruenti durante la Seconda Guerra mondiale (è stata liberata e poi riconquistata dall’Asse) e poi durante la guerra civile, quando in lungo assedio morirono migliaia di persone. 

La mattina raggiungiamo la collina di Garavice, appena fuori città, dove c’erano le fosse comuni. La nebbia è fitta. L’erba cresce alta, libera, come da noi non succede più. Parcheggiamo il furgone e raggiungiamo il monumento camminando sull’erba, come era successo a Podgarić. L’emozione è forte, intensa. Dalla nebbia, una dopo l’altra, emergono alcune colonne fatte di blocchi di cemento giustapposti. Tredici in tutto. Ci ricordano le enormi statue dell’Isola di Pasqua. Un sentiero ci passa in mezzo, creando così quello che ci sembra un percorso di ascesa e purificazione. L’aria fredda ci riempie i polmoni. Bogdanović (il progetto è ancora suo) le chiamava “le sue donne”, figure in lutto, meste, sebbene prive di connotati umani. Anche qui mancano pannelli informativi, qualsiasi simbolo religioso o nazionale. La salvezza, se esiste, è fuori dall’identità, dal senso di appartenenza. È nelle cose, nella loro silenziosa presenza. In questa sorta di Stonehenge della morte sono le forme a parlare. Tornando, notiamo i resti di un falò, qualche bottiglia di vodka. 

Il viaggio, come ogni viaggio, non si conclude una volta tornati a casa, anzi. Le immagini accumulate lievitano nel cervello. Portiamo con noi la disarmante malinconia emanata da questi luoghi, diffusasi come un vento radioattivo, i colori così diversi da quelli mediterranei, una piantina che morirà poco dopo e un sacchetto di cioccolata con i canditi, dolcissima e indigesta, che pure non abbiamo il coraggio di buttare. Proseguiamo, quindi, a camminare guardinghi tra i nostri pensieri inesplosi.

ARTICOLO n. 39 / 2023

DESERTO VERDE

Pubblichiamo un’anticipazione dal volume L’Anno del Fuoco Segreto (Bompiani) a cura di Edoardo Rialti e Dario Valentini, che ringraziamo. Il volume sarà in libreria il 17 maggio.

Siamo tutti bambini nel bosco, perduti, abbandonati. Sussultiamo a ogni rametto spezzato, ogni fruscio degli alberi è una mano tesa a proteggerci o forse a ghermirci. 
La scienza evolutiva e le immagini della religione si sovrappongono, rigirano tra le mani lo stesso oggetto scuro, sbozzato, come un manufatto ultraterrestre o una concrezione lavica nel quale pare di scorgere un volto dalla bocca spalancata. Siamo scimmie spaventate, il giardino dell’Eden è sbarrato alle nostre spalle, una spada fiammeggiante ci separa dal riposo e dall’abbraccio universale, la coscienza della nostra nudità ci esalta e ci umilia. Cerchiamo di leggere il mondo e vi proiettiamo speranze e minacce, sogni di comunione la cui dolcezza sbiadisce al risveglio, orrori e crudeltà che ci attirano come falene al fuoco. Gli uccelli cantano, il buio ci osserva. Avanziamo incerti su gambe malferme e ai bordi dei nostri desideri avvertiamo la pressione di tutto quell’oltre, lo popoliamo di demoni e dei. Ragazze emergono dalle nubi e ci tengono le braccia. Scarpette rosse ci fanno ballare fino a sanguinare e scavare una tomba nel terreno. Mozziamo la testa ai bambini e la chiudiamo in una cassa dove continuano a chiamarci con un pigolio. Facciamo l’amore con lupi e serpenti d’acqua. Infondiamo la nostra vita in un oggetto, lo riveliamo a chi lo spezza sotto il tacco. Ci svegliamo al mattino per scoprire che il nostro amore è stato portato via, o che lo abbiamo ceduto noi stessi al re della morte per ottenere un giorno in più sotto il sole.
I processi di razionalizzazione individuali e collettivi ci fanno incanalare le infinite varianti, tutte vere, tutte false, in percorsi lineari. La realtà e le storie diventano rette parallele o perpendicolari, finiscono bene o male, rassicurano la domanda sottesa: È vero? 
Dividiamo i racconti in generi, come altrettante finestre da cui affacciarsi sul mondo e noi stessi. 
Una storia deve essere tale per essere raccontata, eppure non è solo tutto ciò che in essa è taciuto a darle spessore autentico, ma anche l’infinita tempesta delle possibilità alternative, i suoi tradimenti e rovesci, l’irruzione di tutto ciò che pare contraddirla, come un viso angosciato allo specchio che si veda rispondere da un sorriso nel riflesso. 
Le definizioni aiutano e al tempo stesso limitano e uccidono. Si costruiscono templi solo per scoprire che alla fine il fuoco del sacrificio è sprezzato dal dio, che nel frattempo è volato via.


Edoardo Rialti, Dario Valentini

L’uomo davanti a lei era bendato, non poteva vederla. Aveva una mano legata alla sedia, era troppo distante, non poteva colpirla. E l’interrogatorio andava avanti da ore, senza nessun esito, solo quattro parole ripetute costantemente, ossessivamente, come un mantra, come una verità. La tenente Soledad Valverde si accasciò – il viso sul tavolo di plastica verde scheggiata, il contatto fresco di quella superficie sulla guancia – e si prese la testa tra le mani. Non fu che un attimo, si tirò su, si massaggiò le tempie. Aveva male alla testa e bisogno di bere, ma la bottiglia che aveva accanto – anch’essa di plastica, riutilizzata mille volte e probabilmente ormai tossica – era vuota.

I suoi compagni sarebbero stati ancora dall’altra parte dello specchio spia, a guardarla, a ridere dei tentativi di interrogatorio che con tanto accanimento aveva cercato di portare avanti? O se ne erano già andati e ora si stavano ubriacando nella cantina più vicina, con qualsiasi cosa riuscissero a trovare, qualsiasi cosa si potesse distillare dalla selva?

Tutte quelle ore non erano state altro che uno spreco di energia, di aria ed elettricità – la lampadina che illuminava debolmente eppure ferocemente quella sala sotterranea sporca e spoglia, l’impianto di aria condizionata quasi al limite delle forze, era quasi meglio ai tempi del vecchio ventilatore a pale, ma ormai non funzionava più, pendeva dal soffitto, inutilizzato, con quella che si sarebbe detta mestizia – e uno spreco anche delle sue, di forze. Non aveva funzionato. Per quanto le ripugnasse, alla fine di quella giornata, e mancava poco ormai, non avrebbe avuto altra scelta che affidare il prigioniero ai suoi compagni. La tenente María Mendoza avrebbe riso di lei, era l’unica altra donna della squadra, e la più feroce di tutti, donne e uomini. Sarebbe stata lei a incaricarsi delle torture, avrebbe preteso che Soledad assistesse, che imparasse il mestiere una buona volta, come diceva, con un sorriso splendido – perché María Mendoza era davvero bellissima – che si torceva in un ghigno, o almeno così sembrava a lei, Soledad. Era lei sola a vedere quello che vedeva, a incarnare la solitudine che sua madre le aveva impresso addosso nel nome? Ma questa soddisfazione no, non gliel’avrebbe concessa. Avrebbe chiesto il trasferimento per l’interno della selva, per il minuscolo villaggio di Las Luces, dove era cominciato tutto. Al comando temporaneo avevano bisogno di unità e più volte le avevano fatto capire che la sua domanda, se l’avesse presentata, sarebbe stata accolta con procedura immediata, forse con te parleranno, le aveva scritto il capitano Morales dall’accampamento. Forse anche io, non aveva scritto, potrei parlare di nuovo con te, se tu venissi qui, se tu tornassi, Soledad.

Davanti a lei, l’uomo – il suo nome era Elías Hayes – restava immobile come era sempre stato, un braccio appoggiato al tavolo, ripiegato davanti a sé, l’altro trattenuto dai legacci. Anche il sudore gli colava lentissimo sul viso. Era come se avesse rallentato di proposito la circolazione del sangue, ma come era possibile una cosa del genere? Il fascicolo che la squadra – di cui oggi anche lei, Soledad, faceva parte – aveva iniziato a compilare tanto tempo fa diceva che Elías Hayes praticava la meditazione vipassana. Forse era quella la ragione. La benda nera e sudicia che gli copriva gli occhi lasciava vedere tratti bruniti dal sole. Aveva più di sessant’anni, diceva ancora il fascicolo, lo confermavano i capelli grigi in cui spiccava ancora solo qualche ciocca spessa e nera. Era tarchiato e doveva essere più forte di quanto non sembrasse. Soledad rilesse le frasi per quella che le sembrò la millesima volta, avrebbe potuto ripetere il fascicolo a memoria se avesse voluto.

Elías Hayes era stato diplomatico per gli Stati Liberi all’epoca della loro fondazione, trenta o trentacinque anni prima, quando pezzi e pezzi di America Latina si erano strappati dalle nazioni a cui appartenevano per fondersi insieme, e sogni di libertà e giustizia sociale avevano accompagnato quella come tutte le altre rivoluzioni del passato. Trentacinque anni dopo, ne rimaneva ben poco, questo Soledad lo sapeva bene, questo non compariva nel fascicolo di Hayes, che era stato aggiornato al “caso Quinn”. Dopo la morte improvvisa della moglie Rocío in un’aggressione in Sudafrica, Hayes aveva lasciato l’incarico ed era diventato senza fissa dimora. Aveva molti amici in Europa, nei paesi dove era stato distaccato sia prima che dopo la nascita degli Stati Liberi, in Spagna soprattutto e in Francia. Poi aveva trascorso qualche anno in India, forse addirittura in Birmania. Di tanto in tanto veniva avvistato e segnalato, anche se il fascicolo era incompleto, e la ragione delle segnalazioni non era riportata. I fascicoli erano sempre incompleti in quel modo, e negli anni, Soledad aveva imparato a decifrare le assenze, il vuoto, ciò che non veniva messo nero su bianco. In questo caso, però, non ci riusciva, o non completamente.

Le segnalazioni si infittivano dalla data di pochi mesi prima, quando improvvisamente e senza motivo apparente Elías Hayes era rientrato in patria e si era stabilito nel villaggio di Violeta, nelle case di lamiera o baracche che sorgevano a poca distanza dall’edificio della capitanía dove si trovavano adesso. Aveva accettato l’invito di un amico antropologo, Ian Medina Quinn, che da qualche anno si era stabilito a Violeta, anche se conduceva le sue esplorazioni soprattutto nella zona di Las Luces, nell’interno della regione. Tra i due c’era una qualche differenza d’età, ma anche una solida amicizia. Stando al fascicolo, Hayes e Medina Quinn si era conosciuti quando Hayes era in carriera diplomatica in Spagna. Medina Quinn, la cui madre si era ritrovata in mano il passaporto degli Stati Liberi per lo ius sanguinis, aveva lavorato qualche anno in Ambasciata mentre completava gli studi. Poi Hayes era ripartito per nuova destinazione e Quinn aveva proseguito il percorso accademico, fino a diventare un’autorità nell’ambito della ricerca su quelli che allora si chiamavano, con una terminologia che Soledad non poteva impedirsi di trovare razzista, indigeni non contattati. Negli anni, il campo d’indagine di Ian Medina Quinn si era ristretto a poco a poco, a mano a mano che gli ultimi esponenti delle tribù amazzoniche che avevano evitato, o coscientemente rifuggito dopo pessime esperienze risalenti magari a qualche secolo prima, l’incontro con l’Occidente in una qualsiasi delle sue molte forme, erano entrati inevitabilmente in contatto con il mondo tecnologico avanzato, il mondo di cui anche lei, Soledad, faceva parte, nonostante tutto. E nonostante tutto in quella stanza, fuori da quella stanza, nella capitanía, i villaggi di Violeta e di Las Luces ma anche la stessa capitale, le sembrassero nient’altro che rovine, o forse reliquie sopravvissute di una civiltà sul bordo del collasso. Pochi paesi avevano riconosciuto gli Stati Liberi, c’era stato l’embargo, certo, ma… Soledad si scrollò quei pensieri di dosso, si costrinse a continuare, ancora una volta, la lettura. Doveva esserci, in quel dannato fascicolo, qualcosa, una traccia, una pista, un enigma che non aveva ancora scovato.

In un articolo molto discusso, uscito diversi anni prima su uno dei principali quotidiani del paese, La Voz que es nuestra, Medina Quinn aveva sostenuto che, per quanto la fondazione degli Stati Liberi fosse sembrata offrire, nei primi anni, speranze di sopravvivenza nei propri modi di vita per tutti gli indigeni dei nuovi territori – minacciati dall’industria estrattiva e da quella del legname, dal contagio culturale come dalle nuove malattie, dall’abbattimento di zone sempre più ampie di foresta amazzonica, dall’inquinamento delle acque, dall’estinzione degli animali, dalla catastrofe climatica già diventata semplicemente per tutti l’oggi, qui – ormai si poteva dare per assodato che le politiche del governo di Ciudad Dorada – perché così si chiamava, pomposamente, pensò Soledad, la capitale degli Stati, la città d’oro, come l’Eldorado sognato dagli antichi conquistadores, dai pazzi e dagli esploratori anche se quasi tutti la chiamavano semplicemente Dorada, come se fosse un’orata d’allevamento – non avevano più nulla di diverso da quelle di altri stati, del presente o del passato, alle prese con la stessa questione.

Medina Quinn non lo diceva apertamente, certo, il suo era un articolo scientifico e quasi tecnico, intessuto di dati e numeri, ma le conclusioni erano chiare. Per i non contattati, chiunque fossero, qualsiasi cosa veramente volessero, non c’era più spazio, non c’era più tempo, e dunque neanche speranza se anche questa deve per forza annidarsi in una piega dello spaziotempo piegato dall’oggetto che siamo noi, pensò Soledad sentendo ravvivarsi nella mente, con una fitta, i ricordi degli studi scientifici che avrebbe voluto proseguire presso l’Università di Dorada, e che aveva dovuto abbandonare quando suo padre era morto, investito per strada, e lei aveva intrapreso la carriera militare, per ritrovarsi in quella piega esatta, lì, in quella stanza, dopo ore di interrogatorio, davanti a quell’uomo. Elías Hayes, che doveva sapere che fine avesse fatto il suo amico Medina Quinn, dopo essere scomparso nella selva, Ian Medina Quinn e i suoi specchi, e che cosa c’entrassero, se davvero c’entravano qualcosa – perché per quanto i suoi superiori ne fossero convinti, a titolo personale Soledad Valverde si concedeva di dubitarne – con le misteriose apparizioni di luci in cielo che forse avevano dato il nome, decenni e decenni prima, al villaggio di Las Luces nelle profondità della selva e che ora, subito dopo l’arrivo dell’antropologo, e poi del suo amico, avevano ricominciato a infestare il cielo, terrorizzando gli abitanti e i loro animali.

Uno di quegli specchi, l’unico che era stato ritrovato nell’abitazione di Medina Quinn a Violeta, dove Hayes si era installato al suo arrivo, era davanti a lei, coperto da un panno, che Soledad sollevò. Era uno specchio antico, di fattura ottocentesca o forse ancora precedente, la tenente non avrebbe saputo dirlo, non sapeva niente di storia dell’arte. Lo specchio doveva essere di bronzo. Con qualche cautela Soledad vi cercò il riflesso del suo viso. La superficie che avrebbe dovuto essere riflettente appariva invece completamente oscura, brunita più del metallo dell’incastonatura, e la luce vi annegava. Con una rapidità dettata da un ingiustificato, si disse, timore, Soledad rimise il panno al suo posto. Da dietro l’altro specchio, lo specchio spia, le giunse qualcosa all’udito, un rumore, forse i suoi compagni erano tornati, forse solo María, e si stava godendo lo spettacolo. Era ora di riprendere l’interrogatorio.

I fatti, apparentemente – Soledad li ricapitolò per l’ennesima volta a beneficio del suo muto, passivo interlocutore – erano questi.

Dopo l’uscita dell’articolo, e le polemiche che aveva suscitato, Ian Medina Quinn era stato oggetto di aggressioni, in uno o due casi anche molto violente, da parte di gruppi estremisti. Cogliendo – o forse avendo provocato? – questo meraviglioso pretesto, con la scusa della sua sicurezza la capitanía generale della regione lo aveva messo sotto discreta sorveglianza, più discreta e più intensa di quanto non fosse già la vigilanza a cui era da tempo sottoposto. Da parte sua, il governo centrale aveva avanzato all’illustre studioso straniero – Quinn aveva la doppia cittadinanza, degli Stati Liberi per via materna ma anche europea, per parte di padre – l’offerta di una scorta, che era stata rifiutata, perché avrebbe interferito con le ultime possibilità di portare avanti gli studi a cui aveva dedicato gli anni e la vita. Invece, Quinn aveva chiesto e ottenuto di potersi trasferire a Violeta, che era poco più di un avamposto militare, e qualche casa sovrannumeraria, nel midollo stesso della selva, e nelle vicinanze dell’ancora più interna aldea di Las Luces, l’ultimo brandello di terra degli stati dove sembrava che gli indigeni non contattati ancora, forse, sopravvivessero in libertà.

La battaglia a cui Ian Quinn intendeva dedicare ora tutte le energie rimaste mirava alla creazione di un’area naturale ad accesso interdetto che proteggesse la zona da ogni ulteriore incursione civilizzatrice, consentendo così, forse, agli invisibili esseri umani che amava – se studium vuol dire: lungo amore – di un amore non ricambiato da decine di anni di andare avanti ancora, almeno fino alla fine della sua vita, nel modo a loro noto di vivere, e traendone per sé il beneficio egoistico di potersi continuare a dedicare – ancora: fino alla fine – all’unica cosa che aveva sempre fatto o voluto fare: studiare la loro esistenza. Medina Quinn non aveva famiglia, né moglie né figli, e neanche amanti, a quanto diceva il fascicolo. Sembrava completamente disinteressato a qualsiasi essere umano avesse già avuto contatti con la civiltà, o, riportava il fascicolo citando una battuta ironica dell’illustre antropologo, “avesse avuto la disgrazia di nascervi”.

A Violeta, Ian Medina Quinn aveva trovato pace, almeno in apparenza. Occupava una casa concessa dal governo al limitare del piccolissimo agglomerato, sulla frontiera estrema della selva che qui sprigionava tutta la sua incandescenza. Pescava e cacciava come tutti, compresi i militari della capitanía, aveva adottato un paio di cani randagi ma li lasciava vagare liberi, a rischio che venissero divorati dai giaguari, e di tanto in tanto si faceva vedere nell’unico minuscolo spaccio dell’aldea per comprare sapone o altri generi, alimentari e non, di prima necessità. Praticava quotidianamente la selva, prima con qualche abitante del paese contrattato come guida, poi sempre più spesso da solo, scriveva i suoi libri che pubblicava in Europa, dove era una sorta di celebrità – l’ultimo si intitolava Deserto verde – ma, in sostanza, non aveva più dato grattacapi. Se aveva avuto incontri, nel folto della selva, con indigeni non contattati, Medina Quinn non ne aveva fatto parola, e questo non sembrava da lui, per cui non restava che concludere, diceva il rapporto, che non fosse accaduto nulla di simile, se si escludeva la nota questione raccontata nell’ultimo documentario di Quinn, anch’esso intitolato Deserto verde, e per cui nel fascicolo si faceva riferimento a un altro dossier, che approfondiva dettagliatamente la vicenda. La sorveglianza sull’inquieto, ora non più così inquieto, studioso si era allentata, o almeno era entrata in sonno.

Forse per questo l’invito improvvisamente rivolto da Ian Medina Quinn a Elías Hayes, l’arrivo di questi a Violeta ospite dell’antico amico, e le spedizioni che i due avevano intrapreso nella selva con rinnovato vigore, avevano risvegliato attenzione e sospetti. Quinn doveva aver pensato che l’ex diplomatico Hayes fosse ancora dotato di contatti ed entrature che avrebbero potuto facilitare il suo progetto di istituzione dell’area protetta, aiutandolo a convincere della bontà dell’idea alti esponenti della capitale, magari la stessa ministra delle Foreste, che era stata allieva di Hayes nei corsi che questi per un certo periodo aveva tenuto a Scienze Politiche, indirizzo Relazioni Internazionali, all’Università di Dorada. Per questo, probabilmente Ian Quinn aveva invitato Hayes a vedere per conto proprio cosa stava accadendo – se è possibile vedere una scomparsa, in questo caso la scomparsa dei peraltro invisibili non contattati – sperando di suscitare in lui una risposta emotiva, fondamento di una successiva reazione politica. O forse, semplicemente, una vita come la sua, un’intera vita trascorsa in solitudine – o quasi, pensò Soledad, che aveva già completato più volte la lettura del fascicolo, aveva visto il documentario, Deserto verde, e sapeva di Quinn molto più dell’estensore di quelle note all’epoca in cui erano state scritte – cominciava a pesargli, e come Robert FitzRoy, il comandante dell’hms Beagle decenni e decenni prima, cercava la compagnia di un futuro Darwin nel viaggio verso le sue personali Galapagos, anche se qui a parti invertite. Fatto sta che Elías Hayes aveva prontamente accettato l’invito del suo amico, e pagato una cifra non indifferente – forse esorbitante sarebbe stato un aggettivo più appropriato – per un trasporto privato a Violeta in elicottero. Era stata lei stessa, Soledad Valverde, lo ricordava, ad accoglierlo all’arrivo, dato che l’unico eliporto nel raggio di chilometri era quello militare della capitanía.

A solo poche settimane dall’arrivo di Elías Hayes, lui e Ian Medina Quinn, l’ex diplomatico e l’antropologo, si erano già inoltrati più volte nella selva; e l’ultima volta senza guide, con zaini provviste e tende, diretti a Las Luces per via di terra, il che già di suo era una follia, dato che era molto più rapido e sicuro spostarsi tra i due villaggi per via d’acqua. Las Luces era più all’interno della selva di Violeta rispetto alla riva del Victor Jara, il grande fiume della regione, ma c’era un affluente con sufficiente portata d’acqua, El Infiel, che raggiungeva l’insediamento.

Al villaggio, i due, nonostante la grande esperienza di Quinn, non erano mai arrivati. Da quella spedizione, Hayes era rientrato da solo. Che ne era stato di Ian Medina Quinn? Era rimasto nella

selva, era morto, era stato ucciso? Dagli abitanti di Las Luces, dalle misteriose, forse aliene, luci in cielo che recentemente avevano rinnovato con vigore la propria antica e funesta presenza, dallo stesso Hayes resosi di colpo assassino per un movente ancora ignoto; o dai Victor Jara, i terroristi che ultimamente erano dappertutto e che avevano preso lo stesso nome del grande fiume, forse per segnare la loro appartenenza alla regione, forse per farsi gioco dei funzionari del governo degli Stati Liberi che, nei primi anni dopo la creazione della nuova realtà politica, avevano sparso a mani piene sulla mappa della zona i nomi delle più belle voci del secolo trascorso, assassinate o indotte al suicidio dalle mille dittature del continente, come per farle risuonare di nuovo, finalmente libere. È sempre la stessa musica invece, sembravano dire i Victor Jara scegliendo quel nome, non è cambiato nulla, siete come loro. Forse era proprio ai Victor Jara, che sostenevano di proteggere gli ultimi nascondigli dei non contattati con le armi, che si era unito Medina Quinn, ed era questo che Soledad Valverde, e la squadra di cui faceva parte, dovevano scoprire.

Da quando era ritornato, ed era stato prelevato e accompagnato alla capitanía, da quando era iniziato l’interrogatorio sulle sorti del suo amico, Elías Hayes, però, non aveva fatto altro che ripetere le stesse quattro parole: è diventato pensiero vivente.

Solo questo. Quattro parole, o sette.
Ian Medina Quinn è diventato pensiero vivente.
Come se fosse possibile, come se avesse un senso.
Ian Medina Quinn –

ARTICOLO n. 38 / 2023

“CIECO”: MASSIMO FINI IN LUCE

La stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura

Cieco. È il titolo del libro scritto da Massimo Fini alle soglie del compleanno numero 80. È la confessione –ultima dice lui – di un uomo afflitto da un glaucoma che gli ha tolto progressivamente la vista. È un viaggio dentro l’anima esposta di un giornalista, autore, saggista, che ci vede benissimo.Abbastanza, anche ora, forse proprio ora, per continuare a riflettere su se stesso e sui rilanci che la coscienza innesca e determina. Per certi versi, così da sempre. Mi scuso per l’uso qui della prima persona singolare: conosco Fini da molti anni e sono un suo vecchio ammiratore. Per la cultura e la libertà di pensiero; per l’indipendenza e il coraggio; per l’intelligenza e la capacità – talvolta cocciuta, persino autolesionista – di andare contro “pur di…”. 

E non importa nemmeno trovarsi in linea o per nulla d’accordo con le sue opinioni. Conta la stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura. Dunque, un maestro. Anticonformista, presente e attivo, peraltro. In luce, ecco, alla faccia del glaucoma. Per me, per chi ama ancora, ha amato moltissimo questo mestiere. Lo scrivo perché l’ho pensato, per l’ennesima volta, uscendo dalla sua casa colma di libri, dove è un piacere chiacchierare – e fumare – condividendo (anche) qualche comune memoria, un’af-fini-tà per me preziosa.

Giorgio Terruzzi: Il libro, dunque. Cieco. Il titolo maschera una ambivalenza. Annuncia una condizione, una fatica. Ma anche uno stato propizio all’indagine. Non solo intima…

Massimo Fini: Nella mitologia greca il cieco è il veggente. Tiresia, non disponendo della vista, va oltre. Però, porco cane, io ci vedevo benissimo ed ero veggente anche con gli occhi in piena funzione.

G.T. Due date: 1985, 1989. Scandiscono i momenti più difficili della malattia. Puoi ricordarli?  

M.F. La prima data coincide con la prima diagnosi, la seconda segna l’inizio della fine, il momento più doloroso. Guardavo il cielo, osservavo le stelle durante una bellissima notte a Capri. Stavo lì con la mia fidanzata e mentre non riuscivo a mettere a fuoco il firmamento, mi resi conto che non avrei più rivisto nulla del genere.

G.T. Questo testo sembra completare un lungo racconto autobiografico iniziato con Ragazzo. Storia di una vecchiaia, pubblicato nel 2007. È come se l’analisi di te stesso, per certi versi narcisistica, per altri illuminante, sia diventata la vera guida, la fonte del pensiero. Utile a individuare un punto di vista. La cecità su questo procedimento, sino a che punto incide? 

M.F. Be’, io non ho fatto altro che scrivere autobiografie. Se penso a Una vita, soprattutto, a Ragazzo, al Dizionario erotico, a Confesso che ho vissuto, trovo testi autobiografici. Il tema riguarda anche la mia opera filosofica, termine da usare tra virgolette. Come scrive Nietzsche, ogni filosofia è una autobiografia. Credo che questo mio modo di essere, dove è pur possibile riconoscere un certo narcisismo, sia abbinato da sempre a una grande capacità di ascolto. Cosa fondamentale, non solo nel nostro mestiere. Nella vita. Nino Nutrizio, uno dei grandi maestri del giornalismo, direttore de “La Notte” diceva: questo è un lavoro che si fa prima con i piedi e poi con la testa. Bisogna uscire, perlustrare, ascoltare. La testa viene dopo, quando si tratta di dare un senso al materiale che hai raccolto. La cecità ha rafforzato questo modo di fare, quindi di pensare e poi di scrivere. Non avendo la vista sei molto più attento a chi parla, a come parla una persona. In particolare alla musicalità. La scrittura è ritmo, come la musica.Ho notato in che modo i grandi autori di canzoni, ad esempio, collocano un termine in un punto preciso proprio in funzione del ritmo. È ciò che cerco di trasferire nella mia scrittura.

G.T. Penso alle tue passioni. Il calcio, le automobili, la velocità come attrazione verso una spericolatezza che profuma di immortalità. Qui, non vedere, significa fare conti più amari?

M.F. Non è solo una questione di cecità. Nel frattempo sono invecchiato e, in aggiunta, ho dovuto attraversare la pandemia in queste condizioni. Non so come sia riuscito a cavarmela. Certo guidare, usare l’auto per me è stato sempre un segno di libertà. Ti annoi, salti dentro l’automobile, raggiungi un paesino attorno a Milano, una gelataia carina ti sorride e la tua giornata in un attimo cambia sapore. Se parliamo di indipendenza il discorso è più complesso. Il termine vale come cifra della mia vita personale e professionale. Ora non è più così. Dipendo. Dalla segretaria, da una fidanzata, se c’è, da mio figlio, dalla mia ex-moglie. Da tutti. Ho bisogno di assistenza e darmi assistenza diventa difficile perché se una persona mi aiuta troppo mi incazzo, se aiuta poco è un guaio. Per fortuna c’è qualcuno che procede con estrema attenzione. Mio figlio e l’amico regista Edoardo Fiorillo che dispone di autentiche capacità sensitive.

G.T. Leggere per scrivere e scrivere per leggere. Sono queste le inibizioni peggiori?

M.F. Detto i pezzi. Poi li leggiamo, correggo la punteggiatura, la forma, poi verifico la pubblicazione. Ma una cosa è dettare, un’altra è scrivere, anche perché da un aggettivo ne viene fuori un altro mentre lavori sul testo. Ho ammesso più volte che per un bel giro di frase sono anche disposto a dare una direzione diversa, a volte quasi opposta, al senso che avevo immaginato per il mio articolo. Del resto, più o meno meritatamente, mi hanno attribuito il Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura, quindi temo molto di perdere la qualità dello scrivere. I miei amici dicono che non è successo, ma sono di parte. Se leggo testi scritti dieci anni fa mi sembrano linguisticamente migliori. 

G.T. Sonno e sogni. Potenziati da questa condizione di cecità?

M.F. Si, certamente. Borges, che come sappiamo divenne cieco, non sognò per tre anni e per questo era assolutamente disperato. All’inizio della malattia il sonno è stato un rifugio. Se dormi, la tua malattia non esiste più. Ma i sogni, talvolta, sono inquietanti….

G.T. Stimolano la memoria, comunque. Penso al racconto dell’estate 1960. Bagni Umberto a Savona. Tutto perfettamente a fuoco. L’hai inserito nel libro per il piacere di ritrovare, da non vedente, ogni dettaglio del passato? 

M.F. Quanti secoli abbiamo impiegato per uscire dall’infanzia? Per uscire dall’adolescenza? Molto tempo. Perché il tempo procede in una progressione particolare. Negli anni della vecchiaia scorre più velocemente mentre le giornate sembrano più lunghe. Meno impegni, molti vuoti. Non so dire se il ricordo assume rilevanza a causa dell’età o della cecità. Walter Tobagi mi aveva soprannominato, con affettuosa ironia, “Passato è bello”: ho sempre avuto un occhio rivolto al passato. Il futuro mi ha sempre fatto orrore. Così, forse, questa precisione fotografica nel ricordare è una inconscia rivincita che mi prendo da non vedente. I dettagli sono importantissimi nel nostro mestiere e ai dettagli bado molto”.

G.T. In Cieco racconti del primo amore. Poi citi De André, Le passanti. Rinunciare al corteggiamento, al gioco di sguardi è insopportabile?  

M.F. È devastante. Passeggiando sento voci di donne, di una ragazza. Intuisco una freschezza, immagino un aspetto fisico. Ma il gioco di sguardi mi è vietato. Se a questo aggiungiamo che sono un voyeur compulsivo, misuriamo l’entità della fregatura. È vero, come dice De André, che lo sguardo di un attimo poteva valere una vita e invece non ne abbiamo fatto nulla. Ma è anche vero che alcune storie d’amore sono nate proprio da uno scambio di sguardi. Nel 2015, appena terminato di scrivere Una vita pensai alla Recherche di Proust. La morte al termine della stesura del testo. Pensai, persino augurandomelo, potesse accadere a me la stessa cosa. E comunque dichiarai di non voler più scrivere. Mi arrivò una lettera inviata da un giovane giornalista, cieco dalla nascita, che mi invitava a cambiare idea. Gli risposi con delicatezza. Ma se avessi dovuto farlo “finianamente” avrei dovuto scrivere: certo, un cieco può fare moltissime cose, tranne vedere”. 

G.T. Scrivi: felicità è una parola proibita che non dovrebbe mai essere pronunciata. Però poi la usi a proposito di te stesso di fronte al mare…

M.F. Il mare per me è sempre stato taumaturgico. Per noi che siamo nati al di qual delle colline, come canta Paolo Conte, come scrive Cesare Pavese, il mare è mitologico. Da ragazzo dopo una sbronza pazzesca mi bastava cacciarmi in acqua per uscire come se non avessi bevuto. Il mare è importante anche in questa mia situazione. Non vorrei fare paragoni blasfemi ma perché Nietzsche a Rapallo si consolava accendendo falò sulla spiaggia? C’erano solo tre colori: l’azzurro del cielo, il blu del mare e il verde cupo delle colline. Sono toni che, a fatica, riconosco ancora e quindi per me è come sentirmi sano. Soprattutto in quell’ora sospesa che sta tra il giorno e la notte. Tempo sospeso, appunto. Di notte ho scritto tutti i miei libri. Lavori dentro uno spazio infinito, silente. Il tempo per me ha un valore enorme e il vero peccato è sprecarlo. Quindi, per una facile conseguenza, confesso di detestare quelli che vedono e non sanno usare la propria vista.

G.T. Scrivi della stanchezza del vivere. È tutto vero o è una mezza bugia?

M.F. Purtroppo è una verità. Questo libro è una sorta di De Profundis. Ho avuto poco tempo fa una segretaria giovanissima e molto capace. Disse: non so se augurarti di vivere più a lungo sia un buon augurio. Il paradosso dei paradossi è che sono cieco ma fisicamente sanissimo. Mi sono fatto un’idea: che questa malattia mi abbia protetto dalle altre.

G.T. Infatti, di quell’ “anarcoide russo mezzo pazzo”, come ti definì Giorgio Bocca molti anni fa, vedo ancora delle tracce…

M.F. Finché sono vivo spero che qualche traccia anarcoide rimanga. Io non sono una persona duttile. È un difetto e al tempo stesso una forza. Sono rimasto fanciullescamente lo stesso, nonostante tutte le esperienze attraversate. Sono ancora piuttosto ingenuo di fronte alla vita, anche se a questo punto chiunque mi può fregare. Mi piace ancora catturare l’attenzione altrui attraverso un processo mentale. Il fatto è che una persona devi riuscire a catturarla e questa attività è ormai compromessa. Resta la parola…con la parola me la cavo ancora.

G.T. Insomma, potrà arrivare un altro libro, domani o dopo. In fondo, che ne sappiamo del nostro futuro?

M.F. Noi pensiamo che il futuro sia lineare. Il mondo occidentale sembra destinato al collasso, basato com’è sulla crescita esponenziale. Ma in realtà non funziona così, accadono fatti che non possiamo immaginare. Nella vecchiaia c’è sempre l’imprevisto in agguato. In negativo molto spesso. Ma può essere anche in positivo. Un altro pensiero mi viene in mente: spesso da un male può nascere un bene. Quando castrarono il mio Cyrano dalla televisione, decidemmo di trasferirlo in teatro e ci divertimmo moltissimo. Credo che il tema sia legato alla vitalità residua. Comunque, devo stare attento perché quando le cose vanno bene sono in allarme. Temo una ritorsione, una punizione. Sono agnostico ma, come diceva Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Non riusciamo mai o del tutto a uscire dalla cultura cattolica. 

G.T. Cosa sei contento di non vedere?

M.F. Di non vedere me stesso che invecchio, allo specchio.

ARTICOLO n. 37 / 2023

TRA ARTIFICIO E ARTIFICIO

A ripensarci sembra passato molto più tempo, forse perché l’interesse è durato pochi giorni, durante i quali, tuttavia, pareva non esistesse nient’altro. 

Era la fine d’autunno, un autunno mite che sarebbe diventato un inverno altrettanto mite; telegiornali, quotidiani, settimanali riproponevano le immagini di un uomo risalenti a un periodo estivo, immagini che suggerivano l’allestimento della felicità accaduta in estate.

L’uomo era ritratto spesso da solo. In una fotografia era pronto alla guida di una cabriolet. La fotografia era stata scattata da una posizione poco al di là dello specchietto retrovisore destro. La cabriolet era ferma in un parcheggio, l’uomo sorrideva e guardava davanti a sé portando le nocche della mano destra al mento incorniciato dalla barbetta chiara; i capelli sembravano di un biondo naturale, eredità degli anni d’infanzia; l’uomo indossava una maglietta blu della stessa tinta del sedile; due palme erano riflesse, rimpicciolite, nel parabrezza pulitissimo. Poteva essere la scena pubblicitaria di una qualsiasi merce: shampoo, auto, finanziamento a tasso agevolato necessario per acquistare un desiderio. 

E invece era la vita dell’uomo.

In altre fotografie l’uomo era in barca, navigava in un punto del Mediterraneo, la Grecia o l’Italia; erano selfie in costume, gli occhiali da sole con una montatura bianca, una catenella d’oro scendeva dal collo, il crocifisso d’oro adagiato sul petto; capitava che qualcuno scattasse le fotografie in barca, e allora l’uomo appoggiava una mano al timone; sullo sfondo, un’isola o un promontorio, il paesaggio allontanato da qualsiasi tentazione omerica: il mare blu, ancestrale, certo, ma la schiuma bianca a poppa era abbinata alla camicia altrettanto candida, le maniche arrotolate, i bermuda panna.

A volte l’uomo era in compagnia della donna con la quale aveva una relazione. Alcuni giornali hanno evidenziato la differenza d’età inserendola tra parentesi – (9 anni), (nove anni) – per sottolineare ciò che, di solito, è trascurato qualora un uomo abbia nove anni più di una donna. 

La donna ricopriva un’importante carica nel Parlamento Europeo; l’uomo, invece, lavorava come assistente di un parlamentare europeo. 

Nelle fotografie pubblicate, loro due, assieme, non comparivano mai durante le rispettive attività al Parlamento Europeo. Le immagini privilegiavano la vita quotidiana. Un po’ di vacanze, un selfie di coppia nel deserto o forse su una spiaggia così sabbiosa da sembrare un angolo di deserto; e poi lo shopping, la foto di una conversazione effettuata sui gradini di una scala, l’uomo stringeva il sacchetto contenente – a giudicare dal marchio impresso sul sacchetto – un costume da mare di alta qualità. La maison, fondata a Saint-Tropez nel 1971, “crea pezzi estivi per ogni istante e per ogni personalità. Che si tratti di costumi da bagno o short chic, questi costumi da uomo, di alta qualità esprimono sempre il motto senza tempo della maison: lusso, sole e libertà”.

Lusso, sole e libertà. In quest’ordine. Adesso, dopo alcuni mesi di prigione, l’uomo e la donna sono agli arresti domiciliari. L’uomo indossa il braccialetto elettronico, poiché, oltre alle fotografie della cabriolet, della barca, delle vacanze, dello shopping, sono arrivate le fotografie di valigie piene di soldi, di tavoli colmi di banconote suddivise a seconda del taglio: 10, 20, 50 (la maggioranza), 100, 200 euro. E tuttavia qui l’interesse non è investigativo e giudiziario, ma per un altro selfie dell’uomo. Un selfie vicino al punto in cui ho edificato l’immaginario luogo letterario di Cortesforza. 

Doveva essere pomeriggio. A giudicare dagli alberi carichi di foglie verdi sullo sfondo destro dell’immagine, è probabile che fosse un pomeriggio primaverile, e a giudicare dalla luce, è probabile che fossero le 17:30 di un pomeriggio d’aprile, e a giudicare dalla quantità di persone lungo la stradina agricola costeggiante il naviglio – stradina agricola che è considerata, in modo improprio, pista ciclabile – è probabile che fossero le 17.30 di una domenica d’aprile, una domenica d’aprile dalla meteorologia variabile. 

L’uomo indossava un maglione azzurro, di cotone, con lo scollo a V e un marchio indistinguibile a sinistra, poco al di sopra del cuore. L’uomo ha scattato il selfie restando sul bordo della stradina agricola, lungo la linea bianca continua. Alle spalle dell’uomo, un campo appena seminato, e in cielo, una nuvola gigantesca sopra i capelli biondi mossi dal vento. Il lato destro dell’immagine era riempito dal naviglio: in quel punto l’acqua è bassa e scorre placida. La vegetazione lungo l’argine era riflessa sulla superficie. Sfuocati, lungo la stradina agricola, a una cinquantina di metri alle spalle dell’uomo, alcuni passanti ignari, anonimi, una macchia finita sui giornali di tutto il mondo. La luce, nonostante la nuvola enorme nel cielo, consolidava la sensazione di un’esistenza serena, domenicale. E per quanto l’uomo fosse lo stesso delle foto in barca o alla guida della cabriolet, qui, nel selfie di Cortesforza, sembrava più giovane, un giovane uomo carico di promesse, quasi ragazzo, che voleva farsi un selfie attraversando i luoghi in cui è nato e cresciuto, luoghi così diversi da Bruxelles, dal Parlamento Europeo, dal timone di una barca nel Mediterraneo. 

Nel 2007, quando ho inventato Cortesforza, ho pensato a Elio Pagliarani. Come è noto Elio Pagliarani (1927-2012) era nato a Viserba, a pochi chilometri da Rimini. Ce lo ricordava lui stesso, nel testo Pagliarani Elio, pubblicato in Autodizionario degli scrittori italiani (Leonardo, 1990), ripubblicato nel 2019 da Il Saggiatore, in Tutte le poesie (1946-2011), a cura di Andrea Cortellessa. Leggiamo a pagina 475: «Romagnolo di nascita (…) Nel frattempo però il suo paese natale (Viserba di Rimini, 1927) non c’è più, è scomparso (…) Adesso non c’è più soluzione di continuità tra Rimini e Viserba, è tutto un Rimini Nord, tutto alberghi e pensioni, una zona balenare un po’ più popolare di Rimini centro, con ignoranza e presunzione rubiconde di benessere». 

Molti anni fa, ripetevo è tutto un Rimini Nord se mi smarrivo in svincoli caotici, o se infilavo le mani dentro lo zaino, alla ricerca, vana, di qualcosa; e allora è tutto un Rimini Nord, ovvero è tutto uno svincolo, una bretella, una rampa di raccordo, una rotatoria indistinta dalla quale è impossibile uscire.

Ho cercato la mia Rimini Nord sapendo che prima o poi sarebbe stata distrutta da una delle molte autostrade e superstrade lombarde. 

Cortesforza, plastico immobiliare, ridimensionamento della Storia – minuscola di Sforza unita a una corte inesistente – e luogo smemorato, di transito, luogo interstiziale di una comunità posticcia, appartenenza nello sradicamento; Cortesforza e la casa, unico bene, la casa e nient’altro, luogo nel quale non serve nemmeno più il desiderio della merce, poiché il luogo è diventato merce.

Ora, dentro quel luogo immaginario, la realtà sta per arrivare sotto forma di superstrada. La realtà asfalta la letteratura.

L’ubicazione del beneuscito per Einaudi nel maggio 2009, è il libro ambientato a Cortesforza. Dopo la seconda edizione, il libro non è più stato ristampato, da quattordici anni è reperibile solo in ebook. Forse, per essere coerente con quanto accadrà a quel luogo immaginario nella realtà, dovrei interrompere la pubblicazione anche degli ebook, in modo che Cortesforza scompaia.

In attesa di essere distrutto, il luogo immaginario di Cortesforza sarà ancora per qualche tempo un’area topografica precisa, la zona del selfie dell’uomo, il selfie finito su tutti i media d’Italia e del mondo. Per Cortesforza, in particolare, ho pensato a un campo ubicato a metà strada tra il condominio in cui ho vissuto – da bambino e ragazzino – e il ponte dove Michelangelo Antonioni ha girato, nel 1950, la splendida scena di Cronaca di un amore, durante la quale i personaggi interpretati da Massimo Girotti (Guido) e Lucia Bosè (Paola) progettavano l’omicidio del marito di Paola, laddove alcuni operai lavoravano, pochi metri più in basso –  a un centinaio di metri di distanza – all’interno del naviglio in secca. 

Il giorno in cui l’uomo si è fatto il selfie, il naviglio non era in secca. L’irrigazione di questa zona è un sistema di chiuse progettato, tra gli altri, da Leonardo da Vinci. Ma il reticolo di rogge, fossati e fontanili, risale all’opera dei monaci cistercensi francesi del XII secolo, le cosiddette marcite, terreni irrigati in permanenza: la temperatura dell’acqua protegge l’erba, che cresce anche nei mesi invernali, assicurando cibo fresco per gli animali.

I campi sono delimitati secondo un ordine millenario, costituito da filari di pioppi e da coltivazioni stagionali. I filari degli alberi, disposti lungo i fossati, appartengono a un criterio, a una trama, con al centro le cascine o ciò che resta delle cascine, le stalle dei pochi animali allevati, i fienili, le coltivazioni. 

L’armonia ereditata si percepiva alle spalle dell’uomo, ma tutto ciò che era alle sue spalle nel selfie già da molti anni è destinato alla distruzione, per trasformare quei luoghi agricoli in una superstrada diretta all’aeroporto di Malpensa; progetto ventennale eppure desueto, che tuttavia distruggerà un millennio di civiltà umana, distruggerà la terra per sostituirla con altri capannoni, altri centri commerciali, il vero obiettivo della superstrada: ciò che nella spietata lingua burocratica italiana, intrisa di gergo aziendale, diventa “valorizzazione massima delle aree infrastrutturali, comprese le aree connesse”.

Chissà come parla l’uomo del selfie a Cortesforza, quali sono i tic verbali, le parole abituali, cosa pensa della superstrada e della zona in cui è nato e cresciuto, la zona del selfie a Cortesforza. Di lui si conoscono soltanto le fotografie. Non ricordo un’intervista, una dichiarazione ai cronisti dopo un interrogatorio. Del resto, prima delle disavventure giudiziarie l’uomo esisteva nell’anonimato mediatico come assistente di un parlamentare europeo. L’uomo era uno di quei collaboratori senza nome, quelli che si notano appena al fianco dei politici durante le riunioni, collaboratori che suggeriscono qualcosa accostandosi all’orecchio. E tuttavia, l’uomo esisteva nel piccolo ecosistema del Parlamento Europeo in quanto fidanzato della donna che ricopriva l’importante carica in quella istituzione; forse, la disparità di posizione all’interno della coppia ha autorizzato i media italiani a dare, come sempre, il peggio di sé, senza che nessuno avesse qualcosa da dire, poiché le medesime dinamiche linguistiche, per molti decenni, sono state applicate alle donne, e allora le guardiane e i guardiani del linguaggio contemporaneo hanno taciuto, a proposito di: “il bel fidanzato”, “il biondo 35enne”, “il biondo 35enne istruttore di vela”, “scopatore inflessibile”, “Mister Europarlamento”, “il surfista dell’Idroscalo”, colui che “sogna di comprarsi una barca da emiro”. 

Ma questo appartiene alla tristezza passeggera italiana, sempre pronta a farsi ammaliare da una nuova tristezza, tristezza nazionale che distrae. 

Pensiamo invece alla tristezza definitiva, la fine di questa piccola parte del pianeta.

«Il popolo italiano è sempre stato un grande costruttore di strade perché è un popolo a tendenza universale. Le strade consolari che partivano da Roma e arrivavano fino agli estremi limiti del mondo conosciuto erano le strade sulle quali correva la grande civiltà. Esaltiamo il lavoro. Esaltiamo coloro che lavorano col braccio. Tutto il nostro Paese deve diventare un cantiere, un’officina». 

Così parlava Mussolini, in un giorno di marzo, nel 1923. Subito dopo aveva affondato il piccone nel terreno della campagna di Lainate, in modo che i fotografi potessero ritrarlo. Era la prima zolla del cantiere autostradale della Milano-Varese. 

Dopo il gesto dimostrativo, quattrocento sterratori armati di badili e picconi avevano iniziato a lavorare, i cavalli avevano trainato rimorchi carichi di frammenti di pietra provenienti da rocce un tempo compatte, quasi indomabili, che sarebbero divenute grani del catrame: era nata così l’Autostrada dei Laghi, considerata la prima autostrada del mondo.

È passato un secolo, l’inaugurazione di un’autostrada o di una superstrada contemporanea non è molto diversa da quella del settembre 1924. La banda suona l’inno nazionale. Le forbici d’oro tagliano il nastro tricolore. I fotografi urlano, presidente, per favore, si giri da questa parte, presidente, grazie! 

Eccolo, giacca e cravatta e casco da operaio dei cantieri, il politico contemporaneo, sottomesso alla retorica del nuovo e alla lingua del passato (“Tutti voi che siete qua, autorità tutte”) con l’aggiunta di un surrealismo deresponsabilizzante (“È l’asfalto che passo dopo passo è andato avanti”) e di anglicismi prelevati dalle aziende (“project financing”)

E così, a parte l’imbellettamento anglofono, le strade comunali e provinciali sono punteggiate di buche o rattoppi frettolosi, come se il potere, anche quello locale, attendesse una grande opera per occultare incuria, indolenza, incapacità.

Le grandi opere di questi anni italiani sanciscono il ritorno alla monumentalità che bilancia, in apparenza, la spinta inesorabile verso il frammento, la disintegrazione, la scomparsa. La massima visibilità, o niente. Chi ha voglia di occuparsi della manutenzione dell’ordinario, del piccolo? La grande opera è il potere esposto, il marchio, il logo dell’autorità. La grande opera, anche qualora sia banale ed equivalente ad altre, è riconoscibile, ma è sempre una riconoscibilità di cui si perde il senso originario. La grande opera rimanda, come tutti i marchi, a sé, conquista l’immaginario, la parola, e ammutolisce il resto. 

La superstrada anacronistica interesserà il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud Milano. La superstrada voluta dai politici – locali, regionali, nazionali – che più di tutti ripetono parole come radici, valori, tradizioni. È la lugubre destra italiana. Ma l’altra parte politica? L’altra parte politica, che amministra il Comune di Milano, dovrebbe occuparsi anche della Città Metropolitana di Milano coinvolta dal progetto della superstrada, e invece è disinteressata a tutto ciò che accade appena al di là dei confini cittadini, e si preoccupa che le auto non entrino in città per gratificare il sogno progressista del proprio elettorato: credere di trovarsi in una metropoli davvero internazionale.

E così, mentre il Comune di Milano ipotizza un limite di velocità di trenta chilometri orari, e pubblicizza la nuova edizione di Milano Green Week, “una manifestazione bella, ricca, partecipata (…) una manifestazione di play street sul modello del Parking Day”, ecco che a quindici chilometri dal confine comunale, nella Città Metropolitana di Milano, continuano gli espropri dei terreni delle aziende agricole, gli espropri di ettari ed ettari da asfaltare per la superstrada e ciò che seguirà: transito di camion e furgoni e auto che peggioreranno, se possibile, la già pessima qualità dell’aria più inquinata d’Europa; aria che peggiorerà anche dentro il capoluogo, poiché l’aria, per fortuna, non conosce confini.

È una visione molto simile a quella di Jovanotti. In un post su Facebook, del 10 agosto 2022, Jovanotti ha risposto a una lettera di Mario Tozzi, il quale, con toni molto accondiscendenti, aveva sottolineato alcuni aspetti negativi del Jova Beach Party. «Le spiagge dove suoniamo sono luoghi popolari sempre pieni di gente (…) fosse per me la spiaggia di Budelli (…) e simili andrebbero proprio rese inavvicinabili, tipo Gioconda al Louvre, guardare non toccare».

Ha ragione Jovanotti nel dire che sono luoghi popolari, anche se nessuno di quei luoghi sostiene, di solito, cinquantamila persone pigiate, che saltano e ballano in poche ore di concerto, senza contare il lavoro invasivo di preparazione e smantellamento, prima e dopo l’evento. 

È ovvio, un concerto di Jovanotti non è devastante come una superstrada.

Ma quella di Jovanotti – l’intoccabilità dei luoghi Gioconda a discapito di altri – è la stessa concezione contemporanea del paesaggio alla milanese, che propone un nuovo piatto, anzi, piattino: zolla alla milanese – biologica – coltivata all’interno dei confini comunali (meglio ancora se all’interno dei Bastioni).

Il problema non è soltanto l’uso dell’automobile, dei furgoni, dei camion, non è soltanto gli aerei che volano in questo cielo. È qualcosa di più profondo. L’occultamento del paesaggio, ciò che circonda la figura umana. 

C’è una centralità assoluta del personaggio ritratto, ma il personaggio contemporaneo è isolato dal contesto, si accontenta di essere il protagonista di un monologo che ha la consistenza di un coro stonato, in cui ognuno parla per proprio conto, diventando comparsa, rumore di fondo, come è accaduto all’uomo del selfie di Cortesforza.

Oggi è l’ultimo giorno di secca nel naviglio. Tra poche ore l’acqua tornerà, con una portata molto minore a causa della siccità, ma tornerà, come l’uomo del selfie di Cortesforza, quando finirà di scontare la pena. 

E tuttavia, oggi il naviglio è ancora in secca. Una giovane coppia, a una trentina di metri da me è appoggiata al parapetto di cemento. Apprezzo il loro impulso per nulla sentimentale – chissà se davvero consapevole o casuale – di sbaciucchiarsi presso l’incrocio di due canali vuoti. 

Il ragazzo estrae dalla tasca uno smartphone, i due si fotografano abbracciati, escludendo tutto il resto, il punto in cui arriveranno la superstrada e la campata del ponte di seicento metri che squarcerà Cortesforza. Si guardano nel piccolo schermo, poi fissano per qualche istante il vuoto, la realtà. Forse, liberate dall’immagine, le carezze della coppia racchiudono una speranza più forte dell’immediata gratificazione personale. 

«Predicano sempre il molteplice che sta alle loro spalle», avrebbe detto Zanzotto. Un tempo avrei detto, certo, la ricerca di un equilibrio tra artificio e natura.

Ora non più. È troppo tardi per quello.

La ricerca di un equilibrio. Tra artificio e artificio.

ARTICOLO n. 36 / 2023

C’È CHI DICE NO

Leggo la rassegna ancora distesa a letto, appena sveglia.

Seleziono i giornali principali escludendo sapientemente quelli che so che mi darebbero mal di stomaco fin dalle prime ore del giorno.

Controllo prima la politica, poi la cronaca, poi gli esteri e infine la sezione cultura.

Spulcio tra una testata e l’altra e cerco di vedere come le stesse notizie vengano affrontate in modi differenti.

Mi soffermo sempre sulle interviste. Mi piacciono le interviste.

È a tutti gli effetti una deformazione professionale: da quando ho iniziato a farle, a porre domande ai miei ospiti in radio, nelle presentazioni e a Basement Café mi sono ritrovata spesso a curiosare tra le domande degli altri, cercando di leggere tra le righe i non detti degli intervistati, cercando anche – perché no – alcuni spunti per i prossimi lavori.

Negli ultimi tempi – mesi? anni? orientativamente dall’immediato post-lockdown, ma potrebbe essere iniziata prima, questa tediosa tendenza – noto sempre più interviste simili tra di loro.

Sono quelle rivolte a piccoli, medi e grandi imprenditori che dovrebbero servire per analizzare lo stato di salute del mondo del lavoro italiano.

Queste interviste – tutte molto brevi, tutte molto compatte tra di loro – sono corredate da titoli che suonano come accorati appelli alla popolazione: “Offro tot soldi ma nessuno vuole lavorare”.

Sottotitolo, opzione uno: “Il reddito di cittadinanza ha ucciso l’entusiasmo”.

Sottotitolo, opzione due: “I giovani preferiscono divertirsi o stare sul divano”. A volte i due possono essere fusi in una sola frase del tipo: “Il reddito di cittadinanza ha reso i giovani pigri”, crasi tra le preferite dai maggiori quotidiani nazionali.

Nel corpo dell’intervista, gli imprenditori disperati raccontano di quanto prima (unità di tempo non chiarissima, potrebbe riferirsi al tempo del boom economico come al pre-Covid) non fosse così, come prima le persone non si tirassero dietro davanti alla possibilità di lavorare anche a costo di spaccarsi la schiena.

Subito dopo questo o tempora, o mores, gli imprenditori del caso (si va dal proprietario di un pastificio a gestori di locali, ristoranti, bar, stabilimenti balneari) raccontano sempre quanto sarebbero disposti a pagare i lavoratori.

Ho letto che un cuoco avrebbe rifiutato 63mila euro lordi, di bagnini che avrebbero detto no a tremila euro al mese, di camerieri e cameriere impossibili da trovare a 1600 euro contrattualizzati.

Nei commenti a questi articoli si scatena dunque sempre un incontrollabile panico generazionale.

Chi è nato durante il boom economico non comprende la svogliatezza dei giovani, chi ha lavorato negli anni ’90 non capisce perché questi ragazzi siano tutti così viziati, noi Millennials, invece, sorridiamo sornioni.

Già, perché mentre i nostri genitori godevano del boom economico e di un ascensore sociale in pienissima attività, noi abbiamo capito subito che le cose erano due: lacrime nostre o lacrime nostre – scusa, Elodie.

Dopo due crisi economiche vissute sulla nostra pelle, dopo aver studiato molto più di qualsiasi altra generazione precedente alla nostra, ci siamo ritrovati con un pugno di mosche in mano, ascensore sociale murato, lavori sottopagati e la falsa promessa di un roseo futuro per chiunque avesse aperto una partita iva – spoiler: non fatelo.

Abbiamo quindi imparato ben presto a riconoscere le bugie sul mondo del lavoro, quando queste ci vengono raccontate.

Siamo la generazione con più lavoretti saltuari mai esistita, siamo stati ovunque: dai social alle cucine, dagli uffici alle vigne, dai bar agli studi in cui ci facevano fare stage non retribuiti in vista di future assunzioni che non sarebbero mai arrivate, dalle università allo spaccio di droga per riuscire a pagare un affitto. 

Per questo le parole degli affranti, inconsolabili imprenditori ci suonano come le scuse di Pinocchio dopo esser scappato con Lucignolo verso il paese dei balocchi.

Sappiamo infatti che il famoso contratto che prometterebbe 1600 euro per una settimana lavorativa di 48 ore nell’HORECA con un giorno di riposo nasconde delle zone grigie non trascurabili.

Innanzitutto, la questione straordinari: nei pub, nei cocktail bar e nei ristoranti è difficilissimo calcolare le ore extra effettuate, e solo rarissimamente queste vengono pagate. Subito dopo gli orari: l’imprenditore dell’intervista – che gestisce un pub – dovrebbe sapere che chi fa il lavoratore notturno non ha una socialità (lavorando ogni sera tranne una – il lunedì, che in Italia è la chiusura dei cocktail bar e di quasi tutti i ristoranti – non esistono aperitivi con gli amici, le cene fuori, le serate sul divano, il cinema, il teatro, la birra in piazza, gli appuntamenti romantici), non ha facilità nell’accedere ai servizi più basilari (banca, posta, palestra, spesa, medico, nido, parrucchiere, dentista, centri di analisi ASL, determinati negozi aperti solo al mattino) e non ha garanzia di non essere esente da ore extra durante il giorno (gestione di fornitori, lavanderia, frutta, carico e scarico merce, aperture straordinarie e varie ed eventuali vengono tutte svolte in diurna). 

Perciò, in un momento storico di inflazione alle stelle, crisi economica, affitti raddoppiati rispetto ai primi anni 2000, con 1600 euro che in busta paga diventano poco meno di 1300 per un totale di 8,33 euro l’ora, non se ne voglia a male, questo buon samaritano, ma a noi ci scappa proprio da ridere. 

Se vent’anni fa con uno stipendio di questo tipo potevi affittare una bella stanza o un monolocale, oggi, nella stragrande maggioranza delle città italiane, puoi permetterti un posto bici nel cortile condominiale e le spese per le bollette di luce e gas. 

Simile ma a tratti più inquietante è il discorso per il povero bistrattato cuoco che avrebbe rifiutato i 63mila euro del contratto sopracitato.

Leggendo l’intervista a Gabriele Cartasegna – direttore del Capac di Confcommercio – viene fuori che questa offerta sarebbe stata fatta a uno chef appena formato.

Oltre alla puzza di bufala – non il formaggio, scusate il gioco di parole non voluto: stipendi come quello millantato dal direttore del Capac li vedono gli executive chef di alto rango, non cuochi appena formati – evidentemente a Cartasegna sfugge quanto sia snaturante e alienante la vita di una brigata di cucina, con orari impossibili, caldo micidiale, turni serratissimi, sforzi fisici costanti e una media di 12 ore lavorate al giorno, nonostante il tetto massimo settimanale sia di 48.

Non mi stupisco dunque se negli ultimi due anni il 30% della forza lavoro impiegata in bar e ristoranti si sia data alla fuga insieme agli altri grandi sfruttati del terziario, ovvero gli stagionali: in condizioni di lavoro prive di tutela, prive di rispetto e spesso prive di legalità (il famoso mezzo stipendio in busta paga e l’altro mezzo in nero in busta di carta) perché fare dei lavori che per quanto magnifici ci facciano rimanere poveri e per giunta privi di una qualsivoglia vita sociale?

La risposta è logica e davvero banale, ovvero: per nessun motivo. 

Soprattutto in un’epoca in cui per vivere servono ben più di 1200 euro in busta paga: 800 vanno in affitto, gli altri in bollette, non ci vuole Pitagora per capire che in questo momento storico uno stipendio del genere sia davvero anacronistico.

Eppure ai giornali piace strizzare l’occhio a Confcommercio e Confindustria, leccando un po’ di culi ai piani alti, pubblicando l’imprenditore che piagnucola perché i giovani non hanno più voglia di sporcarsi le mani.

Ma i giovani hanno ben più consapevolezza della situazione in cui versano i lavoratori e il mercato.

Sicuramente ben più di chi ha ereditato aziende o soldi dalle generazioni precedenti.

La morte del settore terziario, ricchissimo di lavori meravigliosi come quello del bartender, di chi serve in sala, di chi lavora nelle brigate di una cucina, sta morendo non per colpa dei lavoratori, ma per chi lo ha svenduto rendendolo un luogo inospitale.

Ma il vecchio adagio dei tempi che, signora mia, non sono più quelli di una volta, i giovani sono tutti scansafatiche, sarà la droga, guardi che capelloni, è un format funzionale e brevettato per non ascoltare i giovani, che del lavoro dovrebbero essere i protagonisti. 

Silenziando i giovani, screditando la loro professionalità e, di conseguenza, i loro sogni e bisogni, i nostri eroi di Confindustria e Confcommercio non dovranno muovere un dito. 

Già, perché in tempo di post-pandemia e con un tasso di povertà alle stelle, per ogni rifiuto a contratti di merda ci saranno almeno due persone che non possono permettersi di rifiutare quelle condizioni.

E questo perché il mercato del lavoro si nutre da sempre della manodopera dei più poveri con questi trucchetti da banditi e ladroni che permettono ai salari di rimanere invariati: tanto basta scavare nelle classi sociali sempre più povere e sempre più sole.

Per questo mi viene da dire – non ai cravattoni con la lacrima facile, ma ai giovani che sognano un futuro migliore – che, fin quando sarà possibile, per quanto vi possa essere possibile, rifiutate le proposte di chi gioca sui vostri diritti, tempo, energia.

La mia generazione è collassata sotto queste false promesse, mangiata e divorata da sciacalli che diventavano sempre più ricchi mentre noi non riuscivamo a mettere da parte neanche due euro.

La mia generazione, quella del lavoro in nero e dei voucher INPS, ha guardato passivamente a tutto questo, rimanendo inerme mentre ci levavano ogni cosa promettendoci però il mondo, per farci rimanere buoni, dei bravi schiavi.

Sono orgogliosa ogni mattina quando vedo le reazioni dei social media ai piagnistei dell’imprenditore di turno, perché vuol dire che il futuro è sempre meno fesso di noi, dei nostri fratelli più grandi e pure di quelli che abbiamo sempre chiamato geni, ovvero i baby boomer.

In questa giornata dal valore così prezioso che stiamo svendendo (guardate come si è ridotto il concertone del Primo Maggio a Roma: sembra Sanremo, ha perfino gli stessi sponsor) mi viene da dire bravi voi, che non vi fate infinocchiare dal sistema.

E ai miei coetanei vorrei ricordare che cosa eravamo e siamo ancora oggi: se abbiamo imparato una cosa dalle generazioni precedenti è il non fare come loro hanno fatto con noi. Perciò ascoltiamo la generazione Z, affianchiamola nelle giuste battaglie che riguardano il lavoro e il clima – che vanno di pari passo – e vi prego. Ve ne prego. Non diventiamo i prossimi che frignano dalle pagine di un giornale.

Il lavoro è un diritto, ma la dignità lo è ancor di più.

Tolta la nostra che ormai è andata in malora, garantiamola a chi verrà dopo di noi interrompendo questa catena di odio generazionale che ha creato solo nuovi schiavi di nuovi padroni.

Capisco solo oggi che quelle lacrime di coccodrillo che leggo ogni mattina dalle pagine dei giornali hanno un nome ben preciso: quel nome è ricatto.

E sono davvero fiera che nessuno, dopo noi Millennial, ci stia più cascando.

ARTICOLO n. 35 / 2023

NON SPARIRÒ COME LILA

A proposito de "L’amica geniale"

Pubblichiamo un’anticipazione dal libro di di Marina Pierri, Lila. Attraverso lo specchio (Giulio Perrone editore) da oggi in libreria. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

Cammino avanti e indietro su corso Vittorio Emanuele: il salotto buono di cui ogni città è provvista. Cammino tra le palme che grondano semi marrone scuro dalle bisacce nere. È mezzogiorno e devo salire da mio padre. Dobbiamo pranzare assieme, come sempre facciamo quando torno a casa, a Bari. Ma non riesco. Mi siedo su una panchina. Mi alzo. Mi inerpico sulla salita Miramare dove andavo a limonare con il mio ragazzo nell’ultimo anno di liceo. Fa freddo, o forse fa caldo, non mi ricordo. I miei genitori sono separati da quando sono piccola e a oggi, a quarantadue anni, nelle visite frequenti alla mia città natale vado e vengo, vengo e vado, da due appartamenti diversi. Casa mia, o almeno le mura cui attribuisco quello specifico significato, è a Milano. 

Sono Elena Greco: fuggo di casa a diciotto anni. Sono Raffaella Cerullo: resto.
Sono Marina Pierri e sto ascoltando in cuffia il quarto volume de Lamica geniale, da cui non riesco a staccarmi anche se è ora di pranzo, la pasta si raffredda e io non riesco a citofonare per farmi aprire, perché non riesco a smettere di ascoltare.

Lila ha perduto sua figlia. All’improvviso, la bambina non c’era più. Nunzia detta Tina, quasi una crasi del nome delle bambole di Lila e di Lenù quando erano piccole, Nu e Tina – oggetto di un potente incantesimo di inabissamento – è svanita. Tina, bambola viva, è stata inghiottita dal ventre del rione. Ora pure lei riposa nello scantinato dove dormono le Ombre. 

Sto male per Lila.
Lila mi è entrata dentro e forse serve un esorcismo. Questo libro è il mio esorcismo.

Sulla salita Miramare, mentre ascolto, gli occhi che vanno da tutte le parti, mi ricordo la saliva dei baci di diciottenne; la violenza dell’essere diciottenne e la violenza con cui ricercavo la lingua del giovane uomo androgino, assai bello, che mi aveva intossicata e, poco più tardi, mi avrebbe abbandonata. Per tornare, sì, certo, ma solo dopo avermi regalato la mancanza. Da qualche anno si è sposato e si è aperto un negozio di tè qua vicino. 

Conto i minuti che restano alla fine dell’audiolibro, il quarto volume, Storia della bambina perduta, e sono troppo pochi. 

Nel documentario, che ho assai apprezzato, Ferrante Fever, Elizabeth Strout dà la misura di questa sensazione: allora si esce, e si esce così, dal labirinto della tetralogia? Quando si arriva ai confini del dedalo, diventa chiaro che non ci sarà alcun epilogo edificante per Lila. Non sarà possibile un’inversione delle circostanze. Non nel poco tempo che rimane. Nessuno spazio per un lieto fine. So bene che a sparire finirà per essere Lila stessa, e lo so perché è così che L’amica geniale inizia, con la sua scomparsa. Con la sua mise en abyme, cioè l’inabissamento programmatico che informa l’intera tetralogia. Quando la conosciamo, e non uso il plurale a caso perché questa esperienza non è solo mia, ma di noi tutte, conosciamo già la sua fine. Io questa vicenda l’ho letta, l’ho ascoltata quando dovevo fare altro e dovevo staccarmi dalla pagina, per poi fare ritorno alla pagina, sempre. Ora dovevo fare altro, appunto. Devo fare altro. Devo citofonare e salire a casa di mio padre dove mi sta aspettando il pranzo sul tavolo. Mio padre mi sta aspettando e io non riesco ad arrivare. Perché sono bloccata sulla salita Miramare di Bari insieme ai fantasmi: quello della Marina che cerca la bocca di un uomo bellissimo, che ama più di quanto sia riamata; quello di Tina; quello di Lina. 

Questa bambina, mi dico, deve essere ritrovata. Povera Lila.
Povera Lila. 

Mi faccio male mentre ne ascolto il destino. Non ritroveremo Tina, e non ritroveremo Lina che guarda sempre con gli occhi dell’Ombra. Gli occhi di Lila sono gli occhi dell’Ombra. 

Non può essere; non è giusto, penso. 

Il mare puzza, o profuma, e l’odore vero si salda a quello immaginato delle stanze chiuse dove Lila inizia ad aspettare, a guardare fuori dalla finestra senza poter sperimentare la morte. Piango, ma non mi sfogo. La sensazione è quella di un fazzoletto strettissimo al dito che blocca il flusso del sangue. 

Lila! Ti prego, Lila. Non può essere capitata a te, questa cosa. Dopo tanto lottare, dopo tanto soffrire, dopo tanto resistere alla fine sei stata sconfitta; alla fine ha vinto la tua maledizione su tutte le nostre benedizioni. 

Elena Ferrante: perché? Perché hai fatto questo a Lila? 

Non farò la stessa scelta di Lila, nelle pagine che stai per leggere: non sparirò. 

Ci ho pensato, e ci ho pensato a lungo. Sono il tipo di persona che tende a sparire dietro le idee e dietro i concetti. Faccio fatica a postare un selfie e raccontare la mia vita privata sui social, o anche soltanto i miei sentimenti. In tantissimi momenti preferisco inabissarmi, specie quando faccio fatica a trovare un equilibrio tra il dovere di esprimermi e la necessità di farlo. Ma non me ne vado mai del tutto. Piuttosto rallento, provo a diventare trasparente per riprendere consistenza in uno specchio che è solo mio. Spesso ci riesco. Sono presente a me stessa. E con questa presenza dico ora: non sparirò, in questo libro, dietro la maschera di Lila. 

Sono Marina Pierri e ho scritto un libro che si chiama Eroine, sul Viaggio dell’Eroina. Ho fatto e faccio anche altre cose, che potranno apparire o non apparire in queste pagine. Mi sono affezionata a Lila come tantissime altre persone, come Elena Ferrante. 

Lila è chiave di volta, passe-partout, disegno che tutti gli altri disegni contiene, eppure è più simile a un collage, o a un découpage, come quello che lei stessa sforma, costretta a essere una fotografia in uno spazio – quello del calzaturificio Solara – che non è possibile colonizzare. Ma tutto questo già è noto, già esiste, perché Tiziana de Rogatis, nel suo Elena Ferrante. Parole chiave, lo ha già indagato. A me, quindi, tocca fare un passo al lato, non in avanti; trovare un’altra direzione. Per la precisione, intendo fare due passi, uno a destra e uno a sinistra, o se preferisci uno su e l’altro giù, decidendo di restare brevemente al centro, sulla cosa stessa, su me stessa, sulla mia configurazione unica di essere umano che qui non sparirà come accade di solito nei saggi, brevi o corposi che siano. 

Del resto, io non credo che si possa leggere e guardare Lamica geniale in una maniera che non sia in sé stesse. 

Lamica geniale nasce già intrecciata ai nostri vissuti di donne, di persone, di fruitrici, di autrici, di madri, di non madri, di corpi, qualunque corpo abbiamo. 

La peculiarità de Lamica geniale sta nel suo essere saldata in modo pregresso al nostro genere caricato di valori simbolici, quelli del fantasmagorico femminile o di un femminile fantasmagorico che esiste in primo luogo perché qualcuno o qualcosa ce lo ha consegnato alla nascita come un libretto di istruzioni fatto e finito, che poco margine lascia all’interpretazione individuale. In secondo luogo, come eredità comoda o scomoda che ci fa piangere, perché ci ricorda di tutte le madri che non abbiamo conosciuto e pure sono state le nostre, delle figlie che abbiamo o non abbiamo avuto e sono state le nostre, delle nonne, delle bisnonne, delle trisavole, delle suocere, delle donne oppresse, di qualsiasi oppressione abbiano sofferto. 

Leggere de Lamica geniale, e in particolar modo di Lila, significa questo: guardare nel pozzo del sé profondo e terrorizzante in cui peschiamo per compiere le nostre scelte quotidiane, quelle grandi e quelle piccole; e sapere non con il cervello, ma con la pancia, che questa storia ci appartiene. 

Proprio la sensazione di appartenenza mi ha sempre intrattenuta de Lamica geniale, e non nell’accezione comune di intrattenimento; quell’intrattenimento che al più è un’arma con cui veniamo minacciate di essere petulanti, poco a fuoco, di scarso interesse. Intratenuta nel senso latino: Lila mi ha legata, mi hanno legata tutti e quattro i volumi, forse in particolar modo l’ultimo con una corda che a oggi non so staccare, tanto che ho deciso di scrivere questo libro. Non tanto perché volevo liberarmene ma perché volevo finalmente essere capace di toccarla, la corda, di sentire di quale materiale è fatta e perché ha scelto proprio me. Ma ha scelto proprio me? 

ARTICOLO n. 34 / 2023

LETTERA A GIORGIA MELONI

Cosa si può scrivere oggi sul 25 aprile che non sia la solita riaffermazione impettita e retorica dei valori della esistenza, che non incide più, non è più proporzionale al nostro inquietante presente, dentro il quale ci sarebbe invece bisogno di scaraventare, nuda e cruda, questa ferita che ancora sanguina e che chiama a una resistenza ancora più tridimensionale e più grande?   

Rimuginavo dentro di me questi pensieri, in vari momenti della mia giornata, anche mentre camminavo di notte e persino mentre ero a letto sveglio, e mi venivano in mente mille diverse idee e ispirazioni, perché all’inizio avrei voluto parlare del 25 aprile in modo sghembo, diagonale. Ad esempio, mi era venuto in mente di far dialogare tra di loro due cani che avevano seguito scodinzolando eccitati la fiumana dei liberatori nelle vie di Milano, oppure che si erano trovati sotto i cadaveri a testa in giù a Piazzale Loreto. O addirittura di far parlare i cadaveri a testa in giù, tra di loro o magari con un animale, un cane, un uccellino, far parlare un uccellino con il testone capovolto di Mussolini. Oppure di mettere in relazione narrativa il 25 aprile con qualche avatar da me particolarmente amato: Don Chisciotte, Pinocchio, la piccola fiammiferaia, lo scarafaggio di Kafka… 

Queste e altre cose mi passavano per la mente. E forse ne sarebbe venuta fuori una cosa bella e originale. Però c’era qualcosa dentro di me che desiderava parlare del 25 aprile in modo più implicato, magari scomodo, rischioso, ma personale, diretto, senza abbellimenti. Così mi è venuto in mente di scrivere una lettera scorticata e aperta, e all’improvviso, d’istinto, ho pensato di indirizzare questa lettera a Giorgia Meloni.  

Cara Giorgia Meloni,

ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza in mezzo a fascisti. Mio padre era un militare fascista, che è stato fatto prigioniero in Libia e ha passato sei anni in campi di prigionia in India. È tornato a casa con forti problemi psichici e di alcolismo ed è stato internato in due diversi manicomi militari. Ho passato la mia infanzia a vedergli massacrare mia madre e ho ancora negli occhi l’immagine del suo corpo trascinato per terra e nelle orecchie le sue grida da animale scannato. Ogni tanto usciva dal suo mutismo e raccontava del suo trasferimento con gli altri prigionieri dalla Libia all’India, di quando, ammassati su un camion scoperto, passavano sotto un ponte del Cairo e gli arabi gridavano dall’alto “fascisti” e “Mussolini” e poi “si tiravano su quei loro sottanoni e ci pisciavano addosso”. Tutto questo per dire che sono stato attraversato da parte a parte, non in modo astratto ma viscerale, da questa spaventosa tragedia e che riesco persino a comprendere tutta la disperazione e il blocco emotivo e mentale dei vinti.  

Il fratello di mio padre, mio zio Demostene, era comunista. Era sotto sorveglianza dell’OVRA, era stato arrestato più di una volta ed era infine emigrato in Brasile, dopo essere stato minatore in Belgio e in Istria, da dove, pur essendosi dichiarato comunista internazionalista, era dovuto fuggire per non venire gettato nelle foibe. Però era stato lui che, quando mio padre fu dichiarato disperso, aveva fatto ricerche attraverso la Croce Rossa e aveva scoperto alla fine che era vivo e prigioniero in India. È stato il fratello più amato da mio padre, e viceversa, forse perché tutti e due, ciascuno a suo modo, avevano sperimentato una leopardiana “strage delle illusioni”… Tutte cose che ho raccontato in un libro sulla storia della mia famiglia, intitolato I randagi.

Vivevo in una casa di nobili, perché mia madre, poco più che bambina, spinta come gli altri suoi fratelli alla diaspora dalla miseria della propria famiglia contadina, era andata a bussare alla porta di una grande villa di nobili che c’era nelle vicinanze (quella di San Prospero che si vede in Novecento di Bertolucci) ed era rimasta per tutta la vita con loro, come domestica e poi quasi-figlia. Mio nonno (lo chiamavo così anche se non era veramente mio nonno) votava per il partito monarchico (che alle elezioni si alleava con l’MSI). Però non perdonava a Mussolini di avere istituito la tassa sul celibato, che lui – non sposato e senza figli – era costretto a pagare.

Il mio amico di infanzia e di adolescenza era uno dei figli di un’altra famiglia di nobili che abitavano nel nostro stesso cortile. Era fascista anche lui e una volta, per cercare di convertirmi, mi aveva portato nella sede mantovana del MSI (il MIS, come veniva chiamato allora) dove, a un certo punto, un vecchio laido aveva aperto un baule e tirato fuori il suo antico manganello, tra le risa compiaciute degli altri.   

Alcuni anni dopo, quando ormai avevo preso la strada di mio zio Demostene invece che quella di mio padre e prima di sperimentare anch’io la mia “strage delle illusioni”, in una piccola prigione di transito dell’Oltrepò pavese, prima di entrare nella mia cella e di buttarmi sopra il paglione, un ragazzo della cella vicina mi aveva rivolto la parola con gentilezza. Mi aveva detto di essere fascista ma di sapere chi ero e di essere stato a lungo indeciso se andare dalla mia parte politica oppure dall’altra, perché poteva succedere che, nei ragazzi, queste scelte fossero dettate non da convinzioni lungamente maturate ma anche da suggestioni momentanee, superficiali, comportamentali, emotive, a fare la differenza bastava magari un incontro casuale, un amico ammirato, un ragazzo o una ragazza che affascinavano. E poi questo ragazzo mi aveva allungato un romanzo da leggere, perché potessi distrarmi un po’ nelle mie prime ore da prigioniero. E io allora avevo pensato: “ma guarda, se noi due ci fossimo incrociati in una manifestazione ci saremmo avventati l’uno contro l’altro, mentre adesso che siamo tutti e due nella stessa condizione…” 

E adesso, molti anni dopo, mi dico che forse faceva gioco a qualcuno mettere una parte della mia generazione contro l’altra, che mentre si mandavano avanti dei ragazzi fanatizzati quelli che, dietro, comandavano veramente erano sempre gli stessi, come forse sta succedendo anche adesso, in un momento in cui siamo di fronte a emergenze mai viste prima, addirittura di specie. E invece siamo continuamente rigettati all’indietro mentre dovremmo fare un inconcepibile passo in avanti e inventare e reinventare le nostre vite. Siamo riportati alla paura dell’ignoto e dell’aperto, all’illusione di poter fermare, esorcizzare e pietrificare il mutamento con degli editti, all’irresistibile inclinazione per ciò che vi è di più autoritario e retrivo, veniamo riportati a Dio Patria e Famiglia, a una idealizzata famiglia tradizionale, al bambino che deve avere il suo bravo papà e la sua brava mamma, come se questo fosse il paradiso, e io l’ho sperimentato questo paradiso! Mentre avvengono continue stragi nelle famiglie, mentre si sa che le famiglie sono piene di dolore, come d’altronde possono esserlo anche altre forme di aggregazione umana, nessuna esclusa. Dobbiamo assistere alle parole ipocrite di persone che vivono in tutt’altro modo ma che recitano queste giaculatorie perbeniste alle confuse e spaventate moltitudini trattate come nuove plebi da abbindolare con delle semplificazioni, dei simulacri. E poi… un Dio a cui non credono ma di cui ostentano in modo grottesco i simboli religiosi, l’esasperazione delle identità, la Patria e i suoi presunti custodi, che già tanti disastri ha provocato nel nostro recente passato e che nulla ha a che vedere con il vero amore per il proprio Paese, la propria cultura e la propria lingua, che anch’io, come uomo e come scrittore, sento profondamente. L’idea, l’illusione di potersi rinchiudere in un rassicurante orticello nazionale, in un mondo sovrappopolato e interconnesso e di fronte a una sfida di specie che dovrebbe unire piuttosto che dividere gli umani e chiamarli a una grande invenzione. E gli uni abbaiano, e gli altri abbaiano, e così tutti sono costretti ad abbaiare, mentre ci sarebbe invece bisogno di silenzio, di silenzio e ardimento. Durante uno dei miei cammini, in Sicilia, un branco di cani randagi ci aveva affrontato, e i cani che stavano davanti, in prima linea, erano quelli che abbaiavano più forte, fin quasi a strozzarsi, e sembravano sempre sul punto di avventarsi contro di noi per sbranarci. E allora un altro camminatore che se ne intendeva di cani mi aveva detto: «lo vedi, uno può pensare che il capo sia uno di quelli che stanno davanti e che abbaia di più, ma il capo del branco è quello là dietro, che se ne sta zitto, immobile». E infatti, a un certo punto, quello zitto e immobile si è girato e se ne è andato in silenzio, e allora gli altri cani hanno smesso improvvisamente di abbaiare e l’hanno seguito a loro volta in silenzio.    

E così arrivo alla seconda parte di questa lettera.

Cara Giorgia Meloni,

lei si trova a capo del Governo il nostro Paese, proiettata e legittimata da elezioni che ha stravinto. Ha la responsabilità e l’onore di dirigere questo Paese fratricida e perennemente incompiuto, però capace a volte di invenzione, di fervore, di scatto. Un Paese che si trova a condividere con altri paesi europei un sogno continentale di cui è stato uno degli ispiratori, il sogno di un continente boreale composto di nazioni che si sono combattute per migliaia di anni e che adesso, dopo le tragedie causate nel Novecento dai nazionalismi esasperati, dalle tirannidi e da due guerre mondiali nate sul suo territorio, pur con tutti gli egoismi, ritardi e zavorre, ha imboccato una via controcorrente, trascendente, esemplare a livello mondiale, prefigurativa. Tutto questo in un momento in cui sempre nuove tirannidi piccole e grandi stanno crescendo come tumori in ogni parte del mondo, con il loro consueto portato di guerre, deliri nazionali e imperiali che ci riportano continuamente indietro e che non possiamo più permetterci, come specie che si è autoproclamata la più intelligente e che invece si sta dimostrando la più stupida, cieca, folle e suicida, che sta distruggendo le condizioni stesse della propria vita. Com’è possibile che in un momento simile, tra le mille identità su cui i potenti o presunti tali fondano il loro breve potere e il loro divide et impera, non se ne cominci ad affermare anche una nuova, di specie, di una specie che si trova a vivere nello stesso irripetibile habitat, sulla stessa zattera planetaria sperduta tra le galassie, insieme ad altre specie viventi interconnesse, vegetali, animali?  

Come si può, in un simile contesto e passaggio d’era, non avere coscienza che, senza liberarsi del retaggio di radici come quelle di cui la sua parte politica è ancora emanazione, non ci sarà futuro? Lei mi dirà che c’erano al mondo altre tirannidi oltre a quella nazista e fascista, come quella dell’Unione Sovietica di Stalin che, essendo stata invasa dalle orde naziste e avendo pagato per questo un prezzo altissimo, ha potuto mettersi nella schiera dei liberatori e dei “buoni”. Sì, però l’altra parte politica da molto tempo si è liberata di questi retaggi, ha strappato queste radici. Ha visto quale catastrofe, dietro la maschera delle palingenesi ideologiche, è avvenuta nell’URSS, ne ha tratto le conseguenze e fatto tesoro. Noi abbiamo ascoltato e accolto le terribili verità che ci hanno raccontato i testimoni di quella spaventosa servitù volontaria, quello che ci hanno raccontato Šalamov, Vasilij Grossman, Solzenicyn, Bulgakov, Nadežda Maldel’štam… E voi, che pure dovreste sapere cosa hanno combinato Hitler e Mussolini? Non sembra proprio, ad ascoltare le dichiarazioni di uomini della sua parte politica. Quanti ripostigli segreti, quante ambiguità, quanti doppi fondi, quante “sgrammaticature”, ma tutte sempre in un’unica direzione! Era sembrato, con la svolta di Fiuggi, di cui anche lei ha fatto parte, che foste capaci di una ripulsa netta e senza ambiguità del fascismo, ma poi avete intorbidito le acque, dando l’impressione di avere fatto marcia indietro. E anche lei… quanta ambiguità, elusività, reticenza, quanti opportunistici arrampicamenti sugli specchi, quanti italici contorcimenti! Lo so, lei deve tenere insieme i pezzi del suo mondo arrivato al potere, compreso il suo zoccolo duro elettorale, perché anche lei, nella migliore delle ipotesi, è imprigionata dentro la stessa ragnatela che ha contribuito a tessere e non può e non ha il coraggio di lacerarla, di liberarsi e di nascere. Anche se avete giurato sulla Costituzione – antifascista e repubblicana – e quindi qualcuno potrebbe persino dire che siete, tecnicamente, degli spergiuri.

Lei mi dirà: “Povero idiota, e chi me lo fa fare di recidere nettamente queste radici, di non riproporre la paccottiglia nazionalista e clericofascista visto che elettoralmente sta funzionando, che il vento sta girando da questa parte, e non solo in Italia? E poi, cosa credi, nessuno sega il ramo su cui è seduto!” E io le risponderei: “Certo, ma quel ramo è marcio! Sì, certo, lo so, il potere ha un orizzonte breve, non gli interessa il domani, non vede una spanna al di là del proprio naso. E per un po’ vi andrà bene così, ma verrà il momento in cui questa illusione regressiva e questa sproporzione tra i bisogni e desideri umani in questo passaggio d’era e le vostre depistanti, ottundenti ricette diventerà insostenibile, e allora anche voi verrete travolti”. 

Credete di rifarvi una verginità dicendo che siete dalla parte degli ebrei sterminati e che le leggi razziali sono state una vergogna, credete di poter separare questo indicibile orrore da tutto il resto e dall’humus politico e ideologico da cui è sorto. Ma non si può separare questo immane crimine dalla complicità attiva di Mussolini e del fascismo, dalla collaborazione nei rastrellamenti, nelle delazioni, nelle deportazioni, nelle stragi. Io ho camminato lungo un sentiero impervio che va da Pietrasanta a Sant’Anna di Stazzema, e c’era con me anche un uomo la cui nonna era stata assassinata. Ho camminato passo dopo passo sullo stesso identico sentiero che avevano percorso i soldati delle SS saliti a compiere quella terribile strage, mentre era ancora buio, prima dell’alba, con le armi leggere e anche quelle più pesanti che non so come abbiano fatto a trascinare là sopra, e c’erano con loro anche dei fascisti della RSI che facevano da informatori e da guide ai nazisti. Salivano tutti in silenzio, prima di arrivare in cima, di irrompere in quel piccolo paese con le sue case disseminate e di sterminare la sua popolazione, tutti, 560 persone, di cui 65 bambini, persino una neonata di venti giorni. E così in diversi paesi poco distanti, come Vinca e altri, centinaia di persone sterminate, mitragliate, impiccate, bruciate con i lanciafiamme… Non c’è niente da fare, il pacchetto è lo stesso, non si possono separare fascismo e nazismo, non si può prenderne una parte e pretendere di scartare l’altra, non si possono prendere per buone le mistificazioni ideologiche e le chiacchiere e pretendere di separarle dagli orrori, perché le due cose sono strettamente connesse, sono una cosa sola.  

E allora, a questo punto, domando, a lei ma anche e soprattutto ai più catafratti della sua parte politica: che cosa c’è nel fascismo che a molti di voi sembra ancora da ammirare e salvare, tanto da non riuscire a liberarvene? Che i treni arrivavano in orario? Le bonifiche? L’edilizia popolare? Ma anche Hitler poneva molta attenzione all’aspetto sociale, e infatti il suo partito si chiamava nazionalsocialista. E lo scrive ripetutamente nel Mein Kampf, che il suo partito non doveva mai perdere di vista questo aspetto, che doveva presentarsi come il paladino degli interessi popolari, legando a sé il popolo per dominarlo, fidelizzarlo e trascinarlo poi verso le sue deliranti e criminali imprese. Ma cosa c’era sull’altro piatto della bilancia? Il nazionalismo esasperato, il delirio razziale, le guerre di aggressione, il rogo dei libri, l’arte degenerata, la disumanità, l’antisemitismo, l’orrore assoluto e la profanazione dei Lager… 

E in Mussolini cosa mai vi può ancora piacere e affascinare? continuo a chiedermi. Che cosa, che cosa? Non so a lei ma di sicuro a molti di voi. Il trasformismo? La prepotenza? Il bullismo? Ma non vi viene da ridere quando vedete la sua grottesca figura con i pugni sui fianchi, che digrigna i denti? Ci vuole così poco per abbindolarvi? Oppure vi affascinano la cancellazione delle libertà politiche, le stesse di cui avete usufruito voi dal dopoguerra a oggi, oppure il suo conigliesco usa e getta delle donne, o forse gli assassini degli avversari politici, lo spaccare la testa a bastonate agli oppositori, l’umiliarli dando loro da bere dell’olio di ricino, il suo cinico “ci servono qualche migliaia di morti per sederci da vincitori al tavolo della pace”, il patto con il massacratore industriale del popolo ebraico? Come fate a convivere, anche solo in minima parte, con un simile orrore? Cosa può esserci di questo schifo che ancora vi piace e vi affascina? Siete così bloccati, così non cresciuti da non riuscire a liberarvi di questo schifo e ci avete costruito sopra la vostra identità? Siete mentalmente così servi che avete bisogno di un padre cattivo da idolatrare perché possa dare anche a voi il permesso di essere dei padri cattivi? Siete così spaventati e frustrati che avete bisogno di identificarvi a tal punto con l’aggressore?

“Povero idiota” lei potrebbe rispondermi ancora, “io sto facendo un gioco politico grosso, e per fare un simile gioco c’è bisogno di attrarre non solo pezzi di mondo politico precedente sempre in cerca di un nuovo padrone ma anche masse di scontenti, incattiviti, frustrati, che hanno sempre bisogno di dare le colpe a qualcun altro, e allora c’è bisogno di un collante ideologico per poter attirare e galvanizzare queste variegate masse di elettori, c’è bisogno di agitare soluzioni semplici, non importa se strumentali, ma che le possa capire anche un bambino.” D’altronde lo avevano detto chiaro e tondo Berlusconi e anche Trump, che bisogna parlare agli elettori come si parla a un bambino di sette anni, mostrando così tutto il loro disprezzo per le loro stesse moltitudini elettorali blandite.

Ce lo aveva spiegato bene Dostoevskij, come anche altri, che gli uomini hanno paura della libertà, che hanno bisogno di sbarazzarsi del fardello della libertà, che sono portati al servilismo e all’idolatria, a vendere l’anima a chi permette loro di sbarazzarsi del pesante fardello della libertà, che hanno bisogno del miracolo, dell’autorità. Perché si paga sempre un prezzo, un prezzo molto alto, per la propria libertà. È più facile, è più “naturale” essere servi che liberi, tanto più quando si spera di ricevere una ricompensa per il proprio servaggio. Meccanica che funziona non solo nel suo campo ma in ogni campo, compreso quello culturale, e io lo so bene per averlo sperimentato di persona. E lei, in questi primi mesi in cui detiene il potere starà assistendo sicuramente allo strisciare servile o infido di chi ha imbarcato o che potrà in futuro imbarcare, perché le persone, si sa, hanno la tendenza a saltare sul carro del vincitore. Spettacolo che forse, spero, la disgusterà. 

E ce lo aveva spiegato bene anche Tolkien come funzionano il potere e lo stregamento del potere. Voi dite di amare il Signore degli anelli, ma cosa avete capito del Signore degli anelli? Del suo fiabesco e implacabile svelamento dei meccanismi del potere e della fascinazione del potere, del bisogno di resistere e di combattere per la libertà dal dominio e dalla fascinazione della tirannide del potere volto al Male? Una battaglia incerta fino all’ultimo istante e in cui non si sa mai se si vincerà o se si perderà, però non si combattono solo le battaglie che si è sicuri di vincere. Cosa c’entrate con la lotta per liberarsi dal potere malefico dell’anello, voi che avete appena afferrato l’anello e ve lo tenete ben stretto, non vi passa neanche per la testa di gettarlo dentro il vulcano? Cosa c’entrate con Gandalf, con gli alberi che si sradicano, con gli hobbit, gli elfi, i nani?

Che grande leader lei potrebbe essere se trovasse dentro di sé l’indipendenza e l’ardimento per sradicarsi, come gli alberi del Signore degli anelli! Per compiere uno scarto improvviso, da cavallo di razza, per liberarsi della rete di inganni che la proiettano ma la imprigionano! Per traghettare verso un inaspettato e creativo futuro anche il migliore bagaglio della cultura “di destra”, ammesso che si possano operare separazioni di superficie per scrittori, pensatori e poeti che hanno raccontato, indagato e cantato con intensità e radicalità le nostre irripetibili vite e il nostro irripetibile mondo, e che anch’io ho letto, assimilato e amato. E per traghettare anche, attraverso la forza libera dell’esempio, il retaggio di irriducibilità che hanno contrassegnato le vite di interi popoli e di singole e verticali figure: i nativi americani, i sognatori e visionari come Garibaldi, il colonnello Lawrence, Che Guevara…: il coraggio, la sfida, la lotta per la libertà o per quella che ci può apparire o balenare come libertà. Che segno profondo, che ricordo, che eredità indelebile potrebbe lasciare! Lei, come ogni altra persona e vita, se ne andrà, ma potrebbe lasciare dietro di sé, come un interminabile mantello regale, questo segno del suo passaggio nel mondo.

Ma lo so che questo non succederà, che queste sono solo mie illusioni infantili, fantasticherie. Che lei è dentro una macchina, che è trascinata dall’ansia ma anche dall’ebbrezza ascensionale di questa macchina, e che questo taciterà ogni altra voce che può, forse, di tanto in tanto, salirle da dentro, perché lei è nello stesso tempo ammaliatrice e ammaliata, giocatrice e giocata.

E allora…

VIVA IL 25 APRILE
VIVA LA RESISTENZA

ARTICOLO n. 33 / 2023

IL PEDIGREE DEL POLLO

Around The Table. Una serie americana in italiano

«È pronto!», urlo dalla sala. Dopo poco sento una porta aprirsi. È quella di Vera. «Puoi aiutare Andrea a scendere?», le chiedo quasi subito. Vera apre la porta della camera di suo fratello. La sento parlare. «Andrea, dài, vieni che è pronto. Stasera ci sono le bistecche impanate, quelle che tu chiami MAYO perché le mangi affogando ogni pezzo nella maionese. Dài, ti aiuto io. Andiamo ché poi la mamma si arrabbia…».

Con l’estrema e snervante lentezza che lo caratterizza, Andrea scende le scale tenendo in mano il suo iPad, che da tre mesi gli suona la stessa canzone: Enough To Be On Your Way, di James Taylor. Vera è già a tavola, si riempie il piatto con una bistecca impanata e degli spinaci. Ryan intanto sta tagliando la carne per Andrea. Io sono ancora in piedi: mi accorgo che chi ha apparecchiato ha dimenticato pane, acqua, maionese e il mio solito bicchiere di vino.  

«Stasera si mangia tutto quello che vi mettete nel piatto, perché questa cena mi è costata come un viaggio a Parigi in business class. Buon appetito a tutti». Sono ancora sotto shock per la mia esperienza pomeridiana a Whole Foods, il supermercato dietro l’angolo che per correttezza nei confronti dei clienti, si dovrebbe chiamare Gioielleria Commestibile. Quasi ogni prodotto è biologico. Se ne compri uno, come dire, normale, le cassiere ti guardano malissimo, e ti insultano con lo sguardo: «Se sei povera, vai a fare la spesa da un’altra parte, stronza!».

Per arrivare al supermercato, dopo aver varcato la soglia, ho preso le scale mobili che portano alla sezione che vende fiori, piantine grasse e bigliettini per i compleanni. Davanti alle scale, sfoggiata come un quadro di Monet, l’ortofrutta, tutta bella in ordine. Ogni mela o arancia viene accarezzata con tenerezza, a volte spolverata bene e delicatamente appoggiata sulle altre per formare una specie di piramide; le verdure sorridono e invitano i clienti a posarle sui loro carrelli verdi, anche loro biologici. Ho comprato degli spinaci che mi hanno ringraziato per mezz’ora. Ho anche preso due limoni e tre mele. Il totale aveva già superato di gran lunga i quindici dollari. D’altronde, ai ragazzi piacciono le bistecche impanate e gli spinaci… Dopo la frutta e la verdura, ci si trova davanti alla pescheria, dove i pesci vengono ammazzati a botte di complimenti: «Vedrai che sarai buonissimo! Ti cucineranno con spezie fenomenali! Se fossi nato salmone, vorrei essere venduto qui anch’io, mangiato da tutta questa bella gente, che rispetta l’ambiente e che ha delle pentole da mille dollari l’una». Un po’ più in là, la macelleria. Mi sono avvicinata per chiedere un petto di pollo, e il macellaio mi ha raccontato con entusiasmo della stirpe di provenienza del povero pennuto: famiglia onesta, nata e cresciuta in campagna, libera di svolazzare nell’aia, libera di avere le proprie idee politiche e i propri sentimenti. Una stirpe nobile, insomma. Un chilo di pollo figo mi è costato ventun dollari. Con la voce un po’ tremolante da magone, il macellaio ha aggiunto che le uova, della stessa aia, erano dietro di me. «Costano un po’, ma la qualità è irraggiungibile». In effetti, otto dollari per una dozzina di uova possono essere giustificati solo se ci trovi dentro un tuorlo d’argento. 

Mi ritrovo di fianco alla corsia delle creme di bellezza, dei saponi e delle vitamine. Lì non mi fermo dal 2004, e cioè da quando comprai uno shampoo senza guardare il prezzo e mi venne un mancamento. Finalmente sono di fronte al pane: metto due francesini in un sacchetto di carta. Dài, cosa vuoi che siano quattro dollari. Vado a cercare il pangrattato, e sono costretta a fare delle scelte importanti: biologico? Normale? Aromatizzato al rosmarino? E le briciole: piccole, un po’ più grandi, soffici o dure? Per paura degli sguardi violenti delle commesse, prendo quello biologico, briciole piccole, non aromatizzato. Costa tre dollari di più, ma almeno non vengo umiliata davanti a tutti. Mi serve anche il burro (otto dollari e cinquanta), l’olio (diciassette dollari e quarantanove centesimi) e una bottiglia di vino scarso, al modico prezzo di ventun dollari. 

Quando la ricevuta della spesa viene sparata violentemente fuori dalla cassa, tutti noi veniamo colpiti da tremori incontrollabili, dalla mancanza di salivazione e dal dubbio di essere stati presi per il culo. Si prendono le scale mobili per scendere, si va in macchina e si piange. Neanche questa volta avremo i soldi per il cinema: andati tutti in spinaci e petti di pollo.

Per cui, quando un po’ più poveri ma felici, ci ritroviamo attorno al tavolo, se qualcuno si permette di dire frasi del tipo: non ho fame; do gli avanzi ai cani, non mi piacciono gli spinaci, io mi trasformo in Goldrake e spacco tutto. 

Sono appena tornata da Milano, dove sono stata a casa di mia madre. Di fronte al palazzo c’è un supermercato, molto più piccolo di Whole Foods, anche perché si trova in Italia, dove le dimensioni sono a portata d’uomo. Sono andata a fare la spesa anche lì: uova, formaggio, yogurt, pasta, cioccolato Novi con nocciole (due tavolette, vino (Pecorino buono), due etti di salame Milano. Alla cassa, mentre aspetto, tiro fuori dal portafogli la carta di credito. La cassiera, di marcato accento milanese, fa un po’ di battute sulle tavolette di cioccolato che mi fanno ridere. «Sono venticinque euro», mi dice dopo avermi dato un sacchetto. «No, scusi, è impossibile!», a cui lei risponde: «Eh sì, ha comprato il vino più caro…», come a dire che costa tanto per quello. 

Capisco che gli stipendi italiani e quelli statunitensi sono molto diversi, e che il costo della vita è direttamente proporzionato a questo fattore. Capisco poi che Whole Foods non è il tipico supermercato, ma quello dei fighetti o delle persone pigre come me, che non hanno voglia di prendere la macchina per andare a fare la spesa da un’altra parte. È ovvio che le aie americane hanno l’aria condizionata e i polli fanno massaggi e pedicure almeno due volte la settimana, mentre i poveri cristi italiani sono cresciuti in fattorie e vivono in modo semplice e onesto. Capisco tutto, ma mi sembra che il confronto fra il supermarket americano e quello italiano mostri senza ombra di dubbio che i prezzi di Whole Foods siano talmente esagerati da trasformarsi addirittura in un’ingiustizia etica e sociale.

Ogni quotidiano, italiano o americano, parla ogni giorno di salute: come invecchiare bene, come avere rapporti sessuali dopo la menopausa, come fare esercizio fisico una volta al mese. Ma il tema più importante è l’alimentazione. Spiegano che bisogna mangiare molta frutta, verdura e legumi, e meno carne o pane. Aggiungono che l’olio d’oliva, il latte magro, il pesce appena pescato e la dieta mediterranea siano necessari per una vita lunga e gioiosa. Negli ultimi anni, poi, si è aggiunta l’importanza di mangiare cibi biologici, non trattati con pesticidi.

Ma tutto ciò richiede un certo agio sociale: se il pesce fresco costa troppo, può essere acquistato soltanto da un ristretto gruppo di persone. Stessa cosa per quanto riguarda una mela, un grappolo d’uva, un’insalata, un petto di pollo biologici. Sono più sani, ma costano il doppio. Un cheeseburger da McDonalds costa due dollari e cinquanta; una mela biologica anche. Solo che il primo ammazza il fegato, ma sazia; la seconda fa bene, ma sazia per venti minuti. Nel 2013, in una zona povera di Detroit è stato aperto Whole Foods, che notoriamente ha prezzi molto alti. Fortunatamente, i manager del nuovo supermercato hanno capito che nessuno avrebbe fatto la spesa lì e dunque hanno abbassato considerevolmente i prezzi. Una storia a buon fine, ma talmente rara che attira l’attenzione dei mass media.

Ci sono principi che dovrebbero essere uguali per tutti, senza distinzione di genere, etnia o età. Mangiare sano è uno di questi. Negli Stati Uniti, le persone con la pelle di colore scuro sono discriminate anche per quanto riguarda l’alimentazione. La popolazione economicamente svantaggiata mangia cibo preconfezionato, frutta e verdura in lattina invece che fresca, cibi pieni di zuccheri e carboidrati perché ha poche scelte. Infatti sono loro che sviluppano diabete, obesità, ipertensione, e che hanno il colesterolo alle stelle. Noi, con i nostri bei branzini al forno e con la nostra verdurina, cresciuta solo per noi, siamo più sani perché possiamo permettercelo. 

Questo fenomeno di discriminazione alimentare è molto studiato dai sociologi americani che lo chiamano food desert, il deserto del cibo. Il termine viene usato per descrivere zone per lo più rurali o ai margini delle città abitate da persone a basso reddito (per lo più minoranze) che non hanno accesso a supermercati perché sono a chilometri di distanza oppure vivono in zone in cui i prezzi sono troppo alti per le loro tasche. Di conseguenza, sono costretti a comprare il cibo nei negozietti che non vendono nulla di fresco, ma junk food (cibo spazzatura). Fortunatamente, ci sono sempre più iniziative volte a diminuire il più possibile il disagio che questo fenomeno causa.È strano pensare che fare la spesa possa diventare un atto discriminatorio, che spendere così tanto per beni di prima necessità significhi entrare in una macchina del male, che ripudiamo con forza. L’immagine che mi balza agli occhi è quella di un serpente che silenzioso si intrufola nella nostra vita e contribuisce ad aumentare ulteriormente il gap tra chi può e chi no. È facile dimenticare la realtà di persone che non conosciamo, perché nel nostro quotidiano non sono che numeri in uno studio statistico. Fa un po’ impressione, pensavo pulendo la cucina, che anche quando si fa la spesa ci si trovi coinvolti, anche inconsapevolmente, in una macchina sociale iniqua e terribile. Aveva ragione mia madre, quando ci diceva che tutto quello che facciamo anche senza accorgercene deve essere considerato un atto politico.

ARTICOLO n. 32 / 2023

RITRATTO PORTATILE DI PIERGIORGIO BELLOCCHIO

Piergiorgio Bellocchio ha passato tutta la vita a Piacenza. Non si è mai spostato. Proprio come William Faulkner dalla sua Oxford, in Mississippi. E potrebbe essere anche suo, in fondo, il celebre telegramma con cui proprio Faulkner, nel 1950, rifiutò l’invito a cena del presidente Truman, alla Casa Bianca, per festeggiare la vittoria del Premio Nobel: «non ha alcun senso prendere un volo per una cena». Stesso temperamento ispido, stessa insofferenza per la retorica e la vanagloria, e, ancor più, stesso fastidio epidermico per il sentirsi esposti, per il parlare in pubblico. Ne ho un ricordo personale. Vidi Piergiorgio Bellocchio una sola volta, a Siena. Ero ancora studente universitario. A Lettere presentavano la ristampa di Ragionamenti: insieme a Luca Lenzini, c’erano Romano Luperini, Delfino Insolera, Renato Solmi e, appunto, Bellocchio. Mi colpì la sua premessa: «non ho abilità oratorie di alcun tipo: quindi leggo il testo che ho scritto». Così, senza preamboli, diretto e secco. La ritrosia, se non il fastidio, rispetto al sentirsi esposto, al parlare in pubblico, era chiarissima. Piergiorgio Bellocchio è stato un intellettuale radicale, introverso e fuori campo. Dalla sua base provinciale – porto sicuro, eppure mai magnificato – ha co-diretto, insieme a Grazia Cherchi, la rivista culturale più importante della Nuova Sinistra italiana: i Quaderni Piacentini. Rivista che, per quasi vent’anni, è stata molto più che un semplice foglio di ricerca, visto che ha contribuito a formare quella nuova comunità – fatta di battitori liberi, intellettuali senza mandato, storici politici e militanti di base – che è stata protagonista di quanto Primo Moroni, Nanni Balestrini e Sergio Bianchi hanno definito «orda d’oro»: vale a dire, dell’assalto al cielo del quindicennio di lotte del lungo ‘68 italiano. 

A partire dal «golpe Moro» e dalla conseguente implosione dei movimenti anti-sistemici, l’Italia iniziò però a mutare,esattamente come aveva diagnosticato qualche anno prima l’amato/odiato Pasolini; ma questa volta davvero, nel giro di pochi anni e ad una velocità impressionante. I Quaderni Piacentini nel 1984 chiudono. È ormai scomparso, infatti, intorno alla rivista, quel cosmo politico di cui era stata un attendibile sismografo. Bellocchio però non sa stare senza un progetto editoriale condiviso. Perché non è uno scrittore di libri, ma un saggista. E i saggi – si sa – sono come degli assoli che per suonare al meglio hanno bisogno di uno spazio orchestrato: la rivista, appunto. Ma ogni rivista è sempre un progetto politico: parla di Sé, mentre parla del mondo. Quaderni Piacentini aveva costeggiato una rivoluzione impossibile e, anche per questo, era stata un’esperienza editoriale entusiasmante: aveva coinvolto, in oltre vent’anni di vita, centinaia di collaboratori, un microcosmo sociale dentro un’onda politica vasta, radicale, ingenua e generosa. Nel 1985, però, l’orizzonte è tutt’altro. Per questa ragione, Bellocchio fonda un nuovo progetto editoriale, ma di indirizzo diametralmente opposto: si chiamerà Diario, uscirà per otto anni, senza alcuna regolarità. Uscirà quando deve uscire, senza giustificazioni, né tantomeno programmazione. Una rivista, per di più, fatta in casa, a Piacenza, da due sole persone: lui e Alfonso Berardinelli. Una sorta di scrittura a duetto, quasi una raccolta di Lieder: solo voce e piano. Malinconici, ma inconciliati; sarcastici perché disillusi. Accanto alle due voci, stralci di classici amatissimi: Kierkegaard, Leopardi, Baudelaire, Herzen, Thoreau, Tolstoj, Simone Weil e Orwell. Di fronte, la stupidità implosiva degli anni Ottanta: non solo Craxi, il socialismo della Milano da bere e l’inizio delle invasioni barbariche leghiste. Quanto soprattutto Repubblica, con il suo club di progressisti a buon mercato; e poi Umberto Eco, metonimia perfetta, per entrambi, di quella nuova sconfortante cultura del ceto medio riflessivo italiano, a metà strada fra esterofilia provinciale e narcisismo stolido. La diagnosi della rivista è implacabile: di quest’amalgama, che si oppone all’acculturazione politica di massa del decennio precedente, la telecrazia berlusconiana è un effetto; non causa.

Per l’insieme di queste ragioni, Diario è stato un progetto editoriale quasi clandestino perché radicalissimo, sprezzante e sulfureo. Basta leggere anche solo come veniva pubblicizzato, per capirne la nota bassa di fondo: «è in edicola il N.4 di Diario. Contiene sempre meno novità, sempre meno notizie, sempre meno argomenti inediti. Come al solito non contiene inchieste né rubriche di moda scienza bellezza cultura. Leggi Diario, ti darà di meno». Se Quaderni Piacentini aveva provato a cavalcare il futuro, scommettendo su analisi tendenziali e su una creatività intellettuale di tipo nuovo, perché posizionata dentro un conflitto politico di massa; Diario, all’opposto, si ritrae dal presente perché tutti i segnali che la cronaca emette sono inquietanti e inequivocabili; è meglio non decrittarli più. A questo proposito c’è un aneddoto significativo, benché malinconico, che Bellocchio riporta in quello strano Zibaldone personale, da poco pubblicato con il titolo Diario del Novecento a cura di Gianni D’Amo. Ricorda di essere andato a trovare Franco Fortini nel 1992, a casa sua, a Milano, qualche mese prima che morisse. Fortini è stato uno dei mentori di Quaderni Piacentini e, soprattutto, un maestro che entrambi, sia Bellocchio che Berardinelli, maltratteranno; e non senza rimorsi. Bellocchio osserva Fortini, che ha quasi ottant’anni e per di più è mezzo moribondo, mentre continua ad ipotizzare scenari nuovi, mosso da una costante ansia patologica per il futuro, perché non può non essere all’altezza del presente, che va sempre aggredito, rincorso: non si può restare indietro. Bellocchio lo guarda, quasi con tenerezza. Lui, il poeta classico della Poesia delle rose, che ha sempre odiato l’avanguardia, gli si rivela, in quell’istante, per quello che è davvero: un puro avanguardista, che continua, nonostante tutto, a giocare a scacchi con il futuro, senza capire che quella partita è, purtroppo per noi, e da mezzo secolo ormai, truccata. Bellocchio scrive: «gli faccio notare che da molto tempo ho smesso di seguire l’attualità. Mi tengo fedele e fermo a vecchi valori e mi comporto come se fossero sempre validi. Invece di fuggire in avanti, come lui insiste a fare, io retrocedo, mi nutro di passato. Gli ricordo il suo Goethe, che si rifiuta di proseguire nella lettura di Hugo, perché vuol difendere il suo modo di sentire naturale: si può per questo giudicarlo retrogrado?». Diariocontinua in questa cosciente retroversione fino al 1993. Perché l’anacronismo funziona benissimo come reagente di contrasto e il presente, osservato fuori campo, è nitido, benché orrendo. Ma quando ormai nessun anacronismo funziona più perché le previsioni si avverano e nulla più è da scoprire, il gioco si interrompe e la rivista si ferma: 

Quello che soprattutto valeva per noi era l’aver scritto, senza riferimenti politici e in solitudine, contro il mito della politica, la nuova classe media universale e lo strapotere delle comunicazioni di massa. Negli anni Novanta avevamo di fronte una situazione che confermava le nostre più pessimistiche intuizioni e avremmo avuto più da ripetere che da scoprire. I due autori concordano nel considerare quegli anni i più liberamente e felicemente produttivi della propria attività letteraria. Scrivendo “Diario”, ci siamo sentiti politicamente impegnati come mai prima.

I libri che Piergiorgio Bellocchio ha iniziato a pubblicare a partire dal volume intitolato Dalla parte del torto(1989) – e ricordiamo almeno: il delizioso Oggetti smarriti (1996); Al di sotto della mischia (2007); Un seme di umanità. Note di Letteratura (2020); e il suo Zibaldone, Diario del Novecento (2022) – sono tutti raccolte di saggi.  Alcuni sono già apparsi su Diario, altri scritti per rubriche su giornali – ne ha tenuto una bellissima, tra il 1992 e il 1993, per il supplemento libri dell’Unità, dove recensisce libri fuori catalogo miracolosamente ritrovati su bancarelle dell’usato – altri ancora sono prefazioni (stupenda quella dedicata al Pasolini politico, nel Meridiano curati da Walter Siti e Silvia de Laude) o introduzioni a libri altrui. Come ogni vero saggista, la sua è una scrittura di servizio, con un tono immediatamente riconoscibile: sarcastico, asciutto, a tratti giocoso, a tratti malinconico e meditabondo. È stato probabilmente una delle ultime incarnazioni novecentesche del modello goethiano dell’intellettuale dilettante. Che ha sempre difeso, contro il falso professionismo dei giornali e delle cattedre che è tanto più intimidatorio, quanto più è inessenziale.

Non ho mai avuto padroni, semmai dei soci. Del resto, anche negli scarsissimi rapporti di collaborazione con altre testate o case editrici, mai avuto un contratto, sempre stato cottimista, pagato a lavoro, a pezzo. Gusto dell’autonomia, non dover rendere conto a nessuno se non alla propria coscienza.

ARTICOLO n. 31 / 2023

HO LETTO MOLTO, MOLTISSIMO

Intervista di Fabio Bozzato

Poeta, scrittore, traduttore, editore: Michael Krüger ha vissuto per tutta la vita di libri. Per quarantacinque anni è stato l’anima della Carl Hanser Verlag di Monaco, da editore, direttore letterario e amministratore. Alla guida della rivista Akzente ha pubblicato una quantità di autori italiani, primo fra tutti il suo amato Cesare Pavese. Quaranta volumi tra poesia, romanzi, saggi portano la sua firma. Nel 2013, per celebrare la sua lunga carriera è stato insignito del London Book Fair Lifetime Achievement Award. E a marzo di quest’anno, a Venezia, in occasione del Festival internazionale di letteratura Incroci di Civiltà, promosso dall’Università Ca’ Foscari, ha ricevuto il Premio Cesare De Michelis.

Fabio Bozzato: Partiamo da alcuni ricordi personali, se permette. Oggi siamo dentro un’atmosfera di guerra, come mai l’Europa ha conosciuto negli ultimi 80 anni. Lei ha passato l’infanzia in un paese devastato dalla guerra. Che ricordi ha? Sognava già da bambino di fare lo scrittore? 

Michael Krüger: Sono nato durante la guerra, verso la fine del 1943, in un paesino a Sud di Lipsia. Peraltro, Lipsia era la città della Sassonia famosa per la sua fiera del libro e per le sue attività industriali già nel XIX e XVIII secolo. In quel paesino mio nonno aveva una grande fattoria, dove sono nato. Mia madre ha presto raggiunto mio padre a Berlino, dove lavorava all’ufficio postale e là hanno avuto altri tre figli. Io sono rimasto con i miei nonni perché mio padre era sicuro che Berlino prima o poi sarebbe stata bombardata. E così ha pensato che fosse meglio lasciarmi in campagna con i vecchi genitori. Nessuno di loro si immaginava in quel momento che ci sarebbero voluti sei anni per ritrovarci. 
Al villaggio erano rimasti quasi tutti anziani, per lo più donne. Gli uomini erano al fronte. Finita la guerra è stata molto dura per i miei nonni. Hanno perso la fattoria, perché era considerata troppo grande per i nuovi funzionari russi, dicevano che le fattorie più grandi di una certa dimensione dovevano essere smantellate. I due vecchi si sono ritrovati praticamente senza soldi. È stato tutto confiscato. I nuovi arrivati trovavano un lavoro solo se iscritti al partito. Ma mio nonno era un contadino con le sue convinzioni e ogni tanto apriva la finestra e urlava. Noi lo riportavamo dentro, «Non farlo, non farlo», gli dicevamo; ma lui era arrabbiato, solo che così rischiava di essere picchiato o arrestato.
Non c’era molto da mangiare, ma trovavamo sempre qualcosa. Andavamo in giro e lui spesso incontrava qualche vecchio amico. E così a volte gli davano un uovo, o trovava quello di cui aveva bisogno, come una lama da rasoio. Non aveva soldi. Comunque, quando ho cominciato a camminare andavo sempre in mezzo alla campagna a passeggiare con lui. In primavera era bellissimo. E d’estate pure. Solo d’inverno era più dura, bisognava trovare abbastanza legna per riscaldare la casa.

F.B. E i libri? Che ricordi ha dei libri?

M.K. Libri non ce n’erano. Avevamo due libri. Una era la Bibbia, una bellissima edizione con le illustrazioni, e l’altra era un libro sulle piante, uno di quei libri che ti spiegano il nome, il tipo e il significato delle piante. Così, nelle passeggiate con il nonno, passavamo tutto il giorno nei campi a raccogliere frutta, semi, funghi. Cercavamo cibo e una volta tornati a casa spulciavamo il libro per sapere che tipo di piante avevamo trovato. Ho avuto un’infanzia tranquilla, sì. Poi, certo, non avevamo nessuna radio, né ovviamente c’era la televisione. L’unica cosa che potevo fare era imparare più o meno a memoria quei libri. La Bibbia in particolare, piena di storie fantastiche. E come si sa, è proprio dalla Bibbia che poi sarebbero usciti tutti i romanzi che conosciamo negli ultimi duemila anni. Ho l’impressione che più o meno tutti i romanzi siano contenuti dentro la Bibbia. La nonna mi leggeva ogni sera un capitolo. A volte era difficile comprendere quelle storie e le domandavo: «come ha fatto Mosè a chiedere al mare di dividere le acque? Come era possibile che il popolo di Israele passasse in mezzo con l’acqua da una parte all’altra?». Allora lei mi spiegava e, a pensarci, le sue spiegazioni sono state davvero una sorta di poetica, di estetica della mia scrittura futura. Lei mi diceva che nella letteratura, nel pensiero e nell’immaginazione, è possibile dire al mare di andarsene. Sono stato con loro fino ai sei anni, poi ho raggiunto i miei a Berlino e ho cominciato andare a scuola.

F.B. E là ha scoperto la lettura

M.K. Ho letto molto, moltissimo. A Berlino vivevamo in un appartamento, i miei genitori, due fratelli e una sorella maggiori. E io parlavo un buffo dialetto della Sassonia, che era strano a Berlino e non si poteva sentire. Era lo stesso dialetto che parlavano i governanti della Germania Est, Walter Ulbricht e Wilhelm Pieck. Io ero molto solo e leggevo, ma tutto sommato stavo bene. Quando sono arrivato alla maturità, mio padre mi ha detto: «potresti studiare filosofia». È che mi aveva visto leggere Aristotele. Ma io, il giorno dopo che la scuola mi ha consegnato i documenti, ho deciso di diventare tipografo. Così ho cercato un posto dove imparare a stampare. A quel tempo avevamo ancora le vecchie macchine, sì, era il ’61 e c’erano quelle vecchie macchine tipografiche e così ho imparato davvero a mettere insieme una pagina, un libro e così via. È stato un periodo molto interessante della mia vita. Nel frattempo, andavo in una casa editrice e l’ha ho appreso a organizzare il lavoro con i libri. Ho lavorato così per due anni e mezzo e poi sono andato a Londra da un libraio. A quel punto dovevo trovare un modo per guadagnarmi da vivere e così ho cominciato a scrivere, scrivevo recensioni per dei giornali. Nel ’68 ero editor di un annuario letterario e incontravo molti scrittori, con cui parlavo di letteratura, poesia, estetica. E alla fine mi son detto: «scriverò io stesso». Ho aspettato un po’ prima di pubblicare qualcosa, avrò avuto una trentina d’anni. Ora sono un uomo anziano e continuo a scrivere. 

F.B. Lei è uno scrittore-editore. Quanto cambia lo sguardo di un editore che è anche scrittore rispetto a un editore-editore? Come guarda la letteratura degli altri?

M.K. Prima di tutto, chiediamoci: perché un editore non dovrebbe essere uno scrittore? Abbiamo avuto ottimi esempi. In Italia penso al mio buon vecchio amico Roberto Calasso. E così, l’altro mio amico Umberto Eco è stato un ottimo editore con Bompiani. Ricordiamoci che T.S Eliot, uno dei più grandi poeti, dirigeva anche una delle grandi case editrici di Londra, Faber and Faber. Quindi è possibile. Certo, non ho mai pubblicato le mie cose nella casa editrice dove lavoravo. Peraltro non sono mai stato proprietario di una casa editrice tutta mia, ero pagato per fare l’editore. Per Roberto Calasso era diverso, il suo lavoro di scrittore rientrava nel suo progetto. Nel mio caso ho sempre pensato che dovessero essere gli altri a pubblicare le mie cose, sennò qualcuno può pensare che la cosa puzzi un po’ disonesta. E comunque il modo di vedere il tuo lavoro cambia se lo sguardo è esterno, ma la logica è sempre la stessa: è il tentativo di aggiungere un libro in più a tutti gli altri libri esistenti. Ed è strano, perché già ci sono molti libri buoni e molti libri fantastici. Dunque, come editore di trovi a pensare che sei nella perfetta condizione di poterne aggiungere un altro. A dire il vero, è anche un pensiero un po’ egoista. Ma io ho sempre trovato un nuovo libro da pubblicare. E continuo a farlo. Pubblico, pubblico, pubblico e scrivo e nel frattempo invecchio. Credo che forse anche sul letto di morte, scriverò le righe di un nuovo libro.

F.B. Lei ha pubblicato anche molta poesia. In un’intervista ha detto: «è una cosa non negoziabile». Cosa significa pubblicare poesia?

M.K. Ho sempre amato pubblicare poesie, nessun’altra grande casa editrice ne ha pubblicate così tante. Ogni anno pubblico dieci, quindici libri di poesia e sempre gli addetti alle vendite mi dicono: «buon Dio, Michael, perché pubblichi tutto questo? Dai poeti non possiamo ricavarne un soldo». Eppure, tutti questi poeti, dopo dieci anni, hanno ricevuto grandi premi, compreso il Nobel. Quindi la mia lista di poesie nel suo complesso ha avuto un gran successo, penso a Iosif Brodsky a Seamus Heaney. Penso che la poesia sia una delle parti principali del mio lavoro. Penso a quanta poesia italiana abbiamo pubblicato, soprattutto i grandi poeti italiani, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Dino Campana, ma anche i poeti più giovani come Valerio Magrelli e così via. Quindi sì, amo la poesia e penso che la poesia sia la più interessante tra le forme letterarie, è la sfida più interessante per scrivere qualcosa di nuovo.

F.B. Perché la poesia può essere uno strumento così importante per la contemporaneità?

M.K. In realtà la poesia non è molto accettata come modo di pensare, guardare il mondo, affrontare il mondo. La poesia non ha davvero una grande reputazione in questo mondo. Succede ovunque, che sia in America, Italia o Germania: ci sono sempre 2430 persone interessate alla poesia, non di più. A volte uno di questi poeti ottiene un grande premio e allora entra nelle librerie e nelle biblioteche. Ma è guardando indietro, a tutta la storia della poesia, che ci si accorge come tutti i grandi poeti siano sopravvissuti molto più degli scrittori di prosa, anche i più famosi. E così alla fine penso che la poesia sia una tartaruga e la prosa una lepre molto veloce. La tartaruga è lenta, ma quando arriva all’obiettivo, è molto più felice e molto più rispettata di tutte le altre. Perché? Credo sia una questione di forma: nella poesia, in quella piccola scatola di parole, puoi trovare tutto il mondo, se sei fortunato a trovarlo. Lo capisci, ad esempio, se pensi a Ungaretti col suo famoso «M’illumino d’immenso»: due righe, sai che quelle due righe faranno per sempre parte della letteratura. «M’illumino d’immenso»: è enormemente più di 800 pagine di un qualsiasi romanzo borghese.

F.B. Eppure siamo un paese strano, ci vantiamo della nostra storia della poesia ma non ci sono programmi che supportino i giovani poeti né i traduttori, né li promuoviamo all’estero. La poesia sembra cristallizzata nel passato.

M.K. L’esperienza americana è molto diversa. In ogni college trovi una cattedra o un docente di poesia, lui stesso poeta. Così i poeti possono insegnare, avere uno stipendio e continuare a scrivere. E averli fa parte della qualità e della reputazione dell’università che li assume. Così fanno tutti i miei amici americani, così hanno fatto John Ashbery al Bard College, Adam Zagajewski a Chicago, Charles Simic alla Northwestern. Quindi tutti avevano un lavoro e i college erano orgogliosi di avere questi poeti come insegnanti. L’ultima statunitense vincitrice del premio Nobel, Louise Glück, ha insegnato ad Harvard, cioè il luogo più prestigioso che può sognare un docente. Dimostrano che sì, puoi vivere di quello. Questa è una situazione, diciamo, molto di lusso. Non ce l’abbiamo qui in Germania. Certo, a volte ci sono lezioni di poesia all’università, lo faccio anch’io ed è così interessante parlare con i giovani.
Tuttavia, penso anche che se nessuno è veramente interessato alla poesia, non ha senso costringere la gente a leggerla. Penso che quel piacere lo devi trovare da solo o sei perso. E posso solo dirlo ai più giovani: senza poesia, la tua vita è molto più povera. Se non mi credi, se non credi a questo segreto che ti sto raccontando, non ti posso costringere. Ma se ti piace, probabilmente avrai un’idea un po’ più chiara di quello che sta succedendo in questo nostro mondo.

F.B. E in questo nostro mondo, mai come ora si scrive e si pubblica così tanto…

M.K. Da quando abbiamo cominciato a sfornare tutti questi programmi educativi, del tipo “come essere uno scrittore”, ci ritroviamo un sacco di libri, a volte interessanti ma non certo affascinanti. E così tutti pubblichiamo centinaia di nuovi libri. Ma a ben vedere, secondo me, la pubblicazione di tutto questo nuovo materiale sembra il tentativo di dare risposte al nostro stare al mondo, ma ha poco a che fare con l’arte. Non sono libri scientifici, non è buona letteratura. A me questa cosa non è mai piaciuta. Probabilmente può suonare un po’ snob, ma a me sono sempre interessati lo stile e le idee. Sappiamo che senza arte ci troveremo in grosse difficoltà. D’altra parte, si dice che l’arte e la letteratura devono essere accessibili, semplici semplici, e quando si presentano difficili significa che non sono buone. Ecco, per me invece, quando una cosa mi si presenta difficile è meraviglioso. Quindi, che dire? Non dobbiamo per forza leggere dalla mattina alla sera per essere persone gentili e istruite, ma dobbiamo sapere cosa leggiamo.

F.B. In una intervista lei hai detto che «per essere editore devi essere psicologo, imprenditore, lettore e amico allo stesso tempo». Quindi cosa significa oggi essere un buon editore?

M.K. È un’ottima domanda che dovremmo farci. In realtà nessuno ti insegna a essere un editore, puoi solo fare del tuo meglio. E forse solo alla fine puoi scoprire se sei stato un Calasso, un Bompiani, un Garzanti o un Einaudi. Quindi, dal momento che non puoi saperlo, devi avere molti lectores intorno a te, perché non puoi fare tutto da solo. Devi avere persone che stanno imparando altre lingue o che parlano lingue che tu non conosci. Devi avere uno psicologo in azienda. Devi avere a fianco un ottimo uomo d’affari: un editore vuole spendere i soldi, pagare gli autori, ma ci vuole uno che ti dica: «cosa spendi se non ci sono abbastanza soldi?». E poi devi avere degli ottimi addetti alle vendite che seguano le tue idee: per me, è sempre stato importante avere un meraviglioso settore vendite, gestito – detto entre-nous – quasi sempre da donne. 
Quando sono in una città straniera, entro sempre in una libreria. Guardo cosa c’è in vetrina, cosa c’è sul tavolo o le raccomandazioni appese alla parete. E mi chiedo sempre: «perché? Come si arriva a questo?». La risposta è che è necessariamente un lungo lavoro di squadra. Persino Calasso, che era così presente tra i suoi libri, anche lui aveva una squadra, aveva bisogno di ascoltare tutti, discutere e scegliere.
Certo, da Giulio Einaudi era molto visibile, dietro ai suoi capelli bianchi c’erano Natalia Ginzburg, Elio Vittorini, Italo Calvino. Erano il cuore della Einaudi, editor coltissimi, che sapevano davvero leggere. È vero che ora c’è un nuovo tipo di editor, che annusa solo e annusa solo il successo e poi pubblica. No, un editor deve saper leggere attentamente e deve essere molto, molto colto. Penso a uno come Bobi Bazlen a Trieste, che ha il merito di aver portato la letteratura tedesca dopo la guerra in Italia. Ecco, lui è un vero esempio di editore.

ARTICOLO n. 30 / 2023

L’ASPARAGO, AFRODISIACO E ARISTOCRATICO

La mistica del cibo

La leggenda narra che il re Juan Carlos, assaggiando un piatto di asparagi, abbia esclamato «están cojonudos!» (“sono cazzuti”), e che da allora siano stati etichettati con questo nome suggestivo, che li distingue da molti altri.  Questi sono gli asparagi di Navarra, chiamati direttamente “cojonudos”, un prodotto che si caratterizza per essere più grande del normale, anche se, dicono, questo non toglia nulla al loro sapore. Coltivati nella parte alta della fertile valle del fiume Ebro, in Navarra, e raccolti a mano, sono un simbolo dell’ispanicità. Sembra quasi che, per gli spagnoli, il simbolismo sia direttamente legato al nome fortemente didascalico, senza sforzo alcuno nell’essere pudichi, anzi, facendosi forti di questo singolare primato mondiale.

Per me, il primo asparago dell’anno è sempre stata una piccola festa, perché voleva dire che la primavera era, finalmente, arrivata. Ricordo benissimo come, quando lavoravo al ristorante, la cella si riempisse di asparagi, cipolle novelle e fragole, unendo i loro profumi in un’unica fragranza inaspettata e gioiosa. Da poco prima di Pasqua alla fine di maggio, gli asparagi hanno accompagnato le mie primavere, sia che li usassi in cucina, sia che li mangiassi per diletto.

Nel Nord Europa, la stagione degli asparagi è un periodo dell’anno molto speciale. Pasqua e Pentecoste, che vengono celebrate con la stessa gioia del Natale, non sarebbero complete senza un piatto di asparagi imburrati.All’inizio della primavera, quando gli asparagi freschi iniziano a comparire sui banchi dei mercati, tutti sanno che il freddo è finito: questo ortaggio porta con sé, in qualche modo, la promessa di calde giornate estive dopo il lungo inverno.

Pianta dalla storia millenaria, i suoi germogli hanno forma cilindrica, il che li rende da sempre un simbolo fallico.Anticamente si credeva che bastasse sotterrare corna di montone forate perché i turioni (così si chiamano i germogli della pianta d’asparago che consumiamo in cucina) crescessero di loro sponte. Un fallo vegetale e il montone, anch’esso simbolo di potenza sessuale, uniti in un unico rito, per un prodotto dai poteri prodigiosi!

Gran parte dell’aura dell’asparago riguarda la sua reputazione di afrodisiaco ringiovanente. In effetti, alla base di questa descrizione c’è la convinzione che questi germogli fallici, dalla crescita prodigiosamente rapida, aumentino il desiderio e la potenza sessuale. Gli antichi greci attribuivano gli asparagi alla dea dell’amore, Afrodite. I Beoti facevano corone di asparagi per le spose. Il poeta Apuleio, autore de L’asino d’oro, avrebbe conquistato il cuore della ricca vedova Pudentilla con un filtro d’amore contenente asparagi, code di granchio, uova di pesce, sangue di colomba e lingua di uccello (il matrimonio gli valse un processo per stregoneria, ma fu assolto).

Questa pianta della famiglia dei gigli è decisamente aristocratica. I libri di cucina la elogiano come la migliore delle verdure, lodata in molti modi dai tempi antichi a oggi. Faraoni, imperatori, re, generali e grandi capi spirituali, poeti principeschi come Goethe e buongustai come Brillat-Savarin: tutti loro mangiavano e mangiano asparagi con grande entusiasmo. Ne consegue che gli antichi fitoterapeuti astrologi vedevano nell’asparago la firma del dio Giove, signore e fruitore di tutti i piaceri sensuali. Per gli antichi egizi l’asparago era un alimento sacro; per questo motivo lo includevano nelle offerte agli dèi. Durante gli scavi della Piramide di Saqqara, gli archeologi hanno rinvenuto preziose stoviglie con tracce di cibo identificate come asparagi. Fasci di punte di asparagi – insieme a fichi, meloni e altri cibi sontuosi – sono stati trovati anche nelle tombe di ricchi egizi sepolti circa cinquemila anni fa. All’incirca nello stesso periodo in Cina, gli ospiti onorati venivano trattati con un rilassante pediluvio agli asparagi al loro arrivo. Gli antichi greci erano soliti raccogliere asparagi selvatici, ma gli antichi romani si spinsero oltre, sviluppando i metodi di coltivazione necessari per la domesticazione di questo ortaggio.

Il modo in cui l’asparago è sempre stato consumato – e in alcuni casi lo è ancora – lo rende quello che gli antropologi chiamano cibo “cerimoniale”, ovvero, cibo consumato in un contesto speciale. I delicati germogli primaverili di questo membro della famiglia delle Liliacee si adattano perfettamente all’immagine della natura che finalmente si risveglia in primavera e alla resurrezione pasquale. Per la cena di Pasqua gli asparagi vengono spesso serviti con il prosciutto, e per una buona ragione: in questo abbinamento si annida un elemento simbolico arcaico. Un tempo, infatti, il maiale era considerato un simbolo di vita, gioia e fertilità per i Celti-Germanici-Slavi del Nord Europa. In alcune occasioni speciali, le tribù germaniche sacrificavano un maiale o un cinghiale per Freyt, dio fallico della fertilità e fratello della bellissima dea Freya. Si credeva che in primavera i due gemelli celesti attraversassero la campagna su un carro, mentre Freya spargeva fiori dalla carrozza. In epoca precristiana la gente celebrava una festa orgiastica di maggio durante il periodo della luna piena. Si innalzava il palo fallico del maggio, si ballava in cerchio e ci si abbandonava a un amore sensuale ed estatico. Dopo la cristianizzazione dell’Europa, questa festa fu trasformata in Pentecoste, che celebrava lo Spirito Santo che scendeva sul popolo per esprimersi nella lingua comune. Per questo motivo, in alcune regioni europee, il pasto della Domenica di Pentecoste consiste in lingua cotta di vacca servita con asparagi.

Tornando in epoca romana, si tramanda che Cesare Augusto fosse particolarmente ghiotto di asparagi, forse perché i germogli erano considerati uno dei più grandi afrodisiaci: e si sa, quello che fa l’imperatore, lo fanno tutti. 

Le cronache storiche riportano che l’imperatore Carlo V (1500-1558), sovrano dell’Impero asburgico, fece una visita inaspettata a Roma durante il periodo del digiuno. Poiché non c’erano molte provviste a portata di mano con così poco preavviso, il cardinale incaricato ebbe un’idea che salvò la situazione: fece preparare ai cuochi tre diversi piatti di asparagi, serviti su tre diverse tovaglie profumate e accompagnati da tre diversi vini squisiti. Si dice che l’imperatore sia stato conquistato da queste prelibatezze primaverili, tanto da lodarle per molti anni a venire.

I piatti a base di asparagi erano molto apprezzati anche alla corte del Re Sole (Luigi XIV). Chi voleva conquistare Madame de Maintenon, la seconda moglie del re, doveva solo portarle una nuova ricetta a base di asparagi. Tutte le ricette che ricevette dettero vita a un libro, e la zuppa di asparagi alla Maintenon è ancora oggi nota tra i buongustai. 

C’è inoltre un aneddoto di lungo corso che riguarda gli asparagi e la Roma dei Cesari. Ce lo racconta Plutarco in una delle sue Vite parallele, la De vita Caesaris. Siamo fra il 54 e il 53 a.C. quando Cesare e i suoi generali giungono a Mediolanum, cioé Milano, durante le vittoriose campagne belliche contro le Gallie. Invitati nella domus di Valerio Leonte, vengono festeggiati con un enorme piatto di asparagi al burro, tipico condimento celtico. I generali romani si sentono offesi per quell’ “unguento” – che le matrone dell’Urbe usavano come belletto – sparso sugli asparagi. Ma Cesare, inappuntabile, divora gli asparagi e ringrazia il padrone di casa, poi chiama a raccolta i suoi generali ed esordisce con una delle frasi capitali sull’estetica del gusto: »de gustibus non dispuntandum est», sui gusti non si discute. 

L’asparago godeva fama di afrodisiaco, e al tempo stesso di anticoncezionale: a tali fini erano utilizzati il decotto della pianta, oppure se ne usavano i semi misti a quelli di aneto, ma secondo alcune fonti anche un sacchetto di turioni nascosti tra le vesti poteva fungere allo scopo.

Aveva grande fama di afrodisiaco anche tra gli antichi greci e romani, che però pare ne avessero opinioni contrastanti: tuttavia lo stesso Plinio lo raccomanda come alimento utile ad accrescere l’eros. Viene prescritto e utilizzato come afrodisiaco anche nel periodo medievale e rinascimentale: il medico cinquecentesco Castore Durante scrive nel suo Herbario novo che gli asparagi, »mangiati caldi con un poco di sale e butiro, provocano al coito».

Oltre che come afrodisiaco, Plinio lo consigliava come cibo salutare per lo stomaco; consigliava inoltre la radice, tritata e bevuta in vino bianco, per espellere i calcoli, calmare le lombalgie e i dolori renali. Sempre secondo Plinio, l’asparago funzionava come deterrente per le api: a tal fine, bisognava aspergersi di asparago tritato e imbevuto d’olio perché le api non si avvicinassero a pungere!

A Francavilla Fontana, con i rami si intrecciavano le corone di spine utilizzate dai confratelli nelle processioni della Settimana Santa.

Sebbene questo pregiato ortaggio sia stato posto sotto il dominio di Giove, non vi risiede in modo esclusivo. I medici medievali, non a caso, lo attribuivano anche a Venere, la dea planetaria che governa gli organi urinari e sessuali. Di conseguenza, questi medici prescrivevano di cuocere l’asparago in acqua o vino e di berlo per aumentare la produzione di sperma e stimolare la libido. I medici galenici umorali prescrivevano la pianta anche per le ostruzioni del fegato, della milza e dei reni, nonché per i calcoli renali, poiché era considerata “diluente, diuretica e divisoria”. 

Dapprima pianta selvatica infestante, che cresceva lungo i bordi delle strade e i binari della ferrovia, nel XVII secolo l’asparago iniziò a essere coltivato in Europa centrale come ortaggio e pianta medicinale.

Da quel momento in poi viene citato nei libri di erboristeria. Negli speziali la radice era chiamata “officinale” – da cui deriva il nome botanico officinalis – che significa che si trovava nell’officinarum, il laboratorio degli speziali. Questo significa anche che la radice di asparago era riconosciuta dai medici galenici come una vera e propria medicina, in particolare per la “fluidificazione del sangue”, per i “dolori alle anche” (reumatismi, sciatica), per l’epatite, per i calcoli renali e per i disturbi urinari. Pietro Andrea Mattioli (1501-1577), medico personale dell’imperatore asburgico, scrisse nel suo libro di erbe del 1544: «L’asparago fa venire agli uomini desideri piacevoli», una convinzione condivisa anche dalla gente più semplice, come recita un ironico detto popolare svevo: «Il pastore sa bene perché ha gli asparagi nel suo orto». In Transilvania era noto come “fuso nei pantaloni”. In Stiria, regione dell’Austria che un tempo fu Slovenia, il vino con i semi di asparagi veniva prescritto contro la sterilità. 

Nella medicina rinascimentale lo si prescriveva come afrodisiaco, «mangiati caldi con un poco di sale e di butiro».

Nella fitoterapia moderna, l’asparago è ancora considerato un efficace diuretico. I preparati a base del germoglio prodigioso vengono consigliati per i calcoli renali, gli edemi, l’artrite, i reumatismi, la gotta, l’insufficienza cardiaca e le affezioni del fegato e della milza. Come tale, è efficace per il diabete, i disturbi cardiaci e le affezioni renali minori.

L’asparago è presente anche in alcuni ricettari magici: tra le antiche ricette rinvenute a fini etno-antropologici dal tossicologo Malizia (una selezione da formulari, manoscritti e testi che vanno dal 1400 agli inizi del 1800), si ritrova insieme ad altri ingredienti nella composizione di un impiastro indicato nella forma di un »composto per riparare la verginità perduta» e come »rimedio per recuperare la virilità».

Ritorna qui la singolarissima credenza magico-popolare per cui, se si sotterravano delle corna di montone forate, da lì nasceva un asparago, come vi raccontavo poco fa.

Come spesso nella storia, la forma rievoca il simbolo che si associa a un oggetto e l’asparago era quindi chiaramente associato alla sessualità in virtù della forma dei turioni, che rammentano il pene in erezione: e così, secondo la teoria della segnatura, il consumo dei germogli di questa pianta influisce in modo benefico sull’organo umano a cui i germogli assomigliano.

In effetti la pianta, soprattutto quella selvatica, è ricca di sostanze energetiche: vitamina A, B, B2, amminoacidi e oligoelementi che migliorano le funzioni renali e ne rimuovono i sedimenti. 

L’asparago era considerato un tonico sessuale anche in altre culture. Gli indù lo attribuivano al loro “cupido”, Kamadeva, che poteva aiutare una bella fanciulla, la giovane Parvati, ad abbindolare persino il dio più ascetico, Shiva; ciò avvenne aiutando Parvati a distrarre il dio asceta ricoperto di cenere per il tempo sufficiente a farlo innamorare di lei. Anche se in seguito sposò Parvati, lo yogi estremo Shiva si infuriò per aver interrotto la sua profonda meditazione e ridusse Kamadeva in cenere con il suo terzo occhio infuocato. Scioccate, le dee implorarono Shiva di riportare in vita il dio dell’amore e del desiderio sensuale. Shiva finalmente acconsentì e riportò in vita Kamadeva, ma non avendo più un corpo divenne ancora più insidioso, soprattutto quando invisibile scagliava le sue frecce al miele nei cuori più sfortunati.

Nella tradizione medica indiana dell’Ayurveda, sebbene l’asparago selvatico (satavar o satamuli: sat = cento, muli = radici) sia usato anche come tonico del cuore e del cervello è generalmente considerato una pianta curativa per i disturbi sessuali e l’infertilità, soprattutto perché si ritiene che aumenti l’ojas, l’energia luminosa generale. Il succo delle radici viene cucinato con burro chiarificato (ghee), succo di limone, miele, pepe lungo (Piper longum) e latte per creare un afrodisiaco che aumenta lo sperma, favorisce la produzione di latte materno e tonifica l’utero. 

In una tradizione simile, i musulmani cucinano le radici (safed musli) nel latte come sostituto del salep, il famoso elisir a base di bulbi di orchidea per aumentare la prestanza maschile e per “addensare e aumentare lo sperma” (de Vries 1989, 303). 

In Cina, l’asparago (conosciuto da più di cinquemila anni con il nome di Tien men Tong) è utilizzato come diuretico ed espettorante. Germoglio prediletto dai regnanti, quando scende di classe assume aura di prezioso, proibito, afrodisiaco, un po’ come quasi tutti gli alimenti nobilitati dall’attenzione delle mode dei potenti. Ed è proprio in una delle città austroungariche più aristocratiche che ho potuto consumarli alla maniera austriaca: una volta, da ragazzino, mi sono trovato a Vienna, a mangiare in un ristorante lungo il Danubio, dove dicevano di servire i migliori asparagi fritti della capitale! Erano effettivamente buoni, ma era forse più suggestiva tutta la scenografia attorno, rimane il fatto che per me gli asparagi bianchi si gustano al meglio bolliti e quelli verdi abbrustoliti direttamente in padella, con olio e sale: la semplicità paga sempre quando l’ingrediente è prezioso.

ARTICOLO n. 29 / 2023

CORPI IN ASCOLTO

Conflitto, rivolta, femminismo

Quando parliamo di femminismo, comunicazione, corpi e teorie c’è sempre un momento in cui dobbiamo scegliere se ascoltare anche la nostra voce critica oppure andare avanti senza ascoltare i dubbi, le immobilità, le incoerenze che una pratica come quella femminista inevitabilmente si porta dietro. Djarah Kan è una scrittrice, una femminista e un’attivista. Ha la forza comunicativa di un vulcano in eruzione e non ha paura di infilarsi dentro gli argomenti più complessi e spinosi, per questo andiamo d’accordo. In due ore di conversazione abbiamo toccato tanti punti, spesso difficili e complessi, ma con un ascolto costante e reciproco importante. Vi serve un divano comodo, una birretta e un po’ di tempo a disposizione. Buon viaggio!

Giulia Paganelli

Parole e contesti

Djarah Kan: Quindi stai abbracciando la tua ombra ora.

Giulia Paganelli: In realtà io ho sempre studiato tanto i mostri e le ombre. Perché raccontano l’imperfezione, ma anche perché generalmente vengono affrontati come narrazione superficiale di una struttura sociale vera, e cioè: esistono corpi che sono costantemente presi come modello di negatività – se studiamo Michel Foucault è chiaramente questo ciò che dice sui corpi non conformi, che cioè sono corpi resi oggetto per educare le altre persone a non diventare mai quelle ombre. Quindi in questo momento forse sto guardando tutte le cose – me compresa – da fuori, e penso che ci siano tante cose che posso provare a fare, così come altre che posso fare meglio.  

D.K. Stai attenta però, stai attenta a questo tipo di pensiero, perché è molto insidioso. Sulla base della mia esperienza, che è individuale ma è anche universale perché comunque io sono parte di un tutto, quando mi sono trovata a fare questo tipo di pensiero sono caduta in un imbuto, perché ero convinta che, qualsiasi cosa facessi, potevo sempre farla meglio. Quindi mentre facevo una cosa proiettavo su di me un desiderio di insoddisfazione che in qualche maniera governava in modo nascosto tutto quello che facevo. Come se ci fosse qualcuno di invisibile che io non vedevo, ma percepivo, che muoveva le mie mani, che muoveva anche il modo in cui strutturavo una cosa, il modo in cui la immaginavo. Sono inciampata nei miei piedi e sono dovuta ritornare un po’ indietro e capire che tutto quello che io faccio è abbastanza, l’importante è non fermarsi mai. L’assurdo è la quantità, la qualità è una cosa che dentro di te sai quando c’è. Bisogna stare attente perché il perfezionismo è un suicidio.

G.P. Il perfezionismo è una delle cose che sto razionalizzando, che sto osservando in tutte le sue sfaccettature caotiche, perché non mi sono mai accorta di essere governata da questi fili. 

D.K. Perché abbiamo questa convinzione hollywoodiana del perfezionismo, della pulizia e del controllo totale. Invece il perfezionismo è caotico, per essere perfezionista devi avere un caos dentro infernale. Il perfezionista sta chiuso in una caverna per anni perché deve spostare un frammento da un posto all’altro.

G.P. il perfezionismo è una narrazione coercitiva. Perché se le cose vengono fatte con ordine di facciata, sono più controllabili. Quindi ricade sempre all’interno della struttura di potere. 

D.K. Infatti in questo periodo ho detto “fanculo l’ordine”, io sono per la vendetta e il caos più totale. Non mi interessa più nulla. Mi ha fatto male in questi anni pensare che l’ordine mi avrebbe portato alla gioia. No, ciao e vendetta. 

G.P. Mentre parliamo provo un senso di sollievo molto profondo, perché sento una persona che ascolta – e ascoltare è cosa rara. Perché per quanto facciamo proclami sull’ascolto e sull’intersezionalità della nostra pratica… 

D.K. Ma quando mai. Sono messaggeri di un mondo che non vogliono nemmeno loro. Io non credo che le persone sappiano cosa stanno creando ed è drammatico. Vogliono tutte essere perfette, sai cosa diceva mia madre? Una cosa molto vera: tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuole morire. Crescendo, questo detto è cambiato in ogni fase della mia vita. Oggi tutte le persone vogliono creare questo mondo pacificato, dove non ci sono più conflitti e dove le persone devono imparare solo in un ambiente protetto che sono i libri, le conferenze, le newsletter, i pantheon di persone che ti insegnano cose. Un ambiente medicalizzato, e a me non piace perché, forse, sono cresciuta come un animaletto che ha subito sul suo corpo un controllo poliziesco e non sono, quindi, molto amante del controllo in alcuna sua forma. 

G.P. Diventa un controllo quasi poliziesco della realtà, dei comportamenti. E questo diventa difficile poi da applicare alla formulazione del ragionamento che, per sua natura, ha bisogno di non avere vincoli e confini e di essere conflittuale. Il ragionamento riconosce ciò che non è coerente con i tuoi valori, ma sondare anche quello che non condividiamo è urgente per comprendere le dinamiche generali. 

D.K. L’altro giorno sono andata al bar e il barista, che avevo visto un paio di volte, mi ha tirato i capelli per capire se era una parrucca oppure no. Ti rendi conto? Era il mio quarto Negroni, però ti dico una cosa. Lui è stato molto maleducato, ma il suo gesto non era cattivo. Un ragazzo a cui nessuno ha insegnato l’educazione, che non significa razzista, significa che non sa comportarsi. Io noto che non sappiamo gestirci, mi è successo anche a me di pisciare fuori dal vaso. E tutta questa retorica del controllo poliziesco delle nostre relazioni sociali, tutta la retorica del self-help anche, tutta la narrazione della tossicità sono forme di controllo sociale che mirano ad annullare i conflitti che sono alla base dei processi che servono per imparare a relazionarsi. Ed è dura. Io a volte ho a che fare con persone bianche più progressiste, ragazze della mia età, che parlano con me e dicono “no ma io da persona bianca privilegiata penso che…”, allora io le guardo e dico »ti rendi conto che abbiamo entrambe 20 anni, ci stiamo bevendo un caffè e ci facciamo una chiacchiera e tu mi stai mettendo in una posizione di subordinazione perché ti relazioni con me sapendo che sei superiore, però ti dispiace e allora me lo vuoi dimostrare». 

G.P. Se non c’è conflitto, non c’è storia. Questo per me è uno spunto interessante perché quando parlo di privilegio e dico »guardate che il privilegio non è una proprietà dell’individuo, ma è qualcosa che viene calato dall’alto dai poteri e in cui tu sei avvolto e coccolato perché facendoti venire voglia di mantenerlo, inneschi la competizione sociale. Ma non è mai in tuo potere». 

D.K. Molte persone, infatti, sono convinte di avere la proprietà del privilegio. “Il mio privilegio”. Ma alle persone che iniziano con me una conversazione impostata in questo modo io chiedo ma tu chi cazzo sei. La mia migliore amica è nigeriana, viene da una famiglia benestante e i suoi genitori sono ricchi. L’altro giorno mi dice: «sai stavo riflettendo sulla questione delle quote razziali all’interno delle università che cercano di fare diversity & inclusion, però a me fa ridere perché sinceramente come fai a dire in partenza che io sono svantaggiata? Io sono ricca. E come fai a dire che una persona bianca è più avvantaggiata di me quando, per esempio, ha dovuto lavorare e fare sacrifici per pagarsi l’università restando indietro anche con gli esami. Come fai a dare per scontato che la sola etnia generi una situazione di svantaggio?» Lei è una mia compagna, è intelligente, è progressista e a me fa ridere pensare a tutte le persone progressiste che guardandola affermano che è una povera nera.

G.P. Secondo me dovremmo rivedere anche la hit parade del privilegio, perché se non partiamo dalla ricchezza e dalla povertà sbagliamo la lettura di tutto quanto. 

D.K. Certo, perché tu puoi insultarmi e darmi della ne*ra, ma se le tue offese non fungono da ostacoli per la mia carriera o per la mia realizzazione a me cosa me ne frega? La categoria della classe è la prima forma di discriminazione. E se teniamo a mente questa cosa poi riusciamo anche a capire dove sta il privilegio e, soprattutto, chi agisce il privilegio. Non c’è nulla di più razzista che stare lì a pensare in automatico che tu sei superiore perché sei bianca. Solo che adesso l’arco del razzismo è cambiato, perché è stato attraversato dal discorso liberale e progressista, per cui io riconosco il mio personale privilegio di essere una persona bianca, però mi dispiace perché tu non lo sei. 

G.P. Esiste, indubbiamente, la tendenza a voler eliminare il conflitto, ma se elimini il conflitto annulli le storie personali e la narrazione. E la narrazione è fondamentale per poter evolvere e risolvere le questioni. 

D.K. Ma io come faccio a capire se sono nel giusto o nello sbagliato se con te non mi scontro? Devo stare buona ad ascoltare la lezioncina che mi fai dal tuo essere dispiaciuta non perché sei bianca, ma perché non lo sono io? L’altra sera a Carnevale un ragazzo aveva una maschera di scimmia e mi fa «hai visto che mi sono travestito da te?» Lui era un altro che pensava di essere talmente progressista da poter dire questa cosa. Io non ho detto una parola, l’ho guardato per un quarto d’ora. Io penso di aver fatto di più guardandolo con disprezzo per un quarto d’ora che a fargli un discorsetto perché non aveva gli strumenti per capirlo. 

G.P. Qui ci sono due ragioni che si intrecciano secondo me. La prima è che tutte le persone sono vittime di una carenza sostanziosa di educazione emotiva, quindi se fai riferimento alle sei emozioni di base – tipo Inside Out – le uniche che capiscono, le persone forse ci arrivano. La seconda è che non stiamo mai affrontando il problema dell’accessibilità alla comunicazione. Io mi domando spesso: ma noi, esattamente, a chi stiamo parlando? Perché mi sembra sempre di essere tra quattro persone e che non si riesca mai ad andare fuori. Per parlare fuori con le persone che non ci conoscono, non conoscono le nostre marginalizzazioni, non hanno studiato le cose di cui parliamo, dobbiamo essere noi a tradurci. 

D.K. Noi viviamo nel capitalismo. Le persone sono educate a lavorare, riprodursi e a soffrire il meno possibile. Questo è lo stato delle cose. Noi dobbiamo capire che tipo di umanità ci offre questo sistema economico e sociale. Allora tu, sulla base dello scenario che hai davanti, puoi cominciare a pensare a un linguaggio. Ma non possiamo pensare che il contadino o la tua vicina di casa che lavora dodici ore al giorno voglia sorbirsi il discorso sulla razza che gli vuoi fare. Quel ragazzo faceva il garzone, probabilmente non aveva mai avuto modo di confrontarsi su questi temi in modo complesso. Ma io devo tenerne conto, io devo capire il suo livello di socialità. Allora è meglio guardarlo con disprezzo per un quarto d’ora perché quello lui può comprenderlo a un livello che va oltre i processi cognitivi.

G.P. Capire il contesto in cui ci troviamo e ci muoviamo è fondamentale, perché non con tutte le persone ti puoi mettere a fare i discorsi alti argomentando l’offesa. Dobbiamo capire in che contesto ci troviamo, altrimenti non possiamo farci capire.

D.K. Io dopo gli ho detto «ma secondo te questo che hai detto è una cosa accettabile per una persona nera? non ti sembra datato ormai come concetto?» E lui mi ha risposto che bisogna essere autoironici, «ho un sacco di amici neri». E lui ha continuato a parlare, sempre più a disagio, sempre più a disagio mentre io lo fissavo e basta fumando una sigaretta. Secondo te gli è rimasto più questo o una bella lezioncina sul razzismo?

La scrittura 

G.P. Cosa stai facendo in questo momento? 

D.K. Io scrivo e cerco di scrivere. Per me è molto difficile gestire questa cosa della scrittura soprattutto quando hai una tecnica che deriva dai tuoi stati emotivi e dalla tua capacità di rimanere concentrata. Non è facile. Però sì, ora sto ricominciando a trovare il senso di scrivere di nuovo, perché per un periodo per me non ha avuto molto senso scrivere, non avevo niente, ero troppo concentrata sul mio dolore. Quindi sì, ora sto cercando di finire il mio libro. 

G.P. Parliamo della difficoltà della scrittura. Sentire l’urgenza della storia da raccontare impone un ritmo in cui tu, inevitabilmente, ti perdi. Almeno, io passo tanto tempo rincorrendo parole e mi rendo conto che se dovessi definirmi come scrittrice di certo non userei la parola “veloce”. La pratica della scrittura per me a volte è una gabbia. “Devi scrivere perché hai delle deadline” solo che io sono una persona di fuoco, funziono a sfiammate. Ci sono giorni in cui parto e posso farlo per 14 -16 ore, altri in cui non posso restare davanti al computer oltre i cinque minuti. E mi rendo conto che questa incostanza genera un artefatto: io scrivo secondo le mie regole che non sono quelle degli altri, ma mentre io non voglio imporre le mie regole a nessuno, il mondo fuori vuole impormi le sue. 

D.K. Io ho capito che non posso affidare la scrittura a come mi sento. Quando devo scrivere mi do un metodo: non esco, zero relazioni sociali. Non sempre è una cosa positiva, ma ne ho bisogno, perché per me scrivere è una cosa molto violenta. L’atto di scrivere costantemente e di restare iper-concentrate su una cosa richiede un rapporto di reciproca comprensione con questa violenza. Ed è una scelta, secondo me. A un certo punto devi scegliere se essere una persona che vive normalmente nel mondo oppure essere una che scrive. Perché se scrivi cambia anche il tuo processo cognitivo e la comprensione di tutto.

G.P. Hai detto bene, è un gesto violento. Perché devi guardare attraverso quelle lenti. 

D.K. Io a volte ho paura di guardare perché non è detto che tutto sia trascrivibile per il mondo dei vivi, a volte ci sono cose che non possono essere scritte. Lo scrittore è una sorta di strana bestia che vive a metà tra il mondo degli esseri umani e un mondo davvero molto diverso, fatto di immagini e suggestioni, fatto di cose spesso misteriose. E tu continuamente fai questo passaggio, tra un mondo e l’altro, un viaggio tra dentro e fuori come Caronte. 

G.P. E Caronte, comunque, non era uno risolto.

D.K. Certo, guardare e osservare quelle ombre, fare in modo che quelle ombre abbiano una sostanza attraverso le tue parole e che si traducano in una lingua che è la tua lingua. E deve farla capire alle persone. 

G.P. È il mito della Caverna di Platone. Tanti abituati a guardare le ombre proiettate sul muro convinti che siano reali e poi il folle che distrugge la catena e vuole colmare quel corpo opaco, vuole tradurla ai suoi compagni. Ma i suoi compagni non lo ascoltano. 

D.K. Certo, la scrittura è sempre fraintendimento. Deve generare un momento di conflitto. Per questo io mi infastidisco quando sento «eh ma quella persona ha usato quella parola e non doveva»Le parole non sono situate in un solo luogo. La parola non ha una casa. Come la n* word, per me non ha una sola casa. Ha tante case diverse perché le persone si muovono nel tempo e nello spazio. 

G.P. Quindi parliamo del politicamente corretto. 

D.K. Il principio del Politicamente Corretto è giusto, ma la sua applicazione è problematica. Se le parole non restano in un solo luogo, l’utilizzo di una parola in me cambia significato nel tempo. 

G.P. Io decido di non usare alcune parole come atto politico. La mia scrittura non perde niente, possiamo usare la lingua con più sinonimi al mondo. Allo stesso tempo, però, non posso fare a meno di chiedermi quanto valore abbia oggi, quando si sono polarizzate due parti, da una parte la rivendicazione della libertà di espressione e dall’altra l’ascolto obbediente e pio delle istanze. Mi manca la parte di conversazione in mezzo, lo spazio in cui capiamo che le parole non sono immobili e costruiamo una lingua collettiva. Io oggi non vedo questo terreno comune, neanche dentro al Femminismo Intersezionale. 

D.K. io per molto tempo ho usato la n*word, poi l’ho smessa, poi l’ho ripresa. Ma il modo in cui la uso io è chiaramente diverso dal mondo in cui lo usa una persona in modo dispregiativo. Noi dobbiamo iniziare a valutare questi contesti, dobbiamo iniziare a porci queste domande. 

G.P. Le parole non sono immobili, lo ripeto. Le parole non sono un insieme di lettere, ma un insieme di immagini storiche, comportamenti e queste cose cambiano a seconda del posto del mondo in cui vivi e del tempo in cui respiri. Quando ho iniziato a studiare e decodificare i corpi, per me è stato subito chiaro che le pratiche discorsive sono alla base della conformazione visiva del mondo in cui viviamo. Io mi sono sempre occupata di antropologia applicata al sistema culturale occidentale, mi sono sempre rifiutata di andare in altri luoghi e trattare ambienti e persone come cavie da osservazione, non fa parte di me. Ma, cazzo, il sistema occidentale ha bisogno di essere guardato dall’antropologia per essere visto e smantellato. Così arrivi al punto in cui capisci che le parole, il modo in cui vestono i corpi, la facilità con cui comunicando conformiamo uno sguardo, sono Il Punto. 

Identità e Nazioni 

D.K. Parliamo di corpi e di identity politics, perché noi prendiamo dal contesto americano tante categorie e teorie pari-pari senza che in contesto italiano sia possibile applicarli. Quando io ho letto il Manifesto della Razza del 1938 ho capito che quella era La Lettura, quel libello spiega perché in questo paese le persone non bianche faticano a trovare uno spazio. Noi siamo corpi astorici, tutto quello che facciamo non è previsto e, anche quando accade, inizia e finisce là, perché viene giudicato un caso. Quindi tutto ciò che non è bianco non è considerato qualcosa che ha valore abbastanza da dover essere indagato. In questo paese c’è stata la strage di immigrati più crudele della Repubblica – a Castel Volturno la camorra ha ucciso sette persone non bianche – causata da motivazioni razziali. In quel momento c’erano molti immigrati e la Camorra ha deciso di andare a sparare a quei sacchi di carbone, li chiamavano così. Sette persone uccise, ma tu senti mai di questa strage? 

G.P. Mai. 

D.K. All’inizio i giornali avevano raccontato questa strage come regolamento di conti tra Mafia Nigeriana e camorra. Invece erano innocenti, persone giovani. E ancora ci chiediamo se l’Italia è razzista. Certo che l’Italia è razzista, perché l’Italia è diventata bianca nel tempo. 

G.P. La storia d’Italia è una storia che va in questo senso, le stesse persone meridionali non venivano considerate bianche quando ci sono stati i primi tentativi di unione. Nel manifesto della razza si parla di omogeneità della pelle, quindi è il corpo che ti rende italiana. E questo ritorna sul discorso dei corpi e delle parole, perché tutti i corpi non conformi indossano degli stereotipi e per questo sono astorici. In Italia abbiamo una complessità ulteriore, perché l’Italia mutua dalle altre nazioni il concetto di identità nazionale, senza averlo costruito davvero. La storia d’Italia si racconta di una frammentazione perenne in ducati e signorie, frammentazione che rivomitiamo fuori costantemente. 

D.K. Rivomitiamo costantemente nel razzismo, perché le autonomie regionali sono feudi che si arroccano perché non vogliono condividere nulla con le altre persone. Noi non solo siamo razzisti, vittime di costanti guerre interne tra territori e territori, ma addirittura a un certo punto ci siamo guardati e abbiamo detto “come costruiamo un’identità nazionale? Andando a invadere altri territori”, così possiamo dire di essere un popolo unito perché siamo andate a massacrare persone che per noi sono inferiori. 

G.P. Quello che sottovalutiamo nell’analisi dell’Italia come nazione è il gap che abbiamo con la storia identitaria delle nazioni che hanno avuto Monarchie assolute e che, nel loro avere un potere centralizzato dall’alto, hanno costruito un tessuto sociale su scala macro, con categorie sociali macro che attraversano il territorio. In Francia con la potenza dell’aristocrazia e delle corti, ma anche con l’opposizione delle classi più povere che a un certo punto hanno agito. In Gran Bretagna con una storia fatta anch’essa di territori divisi ma che vanta un’unificazione ben più longeva e politicamente omogenea della nostra. In Prussia, quando con la Casata degli Hohenzollern si fissa il potere e poi si declina unificando i grandi Elettori sotto un unico presidio, ma anche in questo caso parliamo dell’inizio del 1400. L’Italia non è fatta di queste cose. L’Italia è fatta di una storia che parte già da un Impero Romano che per funzionare ha decentralizzato il potere nelle preture e queste preture erano Stati a se stanti. Certo, esisteva la grande narrazione divina dell’Impero, ma in realtà al suo interno deriva la frammentazione che già fu delle poleis greche. 

D.K. Certo, anche la storia tra Impero Romano e popolo ebraico va in questa direzione. L’Impero Romano impone un dominio, ma lascia alle singole parti la gestione. Questa è la storia dell’Italia, la storia di un paese che ha fatto tantissimi sforzi per concepirsi come unico, ma ha sempre fallito. Solo col sangue dell’unificazione si è arrivati ad avere un solo paese. 

G.P. Un solo paese geograficamente parlando, ma resta totalmente intatta la divisione fino alla storia dell’autonomia recente. Perché noi, nella divisione in piccole province, stiamo comodi. Tanto che la stessa lingua dell’Impero, il latino, muore per lasciare lo spazio alle lingue volgari. Certo, si somigliano tra loro per una questione fisiologica, ma la chiave per interpretare questa cosa è la particolarità territoriale della lingua, data dalla sopravvivenza dei dialetti e dalla loro trasformazione in modi di dire che valgono spesso per un paese e non per quello accanto. Per questo, per questo motivo, quando avere un’identità è stato necessario, abbiamo deciso di essere bianchi e di essere contro tutte le persone non bianche. Il Fascismo ha risposto con slogan e pratiche criminali a questa necessità di aggregazione identitaria. Lo fa anche oggi, è il motivo per cui Meloni vince. 

D.K. Noi siamo italiani perché siamo bianchi, perchè siamo cristiani, perché non vogliamo far abortire le donne, perché non vogliamo immigrati e vogliamo proteggerci. 

I Corpi 

D.K. Teorizzare e parlare di corpi significa rendere consapevoli le persone che ci sono cose che senza esperienza non possono leggere e vedere. Il razzismo non è un problema solo per le persone nere, è un problema anche per le persone bianche, perché non hai la possibilità di vedere quello che ti capita intorno con una consapevolezza trasversale e condivisa. Io non ti parlo di razzismo perché voglio essere riconosciuta, te ne parlo perché la tua è un’identità fasulla e, anche se non riconosci quella violenza perché dici di non essere violenta, io voglio dimostrarti che non è così. Io voglio strappare il velo di Maya che hai davanti agli occhi. 

G.P. Quando vivi in un sistema artificiale e non ti rendi conto di come sia la realtà, è un problema. Questa cosa è molto simile anche al rapporto che abbiamo con i corpi grassi. Quando parlo con persone che subiscono altri tipi di marginalizzazione mi rendo conto che ci sono delle continuità cognitive. Parlare di stigma del peso e di grassofobia a persone con corpi magri o corpi – diciamo – normali è un gran lavoro. È mettermi nella condizione di poter assorbire molta parte della violenza che hanno dentro. Le persone non si rendono conto di essere vittime di un sistema che le porta a performare continuamente col loro corpo e nel loro corpo. Questa cosa di cui non si rendono conto è violentissima, perché li porta a infliggersi pratiche non perché siano giuste, ma perché sono persone terrorizzate di cadere dentro il gruppo di persone ai margini. 

D.K. Ma certo, chi ti ama quando sei grassa? Chi ti ascolta, chi ti vuole, chi ti considera? Nessuno. E te lo dico io, non ho nessun problema a dire che io sono grassofobica con me stessa. Ho avuto per tanti anni disturbi alimentari. Sai che di quel periodo non mi ricordo nulla di me? Ricordo solo che ero grassa, anche se non lo ero per niente. Io ho vissuto il passaggio dall’infanzia all’adolescenza in modo violentissimo. Da piccola bambina magrissima mi sono trasformata in una donna col seno e sessualizzata. Non mi dimenticherò mai tutte le persone che mi hanno costantemente fatto notare quanto seno o sedere avessi. 

G.P. Ma certo, perché fin da quando sei piccola ti insegnano che non puoi meritare nulla se non hai un corpo magro. E questo significa che le persone che hanno a che fare con te sono giudicate come perverse e tu, che non hai ricevuto educazione emotiva neanche per sbaglio, accetti molte cose che mai dovrebbero essere fatte a una persona. Nel DMS c’è ancora l’adipofilia nell’elenco delle parafilie. Significa che in un processo per violenza sessuale se il mio abuser ha un avvocato furbo, nessuno verrà incriminato. 

D.K. Perché è considerata una malattia. Questa è una cosa terribile. Terribile. 

ARTICOLO n. 28 / 2023

IL GIOCO DEL SILENZIO

Esistono cose che non si raccontano. E questo lo sappiamo un po’ da sempre: di certi argomenti è meglio non parlare.

Un vecchio detto italiano recita “alla donna nessun vestito sta meglio del silenzio” e direi che non è stato poi così difficile, viste le nostre premesse culturali, aderirvi in modo pressoché letterale.

I modelli femminili per antonomasia sono infatti incredibilmente silenziosi.

Mi vengono in mente le muse dei grandi stilnovisti: erano donne miti, angeliche, meravigliose, giovanissime, sempre zitte e preferibilmente morte.

Ma anche le educande, allenate al silenzio; le donne della nobiltà di ogni secolo, anche il più moderno, che rimanevano quel famoso passo indietro per permettere agli uomini di mostrare la loro ruota di pavoni; le madri devote; le grandi attrici del passato come Marilyn Monroe, la cui duplice esistenza – sempre in bilico tra una gioia fotogenica di facciata e una pura, solitaria disperazione privata – è quasi emblematica di quel silenzio femminile di cui sto scrivendo.

La dimensione privata femminile è difatti sempre stata sotterranea, impercettibile, inenarrabile: di maternità, violenza, odio, lutto, desiderio, corpo era per le donne indecoroso parlarne; come se questi fossero argomenti tabù, permeati di un malsano orrore e capaci di rendere mostruose le donne che volessero esprimerne pareri – o legittime emozioni – a riguardo.

Le poche voci che riuscivano a levarsi e affrontare certi discorsi venivano prontamente silenziate o brutalmente esposte, come monito per le generazioni a venire: Artemisia Gentileschi è in questo senso un perfetto esempio di emarginazione indotta dalla sua ricerca di giustizia. Ma, senza andare troppo indietro nei secoli, possiamo pensare ad Amber Heard e al processo contro Johnny Depp. 

Le donne che parlano – parlavano? a volte mi piacerebbe poter usare solo il tempo passato – di argomenti intimi e potenzialmente disturbanti vengono da sempre allontanate dal dibattito o rese mostruose.

O meglio, citando Jude Ellison Sady Doyle, il loro femminile viene reso mostruoso.

Si pensa infatti che queste donne non siano adatte a essere mogli, madri, muse, femmine. Ma siano nate sbagliate, corrotte.

Questo perché “i panni sporchi si lavano in casa”, per usare un altro Leitmotiv nostrano, e la casa è ovviamente femmina.

Quello che succede dentro alle mura domestiche non deve uscire, deve rimanere privato e lì deve morire.

Il sistema di isolamento femminile – e isolamento delle voci femminili – è figlio utilissimo di un paese per uomini: se le donne non parlano allora non potranno comunicare tra di loro e, al contempo, il loro dolore e la loro rabbia non verranno accolti, lasciando gli equilibri di potere intatti.

Nei secoli – specialmente nel Novecento – questo atteggiamento si è andato a smorzare, facilitato anche dall’ingresso di sempre più donne nel mondo dell’arte che, per antonomasia, si fa portatrice di significati e messaggi nuovi, rivoluzionari, immediati – nel senso di privi di mediazione tra l’artista e il suo pubblico.

Specialmente dagli Anni Venti del secolo scorso le donne hanno preso sempre più spazio nell’industria dell’arte e della cultura. 

Questo ha portato a un rinnovamento dei temi e delle rappresentazioni stesse dei generi.

Pensiamo al surrealismo, corrente artistica del ventennio passato, profondamente maschile e spesso piuttosto acerba nella rappresentazione del femminile – nel senso che gli artisti usavano i corpi femminili come oggetti per veicolare la soavità, il desiderio, l’eleganza e la passione senza mai far vedere i volti delle modelle che vi erano ritratte, sessualizzandole ogniqualvolta fosse stato possibile – che si vide travolta dalla produzione di opere di artiste come Leonor Fini e Leonora Carrington. Le donne di questa corrente portarono per la prima volta una nuova immagine del corpo della donna, rendendolo feroce, brutale, pericoloso, respingente, dolente, egoista; e, in un panorama culturale ancora così maschiocentrico, questa era una vera e propria rivoluzione.

La possibilità di autorappresentarsi dava modo alle artiste di riprendere temi classici e finalmente caricarli di voci del tutto nuove, interpretazioni carnali, rumorose, terrene, reali, soggettive, prive di romanticizzazione.

La performance art degli Anni Settanta riprese in pieno questo desiderio di stravolgimento del silenzio – anche e soprattutto grazie alla spinta del movimento femminista – e diede voce ai sentimenti da sempre taciuti fino ad allora. 

Marina Abramović, con la sua performance Rythm 0 del 1974 a Napoli, in cui invitava gli spettatori a prendere in mano degli oggetti situati su un tavolo posto vicino al suo corpo immobile e a usarli su di lei, è stata in grado di dimostrare quanto il gioco del silenzio sia stato emblematico nell’isolamento del genere femminile: gli spettatori all’inizio della performance si limitavano a scriverle qualcosa addosso, spostarle capelli, attaccarle dei cartoncini. Ma con il passare delle ore il corpo muto di Abramović andava incontro a vere e proprie violenze: l’artista fu ferita, denudata, brutalizzata; venne perfino impugnata una pistola – carica – contro di lei.

Lo scopo di Abramović non era rendere il suo corpo il centro dell’opera, anzi: lo scopo di Abramović era rendere lo spettatore carnefice davanti al corpo immobile di una donna: dove può portarci il silenzio? La risposta che hanno dato gli spettatori in quelle sei ore di performance è piuttosto significativa.

Dagli Anni Settanta in avanti la voce delle donne dell’arte – in ogni sua declinazione – si è sempre più fatta sentire. Da Vanessa Beecroft – le cui performance costringono chi guarda a passare tra corpi femminili assolutamente erotici ma al contempo respingenti e spaventosi – ad Alda Merini, il silenzio intorno al tema del femminile si è man mano squarciato.

Ci siamo riappropriate della narrazione su argomenti come la perdita – L’anno del pensiero magico di Joan Didion è in questo emblematico – la maternità, la malattia mentale, l’aborto, il sesso, la violenza – dove Lidia Yuknavitch è stata maestra indiscussa con La cronologia dell’acqua –  e perfino l’amore, ripulendolo da quella patina melensa che era da sempre stata abbinata al sentimento di devozione, ritenuto femmineo – e qui mi torna alla mente la mia amata Sheena Patel – dando loro nuovi significati (e se non nuovi, almeno completandoli), aggiungendo voci laddove mancavano e riempiendo i silenzi intorno a sentimenti ritenuti ancora inenarrabili. 

Le scrittrici contemporanee sanno bene quanto sia prezioso questo momento storico e culturale per poter finalmente togliere un po’ di magia all’idea statica di femminile che ci portiamo dietro da secoli e che ci vuole martiri perfette o vittime inattaccabili.

Ecco, è in questa mia lunga, spicciola premessa che si inserisce Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, edito da Einaudi e uscito lo scorso 14 marzo.

Nella sua ultima opera, Lattanzi abbatte il silenzio sulla genitorialità e racconta di due anni della sua vita – e di quella del suo compagno – passati a cercare una gravidanza, a trovarla e poi perderla.

Nel racconto – velocissimo: il ritmo è travolgente, l’impaginazione non lascia fiato anche quando sembra volertelo concedere, il tempo presente ti incalza frase dopo frase – della sua corsa verso il desiderio, poi la paura e poi il dolore, il silenzio non esiste.

Non ci sono assolutamente tabù, non si lascia niente di non-narrato, e al lettore non viene dato spazio per altre interpretazioni se non quella dell’autrice, che ricostruisce due anni della sua vita in modo precisissimo.

In duecento pagine Lattanzi sa prendere il dolore e renderlo tridimensionale, affrontandolo da ogni sfaccettatura: dalla bolla familiare alla paura per il suo lavoro, l’autrice analizza ogni dettaglio su cui si è posata la disperazione, quasi fosse materiale vischioso che non vuole staccarsi da ogni cosa che tocchi.

Un viaggio intimo, profondamente personale, che tocca nodi delicati che si ha poca voglia di vedere da vicino – l’odio verso chi riesce a portare a termine una gravidanza, la determinazione di chi vuole un figlio, la solitudine di chi affronta certi percorsi che ancora non sono annoverati tra le cose che si raccontano – e che conferisce una voce nuova a un altro pezzetto di femminile rimasto per secoli silenzioso.

Lattanzi fa questo con la consapevolezza che il contrario di silenzio sia rumore, eppure non lo fa mai alzando la voce, guidandoci  bensì verso il centro di questo dolore, Caronte consapevole del ruolo della sua letteratura, così intima ma, al tempo stesso, di valore collettivo.

Da quando ho letto Cose che non si raccontano non posso fare a meno di pensare che questo libro si possa inserire tra quelle opere che ti aiutano ad avere un quadro più completo sul complessissimo mondo dell’emotività e della vita femminile, che per secoli ha subito una  costante e micidiale punizione del silenzio.

E questo silenzio ha avuto come conseguenza un isolamento di un intero genere, che è stato incapace di poter esprimere un complesso mondo emozionale legato al proprio corpo e ai desideri e alle paure più ancestrali che ci siano.

Negli ultimi anni si parla di maternità in modo differente, privandola di romanticizzazione, stigma, beatificazione. E non posso fare altro che pensare a come sarebbe stato meno solo il mondo per migliaia e migliaia di donne se voci come quella delle artiste fossero state accolte ben prima, e con diversa attenzione e sensibilità.

Realizzo dunque quanto sarà utile a tantissime persone questo romanzo di Lattanzi, in grado di abbattere il silenzio e spostare l’asticella del taciuto ancora un po’ più un là.

Rendendo le cose che non si raccontano cose che finalmente si possono dire senza paura.

ARTICOLO n. 27 / 2023

SAFFO, LA RAGAZZA DI LESBO

Tasmania, Australia, 9 marzo 1825. Sul “Tasmanian and Port Dalrymple Advertiser” di quel giorno compare un lotto di beni venduti all’asta, tra cui alcuni quadri, e tra questi un ritratto immaginario di Saffo, la poeta vissuta sull’isola greca di Lesbo alla fine del VII secolo Avanti Cristo, la cui ombra dorata si allunga sulle migliaia di anni a venire, fino al giorno in cui si svolge questa scena dall’altro capo del mondo, fino a noi.

Come un’archeologa che dolcemente e tenacemente riassembli una statua ellenica in frantumi, sapendo che dovrà fare i conti con mancanze e vuoti, Silvia Romani, docente di Mitologia, Religioni e Antropologia del mondo classico all’Università Statale di Milano, già autrice di studi dedicati al mito di Arianna e ora di Saffo, la ragazza di Lesbo (Frontiere Einaudi), ne ricostruisce per frammenti la figura e il lascito: dall’Antichità ai giorni d’oggi passando per l’Ottocento, in cui il nome di Saffo diventerà emblema dell’amore delle donne per le donne e, più ampiamente, della libertà di amare senza tabù chi e ciò che si vuole. 

La Saffo di Silvia Romani può essere quindi paragonata a una statua di cui ricostruiamo tra ipotesi e lacune la bella figura, o a un ritratto impressionista sempre in fieri, in cui il tratteggio avviene per intense pennellate: dato che dell’autrice, che Odisseas Elitis descriverà come una creatura minuta e bruna «che tuttavia ha mostrato di essere in grado di sottomettere una rosa», e a cui Lawrence Durrell ha dedicato nel 1950 Sappho. A Play in Verse, non ci restano che esigue e spesso incerte notizie di vita. In più, dei molti volumi che un tempo componevano la raccolta della sua produzione poetica nella Biblioteca di Alessandria, non è arrivato fino a noi che un Inno ad Afrodite, più qualche brandello di componimenti in versi, sufficienti però a tramandarne la grandezza. 

Infinite riscritture e interpretazioni, tra cui, naturalmente, l’Ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi, e uno dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese – in cui a discorrere con la dea cacciatrice Britomarti è proprio l’autrice nata a Ereso e vissuta a Mitilene, sull’isola che si diceva fosse stata razziata dagli Achei diretti con le loro navi nere alla non lontana Troia, l’isola dove poi, dopo dieci anni di guerra, avrebbero fatto di nuovo sosta prima di intraprendere la lunga e spesso mortale via del ritorno – ci consentono di pensare a Saffo, scrive Romani, «anche come a una persona che ci è familiare. Il suo mondo è a un tocco di mano, sbattono le vele delle navi, si gonfiano i tessuti leggeri che indossano le compagne, si svelano i giardini dietro siepi di rose che paiono alberi. E Saffo è lì». 

La ragazza di Lesbo balza così fuori dalle pagine di questo libro come la prima poetessa «ad aver avuto il coraggio di dire “io” con tanta risoluta determinazione. E se pure ora sappiamo che quel pronome di prima persona vuol intendere talvolta un io più grande, un mondo intero, ugualmente raccontare di lei significa anche parlare di ciascuno di noi». Le sue parole sono le nostre parole, scrive Romani, cielo e mare, luna e stelle, rose e viole, e i suoi fantasmi quelli che abitano gli scenari diurni e notturni di tutti: «l’abbandono, la solitudine, la fine di un amore, la vecchiaia, la morte», e anche gli infiniti mondi del perturbante, se a un certo punto la studiosa ricostruisce il tiaso dove Saffo fu forse educatrice, e amante, di ragazze giovanissime nelle forme di un Picnic a Hanging Rock molto ante litteram, sulle tracce del romanzo del 1967 di Joan Lindsay ancora più che del notissimo film, di quasi un decennio successivo, di Peter Weir. 

Nell’era della letteratura in prima persona, e della vita più che mai in prima persona, la stella Saffo – e vogliamo immaginarla non lontana dall’asteroide Saffo 80 che nel 1864 le è stato dedicato – splende più intensa. Accanto al saggio di Romani varrà citare titoli recenti, e in primo luogo la Saffo per bambine e bambini di Io sono la mela, di Beatrice Masini, affermata autrice per adulti e ragazzi e direttrice editoriale di Bompiani. Nel volume, uscito per l’editrice palermitana rueBallu, collana Jeunesse ottopiù e illustrato da Pia Valentinis, figura un sottotitolo: Una storia di Saffo. “Una” e non “la” storia, perché, racconta Masini ai suoi (piccoli) lettori e lettrici, «tutto ciò che è stato raccontato in queste pagine non è successo. Sappiamo così poco di Saffo che qualunque cosa ci azzardiamo a scriverne è una fantasia». I papiri su cui erano state riportate le sue poesie, per esempio, «sono stati gettati via e sono finiti in una discarica, alla periferia della città egizia di Ossirinco, e sono rimasti sotto la sabbia per secoli», fino al loro ritrovamento nell’Ottocento. «Certe volte poemi, tragedie, poesie sono stati usati per imbottire delle mummie (il mondo antico era un posto dove non si buttava via niente. Pezzetti di papiro, tagliati, bucati, macchiati. E sopra le parole. Alcuni erano finiti a foderare la pancia della mummia di un coccodrillo», che possiamo ben dire essere un posto ben strano, conclude Beatrice Masini, per una poesia o un canto. 

Dall’Antichità nuda di oggetti, viva di passioni, in cui Saffo ha vissuto; al racconto di Beatrice Masini, non «basato sulla realtà, ma nemmeno del tutto inventato», attraversando un impossibile buco nero che immaginiamo collocato a sufficiente distanza dall’asteroide Saffo 80 perché non lo risucchi, ci catapultiamo da vicinanza estrema a distanza abissale. Dalla Saffo materica di Silvia Romani – la cui migliore resa in immagini è forse la vulnerabile, lattea statuetta che il Metropolitan Museum di Boston commissionò e poi rifiutò a Auguste Rodin, e di cui oggi, dopo i saccheggi di opere d’arte perpetrati dai nazisti, ci resta solo una fotografia – alla Saffo mediatrice cognitiva tra mondo interiore amoroso prima e mondo dopo l’invenzione della scrittura che la poeta canadese Anne Carson tratteggia in Eros il dolceamaro (Utopia, traduzione dall’inglese di Patrizio Ceccagnoli, con uno scritto di Emanuela Tandello). In questo primo saggio del 1986, rielaborazione della sua tesi di dottorato, Carson, da poeta a poeta, a partire dal Frammento 31 – meglio noto come Ode alla gelosia – fa di Saffo la prima detentrice di quello sguardo lirico che triangola il soggetto amato e l’Altro, simile agli dèi, che l’osserva nella distanza della composizione nero su bianco, nel nuovo spazio dentro la mente e dietro il cuore che la pratica solitaria della grande novità dell’epoca, la scrittura alfabetica, rende possibile. È lì che nasce l’ossimoro, esemplarmente incarnato nell’aggettivo dolcemaro attribuito a Eros. È lì che si afferma la compresenza degli opposti, che la scrittura diventa la dimora privilegiata del senso inteso come ambiguità, come irriducibile complessità. «Il sé prende forma al confine del desiderio, e una scienza del sé nasce dallo sforzo di lasciarsi quel sé alle spalle». È davvero una coincidenza, scrive Carson, «che i poeti che inventarono Eros, facendone una divinità e un’ossessione letteraria, furono anche i primi autori della nostra tradizione a lasciarci le loro poesie in forma scritta?» O, per porre la domanda in modo più diretto, che cosa c’è di erotico nella nascita dell’alfabeto? Una domanda a cui, sembra sorridere maliziosamente Carson, è impossibile rispondere. O forse una domanda di cui solo la poesia, sorride ancora più maliziosamente Saffo nella nostra mente, detiene la risposta. 

ARTICOLO n. 26 / 2023

ANTONIONI IN MANICOMIO

Il documentario: sublime e rovesciamento

Pubblichiamo in anteprima un estratto da Decreazione di Anne Carson in libreria dal 31 marzo (traduzione dall’inglese di Patrizio Ceccagnoli). Ringraziamo l’editore Utopia per la disponibilità.

Il Sublime è una tecnica documentaria. Documentario: «relativo a, basato su documentazione; oggettivo, fattuale» (dal Dizionario della lingua inglese di Oxford). Si prenda il trattato di Longino Sul Sublime. Quest’opera è un cumulo di citazioni. Presenta argomentazioni confuse, poca organizzazione, nessuna conclusione parafrasabile. I suoi tentativi di definizione sono incoerenti o tautologici. Il tema chiave (la passione) rimanda a un altro trattato (che non esiste). Si riemerge dalla lettura dei suoi quaranta capitoli (incompiuti) senza avere un’idea chiara di cosa effettivamente sia il Sublime. Ma la sua documentazione è, a dir poco, elettrizzante. Come un pattinatore, Longino volteggia tra Omero e Demostene, Mosè e Saffo, su lame di pura spavalderia. 

Cos’è una citazione (quote, in inglese)? Una citazione (il termine inglese deriva dal latino quot ed è affine alla parola quota) è un taglio, una sezione, uno spicchio dell’arancia di qualcun altro. Si succhia lo spicchio, si getta la scorza e via, sui pattini. Parte di ciò che ci piace di una simile tecnica documentaria è proprio l’idea di banditismo. Saccheggiare la vita o le affermazioni di qualcun altro e scappare con un punto di vista, che viene definito oggettivo, perché, trattandola in questo modo, si può trasformare qualsiasi cosa in un oggetto; è eccitante e pericoloso. Vediamo chi controlla questo pericolo.

Nel capitolo venti del trattato Sul Sublime, Longino si congratula con l’oratore greco Demostene perché, quando racconta una scena violenta, sa far piovere le sue parole come colpi: 

«Con l’atteggiamento! Lo sguardo! La voce! L’uomo che colpisce può fare all’altro cose che questi non può nemmeno descrivere». 

«Con parole come queste», sorride Longino, «l’oratore produce lo stesso effetto di chi sferra un destro, percuotendo le menti dei giudici colpo dopo colpo», e cita ancora: 

«Con l’atteggiamento! Lo sguardo! La voce! Quando sembra agire con insolenza, quando si comporta come un nemico, quando si serve dei nudi pugni, quando colpisce alle tempie». 

Il punto di Longino è che, mediante la brutale giustapposizione di nomi coordinati o frasi nominali, Demostene traspone la violenza dei pugni nella violenza della sintassi. I suoi fatti traboccano dalla cornice del loro contesto originale e prendono a pugni le menti dei giudici. Pensate a questo rovesciamento. Dall’«uomo che colpisce», alle parole di Demostene che lo descrivono, ai giudici che ascoltano queste parole, a Longino che analizza l’intero processo, a me che ricordo la discussione di Longino e, infine, a voi che leggete il mio resoconto. Questo momento appassionante riecheggia da anima ad anima. 

Ciascuno lo controlla temporaneamente. Ciascuno ne gode citazione dopo citazione. 

Perché un’anima dovrebbe goderne? Longino risponde a questa domanda affrontando la psicologia del guardare, dell’ascoltare, del leggere, dell’essere spettatori. Questa psicologia comporta uno spostamento e un dispiegamento di potere: 

«Toccata dal vero Sublime la vostra anima viene naturalmente elevata, si innalza a un’altezza superba, si riempie di gioia e di vanto, come se avesse creato lei stessa ciò che ha udito». 

Provare la gioia del Sublime significa essere, per un momento, dentro il potere creativo, condividere un po’ di quella vita elettrica che si aggiunge mediante l’invenzione dell’artista, per traboccare insieme a lui. Consideriamo un altro esempio. Quando Michelangelo Antonioni stava girando Cronaca di un amore con l’attrice Lucia Bosè nel 1950, capì che doveva lasciarsi alle spalle la macchina da presa per attraversare il set e plasmare lui stesso la psicologia dell’attrice: 

«Quanti sganassoni prese, povera Lucia, per l’ultima scena. Il film si chiudeva con l’immagine di lei pesta e singhiozzante addossata a un portone. Ma lei era sempre contenta, e non aveva abbastanza mestiere per fingersi disperata: non era un’attrice. Per ottenere il risultato che volevo dovetti usare la violenza, psicologica e fisica. Insulti, frasi mortificanti, umiliazioni, e schiaffi cattivi. Alla fine le saltarono i nervi, piangeva come una bambina piccola: fece benissimo la sua parte».

Tra Antonioni e Lucia la soglia di un portone è una zona di pericolo. È un pericolo documentario. In un duplice senso. «Documentario» implica, da un punto di vista cinematografico, la preferenza per ciò che è reale, nella preparazione di un film, rispetto al ricorso all’immaginazione. Quando emerge da dietro la macchina da presa e si cala nella Cronaca di un amore per migliorare le prestazioni di Lucia Bosè con i suoi meravigliosi sganassoni, Antonioni fa razzia del confine tra l’attrice e la sua parte. «Documentario» si riferisce anche a qualcosa che dipende dai documenti. Chi avrebbe saputo di questo incidente se Antonioni non l’avesse raccontato a un giornalista del Corriere della Sera nel 1978 e non l’avesse incluso nel suo libro Architetture della visione, agendo come il Demostene di se stesso e poi come il suo Longino? Allo stesso modo, forse non avremmo mai saputo dell’effetto di Demostene sui giudici, se Longino non l’avesse elogiato nel trattato Sul Sublime. Forse non avremmo mai saputo della violenza dell’«uomo che colpisce», se Demostene non l’avesse denunciata nel suo discorso Contro Midia. In ogni caso, viene creato, citato e poi spifferato un momento appassionante. Potremmo sentirci le mani che formicolano, l’anima che si invola. 

Il primo maestro nell’arte di far traboccare la forza, ci dice Longino, fu Omero. Ecco Longino che descrive come Omero si trasformi nel suo stesso poema per diventare sublime quanto il suo soggetto: 

«Guardate, questo è il vero Omero che spira come vento accanto ai combattenti, nientemeno di quell’Omero che “infuria come Ares sferzante con la lancia, o come un rovinoso fuoco che divampa sui monti, nelle pieghe della profonda foresta, e la schiuma affiora intorno alla bocca”». 

La schiuma è il segno di un artista che ha immerso le mani nella propria storia, ma anche di un critico che si accanisce e si infuria nelle pieghe della propria, profonda teoria. È evidente alla maggior parte dei suoi lettori che Longino si muove attraverso il trattato Sul Sublime lui stesso coperto di schiuma. «Longino è lui stesso il grande Sublime che dipinge», dice Boileau. «Che cos’è più sublime: la battaglia degli dèi in Omero o l’apostrofe che ne fa Longino?», chiede Gibbon. «Le nature sublimi sono raramente pure!». Lo stesso Longino si esprime così. Uno schiaffo: paf! 

STOP

Il Sublime è grande. «Grandezza» (o «magnitudine») è uno dei sinonimi di sublime adoperati da Longino nel suo trattato. La sua grandezza minaccia di finire sempre fuori controllo, di sommergere e sopraffare l’anima che cerca di goderne. Questa minaccia fornisce al Sublime la sua struttura essenziale, un’alternanza di pericolo e salvezza, che altre esperienze estetiche (la bellezza, per esempio) non sembrano condividere. La minaccia fornisce al Sublime anche il suo contenuto necessario: cose terribili (vulcani, oceani, estasi) e terribili reazioni (morte, terrore, trasporto) all’interno delle quali l’anima sublime è tutto fuorché persa

La schiuma è un segno di quanto sia vicina questa minaccia. Infatti, un’anima sublime è minacciata non solo dall’esterno ma anche dall’interno, perché la sua natura è troppo grande per l’anima stessa. L’oratore sublime, il sublime poeta, il critico sublime, non sono che persone selvaggiamente smarrite nella propria arte, sospinte fuori di sé, incuranti, temerarie, in errore. «Bruciano tutto ciò che trovano dinanzi mentre vengono trascinati!». Longino insiste sull’estasi, sul genio che turbina fuori controllo, come il Reno o il Danubio o anche l’Etna, «le cui eruzioni scagliano dal basso rocce e rupi intere e versano fiumi di quel fuoco strano, spontaneo, nato dalla terra». Allo stesso tempo gli piace soffermarsi sull’orlo dell’Etna, osservarne la mostruosa emorragia, giocare con il controllo concettuale:

«Non si potrebbe forse dire di tutti questi esempi che… Il mostruoso suscita sempre meraviglia!». 

I film di Antonioni presuppongono molte forme di gioco con momenti di passione, diversi modi di diffonderne i contenuti. Al regista piace, per esempio, attirare l’attenzione sullo spazio fuori campo ponendo uno specchio al centro della scena, in modo da lasciarci intravedere un frammento decontestualizzato di mondo. Oppure gli piace regalarci due inquadrature in successione della stessa porzione di realtà, dapprima in primo piano, poi un po’ più in lontananza, non troppo diverse eppure sensibilmente disuguali. Usa anche una procedura, chiamata dai critici francesi temps mort, in base alla quale la telecamera viene lasciata girare su una scena dopo che gli attori pensano di aver finito di recitarla: 

«Quando tutto è stato detto, quando la scena sembra finita, c’è il dopo… Gli attori continuano per inerzia, per alcuni momenti che sembrano “morti”. L’attore commette “errori”».

Ad Antonioni piace documentare questi momenti dell’errore, quando gli attori fanno cose fuori copione, recitano «al contrario» come dice lui. Lì si può manifestare la schiuma. Ha iniziato ad allargare l’inquadratura in questo modo mentre lavorava a Cronaca di un amore. Ha poi lasciato che le riprese proseguissero anche dopo che gli attori erano usciti di scena. Come se qualcosa potesse continuare a frusciare, ancora per un po’, intorno a un portone vuoto.

Che i film di Antonioni siano o non siano sublimi, l’impiego che Antonioni fa di Antonioni lo è certamente. Così come lo è l’impiego che Longino fa di Longino. «Il Sublime è l’eco di una grande mente, come credo di aver detto altrove», dice Longino, facendo eco a se stesso con dolcezza. Si può ritrovare un simile effetto eco anche in Antonioni, soprattutto quando ci racconta la storia del giorno in cui è andato al manicomio, che si ripete in ogni intervista, in ogni conversazione o studio della sua opera. Racconta che la prima volta che ha puntato gli occhi in una telecamera è stato proprio in un manicomio. Aveva deciso di girare un film sui pazzi. Anche il direttore del manicomio sembrava pazzo, o almeno così parve ad Antonioni quando lo incontrò il giorno delle riprese. Eppure i pazienti si sono mostrati efficienti e disponibili nel fornire gli oggetti di scena e le attrezzature, oltre che nel preparare la stanza. «Devo dire che sono rimasto sorpreso dal loro buon umore», confessa Antonioni, prima di accendere i suoi grandi riflettori. 

La stanza «divenne un inferno». I pazienti urlavano. Si accartocciavano, si contorcevano e si rotolavano sul pavimento, cercando di scappare. Antonioni rimase impassibile, e così il suo cineoperatore. Alla fine, il direttore del manicomio gridò «via quella luce!». La stanza si fece silenziosa, con un lento e debole movimento di corpi che si lasciavano alle spalle l’agonia. Antonioni racconta di non aver mai dimenticato questa scena. Se quel giorno avesse girato un film, sarebbe stato un documentario fatto di schiuma. Ma i matti, che sapevano bene cosa fosse un rovesciamento, non volevano essere citati. Bisogna ammirare i pazzi. Sanno come valorizzare un momento di passione. Anche Longino lo sa fare bene. Il suo trattato termina così: 

«Meglio lasciare queste cose e passare a ciò che viene dopo: le passioni, riguardo alle quali mi sono impegnato a scrivere in un altro…». 

Qui il manoscritto Sul Sublime si interrompe. La pagina successiva è troppo danneggiata per essere letta e non si può dire quanto davvero manchi alla conclusione. Longino pattina via. 

IL GIORNO IN CUI ANTONIONI ARRIVÒ IN MANICOMIO
(Rapsodia) 

«Fu un momento inquietante. Si avvicinò». 

Lucia Bosè 

È stato il suono della sua scrittura a svegliarmi. Visto che me lo chiedete, questo è quello che ricordo. La sua scrivania è appena fuori dalla mia stanza. Certi giorni sento suoni troppo forti. Altri, sento una folla e la folla non c’è.

Sulla sua scrivania tiene appunti. Compila liste dei nostri medicinali. Fa le parole crociate o mette un segno di spunta ai margini degli annunci economici. Un suono lieve, secco e stridente. Gli altri ne sono inconsapevoli. Queste differenze sono difficili da sopportare. 

Poi c’è stato l’ammutinamento. Ci hanno detto di scendere in fretta nel salone e «partecipare», quindi ci siamo tutti spogliati. Diciotto persone nude in sala. Lei non ha detto una parola. E questo ci ha spaventato. Ci siamo rivestiti. Tute da lavoro, niente più donne e uomini. 

Ciò che l’occhio poteva scorgere era una pila di documenti sulla sua scrivania, con minuscoli paragrafi, firme e graffette. Questi documenti non sono stati più visti nel salone né altrove. Li tengo d’occhio. Sono stati i documenti a portare la maggior parte di noi qui. «È lui», disse qualcuno mentre scendevamo le scale. Antonioni indossava un maglioncino marrone e sembrava un gatto. Volevo dargli una leccatina o una carezza.

«Incline allo svenimento», direi, era l’umore nella stanza. L’arrivo improvviso di un bell’uomo, più che ingannare le persone, le terrà ben sveglie: ubriachi del nostro stato di veglia ci siamo precipitati a eseguire i suoi ordini. Essere svegli era qualcosa di cui molti avevano sognato, pur continuando a dormire per anni, come la famosa principessa nella bara di vetro. Una volta ho aperto un biscotto della fortuna cinese che diceva «alcuni realizzeranno il desiderio del cuore, purtroppo».

Si è messo dietro la sua cinepresa Bell & Howell da sedici millimetri. Due dei suoi uomini davano istruzioni. Patty, Bates e io spostavamo le sedie trascinandole. Gli spessi cavi neri dovevano esser srotolati del tutto per raggiungere le prese. Non stavamo commettendo errori. Eravamo estremamente attenti. Niente scherzi. Niente sonno. Niente sguardi indiscreti. E lei stava al proprio posto vicino al muro, a ripiegare il suo cruciverba, e cercava di apparire calma. Dal momento che contiene la parola issopo, il Salmo 51 è il mio preferito. 

L’issopo (come forse saprete) è un’erba purificatrice che profuma di una menta proveniente dallo spazio siderale. «Crea in me, o Dio, un cuore puro». Ho sentito una zaffata di issopo proprio quando quei grossi cavi neri si sono attivati (la luce inizia a puzzare quando ce n’è troppa) e un improvviso bagliore mi ha allineato ai tappeti, sul pavimento. Eravamo tutti sul pavimento e Patty ha urlato «continuate a girare», e così abbiamo fatto (per scongiurare la morte) e ogni volta che Bates mi passava davanti ci baciavamo, come avevamo stabilito di fare durante le attività di gruppo (ce ne sono molte, qui), perché la vita è breve e il desiderio ardente è desiderio ardente. 

Secondo Patty, se non mi trovassi in questo posto, non avrei tempo per uno come Bates. Le ho risposto che sono un tipo pratico e Bates è la mia pratica in questo momento. «Avere tempo per» è esattamente il punto. I giorni qui sono lunghi duecento anni. Gli estranei (Antonioni) entrano alla velocità sbagliata. 

Scommetto che lui lo sapeva. La sua faccia era quella di chi entra in una stanza e non trova il pavimento. Nel frattempo, siamo rotolati fino alla parete e a un segnale di Patty abbiamo fatto retromarcia e siamo rotolati indietro. Meravigliosamente, ho pensato, era come giocare a bowling. Antonioni sembrava addolorato dalle grida di tutti. 

Gridare è la regola qui – la regola dei pazzi –, nasconde i baci e ci rende meno tristi.

Antonioni aprì gli occhi. Lei si allontanò dal muro e gli si avvicinò. «I pazienti hanno paura della luce», gli spiegò, «pensano che sia un mostro». Questo tipo di disinformazione spontanea è tipico della professione medica. In fin dei conti, suppongo che difficilmente avrebbe potuto dire «i pazienti venerano Afrodite, donatrice di vita, ogni volta che ne hanno l’occasione, grazie per aver favorito questa opportunità». Comunque, non ho certezza di quanto intelligente lei sia. Un giorno le ho raccontato dell’evoluzione: che all’inizio le persone non avessero un sé, almeno non come noi abbiamo un sé oggi, c’erano le braccia le teste i torsi e compagnia bella a vagare intorno ai frangenti della riva della vita, le caviglie staccate, gli occhi senza sopracciglia, finché alla fine ciò che unì le varie parti in creature complete fu l’Amore, e lei disse «conosci una parola di sei lettere per “donna dissoluta o sfrenata derivante dal suono degli zoccoli di un cavallo che scende lungo una strada di notte”?». Al che ho risposto «sì, la conosco e posso fare la doccia con Bates stasera, giusto?». 

Pianificare sempre in anticipo, questa sono io, pratica come il purgatorio, come diceva sempre mia madre. «Esulteranno le ossa che hai spezzato». Ma adesso eravamo diciotto persone orribili, in una stanza. Cercavamo di non guardarci mentre ci alzavamo dal pavimento. Antonioni si è dato una scossa come un gatto ordinato e si è ricomposto. Il direttore del manicomio era accanto a lui e mormorava, con un tono di voce sottile, qualcosa tipo «vediamo cosa abbiamo imparato oggi». Sobri cenni di assenso da ogni parte. Avrei voluto ascoltare un commento di Antonioni. I gatti non si spendono ma notano tutto. Ho visto che ha notato Bates. Così, per un istante, i nostri destini si sono sfiorati.Della fresca neve bianca si era depositata sulla scura fanghiglia all’esterno. Patty ha espresso disappunto per il tono e il tenore generale della mattinata. «Un losco spettacolo di merda, amica mia», credo siano state queste le sue parole precise. Eppure, ci prendiamo la fortuna quando accade. Niente migliora la vita comunitaria quanto un’ora di aerobica, come prima attività, la mattina. Le grida sono lievi per tutto il resto della giornata. «Purificami, e sarò puro; lavami, e sarò più bianco della neve». Ed era venerdì, angel cake per cena, docce calde a seguire e chissà quali disposizioni interne. Dal giorno in cui le ho dato la parola che cercava («tittup») mi tratta con particolare cura. «Non startene in lutto», dice, inclinandosi all’indietro su due gambe della sedia. 

ARTICOLO n. 25 / 2023

ARTE O VANDALISMO?

Arte activa volume 1

Quando un’opera d’arte viene aggredita, per qualche tempo i titoli dei giornali e le bacheche dei social si gonfiano di indignazione. Sporcare una cornice, tagliare una tela, scrivere uno slogan su una statua, che si tratti di azioni simboliche o reali, in molte persone scatenano un biasimo pari se non superiore a un attacco alla loro proprietà – e in un certo senso è comprensibile, perché l’arte è un bene comune.

Il caso più recente è quello dell’attivismo ambientale legato a gruppi come Just Stop Oil e Ultima Generazione, che hanno attirato l’attenzione attraverso azioni che consistevano principalmente nell’incollare o sporcare con vernice lavabile i vetri protettivi di alcune importanti opere d’arte. La logica dichiarata dietro queste proteste, che si sono ripetute in vari musei europei, è che l’impegno profuso per preservare le opere d’arte non è commisurato a quello dedicato a evitare eventi che mettono a rischio la sopravvivenza della specie umana che produce e ammira quest’arte. In tempi meno recenti è accaduto per l’abbattimento o la vandalizzazione di statue considerate celebrative verso persone o eventi tutt’altro che positivi. Tra i tanti idoli caduti (o macchiati) c’è la statua di Jefferson Davis a Richmond (USA), presidente degli stati confederati e combattente nella guerra di secessione, la statua di Edward Colston, uno dei benefattori della città di Bristol, ma anche uno schiavista responsabile del commercio di decine di migliaia di persone dell’Africa occidentale. In Italia non sono al corrente di statue abbattute, ma c’è chi ha sporcato più volte la statua del giornalista Indro Montanelli, per rivalsa verso il suo passato fascista e colonialista, mai rinnegato. Chi non si è scandalizzato per questi eventi o li ha valutati positivamente è possibile che non abbia ben accolto la distruzione da parte del governo talebano delle antiche statue dei Buddha di Bamiyan nel 2001.

Se mettiamo da parte una reazione immediata ed emotiva, non è facile spiegare cosa accomuna e cosa differenzia queste azioni. Si tratta di attacchi all’Arte o addirittura di una sua manifestazione? Per facilitare l’analisi è anzitutto necessario fare qualche distinzione. Semplificare il mondo in dicotomie è una tendenza che porta spesso a gravi errori, perché di rado troveremo qualcosa di genuinamente binario in questo vasto e vario mondo; nel caso specifico, etichettare come “violenza” tutte queste azioni per darne un giudizio analogo è un po’ come considerare un omicidio e l’uccisione di una zanzara allo stesso modo, in quanto entrambi atti di violenza. Al netto della grande questione della liceità della violenza in determinati contesti, stiamo parlando di casi molto diversi, perché in nessun modo aggredire simbolicamente un’opera per attirare l’attenzione su una tematica ecologica è equiparabile a distruggerla in quanto giudicata blasfema. Se però il gesto di Ultima Generazione e quello dei talebani non è comparabile, questo non significa che quest’ultimo – che, a scanso di equivoci, condanno – sia un affronto all’Arte.

Partiamo da una banalità: le opere d’arte non sono eterne, perché nulla lo è. Non solo prima o poi saranno tutte distrutte in qualche modo, ma la loro identità è soggetta a un continuo mutamento anche nel (raro) caso in cui il loro supporto materiale resti perfettamente integro, perché a mutare è il contesto in cui sono situate. La Monna Lisa, per fare un esempio, non ha subito alcun danno fisico dall’operazione artistica di Duchamp o di Andy Warhol, ma la sua portata simbolica è inevitabilmente mutata; per il banale scorrere dei secoli, perché le nuove generazioni guardano con occhi nuovi le opere antiche, ma anche per la stratificazione di significato che altre operazioni artistiche (come quella di Duchamp o Warhol) hanno posato su di essa. Le opere d’arte sono delle prassi simboliche intense e operative, che l’uomo si tramanda di popolo in popolo e di generazione in generazione. Non sono mai inerti e agiscono diversamente in base al contesto. Le statue dei Buddha, che per me sono delle inestimabili opere d’arte e la testimonianza di una filosofia millenaria, nel contesto culturale dei talebani sono delle blasfemie.

Se il distinguo con l’operazione di Warhol, Duchamp o Ultima Generazione è semplice, perché sono casi in cui l’opera d’arte ha subito una naturale risemantizzazione senza subire alcun danno fisico – cosa che potremmo anche tradurre: senza eliminare la possibilità dei suoi significati precedenti – nel caso delle statue colonialiste o dei Buddha di Bamiyan la situazione è ben diversa. Ma perché, mi sono chiesto, sono d’accordo con l’abbattimento della statua a Bristol e contrario alla distruzione di quelle a Bamiyan? I motivi sono essenzialmente due. Il primo è legato a un’adesione etica: per motivi che qua non è necessario specificare sono simpatetico verso il messaggio politico dei manifestanti di Bristol e contrario a quello dei talebani. Il secondo è un’istanza estetica: non considero la statua di Edward Colson (o quella di Montanelli, se è per questo) rilevante dal punto di vista artistico, a differenza dei Buddha di Bamiyan. A conferma di questo va detto che se Giuliano de’ Medici fosse stato un orrendo despota schiavista, non per questo avallerei la distruzione della statua di Michelangelo Buonarroti. Un po’ è perché le ferite più lontane nei secoli non fanno più male (distruggereste una statua a Gengis Khan?), ma molto è per via del valore artistico dell’opera, motivo per cui non abbatterei nemmeno il complesso dell’EUR, nonostante la sua ascendenza fascista. Per quanto suoni banale, abbattere delle statue “brutte” è incommensurabile rispetto ad abbatterne di “belle”, quale che sia il loro valore simbolico; spiegare la differenza però non è facile, dato che non esiste alcun criterio oggettivo di bellezza artistica. Ciononostante non penso che ci sia qualcosa di anti-artistico in questi atti, perché tutti si muovono all’interno della normale vita dell’opera d’arte, ovvero una continua e operativa risemantizzazione, la cui durata coincide con l’interesse della nostra specie. Senza una sufficiente motivazione a preservarle, infatti, difficilmente le nostre opere ci sopravvivono.

A questo si affianca il fatto che l’iconoclastia è una prassi che torna spesso all’interno della stessa storia dell’arte, sebbene con oggetti diversi. Il caso più celebre è forse il Futurismo, che sin dal Manifesto decreta: »Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie». Un caso meno noto è quello del Situazionismo, che come riporta Stella Succi in un interessante articolo sul vandalismo nell’arte, si schierò a favore dell’accoltellamento da parte del pittore Nunzio Van Guglielmi della tela dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, conservata alla Pinacoteca di Brera di Milano:

L’artista Asger Jorn interviene a sua difesa, stilando, il 4 luglio 1958, un documento che firma a nome della Sezione Italiana dell’Internazionale Situazionista [sic]: «Noi situazionisti protestiamo contro l’internamento ipocrita in un manicomio di Nunzio Van Guglielmi, perché in giugno a Milano è arrivato a scalfire leggermente un mediocre quadro di Rafaello. Noi constatiamo che il contenuto del manifestino posto da Guglielmi sul quadro di Rafaello (…) esprime il voto di un grande numero di italiane col quale siammo. Vogliamo quindi attirare l’attenzione sul fatto che esso sarà un crimine contro la vera scienza psichiatrica di interpretare, col’aiuto della polizia psichiatrica, un gesto ostile alla chiesa ed al defunto valore culturale dei Musei, come una prova sufficiente di follia. Sottolineiamo il pericolo che presenta una tale precedenza per tutti gli uomini liberi e per tutto il futuro sviluppo culturale ed artistico».

Quale che sia la nostra opinione riguardo ai casi particolari, come ha modo di sottolineare Succi, «che l’abbiano preso o meno in considerazione, gli attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation hanno compiuto un’operazione simile: hanno riportato la Primavera, i Girasoli, la Ragazza con l’orecchino di perla dalle sale cimiteriali dei musei, dalle calamite per il frigorifero, dalle shopper museali alle nostre vite». Questo perché, che si tratti di baffi o di vernice, di collage o tagli, machine learning o dinamite, ogni azione su un’opera d’arte ne muta il significato, e, anche se apparentemente la uccide, la rende vitale. Nel commentare la distruzione dei Buddha da parte dei talebani, Fabrizio Rondolino scrisse su La Stampa del 14 marzo 2001, che: 

«Il diritto di erigere statue, che nessuno finora ha messo in discussione, deve infatti contemplare il diritto di abbattere altre statue. Si tratta anzi di uno stesso diritto, che appartiene al vincitore di turno non importa se politico o religioso proprio in virtù della vittoria conseguita. Forse, parafrasando Brecht, si potrebbe sostenere che è felice quel popolo che non ha bisogno di statue. Ma finché qualcuno vorrà erigerle, qualcun altro potrà abbatterle. La storia, al pari della natura, non è un museo da conservare intatto per turisti distratti, ma un movimento incessante che alterna creazione e distruzione. Non si può conservare tutto. Purtroppo, non sempre possiamo decidere che cosa tenere e che cosa buttare».

Credo che il fulcro sia proprio in quel “poter decidere o meno che cosa tenere e che cosa buttare”. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che la distruzione dei Buddha a Bamiyan non è sbagliata perché “non si deve toccare le opere d’arte”, ma perché la nostra cultura ci ha insegnato – e noi siamo d’accordo – che certe opere d’arte vadano preservate, che non c’è nulla di blasfemo nel buddismo e che i millenni lavano la portata etica delle vestigie storiche. O anche, semplicemente, che erano delle statue bellissime. L’arte è un processo di continua significazione, distruzione e risignificazione, motivo per cui anche distruggere un’opera è farla parlare: bisogna però capire se siamo d’accordo con questa sua nuova voce.

C’è una prassi che esemplifica bene la natura antinomica della questione, ovvero il caso del reimpiego. Questa pratica, che consiste nel riutilizzo di materiali da costruzione esistenti come sculture ed elementi architettonici, era molto comune nell’antica Roma e nell’Europa medievale. In molti casi i materiali reimpiegati venivano incorporati in altre opere d’arte, in modo da conferire loro un nuovo significato e una luce più in linea con la morale dei tempi. Così le antiche colonne e i capitelli romani venivano riutilizzati nelle chiese e nei monasteri medievali, dove venivano adattati alla nuova iconografia religiosa. Ecco il paradosso: queste opere d’arte, che ora giudichiamo inestimabili, sono nate grazie alla distruzione di opere altrettanto inestimabili – sia condannare che avallare questa pratica implica dunque l’inesistenza di opere d’arte.

Per risolvere questo dilemma mi sono rivolto a ChatGPT, un motore per la creazione di testo su base statistica che spesso si dimostra una sorta di enciclopedia vivente dei nostri pregiudizi. La sua risposta, frutto di tira e molla e prompt engineering, è stata interessante: «È importante notare che il riutilizzo di materiali di riuso nell’arte antica e medievale era generalmente una pratica eseguita con l’approvazione di chi deteneva il potere. La distruzione di opere d’arte esistenti senza autorizzazione o autorità non è una forma legittima di espressione artistica e può essere vista come una violazione dei diritti dell’artista e del proprietario dell’opera». Insomma, il vandalismo è tale solo se il consesso sociale lo condanna. Più avanti, ChatGPT mi ha suggerito che nel caso della creazione di una nuova opera d’arte attraverso la distruzione di un’altra il valore della prima dipende da una serie di fattori, tra cui il merito artistico della nuova opera, il significato culturale e storico dell’opera distrutta e il contesto in cui la nuova viene creata. In definitiva, secondo questa esternazione della mente popolare collettiva «il valore della nuova opera sarà determinato dal giudizio collettivo di storici dell’arte, critici e pubblico».Ricorda l’arguta espressione di Dino Formaggio, che nel 1973 scrisse che »l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte». Una definizione meno ingenua e soprattutto più precisa di quel che potrebbe sembrare, perché di fatto è l’unica che non viene in qualche modo smentita da qualche argomento o prassi artistica. Dobbiamo dunque guardare al “vandalismo” verso le opere d’arte come a una pratica più complessa e meno anti-artistica di quel che sembra, in quanto ci informa del modo in cui una determinata società reagisce e parla ai (e con i) simboli del passato. Ogni opera è collettiva, ogni linguaggio vive distruzioni e rinascite. La domanda che dobbiamo porci non è se sia giusto o meno distruggere un’opera d’arte, quanto piuttosto: cosa ci dice questo intervento? Come risemantizza l’opera? Qual è la nostra reazione al nuovo significato?

ARTICOLO n. 24 / 2023

FIGLI CHE SI SCOPRONO NON ETEROSESSUALI

Around The Table. Una serie americana in italiano

I nomi dei personaggi di questa serie sono inventati, anche se avrei tanto voluto chiamare mia figlia Vera, ma ho perso quella discussione sui nomi. Pazienza. Falsi anche alcuni (pochi) dei racconti di famiglia. Ma, credetemi, non sono una bugiarda: pensate che l’enorme balena bianca si chiamasse davvero Moby Dick? O il ragazzino di Ida, Useppe, o la tipa che perde la scarpa Cenerentola? E io mi adeguo.

Eravamo tutti e cinque a tavola: io, mio marito Ryan e i nostri figli Andrea, Martina e Vera. Si chiacchierava del più e del meno e si cercava di convincere Andrea (autistico ventiseienne tendenzialmente asociale) di stare a tavola con noi, con i soliti scarsi risultati. «Ah, a proposito», dice Martina, che stava frequentando il primo anno di università, «sono di genere non binario». Rispondo: «Bene, sono contenta!». 

In effetti, è da quando Martina era piccolina che ha sempre preferito amici maschi, perché le femmine litigano sempre; il monopattino alle bambole, perché dopo un po’ che noia, vestiti di colori neutri piuttosto che il rosa, a parte un periodo di principesse scemato molto velocemente. Le avevo comprato le Barbie, nascondendo al meglio possibile la mia insofferenza nei confronti di corpi sproporzionati, capelli che a toccarli vengono un po’ i brividi e vestiti improbabili. Ci ha giocato per due, tre settimane al massimo. Al pomeriggio, dopo la scuola, andava al parco di fronte a casa (allora abitavamo a Brooklyn, ma poi ci siamo trasferiti a Cambridge, nel Massachusetts) a incontrare Henry, Zac, Anton, Maceo: la sua banda. Tornava sporca e sudata. Stanca e felice. Ha avuto, a dire il vero, un’amica femmina, ma quando la madre telefonava per chiedere se Martina volesse andare da lei a giocare, Martina mi faceva cenni con le mani per farmi dire di no. 

Quando le ho imposto di cercare uno sport, quello che le piaceva di più, perché non è che si può stare in camera davanti al computer tutti i pomeriggi, ha scelto il roller derby, un gioco violento e di contatto, giocato sui pattini a rotelle, con atlete esclusivamente femmine, quasi tutte lesbiche. Lì ha cominciato a frequentare più ragazze, ma non quelle che da piccole giocavano alle bambole. Erano molto neutre per quanto riguarda il genere, e spesso tra loro nascevano amori detti e non detti. Martina era entrata a far parte di quel gruppo con estrema naturalezza. Io e Ryan eravamo convinti che fosse anche lei lesbica, ma un giorno ci ha annunciato, sempre con la naturalezza di cui sopra, di aver conosciuto un ragazzo. In Internet. Il ragazzo era un tipo dell’Alabama, che lei voleva andare a conoscere. Dopo lunghi pianti e ancor più lunghe discussioni, siamo arrivati a un compromesso: se vuole, può venire lui. Che infatti puntualmente è arrivato, lui con degli stivali da cowboy bianchi francamente improponibili e io con un bicchiere di vino (il terzo) pieno fino all’orlo.

Oltre che essere terrorizzata del fatto che sicuramente la mia bambina di diciotto anni fosse in camera sua a far l’amore (l’ho preparata bene? Cosa faccio, busso e le dico di non avere senso di colpa, che anche la mamma e papà ogni tanto lo fanno? Li avrà dei condom? Credo di averle detto che se non vuole fare nulla, per l’amor d’un Dio, deve saper dire di no, ma non sono sicura) ero stupita, e non poco, del fatto che si fosse innamorata di un maschio. Ricordo, nel panico generale, di aver chiesto a Ryan: «Ma scusa, non era lesbica?»

La sera a cena, quando ha annunciato il suo cambio di genere, ero molto contenta di aver scoperto un aspetto importante di lei. Anche per Martina deve essere stata una liberazione: è una conquista importante capire chi si è e condividerlo con gli altri, malgrado non sempre sia una notizia accolta a braccia aperte. Molte persone infatti cercano di sopprimere la propria identità di genere. parte qualche storia con delle ragazze, finora ha sempre preferito avere morosi Mi ha spiegato, perché la maggior parte di quelli della mia generazione è un po’ ignorante sul soggetto, che essere di genere non binario non ha nulla a che fare con la preferenza sessuale: una persona come mia figlia si sente un po’ in mezzo tra il sentirsi donna o uomo, ovvero non riesce a sentirsi a suo agio né quando si dichiara maschio né quando si dichiara femmina. È attratta da maschi o come Martina, di genere non binario (ma nati col pisello, per intenderci).

La sua richiesta è stata che da quel momento, quando parlavamo di Martina, avremmo dovuto usare un pronome neutro: they. È un pronome plurale, è vero, ma per ora sembra essere il più gettonato. Ho fatto molta fatica a ricordarmelo, perché è grammaticalmente sbagliato, ma da qualche anno a questa parte ho fatto passi da gigante: non mi sbaglio quasi mai. 

A Cambridge, dove viviamo, la gente è particolarmente liberal, nel senso che è aperta alle diversità di razza, di classe e di genere. Moltissimi ragazzini delle medie e del liceo si sono dichiarati di genere diverso da quello che è stato dato per scontato alla loro nascita, perché è una città che accetta le diversità con molta disinvoltura: per anni abbiamo avuto una sindaca gay, nera e musulmana, per esempio. I ragazzi qui si sentono compresi e accettati. A scuola non si percepisce discriminazione da parte dei compagni o degli insegnanti. Infatti, molti studenti preferiscono fare coming out a scuola prima di farlo a casa, perché esistono alcune culture che fanno fatica ad accettare questo tipo di discorsi.

Quando anni fa Martina ha annunciato la sua vera identità di genere, non ho potuto fare a meno di pensare che se fossimo in Italia, il suo futuro sarebbe molto più difficile, anche se percepisco un vento di cambiamento. Ho letto di molti genitori che raccontano di figli simili a Martina; i giornali ne parlano sempre di più, intervistano sessuologi e psicologi su questo tema. Mi sembra di capire che alcune cose stanno cambiando. 

Due anni fa stavo ancora lavorando al mio ultimo libro, in cui mi sono posta molte domande su come affrontare da genitori la sessualità dei propri figli senza piangere o senza volersi buttare giù dalla finestra. Avevo appena finito il capitolo in cui descrivevo la rivoluzione di genere come una delle più significative della Storia con la esse maiuscola. Per i maschietti ancora adesso si mette il fiocchetto azzurro (il colore dei principi) per le femminucce quello rosa (il colore delle Barbie). Siamo il risultato di millenni in cui siamo stati guidati dagli uomini, i “protettori” di noi povere femminucce deboli e servili. Se non ci fosse un genere considerato superiore, non ci sarebbero le discrepanze maschiliste che noi donne subiamo senza neanche accorgercene. Nel capitolo cercavo di spiegare come le dichiarazioni sul proprio genere, esprimere quello che si è senza timore, aggiungano un senso alla nostra sacrosanta libertà. L’editor che mi aiutava mi ha chiamato che a Milano erano le tre di notte per dirmi che avrei dovuto cambiare o addirittura togliere quel capitolo, «altrimenti ti leggeranno solo le lesbiche e quelli di estrema sinistra», gruppo, tra l’altro, di cui sarei fiera di avere tra i miei lettori. Diceva: «è tutta una questione di moda, questi ragazzini sono privilegiati e davvero non hanno nient’altro a cui pensare? Un’americanata che in Italia non capiterà mai». Sono stata gentile, ma ben ferma sulla mia posizione: che vantaggio avrebbe un ragazzino ad annunciare che si sente femmina se non è vero? Sono temi difficili da accettare e da condividere con genitori, amici, insegnanti. Altro che moda. C’è dietro a tali dichiarazioni una grossa sofferenza, che parte dal terrore di non essere accettati per come si è. Tzè… la moda… È complesso essere cresciuti in una società storicamente omofoba. Figurati te: una moda… Una delle poche volte in vita mia in cui ho avuto ragione: me lo ricordo perché mi capita raramente.

Gli Stati Uniti sono un Paese notoriamente bigotto, ancora lì a discutere se il diritto di abortire è la strada più sicura per arrivare all’Inferno. È un Paese complesso, pieno di problemi sociali, strutturali; è un Paese violento, fervido sostenitore del diritto di comprarsi tutte le armi che si vuole, difensore spietato della proprietà privata. Ci vivo da trent’anni e posso affermare di aver visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Eppure, benché Cambridge sia particolarmente aperta mentalmente, non è certamente un’eccezione: negli Stati Uniti i diritti per le persone LGBTQ sono diventati leggi. Si chiama TITLE IX quella che proibisce la discriminazione nelle scuole; il TITLE VII (parte del Civil Rights Act, approvato nel 1964) condanna discriminazioni sul lavoro. Si chiama FEDERAL FAIR HOUSING ACT l’atto giuridico in materia di alloggi che vieta discriminazioni per quanto riguarda case o appartamenti in affitto o sul diritto di ottenere un mutuo. Nel 2020 è stato stipulato che non occorre più mostrare documenti medici per certificare il proprio genere sul passaporto americano. Ma soprattutto: è federalmente proibito discriminare persone dello stesso sesso (o genere) che si vogliono sposare o che vogliono adottare o avere dei bambini. Il che significa che, quando uno o una della coppia muore, per esempio, l’altro ha diritto all’eredità. Significa che se John e Steven si sposano, i loro diritti sono esattamente uguali a quelli di Giorgio e Susanna. E queste sono solo alcune delle leggi antidiscriminatorie: non siamo certamente ancora arrivati all’uguaglianza di diritti fra le persone cisessuali e tutti gli altri, ma la strada pare ben spianata per altre leggi. 

L’Italia, invece, è considerato il Paese dell’Europa occidentale peggiore per quanto riguarda i diritti LGBTQ. Non lo dico io, lo afferma ILGA, un’associazione mondiale in difesa dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali e trans. In Italia, se si nasce fuori dagli stereotipi, non è possibile sposarsi, né adottare. La legge ZAN, che tutela crimini o incitamento all’odio, sembra essere sparita dai programmi legislativi. Nel 2007, Romano Prodi propose un disegno di legge per la tutela dei diritti di persone come Martina, ma poi finì tutto in un enorme nulla. 

Ho parlato di leggi antidiscriminatorie, perché malgrado ci siano discriminazioni in entrambi i Paesi, il fatto che esistano obbliga anche la società, volente o nolente, di accettare e accogliere la presenza di persone diverse da loro. In Italia, per ora, facciamo ancora fatica. Mi è stato confermato anche qualche tempo fa, quando in Italia è nata un’ennesima polemica sulla presenza di una cantante trans, Rosa Chemical, a Sanremo. La deputata di Fratelli D’Italia Maddalena Morgante, nel suo discorso intenzionato a stoppare la “promozione di propaganda transgender”, non si vergogna a sostenere che «la rivoluzione fluida era già da tempo sul palco dell’Ariston, ma trasformare Sanremo nell’appuntamento più gender fluid di sempre è del tutto inopportuno. La TV rimane il principale mezzo di informazione e i minori sono la fascia principale di ascoltatori. Il Festival della Canzone rischia di diventare l’ennesimo spot del gender fluid e della sessualità fluida e che da sempre Fratelli d’Italia contrasta». A proposito di tutele delle minoranze, appunto.

Sono palesi le differenze tra la riflessione tradizionalista della signora Morgante e le serate dedicate ai premi per cinema e musica qui, negli Stati Uniti. Forse l’evento più simile al Festival di Sanremo è quello dedicato ai Grammy, cioè alla musica contemporanea con la differenza che questi vengono seguiti in tutto il mondo, mentre sul nostro Festival non troveremo certamente articoli sul New York Times. Il premio per il disco migliore dell’anno è stato vinto da Harry Styles, ex-membro del famosissimo gruppo One Direction. Che, nonostante l’abbigliamento, classificato come “gender fluid fashion”, non ha mai voluto condividere le sue preferenze sessuali. Ha vinto anche l’artista tedesca Kim Petras, la prima trans a vincere nella categoria Best Pop Duo. Oltre a loro, in gara c’erano più di dieci artisti LGBTQ. Ai Golden Globes una persona trans ha vinto l’ambito premio Emma D’Arcy e molti altri sono stati concorrenti. I giornalisti più seguiti su CNN negli Stati Uniti sono gay e non lo nascondono: Anderson Cooper, il più conosciuto, ha avuto un figlio grazie a una gravidanza surrogata, cosa che in Italia viene vista come un atto demoniaco.

Detto questo, spero di non passare per una di quelle persone convinte che gli Stati Uniti siano una specie di paradiso terrestre: lo è per chi è bianco, maschio, ricco, cristiano ed eterosessuale, proprio come Fabio Volo (ma in inglese). Per tutti noi che ci viviamo cercando di stare a galla, è un esperimento per capire se le persone che arrivano da tutto il mondo possano convivere in pace. La strada è ancora molto lunga, ma la speranza è l’ultima a morire.

ARTICOLO n. 23 / 2023

IL TEATRO COME POSSIBILITÀ

Intervista di Isabella De Silvestro

La longevità e l’ossessività sono una risorsa immensa. Lo dice Armando Punzo, che nell’agosto del 1988 varca le soglie del carcere di Volterra per un laboratorio teatrale di duecento ore che si trasformerà nella pratica artistica a cui dedica la vita da più di trent’anni. Fra le mura della galera Punzo trova un luogo dove restare, dopo anni di moto insoddisfacente per l’Italia e l’Europa. «Della mia vita fuori dal carcere non ricordo quasi niente». Sembra ricordare invece ogni parola pronunciata nello stanzino di tre metri per nove dove nasce la Compagnia della Fortezza, un gruppo costituto da detenuti attori che lavorano con lui per dare vita, giorno dopo giorno, a un’idea di teatro che valica tanto la tradizione quanto la pretesa rieducativa e assistenziale: una pratica artistica che fa della ricerca la chiave per mettere in scena l’umano e le sue infinite potenzialità. La sofferenza e la fatica, gli ostacoli dell’arte e della vita pratica, le lacrime versate per qualcosa che davvero non amiamo e quelle per qualcosa che amiamo davvero.

Ho conversato con Armando Punzo un venerdì sera. Lui usciva dal carcere, io uscivo da Un’idea più grande di me, il libro edito da Luca Sossella Editore che raccoglie il lungo scambio tra il regista e Rossella Menna, studiosa di teatro e collaboratrice di Punzo. Ne uscivo affaticata e insieme colpita. La luce che l’esperienza della Compagnia della Fortezza è in grado di emanare viene dall’incontro tra un’idea ambiziosa e un lavorio costante e severo, un confronto senza risparmi con ciò che dell’umano confligge con lo stato delle cose. Del lavoro teatrale di Punzo insieme ai detenuti di Volterra colpisce la serietà e il rigore. Non vi è nessun cedimento al “sociale” come categoria che aggiunge valore per il solo fatto di promettere redenzione dalla propria condizione marginale. Vi è invece uno sguardo preciso su come è bene fare arte: senza prendersi un giorno di vacanza, capendo che, di un artista, la vita è ciò che accade mentre disperatamente cerca un linguaggio per dirla. E se non ci riesce, che almeno lo si veda disperatamente cercarla. La nostra conversazione si apre senza convenevoli. E questo credo venga dall’abitudine a non voler perdersi in chiacchiere. Si parli di qualcosa di serio o non si parli affatto. Ricordo una frase del libro: «Non è che non mi piaccia la vita, è che sento che solo se mi assicuro un livello profondo di relazione può esistere anche quello superficiale».

Isabella De Silvestro: Tra le prime cose evidenti a chiunque entri in carcere per la prima volta c’è il fatto che ad abitarlo è il Sud del mondo. Questo suo essere meridionale porta con sé miseria e vitalità, una certa violenza e un alto grado di onestà e introspezione. Ci sono però altri avamposti del Sud del mondo, altri luoghi dolorosi e vitali. Se si trattava di portare il teatro dove nessuno lo aspettava, la tua compagnia avrebbe potuto prendere forma anche altrove?

Armando Punzo: In linea teorica poteva accadere anche altrove. Resta il fatto che io da altre parti non sono andato. Avevo rifiutato il teatro ufficiale, non mi sentivo attratto dalle strade dritte e in verità nemmeno da quello che era allora il teatro di ricerca. Ho alzato gli occhi un giorno e ho visto il carcere: l’ho scelto interiormente. A me interessava la questione dell’essere prigionieri e il carcere era il luogo dove la prigionia di ognuno di noi, uomini e donne liberi, diveniva evidente, senza maschere. Ho iniziato a fare teatro a partire da quest’idea: le prime letture, prima ancora di Grotowski, mi hanno portato a scoprire un punto di vista su di me e sul mondo come di una persona che aveva degli automatismi di cui non era consapevole, che probabilmente non gli appartenevano e finivano per opprimerlo. Non sapevo di non sapere tante cose. Il carcere, dunque, mi è sempre interessato come metafora, mai come cronaca.

I.D. Il carcere è metafora della prigione che viviamo anche fuori e, contemporaneamente, della marginalità e dell’esclusione. Racconti di aver lasciato Napoli, la tua città natale, senza rimpianti e senza nostalgie; dici spesso che il distacco è una condizione auspicabile. Mi sembra una presa di posizione quasi mistica, da anacoreta del terzo secolo. Il carcere è forse il luogo del distacco per definizione, un luogo ermetico dove il flusso delle città è sospeso e la vita in arresto. Questo distacco, tanto dalle proprie origini quanto dalla frenesia e dalle convenzioni, è necessario all’arte?

A.P. Il distacco è la conseguenza dell’incontro con un linguaggio artistico, nel mio caso il teatro. Questo incontro mi ha permesso di negare la realtà in cui ero calato, creandone una a me più affine. Nasciamo in un luogo che non abbiamo scelto e molti lo abitano come una condanna. Praticare un linguaggio artistico permette di dare forma ad un’altra realtà, entrando in relazione con parti di sé che altrimenti rimarrebbero per sempre celate: è una questione di espansione del sé. Io ho desiderato fortemente prendere distanza dal mio luogo di nascita. Il luogo che ho cercato è il teatro, e mi è capitato di crearlo in una prigione, un luogo che sembra impedire ma allo stesso tempo preserva e protegge. La galera è simile a un monastero, un posto dove la riflessione può raggiungere livelli altissimi. Certo, esiste anche lì la vita ordinaria con le proprie regole, le scocciature e gli impedimenti. Sono cose che affronto e vivo ma a cui non do molto peso. Generalmente le persone pensano che scegliere di lavorare in un luogo marginale debba diventare un tema. È il male di questo periodo storico: l’ossessione per i temi. Il valore del mio teatro rischia di essere ridotto al tema della marginalità. Dal punto di vista del linguaggio artistico, quando il tema è più importante di ciò che fai significa che non hai ottenuto un grande risultato. Mi aveva colpito molto Contro l’impegno di Walter Siti, dove in fondo lui dice questo: c’è un’arte che è testimonianza, e dunque tema, e c’è un’arte che è viaggio di conoscenza, dunque processo. È un aspetto, quello della testimonianza, che non mi piace praticare. Il processo artistico è molto più complesso e mette in discussione l’essere umano più del discorso intellettuale o politico.

I.D. Vorrei parlare di questo processo. Quello che colpisce del lavoro della Compagnia della Fortezza è l’adesione tra idea e pratica: l’una si manifesta nell’altra e viceversa. Sembra esserci un grande lavoro corale sui testi, un rimestare e scavare, leggere e rileggere finché il testo non prende forma e consistenza, una ricerca continua di protagonisti sempre nuovi e in comunione intima con i personaggi che interpretano. Cosa accade nel concreto nello stanzino del carcere dove preparate gli spettacoli? 

A.P. Io arrivo con delle proposte. Si tratta di testi che ho letto e per qualche motivo mi interessano. Ma il percorso lo sviluppo sempre insieme ai miei attori, ho bisogno di capire se una ricerca interessa solo a me o se è qualcosa che effettivamente può risuonare anche in loro. È capitato negli anni che io proponessi qualcosa e lo vedessi morire nei loro occhi in un attimo. Quando ci approcciamo ai testi viviamo le parole come se fossero pensieri fondamentali che sono lì da sempre in attesa di incarnarsi in qualcuno. Ecco, rispetto ai protagonisti, normalmente nel teatro sono attori che si sono fatti un nome, hanno una pratica che li caratterizza e vengono scelti proprio in base a questo loro nome: il loro percorso artistico è in qualche modo scritto. Intorno ai nomi si costruiscono i ruoli. Questa è una modalità che io ho deciso di non praticare. Chi è stato protagonista di un mio spettacolo lo è stato perché quel tema, quelle parole, quel preciso momento della sua vita lo hanno portato a impegnarsi in maniera tale da farlo emergere come protagonista, talvolta anche suo malgrado, in maniera dolorosa. Non è una cosa che si può decidere a tavolino, emerge da quanto di sé un uomo impegna. E non è una conquista per tutta la carriera: un anno o due anni dopo, pur avendo delle capacità magari innegabili, la stessa persona può non essere protagonista perché la necessità, l’urgenza profonda, emerge in un altro. Questo destabilizza lo star system, per così dire. A me interessa far emergere le necessità umane delle persone con le quali lavoro, cosa che va molto oltre la questione di mettere in scena un ruolo. Mi interessa far capire che quando uno ha un’urgenza profonda riesce a superare incredibili difficoltà.

I.D. Nel vostro Pinocchio, il burattino di legno vuole tornare a essere albero. Non bambino, come ci si aspetta, ma il legno da cui è venuto “per augurarsi una foresta di alberi”. Come si concilia il protagonismo che richiede la pratica teatrale con l’idea di valicarsi, andando oltre il sé? 

A.P. Sono due livelli separati. Bisogna suddividere tra un io ordinario e un io superiore.

I.D. E il teatro sarebbe il mezzo tra queste due cose?

A.P. È una possibilità. Ma lo è di fatto, non a parole. Un attore, quando è in scena, non sta usando il suo io ordinario. Anche se non è consapevole di questo processo, chi entra in scena si immerge completamente in ciò che sta facendo proprio per prendere distanza dal suo io ordinario, nel quale auspicabilmente non si sente a suo agio: il teatro è una pratica per accedere a delle potenzialità superiori. Se uno legge la letteratura di formazione degli attori, da Stanislavskij a tutto ciò che viene dopo, si accorge che si tratta di una letteratura fortemente utopica. Viene chiesto a un uomo di lasciare se stesso e di mettersi alla prova attraverso un processo di scoperta. Un attore che sta in scena dà il meglio di sé, offre al pubblico la sua parte più luminosa: se abbiamo lavorato bene abbiamo un uomo al massimo delle sue potenzialità. 

I.D. A proposito di dare il meglio di sé, mi interessa il valore della stanchezza. Parli spesso della fatica come risorsa artistica, come se solo spingendosi oltre il sostenibile si raggiungesse il nucleo delle questioni. Mi chiedo se l’altra stanchezza, quella che viene dal contesto in cui tu operi, e cioè dal rapporto con l’istituzione carceraria e i suoi meccanismi, sia altrettanto vitale o sia piuttosto un brutto gioco a cui fare buon viso. 

A.P. Sicuramente la seconda ti mette alla prova. Il carcere è molto particolare in questo, è un sistema che ti affatica enormemente ma va affrontato e trasformato in una motivazione. In tutte le resistenze e le forze contrarie trovi il motivo per affermare il tuo lavoro che ha un segno completamente diverso rispetto alla vita ordinaria del carcere e merita di essere protetto. La fatica artistica invece è quella di una pratica: un danzatore sa cosa significa logorarsi fisicamente per un lavoro. È come uno scioglilingua, una cosa molto semplice, ripetitiva, ma molto complessa. Quando ti spingi oltre una certa soglia abbatti alcune resistenze naturali. L’uomo tende ad adagiarsi e a risparmiare, come gli uccelli. I pretesti degli uccelli migratori sono straordinari: non vorrebbero partire alla ricerca di una cosa che pure riconoscono come importante e necessaria, fanno una grande fatica ma poi si convincono e partono insieme. E arrivano lontanissimo. 

I.D. Cosa spinge le persone a seguirti in questa fatica? 

A.P. Io credo che ognuno trovi la sua motivazione. Alcune inizialmente possono sembrare futili, banali, ma ciò che importa è che la maggior parte delle persone rimangono perché scoprono che c’è molto di più. 

I.D. Il carcere è un’istituzione poco ambiziosa, forse figlia di una società poco ambiziosa. Sembra già miracoloso riuscire a garantire la presenza di una scuola professionale per i detenuti, ma apparirebbe assurdo pensare a un liceo classico. Assurdo e inutile. Come ciò che hai creato tu. La cultura e il teatro non servono che alla cultura e al teatro, e cioè all’uomo. In un luogo di privazioni e punizioni che valore ha porsi obiettivi più grandi di sé e del contesto nel quale si è immersi?

A.P. Io credo che questa tendenza ad accontentarsi del minimo sia lo specchio di ciò che succede anche fuori, dell’umanità di oggi. E sottolineo di oggi. Tutto è fatto per un tornaconto materiale. Sembrano discorsi sentiti e risentiti eppure non è che si sia risolto un granché. In carcere già sembra tanto riuscire ad affermare che serve una scuola, che serve un teatro. Andare più in là è difficilissimo: ci si propone magari di aumentare l’alfabetizzazione, di fare uno spettacolo bello, ma non si pensa a un futuro di uomini migliori con valori diversi da quelli che ci hanno portato dove siamo. È chiedere troppo.

I.D. Mi ha colpito un passo del tuo libro nel quale ti descrivi come una persona molto fragile nel rapporto con gli altri. Ti meravigliano l’ostilità, la malevolenza. Credi ci sia un valore nel porsi disarmati di fronte agli altri? L’illusione e l’ingenuità possono essere risignificate? 

A.P. A me non piace la parola illusione. Però vedi, ciò che faccio da anni dentro il carcere con gli attori della Compagnia della Fortezza non fa male a nessuno. Lo ripeto: non fa male a nessuno, ne sono certo, non ho alcun dubbio. Non può che fare del bene. Quindi, quando trovi qualcuno che ti viene contro, l’unica cosa che puoi fare è accettare che si tratta di persone che si trovano a un grado diverso di evoluzione. Non è permesso loro di capire. Puoi provare rabbia, pietà, dolore, ma resta il fatto che quelle persone, in quel momento, non arrivano a comprendere quanto ciò che fai possa fare del bene.  

A volte siamo dentro al carcere nel nostro stanzino e io chiedo ai miei attori: a quest’ora, alle cinque e mezza del pomeriggio, quante sono le persone che a Volterra stanno affrontando questo tipo di discorsi, si stanno affaticando per cercare delle soluzioni a questo tema, che sembra qualcosa di inutile? Forse nessuna, siamo solo noi. Forse c’è qualcun altro. E in Toscana? E in Italia? E così via allargando la scala. 

Io sono convinto che, se tanti facessero questa fatica, il mondo sarebbe migliore. E non mi sento stupido a dirlo, non mi sento ingenuo. Ne sono convinto. Mi rendo conto che è molto complesso, ci mancano i fondamenti. Dovremmo partire dalla scuola, o da prima ancora, dalla famiglia. Ma ci vorrebbe qualcosa che aiuti la famiglia se la famiglia è carente. Dovremmo crescere in maniera completamente diversa e non credo che stiamo andando in questa direzione. Se prima la scuola era una questione di cultura, ultimamente quasi per niente. L’idea del lavoro sta fagocitando ciò che è rimasto della scuola come opportunità di conoscenza.

I.D. Sembri leggere gli ultimi cinquant’anni sotto il segno della decadenza.

A.P. Questo è il mio difetto. Io sono nato negli Anni Settanta, e forse mi sbaglio. Nato dal punto di vista filosofico, si intende. In quel clima culturale. Mi spiego: io non penso che prima gli uomini fossero migliori. Però nei Settanta non mi sentivo da solo. Oggi sono più solitario e le altre persone che cercano una strada e una possibilità sono anch’esse sole. Non c’è più un clima generale. Mi sembra di vedere persone molto disperate, a partire dai giovani.

I.D. Durante il tuo spettacolo Mercuzio non vuole morire hai chiesto agli spettatori di riporre in una valigia «una lacrima versata per qualcosa che davvero non ami». Lo trovo bellissimo e non ho idea di cosa voglia dire. 

A.P. Quello spettacolo nacque dalla necessità di riscattare Mercuzio dal suo destino di morte. In Romeo e Giulietta Mercuzio è l’amico poeta di Romeo, il sognatore che parla della vana fantasia e muore quasi subito. Nella mia lettura, la morte di Mercuzio è la scaturigine di tutta la tragedia che segue, come se morto lui non ci fosse più niente da fare. Metaforicamente, se uccidi la tua parte sognante non rimane che sfacelo. La lacrima versata per qualcosa che davvero non ami non è propriamente un rammarico, è la lacrima per una mancanza, è la lacrima che versiamo quanto il mondo ci appare come un’aggressione e siamo chiamati a difendere le cose preziose di cui abbiamo parlato finora: questa ricerca, questa idea, questa pratica. È necessario versare una lacrima anche per le idee che non amiamo. Riguarda ciò che dicevamo rispetto alle persone e alle idee ostili al bello, chi non arriva a vedere oltre sé e ciò che gli è noto da sempre. È una lacrima versata per chi crede che non ci sia niente da fare: dentro il carcere, fuori dal carcere, si può sempre fare qualcosa.

ARTICOLO n. 22 / 2023

LA CIPOLLA DI MARTE E DI LUNA

La mistica del cibo

Accendo la stufa economica e ascolto lo scoppiettio della legna che prende pian piano. La cucina e la casa iniziano a mutare, a farsi più piccole, accoglienti, si sente nell’aria l’odore della ghisa che si scalda ed entro in una dimensione parallela di rusticità che mi riporta nelle campagne francesi, in una tipica casa contadina dal tetto di paglia.

All’imbrunire, la cipolla diventa più dolce, un ingrediente amico, che può diventare alimento principe di una cena scalda cuore.

Sotto al lavello di marmo tengo sempre un sacco di cipolle dolci francesi, proprio per questi momenti.

Le sbuccio, ne pregusto la succosità all’interno della croccantezza delle sue foglie: gli strati commestibili di questo bulbo sono a tutti gli effetti delle foglie modificate.

Succosa, leggermente piccante e dolce al punto giusto, croccante, è la cipolla perfetta da mangiare assieme ai čevapčiči, uno dei cibi che mi preparava d’estate mia nonna in Slovenia.

È lei che mi ha insegnato a mangiare la cipolla cruda dicendomi: «la cipolla è come una mela!» e a seguire ha mollato un morso pieno a una cipolla bianca enorme. Ci sono rimasto di stucco, ma ho imparato una lezione: la cipolla non è ostile, ma è un simbolo, risveglia in noi un classismo interiorizzato.

In epoca romana classica le persone colte evitavano chi puzzava di cipolla, e “mangiatore di cipolle” era un termine dispregiativo. Tuttavia, Varrone, un romano contemporaneo di Cesare, scrisse: «I nostri nonni erano persone molto rispettabili anche se le loro parole puzzavano di aglio e cipolla».

Il cibo è sempre stato segno di identità sociale, tanto che andava di pari passo con la propria estrazione, e chi non rispettava questa regola attentava al privilegio di classe, evadendo l’ordine sociale.

Zuco Padella, contadino della campagna bolognese, dopo essere stato colto a rubare le pesche del suo padrone, Messer Lippo, catturato con una trappola per animali, viene punito con un lavaggio di acqua bollente e la frase che gli viene detta rimarrà nella storia: »Un’altra volta lassa stare le fructe de li miei pari e mangia de le tue, che sono le rape, gli agli, porri, cepolle, e le scalogne col pan de sorgo».

Il mangiare cipolla è da sempre stato simbolo della bassezza sociale, di una condizione di non-agio. Un mangiare da contadini, lavoratori o soldati, tanto da essere conditio sine qua non della razione kappa dei soldati romani, e data ai gladiatori, prima dei combattimenti, per aumentarne il furore bellico.

La cipolla è una delle prime piante addomesticate al mondo: nel Neolitico veniva coltivata in India, Cina e nel Mediterraneo orientale. Lo storico greco Erodoto ha notato come un’iscrizione sulla piramide di Cheope in Egitto indichi la quantità di cipolle, aglio e ravanelli mangiati dagli schiavi che la costruirono. 

Per i Pitagorici la cipolla aveva proprietà afrodisiache, quindi era un alimento da evitare nella propria dieta. Un bulbo che è pregno di significati e credenze erotiche, forse per la sua forma sensuale evocativa che assume se tagliato per lungo.

Una dose giornaliera dell’umile bulbo era considerata una condizione necessaria per un’attività erotica intensa e gratificante.

Si pensava infatti che contenesse la piccantezza di Marte, il dio responsabile dell’ardore. Per questo motivo i Greci ritenevano che le cipolle stimolassero il desiderio sessuale e la vivacità generale. Per i Romani non era diverso, come afferma questo detto sull’impotenza maschile: «Se le cipolle non possono aiutare, niente lo farà!»

L’Ayurveda indiano sostiene inoltre che la cipolla nutre il seme dell’uomo (shukra), per cui i medici la prescrivono per aumentare la quantità di sperma.

In effetti, i penitenti e gli asceti indiani (sannyasi) che hanno rinunciato alla mondanità e alla procreazione evitano di mangiare cipolle e aglio in qualsiasi circostanza, avendo questi una forza eccessivamente distraente.

La zuppa di cipolle è anche una famosa specialità francese che, si riteneva, portasse a delle “longue nuits de fole”, lunghe notti di follie sessuali: la soupe à l’oignon come afrodisiaco a basso costo!

Era considerata dai popoli mediterranei un miracoloso stimolante del desiderio, tanto che il poeta Marziale, in un celebre epigramma (dal Liber XIII), consiglia di saziarsi di cipolle per risolvere problemi con le voglie e con la moglie.

Cum sit anus coniunx et sint tibi mortua membra,

nil aliud bulbis quam satur esse potes.

Se hai una moglie vecchia e hai perso il vigore delle membra, le cipolle possono solo servire a saziarti.

Nella loro conquista delle terre del Nord, i legionari romani portarono con sé varietà di cipolle coltivate che piantarono nei loro giardini. I Celti e i Germanici erano entusiasti di questo nuovo “porro”, soprattutto perché l’aglio orsino, chiamato anche “ramsons” o “aglio selvatico”, era già considerato sacro dagli abitanti del Nord, che lo consideravano vitalizzante, depurativo del sangue e afrodisiaco.

Questo “porro” straniero, per il quale i barbari usavano vari nomi, come ynnlek, allouk, oellig, ublek o ullig, entrava nell’orto di ogni donna, dove, si dice, rimaneva. Il botanico tedesco Hieronymus Bock (1498-1554), che aveva sentito parlare del culto della cipolla sacra da parte degli Egizi, commentò: «Anche noi tedeschi non possiamo fare a meno di questi beni divini. […] Ci sono molti che credono che se mangiano un po’ di cipolla cruda a stomaco vuoto come prima cosa al mattino saranno protetti dall’aria cattiva e velenosa per tutto il giorno. […] Molti la usano per piacere lussurioso, altri per uso medico». Inoltre, egli notò che in Germania quasi nulla era più usato delle cipolle per preparare le torte tanto che ancora oggi nelle regioni della Germania meridionale la torta di cipolle rimane una specialità.

Le cipolle e l’aglio non hanno solo la piccantezza di Marte, ma appartengono anche alla luna acquatica e alla purezza, al candore. L’antichità classica e il primo cristianesimo vedevano nella cipolla un altro aspetto dei vari membri della famiglia dei gigli: erano visti come simboli di purezza, innocenza e verginità. In Grecia si credeva che i gigli nascessero dalla terra dal latte che colava dai seni di Era, la regina del cielo. Per i cristiani, il giglio divenne un simbolo dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria: l’arcangelo Gabriele scese dal cielo con un giglio bianco in mano quando annunciò il concepimento a Maria. Queste credenze si basano sulla percezione che le piante di giglio non sono del tutto ancorate a terra: le loro radici sono poco profonde e il modo in cui i bulbi si arrotondano alla base ricorda una goccia d’acqua. Questi bulbi simboleggiano il percorso compiuto dalle anime che si incarnano quando passano dall’alto dei cieli, attraversando la porta della luna fino alla sfera materiale della terra. Ma simboleggiano anche il ritorno dalla terra all’eterno grembo dell’essere.

La cipolla, una pianta triennale del genere Allium cepa, cipolla-aglio o allium, è originaria delle steppe asiatiche, un clima estremo al quale si è completamente adattata. Nella primavera umida, le piccole cipolline iniziano a germogliare e ad assorbire luce e calore fino all’inizio dell’estate. Più tardi, quando il clima diventa più secco, si formano i bulbi succulenti e semisotterranei, cioè le cipolle mature a grandezza naturale.

L’anno successivo questi germogliano in fiori e semi. Nel frattempo, per sopravvivere all’inverno secco e gelido delle steppe, i bulbi immagazzinano le forze vitali acquose della luna nella loro pelle stratificata, arricchendola di glicosidi solforati. Secondo gli alchimisti di un tempo, lo zolfo è un trasportatore di luce e calore. È questa combinazione di acqua lunare e di energia del fuoco di Marte che conferisce alle cipolle il loro straordinario potere curativo.

Porri selvatici e cipolle di vario tipo si trovano anche nelle steppe dell’America settentrionale, dove i nativi americani li raccoglievano per scopi alimentari e curativi. Il nome “Chicago” deriva appunto da una parola degli indiani Fox che significa “un luogo che puzza di cipolle selvatiche”. Proprio come le loro controparti eurasiatiche, i nativi americani usavano le cipolle per le punture d’insetto, le infezioni e le infiammazioni; estraevano il veleno e il pus dai carbuncoli e dagli ascessi con cataplasmi di cipolla o con uno sciroppo di cipolla ridotto (un metodo particolare degli Irochesi). Per guarire raffreddori e sinusiti, gli indiani Piedi Neri mettevano le cipolle su rocce arroventate e ne respiravano il vapore caustico. Le donne native americane in allattamento bevevano decotti di cipolla per trasferire le sue qualità curative ai loro bambini nel loro latte!

Le cipolle hanno una lunga storia nelle usanze popolari, nel simbolismo e nelle pratiche curative di India, Cina e Mediterraneo orientale. Ad esempio, il simbolo cinese di “intelligente” è lo stesso di “cipolla”. Le levatrici cinesi tradizionalmente toccavano la testa del nuovo nato con una cipolla, affinché crescesse intelligente.

La cipolla era una pianta sacra anche nell’antico Egitto di cinquemila anni fa.

I bulbi di cipolla venivano offerti agli dèi e messi nelle mani, sugli occhi o sui genitali delle mummie. Sulle cipolle si facevano giuramenti sacri. La pianta, delicata e succosa, era dedicata alla grande dea Iside e ai suoi sacerdoti era vietato mangiare cipolle. Iside è la padrona della periodicità della luna e dei ritmi femminili. Gli egizi credevano che la crescita della cipolla fosse legata alle fasi lunari, così come lo è il ciclo mestruale.

Il geroglifico egizio che indica la luna nella sua forma calante e crescente è una cipolla. La luna dà alle piante la loro energia vitale e governa i liquidi della vita. In quanto padrona della luna, la dea governa anche sulle acque, il latte cosmico della vita. La cipolla assorbe questo latte cosmico; quando una persona mangia quella cipolla, le ghiandole si attivano, comprese quelle riproduttive. Così, la cipolla divenne anche un simbolo di lussuria e procreazione. L’antica parola egizia che indicava i testicoli, oltre al geroglifico della luna di cui sopra, era la stessa che indicava la cipolla.

Questo bulbo così a buon mercato è stato a lungo un alleato dei poveri, sia come alimento che come importante guaritore, soprattutto per coloro che non potevano permettersi una visita medica.

Ancora oggi è una tra le piante curative più utilizzate nella medicina popolare. 

Cataplasmi a base di cipolle finemente tritate e cotte al vapore sono utilizzati con successo per molti disturbi, tra cui infezioni sinusali, ascessi e foruncoli, infiammazioni polmonari, infezioni alle orecchie medie e tonsilliti. Il pastore svizzero e guaritore Johann Künzle (1857-1945) ha sottoscritto l’uso tradizionale quando ha annunciato che: «Le cipolle tritate e cotte al vapore tirano fuori la malattia in modo così forte che diventano nere e puzzolenti; le cipolle assorbono il veleno della malattia».

La credenza nella capacità del bulbo di assorbire il veleno e le “radiazioni” negative era condivisa dall’Inghilterra all’Europa orientale. Gli inglesi appendevano un mazzo di cipolle in cucina per “assorbire la sfortuna” e addirittura indossavano una cipolla come amuleto o la strofinavano sulle piante dei piedi per far uscire le malattie dal corpo. In Boemia e nelle montagne di Erz, le cipolle bianche consacrate venivano appese in salotto il giorno dei Re Magi “perché attirano e neutralizzano le febbri”. Allo stesso modo, gli abitanti delle campagne olandesi appendevano un cesto di lino con cipolle tritate sopra un bambino malato che implorava. Si credeva che la cipolla fosse in grado di allontanare non solo malattie e pestilenze, ma anche streghe malvagie, spiriti maligni e vampiri. 

Per la nostra tradizione italiana, si pensa che portare una cipolla in tasca protegga dal malocchio. I serbi infilavano una cipolla tra i seni di una giovane sposa per proteggerla dai cattivi desideri che i vicini invidiosi potevano nutrire nei suoi confronti.

E queste superstizioni sulle cipolle si sono diffuse ben oltre l’Europa. In India, nei periodi di peste del bestiame, i contadini appendevano cipolle dipinte di rosso a una corda che attraversava l’ingresso del villaggio. In Cina era comune indossare una “collana” di cipolle durante l’epidemia di colera. In molti luoghi era considerato di buon auspicio per un convalescente sognare una cipolla, un segnale che garantiva il ritorno alla salute.

Lo sciroppo di cipolla (succo di cipolla ridotto in miele o zucchero), antinfiammatorio, espettorante e sedativo, è popolare in molti luoghi per la bronchite o la tosse persistente: questa ricetta è conosciuta sia in India che in America, portata dall’Europa dagli olandesi della Pennsylvania. Per il naso che cola, il guaritore naturale svizzero Alfred Vogel (1902-1996) consiglia il decotto di cipolla: cipolle a fette in infusione con acqua bollente, da sorseggiare durante la giornata. 

La medicina popolare raccomanda anche di tenere un cataplasma di cipolla calda per quindici minuti sui muscoli affaticati dalla lombalgia. Le articolazioni reumatiche, la sindrome del dolore sciatico e il dolore neuropatico, persino le punture d’insetto e le verruche, possono essere trattati con cipolla cruda appena tritata. Per un trattamento simile, le fette di cipolla cruda e salata possono essere avvolte sui calli durante la notte. Insomma, un toccasana per ogni male!

Non c’è da stupirsi, quindi, che si sia sviluppata un’intricata tradizione intorno alla coltivazione delle cipolle. Le cipolle da seme venivano messe nel terreno nel segno del Capricorno affinché diventassero sode e dure, mentre in Acquario sarebbero marcite e in Sagittario sarebbero spuntate senza formare un bulbo. Quando le si piantava nel terreno si consigliava di farlo con rabbia, imprecando, in modo da rendere le cipolle vigorose.

I contadini europei usavano le cipolle come oracolo durante i dodici giorni di Natale: si sbucciavano dodici bucce di cipolla, una per ogni mese dell’anno, poi le si cospargeva di sale. Il mattino seguente, in base a quanta umidità vi si era accumulata durante la notte si prevedeva la quantità di precipitazioni che si sarebbero verificate nei mesi corrispondenti dell’anno successivo. 

L’oracolo della cipolla è conosciuto in tutta Europa. Le giovani donne usavano la cipolla anche come oracolo matrimoniale. La Vigilia di Natale mettevano una cipolla per ogni scapolo conosciuto in un angolo del caldo salotto. Il 6 gennaio, per l’Epifania, vedevano se qualcuna era germogliata: nessun germoglio voleva dire nessun matrimonio per l’anno seguente.

Si pensava anche che le cipolle piantate il Venerdì Santo, giorno in cui il Signore fu inchiodato alla croce, sarebbero state pungenti, facendo “scorrere molte lacrime” quando mangiate.

Un detto siciliano dice: “iu manciu cipudda e a iddu c’abbrucianu l’occhi” (io mangio cipolla e a lui bruciano gli occhi): c’è chi si lamenta senza ragioni, e chi invece mangia cipolla, ovvero accetta la sua condizione con umiltà, anche se da lamentarsi ne avrebbe a buona ragione.

Ma perché la cipolla ci fa così piangere? Sono il solfuro di allile e propile, che assieme costituiscono uno dei più potenti lacrimogeni mai inventati. Il composto solforato allicina ha un effetto antivirale e antimicrobico. Inoltre, l’allicina rafforza il sistema immunitario aumentando l’attività delle cellule killer. Ostacola l’ossidazione del colesterolo nel sangue, proteggendo così dall’arteriosclerosi.

I “mangiatori di cipolle” regolari hanno valori ematici migliori; questo perché l’allicina rallenta l’adesione delle piastrine e accelera lo scioglimento dei puntini nel sangue. Inoltre ostacola i batteri nitrificanti e quindi lo sviluppo di nitrosammine carcinogeniche nell’intestino. Ma i benefici per il sangue non finiscono qui: gli acidi fenolici e i flavonoidi della cipolla hanno anche un effetto benefico sul sistema circolatorio, compreso l’abbassamento dei livelli di zucchero nel sangue dei diabetici. 

Mia nonna ha origini umili, nata nelle campagne della Slovenia dell’Ovest: mi ha insegnato tante cose della vita in campagna, oltre a cucinare, e anche a mangiare cipolle. Da quel giorno, non ho più visto la cipolla come un alimento da evitare, ma come un ingrediente che di per sé poteva essere principe di un pasto prelibato, di alta gastronomia!

Cruda o cotta, ridotta nel vino, flambata con il rum o messa sott’olio, la cipolla è uno degli ortaggi che preferisco, da sempre, nella mia cucina.

ARTICOLO n. 21 / 2023

IL MITO DELLA VERGINITÀ

Un uomo che posa accanto a due bambine, entrambe vestite con un elegante e raffinato abito bianco. Un altro che cinge la vita di una giovane adolescente e appoggia la fronte al suo capo. Ancora, un primo piano di un ragazzo e una ragazza – potrebbero sembrare coetanei – avvolti in abiti eleganti che si abbracciano con occhi chiusi ed espressione sognante.

Le immagini che ho descritto potrebbero comporre il portfolio di un fotografo specializzato in cerimonie. A un primo sguardo sembrano scatti di una comunione, di un diciottesimo, di un matrimonio. David Magnusson, il suo autore, è un artista visivo. Tra il 2011 e il 2014 ha dato vita a un progetto chiamato “Purity”, che raccoglie immagini di padri e figlie durante lo svolgimento di un purity ball in Texas, un evento molto sentito in cui figlie e padri si scambiano una promessa solenne: le prime giurano di rimanere vergini fino al matrimonio, i secondi di vegliare e proteggere sulla loro verginità.

Se, come abbiamo cercato di raccontare con l’articolo precedente, sussiste un forte legame tra maternità e matrimonio, dobbiamo riconoscere che ve ne è un altro che pone in stretta connessione l’abito bianco con un certo ideale di verginità che le future spose devono garantire. Per chi vive in occidente può sembrare un ragionamento ormai superato: oggi si arriva al matrimonio sempre più tardi, magari dopo anni di flirt, relazioni e convivenze. Tuttavia, è vero che in molte parti del mondo la verginità delle donne è ancora un parametro valido per determinarne “il prezzo” e la dote che deve assicurare alla famiglia del marito. In alcuni paesi la verginità viene considerata un prerequisito indispensabile per sposarsi; le donne indonesiane che volevano arruolarsi nell’esercito erano obbligate, fino a un paio di anni fa, a comprovarla mediante un apposito test. In Egitto, durante le rivolte del 2011, moltissime attiviste sono state sottoposte a questa pratica senza il loro consenso.

Ma come si effettua questo esame e cosa dovrebbe garantire?

Si tratta di una procedura (nel migliore dei casi effettuata dal personale sanitario) teoricamente necessaria per accertarsi che l’imene – cioè la membrana posta in corrispondenza dell’apertura vaginale – sia intatta. Come sostengono le scienziate Ellen Støkken Dahl e Nina Dølvik Brochmann, autrici del volume “Il libro della vagina” e ospiti al Ted talk di Oslo nel 2018, il test si basa su due premesse che oggi sappiamo essere del tutto infondate. La prima ha a che fare con il sangue: si ritiene cioè che durante il primo rapporto penetrativo l’imene si laceri provocando il sanguinamento; la seconda che questa lacerazione modifichi radicalmente il corpo femminile così da poter distinguere, proprio grazie al test di cui abbiamo parlato, quello di una vergine da quello di chi ha già avuto rapporti sessuali. 

Il mito intorno alla verginità femminile non è storia recente e, in qualche modo, precede la medicina. Come ricorda la giornalista Kate Lister, è il medico Michele Savonarola, vissuto nel XV secolo, a usare per la prima volta la parola “imene” descrivendone il suo funzionamento e la rottura in concomitanza con il primo rapporto sessuale. Prima di lui altri medici, come il greco Sorano, negavano la presenza di membrane vaginali sostenendo che il sangue scaturisse dalla rottura di vasi sanguigni per effetto dell’azione meccanica penetrativa e ciò potesse accadere anche a ogni rapporto.

Il fatto che l’imene sia stato “scoperto” solo in epoca recente non significa che prima non vi fosse interesse nei confronti della purezza del corpo femminile. La sessualità delle donne è stata da sempre oggetto di controllo ed è questo l’aspetto per noi più significativo. In una società patriarcale, monitorare l’attività sessuale delle donne garantiva a padri e mariti una legittima discendenza, da qui il motivo che spingeva medici e letterati a cercare dei metodi per comprovare quella femminile, mantenendo quella maschile nel più assoluto silenzio.

Prima “dell’invenzione” dell’imene, gli studiosi ricorrevano ad altri sistemi per accertare la verginità di una donna. Nel Medioevo, ad esempio, si ricorreva all’analisi delle urine: quella di chi aveva già scoperto le gioie del sesso appariva torbida e scura, mentre quella delle fanciulle risultava trasparente e frizzante (sì, avete letto bene). Secondo altri studiosi, le vergini erano insensibili all’odore del carbone, pertanto una stoffa vaporizzata con questo elemento e posta accanto alla bocca o al naso non provocava in loro alcun tipo di reazione.

Se ci muoviamo indietro nel tempo e andiamo all’origine dei primi, rudimentali test, ci imbattiamo nella vicenda di Tuccia. Come tutte le sacerdotesse consacrate alla dea romana Vesta, anch’ella era obbligata a mantenersi vergine per tutta la vita. Quando fu accusata di esser venuta meno al suo dovere, le fu concessa la possibilità provare la sua innocenza. La sacerdotessa invocò Vesta che le consentì, grazie a un miracolo, di trasportare in un setaccio l’acqua del Tevere fino all’altare; in virtù dell’aiuto ottenuto dalla dea stessa, fu giudicata moralmente pura. Da allora il crivello è un simbolo di verginità, tanto da essere rappresentato in molti dei ritratti nelle mani di Elisabetta I, nota per il suo rifiuto radicale della sessualità. 

Da quando la medicina ha affermato di poter situare la verginità in un preciso punto anatomico del corpo femminile, ha prodotto un vero e proprio cambio di paradigma: ai metodi scarsamente verificabili se ne sostituisce uno apparentemente inconfutabile basato sulla presenza di un riscontro – il sangue – visibile e inoppugnabile. Ai test inaffidabili subentra così quello del lenzuolo che consiste nel cercare la prova, il giorno dopo la prima notte di nozze, dell’avvenuto rapporto tra i coniugi e, conseguentemente, della verginità di lei e dell’onore di lui.

Grazie alla presunta scoperta compiuta dalla medicina, la presenza dell’imene trasforma la verginità in qualcosa di concreto: analogamente a qualsiasi oggetto, essa si può “perdere” o “conservare” e la sua eventuale presenza può essere avvalorata o smentita tramite indagini accurate. Non solo: la purezza e la moralità del genere femminile, per la prima volta, può essere localizzata in un punto preciso del loro corpo che deve essere protetto pena la perdita delle virtù morali ad esso correlate. Inoltre, il fatto che vi siano persone nella posizione di procedere alla verifica è un modo per ricordare alle donne che i loro segreti e le loro condotte potrebbero essere sconfessate in qualsiasi istante. Per evitarlo è necessario proteggersi, per esempio evitando di andare in bici o fare sport impegnativi, scegliendo con cura tamponi interni delle dimensioni giuste, rifuggendo il sesso (come accade a chi partecipa ai purity ball). Vegliare sulla propria verginità diventa un modo per limitare le opportunità di vita delle donne, soprattutto di quelle più giovani, creando le premesse per la disparità di genere.

I miti su cui si basano i test di verginità hanno così contribuito a sostenere l’idea che le donne “serie” facciano un certo uso del corpo, così da poter distinguere quelle meritevoli e caste dalle altre, considerate socialmente pericolose perché licenziose e depravate.

Oggi sappiamo che l’imene non assomiglia tanto a una membrana quanto a una sorta di lembo ripiegato e posizionato nel vestibolo vaginale. Secondo le già citate Ellen Støkken Dahl e Nina Dølvik Brochmann lo stereotipo più comune che lo descrive come una sorta di sigillo, intatto e solido fino al momento del primo rapporto, è in realtà quello che in natura si presenta con meno frequenza, essendo patologico. L’imene imperforato, impedendo il passaggio del flusso mestruale, viene diagnosticato al momento del menarca e trattato chirurgicamente per poter permettere al sangue di defluire. Secondo uno studio apparso su Journal of Pediatric and Adolescent Gynecology che ha studiato un campione di circa 150 bambine in fase pre-puberale, la forma dell’imene è soggetta a variazioni – può ricordare un anello, forato al centro, o una manica di camicia – avere bordi più o meno frastagliati e presentarsi con una singola o più aperture. Se l’imene possiede forme variabili e il sanguinamento passa dall’essere un riscontro oggettivo a una possibilità, nessun test può essere in grado di comprovare scientificamente la verginità della donna che vi si sottopone.

Nonostante le nuove conoscenze di cui disponiamo, basta una rapida ricerca online per capire che la questione della verginità è ancora al centro di un grande interesse. Sui siti di chirurgia estetica è possibile conoscere i costi e le modalità di intervento per effettuare l’imenoplastica, innumerevoli pagine social si sono specializzate nella vendita di kit per ricrearlo artificialmente o di fialette di sangue finto da versare sulle lenzuola al termine del primo rapporto, per confermare al partner la propria illibatezza.

Il significato e la presenza dell’imene sembra trascendere la dimensione prettamente anatomica per diventare cartina di tornasole di altri significati. Gli stereotipi con cui guardiamo al sesso e, in particolare, quelli che attribuiamo alle donne che decidono di vivere liberamente la propria sessualità suddividono ancora il genere femminile in “sante” e “puttane”. L’importanza che l’immaginario conferisce al mito del primo rapporto sessuale, del sangue e della lacerazione ci ricorda che l’unica sessualità ammessa e riconosciuta è, ancora, quella penetrativa ed eterosessuale.

Il mito della verginità, basato su assunti di cui oggi conosciamo l’inconsistenza, continua a determinare la vita delle donne e a conferire potere agli uomini che hanno il compito di vigilare sulla loro condotta. L’associazione RFSU, che in Svezia si occupa di educazione e benessere sessuale, ha proposto di riferirsi all’imene usando l’espressione “corona vaginale” e ha messo online una guida per fare sensibilizzazione sfatando le leggende che ancora vi ruotano attorno. Nel 2018 l’OMS ha condiviso una dichiarazione in cui chiedeva l’abolizione di qualsiasi tipo di test volto a comprovare la verginità femminile, definendo la pratica una discriminazione e un abuso perché il più delle volte eseguita per motivi politici o sociali e senza il consenso esplicito della donna. 

Non bastano le conoscenze sul piano medico o le piccole rivoluzioni linguistiche per abbattere uno stereotipo così radicato nel tempo e nello spazio. Per cambiare la coscienza collettiva, per guardare al sesso come a un’esperienza umana e non solo maschile, per abbattere la disparità di genere che conferisce agli uomini potere e alle donne responsabilità, ci sono ancora molti passi da fare. Cambiare prospettiva, decostruire i miti con cui siamo cresciute e cresciuti può essere il primo.

ARTICOLO n. 20 / 2023

VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE

E se per una notte, solo una, la parità fosse davvero realizzata?

Inizia così un mio ormai vecchissimo post, ispirato al lavoro del collettivo transfemminista sudafricano chiamato @girlsagainstoppression.

Decido infatti di tradurre un loro sondaggio, previo consenso da parte delle amministratrici della pagina, rivolgendomi a quella immaginaria audience che è il mio Instagram.

Domando dunque alle donne che mi leggono – per donne intendo sempre tutte le donne, da chi si identifica nel genere femminile a chi è una donna trans e a chi è donna cisgender, poiché alcune – molte, troppe – delle discriminazioni che viviamo ci accomunano tutte – e chiedo loro: se per una notte non esistessero la violenza e le discriminazioni, cosa fareste?

Lo chiedo consapevole dell’ondata di vittimismo maschile piccato che riceverò in risposta, ma so esattamente dove voglio andare a parare, posso perfino immaginare e condividere quelle risposte che mi arriveranno a breve.

Premo invio, il post è online. Dopo pochi secondi iniziano ad arrivarmi le notifiche, una dopo l’altra, come un fiume in piena.

Non faccio in tempo a cliccare su una che ne arrivano altre, a decine. 

È come un diario segreto, la storia di una notte immaginaria che tutte, tutte quante, più di una volta abbiamo sognato con gli occhi aperti.

Le risposte sono devastanti.

Vorrei uscire a correre da sola, di notte. Vorrei vestirmi come meglio credo. Farei un viaggio da sola. Andrei in Interrail da sola. Farei finalmente il figlio che non posso permettermi di avere. Chiederei un aumento. Cambierei lavoro. Avrei una cura per la mia malattia. Guadagnerei di più. Non verrei molestata. Da donna nera, non verrei sessualizzata costantemente. Non mi chiederebbero se faccio sesso a pagamento mentre sto facendo la spesa. Non verrei discriminata in quanto donna trans. Non avrei paura a fare la strada da sola. Non metterei il reggiseno. Non avrei paura a denunciare il mio abuser. Andrei in campeggio da sola. Metterei vestiti corti, non sai da quanto vorrei metterli per uscire ma poi non lo faccio mai perché ho paura. Potrei ubriacarmi senza paura. Potrei camminare con gli auricolari mentre passeggio per strada da sola la sera. Non dovrei girare con lo spray al peperoncino in borsa. Prenderei lo stipendio che merito e che mi spetta. Troverei lavoro. Farei coming out senza paura. Mi sentirei felice di essere rimasta incinta. Farei sesso con chi voglio senza rischiare di passare per puttana. Non userei le chiavi come tirapugni. Metterei i tacchi la sera, tanto non dovrei scappare da nessuno. Firmerei un contratto per approfittare del momento e ricevere la stessa paga di un uomo. Passeggerei di notte. Avrei già abortito, ma non trovo medici non obiettori. Cambierei la legge sul congedo parentale. 

Camminerei per strada la notte: chissà come è bella la città piena di lampioni quando non hai paura. 

Come un fiume in piena mi trovo tramortita dalla quantità di messaggi che ricevo: tutti simili, tutti così puri, tutti incredibilmente agrodolci. 

Se li leggesse un alieno che nulla conosce della nostra società penserebbe che siamo un branco di imbecilli o strafatti di LSD. 

Rimango ferma per un po’, fissando lo schermo che continua a riempirsi di notifiche: voci di donne che raccontano stralci brevissimi delle loro vite, ferite sottili come quelle fatte con la carta, millimetriche ma dolorosissime. 

Sento, riesco a percepire la dolcezza di ogni pensiero che si accompagna a doppio nodo con l’amarezza del sapere di non poter fare nessuna di queste cose, vuoi per una logica e giustificabile mancanza di coraggio, vuoi per una impossibilità strutturale, vuoi per una impossibilità politica. 

Annuso un profumo che conosco benissimo: è familiare questo sentimento di sconforto sognante, ha un cuore di rabbia e una nota di fondo di tristezza quotidiana. 

Sono passati più di due anni da quel post e il sentimento che provo ogni volta che mi pongo la domanda con cui ho iniziato questo mio scritto è sempre il medesimo.

Mi sento sognante, ma ho ancora moltissimo amaro in bocca. 

In questi giorni che precedono l’8 marzo – data in cui uscirà il pezzo che sto scrivendo in questo esatto momento – la discussione sui diritti femminili si fa sempre un po’ più calda. E, con il governo Meloni, si è fatta sicuramente più aspra.

Negli anni abbiamo iniziato a lasciarci dietro il concetto di otto marzo come festa in cui le donne entrano gratis nei club, hanno sconti sugli shot – ma da bere rigorosamente senza mani – e possono infilare banconote negli slip degli spogliarellisti. Eppure, quando si parla di otto Marzo si continuano a non comprendere alcune questioni centrali di quella che storicamente è una giornata di lotta, non di gif animate coi glitter da mandare a tutte le donne che si conoscono (che è una variante degli “auguri a tutte le befane”, immancabile tragedia di ogni 6 gennaio).

Eppure, nonostante ci sia stato un significativo miglioramento nel recepire l’importanza di questa data, il tono della discussione è ancora acerbo, e a tratti piuttosto stupido.

Tra le centinaia di commenti sull’inutilità di una festa come questa “visto che la parità è ormai cosa già raggiunta” (ultimo a dirlo, il tassista che mi ha portata a casa lo scorso sabato sera: mi duole ribadire anche a voi che se così fosse non avrei mai usufruito di un servizio così caro per fare due chilometri di notte), vedo anche proclami politici poco incoraggianti in termini di autodeterminazione della donna.

In questo senso è emblematica la copertina dell’ultimo numero di Grazia, uscito qualche giorno fa, che ritrae il presidente del Consiglio Giorgia Meloni – non è misgendering, è che mi andava di rispettare le circolari: sanno essere divertenti, di tanto in tanto – affiancata dal titolo “Ragazze, liberiamo il nostro potere”.

Sorvolando sulla non parzialità dell’informazione offerta da Grazia (la direttrice Silvia Grilli è da mesi che endorsaMeloni dalle pagine di un magazine “femminile” che si vanta spesso di essere super partes), quello che possiamo leggere nell’intervista al presidente del Consiglio è un fotogramma incredibile della percezione della disparità di genere, a oggi. 

Da un lato, Meloni attacca la mono e omogenitorialità facendo leva sul suo personale trascorso di vita: terribile e doloroso, ma da qui a farne un modello per lo Stato mi pare vagamente egomaniaco. Segue subito un trafiletto sull’interruzione volontaria di gravidanza, dipinta come esperienza triste, solitaria e dolente: è una narrazione incredibilmente funzionale, per chi sta cercando di svuotare la legge 194 dall’interno. Poco più avanti, possiamo leggere una lunga riposta sulla prevenzione della violenza di genere in cui Meloni elogia la formazione sul tema a polizia e carabinieri e anche gli interventi legislativi per punire chi commette i crimini previsti dalla legge in materia (per precisare, nessuna di queste cose è prevenzione, bensì risoluzione del danno: prevenzione equivale a fare cultura e offrire lavoro e spazi sicuri, ma nessuna delle due voci è presente nel testo). Sul lavoro femminile, tutto tace. Gender pay gap pure. 

Il punto però più interessante è quello in cui Meloni si aggrappa al femminismo per proteggere le donne.

Le parole che usa il presidente del Consiglio sono le seguenti: «Oggi per essere donna si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l’essenza, la differenza. Le donne sono le prime vittime dell’ideologia gender. La pensano così anche molte femministe».

È un abbraccio alla linea TERF (femminismo transecludente) che fa intuire che la femminilità (qualsiasi cosa questa parola voglia ancora dire, nel 2023) sarebbe in pericolo.

Di cosa, non ci è dato sapere.

Ma a livello propagandistico funziona bene: sarebbero a rischio le facoltà per cui una donna è ritenuta importante, ovvero quelle riproduttive (che poi sono proprio quelle che spesso ci tengono lontane dal mondo del lavoro), carissime alla destra.

Eppure, non esiste niente di più falso.

E le voci che due anni fa mi hanno scritto quei messaggi sulla notte di libertà – perché quando parliamo di parità parliamo sempre, sempre, ostinatamente di libertà – lo sanno bene.

Sanno bene che le parole di Meloni su Grazia sono propaganda fatta per mantenere intatto il sistema di accesso a numero limitato per i diritti civili e sociali. Sanno anche che pubblicare questa intervista è un ottimo tentativo di pesca a strascico tra le file delle donne, magari lontane dagli ambienti di lotta, che vedendo la parola femminismo possono pensare che finalmente la prima donna al governo farà qualcosa per loro.

Ma in uno Stato in cui l’accessibilità all’interruzione di gravidanza sicura e non giudicante è ormai complicatissimo, in cui il lavoro di cura non retribuito ricade ancora sulle donne (per il 74% del totale), in cui il gender pay gap fa guadagnare ancora il 15% in meno degli uomini a parità di impiego e l’accessibilità dei lavori full time è ancora riservata principalmente agli uomini, capiamo bene quanto non ci servano nuovi nemici da incolpare: abbiamo già i nostri e mi sembrano anche piuttosto determinati.

Viviamo in una condizione che è estremamente precaria su ogni fronte, su ogni diritto di autodeterminazione. Il dibattito è molto attivo e le voci di attiviste, intellettuali e scrittrici sono sempre di più.

In questi anni di dibattito sui temi civili e sociali interconnessi al femminismo si è però venuta a creare una netta spaccatura, soprattutto nella destra e in alcuni ambienti del movimento stesso. 

Da un lato è innegabile che si sia fatta luce su alcuni temi che non possono più essere ignorati, ma dall’altro si cerca di tamponare nuove, legittime, importanti richieste di tutela e inclusione semplicemente facendole passare come pericolose. E, nel primo otto marzo di questa nuova destra al governo, appare subito lampante di quanto ancora abbiamo bisogno di una data di lotta come questa. Ma che sia una data di lotta per tutte.

Se infatti rileggiamo bene l’intervista al presidente del Consiglio, vedremo subito quanto sia subdola la promessa di potere che il titolo di copertina vuol far credere. 

Quel potere non viene infatti mai dato alle donne che vogliono abortire, ad esempio: nel testo Meloni promette aiuti a chi vorrà tenere il bambino, non a chi vuole ricorrere con facilità e sicurezza alla propria autodeterminazione. Nel testo non si cita mai la responsabilità politica del mantenimento del soffitto di cristallo, si invitano invece le ragazze (generico ma, vedendo le sue posizioni TERF, molto cisgender) a impegnarsi per distruggerlo, ignorando ovviamente la questione di classe. Glissando sulla monogenitorialità ignora il dolore di tante di noi donne single, che vorremmo procreare o adottare ma non possiamo. E ignora ancora di più le coppie omogenitoriali, contrapponendole alla famiglia naturale. 

La lotta tra “vere donne” e tutte le altre non esiste, perché ogni rivendicazione è profondamente interconnessa e la matrice – sic – è sempre la stessa cultura patriarcale che si nutre di un capitalismo insaziabile che mette in ginocchio le categorie marginalizzate.

Le donne cisgender non hanno nessuna lotta contro le donne trans. Non siamo in pericolo. O meglio, il pericolo non sono le nostre sorelle trans.

Il pericolo è questa sciapa, scialba, stupida propaganda fatta sulle paure ataviche di una classe dirigente vecchia, stantia, bigotta e borghese, che del perbenismo ha fatto il suo marchio di fabbrica.

Senza che ce ne rendessimo neanche troppo conto ci siamo ritrovate a doverci accontentare di carezze e pacche sulle spalle, in un continuo, paternalista e petulante coro di “ragazza, se vuoi puoi”.

Se vuoi, puoi.

Ditelo alle donne trans quando si vedono usare come spauracchio da una fazione politica. O che non vengono assunte. 

O alle persone che vorrebbero abortire in regioni piene di medici obiettori.

Alle madri che non possono far altro che abbandonare il lavoro o alle donne che vorrebbero un figlio ma la loro famiglia è arcobaleno. 

Ditelo a chi vorrebbe uscire di sera senza paura, a chi vorrebbe fare un viaggio serenamente, a chi vorrebbe avere il coraggio di denunciare le violenze subite ma non lo fa perché la cultura è inesistente in questo paese. 

Se non facciamo figli è anche perché non possiamo permettercelo. Se non rompiamo il soffitto di cristallo è perché il mondo del lavoro ci schiaccia e quello familiare ci soffoca, perché il carico non viene diviso (anche per colpa dei congedi di paternità inesistenti). Se le donne muoiono non è soltanto perché mancano leggi, ma perché manca cultura. Se non possiamo permetterci di fare coming out è perché viviamo nella paura. Se non possiamo avere tutele speciali contro i reati d’odio è perché alcune categorie sono ritenute ancora invisibili. E non vederlo è impossibile: i corpi delle donne – tutte le donne, mi piace ripeterlo – sono ottimo terreno di propaganda da secoli. Da sempre.

Sulla nostra vita – e sulla nostra fica: sono tutti ossessionati da ciò che abbiamo o meno nelle mutande – si fanno politica e soldi, come se fossimo merce di scambio.

E sottobanco, con il favore delle tenebre – sic bis – hanno provato a farci credere che volere fosse potere e che le donne fossero di nuovo nemiche delle altre donne, come il vecchio adagio ci insegnava.

Il problema è che adesso noi vediamo benissimo anche nel buio, come gli animali notturni.

Abbiamo abitato con paura nel buio per secoli. 

A forza di stare nel buio, abbiamo adattato la vista alla mancanza di luce.

Per questo, nella merda di questo quadro politico attuale di sotterfugi, mascherati più o meno bene, noi ci vediamo benissimo. 

E sappiamo dunque che dell’otto marzo c’è ancora moltissimo bisogno.

La nostra sempre ostinata ricerca della libertà non ci ha mai fermate.

Il mondo è cambiato, e con lui anche i nomi che diamo ai fenomeni e alle cose (nomina sunt consequentia rerum, lo scriveva Dante nella Vita Nova, che ai tempi era ritenuto un pessimo scrittore proprio per le sue forme lessicali innovative: non ditelo ai puristi della lingua italica, verrebbe loro un coccolone).

E con i nomi e i fenomeni di questo nuovo mondo abbiamo bisogno di nuovo spazio.

E in questo spazio i diritti e i nostri corpi non possono essere usati come mezzo di propaganda di una fazione politica o di un frammento ormai morto di movimento.

I diritti ci rendono libere, non averli ci rende ostinate. 

Occhio a quel soffitto di cristallo, che ve lo buchiamo.

ARTICOLO n. 19 / 2023

IL FEMMINISMO COME LAVORO DI UNA VITA: DEDICA A BELL HOOKS

A cura di Maria Nadotti, traduzione di Camilla Pieretti

Sara Ahmed è attivista, scrittrice e teorica femminista, interessata all’intersezione fra teorie femministe lesbiche e queer con processi di razzializzazione. Durante la sua carriera accademica ha fondato il Centre for Feminist Research e insegnato Race and Cultural Studies al Goldsmiths College di Londra fino al 2016, quando si è licenziata per protestare contro il modo in cui l’università gestiva il problema delle molestie sessuali. Oggi è una ricercatrice indipendente e, fra le altre cose, gestisce un blog dal titolo significativo “feministkilljoys”, da cui – per gentile concessione dell’autrice, che ringraziamo – abbiamo tratto il testo che qui presentiamo in versione italiana: “Femminismo come lavoro di tutta una vita. In onore di bell hooks”. L’originale inglese è stato postato il 20 settembre 2022 su https://feministkilljoys.com/.

Di Sara Ahmed, che ha al suo attivo una decina di titoli su femminismo, colonialità, emozioni, queer e razzismo, è per ora disponibile in italiano solo Vivere una vita femminista (a cura di Liana Borghi e Marco Pustianaz, trad. it. di Matu D’Epifanio, Roberta Granelli, Bea Gusmano, Serena Naim, Edizioni ETS, 2022). Di prossima pubblicazione un suo saggio del 2010, La promessa della felicità (Luca Sossella Editore, 2023) e Il linguaggio della diversità (Fandango Libri, 2023).

Il 3 dicembre 2022 Sara Ahmed ha partecipato al convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi” con un’intervista realizzata in videoregistrazione. Il video, doppiato in italiano, è disponibile sulla pagina Facebook del Giardino dei Ciliegi di Firenze. (Maria Nadotti)

Il “lavoro di una vita” costituisce l’attività principale, se non l’unica, nel corso dell’esistenza o della carriera di una persona. Essere femminista significa fare del femminismo il lavoro della propria vita. Sono profondamente in debito con bell hooks per avermi insegnato tutto questo e molto, molto altro. Questo post è dedicato a lei.

Quando bell hooks è morta non sono riuscita a scrivere di lei, di quanto il suo lavoro abbia significato per me, per gli studenti e le studentesse a cui ho insegnato nel corso degli anni, per coloro con cui condivido un progetto politico e una comunità. Ho letto ciò che è stato scritto da altri, grata che esistano persone a cui il dolore del lutto non toglie la capacità di esprimersi. Nel mio caso ci vuole tempo per far fluire le parole, tempo per arrivare al punto di poter dire qualcosa sulla perdita di qualcuno. Si può perdere qualcuno nel conoscerlo. Oppure si può conoscere qualcuno tramite ciò che ha dato al mondo.

Le parole mi vengono grazie a ciò che tu hai saputo dare al mondo. In Talking Back: Thinking Feminism, Thinking Black, hooks ha scritto di «un modo per catturare il parlato, non lasciarlo andare, tenerselo vicino. Così mi sono annotata spezzoni e frammenti di conversazioni, affidandoli a diari da quattro soldi che in breve si disfacevano per i tanti rimaneggiamenti, esprimendo l’intensità del mio dolore, il tormento del parlare, perché mi trovavo sempre a dire la cosa sbagliata, a fare le domande sbagliate. Non riuscivo a confinare i miei discorsi agli angoli e alle angosce indispensabili della vita. Nascondevo quegli scritti sotto al letto, tra le imbottiture dei cuscini, fra mutande sbiadite» (1988, pp. 6-7). Nella scrittura, nello scrivere, bell hooks si rifiuta di accettare qualunque limitazione. Dissemina le proprie parole, la propria presenza in ogni angolo. Tutta quella intensità deve finire da qualche parte. Le pagine si disfano «per i tanti rimaneggiamenti». Usa quaderni da quattro soldi, quello che ha a disposizione. Se li fa bastare, se la sa cavare. Le pagine si consumano perché sono importanti. Scrivere è il suo modo di sfogarsi, di tracimare, l’intensità del dolore che le riempie, infilate dove può, dove sta, dove vive, sotto il letto, nelle federe dei cuscini, tra la biancheria intima, sotto, tra, fra: ficcate tra i capi più delicati, tra le altre sue cose. Nel nascondere lì i suoi scritti, i suoi pensieri e le emozioni che le si riversano fuori, ciò che sente, «spezzoni e frammenti di conversazioni», trabocca dallo spazio che le è stato dato, dalle preoccupazioni che si suppone che abbia, che le è consentito avere, dagli angoli, i limiti della stanza.

Nell’interrogarci su un mondo che ci limita così tanto, ci facciamo le domande sbagliate.

Negli scritti di bell hooks sulla scrittura, nella sua descrizione di ciò che c’è di usurante nello scrivere, nelle parole, c’è qualcosa di straordinariamente bello. Ma c’è anche molto dolore.

hooks scrive di come si possa essere colti in fallo da chi pensa di aver scoperto qualcosa su di noi leggendo le nostre parole. Racconta come le sue sorelle trovassero quello che scriveva e finissero per «deriderla» (p. 7). Parla del lasciare in giro i suoi scritti come di uno «stendere i panni appena lavati all’aria, sotto gli occhi di tutti» (p. 7). Si noti che non dice “panni sporchi”, espressione spesso usata per riferirsi allo sbandierare segreti in pubblico. I suoi sono panni appena lavati, appesi sotto gli occhi di tutti dopo che ci ha già lavorato sopra. Quando scrivere è un lavoro, lo si fa per dare spazio alle proprie parole, per mettersi in gioco. È comunque un modo di esporre qualcosa, qualcuno, questo arieggiare, questo rendere il proprio mondo interiore vulnerabile allo sguardo altrui.

Protendersi verso l’esterno può voler dire tornare indietro nel tempo, uscire allo scoperto facendo leva su chi è venuto prima di noi. hooks racconta come, da giovane ragazza nera, ha dovuto imparare a non cedere terreno, a sfidare l’autorità genitoriale, a rispondere. Inoltre, descrive come è arrivata ad assumere la propria identità da scrittrice: «Uno dei tanti motivi per cui ho scelto di scrivere sotto lo pseudonimo di bell hooks, un nome di famiglia (madre di Sarah Oldham, nonna di Rosa Bell Oldham, mia bisnonna)» (p. 9). Scegliere uno pseudonimo può essere un modo per rivendicare un’eredità nera femminista. I discorsi ribelli un altro. Altrove, hooks spiega che la nonna era «nota per la lingua audace e scattante» (1996, p. 152). Scrivere può essere un modo per rispondere, ma anche per riprendere qualcosa, essere audaci e scattanti nel recuperare le fila di una storia.

In Talking Back, hooks parla anche della memoria, condividendo un ricordo sul modo di ricordare della madre: «Mi è tornato in mente il “baule della speranza” di mia mamma, con quel meraviglioso odore di cedro, e ho ripensato a quando prendeva gli oggetti più preziosi e li riponeva al suo interno per tenerli al sicuro. Certi ricordi per me sono altrettanto pregiati. Vorrei poterli mettere da qualche parte per tenerli al sicuro» (p. 158). Un odore è in grado di viaggiare nel tempo e di far rivivere in noi delle memorie quando lo annusiamo. Un oggetto ci aiuta a trattenere i ricordi, li conserva per noi, perché ci possiamo ritornare. Per hooks, ciò che ricordiamo non è sempre chiaro o neppure vero. Dice di ricordare «un carretto che io e mio fratello abbiamo condiviso da bambini» (p. 158). Ma poi aggiunge che secondo la madre «non c’era mai stato nessun carretto. Quella che condividevamo era una carriola rossa». 

Un carretto, una carriola rossa. La domanda non è quale fosse l’oggetto giusto. Le cose tendono ad acquisire colori e forme diverse a seconda di tanti fattori. Nella scrittura è lo stesso: gli oggetti acquisiscono colori e forme diverse a seconda di tanti fattori. Uno può essere una carriola rossa o un carretto. La domanda non è quale dei due. A volte, allentando la presa sulle cose (e su noi stessi) infondiamo loro vita. In una conversazione con Gloria Steinem, bell hooks si descrive circondata dai propri oggetti preziosi, oggetti femministi. Sono la prima cosa che vede quando si sveglia. Dice: «Gli oggetti della mia vita mi chiamano». E aggiunge: «[ho] Litania per la sopravvivenza di Audre Lorde proprio di fronte quando mi alzo dal letto; ho tante bellissime immagini di donne che mi guardano nel corso della giornata».

Il femminismo diventa un modo di crearsi il proprio orizzonte, di circondarsi di immagini che ci rimandano qualcosa di vero e prezioso sulla vita che stiamo vivendo o che abbiamo vissuto.

Una storia di sopravvivenza, di perseveranza, anche di amore.

Anche scrivere, ci dimostra hooks, può essere il nostro modo di circondarci.

Scriviamo per darci alla luce. Scriviamo, in compagnia. Scriviamo per reagire a un mondo che, in un modo o nell’altro, ci rende difficile esistere alle nostre condizioni. Quando penso a quel che ci vuole per scrivere per reazione, a chi ci vuole, penso a quanti, prima di noi, hanno contribuito ad aprire delle strade che potessimo seguire. E penso a te. Trovarti può essere una vera fortuna. A volte mi toglie il fiato pensare a quanto poco ci voglia per mancarsi.

Scriviamo perché ci manca qualcosa. Scriviamo per aiutarci a ritrovarci l’un l’altro. Nel riflettere sul suo irrinunciabile libro Il femminismo è per tutti, bell hooks racconta come il suo impegno verso il femminismo sia maturato nel corso di tutta una vita. La prefazione alla seconda edizione comincia con la frase: «Dedita da più di quarant’anni alla teoria e alla pratica del femminismo, sono orgogliosa di affermare che il mio impegno nei confronti di un movimento femminista, rivolto a sfidare e cambiare il patriarcato, si è fatto ogni anno più risoluto» (2014, p. 15). Trovo molto bello che tu non abbia scritto «il movimento femminista» ma «un movimento femminista». Senza «il» si riesce a sentire il movimento. Penso a quanto sia incoraggiante per noi che tu abbia condiviso questa testimonianza. Mi hai insegnato che si può trovare una via in mezzo alla violenza di questo mondo, ribadendo il nostro impegno a cambiarlo. Portare avanti (o persino intensificare) la nostra attività a sostegno del femminismo è un atto politico, considerato che ciò che noi mettiamo in discussione e cerchiamo di cambiare altri lo difendono, altri che hanno le risorse per trasformare la propria difesa in un ordine. Esprimere la propria adesione ai principi femministi ha delle implicazioni che durano tutta la vita, perché si finisce per essere in contrasto con tante cose e persone. Mi hai insegnato anche che essere «in contrasto» non riguarda solo ciò che è doloroso o difficile, ma può essere anche un’apertura, se non addirittura un invito. In fondo è così che hai definito l’essere queer, come un «contrasto». Quello che può sembrare il lato negativo della critica, nominare ciò a cui siamo contrari, mostrare come la violenza sia implicata nelle forme culturali più amate, così diventa un modo costruttivo di fare spazio, per permetterci di vivere in un altro modo.

Nel raccontare la storia del suo impegno lungo una vita nei confronti del femminismo come di una politica con cui cambiare il mondo, bell hooks si rivolge a noi, al suo pubblico. Sottolinea che i suoi libri, per quanto «poco recensiti», hanno comunque «trovato un pubblico». Si dice «sbalordita» che il suo lavoro «trovi ancora lettori, che educhi ancora alla coscienza critica» (p. 16). Se un libro femminista non viene recensito dai giornali ad ampia diffusione né esposto nelle vetrine delle librerie perché dissidente e progressista, come lo si trova? hooks sostiene che i suoi libri si siano diffusi tramite «passaparola» o perché «adottati come libri di testo». Io l’ho scoperta proprio così. Una delle sue opere ci è stata assegnata durante un corso che ho frequentato nel 1992 (l’insegnante che ce l’ha assegnata si chiamava Chris Weedon, grazie Chris per avermela fatta conoscere). Così, tramite il passaparola o i corsi femministi, i libri di bell hooks hanno trovato i loro lettori e ci hanno salvato la vita.

Il modo in cui si scopre bell hooks è legato a ciò che lei ha da insegnarci. Scoprire il femminismo non significa seguire le strade convenzionali che portano a un premio, a un riconoscimento. Tu definivi il femminismo come «un movimento per mettere fine al sessismo, allo sfruttamento e all’oppressione sessuale» (2000, p. 33). Una definizione estremamente istruttiva. Il femminismo è necessario per combattere ciò che ancora persiste: sessismo, sfruttamento e oppressione sessuale. In più, per hooks, «sessismo, sfruttamento e oppressione sessuale» sono un tutt’uno con il suprematismo bianco e il capitalismo. Ecco perché è importante continuare a dare un nome a ciò a cui ci si oppone. In Outlaw Culture, hooks fa uso del termine «patriarcato capitalista suprematista bianco» per ben diciotto volte! Per forza poi mi hai ispirato a diventare una guastafeste. Gli hai dato un nome, cogliendo nel segno, ogni singola volta!

Cogliere nel segno può avere un costo. Ripenso a quanto hooks si sia stupita che i suoi libri abbiano trovato dei lettori. In quel suo stupore si può intravedere la storia di ciò che bell hooks non ha fatto per “trovare” il suo pubblico. In un dialogo aperto con Marci Blackman, Shola Lynch e Janet Mock alla New School nel 2019, hooks ha dichiarato: «Dico ai miei studenti: decolonizzate. Ma decolonizzare ha un prezzo. Non si diventerà mai ricchi. Non si riceveranno premi per geni finanziati dai militaristi e imperialisti della fondazione MacArthur». hooks ci tiene a chiarire che non ha nulla contrario verso coloro che accettano quei premi, ma che vuole solo sottolineare come decolonizzare la nostra dipendenza sia un modo per crearsi i propri standard di vita. Ricevere finanziamenti, premi o borse di studio da organizzazioni che devono il proprio potere a un sistema che critichiamo significa accettare una limitazione. Persino quando pensiamo di riuscire ad aggirare il sistema è difficile non finire a darsi da fare per far girare il sistema. Tu mi hai insegnato che per cambiare il sistema bisogna impedirgli di funzionare. Penso a quanto ci costa, al prezzo da pagare per ciò che facciamo.

Il femminismo può diventare un modo per evitare di pagare quel prezzo. Bisogna trovare un’altra strada. Penso a come le critiche di bell hooks al femminismo bianco ci abbiano offerto tanti strumenti, come per esempio la critica alla soluzione di Betty Friedan all’infelicità delle casalinghe, il «problema senza nome» (senonché, ovviamente, tu un nome glielo hai dato). Hai scritto: «[Friedan] non ha spiegato chi verrebbe chiamato a prendersi cura dei bambini e della casa se ad altre donne come lei venisse consentito di lasciar perdere i lavori domestici e di accedere alle professioni lavorative al pari degli uomini bianchi» (2000, pp. 1-2). Mi hai insegnato anche a «fare della teoria femminista» nel riflettere su cosa succede quando si «fa del femminismo». Hai scritto: «Un gruppo di attiviste femministe bianche che non si conoscono può partecipare a un incontro per discutere delle teorie femministe, sentendosi legato dalla condivisione della condizione femminile. L’atmosfera, tuttavia, cambia radicalmente se nella sala entra una donna di colore. Le donne bianche diventano più tese, meno rilassate, meno festose» (2000, p. 56). Questa descrizione rivela una straordinaria capacità di comprendere ogni cosa. Basta che una donna di colore entri nella stanza perché l’atmosfera si faccia tesa. Un’atmosfera sembra quasi sempre intangibile. Se però si è causa di tensioni, quella stessa atmosfera può diventare un muro. La donna di colore finisce per sentirsi esclusa dal gruppo, un intralcio a una solidarietà verosimilmente condivisa.

Esistono molti modi per essere esclusi da una conversazione. Tale esclusione aiuta a dare una sensazione di unità. Il fatto che alcuni spazi femministi vengano percepiti come più uniti di altri può essere la misura di quante persone ne sono tagliate fuori. Tu mi hai insegnato a notare chi manca, che è il nostro modo di diventare guastafeste, di opporci all’occupazione dello spazio.

Mi hai insegnato a volermi mettere in mezzo.

Mi hai insegnato a insegnare.

Insegnare è il nostro modo di imparare, ma anche il nostro modo per cambiare le cose. Scrivi dell’insegnamento come di un modo per dare forma al cambiamento sociale, come della «pratica della libertà […] che ci consente di vivere appieno, liberamente» (1988, p. 172). Ho sempre presentato le tue opere nei miei corsi. L’ho fatto per tutti gli anni in cui ho insegnato, osservando gli studenti venire trasformati da ciò che apprendevano. Spesso abbiamo letto il tuo articolo «Eating the Other». L’ho anche usato come ispirazione per uno dei miei primi libri, Strange Encounters, in un capitolo dal bizzarro titolo «Going Strange, Going Native». Tu scrivi: «La mercificazione dell’Alterità ha avuto successo perché la si è presentata come un piacere tutto nuovo, più intenso e soddisfacente del nostro classico modo di fare e sentire. Nella cultura del commercio, l’etnicità è una spezia, un condimento utile a dare sapore a quel piatto insipido che è la cultura bianca mainstream» (1992, p. 21). L’etnicità come spezia è forse una delle descrizioni più azzeccate di come funziona il razzismo nella cultura consumista. Con quell’articolo mi hai insegnato a teorizzare la bianchitudine, quel suo modo di non essere solo un’assenza ma una neutralità, un piatto insipido, per cui le persone di colore diventano spezie, supplementi, sapori, qualcosa da aggiungere, da metterci sopra.

Non hai mai smesso di trasmettermi insegnamenti.

Te l’ho mai detto?

Non ho mai comunicato direttamente con bell hooks. Un giorno le ho inviato un messaggio scrivendo al suo editore, South End, nel 2009. Il testo recitava: «So che avete pubblicato le opere di una delle studiose e attiviste contemporanee che ammiro di più: bell hooks. Io stessa sono una femminista di colore che opera all’interno e dall’interno dei contesti inglese e australiano. Le opere di bell hooks hanno avuto una forte influenza sul mio lavoro, in particolare sul mio libro Strange Encounters (2000), che riprende la sua splendida critica dell’esoticizzazione dell’alterità. È stato un privilegio, oltre che un piacere, poter lavorare sulle sue opere». Mi hanno detto che ti avrebbero trasmesso il messaggio, ma non so se lo abbiano fatto davvero. Vorrei averti scritto ancora. In ogni caso, penso che avesse più senso comunicare con te tramite scritti indirizzati non alla tua persona ma a «un movimento femminista».

Noi siamo quel movimento.

È stato solo durante la stesura di Vivere una vita femminista che ho percepito fino in fondo la profondità del mio debito nei tuoi confronti. Quel libro portava le tue impronte su ogni pagina, segno di ciò che io ero riuscita a fare grazie a ciò che tu ti sei adoperata a mostrare, a ciò che hai lasciato sotto gli occhi di tutti. Ricordo di aver messo il tuo nome in cima all’elenco degli studiosi che speravo di coinvolgere nella promozione del libro, senza immaginare che potessi accettare. La prima volta che ho letto le tue parole sulla mia opera sono quasi caduta dalla sedia. Sapere che non solo l’avevi letta, ma l’avevi anche caldeggiata, mi ha commosso profondamente. Poi il mio editore ha deciso di mettere una tua frase in copertina.

Diceva: «Un libro che tutti dovrebbero leggere».

Vedere quella copertina mi provoca ancora oggi una profonda emozione, perché ogni volta che la guardo vedo il tuo nome. La guardo e vedo te. Sto per mandare alle stampe un altro libro, The Feminist Killjoy Handbook [Guida pratica per guastafeste femministe], sempre rivolto al movimento femminista. Tu fai capolino in ogni pagina, soprattutto nel capitolo su come sopravvivere come guastafeste, sulle guastafeste femministe come poetesse, le guastafeste femministe come attiviste. Quell’ultimo capitolo è dedicato a te.

Ci sono molti modi di trasmettere per iscritto il nostro amore per il mondo che siamo abbastanza audaci da desiderare l’una per l’altra.

Grazie, bell, per quello che mi hai aiutato a vedere.

Per essere abbastanza audace da desiderare.

Da una guastafeste all’altra,

Sara


Bibliografia

hooks, bell (2014), Il femminismo è per tutti: una politica appassionata, trad. di Maria Nadotti, Tamu, Napoli 2021.
hooks, bell (2006), Outlaw Culture: Resisting Representations, Routledge, New York.
hooks, bell (2000), Feminist Theory: from Margin to Centre, Pluto Press, London.
hooks, bell (1996), «Inspired Eccentricity: Sarah and Gus Oldham» in Sharon Sloan Fiffer e Steve Fiffer (a c. di), Family: American Writers Remember Their Own, Vintage Books, New York.
hooks, bell (1992), Black Looks: Race and Representation, South End Press, Boston.
hooks, bell (1988), Talking Back: Thinking Feminism, Thinking Black, South End Press, Boston.

ARTICOLO n. 18 / 2023

L’ULTIMO BLOCKBUSTER SULLA TERRA

In Oregon è rimasto l’ultimo Blockbuster della terra. Un tempo questo colosso colonizzava col suo servizio di noleggio ogni città sufficientemente grande da poter contenere abbastanza appassionati di cinema, ma l’arrivo delle piattaforme di streaming ha via via eliminato questo gesto intimo e collettivo, la voglia di recarsi in un luogo, prendersi il tempo giusto e scegliere due o tre pellicole da fagocitare in una manciata di giorni. Però il Blockbuster Bend esiste e resiste, diventando un luogo quasi sacro nel tempo come lo fu l’Oracolo di Delfi: persone da tutto il mondo si recano in pellegrinaggio per replicare quel gesto nostalgico e famigliare o semplicemente per provare il brivido della prima volta. Durante il Super Bowl è andato in onda uno spot ambientato in un futuro post apocalittico in cui tutto è morto e polveroso, ma il Blockbuster Bend ancora vive e insiste nel perpetuare quel gesto: raccolgo la custodia vuota dallo scaffale, mi reco al bancone e in cambio mi viene fornita la pellicola che dovrò inserire obbligatoriamente in un lettore DVD se non addirittura in un VHS. Quale sarebbe il vostro ultimo film? Questa domanda mi risuona con lo stesso fastidio e la stessa apprensione di quando mi chiedono una classifica dei lungometraggi che ho amato di più. Sono quelle liste che rassicurano e trovano spesso una sistemazione comoda nelle somiglianze e nelle differenze che riscontriamo quando misuriamo noi stessi con le storie che ci hanno cambiato la vita. Allo stesso tempo, però, sono anche richieste leggere che non tengono conto della dimensione emotiva e privata, quel battito sordo in fondo al ventre, il posto in cui dormono tutti i racconti che in qualche modo per noi hanno significato cambiamento, aggiunta, una nuova coperta con cui avvolgersi di notte, la luce accesa sul comodino perché non sai mai che mostri possono nascondersi dentro l’armadio. Però continuo a pensare a quel Blockbuster, e se ormai ho rinunciato a scegliere un solo film per la mia notte, la parte che preferisco di questa intrusione dall’Oregon è senza ombra di dubbio la finestra spalancata sul videonoleggio che ha cambiato la mia vita.

Dovete sapere che la mia storia con i film è iniziata prestissimo, complice un padre che mi ha trasmesso quell’amore puro per le storie e un negozietto di Maranello che ogni venerdì riusciva a trovare almeno tre titoli in grado di stuzzicare la curiosità del mio vecchio. Quando tornava a casa dal lavoro faceva sempre finta di essersi dimenticato di fermarsi al videonoleggio mentre io gli saltavo intorno, smaniosa di sapere che cosa avremmo guardato nel weekend. Era un momento magico, oggi posso definirlo così con consapevolezza, perché come potrei spiegare diversamente quel movimento curioso che seleziona una storia basandosi su pochi elementi e che la fa sedimentare nel tempo e nello spazio per anni e anni, facendoci imparare a memoria battute e formule, mimare gesti e intere scene, cercare nel mondo reale quello che abbiamo visto trasmettere da un televisore? I più cinici diranno che non è magia, ma sono i neuroni specchio che impongono un processo di identificazione e che, queste nuove facce, noi le indossiamo per essere un’ipotetica versione migliore o per diventare completamente qualcun altro. Così nel tempo sono stata la Morgana di Excalibur (1981), la Deborah di C’era una volta in America (1984), Mia Wallace in Pulp Fiction (1994), la Jenny che urla in mezzo al Campidoglio per Forrest Gump (1984) e Laura Palmer, Shelly Johnson e Audrey Horne a seconda di come mi alzavo alla mattina nella mia personale Twin Peaks. I miei genitori non hanno mai posto troppi veti su quali film o meno avrei potuto guardare con loro, tanto meno sulle serie e gli sceneggiati che agli inizi degli anni ‘90 andavano ancora fortissimo in RAI. Non avevamo nemmeno un genere preferito, da validissimi spettatori assoluti guardavamo qualsiasi cosa, ed eravamo capaci di passare dalle musiche straordinarie de Il segreto del Sahara alla penna di Pupi Avati per Voci Notturne, una miniserie diretta da Fabrizio Laurenti che ancora oggi disturba il mio sonno. Ecco, in mezzo alla meraviglia dobbiamo riconoscere che il prezzo da pagare per una vita da spettatrice libera fin dalla prima infanzia è il bagaglio di incubi in agguato nei periodi di maggiore stress.

Tutte le storie che entrano dai nostri occhi creano fotogrammi che si agganciano a frammenti di emozione ancora in costruzione. Quando guardiamo un film o una serie TV si creano dei ponti tra noi e i personaggi dello schermo, e passeggiandoci sopra abbiamo il potere di indossare quelle maschere o metterle in bocca e masticare, ingoiare e digerire fino a renderle profondamente parte di noi. Crescendo e studiando ho capito che certamente la visione ha un potere emotivo, comportamentale ed economico enorme, spesso sottovalutato o sminuito, non solo sui singoli, ma anche sulla performance collettiva che ne scaturisce. Per quanto mi riguarda, ho ricordi vivissimi dell’estate 1991. Nonostante il caldo afoso sono certa di aver dormito con la coperta fino alle sopracciglia, abitudine che ho ancora oggi, e con le ascelle adese al corpo, stringendole fortissimo, per paura di essere morsicata. Avevo appena finito di leggere IT di Stephen King dopo aver guardato il film di Wallace con i miei genitori. Vorrei dirvi che crescendo le cose sono migliorate, in realtà ho solo capito che quella visione in me ha creato una scatola caricata a molla e che nei momenti di forte stress il coperchio si spalanca nella notte e fa uscire un pagliaccio con i denti lunghissimi che punta dritto alla mia ascella destra. Se è vero, però, che i prodotti audiovisivi non fanno morti, è anche vero che diventa fondamentale, nell’era dei social network, fermarsi sulla Vista come senso che distrugge e costruisce, entra ed esce, chiude e apre, generando piccoli spifferi o grandi correnti.

Nella storia dell’Occidente sono stati sterminati popoli interi a causa della Vista, sono stati emulati comportamenti omicidi, sono stati propagandati messaggi all’inconscio, senza consenso, e lavati più cervelli che medaglie apposte sulle divise. Secondo Michel Foucault è proprio attraverso gli occhi che riceviamo l’educazione più rigida su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, messaggio che viene veicolato dal modo in cui dividiamo i corpi in sani e malati, innocenti e colpevoli, conformi e non conformi. Il Blockbuster Bend e la mia prima pellicola sono parzialmente consapevoli di questo passaggio, perché la superficie economica è molto più spessa di quanto sia forte l’analisi socioculturale sottostante. Quando le storie raggiungono i nostri occhi si portano dietro comportamenti che noi potremmo adottare, modi di dire e di pensare, ma anche un’industria che vive esattamente di questa miscela tra noi e quello che vediamo. Il processo educativo e performativo della visione ha sempre un cuore economico, se non altro perché così è strutturata la parte di mondo in cui viviamo. Può essere un guadagno monetario immediato o a lungo termine, oppure la creazione di abitudini e consuetudini che, nel tempo, diventano terreno fertile per altre pratiche di guadagno che ancora devono essere inventate e che, a loro volta, saranno sfruttate nel qui-e-ora oppure si trasformeranno in un nuovo trampolino di lancio. La cosa vera è che quelle storie ci arrivano veicolate dai corpi rappresentati, e che questi involucri non sono semplici insiemi di cellule epiteliali e vasi sanguigni, ma una maschera semantica che attraversa la nostra pelle e instilla inevitabilmente qualcosa che può essere innescato o sfruttato da altre persone per ottenere qualche vantaggio. Non ho tardato molto a capire, per esempio, che il mio corpo sugli schermi non ha valore se non quando deve essere l’involucro del cattivo della storia, manifestare povertà estrema e isolamento, fare da stampella muta al protagonista o alla protagonista della storia. Il mio corpo è il mostro delle storie che preferisco, qualcosa di oscuro e maligno che deve essere sconfitto e risolto, annientato e silenziato. Mentre attacco il cavo HDMI al lettore Blu-Ray e faccio partire Buio Omega per la millesima volta penso a Phineas Tylor Barnum e alla sua gallina dalle uova d’oro, quello che lui decantava come The Greatest Show on Earth e probabilmente aveva anche ragione: il Freak Show

Nella seconda metà dell’Ottocento, a ridosso della seconda Rivoluzione Industriale, il Corpo riveste un ruolo sociale consolidato: dimmi cosa indossi e ti dirò chi sei. A seconda della forma del corpo, dei vestiti, del peso, dell’altezza, della mobilità, del colore della pelle, del sesso esibito, le persone potevano essere associate a precise categorie sociali. In realtà, il corpo ha sempre svolto questo ruolo perché primo baluardo a servizio, appunto, del senso della Vista. Ma nel corso dell’Ottocento l’acuirsi di trattazione politica e le filosofie sul lavoro e sul salario e i moti del 1848 e la crisi incontrovertibile dell’aristocrazia mettono la borghesia nella posizione favorevole per ereditare il potere della nobiltà – e con essi anche tutti i vincoli per mantenere quel potere – restando a contatto col popolo e non chiusa dentro la corte di un palazzo. Questo passaggio del potere dalle mani di un cerchio significativamente chiuso a una classe sociale larga e diffusa, a contatto diretto con le categorie più povere, impose la Vista come strumento atto a identificare, catalogare, sorvegliare e punire chiunque fosse considerato esterno al sistema stabilito di norme. In questo contesto storico trova terreno fertilissimo la monetizzazione della non conformità, un’operazione poderosa di marketing sociale in cui la legge della domanda e dell’offerta non è solo economica, come dicevamo prima. I Freak Show rappresentano la coperta di Linus di una classe sociale che paga per vedere la diversità trattata come un fenomeno da circo, l’esposizione circense di corpi considerati devianti che vengono ridotti a oggetto di divertimento per chi mantiene invece l’ordine stabilito dai poteri. Nelle fiere e nei luna park, persone con caratteristiche fisiche fuori dalla norma vengono esposte e usate per spettacolarizzare il mostruoso e renderlo remunerativo, certo, ma anche pedagogico nei confronti del pubblico: chi oserebbe mai non seguire rigorosamente i diktat sul corpo sapendo che una briciola di deviazione potrebbe portare loro a divenire bestie da esibire e umiliare pubblicamente? 

La parte, però, più interessante di questo fenomeno fu effettivamente il modo in cui andò a evolversi una volta sgonfiata la curiosità per la novità. Nel 1872 Barnum decise di lasciare New York, in cui inizialmente sostava il suo spettacolo, e di renderlo itinerante. In quel momento, buona parte dei materiali in vitro e collezionati a sostegno dello spettacolo furono donati alla Smithsonian Institution di Washington e alla Tuff University, contribuendo alla revisione della teratologia, lo studio della mostruosità: da disciplina di supporto per studi biologici e medici a brand strategy per l’attività museale e non solo. I Musei di Anatomia Comparata rivedono le loro collezioni e iniziano ad avere focus specifici sui corpi che maggiormente possono attirare l’attenzione del pubblico pagante. Ci sono teche piene di alcol con dentro feti fatti a pezzi, raccolte embriologiche complete dall’uovo fecondato al formato del nono mese di gravidanza, tanti preparati anatomici degli organi vitali, sezioni longitudinali e trasversali di corpi umani adulti. E poi ci sono i corpi interi, i mostri. Il rapporto tra le didascalie e le immagini è un esercizio di sapere e di potere del sapere perché, se alla vista abbiamo un mostro, le parole sono mutuate dalla medicina e acquisiscono criterio di veridicità. Guardiamo i mostri, ma siamo alleggeriti da eventuali turbamenti perché ci stiamo facendo una cultura. E funziona. Funziona fino alla nascita dei social network, che su questo principio del corpo da guardare e da incamerare come oggetto del nostro piacere senza alcuna coscienza sociale hanno costruito un impero e un inferno. 

Nelle scorse settimane molte persone hanno parlato del “trend delle ragazze col sondino” un naming affascinante e deleterio a sua volta per intendere ore e ore di dirette di ragazze vittime di anoressia nervosa e dei comportamenti degli utenti, dei genitori e del personale medico a riguardo. In alcuni casi si è arrivati a parlare di narcisismo delle ragazze che, ottenendo attenzione, ne vogliono sempre di più, ma anche di colpevolizzazione dei genitori che assecondano e promuovono questi spazi in cui le ragazze mangiano, per esempio, in diretta e gli utenti sotto applaudono o scherniscono. Eccolo, il Freak Show. Ci sono due aspetti non trascurabili quando si cerca di fare analisi sociali di questo tipo: 1) studiare e storicizzare il qui-e-ora sociale perché non ci interessa il gossip, ma la dinamica generale e imperitura del mondo in cui viviamo che non è spuntato in una notte ma in secoli 2) non trasformarci a nostra volta in Barnum, sfruttando i corpi altrui per portare avanti il nostro show personale. La dinamica che sottende ai trend di Tik Tok ha un’origine ben precisa nella Vista e nel potere che attribuiamo a questo senso, sia come mittenti che come destinatari. Così, il corpo che si mostra vuole essere visto non per narcisismo, ma per ingannevole necessità prodotta dal disturbo di cui è vittima. Ci sarebbe un enorme discorso sul reale consenso in questo senso, ma criticare l’agency delle persone demandandola completamente ai genitori o alle persone vicine non funziona perché, se da un lato abbiamo un disturbo grave del comportamento alimentare capace di uccidere le persone, dall’altro abbiamo persone non preparate a gestirlo e in totale improvvisazione. Mancano le strutture sanitarie adeguate, gli interventi domiciliari, i processi educativi per tutte le generazioni, non solo per le persone più giovani, perché di fronte a questi corpi tutti quanti – ripercorrendo le stesse dinamiche cognitive del pubblico del Freak Show – proviamo stupore e superiorità. Questo è quello che accade quando la Vista svolge il ruolo di selezionatore del nostro interesse perché in realtà non compie solo questa procedura, ma stabilisce un dentro e un fuori dal nostro perimetro. E visto che selezioniamo quel perimetro sulla base del nostro gusto personale, pensiamo non solo di avere una voce in capitolo, ma anche il potere di sottomettere quello che vediamo al nostro volere. Così il passaggio da corpo in esposizione a corpo che fa cose per soddisfare il pubblico è innescato dallo stesso filo che sorveglia e punisce, sottomette e plasma, educa e forma i corpi dall’inizio della loro rappresentazione. 

Il movimento che effettua il pubblico non è nulla di diverso dal gesto intimo e nostalgico riportato alla mente da quel Blockbuster Bend: sfogliamo una copertina dopo l’altra, ne selezioniamo una che potrebbe soddisfare il nostro sguardo e il nostro gusto, la appoggiamo sul bancone e aspettiamo di ricevere in cambio qualcosa da fagocitare in una manciata di giorni. Poi torniamo, riportiamo quanto ci avevano dato perché ha già finito il suo tempo e passiamo alla prossima. Alla prossima pellicola, al prossimo mostro, al prossimo trend.

ARTICOLO n. 17 / 2023

ANNA ACHMATOVA ERA BRAVISSIMA, A NON SAPERE LE COSE

Pubblichiamo un estratto dal volume di Paolo Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, dedicato ad Anna Achmatova, in questi giorni in libreria per Mondadori (che ringraziamo per la disponibilità).

12.1 Dire il rosario 

Nel 1914 esce la seconda raccolta di poesie, di Anna Achmatova, che si intitola Rosario

Dice Amanda Haight che Rosario ha ancor più successo di Sera, e che fa diventare Anna Achmatova uno dei più grandi poeti russi. C’è un gioco che diventa popolare in Russia: dire il rosario; uno comincia una poesia dell’Achmatova, l’altro la finisce.

Ol’ga Černen’kova scrive che il marito, Nikolaj Gumilëv, cominciano a chiamarlo Nikolaj Achmatov, e loro, come coppia, gli Achmatovy. 

12.2 L’Italia 

Una delle poesie di Rosario si intitola Venezia. Dice: 

Dorata colombaia sullacqua Tenera e verde languido;
Un venticello salato spazza
Le scie sottili delle barche nere. 

Quanti teneri, strani volti tra la folla.
In ogni bottega giochi luccicanti:
Un leone col libro su un cuscino ricamato; Un leone col libro su una colonna di marmo. 

Come su unantica tela scolorita
Si indurisce il cielo grigiazzurro…
Ma non si sta stretti in queste strettezze, Non c’è caldo in questa afosa umidità. 

Viene in mente il libro di Pavel Muratov, Immagini dell’Italia, la parte in cui Muratov scrive che, a Firenze, le pietre sembrano più leggere che in qualsiasi altre città del mondo, che quando l’ho letto ho pensato “Ma coglione, te abiti a trentacinque minuti di treno da Firenze, cosa aspetti ad andarci”. È stupefacente la passione che hanno i russi per l’Italia.

Anna Achmatova studia l’italiano per leggere Dante in originale. Nella poesia La musa, del 1924, chiede, alla musa, «Sei tu che hai dettato a Dante le pagine dell’Inferno?», e la sua musa risponde «Sì». E quando, anni dopo, degli studenti stranieri le chiedono se legge Dante in originale, Anna Achmatova risponde «Non faccio altro». 

Anche Mandel’štam, come sappiamo, studia italiano per leggere Dante e gli piace moltissimo il modo in cui noi usiamo la lingua quando parliamo, la lingua fisica, la nostra lingua, il modo in cui la spingiamo contro i denti davanti, e dice che l’italiano è «la più dadaista delle lingue romanze», e si chiede quanti sandali ha consumato Dante per scrivere la Divina Commedia che a me, io non sono un poeta, ma questa mi sembra proprio una domanda tra poeti, uno russo e uno italiano. 

E Dostoevskij, quando, quindicenne, arriva a Pietroburgo, scrive al padre, che è rimasto a Mosca, che il clima, a Pietroburgo, è “meraviglioso, italiano”; non è mai stato in Italia, ma, per lui, quindicenne russo negli anni Trenta dell’Ottocento, italiano è sinonimo di meraviglioso. 

Il protagonista di uno dei grandi romanzi dell’Ottocento, Bazarov, dice che dei russi gli piace in particolare «la pessima opinione che hanno di sé stessi» (il romanzo è Padri e figli, di Turgenev), che è una cosa che noi italiani, secondo me, capiamo benissimo, ma se la loro relazione con sé stessi è così critica, è stupefacente, per un italiano, accorgersi dell’ottima opinione che hanno di noi, del fatto che, a loro, sembriamo «meravigliosi».

12.3 Il visto 

Quando chiedi il visto per la Russia devi mandare all’ambasciata, con il passaporto, una foto dove non sorridi; devi guardare serio in macchina e dev’essere una foto che hai fatto negli ultimi sei mesi. E io ho fatto così, ho fatto una foto seria, e l’ho mandata. Io nelle foto, tra l’altro, non sorrido quasi mai. 

Dopo qualche giorno mi hanno scritto che la foto non andava bene perché sembrava uguale a quella del passaporto, che risaliva al 2019. Era una foto di quattro anni prima quando pesavo quindici chili in più. Avevo una camicia blu col colletto, mentre in quella nuova avevo una camicia blu senza colletto. Comunque, mi hanno fatto sapere dall’ambasciata, non era solo quello, era da correggere anche il visto che mi aveva fatto il Museo Achmatova. Non avevano scritto di che sesso ero. Bisognava aggiungere il sesso. 

Ho scritto al Museo Achmatova, gli ho chiesto di aggiungere, nel loro invito: «Sesso: maschile». 

E ho rifatto le foto con una camicia azzurra. Non mi metto mai le camicie azzurre, per fare le foto per l’ambasciata russa mi sono messo una camicia azzurra. 

12.4 Situazioni difficili 

Secondo Ol’ga Černen’kova, nell’aprile del 1914 Anna Achmatova si viene a trovare in una situazione difficile, delicata. 

Ha avuto una relazione con il giovane compositore futurista Artur Lur’e, e è rimasta incinta. 

E decide di non avere il bambino. 

Quando, l’11 aprile del 1914, Achmatova scrive: «Il destino della madre è un tormento radioso, / Non ne sono stata degna», secondo Černen’kova non si riferisce al rapporto con Lev, ma a questa gravidanza. 

Sembra che dopo questo aborto, Anna non possa più avere bambini. 

Racconta la cosa a Gumilëv, che intanto ha una relazione con Tat’jana Adamovič, la quale non è contenta del ruolo di amante. 

Dopo che Anna gli ha confessato la sua relazione con Lur ’e, lui le confessa la propria con Tat’jana Adamovič. 

Adamovič insegnava musica e danza e aveva raccontato a Gumilëv che delle signore della buona società erano andate nella scuola dove insegnava per scegliere le insegnanti di ballo per le loro figlie, e quando la direttrice aveva loro proposto Tat’jana, una aveva detto «Ma cosa dice, quella è l’amante di Gumilëv!». 

Tat’jana chiede all’amante di diventar suo marito, ma quando Gumilëv racconta questa cosa alla moglie, ad Anna, lei gli risponde «Ma figurati. Figurati se delle signore dell’alta società sanno che tu e Tat’jana siete amanti». E aggiunge: «E poi, anche se lo sapessero? Pretenderebbero un’insegnante di danza illibata, per le loro figliole? Lo chiederebbero come requisito?». 

Gumilëv si convince, e sembra che tutto sia risolto, ma, dice Černen’kova, Anna purtroppo trova le lettere di Gumilëv all’amante. 

Le legge tutta la notte e ha una spiegazione col marito, nel corso della quale Gumilëv le chiede il divorzio. 

Lei accetta a condizione che il figlio Lev resti con lei. 

Quando lo sa la suocera, non accetta l’idea di separarsi dal nipote e di lasciarlo alla nuora, che non è molto portata per la vita pratica. 

Sembra che, per accontentare la suocera e la mamma, Anna e Nikolaj acconsentano a non divorziare. 

E sembra che Nikolaj lasci Tat’jana. Povera Tat’jana.

12.5 La grappa 

Un mio amico russo, quando gli ho detto che tra qualche settimana vado a trovarlo a Pietroburgo, mi ha detto «Non presentarti senza grappa». 

Io ho degli amici così, che gli piace la grappa. 

12.6 Complicato

Nel luglio del 1914 Anna scrive una poesia che si intitola Eredità. Fa così: 

Sii la mia legittima erede
Vivi in casa mia, canta le canzoni che ho composto io. Piano piano le mie forze vanno via,
Il mio petto sofferente vuole aria. 

Lamore dei miei amici, lostilità dei miei nemici,
E le rose gialle del mio piccolo giardino,
E la tenerezza di un amante appassionato, tutto questo Lascio a te, presagio dellalba. 

E la gloria, quello per cui son nata, 

Perché la mia stella, come un dolce turbine si è alzata in volo 

E adesso cade. Guarda, la sua caduta
Annuncia il tuo potere, il tuo amore, il tuo estro. 

La mia eredità è ricca,
Tu vivrai a lungo e bene,
Sarà così. Vedi, son tranquilla, Sarai felice, ma ricordati di me. 

Secondo Černen’kova, questa poesia è per Tat’jana, quell’insegnante di ballo che voleva che Gumilëv divorziasse per sposarlo lei.

C’è un modo di dire russo: «Drugoe pokolenie, drugie dela», che significa, più o meno, «Cambiano le generazioni, cambiano i comportamenti», e capisco bene che la nostra morale di coppia, rispetto a quella di due poeti russi dell’inizio del secolo scorso, siano diverse, ma mi sembra che, per essere la relazione tra due che si erano concessi la piena libertà, la relazione tra Achmatova e Gumilëv fosse molto complicata. 

Come tutte le relazioni di Anna Achmatova coi mariti e con gli amanti. 

12.7 Cosa insegnava Mandel’štam ai bambini 

Nel 1916, quando Lev Gumilëv ha quattro anni, Osip Mandel’štam gli insegna, in segreto, a dire: «Mio babbo è un poeta, mia mamma invece è isterica». 

Quando il bambino dice, tutto serio, questa battuta davanti ai genitori, il babbo si offende, la mamma è entusiasta. Bacia il bambino e gli dice «Bravissimo, Levuška, hai ragione. Tua mamma è isterica». E poi gli chiede, continuamente: «Di’ un po’, Levuška, cos’è tua mamma?». 

«Mia mamma è isterica» risponde lui, e lei gli dà una caramella. 

12.8 Cosa facciamo noi in Occidente 

Sul primo canale russo, in un programma dove di solito si parla della operazione speciale in Ucraina, hanno parlato del processo tra Johnny Depp e Amber Heard, che, come credo la maggior parte dei lettori sappia, sono due attori che erano sposati e poi hanno litigato e sono andati per tribunali. 

Hanno detto, sul primo canale russo, che sono stati condannati tutti e due per reciproca diffamazione, lui deve pagare due milioni di dollari, lei deve pagare quindici milioni di dollari. 

«Questa è la dimostrazione» ha detto il presentatore russo «che in Occidente mentono tutti. Raccontano delle gran balle, in Occidente» ha detto il presentatore russo tutto contento. 

12.9 Il momento più bello della sua vita 

Scrive Černen’kova che Nikolaj Gumilëv voleva andare in guerra prima ancora che ci fosse, la guerra. 

La Germania dichiara guerra alla Russia il 19 luglio del 1914 alle 22. 

Il 5 agosto Gumilëv è già in divisa. 

Il primo novembre scrive al suo amico Lozinskij: «In generale, posso dire che questo è il momento più bello della mia vita. Mi ricorda un po’ le mie sortite abissine, ma è meno lirico e molto più emozionante». 

Manda delle lettere a Anna, che contengono dei versi (le lettere tra di loro hanno quasi sempre in calce dei versi, e loro si chiedono, per tutta la vita «Ti sono piaciute, le mie poesie?»); dal fronte Gumilëv scrive: «Io porto in me un’idea grandiosa. / Non posso, non posso morire» e «Il cuore dorato della Russia / Batte cadenzato nel mio petto». 

Gli piace tutto, della guerra, anche i nemici, che considera «dei soldati coraggiosi e dei nemici onesti, e senti, per loro, un’involontaria simpatia, perché è, in qualche modo, con loro, che costruisci quella grande cosa che è la guerra».

Anche per il figlio, Lev, la partecipazione alla seconda guerra mondiale, per motivi forse diversi (vale, per lui, la libertà) sarà un momento bellissimo. 

Nel dicembre del 1914, Nikolaj Gumilëv viene decorato con la croce di San Giorgio di IV livello. 

A chi legge potrebbe forse sembrare che i russi siano bellicosi, un popolo a cui fare la guerra piace tantissimo. 

Può darsi, ma non sono tutti così. 

Velimir Chlebnikov, che, allo scoppio della prima guerra mondiale, era stato arruolato, scrive a Nikolaj Kul’bin, medico militare, pittore impressionista e già suo editore, che come militare pensa di essere uno zero, utile soltanto in un battaglione ausiliario di campagna, per andare a pescare dei pesci. 

«Io» scrive Chlebnikov «sono un derviscio, uno ioghi, un marziano, quel che si vuole, ma non sono un soldato di un reggimento di fanteria di riserva.» 

12.10 Particolarmente 

«Il cuore dorato della Russia / Batte cadenzato nel mio petto» ha scritto Gumilëv dal fronte. 

Quando torna in licenza, Pietroburgo non si chiama più Pietroburgo, ma Pietrogrado. 

Burg è un suffisso germanico, la Russia è in guerra con la Germania, i russi lo cambiano con il suffisso grad (città, in russo, si dice gorod): Petrograd. 

Io, quando andrò a Pietroburgo, se mai riuscirò a andarci, volerò con la Turkish Airlines, faremo scalo a Istanbul. 

I voli diretti sono stati soppressi. 

Quando gli aerei Aeroflot collegavano ancora l’Italia e Pietroburgo, una volta arrivati lo speaker diceva «Benvenuti a Pietroburgo, Leningrado, città eroica». 

Pietrogrado è stata Pietrogrado per dieci anni; dopo la morte di Lenin, nel 1924, è diventata Leningrado. 

E nella seconda guerra mondiale, Leningrado è stata, per novecento giorni, assediata dai nazisti. 

C’era, all’epoca, e c’è ancora, un circuito di altoparlanti che si sentono, nel centro della città, e trasmettono musica e, nel caso, informazioni. 

Durante l’assedio di Leningrado, da questi altoparlanti si sentiva, regolarmente, un metronomo. Era il segnale che la città non era ancora caduta. 

Il cuore dorato della città batteva nel petto di Leningrado. 

La prima volta che mi hanno raccontato questa storia è stato al Museo Achmatova, sulla Fontanka. 

Perché in quei giorni del 1941, Anna Achmatova, sfollata, diceva per radio: «Tutta la mia vita è stata unita a Leningrado; a Leningrado sono diventata un poeta, Leningrado ha ispirato e dato il tono alla mia poesia. Come tutti voi, in questo momento, vivo nella fede incrollabile che Leningrado non cadrà mai in mano ai nazisti». 

Il Museo Achmatova, sulla Fontanka.
Chissà se riuscirò mai a rivederlo.
Che uno pensa “Perché non dovresti riuscire?”. Non so. C’è sempre un momento, quando devo andare in Russia, che mi accorgo che forse parto davvero e mi sembra incredibile. 

Quest’anno mi sembra particolarmente incredibile. Incredibilissimo, direi, se si potesse dire.
E anche se non si potesse: incredibilissimo.
Comunque, intanto che io aspetto il mio visto, ho letto che nel 1916 Gumilëv ha una relazione con una donna bellissima, Larisa Rejzner, discendente del condottiero russo che aveva battuto Napoleone, Kutuzov, futura rivoluzionaria e, sembra, modello di Pasternak per la figura di Lara, la coprotagonista del Dottor Živago. 

Lei è follemente innamorata di Gumilëv, e, ci informa Černen’kova, confessa di avergli concesso «tutto».

Gumilëv, racconterà poi la Rejzner, le propone di sposarla, ma lei dice che ama e rispetta Anna Achmatova e che non vorrebbe mai procurarle un dispiacere. 

Gumilëv, dice la Rejzner, le risponde che, purtroppo, lui, ormai, non è più in grado di procurare dispiaceri a Anna Achmatova. 

Dopo che Gumilëv è tornato al fronte, la Rejzner, in un cabaret di Pietroburgo, Il riposo del commediante, incontra l’Achmatova, a uno spettacolo di marionette. Alla fine dello spettacolo, l’Achmatova la saluta e lei si commuove. E, con le lacrime agli occhi, confusa, comincia a dire che non si aspettava affatto di essere riconosciuta e salutata da lei in modo così gentile dopo che lei era stata con Gumilëv e che lui le aveva proposto di sposarla. Dice la Černen’kova che la Rejzner era stupita dalla generosità dell’Achmatova, solo che, l’Achmatova, dice la Černen’kova, della relazione tra la Rejzner e Gumilëv non sapeva niente. 

L’aveva capito in quel momento, dice la Černen’kova, che di fronte a lei c’era «un’altra vittima del temperamento arabo di Gumilëv, una vittima che credeva di essere la sua fidanzata». Se avesse saputo quante fidanzate aveva. 

12.11 Era bravissima 

Quando, nel 1946, escludono Anna Achmatova dall’Unione degli scrittori chi la incontra è stupefatto dalla sua indifferenza. Un’indifferenza regale, pensano. 

E probabilmente è vero, Anna Achmatova ha quest’aria da regina, indifferente alle cose del mondo, anche a quelle che la riguardano personalmente. 

Solo che lì, quella volta, lei era così indifferente perché nessuno gliel’aveva detto, che era stata esclusa dall’Unione degli scrittori. Non lo sapeva.
Come con la Rejzner.
Era bravissima, a non sapere le cose.

ARTICOLO n. 16 / 2023

«NON C’È SOLO IL ROMANZIERE»

Gli 80 anni di Franco Cordelli

Affacciata sull’informe piazzale di Ponte Milvio, l’Antica Trattoria Pallotta sta lì addirittura da prima che Stendhal pubblicasse (1829) le Passeggiate romane. Ci si sono sempre mangiate le solite cose romane, matriciane e carbonare, saltimbocca, puntarelle. Tutto buono, «come a casa». Singolare paradosso anche questo romano: ciò che viene chiesto a un ristorante, è il farti mangiare come a casa. E allora, perché mangiare fuori? Ma da Pallotta non si andava a fare i buongustai. Ho imparato più cose lì sulla letteratura che in tutti gli anni dell’istruzione, comprensivi di un dottorato di ricerca portato avanti con molta approssimazione, quando ormai avevo capito che non era una vita per me, che non sarei mai diventato quello che si dice uno studioso.Chiunque abbia frequentato Franco Cordelli, ad ogni modo, conosce a memoria il menù di Pallotta: dar supplì ar tartufo nero. Regolarmente Franco optava per i rigatoni, e altrettanto regolarmente qualcuno usciva dalla cucina ad avvertire che ci sarebbe voluto qualche minuto in più. E chi se ne fregava, di certo non avevamo fretta. Sotto la pergola nei mesi buoni, e dentro d’inverno, Franco governava con piglio di vero monarca quelle cene di cui non sarebbero bastati dieci fratelli Goncourt per redigere i verbali. Si faceva così tardi che ci imploravano di andarcene, e allora continuavamo a parlare andando su e giù per il venerabile e tetro ponte, con il Tevere – quel corso d’acqua psicotico e rancoroso – che spumeggiava tra i piloni. Chi c’era? La formazione delle cene da Pallotta è talmente variata nel tempo che, come per le squadre di calcio, non ha senso citarle se non specificando l’epoca, la stagione. A fare la parte dell’Alex Ferguson sulla panchina del Manchester c’è stato solo Franco. Aveva anche un vice, Luca Archibugi, ma tutti gli altri rischiavano di finire fuori rosa anche quando giocavano bene, o credevano di. Io posso parlare dell’ultimo lustro del Novecento, periodo in cui Cordelli pubblicò due libri per me decisivi, entrambi per Einaudi: La democrazia magica (1997) e Un inchino a terra (1999), che forse è il suo romanzo più bello (la palma però è contesa da Guerre lontane). Tra le presenze più fisse da Pallotta, in quel periodo oltre a Luca Archibugi ricordo Arnaldo Colasanti, Eraldo Affinati, Aurelio Picca. Poi c’erano degli ospiti speciali: milanesi di passaggio, gente che lavorava nell’editoria, giornalisti curiosi di libri. Non era affatto una comunità esclusivamente maschile, e poteva capitare che serpeggiassero sulla tavola correnti di seduzione e gelosie. Ricordo che una notte d’inverno una grande poetessa, Antonella Anedda, bella come un ritratto del Fayum, ci parlò a lungo delle lettere di Marina Cvetaeva che Serena Vitale andava pubblicando per Adelphi. 

Non era un salotto letterario, non era un’accademia, non era la redazione di una rivista. Anzi, fu proprio il fatto che a Franco non piacesse affatto come gestivamo «Nuovi Argomenti» un incidente molto problematico nella nostra amicizia. Era stato Franco stesso a convincere Enzo Siciliano ad affidare la testata, ancora letta e prestigiosa, a un gruppo di persone molto più giovani di quelle che se ne erano occupate fin dai tempi di Moravia e Pasolini. A distanza di tanto tempo da quella grande querelle posso dire che Franco aveva ragione su un punto: avevamo cominciato a pubblicare troppe cose per puro gusto dell’esperimento, imbarcando troppe persone, come sarebbe di lì a poco accaduto nei primi blog. Personalmente, io non sapevo dire di no a nessuno, più simile per carattere a Siciliano che a Franco, che detestava la mollezza e non la scambiava per bontà d’animo. Questo è solo un esempio delle cose su cui finivamo per accapigliarci. Perché la caratteristica principale delle cene da Pallotta non era la chiacchiera, ma la disputa. Delle cose su cui eravamo tutti d’accordo (che ne so: che Cinque stagioni di Yehoshua fosse un capolavoro) era meno interessante parlare che di quelle che oggi si definirebbero divisive. Un esempio epico di divisività pallottiana furono i romanzi senili di Anna Maria Ortese, Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari, pubblicati tra il 1993 e il 1996. Tentare di convincere Franco della bellezza, della necessità poetica, dell’efficacia emotiva di quel manierismo terminale si rivelò un’impresa più impossibile che scalare il ghiacciaio del Nanga Parbat con le ciabatte da spiaggia. Non si trattava del solito gioco fra generazioni, con i figli che per fare dispetto ai padri esaltavano l’opera delle nonne. Su un singolo libro, su un singolo scrittore si può pensare tutto e il contrario di tutto. In ogni giudizio storico o estetico c’è un margine oscuro di soggettività che si ingrandisce via via che ci avviciniamo al presente. A volte il tempo si rivela un ottimo giudice salomonico, ma ancora oggi, riguardo alla prosa della Ortese, non saprei dire se avessi ragione io a estasiarmene o Franco a trovarla ripugnante. Ma che belle, quelle interminabili battaglie verbali, in cui si ricorreva a tutte le astuzie, a tutte le perfidie. Ma ancora più importante mi sembra il fatto che, senza saperlo, ci credevamo ancora in viaggio su un treno, il venerabile treno del Novecento, che invece era arrivato all’ultima stazione, e non avrebbe mai ripreso servizio. Certo, ingannarci era facile, perché intorno a noi, in quegli ambigui anni Novanta, le cose sembravano procedere come al solito: registi come Luca Ronconi o Peter Brook mettevano in scena spettacoli memorabili; Philip Roth pubblicava uno dietro l’altro i suoi romanzi migliori; nel 1994 il Comandante Marcos iniziava a guidare l’ultima rivoluzione proletaria classicamente intesa; un regista come Tarantino sembrava capace di scardinare e ricombinare, con tutta l’arroganza della gioventù, l’apparato retorico e stilistico del cinema; chiusi nei loro cassetti dagli anni Settanta, esplodevano due ordigni letterari come Petrolio di Pasolini e L’odore del sangue di Parise… insomma, era facile ingannarsi, ragionare come se nulla fosse accaduto, e continuare a spaccare in quattro ogni tipo di capelli, in attesa che i lenti rigatoni di Franco finissero di cuocere a puntino.     

Ma cos’era successo esattamente? Volendo usare impropriamente come allegoria un bellissimo racconto di Lernet-Holenia, potremmo sostenere che per qualche anno, come il barone Bagge, il Novecento aveva continuato la sua guerra senza accorgersi di essere morto. E per quello che mi riguarda, non c’è un libro italiano di critica che più della Democrazia magica di Cordelli abbia fotografato e interpretato questo immane dramma che ha colpito tutti coloro che, cresciuti in un’epoca, si sono trovati a diventare maturi e invecchiare in un «tutt’altro» (non saprei nemmeno come definirlo) nel quale l’unico posto che era rimasto disponibile era quello dello spettatore – più o meno privilegiato a seconda del caso, del talento, del suo ruolo all’interno del grande circo dell’industria culturale. Cercherò di definire questa nuova condizione in termini psicologici ed esistenziali ancora prima che estetici e intellettuali. Lo faccio dal punto di vista di una persona che (come Cordelli, del resto) ha sempre goduto di attenzioni, privilegi, editori adeguati, premi, eccetera eccetera. Alle soglie dei sessant’anni, quello che ho fatto ho fatto e non posso lamentarmi: ho avuto anche troppo. Ma ogni volta che riprendo in mano La democrazia magica, sono in grado di sentire perfettamente l’eco di qualcosa che non ho più avuto, e che era così connaturato alla modernità che sembrava del tutto naturale: il confronto delle idee, e la certezza che la letteratura non fosse una serie di libri, ma un’opera collettiva e multiforme, che impregnava ogni aspetto della vita, ogni ora della veglia e del sonno. Non eravamo diversi, per molti aspetti essenziali, dai surrealisti, o se è per questo dai veristi, con i loro cenacoli, le loro guerre intestine, i loro ritrovi. Ma a partire da un certo punto tutti noi, pur essendo rimasti animali perfettamente sociali (gente urbana, che esce ogni sera) abbiamo iniziato a procedere in solitudine, ognuno solo di fronte al suo pubblico. Abbiamo incarnato la terribile diagnosi così formulata dal grande critico americano Lionel Trilling: «la nostra cultura è probabilmente unica nell’isolare strettamente l’individuo entro le paure prodotte dalla società». Specificherei meglio: la nostra cultura, quando il suo aspetto di mercato prevale su ogni altro, genera solipsismo. Genera, per meglio dire, l’idea che la letteratura sia una carriera, una serie di prodotti: e non c’è nulla di male, se non che né l’una né gli altri hanno bisogno di una vita vera da vivere. Basta quel surrogato di vita che si definisce life style, così come si materializza su Instagram: ecco la scrittrice con le amiche del cuore al tavolino di un bar, o ci tiene informati sulle gioie e le fatiche del diventare mamma; ecco lo scrittore che passeggia in montagna o gioca con il gatto, o visita un antico borgo. Nel mercato, o se preferite nel circo, non si lavora male, ogni anno escono quelli che possiamo definire dei bei libri, ce ne saranno anche in questo 2023, ma il presupposto di questi libri non è più l’esistenza, la mortalità, ma il consenso: e saranno pure belli, ma avrebbe potuto scriverli qualcun altro, chiunque altro con un minimo di competenza artigianale.

Ebbene, nelle centoventi pagine della Democrazia magica c’è tutto. Tra i cinquanta e i sessant’anni, Cordelli si è reso conto di questa disgregazione quando ancora non era così visibile, si confondeva tra residue forze contrarie in via di estinzione. Il sottotitolo è illuminante, perché assegna a tre figure emblematiche e allegoriche (come i vizi e le virtù nell’arte medievale) il ruolo di rappresentare le forze in campo: Il narratore, il romanziere, lo scrittore. Mi soffermo un po’ sul primo membro di questa triade, il narratore, perché in molte pagine del suo libro, ora implicitamente ora esplicitamente, Cordelli dialoga con il celebre saggio di Walter Benjamin su Leskov, scritto nel 1936 e dedicato, appunto alla figura dell’Erzähler, «narratore» nella traduzione di Renato Solmi.  Questa del narratore è una figura in tutti i sensi archetipica, impregnata di tempo, di oralità, di saggezza («l’arte di narrare volge al tramonto perché vien meno il lato epico della verità, la saggezza»). Implica un legame psicologico tra chi racconta una storia, chi la ascolta e la storia stessa quasi inconcepibile per la modernità e i suoi commerci, la sua frammentazione e specializzazione dell’esperienza. Lo stesso Leskov, più che l’ultimo esemplare di una razza estinta, è il frutto di una proiezione di Benjamin, una specie di maschera individuale di un’energia anonima e plurale. È un simbolo, in ultima analisi, né più né meno del Mishima di Marguerite Yourcenar o del Lovecraft di Houellebecq. Il vero Nikolaj Semënovič Leskov, l’autore di capolavori come Il viaggiatore incantato e Una famiglia decaduta, ahimè, è molto più romanziere di quanto, ammaliati dal fascino della prosa gnostica di Benjamin, si desideri ammettere. È molto più Erzähler di Leskov, a voler seguire fino in fondo il ragionamento di Benjamin, quel servo cieco di cui parla Tolstoj nelle memorie sull’infanzia, che sua nonna si teneva in camera per farsi raccontare favole e leggende russe, potendosi nel frattempo spogliare senza imbarazzo. Resta il fatto che, se la critica non fa esempi, non indica questo o quel libro a sostegno delle sue idee, non è critica, non conta nulla. E dunque fa bene Benjamin, invece di menare il can per l’aia come fanno molti filosofi, a inventarsi il suo Leskov: mezzo vero e mezzo ermeneutico. Il tipo di sapere di cui stiamo parlando non ha nulla a che vedere con l’estetica, e meno ancora con la teoria letteraria ancora in auge, quando Cordelli scrive i saggi della Democrazia magica, nelle due varianti principali: la noiosissima “scienza semiologica” e la sua sorella svalvolata, “decostruzione” (chi se la ricorda oggi? Eppure, imperversò). Noi facciamo un mestiere molto più umile, nato con la letteratura stessa: investiamo energie e ricaviamo valore da singoli libri. Ognuno ha i suoi criteri (tanto è vero che se non ami una cosa difficilmente qualcuno ti convincerà ad amarla), ma non ci distogliamo mai dal concreto, il concreto è la nostra religione. Un criterio molto attivo in Cordelli, direi il suo criterio più tipico, è quello della distinzione dell’autentico dal finto, ovvero dal recitato: esemplare è la stroncatura dell’Ussaro sul tetto di Jean Giono (capitolo 12). L’antipatia di Cordelli può stupire. Non si tratta del «più travolgente romanzo del Novecento», secondo il giudizio autorevole di Daria Galateria? Ma «travolgente» è il tipico aggettivo che la dice di più sul lettore travolto che su un’opera in sé. Se Cordelli punta i piedi, è perché ci sente, nell’Ussaro, puzza di falso: uno stendhalismo tutto di testa, esclusivamente scritto, che non lo convince.  

È fin troppo ovvio che, quando la pubblicità spodesta la critica, il romanziere prevale sia sull’ancestrale narratore che sullo scrittore. Il fastidio di Cordelli è anche quello di un testimone che ha passato due stagioni assillate da slogan contrari ma equivalenti nella loro rozzezza. Anni Sessanta/Settanta: morte al romanziere. Anni Ottanta: come un dittatore in esilio che torni al potere più forte che mai, conta solo il romanziere. Di qui la protesta di Cordelli, alla fine della prefazione: «Non c’è solo il romanziere; e senza infamia si può benissimo essere un non romanziere, o un’altra cosa ancora». Ce n’è di che riempire una vita, davvero. Non vorrei forzare la mano a Cordelli proprio su questo punto così delicato, ma è questa rivendicazione di indipendenza e libertà che mi fa comprendere cosa intenda per «scrittore»: la più enigmatica delle figure della triade. La copertina della Democrazia magica definisce lo scrittore con un’icona, eloquente ma arbitraria: è un bellissimo ritratto di Uwe Johnson, cappotto e guanti neri, che cammina per la Berlino del 1956. Non si vedono più macerie, ma la luce è ancora quella di una città rasa al suolo. Va bene per una copertina, ma definire cos’è uno scrittore non è facile. Si potrebbe dire che mentre il narratore di Benjamin è una figura mitica, e dunque proveniente da un passato recuperabile solo intuitivamente, per via di folgorazioni e proiezioni, lo scrittore appartiene al regno delle possibilità, e dunque del futuro. Voglio dire che solo un cretino potrebbe auspicare un ritorno alle condizioni pre-industriali mitizzate da Benjamin. Scrittore è quell’individuo che recupera per sé la possibilità di scrivere libri che solo lui avrebbe potuto scrivere. E dunque, come diceva il Pasolini di Petrolio – confidandosi con Moravia – è in grado di vivere la genesi della sua opera. Ma come Benjamin ha bisogno di Leskov (e come Baudelaire aveva bisogno di Poe) anche Cordelli ha bisogno di una proiezione efficace. Nella Democrazia magica in realtà ce ne sono molte, ma nessuna, mi sembra, ha l’intensità raggiunta nel capitolo 6 parlando di Malina di Ingeborg Bachmann. Per leggere questo libro così impervio, infatti, «occorre credere che un romanzo può non essere un romanzo ma, diciamo, niente altro che una narrazione». Ma non basta: occorre anche credere che «una narrazione può trasformarsi rapidamente in una fiaba, se non addirittura in una nenia, in una pura evocazione musicale». L’ombra del vecchio narratore non è così lontana, e infatti, «il lettore viene chiamato intorno a un fuoco». Nel 1997, quando avevo appena iniziato a percorrere la mia strada, avevo sottolineato queste parole con freghi di pennarello che tradiscono ancora oggi il mio entusiasmo, la mia adesione a un tale tipo di programma. Perché Cordelli non suscita un ennesimo immaginario filosofico, ma indica un libro, come un amico che te lo presta: un libro del 1971 non sarà certo un mito, ma in compenso puoi fartene un’idea, è stato scritto da una persona come te, non da un postulato astratto. Il vantaggio cognitivo, rispetto a Benjamin, è che nel pensiero di Cordelli non c’è nemmeno bisogno di inventare un finto Leskov, tirato fuori come il coniglio dal cilindro dell’illusionista. Malina esiste, lo si trova facilmente in libreria, basta provare. Proprio come, se davvero desideri vivere una vita che sia solo tua, basta provare a viverla, con quel poco o tanto di disperazione e di coraggio che il destino ha assegnato a ognuno di noi.

ARTICOLO n. 15 / 2023

RAGAZZO A CASO

Non guardo video di quel genere, ma volevo scrivere questo pezzo e allora non ho potuto esimermi. Ecco come è andata, almeno, dentro lo schermo. 
Prima del video su RepTv, però, uno spot pubblicitario esaltava i prodotti tipici liguri. 
La focaccia con il formaggio. Un po’ di dialetto – la fùgassa co formaggio – la musica rilassante in sottofondo, la constatazione, ancora dialettale, di quanto sia buona la focaccia ligure e l’invito finale – gusta anche tu la focaccia della Liguria con stracchino italiano – dell’azienda francese Carrefour: il marchio Terre d’Italia.
Poi, l’avvertimento.

Attenzione. Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità.

Forse le aziende che comprano gli spazi pubblicitari su RepTv o su CorriereTv li acquistano molto in anticipo, per ottenere un prezzo migliore. Acquistano spazi pubblicitari a pacchetti, ignare del contenuto trasmesso dopo il proprio prodotto. 

Un video che ritrae il tragico utilizzo di un’auto e la morte di due persone è un buon investimento commerciale per l’azienda Carrefour e il marchio Terre d’Italia? Oppure Manzoni Advertising, concessionaria di pubblicità esclusiva di Gedi Gruppo Editoriale Spa, in rapporto al video caratterizzato dalla morte di due persone, ritiene interessante proporre quello spazio a un certo tipo di azienda? 
Oppure, come spesso capita, è tutto casuale?
Per verificare quale azienda, oltre Carrefour, sponsorizza un filmato con due morti, ho visionato ancora il video, soltanto l’inizio, il giorno seguente: Mulino Bianco, Barilla. 

Forse la pubblicità, come la morte, ha stancato, la duplice morte ha stancato, e perfino la duplice morte causata da un’auto Tesla a guida assistita – benché sia un tipo di morte ancora poco diffusa, quasi inedita, la morte novità del mercato – ha stancato. 
Il video, dopo una settimana, non era tra i primi dieci più visualizzati.
L’incidente è avvenuto in Cina. Una Tesla Model Y – auto elettrica a guida assistita – di colore bianco ha accostato senza fermarsi del tutto, sul margine sterrato di una strada, la strada periferica di una cittadina nella provincia meridionale del Guangdong.
L’orologio, in alto a sinistra, segnava le 6:42.

A bordo della Tesla c’era soltanto il proprietario cinquantacinquenne. Un uomo in sella a uno scooter ha sorpassato l’auto. Allora la Tesla si è immessa di nuovo sulla strada. 

Un’altra telecamera ha mostrato la visione d’insieme: due palazzi, il dorsale di una montagna in lontananza. La Tesla è rimasta per un paio di secondi alle spalle dell’uomo in scooter, ha accelerato sfiorandolo in modo enfatico. L’uomo in scooter ha proseguito ignaro di quanto sia andato vicino all’essere investito e ucciso. 

La Tesla ha aumentato l’andatura, il tratto percorso è stato ripreso dalle telecamere posizionate ai bordi della strada e in prossimità degli incroci. A un incrocio, la Tesla ha sorpassato una monovolume bianca, poco dopo si è ritrovata davanti un’altra persona a bordo di uno scooter. Se la Tesla avesse schivato la persona in scooter sterzando come nel primo caso, è probabile che si sarebbe ribaltata, vista la velocità alla quale viaggiava. E invece ha investito la persona, colpendola alle spalle. Nell’inquadratura successiva, la Tesla è passata ancora a grande velocità, portando con sé un pezzo dello scooter o del proprio cerchione. Nell’inquadratura successiva, l’auto viaggiava a sinistra, pur essendo una strada a doppio senso di circolazione. Una persona, forse una donna, procedeva in bicicletta, poco al di là della banchina. È probabile che questa persona abbia visto sopraggiungere la Tesla fuori controllo e impaurita abbia tentato di scostarsi. Avrebbe potuto scostarsi di più, perché in quel punto c’erano almeno sei o sette metri di sterrato davanti alla saracinesca chiusa di un negozio. È probabile che la persona in bicicletta non abbia fatto in tempo, mai avrebbe immaginato che l’auto sopraggiungesse a una tale velocità. La Tesla ha preso di striscio la persona in bicicletta. Forse non l’ha presa di striscio. Forse l’ha solo sfiorata. Forse la persona, che ha tentato di rialzarsi, era traumatizzata. Forse la Tesla l’ha colpita quel tanto che basta per non ucciderla. Forse l’ha colpita quel tanto che basta per provocarle una lesione interna, un’emorragia lenta, ma letale. 

Le cronache dalla Cina riferiranno, oltre alla morte di un motociclista – credo l’uomo in scooter – di una persona morta in sella a una bicicletta. 

La Tesla è arrivata a un incrocio un po’ più trafficato. In mezzo all’incrocio, un piccolo camion carico di sabbia e, a sinistra del piccolo camion, un motocarro a tre ruote. Dietro il piccolo camion carico di sabbia, una ragazza in bicicletta. La Tesla ha colpito la parte anteriore destra del motocarro a tre ruote, distruggendolo. Ha sfiorato la ragazza in bicicletta che si è scansata per non essere colpita. L’impatto con il motocarro ha provocato la sbandata che ha condotto la Tesla a schiantarsi contro ciò che ha incontrato sul margine destro della strada: soltanto oggetti. Polvere, fumo sollevato, il cauto avvicinarsi di alcuni passanti, come se l’auto potesse ancora nuocere, anche immobile e semidistrutta. Illeso, o quasi, il conducente.

Tesla Model Y, accelerazione da 0 a 100 km/h in 3,7 secondi, ma è presumibile che, durante quel mezzo minuto di tragitto, l’auto sia andata molto più veloce. 

Dall’accelerazione allo schianto: la vecchia Cina, persone tranquille, in bicicletta; la Cina di ieri, persone tranquille, in scooter, sul piccolo camion carico di terra, sul motocarro a tre ruote; e infine il presente e il futuro, non solo della Cina, ma di tutti: monovolume bianca ferma all’incrocio, e auto a guida assistita, fuori controllo.

In questi anni è diventata abituale la definizione di auto a guida autonoma. Bisognerebbe capire il motivo per cui i media hanno insistito su questo concetto e non sulla guida assistita, che prevede ancora la partecipazione e la responsabilità umana. 

Il sistema di guida assistita, il cosiddetto Autopilot, era attivato o disattivato sulla Tesla Model Y in questione? Il 55enne cinese, cosa faceva, durante quei secondi? C’è stato un guasto meccanico? Un malfunzionamento del software o un banale guasto ai freni? Oppure, come sostenuto da alcuni, il 55enne cinese, ex-camionista proprietario della costosa automobile, ha confuso, preso dal panico, il pedale dell’acceleratore con quello del freno, visto che mai, durante il breve tragitto, i fanali posteriori si sono illuminati di rosso? È plausibile pensare che un ex-camionista, con milioni di chilometri percorsi alla guida di un camion tradizionale, possa disimparare come si guida, confondendo il pedale del freno con quello dell’acceleratore? 

Non sono i primi morti causati da un’auto a guida assistita. Una volta ho detto che se fossi uno scrittore infatuato di trame distopiche sarei un po’ in crisi. Alludevo alla morte di Joshua Brown, il primo essere umano deceduto il 7 maggio 2016 in un incidente stradale causato da un’auto a guida assistita. Non c’è già tutto nella follia che viviamo ogni giorno? Abbiamo davvero bisogno di spostare le storie un po’ più in là, nel tempo e nello spazio, per rappresentare un futuro-presente indesiderabile e angosciante, quasi per innalzare a qualcosa di grande e misterioso la banalità del nostro morire contemporaneo? Anni fa, in Ipotesi di una sconfitta, guardando un gruppo di persone nella sala fatiscente di un ambulatorio pubblico, a Milano, tutte con una benda sull’occhio dopo un intervento di cataratta, avevo definito quello che viviamo come “fantascienza dell’oggi pomeriggio”. Joshua Brown si era schiantato a bordo della sua Tesla contro un camion che attraversava un incrocio. L’Autopilot, benché attivo, non aveva riconosciuto la lunga e mastodontica struttura bianca che ingombrava il centro di quella strada in Florida. Joshua Brown non si era accorto poiché, secondo la polizia accorsa sul luogo dell’incidente, è probabile che stesse guardando un DVD di Harry Potter, dato che il lettore, anche dopo l’impatto, aveva continuato a trasmettere quel film. L’Autopilot non aveva riconosciuto la fiancata bianca del camion “sullo sfondo luminoso del cielo”, così aveva ribadito il comunicato Tesla, in un afflato lirico. Ribaltando la questione, potremmo dire che il cielo sopra una strada a scorrimento veloce in Florida ha il colore della fiancata di un camion lungo una ventina di metri: insomma, è simile al cielo milanese di Elio Pagliarani, “questo cielo colore di lamiera”, “questo cielo d’acciaio che non finge”. 

Ma le immagini scattate dall’auto stessa poco prima dell’impatto mostravano un cielo tipico dell’alba o del tramonto: infatti le auto che sopraggiungevano in direzione opposta avevano i fari accesi. 

Joshua (Salvatore inviato da Dio) Brown aveva sperimentato una nuova tecnologia automobilistica guardando il film di Harry Potter attraverso la tecnologia morente dei DVD, e così si era sacrificato per il progresso dell’umanità. 

Nel 2018, un’altra auto a guida assistita aveva investito una donna di cinquant’anni, Elaine Herzberg, la prima vittima pedonale. 

La morte di Elaine Herzberg ci rimanda all’incidente della Tesla Model Y in Cina e al quarto episodio di Quella bestia gigante che è l’economia globale, la docuserie con Kal Penn trasmessa da Prime Video.

Nell’episodio dedicato all’Intelligenza Artificiale, ci si chiede come debbano comportarsi le auto senza conducente in presenza di un ostacolo umano. 

Penn intervista Louis Rosenberg, dirigente dell’azienda Unanimous AI. Rosenberg stabilisce un legame tra la capacità dell’Intelligenza Artificiale nell’analizzare i dati, la conoscenza umana e l’unione tra le due intelligenze, unione capace di creare un’intelligenza superiore, o meglio, un’intelligenza collettiva, che trae ispirazione dagli stormi di uccelli, dai banchi di pesci, dagli sciami di api: animali che, in gruppo, pensano come fossero un tutt’uno. 
L’intelligenza del gruppo supera quella del singolo, sostiene Rosenberg.

Certo, ma allora, nel caso dell’essere umano, anche la stupidità del gruppo supera la stupidità del singolo che, anzi, può aumentare nascondendosi dentro la stupidità di gruppo, e più il singolo diventa stupido trincerandosi dentro il gruppo, più la stupidità collettiva del gruppo ne beneficia. 

L’azienda diretta da Rosenberg seleziona gruppi di persone, pone loro alcune domande alle quali rispondere sfiorando un tablet. Non è un vero e proprio sondaggio, è piuttosto l’azione di un piccolo magnete che, grazie alle anonime dita umane, appare sullo schermo e si sposta, spinto dal volere del singolo verso una delle possibili risposte, in modo che anche le altre persone possano vedere la dinamica di scelta. 
Questi incontri si chiamano swarm

Un’applicazione interessante, dice Rosenberg, è rappresentata dalle domande con implicazioni morali. Quale morale deve avere un’auto a guida assistita, definita, ahimè, anche nella docuserie, auto che si guida da sola?
Ammettiamo che l’auto non si fermi ma, finendo fuori strada, possa mettere a repentaglio la vita del passeggero e ucciderlo per salvare un bambino. 
È questo che vogliono davvero i produttori di auto? Salvare la vita di un bambino o preservare l’esistenza di un cliente che ha speso 100.000 dollari per quel prodotto? 

Certo, in teoria, le aziende vorrebbero privilegiare, nella progettazione e costruzione delle loro auto semi-indipendenti, valori umani che rappresentano un campione significativo della popolazione, del sentire comune, o almeno, ciò che farebbe una persona alla guida.
Allora Kal Penn, in accordo con Louis Rosenberg, propone un quesito a un gruppo di persone riunite in una stanza.

“Un’auto che si guida da sola non riesce a frenare in tempo e deve sterzare investendo uno tra sei diversi pedoni”.

1.   Un bimbo su un passeggino
2.   One boy (nella traduzione italiana scrivono ragazzino).
3.   One girl (nella traduzione italiana scrivono ragazzina).
4.   Una donna incinta
5.   Due medici uomini
6.   Due medici donne

Chi deve morire tra queste persone?

Ciascuno dei partecipanti manovra il cursore del tablet, il magnete al centro dello schermo, il magnete sospinto dal vociare in sottofondo, dal brulichio di manine digitali, che indirizzano il magnete verso la decisione. Oh my God, dice una voce femminile. Risate in sottofondo, una specie di giochino, di videogame.

E infine, l’esito, quasi unanime. 
Il prescelto è il ragazzino, o meglio, il ragazzo. 
Il ragazzo deve morire.

Analizziamo i pro e i contro delle alternative.

Il bimbo su un passeggino. Molti anni davanti a sé. È normale e umano salvare un bimbo su un passeggino. Certo, potrebbe diventare un fascistello che entra in una scuola armato e uccide a caso una trentina di studenti. Ma potrebbe essere anche colui che serve i pasti alla mensa dei poveri…

La donna incinta. Per alcuni giudici statunitensi sarebbe come uccidere due persone in un colpo solo. La donna incinta è più al sicuro del bimbo sul passeggino…

I due medici donne, i due medici uomini. Sono medici, possono salvare altre vite umane, possono salvare la vita del bimbo sul passeggino, della donna incinta e del nascituro…

La ragazza. È coetanea del prescelto, ma è di sesso femminile, e dopo secoli di discriminazioni, il sentire comune è pronto a salvare la ragazza al posto del ragazzo, sebbene in molte zone del pianeta le persone di sesso femminile siano più numerose delle persone di sesso maschile. 

È significativo il fatto che questo quesito sia stato posto negli Stati Uniti.

Nelle domande non c’è traccia di età precisa, né tantomeno di origine etnica o di classe sociale. Ma due medici donne e due medici uomini sono comunque un indizio sulla classe sociale di appartenenza. Eppure se questa domanda fosse stata rivolta ad alcuni abitanti di Fagnano Olona, Varese, ovvero a coloro che avevano manifestato ostilità alla nomina di un medico nero nato in Camerun, a tal punto da restare senza medico pur di non averne uno africano, ecco, credo che molti residenti di Fagnano Olona avrebbero salvato il ragazzo al posto del medico uomo, purché, beninteso, il medico fosse africano.

E così il ragazzo è sacrificabile. Un diciottenne, un ventenne. Uno qualsiasi. Ragazzo a caso. Aveva ancora molti anni davanti, più tempo dei medici. 

Questo filmato risale al 2018. Vista la situazione bellica perdurante dal febbraio 2022, e il desiderio guerresco diffuso in modo quasi unanime a un anno di distanza, è probabile che oggi ci sarebbero ancora meno esitazioni nella scelta. Sono soprattutto i ragazzi ad andare in guerra. Di solito, i ragazzi degli altri.

E se in guerra ci andasse tuo figlio? E se il ragazzo sacrificato dal gruppo fosse tuo figlio? E se la l’auto a guida assistita decidesse di ammazzare tuo figlio?
Torniamo all’incidente della Tesla Model Y e ricapitoliamo il comportamento dell’auto.

L’auto ha evitato, quando procedeva a velocità ancora ridotta, la prima persona in scooter; ha evitato il monovolume bianco fermo all’incrocio; ha travolto e ucciso la seconda persona in scooter, forse perché, ripeto, se avesse sterzato a quella velocità la Tesla si sarebbe ribaltata e avrebbe ucciso il passeggero-proprietario dell’auto; ha sfiorato la persona in bicicletta, forse uccidendola; ha travolto il motocarro a tre ruote; e infine si è schiantata. Tra tutte le varie opzioni, la Tesla ha evitato l’impatto più pericoloso per l’incolumità del passeggero-proprietario: lo schianto contro il monovolume. 

Forse, tra qualche anno, l’intelligenza collettiva riunita in una stanza potrebbe aiutare davvero i produttori di auto a guida assistita e l’auto sarà a guida autonoma. 

Forse, tra qualche anno, al posto del cinismo contemporaneo, una dimensione etica dedicata all’umano sarà prevalente e non minoritaria e derisa, come oggi. 
Ma a quel punto, cambiare la sensibilità di un’auto progettata anni prima, secondo i parametri del sentire comune attuale, sarà troppo costoso. 
E molte persone, anche le più sensibili e consapevoli, avvaloreranno la decisione aziendale ripetendo, sì, però, è un costo, è un costo, è un costo…
E allora lo scrittore infatuato di trame distopiche si rassegnerebbe, ma avrebbe già l’incipit del suo testo. 

Goditi il viaggio in tranquillità e sicurezza. La tua auto ha già ucciso venti ragazzi.

ARTICOLO n. 14 / 2023

DELL’AMORE E DI ALTRI DEMONI

L’uomo che mi piace mi infastidisce.
Per questo ho disattivato i suoi post e le sue storie.
Ma stanotte ho deciso di andare a vedere cosa fa.

Mentre scrollo sul suo profilo e ne spulcio veloce le storie lo trovo insopportabile, mediocre nella comunicazione, lento, vecchio.
Eppure dal vivo non è così.

Mi infastidisco mentre scrollo tra un’immagine e l’altra. Mi infastidisce la sua comodità, il fatto che lo amino tutti senza neanche un commento di critica, la pace che regna sovrana sul suo profilo, l’assenza di commenti sessualizzanti verso la sua persona, il suo potersi permettere di postare solamente foto banali, l’assenza di una qualsiasi causa sociale o civile nel suo feed, l’egoreferenzialità, il fatto che nessuno gli chieda come mai stia lì.

Provo invidia, eccitazione, fastidio, curiosità. Forse lo odio. 

Ma niente di quel che provo è reale perché, mi dico, quello che vedo sui social media non può essere COSÌ reale.

Eppure non ne sono sicura, me ne rendo conto, al buio della mia camera da letto, mentre fisso lo schermo del mio telefono. Ho difficoltà nel percepire cosa in una persona sia vero e cosa no, in questo mondo parallelo fatto di tondini rossi e foto quadrate. 

Spulcio i primi like sotto al suo nuovo post, per capire dove va forte, quale sia il suo pubblico: sono tutte donne cis, come me, stessa età, a occhio stessa provenienza sociale e tutte bianche. Ha un tipo di fascino assolutamente targettizzabile, per questo monotono. 

Muovo il pollice con un gesto automatico e torno in home page: l’immagine che mi appare subito dopo è il post di una mia amica sotto il quale noto immediatamente un suo mi piace.

In passato ho provato fastidio, competizione, inadeguatezza ogni volta che vedevo cuoricini rossi di un uomo che mi piaceva sotto alle foto di altre donne bellissime, come fosse una scelta implicita di un canone che non combaciava con il mio. Un silenzioso assenso verso forme di femminilità diversa dalla mia, meno rumorosa, spigolosa, respingente, dolente. 

Sono cresciuta con i social network che, anno dopo anno, prendevano sempre più spazio nella nostra vita e ho decodificato le nuove regole del gioco amoroso piano piano: oggi sono diventata così brava con questi linguaggi digitali che so distinguere corteggiamenti tra due persone semplicemente osservando i loro post che appaiono nel mio feed di Instagram. 

Lo specchio che riflette le nostre interazioni e pulsioni è così banale da annoiarmi.

Per questo ho disattivato l’uomo che mi piace: per non vederlo, perché rispetto alla noia che mi provoca la banalità della sua forma digitale preferisco la delusione tangibile ma progressiva. 

E perché il controllo ossessivo mi stava rendendo un mostro.

Ho cercato di capire, carpire, annusare, decodificare, smembrare e acquisire messaggi subliminali dai profili degli uomini che mi piacevano per tanto tempo, come se fosse una conseguenza diretta della dimensione digitale, un prezzo da pagare per la ricerca di una verità universale sull’amore e sui suoi demoni.

Ho iniziato a provare disagio, odio, fastidio, inadeguatezza, competizione senza inizialmente capire il perché. Ho semplicemente staccato i miei occhi dal mezzo social disattivando i profili di ogni uomo che negli ultimi anni mi è piaciuto, come se fossero veleno, acido corrosivo, dal quale dovevo mettermi in salvo.

C’era qualcosa di morboso nel mio atteggiamento, che so essere atteggiamento di molte altre persone, ma non comprendevo da dove emergesse tutto quel fastidio.

Certo, una parte era fisiologica quanto banale sindrome da competizione: nella società performativa e patriarcale le donne sono nemiche e una sola è la prescelta, questo vale anche nelle relazioni sentimentali applicate al digitale. Lo posso vedere chiaramente quando leggo i commenti alle foto di coppie famose, ricche, bianche, abili: sono un tripudio di “beati voi”, “come vi invidio” e “siete un sogno”. La favola della prescelta è dietro l’angolo e non si nasconde neppure troppo per dissimularsi.

Ma mi mancava un pezzo per comprendere in pieno tutto questo senso di angoscia che mi produceva e spesso produce ancora il mezzo digitale elevato a prolungamento della vita amorosa. 

Volevo capire perché mi spaventassero così tanto alcune proiezioni social degli uomini che mi sono piaciuti.

Volevo capire se l’amore aveva un modo per sopravvivere ai social.
Se le mie esigenze potevano trovare spazio in un amore digitale. 
E, per trovare delle risposte, mi è venuta in aiuto Sheena Patel.

Conosco Sheena Patel a Roma, alla Nuvola, durante l’ultimo Più libri più liberi: dobbiamo dividere il palco per un panel sul digitale e le relazioni interpersonali e di fianco a lei mi sento microscopica. 

Sheena Patel ha infatti scritto un libro che ho letto da poco, si chiama I’m a fan, in italiano Ti seguo, edito da Edizioni di Atlantide e tradotto magistralmente da Clara Nubile.

Ti seguo è uno dei libri più devastanti, deliranti ma al tempo stesso lucidissimi che abbia letto negli ultimi anni, e la penna di Patel è talmente affilata, dolorosamente ironica e graffiante da farmi dire subito dopo l’incipit che quella che sto leggendo è davvero una coltellata con i fiocchi.

Patel nel suo libro racconta, con un ritmo incredibile e la prima persona singolare, l’amore ossessivo e ripetitivo dei tempi del digitale. La sua protagonista, una giovane donna di origini indiane che vive a Londra e lavora nella cultura, ha una relazione con un uomo ricco e famoso, che è sempre lontano, appare a intermittenza, e che lei monitora quotidianamente tramite i social. 

Ed è proprio dai social che la protagonista apprende dell’esistenza di una seconda – saranno poi molte di più- donna: una ricca ereditiera che vive negli Stati Uniti, viaggia molto, è bianca, abile, magra, molto attenta alle cause sociali e civili da copertina, al bricolage, all’arte contemporanea ricca di appropriazione culturale; è il ritratto perfetto dell’ipocrisia finto buonista della classe dominante, da cui ancora siamo attratti come lo sono le falene dalla luce.

Il libro è una visione perfettamente bilanciata del mondo dei social – e dell’amore al tempo dei social – come riflesso di una cultura eurocentrica, bianca, sessista e basata sul privilegio di classe. 

E questo viene meravigliosamente fuori dai due personaggi secondari della sua storia. 

I due personaggi che catalizzano l’attenzione della protagonista – di cui non sappiamo mai il nome – sono nominati come “l’uomo con cui voglio stare” e “la donna da cui sono ossessionata” e incarnano perfettamente il concetto stesso di privilegio: sono due persone mediocri, di base neanche troppo brillanti, ma la loro immagine riflessa dai device elettronici li rende incredibilmente affascinanti, creando una dipendenza da contenuti che la protagonista subisce con tigna stoica.

Se lei infatti, da un lato, percepisce quanto ipocrita sia il loro atteggiamento digitale (white saviorism, feticizzazione dei corpi neri, ricerca di approvazione, un perenne nozionismo usato come scudo contro la profonda ignoranza, la costante ricerca di essere al passo con i tempi senza tuttavia comprenderli mai), dall’altro non riesce proprio a separarsene.

E non può farlo per un motivo banale quanto inquietante: perché sono lì, sullo schermo, a portata di mano, pur sapendo che sono tutto ciò che odia.

La figura della donna da cui è ossessionata simboleggia perfettamente la competizione femminile di cui scrivevo sopra e che però è persa in partenza se non si è ricche, bianche, tendenzialmente fancazziste perché libere da un lavoro totalizzante. 

Ma i social sono spazi monodimensionali in cui le distanze sembrano minuscole e ci danno l’illusione di poter partecipare alla gara e raggiungere la capolista. 

Per questo si innesta la competitività, perché ci dimentichiamo della tangibilità del mondo e della sua non compassionevole classificazione sociale. 

E niente di più vero è mai stato descritto: quante volte siamo state gelose, invidiose, rancorose verso i profili delle supermodelle a cui i nostri amati – corrisposti o meno – mettevano fior fior di cuoricini? Lo siamo state e spesso lo siamo ancora perché abbiamo creduto, fino a quel momento, fino a quel like, di essere tutte sulla stessa linea di partenza, agli stessi blocchi. Questo è l’effetto social, quello che ti fa pensare “perché lei sì e io no?”

L’uomo di cui la protagonista vorrebbe essere la compagna è invece un poveraccio con traumi irrisolti, una moglie trofeo, un ego smisurato in compensazione delle mancanze emotive, un sacco di soldi e la spocchia di chi sa di essere in cima alla catena alimentare. Se parla di cause umanitarie lo fa solo per accrescere la sua immagine, non perché deve, non perché le senta, perché di base lui è esente da qualsiasi privazione. 

Se si connette con una donna, lo fa solo per cannibalizzarne le attenzioni. Il modo in cui usa le donne è meccanico, rapido, in una parola: sessista. Insomma, lo standard del maschio bianco cis etero dell’industria culturale, da cui di base e in teoria sappiamo tutte di dover fuggire ma nella pratica non riusciamo, perché subiamo il famoso fascino della narrazione.

E quella narrazione ce la fanno rimbombare dentro proprio i social.

Questi personaggi possono sulla prima sembrare agli occhi inesperti – o privilegiati – delle macchiette. Eppure nel digitale non esistono caratteri più comuni di quelli descritti da Patel. 

E nell’era in cui l’amore lo troviamo e manteniamo proprio grazie ai social media, questi personaggi dovrebbero insegnarci qualcosa, ovvero a proteggere quel fastidio di cui accennavo sopra, perché sintomatico di contatto con il reale.

E nell’amore al tempo dei social le distanze si annullano facendoci credere di appartenere tutti quanti a una stessa comunità, in cui le differenze non esistono e in cui tutti possiamo essere famosi per cinque minuti. In questa dinamica, riconoscere chi non è altro che problematico – o chi gongola nel proprio privilegio – diventa sempre più difficile, proprio perché sviluppiamo dipendenza in brevissimo tempo. 

Pensiamoci un attimo.

Soprassediamo sui profili di uomini adulti che seguono solo donne giovanissime e ragazze neanche maggiorenni riempiendole di emoticon di goccine, occhi a cuore, pesche, perché ci piace pensare che al fondo non siano così, che ci sia dietro qualcosa di misterioso. Ci giriamo dall’altra parte quando chi ci piace non sposa neanche una causa che ci sta a cuore, perché non vogliamo vedere la grande verità, ovvero che non la condivide perché non ne ha bisogno, perché non rivolta a lui. Romanticizziamo relazioni tra personaggi famosi che puzzano di abuso da diecimila chilometri di distanza (ultima tra tutte: Megan Fox e Machine Gun Kelly). Selezioniamo piaceri e infatuazioni replicando il sistema più antico del mondo ovvero quello che ci porta ad amare chi è in vetta alla classifica sociale, e l’odio nell’essere ignorati e ignorate è sovente figlio di un viscerale e problematico “non è possibile che non mi veda, eppure guarda come sono attraente con il mio profilo perfetto”. Ci allineiamo a modelli digitali preconfezionati nella speranza di essere contraccambiati, scritturati per la parte, scelti in una marea di banalità che vuole solo essere come gli altri, quando questi “altri” non sono mai come noi – principalmente perché sono ricchi e più famosi di noi. Cerchiamo di impersonare modelli che non ci rispecchiano solo per sembrare migliori agli occhi di chi ci guarda, ma sono solo dei grandi castelli di carta che ci rendono grotteschi, ben più grotteschi dei due personaggi di Sheena Patel, perché noi siamo reali e non di fantasia.  

E scritta così sembra una condanna, sembriamo succubi della performance anche nella ricerca del partner. Ma il fastidio, questo fastidio che mi tiene incollata alla pagina dell’uomo che mi piace, è la soluzione a questo dilemma. 

Nell’era digitale basta infatti pochissimo per trasformare un sentimento in un altro, totalmente opposto e ugualmente intenso: odi et amo, mai è stato più vero.

E con quel fastidio, con la ricerca spasmodica di una falla nella corazza digitale dell’altra persona, stiamo cercando di interrompere un flusso, quello che ci porta a guardare acriticamente le pagine che ci si presentano davanti, le vetrine di privilegio declinato in differenti modi ma che rimane pur sempre privilegio.

Alla fine della nostra chiacchierata a Più libri più liberi, Sheena Patel mi ha chiesto se vedessi nei social una via di fuga, se pensavo che la collettività – e dunque a seguito ogni singolo – potesse evolvere nel digitale. Sono rimasta in silenzio. Lei mi ha guardata e mi ha detto «Sai che non è possibile, vero, in un luogo dove per essere ascoltati gli esseri umani devono usare la lingua del padrone?».

Ho ripensato a questa frase, cercando di estenderla alla sfera sentimentale che si sviluppa nel digitale e non posso che confermare ciò che detto da Patel: stiamo replicando un mondo in cui il privilegio e la prepotenza degli stereotipi sono immutati. Solo che è più difficile capirlo, in un non-luogo in cui le distanze non sembrano esistere. 

E allora dove sta la verità? Chi siamo, di chi ci siamo innamorati?
Cosa abbiamo guardato finora?

La risposta arriva di nuovo da Sheena Patel: ci siamo innamorati delle aspettative figlie di una società che ci fa rincorrere la stabilità delle persone scintillanti. Queste vanno necessariamente ridimensionate, o ci renderanno ancor più tossico l’amore. Ci faranno piacere persone che nel mondo reale non considereremmo neanche sotto tortura. Ci renderanno sopportabili cose che non dobbiamo mai sopportare, come l’inedia, silenzio, la mediocrità, come il white saviorism, come il sessismo subdolo che serpeggia incessante tra le pagine dei profili. 

E noi, in questo limbo, non possiamo fare altro che continuare a controllare e ricontrollare i profili dei potenziali partner, nella speranza che sia cambiato qualcosa a distanza di qualche secondo, nella speranza che quel bagliore che vediamo sia un diamante quando in realtà è quasi sempre il riflesso del sole su una lattina accartocciata sul ciglio della strada. 

Questo controllo compulsivo ci corrode perché da un lato speriamo davvero che stavolta sia la volta buona, che nessuna lattina ci attenda seminascosta tra i cespugli.

Dall’altro però ci vuole ricordare che ricercare l’errore in mezzo alla vetrina lucida dei social è ancora un procedimento di cui abbiamo un disperato bisogno, perché non ne abbiamo ancora compreso del tutto la portata e la distorsione del reale che li accompagna.

Alla luce di queste elucubrazioni, mi chiedo all’improvviso: quante infatuazioni inutili ho avuto nell’ultimo anno e mezzo?

E mentre sono profondamente esausta da questa riflessione in automatico faccio un gesto con il pollice, tornando a guardare il profilo dell’uomo che mi piace.

Vedo che nel frattempo non ha messo storie, vedo che non ha aggiornato il feed. 

Comprendo che il mio fastidio nei suoi confronti sta proprio nella sua omologazione, nel suo privilegio di genere rivendicato in modo sottile. Nel suo silenzio su quel che ritengo importante. Nel suo bisogno di non usare la sua voce per difendere qualcosa a cui tiene. Nel suo piacere a tutti, grandi e piccini, sempre attento a non essere scomodo. Nel collezionare solo donne nei suoi follow, come fossero in vetrina, interscambiabili, tutte uguali, nella sua testa sono tutte a sua disposizione. 

Mi infastidisco di nuovo.

Mi rendo conto che questo fastidio significa che sono guarita, che non ci sono più cascata nel gioco delle lattine scintillanti: adesso lo capisco subito che proiezione sto guardando e posso agire di conseguenza. 

Posso anche percepire il perché sia più affascinante quando ci vediamo: perché c’è più distanza tra noi, nel mondo reale. E da lontano, in senso ovviamente metaforico, tutto sembra migliore.

Decido quindi di silenziare di nuovo i suoi post e le sue storie, consapevole di quanto sarà più rassicurante non vedere i suoi tondini. 

Controllo il profilo di altre persone, scorro acriticamente prima di accendere la luce e iniziare la mia giornata.

Ho ricevuto una notifica di un messaggio privato. 
Apro la sezione inbox, scorro un po’ col dito e clicco.

È un uomo, mi scrive una battuta intelligente su un articolo di giornale che ho da poco condiviso.

Guardo il suo profilo e mi sembra interessante. Fa lo scrittore. Sorride sempre in foto. 

Gli rispondo con un cuoricino nero.
Chissà se anche lui è una lattina. 

ARTICOLO n. 13 / 2023

IL MITO DELL’ABITO BIANCO

Consultando gli account social di riviste e quotidiani, mi capita con sempre maggiore frequenza di imbattermi in notizie che in realtà non lo sono affatto. Mi riferisco per esempio alla storia, letta poco tempo fa, della giovane studente incinta che ha discusso la tesi qualche minuto prima che iniziassero le contrazioni, oppure quella, risalente a qualche tempo prima, di un ragazzo che al termine della sessione di laurea ha chiesto alla fidanzata, che era tra il pubblico, di sposarlo. Ancora più recente è la notizia del calciatore bielorusso che, d’accordo con la squadra, ha invitato la fidanzata in campo per inchinarsi di fronte a lei e farle la proposta di matrimonio. 

Come dicevo, si tratta di notizie che di fatto non lo sono, perché più che offrire un vero contenuto informativo contribuiscono a veicolare un preciso messaggio intorno alla maternità e al matrimonio; in particolare l’idea che, per una donna, siano due eventi imprescindibili, strettamente correlati alla felicità e all’autorealizzazione personale. Non a caso, entrambe le notizie mettevano al centro della narrazione più gli eventi che le protagoniste: della giovane neolaureata o della ragazza del calciatore – di cui neanche sappiamo il nome – conosciamo solo la gioia dopo il parto, non quella per il titolo ottenuto o la sorpresa per il matrimonio in arrivo.

Maternità e matrimonio, di cui abbiamo parlato in un altro articolo, sono due facce della stessa medaglia la cui narrazione mitizzata contribuisce a mantenerne inalterato il potere. Che i due eventi abbiano molteplici punti in contatto è testimoniato anche sul piano etimologico; come ricorda Vera Gheno in un articolo apparso sul sitodell’Accademia della Crusca, il termine matrimonio si compone di due parole – mater e monium – che rimandano alla finalità generativa dell’unione. Scrive la sociolinguista: «l’etimologia stessa fa riferimento al “compito di madre” più che a quello di moglie, ritenendo quasi che la completa realizzazione dell’unione tra un uomo e una donna avvenga con l’atto della procreazione, con il divenire madre della donna che genera, all’interno del vincolo matrimoniale, i figli legittimi». Storicamente, tutto questo ha senso se consideriamo che il matrimonio non nasce con una finalità sentimentale, così come siamo abituati a intenderlo oggi, ma per lungo tempo è servito a suggellare accordi economici, sociali o politici tra famiglie e casate. Celebrare eventi di questo tipo era appannaggio delle classi sociali più abbienti ed è per questo che il rito avveniva con un certo sfarzo. Le spose indossavano abiti sontuosi realizzati in tessuti pregiati, il cui scopo non era tanto esaltarne la bellezza quanto esibire alla famiglia dello sposo le condizioni economiche di quella di provenienza. 

Il colore bianco, che oggi ci sembra scontato, si è imposto solo in epoca recente e anche in questo caso la questione estetica era accessoria. La scelta del colore aveva una valenza simbolica: doveva dimostrare che la sposa era talmente benestante da potersi permettere un abito realizzato appositamente per l’evento, in una tonalità così delicata che non si sarebbe potuto indossare per altri scopi se non per quel giorno “speciale”. Inoltre doveva rimandare, sempre su un piano allegorico, alle doti di verginità e purezza, indispensabili per garantire quei figli legittimi di cui scriveva Gheno. In realtà, dopo aver fatto la sua apparizione nel sedicesimo secolo alle nozze di Maria Stuart con l’erede al trono di Francia, l’abito bianco venne considerato a lungo presagio di sventura a causa della morte prematura del sovrano, avvenuta prima ancora di poter generare un erede. È solo nel 1840 che ricompare, quando la Regina Vittoria sposò il principe Alberto di Sassonia, cominciando a fare tendenza tra le nobili e le giovani dell’alta borghesia.

Se sfoglio l’album di famiglia, scopro che la prima a indossare l’abito bianco è stata mia mamma, all’inizio degli anni Settanta. Chiacchierando con lei, ho saputo che lo aveva acquistato pochi giorni prima delle nozze in un negozio della mia città, ormai chiuso da tempo, che disponeva di una piccola selezione pensata per le future spose. Non era un capo sartoriale o su misura, come oggi si trovano nelle boutique specializzate, che hanno per questo costi elevati e lunghi tempi di realizzazione. Sua mamma, che si è sposata intorno alla metà degli Anni Quaranta, indossava un normale tailleur scuro. Nell’unica immagine conservata nell’album, sopravvissuta al tempo, tiene in mano un piccolo bouquet, non ci sono altri scatti che testimonino il servizio fotografico esclusivo o il grande ricevimento semplicemente perché non ci sono stati. Non ho più la possibilità di chiederglielo, ma probabilmente indossava l’“abito buono”, quello da usare con cura nei giorni di festa; dopo il rito non c’è stato alcun evento ma solo un pranzo insieme ai suoi genitori e a quelli di mio nonno. Per una famiglia contadina, come del resto era quella da cui proveniva, sarebbe stato impossibile disporre di un capo pensato per l’occasione, di un colore praticamente inutilizzabile in qualsiasi altro contesto, o di spendere grosse somme di denaro per l’evento. Eppure, oggi l’abito è l’oggetto irrinunciabile della cerimonia e le future spose sono disposte a investire una cifra importante arrivando anche a indebitarsi per poter disporre di un budget in grado di garantire un’organizzazione sfarzosa. Questa tendenza, in atto da diverso tempo, si nutre di continui richiami alle favole delle principesse Disney o alle vicende, vere, di Elisabetta di Baviera, Diana Spencer o Grace Kelly, tutte nobili ma con un’anima pop in grado di mitizzarle rendendole appetibili anche agli occhi della gente comune. Un aspetto da non trascurare, considerando che l’attuale narrazione pone molta enfasi sull’idea che un matrimonio sfarzoso saprà trasportare la futura sposa al centro di una favola che, come il ballo di Cenerentola, è destinata a svanire nel giro di qualche ora.

La tradizione dell’abito bianco e della festa in grande stile dovrebbe farci riflettere su quanta enfasi poniamo nei confronti dell’evento e sulle motivazioni che lo rendono imprescindibile, soprattutto per le ragazze. Queste domande diventano interessanti se consideriamo che, secondo Istat, in Italia ci si sposa sempre meno. Prima della pandemia, che ha per ovvie ragioni frenato gli eventi, se ne sono celebrati poco più di 184mila a fronte di 97mila separazioni. Il trend è in calo, eppure, o forse proprio per questo, sembra che il settore del wedding resista alla crisi. Si continua a produrre e stampare magazine e riviste monotematiche per guidare le donne alla scelta del vestito perfetto e a organizzare, nelle grandi città, fiere ed esposizioni in cui scoprire le ultime tendenze in fatto di moda. In TV spopolano programmi come “Abito da sposa cercasi”, “Il castello delle cerimonie” o “Quattro matrimoni”, tutti incentrati sulle vicende delle future spose alle prese con l’outfit, l’organizzazione della cerimonia, la scelta della location più ricercata per far invidia alle amiche. Produzioni di questo tipo contribuiscono a mantenere lo stereotipo secondo cui, per le donne, sposarsi in abito bianco rappresenti il coronamento di un desiderio a cui vengono educate fin da bambine. Tutto ciò, ancora una volta, viene confermato dai dati: secondo un’indagine realizzata da Istat sull’influenza degli stereotipi nel mantenimento di una certa immagine della violenza di genere, il 37% del campione intervistato ritiene che sposarsi sia il desiderio di ogni donna. Quando però si chiede cosa sognino gli uomini, le cose cambiano: per più del 32% della popolazione italiana tra i 18 e i 74 anni, senza grosse distinzioni di genere, il successo sul lavoro è la loro principale ambizione ed è pertanto considerato normale che solo loro si impegnino attivamente per raggiungerlo.

Le opinioni raccolte dall’inchiesta offrono un punto di vista interessante che può aiutarci a capire perché la pressione sociale nei confronti del matrimonio non ricada in egual misura su uomini e donne. Intorno ai trent’anni – che per la statistica è l’età media in cui ci si sposa – gli uomini sono impegnati a progettare il proprio futuro, a posizionarsi sul mercato lavorativo e a fare carriera. Diversa è invece la condizione delle donne. Almalaurea ha recentemente confermato un dato significativo: le alunne compiono percorsi universitari brillanti, generalmente più rapidi di quelli dei compagni, tuttavia non ricevono le medesime opportunità di impiego e a un anno dalla laurea faticano molto più dei colleghi per essere assunte. Per molte, l’impatto col mondo del lavoro influisce negativamente sulle aspirazioni professionali. Non riuscire a trovare un impiego o imbattersi solo in contratti precari, scarsamente retribuiti, è sicuramente un fattore che le porta più facilmente a rinunciare alla carriera e ripiegare sulla famiglia, ambito in cui le soddisfazioni personali sembrano quasi garantite. Così, se per il genere maschile sposarsi è un’opzione, un evento auspicabile ma non indispensabile, per le donne diventa il luogo entro cui realizzarsi, dopo aver provato a fatica una realizzazione al di fuori delle mura domestiche.

Anche per me il matrimonio ha rappresentato il tentativo di sperimentarmi, scegliendo una strada che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto procurarmi un po’ di soddisfazione personale in un periodo in cui trovare un impiego affine ai miei studi sembrava difficile, oltre che sconsigliato dalla gran parte delle persone con cui mi confrontavo – che insistevano nel ricordarmi che prima o poi vi avrei rinunciato spontaneamente, per mettere su famiglia. Ci è voluto tempo per capire che, in realtà, sposarmi non era un mio desiderio ma rappresentava solo il tentativo di aderire a un mandato che molte donne, dentro e fuori il mio contesto familiare, avevano perseguito a loro volta prima di me. Nel suo articolo, Giulia Paganelli scrive che quello della principessa è uno stereotipo i cui effetti permangono inalterati e rivestono il corpo culturale delle donne. Educate all’idea del principe azzurro che verrà a salvarci e al lieto fine del “…e vissero felici e contenti”, il matrimonio si inserisce in questa narrazione finendo per diventare un modello che sembra garantire alle donne un certo appagamento personale e l’idea di essere, almeno per un giorno, protagoniste di una favola che non ci procurerà insoddisfazione o tristezza. Combattere gli stereotipi è anzitutto un’operazione di decostruzione dei miti che, un po’ come quello platonico della caverna citato da Paganelli nel suo pezzo, contribuiscono a mantenerci, immobili e silenziose, davanti a un teatro di immagini inconsistenti. Il fatto che siano le donne a sperimentare con più frequenza la pressione sociale a sposarsi e metter su famiglia ci mostra perché sia importante continuare a compiere quest’operazione. L’intento non è quello di denigrare il rito in sé quanto piuttosto rivelarne i meccanismi impliciti. Il rischio, in cui tra l’altro io per prima mi sono imbattuta, è quello di vedere il matrimonio come un palliativo, qualcosa in grado di colmare tutti i bisogni di realizzazione che sul piano sociale o lavorativo sembrano difficili da soddisfare, soprattutto per una donna.

Negli Anni Quaranta, lo psicologo Abraham Maslow si è occupato di bisogni personali e delle strategie che ogni essere vivente attiva per appagarli. Per rappresentare la molteplicità delle necessità, materiali e immateriali, che ci caratterizzano, Maslow ha utilizzato l’immagine della piramide. Lo schema piramidale permette di cogliere anche visivamente il fatto che i bisogni abbiano radici e collocazioni differenti e pertanto anche meccanismi di appagamento diversi. Per questo, lo psicologo sostiene che sia impossibile soddisfare i bisogni di autorealizzazione e autostima, che hanno a che fare con le nostre aspirazioni, con un’azione come il matrimonio, che appaga invece il bisogno di appartenenza, ossia la necessità di sentirci amati e al sicuro all’interno di relazioni affettive e amicali.Ci possono essere un’infinità di motivi per sposarsi ma è senza dubbio importante riconoscere quando ciò sia motivato da ragioni che non sono ascrivibili a una vera scelta. Impegnarsi per decostruire i miti intorno all’abito bianco e alla favola delle nozze perfette consentono di ripulire il discorso da una narrazione che trasforma il matrimonio in un momento di soddisfazione illusoria, aiutandoci a vederlo per quello che è: una tappa non obbligatoria della vita e proprio per questo sensata, che può contribuire comporre la nostra identità senza esaurirla in essa.

ARTICOLO n. 12 / 2023

LETTERA AL MIO AMICO AMADEUS

Pubblichiamo un estratto dal romanzo d’esordio di Claudia Grande, Bim Bum Bam Ketamina (Il Saggiatore). La voce che ci accompagna allinterno di questo gorgo terribile ed esilarante è quella del tuttofare Roberto, trentenne senza ambizioni e senza soldi, creatura crudele e ingenua, «uomo in affitto» che si procaccia sempre lavori mal pagati.

Torino, la data non è importante

Caro Amadeus, 

se ho deciso di scriverti è perché, come succede ogni volta che scrivo a qualcuno che amo, per poi rendermi conto che quel qualcuno non ci capirebbe un’acca, finisco per contraddirmi e, scioccamente, gli scrivo lo stesso. Dopodiché mi lambicco il cervello, mi tartasso con ferocia le sinapsi, desumo che il problema non è il mio messaggio, la lingua in sé, ma il rapporto instaurato tra me e quella persona, la specifica risma di detti e non detti che hanno plasmato il nostro modo d’intenderci, e allora penso (ancora) che dovrei fregarmene del rapporto corrente (soprattutto se è in piena crisi, come nel nostro caso), dovrei sbattermene i cosiddetti di quanto questo rapporto sia vero o finto, felice o infelice, traballante o gravemente compromesso, perché quella cosa, quella specifica risma di sentimenti, ho bisogno di comunicarla comunque: voglio estroflettermi alla faccia degli altri, portarmi al di fuori di me – e Ginevra, la mia psicoterapeuta, sarebbe felice di questo strabiliante progresso nel condividere le mie emozioni piuttosto che reprimerle fino a farmi venire l’ulcera; allora concludo che, per il bene di tutti, mio e della persona coinvolta nel rapporto, il messaggio devo scriverlo, certo, ma provando a non dilungarmi, sebbene non sia proprio il mio forte… 

Caro Amadeus, se ho deciso di scriverti (una lettera, non un messaggio) è perché la maestra delle scuole elementari diceva che, au contraire, il bambino prodigio chiamato Roberto avesse grandi doti di sintesi, quindi eccomi qui, ecco che tento di comunicare ciò che provo, sebbene quello che provo sia delusione – una grande, gigantesca, incandescente amarezza. 

Non avrei mai pensato che fosse possibile – non con te; eppure, mi hai tradito anche tu. 

Non avrei mai pensato che tu, come tutti gli altri, fossi un egoista infingardo; ma è questo che nascondi dietro al pizzetto finemente curato, dietro a quell’aria da padre e marito perfetto. Ora ho visto, ho vissuto sulla mia pelle; e quindi no, non ci casco più. 

Non voglio ricordare i bei momenti passati insieme. 

Non voglio fare l’elenco delle esperienze che ci hanno emozionato – FestivalbarBuona DomenicaIl QuizzoneMeteoreMatricole; lo slancio verso Leredità, dove hai conosciuto la bellissima Giovanna; la Maratona Telethon, i Soliti IgnotiArena Suzuki 60 70 80… il coronamento di una carriera stellare con tripla conduzione del Festival di Sanremo. Anche quadrupla, dicono alla RAI. Io c’ero, ci sono sempre stato. Pensa che mia madre preparava una torta per ogni tuo successo televisivo. Ti volevamo bene, capisci?, te ne volevamo sul serio; ma da ieri, dal Truth or Dare Show, qualcosa è cambiato. 

Quella cosa ha un nome, sebbene io non lo conosca; e possiede (permettimi di dirlo) un indecente cappellino verde con la visiera obliqua, che non va più di moda nemmeno tra i tossici e i rapper, figuriamoci in televisione. 

Devi sapere che mi sono accorto dell’uomo col cappellino. Non ci capiva un’acca, di quello che stava facendo.
Le inquadrature che ha suggerito al cameraman erano tutte banali, storte o sbagliate.
E non hai visto che inciampava sui cavi, rischiando di far saltare le luci?
Avrebbe rovinato il tuo programma, la tua carriera, perché di questi tempi un singolo errore può costarti tutto, ogni goccia di sudore faticosamente versata. Io ci tengo a un Amadeus iv, v, xii al Festival di Sanremo; ed è per questo che ho infilato i miei volantini nelle buche delle sedi RAI (città di Torino): via Giuseppe Verdi numero 16 e 14, via Carlo Cavalli numero 6, persino all’Auditorium, in via Gioacchino Rossini, e il risultato è stato l’uomo col cappellino. 

Non mi hai risposto; hai preferito lui. 

Non hai notato che Roberto, l’Uomo in Affitto, ha un impressionante curriculum da tecnico del suono, aiuto regista, provetto imbianchino e lava‐pavimenti? È possibile che, tra tutte le candidature avanzate da fanfaroni provenienti da ogni parte d’Italia, la mia fosse in assoluto la peggiore? 

Non ci credo.
È del tutto irrealistico.
Credo, piuttosto, che fosse un imbroglio attentamente programmato.
L’uomo col cappellino, che ha rovinato la puntata più bella del Truth or Dare Show, che ha fatto inquadrare Remo in ombra e decentrato prima che cadesse nel Buco, non può essere più bravo di me. È più raccomandato – verosimilmente da te, perché sei tu che gestisci il programma, sei tu che godi a circondarti di sciattoni e smargiassi pescati chissà dove, come la stupida Guendalina, che non sa distinguere il colore della tua pelle da quello della pelle di Carlo Conti. Carlo Conti, porca puttana! Praticamente un aspirante congolese. Non ho mai fatto il truccatore in vita mia, ma ti assicuro che la tua pelle la conosco a menadito, molto meglio dell’incapace conclamata che risponde al nome di Guendalina Nonsoché.

Saprei truccarti.
Saprei sceglierti i vestiti migliori.
Saprei offrirti le migliori inquadrature, le più grandi abbuffate di audience e share; e se dovesse servire qualcuno che aggiusti un rubinetto o una maniglia, beh, io saprei fare anche quello. 

Perché in RAI assumete tutti questi incompetenti e non date una chance a me

Perché tu, Amadeus, non hai custodito i miei volantini, non ti sei neppure degnato di leggerli, preferendomi l’uomo col cappellino, la truccatrice balorda, chissà quale altro citrullo, votando il Truth or Dare Show al fallimento completo? Andrete in rovina, con una squadra del genere a pasticciare dietro le quinte. Con uno come me, invece, sarebbe un successo. 

Che dire, ora?
Mi sento in imbarazzo.
Per te, ovvio; ma anche per me.
Perché… ho pensato che fosse colpa mia, Cristo!, che non mi fossi venduto bene; e allora mi sono reinventato, ho riscritto i volantini da cima a fondo, vi ho consegnato anche quelli, sperando di ricevere risposta, e invece niente, ancora, estenuante silenzio. Ecco uno dei nuovi volantini. Te lo incollo qui sotto, sia mai abbia voglia di leggerlo: 

IL TUTTOLOGO 

*** 

TRASLOCHI E SGOMBERI 
cantine, solai, alloggi, magazzini, uffici, negozi… 

EDILIZIA GENERALE 
ristrutturazioni, demolizioni, costruzione di cucce per cani (cani o gatti, a seconda dell’occorrenza), tinteggiatura/decorazioni (di interni ed esterni), impianti idraulici/elettrici/quant’altro, pulizie post lavoro incluse nel preventivo, e ancora… 

PICCOLI LAVORI – DOMESTICI E NON 

REGIA, AIUTO REGIA, PRESENZA SCENICA IN TELEVISIONE,
cucitura e scucitura bottoni, riparazione perdite, controllo caldaia, pulizia muffe, estirpazione funghi, svuotamento lettiere, rassettamento cantine, scrostamento ghiaccio dal frigorifero, e ancora… 

COMPRAVENDITE AUTORIZZATE 
(io compro e voi vendete, autorizzandomi ad acquistare) antiquariato, modernariato, design e oggetti preziosi. 

***
PREVENTIVI GRATUITI MASSIMA SERIETÀ E CORTESIA 

SERVIZI A METÀ PREZZO PER COMMITTENZA RAI 

Figo, no?
Ottimo esempio di copywriting.
Chiamami, avrei voluto dirti; so che hai fatto una cazzata a non scegliermi, ma posso essere magnanimo, se si tratta di te. Se ti decidi a chiedermi scusa. 

Dopo la puntata di ieri, ho parlato con mia madre. «È colpa della laurea» ha detto.
«Quella non la metto nei volantini.»
«Perché non serve.» 

«Invece sì. Filosofia significa “amore per il sapere”.» «A che serve, sapere?»
«…»
«Che devi sapere, per lavorare?» 

Ha ragione lei: meno sai e più lavori. 

Lo dimostrano l’uomo col cappellino, la truccatrice daltonica, i vecchi scalzacane incompetenti della RAI; lo dimostri tu, Amadeus, preferendomi persone che non sanno, non hanno mai voluto sapere, figuriamoci se sono in grado di amare – la conoscenza o qualunque altra cosa al suo posto. 

Non ti vorrò più bene; non crederò più alla tua faccia da santone, al sorriso falso e tirato della tua squallida moglie Giovanna. 

Tieniti l’uomo col cappellino, conduci quel tuo traballante programma; remate contro gli scogli, verso il flop più totale, che minaccia di garantire un notevole vantaggio a Mediaset e una gastrite coi controcazzi ai Sommi Vertici della RAI. 

E magari mi sono espresso male, magari le parole che ho usato non hanno trasferito il concetto – la mia bravura, tutte le cose che più o meno so fare, anche se ho dovuto impararle da solo, perché nessuno ha voluto insegnarmele. Un discorso del genere (sulle parole, intendo) l’ha fatto Wittgenstein cent’anni fa, o forse era David Foster Wallace, il Mahatma Gandhi, Chanel Totti, ma chissenefrega!, il punto non è questo, il punto è che, secondo una certa cricca di pensatori, la parola non trasmette il significato. Un po’ come le caramelle alla fragola, che non sanno di fragola ma di qualcosa che ci va vicino – che la fragola, al massimo, te la può far immaginare, e per di più diversa da quella che sarebbe in realtà.

Che vada a farsi fottere, la tale fragola o chi per lei.
Che si fottano tutte quante le caramelle.
Se la fragola l’hai provata, il sapore lo riconosci anche succhiando una caramella, annusando la parvenza di fragola, la promessa fugace di fragola, il Simulacro Tale Suprema Fragola o come cavolo vogliamo chiamarlo; e non serve mangiarsi le fragole del contadino per afferrare il concetto di fragola in sé

Sto dando i numeri?
Non lo so più.
Mi sento come una succosissima fragola scambiata per volgare caramella. L’uomo col cappellino è caramella allo stato puro, è zucchero e colorante rosa, ma ve ne accorgerete presto. E a quel punto, non ci sarò. Non potrete più chiamarmi, perché mi sono riappropriato dei volantini che ho infilato in ogni buca della RAI. Vi pentirete di non avermi scelto, ma per non vivere di travianti illusioni avreste dovuto studiare Platone, le ombre, il mito della caverna, e sfortunatamente è troppo tardi, come succede nei film, e quindi attaccatevi… avrete capito a cosa. 

Ti saluto, Amadeus.
Ti lascio con un ultimo pensiero.
Con te avrei fatto l’amore, ma tu mi hai costretto a imbracciare il fucile. Cioè, sia chiaro: sto parlando per metafore. Avrei fatto l’amore in senso puramente platonico, assolutamente non‐biblico, come avrai capito a dispetto delle parole che ho usato. 

Le parole non sono sufficienti a esprimere quello che sentiamo, ma ci vanno vicino, ed è questo che conta. Qualunque cosa che ci distolga da un perfetto e assoluto niente. 

Mi dispiace sia finita così.
Non è stato bello non conoscerti.
A far data da oggi, che non so che giorno sia, non avrai più notizie del sottoscritto.
Per sempre tuo, con infinita dolcezza 

Roberto, lUomo in Affitto
(il fan più sconsolato di Torino) 

ARTICOLO n. 11 / 2023

METODI MAESTRI AMICI

Intervista di Eloisa Morra

A ridosso della nuova edizione di Indagini su Piero (Adelphi, 2022) ho avuto il piacere di intervistare Carlo Ginzburg, storico di fama, su metodi e interlocutori che hanno segnato la sua traiettoria di ricerca. Nato a Torino nel 1939, Ginzburg è a oggi uno degli intellettuali italiani più riconosciuti all’estero (ha insegnato a lungo alla UCLA, e fino al 2010 ha tenuto la cattedra di Storia delle Culture Europee alla Scuola Normale). Merito di una straordinaria erudizione unita alla capacità di verticalizzare i problemi traducendoli in uno stile impeccabile, che riverbera gli stimoli d’una vita passata tra i libri. Leggere Carlo Ginzburg è un’esperienza che esige lettori disposti a confrontarsi con i propri limiti: i suoi saggi avanzano per intuizioni fulminee, mettendo in contatto tra loro momenti apparentemente distanti della storia della cultura, con risultati sempre sorprendenti. Ma rileggendo s’intende che i ‘clic’ del connaisseur sono conseguenza d’una capillare esplorazione di archivi, biblioteche e della consapevolezza costruttiva di cui si diceva: ne sono prova raccolte quali Occhiacci di legno e La lettera uccide e le monumentali analisi comparate di Storia notturna e Nondimanco. La capacità diagnostica nell’unire l’infinitamente piccolo all’infinitamente grande richiama le architetture di Auerbach, Gombrich, Orlando, Starobinski, ma con un ulteriore quid di versatilità. Senz’altro diversificati tra loro — si è occupato di processi per stregoneria e di casistica, di straniamento e di Picasso, della metodologia di Aby Warburg e delle fallacie del processo Sofri — gli oggetti di studio di Ginzburg possono essere letti come ordito d’un tappeto la cui cifra consiste nell’indagine della relazione tra caso e anomalia. Che il suo lavoro sia decisivo lo prova la capacità di oltrepassare i confini disciplinari (e gli angusti confini nazionali): storici dell’arte, italianisti, storici della lingua, antropologi di tutto il mondo hanno tratto e ne traggono tuttora linfa vitale. Chiunque voglia avvicinarsi al piacere della ricerca – “l’euforia dell’ignoranza” data dall’approcciarsi a un argomento di cui si sa poco per approfondirlo sempre più, diventandone quasi posseduti – dovrebbe leggere i suoi libri.

Eloisa Morra: Complice un occhio alla destinazione della conversazione inizierei da un’occasione esterna, la ripubblicazione di Indagini su Piero — con una nuova postfazione e un apparato iconografico arricchito — e delle sue opere per i tipi di due case editrici assai diverse da Einaudi, Adelphi e Quodlibet. Edizioni ampliate e “problematiche” (nel senso che mettono in luce ipotesi scartate, dubbi propri di ogni ricerca), che oltre a porre di fronte al pubblico il cantiere aperto dei suoi studi tracciano un’autobiografia intellettuale. Cosa l’ha spinta a questa scelta?

Carlo Ginzburg: L’idea della ripubblicazione — anzi, di nuovi libri alternati a volumi già editi, corredati di nuove postfazioni, un genere che mi è molto congeniale — nasce dall’incontro e dall’amicizia con Roberto Calasso. Quando negli anni Ottanta stavo lavorando al mio libro sul sabba, Storia notturna, Calasso mi chiese di pubblicarlo con Adelphi; dopo qualche esitazione decisi di pubblicarlo con quella che era da sempre la mia casa editrice, cioè Einaudi. Quando, anni più tardi, Einaudi venne comprata da Berlusconi, ne uscii (anzi, uscimmo in due: l’altro era Corrado Stajano). Dopo un periodo di lavoro con Feltrinelli decisi, d’accordo con Calasso, di ripubblicare con Adelphi Storia Notturna (2017), che aprì la serie dei libri già editi; tra i libri nuovi si sono susseguiti Paura reverenza terrore (2015), Nondimanco (2018) e più recentemente La lettera uccide (2021), che raccoglie alcuni saggi apparsi solo in inglese e tradotti da me, più un paio di inediti. 

E.M. Da dove nasce invece la richiesta di Quodlibet?

C.G. Dal loro interesse, e da un dato materiale: alcuni dei miei libri erano ormai fuori catalogo. Abbiamo pubblicato Giochi di pazienza, con due postfazioni (stavolta separate, a differenza del testo) una mia e una di Adriano Prosperi, e una versione ampliata di Occhiacci di legno, in cui le riflessioni sulla distanza sono diventate dieci

E.M. Indagini uscì nel 1981 come primo numero della collana “microstorie” Einaudi: ha formato più generazioni di studiosi, oltre ad avere una ricezione straordinaria. Negli incontri e presentazioni recenti ha percepito la presenza di un nuovo pubblico di lettori?

C.G. Senza dubbio, questo era lo scopo principale: trovare nuovi lettori. 

E.M. La storia dell’arte è stata cruciale nella sua traiettoria di ricerca, e non penso solo ai temi ma piuttosto ai metodi e agli interlocutori. Le Indagini nascono negli anni in cui scriveva il saggio su Centro e periferia con Enrico Castelnuovo, cui ha dedicato anche un saggio recente, Piccole differenze. Ekphrasis e connoisseurship (2016, poi 2021). Il rapporto con Castelnuovo ha cambiato il suo rapporto con la storia dell’arte?

C.G. Castelnuovo è stato un amico carissimo; da lui ho imparato molto, ma non mi pare che abbia cambiato il mio interesse per la storia dell’arte e i suoi metodi, che era già molto intenso. Avevo già scritto il saggio Da Warburg a Gombrich (del ’66, poi incluso in Miti emblemi spie), e nutrivo una forte passione per la storia della pittura (da ragazzo volevo diventare pittore, anni dopo volevo diventare storico dell’arte: non sono diventato né l’uno né l’altro). Quando uscì Indagini su Piero vari storici dell’arte lo criticarono, in qualche caso aspramente. Qualcuno sostenne che non mi interessavo ai fatti artistici: una sciocchezza. Successivamente Castelnuovo m’invitò a scrivere insieme a lui il saggio “Centro e periferia” per la Storia dell’arte italiana Einaudi (1979, poi 2019): un’esperienza straordinaria (e straordinariamente divertente). 

E.M. Nel saggio sull’importanza del conoscitore dedicato a Castelnuovo indicava Michael Baxandall tra i pochi storici dell’arte al di fuori dell’ambito italiano sensibili alla lezione di Longhi (anche per l’attenzione alla stratificazione linguistica, al linguaggio delle botteghe). Mi parla del suo rapporto con Baxandall?

C.G. Conobbi Baxandall a Londra, al Warburg, dove trascorsi un anno (1967-’68). Diventammo amici; ricordo fitte conversazioni con lui, e una bellissima conferenza che sarebbe poi confluita nel saggio che chiude Giotto and the Orators (Giotto e gli Umanisti). Baxandall mi riporta a Piero della Francesca: penso al capitolo di Painting and Experience (Pittura e esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento) in cui si analizza un particolare degli affreschi di Arezzo (il baldacchino visto di scorcio che sovrasta Cosroe, sul punto di essere decapitato). Baxandall ricostruisce la reazione dei mercanti aretini committenti di Piero attraverso un’esperienza sociale (una nozione che è al centro del suo libro): la lettura della pagina di un Trattato d’abaco dedicata alla misurazione di una botte. A questo punto si scopre – un colpo di scena magistrale — che l’autore di quel Trattato d’abaco era per l’appunto Piero. Ma anche se non fosse stato Piero l’argomentazione avrebbe funzionato lo stesso, perché il Trattato d’abaco rinviava comunque al contesto culturale e sociale dei committenti di Piero. 

E.M. Che cosa pensa dei visual studies

C.G. La nozione di visual studies mi pare troppo ampia, e troppo generica; trovo più interessante ritornare sul lavoro del conoscitore, per esplorarne le ricchissime implicazioni. Su questo tema ho scritto recentemente, oltre a Piccole differenze, un saggio intitolato Storia dell’arte da vicino e da lontano.  

E.M. Lavorando in Nord America ci si rende conto di quanto quella radice longhiana — anche continiana, della critica delle varianti — non sia stata per nulla recepita. In alcuni casi addirittura queste due figure non si conoscono proprio (nell’insegnare un corso su fatto e finzione ho inserito Anna Banti in programma, e menzionando Longhi mi sono resa conto che gli studenti non l’avevano mai sentito nominare). In quel saggio, Piccole differenze, accenna alla difficoltà di tradurre il linguaggio di Longhi; e forse il suo legame col mercato potrebbe aver generato diffidenza.

C.G. Su quest’ultimo punto non sono d’accordo: il legame di Berenson col mercato non ha certo impedito la diffusione dei suoi scritti. Ma nel caso di Longhi la difficoltà di tradurre il suo linguaggio ha costituito un ostacolo: e lo stesso è avvenuto con Contini. Nell’Éloge de la variante (In Praise of the Variant. A Critical History of Philology) Bernard Cerquiglini ha ignorato gli scritti di Contini (fondamentali) sulle varianti.

E.M. Tornerei sui due maggiori elementi di novità di Indagini su Piero in Adelphi, che nasce come reazione e confutazione della cronologia di Longhi. Il primo è l’apparato iconografico, davvero straordinario, che permette di seguire e verificare passo passo le sue ipotesi, in modo più perspicuo rispetto alle precedenti edizioni Einaudi: come avete lavorato? Nella Postfazione lancia invece una sfida agli attuali storici dell’arte, rovesciando la cronologia tra la Resurrezione di Piero e quella di Andrea Del Castagno. Ha ricevuto reazioni su questo aspetto?

C.G. Il primo nasce dal lavoro fatto insieme a Francesca Savastano di Adelphi, redattrice bravissima, che non smetterò mai di ringraziare; la seconda dalla necessità di rimettere in discussione alcuni dei risultati delle mie ricerche (già le precedenti edizioni includevano varie appendici) e di presentare nuove ipotesi. Longhi aveva sostenuto una dipendenza della Resurrezione di Andrea Del Castagno (da lui chiamato sprezzantemente Castagnaccio, soprannome che alludeva forse alla secchezza del segno) da quella di Piero. In realtà è vero l’inverso: Piero aveva visto l’affresco di Del Castagno, traendone nutrimento per andare in tutt’altra direzione. Non ho avuto ancora reazioni dagli addetti ai lavori: ma l’approfondimento di questo rapporto mi pare assolutamente necessario. 

E.M. Molti libri di Longhi nascono come commenti o reazioni a mostre. Mi chiedevo se le era mai capitato di vedere in particolare una mostra, un allestimento che le suggerisse, magari, la scrittura di un saggio.

C.G. Credo che questo sia successo, ma a decenni di distanza, con la Flagellazione. Perché l’ho vista la prima volta nel 1953 (avevo 14 anni), in una mostra di quadri restaurati dall’Istituto Centrale del Restauro. Non mi sarei mai immaginato che avrei continuato a occuparmi di quel quadro per decenni.  

E.M. Tornando invece alla collana “microstorie”, rileggevo il suo articolo “Microstoria: due e tre cose che so di lei” (1994) dove sottolineava, appunto, l’importanza della scala.

C.G. Lì facevo riferimento a un saggio di Jacques Revel, da lui poi ha raccolto in un volume intitolato per l’appunto Jeux d’échelles. La micro-analyse à l’expérienceAl plurale: il rapporto tra “scale diverse” visto come caratteristica della microstoria.

E.M. L’idea di scala/scale diverse è legata anche alla nozione di esperimento, termine che ha usato più volte in La lettera uccide. Una scala ridotta permette la possibilità di estrarre soltanto alcuni elementi in relazione a un problema, per poi in futuro ampliare o generalizzare. Quanto ha contato in questo senso che lei abbia avuto un nonno come Giuseppe Levi, biologo legato alla scienza sperimentale e maestro di tre premi Nobel?

C.G. Penso che questo abbia avuto una grande importanza. Il prefisso “micro” della parola “microstoria” rinvia al microscopio, ossia allo sguardo analitico, non alle dimensioni reali o simboliche dell’oggetto della ricerca. Ma per me il microscopio, preso alla lettera, è legato a mio nonno, Giuseppe Levi: una figura che ha contato moltissimo da ogni punto di vista, affettivo e intellettuale. (In un convegno a lui dedicato, ho descritto le reazioni che ebbi quando – avevo dieci anni – m’invitò nel suo laboratorio a guardare attraverso la lente di un microscopio). Ora, nella microstoria, ciò che consente di passare dall’esame analitico basato su una serie di dati alla generalizzazione è per l’appunto l’esperimento. Come mi è capitato di dire più volte, al progetto collettivo che è stato la microstoria io sono arrivato attraverso lo studio di casi. Il termine “caso” ricorre alla fine del mio primo saggio pubblicato, Stregoneria e pietà popolare (1961), basato su un processo di stregoneria del 1519 contro una contadina modenese, Chiara Signorini. Alla fine del saggio scrivevo: «Esso è in grado di gettare qualche luce sulla natura del rapporto, che si concretava drammaticamente nel processo, tra streghe e inquisitori. Anche da questo punto di vista il caso di Chiara Signorini, pur nei suoi aspetti irreducibilmente individuali, può assumere un significato in qualche modo paradigmatico». Quando, anni fa, ho riletto queste frasi ho pensato che il termine “paradigmatico” riecheggiasse il grande libro di Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Ma mi sbagliavo: il mio saggio uscì nel ’61; il libro di Kuhn nel ’62.

E.M. Conclusioni analoghe dunque, ma in autonomia.

C.G. Diciamo che usavo il termine “paradigmatico” nel senso di “esemplare”: uno dei tanti significati con cui Kuhn lo ha usato nel suo libro. Ma quello che mi colpisce retrospettivamente è l’importanza che attribuivo a un caso definito anomalo, e però al tempo stesso esemplare. Quest’intreccio è qualcosa che ha accompagnato la mia traiettoria di ricerca fino ad oggi. Alla microstoria sono arrivato attraverso lo studio di casi. In un saggio intitolato Il caso, i casi ho spiegato come il “caso”, nei due sensi del termine (in inglese, case e chance) mi abbia portato a studiare la casistica, che è al centro del mio libro Nondimanco.

E.M. Tornando ai primissimi saggi, quanto ha contato il magistero di Delio Cantimori, soprattutto in relazione alle sue idee sulla storia della mentalità, della cultura?

C.G. Senza l’insegnamento di Cantimori il mio percorso di ricerca sarebbe stato completamente diverso, e infinitamente più povero. Penso ai suoi libri, ai suoi saggi, e prima ancora ai suoi seminari: un esempio straordinario di “lettura lenta” (la definizione della filologia data da Nietzsche). ‘Storia della mentalità’ era un’etichetta allora era in voga. Poi però ne ho preso le distanze: nella prefazione alla ristampa de I benandanti (1973) sottolineai che avevo evitato la nozione di mentalità collettiva, concentrandomi su uomini e donne con nome e cognome. Si trattava di una presa di distanza rispetto alla generazione delle Annales successiva a quella dei fondatori, Marc Bloch e Lucien Febvre. Ma a spingermi in quella direzione c’era anche l’esempio di Cantimori.

E.M. Cambiando versante, mi interessa un parere per chi si trova a insegnare in contesti universitari dove la identity politics è dominante; colpisce nel suo lavoro la continua dialettica tra il ridar voce alle vittime da un lato, dall’altro l’estrema coscienza della ‘distanza’, della necessità della filologia.

C.G. Ho scritto un saggio che si chiama Our Words and Theirs, ora in La lettera uccide, in cui ho cercato di sviluppare la dicotomia tra etic ed emic proposta da Kenneth Pike (linguista, antropologo e missionario protestante): due termini riferiti, rispettivamente, alle categorie degli osservatori e alle categorie degli attori. Rileggendo Pike attraverso Bloch ho sostenuto che le domande etic da cui gli storici partono sono sempre anacronistiche (così come sono etnocentriche le domande etic da cui partono gli antropologi): ma le une e le altre possono essere riformulate attraverso un dialogo con le categorie degli attori (emic). L’esaltazione dell’anacronismo da parte di studiosi francesi come Nicole Loraux, Georges Didi-Huberman e Jacques Rancière confonde l’anacronismo (inevitabile) delle domande con l’anacronismo delle risposte, che trasforma lo storico in un ventriloquo. Per quanto riguarda termine “identity”, penso che abbia un valore emic ma non etic: in altre parole, non ha nessun valore analitico. Oggi è soprattutto un’arma, per tracciare dei confini, o dei muri.

E.M. Passiamo al rapporto con la letteratura (immagino potremmo aprire un lungo capitolo). La mia prima curiosità è legata allo stile: è interessante come non si limita ad analizzare dei problemi, ma anche a raccontarli, cioè a rendere visibile il percorso, anche le difficoltà e gli errori che l’hanno portata ad avvicinarsi a quella particolare serie di rapporti. Spesso a lezione in Normale menzionava Marc Bloch come punto di riferimento anche stilistico: ma al di là di Bloch e di altri studiosi (anche oltre i confini della ricerca storica), chi l’ha aiutata nel trovare una sua voce, così riconoscibile? Non parlo solo di strutture narrative ma di giri di frase, ritmo, ecco.

C.G. L’idea di rendere visibili le impalcature che hanno reso possibile l’edifico della ricerca viene dalla letteratura del ‘900: una nozione abbastanza ampia da includere Proust e Brecht. Se invece la domanda verte sul ritmo, allora penso di aver cominciato a imparare da Pinocchio. Calvino, in un’intervista (forse l’ultima sua) rilasciata a Maria Corti e pubblicata in “Autografo”, parlò con ammirazione dello stile di Pinocchio, che definì, se non ricordo male, “magro come un chiodo”. Da Pinocchio ho imparato moltissimo: il ritmo, la punteggiatura, la concisione. Per me è stato veramente un testo fondamentale.

E.M. Parlando di Calvino mi interessa un caso specifico, la pubblicazione delle Fiabe italiane nel ’57. E, ecco, lei aveva 18 anni e quindi immagino che l’abbia vissuta.

C.G. Le ho trovate straordinarie, non c’è dubbio. Assolutamente straordinarie.

E.M. Mi interessa, appunto, l’attenzione di Calvino per l’aspetto morfologico della fiaba. Secondo lei ha avuto una influenza (non mi piace questa parola, ma la uso lo stesso) anche sul suo lavoro? Ecco.

C.G. Ho letto Propp molto presto, a cominciare da Le radici storiche dei racconti di fate, uscito nella collana viola di Einaudi. Come ho scoperto anni fa, era stato tradotto per consiglio di Franco Venturi, allora attaché culturale a Mosca. Per formazione, orientamento e interessi Venturi era lontanissimo da Propp. Però colse immediatamente il grandissimo valore intellettuale di quel libro e propose di tradurlo. Credo che sia stata la prima delle pochissime traduzioni di quel libro. Mentre Morfologia della fiaba molto più tardi venne tradotta in molte lingue ed ebbe una grande eco internazionale, Le radici storiche – se non erro, la tesi discussa pubblicamente da Propp – ebbe scarsa risonanza. Calvino fu spinto verso le fiabe italiane anche da quel libro, e più in generale dal rapporto con la collana viola diretta da Pavese.

E.M. Mi concentrerei sul rapporto umano, intellettuale con Calvino, forse una delle prime di cui abbiamo parlato: che impatto ha avuto? 

C.G. Com’è noto, Calvino era molto amico di mia madre. Diventai anch’io suo amico, nonostante la differenza di età. Da lui, dalla sua straordinaria intelligenza ho imparato moltissimo. Gli ho voluto molto bene. Il dialogo tra noi si sviluppò anche grazie a Gianni Celati, che insieme a Calvino aveva lanciato un progetto di rivista mai realizzato (Ali Babà). Calvino scrisse una bella recensione al libro Crisi della ragione, in cui era incluso il mio saggio SpieRadici di un paradigma indiziario. Alla memoria di Calvino e di Arnaldo Momigliano History, Rhetoric and Proof: una serie di lezioni che avevo fatto a Gerusalemme. La versione italiana, un po’ diversa, s’intitola Rapporti di forza.

E.M. Rileggendo l’ultimo Calvino — Sotto il sole giaguaro, Prima che tu dica pronto: insomma, l’ultimissimo — mi stavo chiedendo: è possibile ipotizzare che abbia assorbito in quegli ultimi lavori le radici del suo paradigma indiziario?

C.G. Non saprei dire. In quella recensione a Crisi della ragione parlò in maniera generosa e divertita dell’ipotesi che avevo fatto sull’origine del racconto a partire dalla traccia che non c’è, paragonandomi a un “cacciatore neolitico”. Nel nostro dialogo questo elemento giocoso era ben presente. E forse qualche traccia di quello che lei diceva si trova nelle Lezioni americaneNe parlammo a lungo, passeggiando a Roma. Fu il nostro ultimo incontro. 

E.M. Quindi, più sul versante teorico che non su quello narrativo.

C.G. Narrativo-teorico, diciamo. La letteratura come un mondo condiviso: la teoria della letteratura mi appassiona. Spitzer, Auerbach, sono stati per me autori importantissimi.

E.M. Certo, il dettaglio rivelatore. E invece mi veniva in mente un’altra figura, non so se si possa definire di fratello maggiore (comunque di certo un interlocutore), Cesare Garboli.

C.G. Anche lì c’è stato un rapporto di amicizia molto stretto e un dialogo molto fitto, che  riemerge per esempio nel saggio Piccole differenze. Ekphrasis e connoisseurship, dove riprendo il saggio di Garboli sulle ‘equivalenze verbali’ di Longhi. È una conversazione che continua – purtroppo solo metaforicamente.   

E.M. Ripensando a quel suo saggio è interessante il richiamo a Garboli a proposito della traduzione, cioè dell’ironia di Longhi sull’impossibilità della traduzione. Stavo poi pensando anche il fatto che all’inizio dello stesso saggio lei fa riferimento anche a dei modi “non proficui” di pensare al rapporto tra testi e immagini, ovvero a delle teorie che hanno considerato le immagini come se fossero dei testi da leggere.

C.G. A mio parere l’espressione “leggere le immagini” va evitata, perché impedisce di cogliere le differenze ineliminabili tra immagini e testi: prima tra tutte, la natura affermativa delle immagini. In un altro saggio incluso in Occhiacci di legno, intitolato “Idoli e immagini”, scritto per una miscellanea in onore di Ernst Gombrich, ho ricordato (e riprodotto) il famoso quadro di Magritte, “Ceci n’est pas une pipe”. Se non ci fosse quella didascalia, negare ciò che viene rappresentato (la pipa) sarebbe impossibile. Le immagini, per loro natura, non possono negare. Su questo punto si può e si deve continuare a riflettere.

E.M. Si, perché il discorso su questo è infinito; non c’è fine al discorso sulla pittura. Tornando invece agli interlocutori, mi aveva colpito e anche commosso il suo ricordo di Celati a Bologna, nel gennaio scorso. Ci parla delle convergenze tra le sue ricerche e gli interessi di Celati, in Finzioni occidentali?

C.G. C’erano tra noi in quel periodo – siamo all’inizio degli anni ’70 – rapporti di grande amicizia. A quel punto s’inserì quel progetto di rivista mai realizzata, che era forse prima ancora di Celati che di Calvino. Ci furono incontri molto fitti, e scambi di lettere in gran parte pubblicati nel numero Ali Baba di “Riga”. Poi Gianni si trasferì in Inghilterra, e i nostri rapporti diventarono, purtroppo, molto più radi. 

ARTICOLO n. 10 / 2023

LOVE(LACE) ACTUALLY

Traduzione di Chiara Spallino Rocca

Pubblichiamo un’anticipazione dalla raccolta di saggi 12 bytes da oggi in libreria per Mondadori (che ringraziamo per la disponibilità). Quando creeremo forme di vita non biologiche, saranno a nostra immagine e somiglianza? O accetteremo lopportunità, più unica che rara, di rifare noi stessi a loro immagine e somiglianza? In questo saggio Jeanette Winterson si sofferma sulla figura di Ada Lovelace, “la prima informatica della storia”.

All’inizio del futuro c’erano due giovani donne: Mary Shelley e Ada Lovelace.

Mary era nata nel 1797, Ada nel 1815. 

Le due giovani donne irruppero nella storia durante i primi anni della Rivoluzione industriale. L’inizio dell’Era delle Macchine. 

Erano entrambe figlie del loro tempo, come lo siamo tutti, ed entrambe sono state torce lanciate attraverso il tempo, che hanno gettato luce sul mondo del futuro, il mondo che è oggi il nostro presente. Un mondo che è destinato a cambiare la natura, il ruolo dell’Homo sapiens e, forse, anche a mettere in discussione la sua supremazia. È un ciclo che si ripete – sempre le stesse battaglie sotto altre spoglie –, ma l’IA è un fenomeno nuovo nella storia dell’uomo. Ciascuna a suo modo, quelle due giovani donne l’avevano previsto. 

Mary Shelley scrisse il romanzo Frankenstein a diciott’anni. In questa storia, il medico-scienziato Victor Frankenstein costruisce una creatura umanoide sovradimensionata, utilizzando parti del corpo umano e l’elettricità. 

L’elettricità, intesa come forza che poteva essere sfruttata per i nostri fini, non era stata ancora compresa fino in fondo, né utilizzata a scopi pratici. 

Se leggiamo Frankenstein oggi, ci rendiamo conto che non è solo uno dei primi esempi di romanzo femminile, né solo un romanzo gotico, e nemmeno solo un romanzo sui bambini senza madre o sull’importanza dell’istruzione universale. Non è solo fantascienza, non c’è solo il mostro più famoso del mondo: Frankenstein è un messaggio in una bottiglia.

Apritelo.

Siamo la prima generazione, oltre duecento anni dopo l’uscita del libro, che sta cominciando a creare nuove forme di vita. Come la creatura di Victor Frankenstein, le nostre creazioni digitali dipendono dall’elettricità, ma non dall’assemblaggio di parti del corpo decomposte prelevate dal cimitero. La nostra nuova intelligenza, robotica o immateriale, è costruita a partire dagli zeri e dagli uno del codice binario. 

Ed è qui che entra in scena Ada, la prima programmatrice di computer al mondo, di un computer che non era ancora stato costruito. 

Mary e Ada intuirono che gli sconvolgimenti della rivoluzione industriale non avrebbero portato solo allo sviluppo della tecnologia delle macchine e alla sua applicazione, ma avrebbero comportato un cambiamento decisivo nella definizione di ciò che significa essere umani. 

Victor Frankenstein: «Se potessi dare vita alla materia inanimata…».

Ada: «Una funzione esplicita… elaborata dalla macchina… senza essere stata prima elaborata da teste e mani umane». 

Mary e Ada non si incontrarono mai, ma le accomunava il rapporto con un personaggio fondamentale dell’epoca. 

Lord Byron era a quei tempi il poeta più celebre d’Inghilterra. Era affascinante, ricco e giovane. Perseguitato dagli echi dello scandalo del suo divorzio, nel 1816 progettò una vacanza sul lago di Ginevra, con il suo grande amico, il poeta Percy Bysshe Shelley, la moglie di lui, Mary, e la sorellastra di Mary, Claire Clairmont, diventata la sua amante. 

La vacanza fu un successo, finché non iniziò a piovere a dirotto e i quattro giovani si ritrovarono chiusi in casa. Per alleviare la noia di quelle giornate, Byron propose che ciascuno scrivesse un racconto sul sovrannaturale. Fu così che Mary Shelley iniziò a scrivere la cupa profezia fradicia di pioggia che sarebbe diventata Frankenstein

Byron non riusciva a pensare a una storia. Era irritabile e assorto nei suoi pensieri, in parte per via delle battaglie legali per il divorzio e per gli accordi sulla custodia della figlia appena nata. 

Scrisse lettere su lettere riguardo l’educazione della bambina, ma aveva ormai lasciato l’Inghilterra e non vi avrebbe più fatto ritorno. Non l’avrebbe mai più rivista. 

La bambina si chiamava Ada. 

La madre di Ada, Annabella Wentworth, era una cristiana devota e questo era uno dei tanti motivi per cui il suo matrimonio con Byron, che era bisessuale, non avrebbe mai potuto funzionare. 

Annabella era una donna ricca e altolocata, ma, all’epoca, donne e bambini erano sotto la giurisdizione del parente maschio più prossimo. Anche dopo la firma dell’atto di separazione, quel che Byron desiderava per la figlia aveva un valore legale. Nelle lunghe disposizioni che aveva lasciato scritte sull’istruzione della piccola Ada, insisteva soprattutto sul fatto che non dovesse essere distratta dalla poesia. 

La madre era sostanzialmente d’accordo: l’ultima cosa che voleva al mondo era avere a che fare con un’altra indole byroniana. Poiché lei stessa si dilettava di matematica, dimostrando anche di avere un certo talento, aveva assunto degli insegnanti per istruire la piccola Ada, con il proposito di correggere qualsiasi inclinazione poetica ereditata e di diluire gli effetti del sangue byroniano. Non per niente Byron era stato definito “pazzo, cattivo e pericoloso da frequentare”. 

Si dà il caso che la piccola Ada fosse appassionata di numeri. Viveva in un’epoca in cui l’istruzione, anche per le donne più ricche, contemplava al massimo la lettura, la scrittura, lo studio del pianoforte, e, in qualche caso, l’apprendimento del francese o del tedesco. Le donne non frequentavano la scuola. 

Mary Wollstonecraft, la madre di Mary Shelley, si era dedicata anima e corpo alla stesura della Rivendicazione dei diritti della donna (1792), un saggio rivoluzionario sull’importanza dell’istruzione per le donne, e non è un caso che Victor Frankenstein non riesca a istruire il suo mostro, costretto a istruirsi da solo. Anche le donne dell’epoca dovevano imparare da sole il latino e il greco, la matematica e le scienze naturali, tutte le materie “maschili” che i loro fratelli potevano aspettarsi di apprendere a scuola. Si riteneva che le donne non avessero l’intelligenza necessaria per studiare seriamente e, quand’anche l’avessero avuta, la troppa concentrazione le avrebbe fatte impazzire, ammalare o diventare lesbiche. 

Durante la vacanza sul lago di Ginevra, Mary Shelley passò molto tempo a discutere con Byron di questioni di genere. Byron si dispiaceva perché, al posto del “ragazzo glorioso” che aveva desiderato come figlio, gli era capitata in sorte una ragazza gloriosa. Non visse abbastanza a lungo per vederla diventare un genio della matematica. 

Augustus De Morgan, uno degli insegnanti di matematica di Ada, temeva che il troppo studio avrebbe minato la sua costituzione delicata. Al tempo stesso, la riteneva più dotata e capace di tutti gli allievi (leggi “ragazzi”) a cui aveva insegnato, e, in una lettera alla madre di lei, scrisse che sarebbe potuta diventare “una ricercatrice matematica di non comune ingegno, forse addirittura di prima grandezza”. 

Povera Ada. Le era stato ordinato di studiare matematica per non cadere preda della follia poetica e poi le venne detto che rischiava di cadere preda della follia matematica.

Ma a lei non importava: sin dai primi anni di vita sapeva quel che voleva.

A diciassette anni fu invitata a una festa al numero 1 di Dorset Street, a Londra. Era la casa di Charles Babbage. 

Babbage era un uomo ricco di famiglia, intelligente ed eccentrico, e aveva convinto il governo britannico a erogargli un finanziamento di diciassettemila sterline (equivalenti a un milione e settecentomila sterline di oggi) per costruire quella che lui aveva battezzato la Macchina Differenziale. Si trattava di una addizionatrice a manovella progettata per calcolare e stampare le tavole logaritmiche utilizzate dagli ingegneri, dai marinai, dai contabili, dai costruttori di macchine e da chiunque volesse fare calcoli in modo rapido utilizzando tavole prestampate. 

La sua idea, come altre idee che innescarono molte innovazioni della rivoluzione industriale, era di meccanizzare il lavoro ripetitivo. All’epoca, il termine “computer” era usato per riferirsi agli addetti umani che svolgevano le noiose operazioni di tabulazione aritmetica che Babbage immaginava (giustamente) potessero essere svolte dalla sua Macchina Differenziale. 

Babbage era professore lucasiano di matematica a Cambridge, carica ricoperta anche da Isaac Newton prima di lui e da Stephen Hawking in seguito (e, tra parentesi, fino a oggi mai ricoperta da una donna). Oltre che dai numeri, Babbage era affascinato dagli automi meccanici. Costruire una macchina calcolatrice fatta di ingranaggi e rotelle era l’ideale per lui. 

E, come poi si scoprì, anche per Ada. 

Per essere invitati a una festa di Babbage si doveva essere belli, intelligenti o aristocratici. Essere straricchi non bastava. Ada (grazie a Dio) non era una bellezza secondo i canoni dell’epoca, ma era intelligente e suo padre (che a lui facesse più o meno piacere) era pur sempre Lord Byron. 

A diciassette anni, Ada fu ammessa in quel circolo. 

Una sezione funzionante della Macchina Differenziale era in bella vista nel salotto di Babbage. Ada ne rimase affascinata, e, mentre la festa si animava attorno a loro, Ada e Babbage si misero a giocare con la Macchina. 

Babbage era così entusiasta che le fece vedere i suoi progetti. 

All’improvviso, il genio quarantenne, un uomo complicato e difficile, che rifuggiva dalla conversazione mondana e odiava i suonatori d’organetto, aveva trovato un’amica che comprendeva il suo lavoro, sia dal punto di vista pratico, sia da quello concettuale. 

Mentre Ada continuava gli studi, i due cominciarono a scambiarsi lettere. Se sia vero o meno che l’incontro tra di loro abbia ispirato Babbage a continuare la sua ricerca, quel che è certo è che quell’anno lui cominciò a lavorare su una nuova macchina calcolatrice, che chiamò Macchina Analitica, il primo computer non umano al mondo. 

Anche se non fu mai costruito. 

Babbage comprese che il sistema di schede perforate utilizzato nel telaio meccanico Jacquard poteva essere usato per far funzionare in modo autonomo una macchina da calcolo. Non c’era bisogno di una manovella. La macchina calcolatrice poteva anche utilizzare le schede perforate per immagazzinare memoria. Si trattò di un’intuizione straordinaria. 

Le schede perforate sono cartoncini rigidi muniti di fori. Nel 1804 il francese Joseph-Marie Jacquard brevettò un meccanismo che permetteva di rappresentare il disegno di un pezzo di stoffa tramite una serie di fori su un cartoncino. Si trattò di un momento di geniale intuizione astratta, più vicino all’universo quantistico-meccanico che al realismo in 3D della Rivoluzione industriale. È logico che Babbage ne colse le implicazioni per l’informatica. In realtà, di logico non ci fu nulla: fu un grande balzo in avanti sul piano mentale per entrambi. 

In un telaio Jacquard è la disposizione dei fori a determinare il disegno. Grazie a questo sistema, il maestro tessitore non doveva più applicarsi per far passare il filo della trama sotto il filo dell’ordito al fine di tessere la stoffa e creare il disegno. È l’ordine dell’ordito e della trama che determina il disegno. Si tratta di un lavoro specializzato ma ripetitivo e, come per molte delle innovazioni della Rivoluzione industriale, la meccanizzazione della ripetizione rese superflua l’abilità umana di pari livello. La meccanizzazione è una sfida ingegneristica, ma la sola ingegneria non è la chiave di volta del telaio Jacquard: il balzo in avanti è immaginare qualcosa di solido e tangibile sotto la forma di una serie di fori (ovvero, come uno spazio vuoto) disposti a formare un disegno. 

Le schede perforate sono state utilizzate nei primi tabulatori commerciali e, successivamente, nei primi computer. Sono rimaste in uso (nella forma di fori su nastro) come programmi informatici, fino alla metà degli anni Ottanta. Babbage non brevettò questa idea: come uomo d’affari non valeva niente. A brevettare il sistema delle schede perforate, nel 1894, fu Herman Hollerith, un imprenditore americanofiglio di un immigrato tedesco. La sua Tabulating Machine Company cambiò nome nel 1924, diventando l’IBM, la sigla di International Business Machine

(Non c’è da stupirsi: che successo avrebbero potuto avere sul mercato prodotti chiamati Macchina Differenziale e Macchina Analitica?) 

Ada era entusiasta dell’idea delle schede perforate. Scrisse: «La Macchina Analitica tesse disegni algebrici proprio come il telaio Jacquard tesse fiori e foglie». 

Ma non fu così, perché Babbage non riuscì mai a costruire la sua macchina, nemmeno ad arrivarci vicino, e così tutti gli ingranaggi a cremagliera, le leve, i pistoni, i bracci, le viti, le ruote dentate, le borchie, le molle e le schede perforate vissero in una sorta di Steampunk vittoriano, dove tutto era massiccio, solido, dimensionale (basti pensare alle ferrovie, alle navi di ferro, alle fabbriche, alle tubature, ai binari, ai cilindri, alle fornaci, al metallo, al carbone), ma, al tempo stesso, era il frutto di un esperimento mentale, di una fantasia. Per Babbage e Ada immaginare ciò che poteva accadere significava che era già accaduto, e, in linea di massima, avevano ragione. Il futuro era stato immaginato, ma un presente troppo pesante ne impediva la realizzazione. Per quanto fosse divertente giocare a costruire un computer a carbone, a vapore, a schede perforate, fatto di tonnellate di metallo, non era quella la risposta all’universo immediato ed elegante di numeri in cui vivevano Ada e Babbage. 

Ma l’eleganza era ancora molto lontana.

ARTICOLO n. 9 / 2023

SUORE CHE SI COMPORTANO MALE

Sono una grande appassionata di titoli dei libri.
Lo sono da sempre, ma in modo particolare da quando i libri li scrivo anche io.

Durante la stesura in cui sono ancora impegnata, mi sono trovata a invidiare moltissimi titoli del passato, pensando a quanto avrei voluto trovarne io di tanto belli (non perdonerò mai Mario Calabresi per essere stato in grado di battezzare un suo magnifico libro e memoir Spingendo la notte più in là, a mio avviso uno dei titoli più belli mai stati scritti e che con invidia ricordo spesso nelle conversazioni con editor e colleghi: «Perché ci affanniamo? Tanto il titolo più bello della storia se lo è aggiudicato lui»).

Grazie a questa mia passione sovrumana per ciò che cattura l’occhio del lettore frettoloso tra gli scaffali, non è raro che mi imbatta spesso in libri dal nome magnetico; nome che mi porta poi all’acquisto a scatola pressoché chiusa di volumi da me mai presi prima in considerazione.

Qualche settimana fa, questa mia mania ha colpito ancora.

Stavo girando per la mia libreria di fiducia, Todo Modo, qui a Firenze, e all’improvviso ho sperimentato di nuovo questo familiare colpo di fulmine letterario.

Tra gli scaffali, con una copertina rossa e bianca che ricorda la prima pagina dei vecchi tabloid d’oltremanica, un titolo mi stava mandando segnali paragonabili a quelli che le sirene di Ulisse lanciavano ai marinai inermi: 

Suore che si comportano male.
Sottotitolo: “Storie di magia, sesso e incendi nei conventi medievali”.
Ho quasi iniziato a sbavare.

L’ho agguantato con velocità in quanto ultima copia in esposizione, mi sono seduta e ho ordinato un bianco mosso per accompagnarmi nella sua prima analisi, quella superficiale, da svolgere comodamente a uno dei tavoli della libreria-bistrot del mio cuore.

La prima cosa che ho notato è che il saggio, scritto da Craig A. Monson e tradotto magistralmente da Luisa Agnese Dalla Fontana, è edito da una mia cara conoscenza, ovvero Il Saggiatore. 

Ho chiamato dunque con prontezza l’editor e curatore editoriale che mi accompagna in questa avventura su The Italian Review, e gli ho comunicato perentoria che, oltre a essere una brutta persona per non avermi mai anticipato nulla su un testo come questo, era mia irremovibile intenzione scriverne un pezzo per la rivista che state or ora leggendo.

Perché le suore?, direte voi.

No, non ho sviluppato un istinto di conversione spirituale, tantomeno desiderio di intraprendere la carriera ecclesiastica (questo per due motivi: sono un’atea anticlericale e sono donna; le donne non vanno fortissimo nella Chiesa Cattolica). Ho avuto bisogno di sfogliare solo per una mezz’ora le pagine per intuire quel che poi avrei confermato con la lettura integrale del saggio: Monson non parla di suore cattive in quanto tali, Monson parla di donne che si ritrovano loro malgrado a essere suore e hanno comportamenti assolutamente normali, ritenuti sbagliati solo dall’imposta clausura.

E questo per me, che sono la Jessica Fletcher degli stereotipi di genere (soprannome coniatomi da Chiara Valerio nel 2021) e che nel mio ultimo memoir (Memoria delle mie puttane allegre, Marsilio, 2022) ho analizzato alcuni legami tra fede, esorcismi e pregiudizi culturali attribuiti al genere femminile, era un piatto troppo ricco per non tuffarmici con entrambe le mani.

Monson, saggista e professore emerito alla Washington University e in precedenza docente con cattedre a Yale e all’Amherst College, ha voluto raccontare una storia tutta italiana del regime di clausura nel periodo compreso tra il 1500 e il 1700. 

Nel 1986, tornando in Italia per un viaggio tra gli archivi fiorentini e soprattutto tra quelli vaticani, Monson ha rintracciato storie di donne e monasteri, di comunità e di vescovi, di famiglie nobiliari e ingenti donazioni. 

Tutta questa mappatura si trasforma in un saggio, a tratti romanzo storico, che racconta alcuni episodi-chiave avvenuti nelle diocesi italiane nel corso dei due secoli presi in analisi, e che ci porta a fare la conoscenza con delle donne ritenute allora cattive, oggi invece da me reputate incredibilmente argute e gelose della loro umanissima natura.

Per comprendere il senso di questa mia ultima affermazione dobbiamo fare il passo indietro che ci permetta di dare una collocazione storica e di costume utile per comprendere i motivi che spingevano le donne, così tante donne, alla vita di clausura.

Per i natanti alla lettura entusiasti nella loro fede, ho delle brutte notizie: sono rarissimi i casi in cui le suore divenivano tali per vocazione.

La clausura era un percorso non interiore, bensì spesso – quasi nella totalità dei casi – imposto.

La scelta di una donna rispettabile – e già qui, il moderno che è in noi sobbalza – non era mai sua. I padri, gli zii, i fratelli sceglievano per lei un destino e la forbice di opzioni non era poi ampia: o il matrimonio, che era a tutti gli effetti una compravendita, o il monachesimo femminile. 

Nel 1200 le suore aumentarono, per questa prassi sociale, in modo smisurato. Nel 1500, soprattutto nella sua seconda metà, i numeri salirono ancora di più. Basti pensare che un motto dell’epoca era “una sola figlia dovrebbe avere marito, le altre dovrebbero avere un muro”, ovvero, in soldoni, la primogenita va in moglie e le altre in convento.

La ragione di questo motto era ben più materiale di quel che si potrebbe pensare: le doti per matrimonio erano ingenti e le famiglie cercavano di risparmiare, dandone in sposa solamente una. Anche i conventi richiedevano beni e denaro per l’ammissione delle novizie, ma la spesa era sicuramente minore rispetto a quella matrimoniale.

La domanda che adesso ci potremmo dunque fare è: ma perché, visto che in ogni caso la famiglia -e per famiglia intendo gli uomini di casa- era costretta a spendere e dividere i propri beni, le donne non maritate non venivano lasciate vivere nelle case paterne?

La risposta ci arriva prontamente da Monson che, raccontando delle abitudini italiane del sedicesimo secolo, ci spiega – a pagina 87 – che il rischio della vita fuori dal convento era troppo alto. No, non stiamo parlando di un pericolo per la vita o la sopravvivenza della donna -ricordiamoci sempre che le novizie venivano da famiglie abbienti – ma di un pericolo morale. Infatti, scrive Monson, «[la donna] per proteggere il proprio onore e quello della famiglia, non usciva mai senza essere accompagnata; i suoi parenti maschi sapevano che era meglio tenerla rinchiusa. In quel modo avrebbe evitato di subire o provocare tentazioni, ma anche di indurre gli altri a pensare che lo stesse facendo, un fatto altrettanto deprecabile».

Gli uomini dunque, per evitare il disonore di una parente violentata o rapita, la chiudevano in convento senza il suo consenso, con la sola colpa di avere un corpo di donna in una società in cui i corpi di donna erano ritenuti oggetti ancor più che oggi.

Questo sistema di leva obbligatoria per la vita monastica vedeva dunque centinaia e centinaia di giovani – usualmente intorno ai 14,15 anni d’età – obbligate a diventare novizie senza però averne la benché minima inclinazione.

E in un regime del terrore e della privazione, della clausura obbligata e della vita cancellata, tra quelle mura sono successi fatti incredibili quanto memorabili, che Monson ci racconta in 300 pagine affascinanti e tragiche. 

Per comprendere infatti la natura delle storie ricostruite e raccontate da Monson, dobbiamo pensare a due elementi fondamentali della natura umana.

Il primo è l’arguzia: le storie delle suore di questo libro sono piene di sagace intelligenza, quel tipo di estro che si sviluppa solo in situazioni di cattività in cui la sopravvivenza è estremamente dura; il secondo è la capacità di creare forme sociali nuove, anche in luoghi in cui spesso le parole sono vietate per lunghissimi periodi (pensiamo alle monache Benedettine e ai lunghi voti del silenzio, per esempio).

In un ambiente ostile perché non voluto e in secoli ricchi di rinnovamento artistico e sociale, vivere dentro a quelle mura diventa per le suore una prova disumana, che le spinge a trovare modi per ribellarsi al limite della genialità e che prevedevano molto spesso la collaborazione delle consorelle, anch’esse vittime di un sistema che non avevano mai scelto. 

Un esempio di questo mio cappello introduttivo ci viene dato dalla vicenda delle canonichesse di San Lorenzo a Bologna, e ricostruito nel primo capitolo del saggio di Monson. Nel 1584 il convento era infatti rinomato per le doti musicali delle suore. Ma l’Inquisizione, in quegli anni, decise di limitare prepotentemente le attività artistiche delle recluse, pensando che il successo delle loro capacità fosse sintomatico di vanità, ergo di peccato.

Le limitazioni – tra cui il divieto assoluto di fare prove o cantare in pubblico, anche durante le funzioni religiose – furono un duro colpo per le giovani donne del San Lorenzo, che provarono in più modi ad arginarle, fallendo sempre e ricevendo più richiami al decoro da parte del vescovato.

Durante l’ottobre di quello stesso anno, la sparizione di una viola dall’aula di musica del convento creò non poco scompiglio. 

Le suore fecero di tutto per ritrovare lo strumento misteriosamente sparito, fino a pregare per ore per avere degli indizi divini.

Dal cielo però tutto tacque. Perciò le sorelle si rivolsero all’unica altra entità soprannaturale capace, secondo loro, di poter risolvere il furto: il Diavolo.

Con una serie di riti satanici – tra cui disegnare grossi cerchi sul pavimento con un coltello e fare divinazione con acqua santa e anelli pagani – le monache provarono a ricevere dei segnali. O forse, come ci suggerisce Monson, a darli a qualcuno di molto terreno.

Infatti non ci volle molto perché la storia uscisse dalle celle e arrivasse alle orecchie dell’arcidiacono. 

Dopo una lunga indagine – durata circa due anni – le sorelle coinvolte nella divinazione satanica vennero scomunicate e quindi rese libere.

Similare fu l’evento incendiario del 1673 al convento San Niccolò di Strozzi. Stavolta non furono scomodate le fiamme dell’inferno, ma quelle del mondo reale.

Il convento era famoso per l’allevamento dei bachi da seta e la produzione dei filamenti grezzi del tessuto pregiato prodotto dalla loro saliva. 

I bachi venivano disposti nel sottotetto del convento, su lunghe stuoie di canneto unte di grasso: un innesto perfetto per uno show quasi pirotecnico. In poche ore il tetto e il convento vennero rasi al suolo dalle fiamme.

Il processo portato avanti dalla Sacra Congregazione mostrò subito come le suore, appena visto del fumo, fossero scappate a gambe levate dalla struttura, non provando neanche per un momento ad arginare l’avanzata demolitrice. 

La fuga fu veloce quanto lunga: le consorelle, infatti, non si fermarono fuori dalla struttura, ma tornarono ognuna nella propria casa natia. 

La cosa puzzò subito di bruciato – perdonatemi, era quasi dovuto – alla Congregazione, che capì che quell’incendio ovviamente doloso fu solo un espediente per la fuga. 

Altre storie di inizio 1500 vedono monache seduttrici (al fine di farsi mettere incinta e quindi svestirsi dai panni della clausura) e travestimenti ingegnosi per fuggire dai conventi per recarsi a teatro o a sentire concerti e canti gregoriani. Insomma, per seguire le sacre – stavolta sì – pulsioni umane, anche le più ingenue, le suore erano disposte a tutto e con incredibile arguzia. 

In quest’ottica di ribellione all’imposizione possiamo dunque rivedere sotto altra luce la storia della monaca più famosa d’Italia, la monaca di Monza, la cui vicenda venne poi romanzata da Manzoni ne I promessi sposi.

Come mi spiegava Marcello Fois a Roma qualche settimana fa, la vicenda monacale ricordataci dal Manzoni era più comune di quel che si pensi. La ribellione era semplicemente manifestazione della imprescindibile natura umana, intrappolata nei corpi delle novizie costrette al voto.

Anche la novella di Boccaccio su Masseto di Lamporecchio, la prima della terza giornata del Decamerone, può essere quindi riletta in ottica differente (Masseto si finge sordomuto per entrare in un convento di monache famose in paese per la loro fame di corpi maschili; la garanzia data dal mutismo del giovane spinge le suore ad accoglierlo tra loro, facendo sesso con lui convinte che il giovane non avrebbe potuto, per la sua condizione, parlarne con nessuno) e sicuramente meno caricaturale.

Gli istinti delle donne, seppur sopiti da una società perfidamente maschilista e controllante, non sono mai stati frenati da regole rigide e prepotenti. 

Certo, la punizione spesso era severa – Monson ci racconta di Cristina Cavazza, monaca del 1700 costretta a 12 anni di isolamento ferreo per essere fuggita dal monastero di santa Cristina a Bologna – e negli anni più duri di psicosi superstiziosa la Chiesa di Roma ha mandato più e più donne al rogo per fatti di natura umana, mai diabolica. 

Eppure, come ci racconta questa raccolta di suore ribelli e geniali, nulla è mai bastato alle donne per arrendersi e smettere di celebrare la propria natura, fosse questa nemica di Dio, dei padri, dei fratelli o della sola, stupida, ignorante superstizione.

Nel riscrivere la storia per dare voce e dignità a vicende come quelle delle monache del sedicesimo e diciassettesimo secolo, i documenti ritrovati e ricomposti da Monson sono preziosi ed emblematici. Uno spaccato brillante di quanto l’estro femminile non sia mai stato sottomesso, neanche dalle mura fredde dei conventi e dal silenzio imposto dagli ordini.

Le suore che si comportano male diventano così delle magnifiche, incendiarie protofemministe disposte a tutto per la dignità di potersi sentire, anche solo per il tempo di una fuga nella notte, libere.

ARTICOLO n. 8 / 2023

LA MEMORIA CANTATA

"Un sopravvissuto di Varsavia" di Arnold Schönberg

In occasione del Giorno della Memoria, pubblichiamo un’anticipazione dal volume di Joy H. Calico, La memoria cantata, edito da Il Saggiatore. Traduzione di Silvia Albesano, a cura di Paolo Dal Molin. Da oggi in libreria.

Un sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schönberg (1947) sembrava fatto apposta per irritare ogni nervo scoperto dell’Europa postbellica. Un brano dodecafonico in tre lingue sull’Olocausto, scritto per un pubblico americano da un compositore ebreo, la cui opera era stata per i nazisti il primo esempio di musica degenerata (entartete). Il compositore in questione era ammirato e vituperato in quanto pioniere della dodecafonia, immigrato negli Stati Uniti e diventato un cittadino americano. Finendo dopo sette minuti circa, Un sopravvissuto era oltretutto troppo breve per occupare la metà di un concerto e al tempo stesso troppo denso di significato per dividere la scena con qualsiasi altra opera. Per tutte queste ragioni, nell’Europa del dopoguerra, la decisione di inserirlo in programma, eseguirlo, recensirlo o comunque di scriverne non è mai stata presa alla leggera. La sua presenza è sempre stata frutto di un disegno ben preciso e le si è sempre attribuito un significato importante. 

Tale significato si è rivelato assai polivalente e di Un sopravvissuto ci si è appropriati per una sorprendente varietà di motivi. Come accade in tutti i casi, anche in questo i significati e gli usi dell’opera sono stati condizionati dal tempo (la prima fase della Guerra Fredda, tra il 1948 e il 1968) e dal luogo (sei paesi differenti nell’Europa postbellica). L’esecuzione di Un sopravvissuto ha potuto dunque simboleggiare un riconoscimento dell’Olocausto o l’intento di commemorarlo, come in Norvegia o indirettamente in Cecoslovacchia; oppure apparire come un’adesione particolare a Schönberg o alla dodecafonia e alla musica modernista in genere, come in Germania Ovest, Austria e Cecoslovacchia. 

Anche l’ostilità verso Un sopravvissuto è eloquente e si manifesta spesso mediante il ricorso a scontati luoghi comuni antisemiti o antiamericani, per esempio nella Germania Ovest e in Austria. Nel blocco orientale, Un sopravvissuto ha svolto la funzione del canarino nelle miniere di carbone politico‐culturali. 

Nei primi anni della Guerra Fredda, la musica di Schönberg fu ufficialmente approvata solo in sporadici momenti di relativa distensione, come nel disgelo. Diversamente, gli attacchi ad personam al compositore e il rifiuto della sua musica rappresentavano la norma, come pure le deleterie manifestazioni di trinceramento. Così, la comparsa di Un sopravvissuto dietro la Cortina di ferro nei tardi Anni Cinquanta è stata un indicatore dell’avanzamento del disgelo in ogni satellite, sebbene anche allora la sua presenza richiedesse una desemitizzazione in nome dell’antifascismo, specie nella Germania Est. 

Un sopravvissuto è stato anche un tramite di diplomazia culturale, per esempio quando i tedeschi dell’Est hanno eseguito la prima polacca a Varsavia. Per queste e molte altre ragioni, la storia delle esecuzioni e della ricezione di Un sopravvissuto nell’Europa postbellica si presta in modo esemplare a fornire le basi per una storia culturale di quel tempo e luogo. 

È anche un’opera che continua a suscitare discussioni, sebbene le critiche siano per lo più circoscritte in termini di gusto e qualità artistica e non riferite al contenuto simbolico. Tali questioni, di fatto, sono state parte della ricezione dell’opera fin dall’inizio. Molti studiosi disapprovano Un sopravvissuto: alcuni lo trovano eccessivo e melodrammatico, sostenendo che i gesti musicali estremamente espressionistici confinano l’Olocausto in cliché da colonna sonora di film hollywoodiano di serie B; altri trovano il coro finale sgradevole, perché indulge alla predilezione del pubblico per una parabola narrativa eroica e salvifica e offre all’ascoltatore una via di scampo; c’è anche chi si sente offeso da quel che percepisce come uno sfruttamento delle sofferenze altrui a fini di intrattenimento. 

Ciò nonostante, per molti motivi, io non rinuncio all’intento di leggere la storia culturale dei primordi della Guerra Fredda attraverso le vicende legate alla sua esecuzione e ricezione. 

In primo luogo, Un sopravvissuto ha un ruolo del tutto particolare nell’opera di un grande compositore. Non sarà stato il primo lavoro musicale ad affrontare il tema dell’Olocausto, ma ha avuto una sorprendente popolarità. Tutta una serie di elementi – il prestigio dell’autore, lo status di opera tarda e il tema – hanno contribuito a suscitare un vivace interesse da parte della critica, e l’opera ha avuto un’influenza notevole, persino sproporzionata, nel condizionare la ricezione complessiva del compositore, come pure i giudizi sulla sua ebraicità.

Per tali ragioni, ricostruire la storia della sua ricezione e circolazione in Europa nel dopoguerra colma le lacune nella nostra conoscenza di un’opera molto nota, scritta da una personalità importante. 

In secondo luogo, non esiste uno standard minimo che una composizione musicale debba raggiungere per essere significativa dal punto di vista storico, culturale o individuale. Data la costellazione unica di caratteristiche e condizioni appena delineate, la storia dell’esecuzione e della ricezione di Un sopravvissuto è un esempio perfetto per illuminarci sul dopoguerra in Europa. Inoltre, ancora ai nostri giorni non è un pezzo che si mandi in onda soltanto per riempire uno spazio radiofonico di sette minuti; anzi, la sua presenza può essere oggi ancor più emblematica, perché con il passare del tempo ha maturato più significati. 

Nel 1992 il World Monuments Fund ha lanciato una colletta per il restauro della sinagoga di Kazimierz, il quartiere ebraico di Cracovia, trasmettendo in televisione un’esecuzione di Un sopravvissuto da parte dell’orchestra filarmonica della città all’interno del tempio ancora da ristrutturare. Il 9 novembre 2009, nel ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, l’evento musicale clou della giornata di festeggiamenti è stato un concerto presso la Porta di Brandeburgo, diretto da Daniel Barenboim, che aveva messo a punto con grande cura il programma di quell’evento altamente simbolico. 

Sono state eseguite musiche di Wagner (l’ouverture del terzo atto del Lohengrin) e Beethoven (il quarto movimento della Settima sinfonia), la prima di un nuovo pezzo di un compositore dell’ex Germania Est (Es ist, als habe einer die Fenster aufgestoßen [«È come se qualcuno avesse spalancato la finestra»] di Friedrich Goldmann) e Un sopravvissuto. Barenboim ha detto di aver voluto ricordare alla gente che, prima di diventare noto come un giorno di gioia, il 9 novembre era associato a un evento storico ben più cupo: la Notte dei Cristalli. Nel bene e nel male, Un sopravvissuto si presta ai grandi gesti. 

In terzo luogo, quando Schönberg scrisse Un sopravvissuto, nel 1947, non c’era un vocabolario precostituito – letterario, musicale o visivo – per misurarsi con l’Olocausto. E non esistevano nemmeno cerimonie o rituali per piangere una perdita di quell’entità. Hasia R. Diner ha sconfessato il luogo comune dominante secondo il quale negli Stati Uniti gli ebrei avrebbero taciuto riguardo all’Olocausto nell’immediato dopoguerra, dimostrando che essi dissero e fecero molto al riguardo. Ma dal momento che la Shoah non aveva precedenti moderni, e che la vita degli ebrei in America si esprime in tante forme diverse, non c’erano modelli comuni né modalità di espressione o comportamento condivise: «Le commemorazioni dell’Olocausto dell’era post‐bellica riflettono un insieme di realtà concrete che hanno influenzato profondamente il modo in cui gli ebrei americani hanno costruito la loro cultura commemorativa. Non potevano contare su precedenti ovvi, quando hanno mosso i primi passi per creare nuove cerimonie, scrivere nuove liturgie, mettendo da parte i giorni di lutto e allestendo spettacoli che affrontassero l’orrenda storia di morte e distruzione, omicidi di massa, uccisioni nelle camere a gas e cremazioni di milioni di ebrei». In altre parole, hanno trovato soluzioni strada facendo – adattando rituali e linguaggio, a cui Diner si riferisce in termini di «fatti e parole» che già conoscevano –, per commemorare vittime di eventi fino ad allora sconosciuti e inimmaginabili.In Un sopravvissuto Schönberg stava facendo qualcosa di simile: adattava rituali (concertistici e teatrali, e la recita dello Shemà) e linguaggio musicale (espressionismo, i cui gesti erano entrati a far parte del lessico delle colonne sonore hollywoodiane per thriller e film dell’orrore, e dodecafonia) nel tentativo di commemorare eventi che sfuggivano alla descrizione. Diner interpreta i fatti e le parole di milioni di ebrei negli Stati Uniti, in quel periodo, come parte di «un vasto progetto non organizzato e spontaneo volto a mantenere viva l’immagine degli ebrei d’Europa assassinati», che contribuì alla creazione di una «cultura della memoria». Un sopravvissuto è parte di quella cultura della memoria, perché Schönberg era un cittadino americano, che scriveva un’opera destinata al pubblico americano, sebbene quell’opera fosse naturalmente intrisa delle sue radici europee.

ARTICOLO n. 7 / 2023

CORPO E IDENTITÀ A TAIWAN

Intervista a Chi Ta-Wei

Poco prima di Natale ho parlato con Chi Ta-Wei, l’autore di Membrana, romanzo distopico edito da ADD Editore. Quello che ne è uscito è un dialogo in cui ci siamo persi e ritrovati dentro terreni simili, ma mai identici, capaci di surfare sui corpi e sulle identità, ma anche di renderci uno spaccato etnografico sulla Taiwan di ieri e di oggi che smantella l’etnocentrismo a cui siamo abituati e ci conduce – con l’eleganza e la gentilezza Chi Ta-Wei – al silenzio orientato all’ascolto.
Partiamo. 

Giulia Paganelli: La prima cosa che ho pensato leggendo Membrana è che la definizione “distopia” non fosse più così esatta come nel 1995. Per quanto esistano dispositivi e tecnologie divergenti rispetto al nostro presente, il futuro raccontato in questo romanzo è terribilmente umano e plausibile: crisi climatica, razzismo, lotta sociale, corpi addomesticati, dinamiche di potere. Che nuova vita ha oggi Membrana rispetto alla sua pubblicazione? 

Chi Ta-Wei: Ho scritto la Membrana negli anni ’90, quando Taiwan è stata riaperta al mondo dopo il suo periodo di legge marziale (dalla fine degli anni ’40 alla fine degli anni ’80). Le persone nella Taiwan post-marziale erano molto curiose del mondo là fuori: i temi del cambiamento climatico (inclusa la distruzione degli strati di ozono) e del razzismo nei paesi occidentali erano già ben noti ai telespettatori di Taiwan a quel tempo. Lo studioso francese Michel Foucault era già molto in voga tra gli accademici di Taiwan, quindi ho più o meno imparato a conoscere “Punizione e disciplina” (del corpo) secondo Foucault dai miei professori universitari.

Molti lettori internazionali affermano gentilmente che Membrana sembra erudito. Ma devo ammettere che riflette semplicemente ciò che uno studente universitario medio, come me, ha imparato al college e dai media negli anni ’90.

Ma ovviamente Membrana, scritto negli anni ’90, sembra ironico negli anni ’20. Per esempio, in realtà i nostri buchi nello strato di ozono stanno guarendo! (secondo i programmi radiofonici che ascolto), eppure, allo stesso tempo, il nostro cambiamento climatico diventa molto peggiore di quanto potessimo mai aspettarci. Quando ho fatto il mio tour del libro in Italia nell’autunno 2022, i lettori italiani di ogni città mi hanno informato delle insopportabili ondate di caldo in tutta Italia in estate.

Membrana rifletteva una fase precedente dell’uso di Internet prima della comparsa di Google e dei social media. Ma i titoli di fantascienza (e non) pubblicati intorno al 2020 non possono aggirare la tirannia degli algoritmi che fanno soffrire molti di noi (soprattutto adolescenti). Membrana sembra non aver previsto la nascita e la prevalenza dei social media.

Se dovessi scrivere una nuova fantascienza, rifletterò sui mali dei danni causati dal cambiamento climatico, sulle sofferenze dei social media e sulle conseguenze nefaste del razzismo (contro le persone asiatiche e BIPOC) come abbiamo visto negli anni ’20.

G.P. Proviamo a fare un gioco. Siamo nel 1985 e devi raccontare a Donna Haraway il tuo romanzo senza usare la parola “corpo”.

C.T.-W. La domanda è affascinante. Il Manifesto Cyborg di Donna Haraway è stato effettivamente pubblicato nel 1985, mentre Membrana è stato pubblicato per la prima volta nel 1995. Ma immagino che non abbia molta importanza se mi immagino di essere nel 1985 o nel 1995.
Ecco:

Cara professoressa Haraway, 

sono un tuo ammiratore. Ho scritto un romanzo di fantascienza, Membrana, in cui una bibliotecaria più giovane (il cui genere è incerto) è risentita nei confronti della madre lesbica, che è una bibliotecaria anziana. La madre lesbica alla fine cerca di fare pace con la figlia alienata.

Definisco la parola “bibliotecario” in senso lato. Io stesso sono stato una persona molto nerd e libresca fin da bambino, e molti sconosciuti mi hanno chiesto perché sono così attaccato ai libri. Ad esempio, portavo spesso con me dei tomi anche quando andavo in discoteca da giovane gay, perché preferivo leggere piuttosto che ballare e flirtare con estranei. Ho anche portato libri da leggere nei bagni pubblici di Taiwan. È così difficile spiegare la mia idiosincrasia (con i libri), quindi mento semplicemente agli estranei dicendo che sono un bibliotecario di professione (non credo che la bugia sia convincente).

In Membrana considero i due personaggi dei bibliotecari, e li sento più o meno simili a me. Quando li chiamo bibliotecari, non intendo dire che lavorano nelle biblioteche o nelle librerie. Voglio dire piuttosto che lavorano con i dati: producono, fanno circolare, consumano e persino rubano dati. La madre lesbica è affermata perché sa come vendere dati ai consumatori. Momo, invece, sembra “ottimizzare” (una parola molto banale e popolare negli anni ’20) i dati dei propri clienti, ma in realtà ne abusa rubandoli.

Cara professoressa Haraway, lei è nota per essere una sostenitrice del “femminismo cyborg”. Secondo il suo studio, tutti sono cyborg. Trovo che la sua argomentazione sia molto correlabile al mio romanzo e a me stesso, ma direi che nel mio romanzo ognuno è più un assemblaggio di dati che un cyborg. Se guarda da vicino i miei personaggi, scoprirà che sono solo immagini di pixel.

G.P. Inutile nascondere che il mio interesse riguarda prevalentemente i corpi. Nella primissima pagina Momo pensa che “c’è un confine invalicabile tra il nostro corpo e le cose esterne”. Penso sia tanto lineare quanto vero e che quel confine si chiama Identità. In che modo questo libro voleva parlare di corpi e di identità? E oggi, mantiene la sua premessa? 

C. T.-W. Hai ragione, Membrana rifletteva la mia preoccupazione per i temi del corpo e delle identità negli anni ’90. E Membrana ha sostenuto che sia il corpo che le identità sono fluidi e persino artificiali: possono essere fabbricati da malfattori.

Il corpo e le identità negli anni ’20, tuttavia, sono più mutevoli di quanto immaginato in Membrana, e questo grazie all’egemonia di foto e video digitalizzati su Internet. I giovani di molte società (Italia e Taiwan incluse) vedono più corpi, soprattutto corpi nudi, rispetto a noi in passato, ma i corpi in questione sono generalmente rappresentazioni digitali (di solito alterate) di corpi piuttosto che corpi in carne e ossa. E non si può negare che molti giovani, soprattutto donne, siano rimasti sbalorditi nel trovare le foto e i video digitali del proprio corpo diffusi in rete e scaricati da migliaia di sconosciuti semplicemente perché le loro foto e i video realizzati durante le intimità sono stati diffusi non consensualmente (da ex- fidanzati o ex-fidanzate o hacker). Come insegnante universitario, mi trovo obbligato a parlare con studenti che potrebbero diventare fonti/vittime/consumatori di tali immagini trasmesse illegalmente. Ammetto che Membrana non prevedeva il caos della circolazione abusiva di tali rappresentazioni del corpo.

Le discussioni sulle identità diventano molto più trendy di quanto avessi mai immaginato. Potrei essere all’antica ora, perché sono sorpreso di scoprire che alcuni dei miei studenti “non sono più gay”, ma si dichiarano “non binari” o “transgender”. Sempre più giovani diventano simpatizzanti delle persone transgender e si arrabbiano molto quando scoprono che le persone transgender non hanno i servizi igienici che desiderano/meritano a Taipei. E molti giovani ora vogliono parlare delle loro complicate identità razziali: ovviamente non sono cinesi (e quindi molto diversi dalle persone in Cina), ma trovano che anche l’etichetta “taiwanese” non sia abbastanza precisa. Ci sono molte sottocategorie/sotto-identità sotto (o, oltre) “taiwanesi”: taiwanesi con antenati indigeni (e quale tribù indigena? Ci sono così tante tribù indigene a Taiwan…), o taiwanesi con alcuni antenati dalla Cina e alcuni indigeni antenati, e così via.

Ma devo anche ammettere che la comprensione dei corpi e delle identità all’interno di un college è ovviamente molto diversa da quella al di fuori di un college. Nella società taiwanese in generale, molti non sono abbastanza pazienti per capire cosa sia una persona transgender o non binaria, o come alcuni taiwanesi siano diversi dagli altri taiwanesi. Credo che i corpi e le identità mostrati in Membrana possano ancora sembrare bizzarri al grande pubblico di Taiwan.

G. P. Trovo geniale l’idea di prendere una cosa super mainstream e desiderata degli anni ‘’80 come l’abbronzatura a ogni costo e rivelarne il lungo termine. Penso che questo sia, tra tantissime cose, anche un racconto sulla nostra mala gestione del tempo data dalla velocità di esecuzione per ottenere un risultato immediato. Anche in questo Membrana prevede tanto del nostro attuale futuro. È un libro sui corpi, ma è anche un libro sulla richiesta costante di performance da parte dei corpi, non è vero?

C. T.-W. Abbronzarsi o meno rimane un problema a Taiwan. Molti di noi sanno che abbronzarsi potrebbe causare il cancro, ma onestamente i saloni di abbronzatura rimangono piuttosto popolari tra le persone gay di Taiwan (e tra le persone gay di molti paesi occidentali). Su Instagram vediamo spesso ragazzi giovani e belli mostrare torsi appena – artificialmente – abbronzati nei loro post. In realtà molti di questi ragazzi lo sanno bene: anche se abbronzarsi in questo modo non porta al cancro, sicuramente farà invecchiare troppo in fretta la pelle, esfoliando anche la giovinezza su cui puntano così tanto. Ma molti di loro non possono resistere al richiamo dei saloni di abbronzatura.

Ti farebbe sorridere, Giulia, sapere che al giorno d’oggi i taiwanesi spesso dicono casualmente che qualcuno (un’attrice, una cantante, o un amico, un parente) dovrebbe davvero “essere mandato in un negozio di automobili per la riparazione”. Significa che la persona in questione dovrebbe sottoporsi a un micro (o maggiore) intervento di chirurgia plastica. Trovo questo detto popolare esilarante, perché Membrana paragona un cliente sotto le dita del protagonista a una macchina in un’officina automobilistica. A Taiwan, negli ultimi 20 anni, sempre più giovani hanno iniziato a spendere molti soldi nelle cliniche di bellezza. E molti medici anziani si lamentano che molti dei loro colleghi più giovani lascino i grandi ospedali per le cliniche di bellezza, che pagano decisamente molto meglio. Ottimizzare le palpebre di un ragazzo è solo più redditizio che operare sul cuore di una vecchia signora.

G. P. Il passaggio sulla velocità e la fretta del risultato si rispecchia anche nei discolibri. Come cambia il rapporto tra corpo biologico e culturale in una società in cui modifica la materia ma non impara dai suoi errori perpetuando le stesse strutture di controllo e potere? 

C. T.-W. Vorrei risponderti da un’altra angolazione: possiamo riconsiderare il nostro rapporto con la velocità e l’urgenza? Possiamo riconoscere che non abbiamo bisogno di essere così veloci come speravamo, e che i cosiddetti bisogni nella nostra vita non sono così urgenti come presumevamo? Molti di noi riconoscono razionalmente di essere impazienti o addirittura violenti con i nostri cari e noi stessi quando siamo di fretta. Sappiamo anche molto bene che diventiamo più gentili con i nostri cari e con il nostro stesso corpo quando impariamo a rallentare il nostro ritmo.

È interessante notare il divario tra il corpo biologico e il corpo culturale. Onestamente, il nostro corpo biologico è così vincolato dalla biologia e non può essere veloce come speriamo. Quando i bulbi oculari cercano di mettersi al passo con gli aggiornamenti in continua evoluzione sui social media per ore, si seccano e alla fine si ammalano. I nostri bulbi oculari e i nostri cervelli saranno sovraccarichi e sull’orlo della distruzione/esplosione. Suggerisco di ammettere che il nostro corpo biologico non può essere sempre sincronizzato con il corpo culturale, che sembra non essere vincolato dalla biologia, in modo da poter essere sufficientemente restaurati per prendere decisioni con calma e gentilezza di fronte a coloro che esercitano violenza.

G. P. Arriviamo a parlare di corpi e di ascensore sociale. Anche in Membrana esistono corpi di serie A e corpi di serie B (androidi). Come raccontiamo i corpi non conformi nel mondo nuovo? Che tipi di marginalizzazioni sono plausibili e quali sono, invece, scomparse? 

C. T.-W. La tua domanda in realtà mi ricorda che forse ci sono quattro tipi, anziché due, di corpi in Membrana. Come dici tu, i corpi privilegiati, che devono essere ottimizzati dai corpi degli androidi; i corpi degli androidi, che vengono utilizzati per ottimizzare coloro che sono in grado di pagare per questa ottimizzazione. È chiaro che i corpi da ottimizzare rimarranno e prospereranno, mentre i corpi che vengono utilizzati per ottimizzare gli altri semplicemente scompariranno, come se fossero aziende più piccole da fondere con le grandi imprese tecnologiche. I più grandi divorano i più piccoli. Et voilà, è monopolio.

Oltre ai due tipi di corpi di cui sopra, tuttavia, finalmente riconosco che ci sono anche altri due tipi di corpi in Membrana: i corpi che possono sopravvivere sotto il mare (questi corpi includono sia l’umano che l’androide corpi) e i corpi (umani e non) che vengono lasciati sulle terre sotto il sole. La narrazione di Membrana è così concentrata sui corpi già sotto il mare che semplicemente ignora quelli che sono rimasti sulle terre. Sì, sulle terre ci sono androidi combattivi, che vengono menzionati di volta in volta nel romanzo. Ma sono rimasti anche esseri umani sulle terre? Il romanzo non parla di loro.

In altre parole, possiamo dire che coloro che sono al sicuro sotto il mare sono come i migranti che arrivano con successo nei loro paesi dei sogni (continente europeo e Regno Unito), mentre quelli che sono lasciati sulle terre e virtualmente lasciati morire sono come i migranti-to-be, che finiscono bloccati nelle loro terre colpite dalla guerra o bloccati nel mezzo del Mar Mediterraneo. Ciò che abbiamo imparato e visto sulla migrazione negli ultimi dieci anni mi spinge a pensare anche all’esistenza di questi ultimi due corpi.

G. P. Momo è un corpo in transizione. Noi lettori comprendiamo leggendo che questo movimento non ha a che fare tanto con l’operazione di rimozione del pene – raccontata come qualcosa di normale routine ma noi sappiamo che ancora oggi non lo è – quanto con la miscela che si crea tra Momo e Andy, il suo androide speculare. In quel momento ho provato lo stesso disturbo sentito mentre leggevo il traffico di corpi dell’antropologa Nancy Scheper-Hughes, ma anche Non lasciarmi di Ishiguro. Eppure siamo una società in cui i corpi sono oggetto costante e raramente soggetto, come possiamo invertire questa rotta, come possiamo smettere di essere il repository o la scorta di qualcuno posto su un gradino più alto della scala?

C. T.-W. Sollevi una questione importante, ma purtroppo in qualche modo sento che il traffico di corpi, insieme a quello di esseri umani, non cesserebbero, ma diventerebbero più complicati e più sfuggenti per noi da fermare. Il traffico di corpi a cui ti riferisci spesso deriva da una persona priva di un organo specifico, che acquista un organo sostitutivo da qualche altra parte, di solito rubato a un prigioniero politico o a una vittima senza fissa dimora. Non è una sorpresa che il traduttore in lingua inglese di Membrana, il professor Ari Heinrich, sia anche noto per le sue ricerche sul prelievo di organi in Cina. Il suo saggio più importante sull’argomento si chiama Chinese Surplus.

È interessante notare che in realtà si è occupato sia di scrivere il suo Chinese Surplus sia di tradurre la mia Membrana allo stesso tempo. In Chinese Surplus, Heinrich non vede la fine del business del prelievo di organi, ma osserva solo che ci sono variazioni crescenti di questo terribile business in questione.

Sappiamo che negli anni ’20 del 2000 siamo in un mondo con un contrasto ancora più drammatico tra ricchi e poveri. È altamente possibile che i poveri vengano costretti a vendere parti di loro stessi ai ricchi.

Inoltre, trovo che il traffico di corpi di cui parli non possa essere separato dal traffico di esseri umani in generale. Come una persona a cui manca un organo potrebbe desiderare un organo sostitutivo, una famiglia che ha bisogno di una domestica potrebbe desiderare di avere una ragazza a sua disposizione. Sembra che non ci si liberi mai dalle ombre del traffico di esseri umani. Molto tempo dopo la presunta fine della schiavitù e della tratta transatlantica dall’Africa alle Americhe, troviamo ancora casi di tratta di esseri umani di persone di ogni colore, di ogni continente, in varie forme.

Cito questo non solo perché il traffico di organi e corpi e il traffico di esseri umani condividono somiglianze, ma anche perché trovo che siamo sfidati dal problema del traffico di esseri umani online. Molti adolescenti scelgono di lasciare la casa per estranei, semplicemente perché sono convinti delle parole e dalle manipolazioni ricevute sui social media.E questi adolescenti finiscono per diventare ostaggi o essere rapiti. È una forma di tratta di esseri umani digitalizzata. E ho detto da qualche parte in questa intervista con te che molte giovani donne in tutta l’Asia scoprono che le foto o i video dei loro corpi nudi vengono diffusi online e scaricati da migliaia di sconosciuti. Queste donne vengono anche rapite o derubate online, ma arrivano a essere anche vittime della tratta di esseri umani. 

G. P. Membrana vuole essere un libro queer, o meglio, ha lo slancio di essere inserito nella letteratura queer, senza però fare affidamento all’auto-fiction, e il suo rinnovato successo proprio nell’anno del Nobel ad Annie Ernaux, che di questo genere ha fatto scuola, è molto interessante. C’è una conversazione lunga, secondo me, da fare sul transfert emotivo che l’esperienza personale usata come strumento innesca nel lettore, ma anche su quanta manipolazione attua. Per parlare di corpi non è necessario, secondo me, parlare della storia del proprio corpo, ma credo che sia impossibile parlare di corpi senza averne esperienza diretta. Ne parliamo?

C. T.-W. Mi piacciono e rispetto i libri di Annie Ernaux, in cui il suo candore mi sorprende e mi commuove. Ammetto che, quando leggo i suoi libri, mi chiedo segretamente se sono disposto a scrivere di me con un candore simile. La mia risposta ora è “no”. La mia personalità è semplicemente diversa.

In quanto donna soggetta a così tanti sguardi da uomini eccitati o ostili per decenni, Ernaux deve conoscere anche i vantaggi e gli scotti per farsi guardare da così tanti lettori in agguato sulla sua vita. Non sono una donna, ma sono cresciuto come un uomo gay in una società taiwanese un tempo molto omofobica. Negli anni ’90, quando ero uno studente universitario che cercava di esplorare la vita gay in un ambiente omofobo, ero propenso a fare in modo che la mia narrativa riflettesse le mie esperienze personali. Sapevo chiaramente che i lettori queer a Taiwan negli anni ’90 apprezzavano e preferivano la narrativa (locale o internazionale) che fosse più o meno autobiografica, poiché presumevano che una narrativa apparentemente autobiografica potesse aiutarli a conoscere i modelli di ruolo queer (il queer scrittore come personaggio queer della letteratura) così come conoscono se stessi, come se tale finzione fosse uno specchio sollevato sui volti di questi lettori.

Anche adesso, nel 2020, nonostante tanti lettori queer siano molto più esposti e orgogliosi di manifestare loro stessi a Taiwan, preferiscono ancora le opere letterarie che si suppone siano autobiografie. Senza mezzi termini, il voyeurismo funziona. Negli anni ’90 volevo essere guardato e allo stesso tempo odiavo essere guardato. Da un lato, avevo bisogno di essere abbastanza visibile da avere amici, alleati e incontri ero-romantici. Ma d’altra parte, non volevo essere molestato dai guardoni (sono stato molestato e perseguitato di tanto in tanto, quando ero giovane). A causa della mia mentalità contraddittoria, ho pubblicato due tipi di narrativa molto diversi tra loro nello stesso periodo. Ho pubblicato storie molto esplicite e sessuali sugli uomini gay negli anni ’90 a Taiwan, che potrebbero funzionare come finestre per coloro che vogliono guardare alla vita gay clandestina (alcuni di questi racconti sono già tradotti in inglese, ma nessuno è ancora disponibile in italiano, nda). E, contemporaneamente, ho pubblicato Membrana, che trasmette i miei pensieri “astratti” su corpi e identità negli anni ’90 ma che, stranamente, non mostra praticamente alcuna rappresentazione “concreta” di uomini gay. Penso che all’epoca di Membrana la percezione di essere guardato come un fenomeno da circo mi avesse stancato, così, nel romanzo, ho scelto di rappresentare solo donne (molto diverse da me) ma nessun uomo (l’unica eccezione è un omosessuale basato sul regista italiano Pier Paolo Pasolini, ma anche questo personaggio è al di fuori della narrazione piuttosto che al suo interno, nda).

In futuro sarò più felice di scrivere narrativa più speculativa, che non sia associata alla mia vita. Mi sento più libero di quanto non mi senta osservato. Dal momento che ci sono già molti scrittori taiwanesi che mostrano felicemente le proprie esperienze ero-romantiche e la vita familiare nel XXI secolo, non credo di aver bisogno di unirmi al loro campo, che è già molto affollato.

ARTICOLO n. 6 / 2023

WALTER BENJAMIN, LA CITTÀ COME IPERTESTO

I profeti del presente

Tra il 1997 e il 1998 il fotografo americano Christopher Rauschenberg, figlio di Robert Rauschenberg e Susan Weil, si è recato in oltre 500 dei luoghi immortalati da Eugène Atget nel suo lavoro pionieristico di documentazione della trasformazione di Parigi alla fine dell’Ottocento, raccogliendo in Paris Changing: Revisiting Eugene Atget’s Paris (Princeton Architectural Press, 2016) la testimonianza di un paradosso: la città vecchia che Atget aveva fotografato per quasi quarant’anni nel tentativo di preservarla dalla furia modernizzatrice del Barone Haussmann e dei suoi eredi non era affatto scomparsa, anzi rimaneva pressoché immutata un secolo dopo gli scatti originari. Credo che il détournement sarebbe piaciuto allo stesso Atget, che non fu solo il primo fotografo di strada e il primo sociologo urbano a documentare il modo in cui nascono e muoiono le città moderne ma anche, nel suo modo dimesso e obliquo, un surrealista (pensiamo alla straordinaria fotografia della folla che guarda l’eclisse solare in Place de la Bastille nel 1912 che Man Ray volle come copertina di un numero de La Révolution Surréaliste). Come nell’hauntology contemporanea, la nostalgia per il passato si tramuta in qualcosa di più inquietante: un passato che non passa mai.

L’opera di rephotography di Rauschenberg è interessante non solo perché porta alla luce il carattere spettrale del lavoro di Atget, ma anche perché dice qualcosa sul rapporto unico che Parigi intrattiene con il proprio passato culturale e la modernità: prima città moderna dell’Occidente, Parigi è però sempre identica a sé stessa. Le varie mitologie della modernità parigina (dalla Rivoluzione francese alla Cité Lumiere, dalla Nouvelle Vague al Sessantotto) richiedono di essere interpretate in maniera tradizionale, e ancora oggi non è raro sedersi in un caffè di Pigalle e veder entrare una coppia di giovani in basco e dolcevita nera in un flashback dalla città esistenzialista. È un’ideologia della libertà che lascia poco spazio alla libertà, e che fa eco all’idea francese per cui i valori libertari della République possono essere imposti dall’alto. Ci ripenso mentre l’Eurostar partito da Londra mi lascia alla Gare du Nord: è possibile passeggiare a Parigi senza ripercorrere le strade già camminate da Baudelaire, Benjamin, Debord, Pajak? La flanerie è obbligata, nella città della psicogeografia è impossibile perdersi. Come in tutto il resto, anche da questo punto di vista Londra è l’opposto speculare di Parigi. A Londra tutto cambia incessantemente, non c’è nostalgia, né bellezza, ad ancorare il passato. La libertà è più profonda, più fredda, più inumana.

Poche cose incarnano questa permanenza dell’uguale in una città simbolo della modernità e della trasformazione come i bouquinistes del lungosenna, che compaiono immutati in ogni rappresentazione di Parigi dal XVI secolo: ogni volta che mi imbatto in un filmato dell’inizio del Novecento, o in una stampa del Settecento che li rappresenta, ho l’impressione di trovarmi di fronte a Jack Nicholson che in Shining rivela di essere sempre stato il custode dell’Overlook Hotel. Sarà che vivendo oltremanica ho interiorizzato una maniera britannica di guardare alla cultura, ma mentre ci passo davanti un pomeriggio di novembre mi viene in mente la prima traduzione inglese del titolo della Recherche proustiana: Remembrance of Things Past. Quel “things” così materiale, come se i ricordi fossero oggetti solidi, spine che ti si piantano nel cervello e di cui non riesci a liberarti. Passano i secoli, re vengono decapitati, sparano i mitra dell’Isis ma quelle “cose” rimangono lì, immutabili, impersonali, come spettri. Sono sempre stato il custode.

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In questa storia, l’anno della svolta è il 1927: lo stesso in cui Heisenberg formulava il principio di indeterminazione e in California Philo Farnsworth trasmetteva la prima immagine televisiva. Può esserci un momento più rappresentativo dell’arrivo della modernità per come abbiamo imparato a intenderla nel Novecento? Il 1927 è anche l’anno in cui moriva Atget, poverissimo, poco dopo la compagna Valentine; è l’anno in cui veniva finalmente completato il lavoro del Barone Haussmann, iniziato 74 anni prima, con la realizzazione del boulevard tra l’VIII e il IX arrondissement che avrebbe preso il suo nome; è l’anno in cui veniva pubblicato l’ultimo volume della Recherche, quello in cui il tempo perduto viene infine ritrovato. È anche l’anno in cui per la prima volta Walter Benjamin menziona in una lettera a Scholem un progetto a cui ha cominciato a lavorare dall’anno prima e dedicato proprio alla trasformazione di Parigi voluta da Haussmann, i Passages: siamo di fronte a quelle che Daniel Mendelsohn, parlando di W.G. Sebald (un autore che evidentemente a Benjamin deve molto) ha chiamato “near-coincidences”coincidenze apparentemente significative.

In realtà, come sempre è il caso nell’esperienza erratica e contraddittoria di Benjamin, è difficile stabilire una vera data d’inizio dei Passages. Pare che la raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo fosse iniziata fin dai vent’anni, da quando aveva messo piede nella capitale francese per la prima volta nel 1913, arrivato in treno da Berlino con due compagni di università. Se così fosse, potremmo dire che i Passages furono l’ossessione di tutta la sua vita, visto che ancora mentre scalava i Pirenei in fuga dai nazisti nel settembre del 1940 portava con sé una valigia il cui contenuto, aveva detto ai suoi compagni di viaggio, era più importante della sua stessa sopravvivenza. Sembra che la valigia contenesse materiali per i Passages. Dopo il suo suicidio a Portbou la valigia fu probabilmente sequestrata dalle autorità spagnole e perduta: cosa contenesse davvero non lo sapremo mai.

Sappiamo però il momento in cui questi materiali raccolti fin dalla giovinezza avevano cominciato a condensarsi in un progetto. Era il 1926, e se il surrealismo era stato il punto d’arrivo parzialmente involontario di Atget, non stupisce forse che il punto di partenza dei Passages sia proprio il libro di un surrealista: Le Paysan de Paris di Louis Aragon racconta come le vetrine di un negozio del Passage de l’Opéra vengano trasformate dall’immaginazione del poeta-flaneur in un panorama marino popolato di sirene. L’applicazione del merveilleux quotidien ad un luogo simbolico della nascente cultura consumista, nella città che più di ogni altra aveva incarnato la spinta progressista del capitalismo, non poteva lasciare indifferente Benjamin, che a quel tempo si era già convertito al marxismo, aveva conosciuto Adorno e Horkheimer, e aveva cominciato a riflettere sulle conseguenze della riproducibilità tecnica sull’opera d’arte e la sua “aura”. I pezzi del puzzle erano andati a posto: coincidenze apparentemente significative.

È come se nell’opera incompiuta, e impossibile da compiere, dei Passages Benjamin avesse trovato una sorta di centro instabile, di nucleo in continua trasformazione della sua esperienza intellettuale centrifuga, che non si lascia rinchiudere in nessuna definizione perché quella definizione non era chiara al suo autore: per tutta la vita Benjamin si sarebbe mosso per illuminazioni improvvise e strappi, continuando a smarcarsi dalle strade che si era autoimposto (filosofo, critico letterario, pensatore politico) in un rivolo di derive esperienziali (gli stati alterati di coscienza, la marijuana, la stessa flanerie). Parigi, e il lavoro sui passages, furono l’unica costante nelle peregrinazioni che l’avrebbero portato a Ibiza e Mosca, in Italia e a Marsiglia, in fuga dalla Storia, certo, ma anche dai suoi fantasmi, come quello della depressione, e in fin dei conti da se stesso. La “vita segreta delle città” che intendeva indagare nei Passages era la vita segreta della sua anima; il futuro dell’Occidente lanciato verso il baratro la sua apocalisse personale; la nostalgia consumistica delle vetrine la stessa malinconia che permea Infanzia berlinese. Così Benjamin, tramontato come tutto il resto il tentativo impossibile di un’autobiografia, raccontava sé stesso rifratto in uno specchio che non ne restituiva mai pienamente l’immagine: parlava d’altro perché era l’unico modo di parlare di sé.

La stessa ispirazione originaria dei Passages è profondamente indicativa a riguardo: nella lettera a Scholem del 1926 racconta come abbia deciso di dedicarsi a un lavoro sulla Parigi del Barone Haussmann per compiere una sorta di esorcismo. Lo scopo dell’opera, spiega, è quello di “svegliarci” dal “sogno dell’Ottocento”. Siamo di fronte a Benjamin nella sua essenza più pura: oscuro al limite dell’impenetrabilità, eppure stranamente spontaneo; impersonale e autobiografico; teorico e intimo; con l’attenzione sempre rivolta da qualche parte che non è il centro, come se l’unico modo per dire le cose che contano fosse non menzionarle mai direttamente. Perché evidentemente il “sogno dell’Ottocento”, quello da cui il giovane Benjamin sente l’esigenza di risvegliarsi, è il sogno della generazione dei suoi padri, la grande utopia ottocentesca ridotta a frammenti fumanti di città e carne umana dalla guerra mondiale in attesa di nuovi e più atroci orrori. Come sempre nel corso di tutta la sua vita, Benjamin ha già prefigurato il futuro: l’operazione è psicanalitica e surrealista nella sua essenza, ma senza redenzione. Sembra di sentire il Rust Cohle di True Detective quasi un secolo dopo quando dice che alla fine di ogni sogno c’è un mostro: gli occhi del sognatore si sarebbero aperti sul buio.

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Benjamin si stabilisce definitivamente a Parigi nel 1935. Non è la prima tappa del suo esilio: tra il 1931 e il 1932 ha già compiuto due viaggi a Ibiza, ospite di una congrega di expat tedeschi. Come tutti a Ibiza si è innamorato, entrando forse in contatto in maniera più pura con quell’anima dionisiaca che per tutta la vita avrebbe corteggiato e respinto in egual misura; al ritorno dal primo viaggio ha meditato per la prima volta di uccidersi. Quando il Reichstag è bruciato nel febbraio del 1933, ed è stato costretto a lasciare la Germania una volta per tutte, Parigi è diventata la sua base.

Non è un caso, credo, che nella capitale francese arrivi ufficialmente come traduttore della Recherche, un altro progetto che non avrebbe mai portato a termine. Invece di lavorare a Proust riprende i fili della sua ossessione per Baudelaire. Si intrattiene nei locali di Montparnasse, specialmente al Dôme. Passa i pomeriggi a fare ricerche alla biblioteca nazionale, che interrompe solo quando viene a prenderlo l’amica Hannah Arendt. Il lavoro deve essere stato intenso, quell’anno, perché nello stesso 1935 lo studio per i Passages confluisce in un libro, Parigi capitale del XIX secolol’unico tentativo fatto in vita da Benjamin per dare una forma editoriale alla sua ossessione. Per il resto, l’umore non è dei migliori. Si sposta da una pensione economica all’altra, totalmente dipendente dai soldi che gli spediscono Adorno e Horkheimer. “Parigi cambia”, aveva scritto Baudelaire immerso nel sogno dell’Ottocento, “ma niente nella mia malinconia è cambiato”. Benjamin potrebbe sottoscrivere queste parole.

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Remembrance of Things Past è anche il titolo di una conferenza che si è tenuta al Warburg Institute di Londra nel 2012. Il suo autore, Matthew Rampley, oggi insegna storia dell’arte alla Masaryk University di Brno, in Repubblica Ceca, e a Birmingham. Nel 2000 ha pubblicato un libro da cui la conferenza trae lo spunto, oltre che il titolo, e che sostiene un’idea curiosa: quella delle influenze di Benjamin sul lavoro di Aby Warburg. Un paradosso, visto che Warburg è morto nel 1929 quando Benjamin era virtualmente sconosciuto (l’unico dei suoi lavori principali già pubblicato, Origini del dramma barocco tedesco, era uscito l’anno precedente).

Benjamin conosceva Warburg, lo cita nell’introduzione alle Origini e può darsi che si sia ispirato a lui nel costruire la propria carriera, se di carriera si può parlare, di studioso indipendente. Da Warburg, Benjamin ha quasi certamente tratto l’idea della cultura come qualcosa di vivo, in cui frammenti eterogenei alti e bassi, popolari e colti, possono essere ricombinati per trarre un senso più ampio; e l’analogia tra i Passages e Mnemosyne Atlas, due lavori incompiuti e ipertestuali basati su un’idea di classificazione fluida e mai definitiva, è fin troppo evidente: gli stessi faldoni che contengono i materiali dei Passages richiamano i pannelli di Mnemosyne per il carattere eterogeneo delle loro denominazioni (Baudelaire, Casa di sogno, Le strade di Parigi, Specchi, Sistemi di illuminazione, Moda, etc.). Quello che Rampley sostiene nel suo libro è che il lavoro di Warburg, rimasto nella relativa oscurità fino agli anni Ottanta, deve la sua notorietà a Benjamin, che al contrario è stato soggetto di studio critico fin dagli anni Trenta. Leggiamo, dice Rampley, Warburg attraverso la lente di Benjamin nello stesso modo in cui leggiamo Shakespeare attraverso la lente di T.S. Eliot.

In questa idea del futuro che influenza il passato c’è qualcosa di affascinante, come se il tempo fosse un cerchio, o una casa di specchi. È seguendo questa intuizione che nel 1920 Benjamin acquista l’Angelus Novus di Paul Klee, “l’angelo della storia” con “lo sguardo rivolto al passato”? È una prefigurazione della tragedia personale che lo attende o un riconoscimento nicciano dell’eterno ritorno? O entrambi?

Benjamin aveva probabilmente in mente Mnemosyne Atlas quando pensava ai Passages, ma la sua idea di ipertesto era più definita, e insieme più concreta, dello studio del movimento dionisiaco di Warburg. Se Parigi è il prisma attraverso cui si manifesta l’intera storia dell’Occidente, il “sogno dell’Ottocento” così come la catastrofe ventura, il pubblico e il privato, l’intimo e l’impersonale, i grandi movimenti della Storia così come gli echi dell’autobiografia, se insomma Parigi è un Aleph che tutto contiene, è anche vero che in Benjamin è la città stessa, con le sue infrastrutture materiali, i vetri e l’acciaio, i tunnel e le gallerie, a farsi per la prima volta ipertesto. Mnemosyne Atlas era un teatro della memoria rinascimentale, e attraverso la sua struttura fluida portava nella modernità la logica spaziale dell’organizzazione della conoscenza dei sistemi mnemonici. Ma nei Passages è il reticolo della città, con le sue strade e i suoi passaggi, a farsi informazione organizzata. I passages sono piuttosto chiaramente link: scorciatoie che portano da un luogo all’altro più rapidamente e, in maniera metaforica, collegano punti diversi dell’ipertesto culturale.

Warburg aveva già immaginato internet; Benjamin immagina la smart city, o l’Internet of Things. La Parigi di Benjamin è una realtà virtuale, informazione stratificata in un sistema semantico. Chissà se Christopher Nolan aveva in mente questo parallelismo quando ha pensato alla scena di Inception ambientata a Parigi. Altre coincidenze apparentemente significative.

Quello che è certo è che il futuro preconizzato da Warburg e Benjamin, la modernità che entrambi inseguivano (e che inseguivano, significativamente, rivelando i segni del passato che non passa nel tessuto della modernità), avrebbe finito per distruggerne il lavoro prima, e le vite poi: Warburg sarebbe impazzito dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, e la sua Bibliothek trafugata lungo l’Elba fino a Londra per sfuggire alla persecuzione nazista; l’idea di città ipertestuale immaginata da Benjamin avrebbe portato alla morte del flâneur, come ha scritto ormai dieci anni fa Evgeny Morozov in un celebre articolo. Nel frattempo Benjamin era già stato obliterato, distrutto dal nazismo che Warburg aveva scampato in extremis. Alle spalle dell’Angelus Novus, dove gli occhi non guardano, si sta sempre compiendo una catastrofe: storica, tecnologica, semantica.

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Nachleben, la “vita postuma”, è la memoria: Warburg l’aveva perfettamente chiaro. Warburg era già scomparso dietro la propria Bibliothek prima di morire; Benjamin era già diventato il suo mito, la traccia dei suoi spostamenti, i suoi progetti mai finiti, le sue pagine di diario, le lettere, i racconti, gli aneddoti, prima di essere costretto a ingoiare la morfina a Portbou. C’è il sogno del passato, poi c’è il futuro che spazza via tutto, e poi c’è la memoria, che è il luogo in cui sopravvivono i fantasmi. Per questo ogni scrittore interessato alla memoria è un bibliofilo, e per questo i nazisti bruciavano i libri: i due atti, quello dell’accumulazione e quello del rogo, possono sembrare opposti, ma in realtà sono facce della stessa medaglia, entrambi tentativi di fare i conti con il mondo dei padri. Ingraziarsi Mnemosyne o aggredirla con il fuoco nel tentativo di addomesticarne i moti imprevedibili. La modernità, come aveva capito Atget, ha sempre bisogno di bruciare il passato, ma il passato non brucia mai. Anzi nel fuoco si calcifica, come in un procedimento alchemico, e si fa permanente: Nachleben, appunto.

È anche per questo che quando Benjamin si trova infine costretto a lasciare anche Parigi, circondato ormai su tutti i fronti (esule dalla Germania perché ebreo, internato in un campo di lavoro nella Francia libera perché tedesco, poi braccato in quella occupata di nuovo perché ebreo, guardato sempre con sospetto perché marxista) lascia i faldoni contenenti i materiali per i Passages alla biblioteca nazionale. Ma sarebbe ingenuo pensare che la memoria sia neutrale. O meglio, la memoria è neutrale, come ogni dio e ogni fantasma, ma le sue istituzioni no. I Passages sarebbero stati probabilmente sequestrati e dati alle fiamme se il bibliotecario a cui Benjamin aveva lasciato i faldoni non li avesse nascosti poco prima della caduta di Parigi. Quel bibliotecario era Georges Bataille: coincidenze apparentemente significative.

Mentre la catastrofe si fa sempre più pressante, mentre il risveglio dal sogno si fa imminente, e il sogno si trasforma in maniera via via più concreta in quello che è sempre stato, e cioè in un incubo, anche l’ossessione di Benjamin si acuisce, sfiorando la mania. Leggendo i Passages oggi una cosa mi colpisce: la totale assenza di spiegazioni, come se il semplice accumulo di citazioni, di rimandi, di frammenti fosse sufficiente a creare un senso. È la stessa sensazione che si avverte guardando Mnemosyne Atlas: quella di trovarsi nella mente di qualcuno, all’interno di un progetto privato. Perduti nel sogno di qualcun altro, come i necronauti di Philip Dick intrappolati nella mente di Runciter. C’è una coerenza nel fatto che mentre il senso della Storia si fa sempre più incerto, mentre il mondo discende nel caos e nella morte e nella psicosi nazista, la storia personale abbia sempre più bisogno di cercare un proprio senso, diventi sempre più importante salvare il proprio mondo intimo. Benjamin sapeva probabilmente di essere spacciato dal giorno dell’incendio del Reichstag, sapeva che il momento del risveglio poteva essere procrastinato ma non evitato: per questo era più importante salvare il contenuto della valigia che la sua stessa vita.

Certo è che non abbandona Parigi finché ormai è troppo tardi. In quegli ultimi mesi è sempre più solo e più povero. Adorno e Horkheimer si sono trasferiti in California dal 1938, e da tempo cercano di convincerlo a lasciare l’Europa per raggiungerli. Dora, la sua ex-moglie, è fuggita a Londra con il figlio Stefan: basterebbe arrivare fino a Calais e salire su una nave per mettersi in salvo, ma Benjamin rifiuta. La ragione: vuole continuare a lavorare ai Passages. Solo quando Parigi cade, il 14 giugno del 1940, un mese dopo che la Wehrmacht è entrata in Francia, accetta il permesso di ingresso negli USA che Adorno è riuscito faticosamente a ottenere per lui. Ma a quel punto l’Europa è una trappola mortale: la nave per New York parte dal Portogallo, ma per arrivarci bisogna attraversare tutta la Francia nazista e la Spagna di Franco. Benjamin ha 48 anni, soffre di cuore, ha problemi a camminare. Quest’ultima fuga dura tre mesi e si conclude appena passato il confine spagnolo: al Portogallo mancano ancora 1344 km, trecento ore di cammino. Il futuro è sempre stato troppo lontano.

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C’è un’ultima somiglianza tra la vita di Benjamin e quella di Sebald, e ha a che vedere con la fine: due autori che hanno passato l’esistenza a cercare la “vita segreta”, a tessere trame di senso nel caos del mondo, muoiono in maniera casuale. Le coincidenze sono apparentemente significative finché all’improvviso, senza ragione, smettono di esserlo, e il tessuto asignificante del mondo si sfalda, torna all’indifferenziazione primigenia. Kronos, il tempo umano, indirizzato, si disfa in kairos, il tempo come successione di momenti disordinati ed eterogenei. Kronos, cioè Saturno, il dio della depressione e del limite, della morte e della catastrofe, non può essere eluso per sempre: non ci sono più derive, non ci sono più luoghi da visitare, non c’è più fuga. Saturno, la cattiva stella, il dis-astro, alla fine arriva sempre. Porta la fine, e con sé anche la pace.

Sebald muore un giorno di dicembre del 2001 in un incidente stradale, a 57 anni: un punto finale conclude la vita dello scrittore della divagazione infinita. La morte di Benjamin non è casuale nelle ragioni ma lo è nelle circostanze. Si conclude in un paese qualsiasi, un villaggio di mille anime che per Benjamin, così legato al senso dei luoghi, non significa nulla. Ciò che segue è tanto preda dell’entropia da risultare quasi comico. Il medico legale che arriva sul posto non si accorge della capsula di morfina e classifica la morte come aneurisma cerebrale; in una mossa degna di una commedia degli equivoci, le autorità spagnole leggono male la carta d’identità: pensano che il morto si chiami Benjamin Walter, invece che Walter Benjamin. Non capiscono che è ebreo e lo seppelliscono nel piccolo cimitero cattolico del paese. Chissà che hanno fatto della valigia, cos’avranno capito di quella raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo. Avranno pensato che fosse un urbanista, probabilmente. Sicuramente non conoscevano la parola “flaneur”.

Eppure mi sembra che proprio in questo finale insensato si apra lo spazio di una possibilità: alla tragedia segue la commedia. Benjamin riposa in un paese affacciato sul mare, nel clima mite della Catalogna: immagino un vento dolce che scuote il cespuglio di bosso piantato da chissà chi a vegliare sul suo sonno. La psicosi nazista che l’ha ucciso si è uccisa a sua volta, alla guerra è seguita la pace. Alla pace seguiranno altre guerre, altre morti, altre catastrofi. E tornerà ancora una volta la pace.

A Parigi, la Wehrmacht non ha mai trovato i Passages, ben nascosti da Bataille: la memoria, incarnata in un servitore ribelle e infedele, ha fatto bene il suo lavoro. 

“Un bambino”, appunta Benjamin nella sezione dedicata alla Noia, eterno ritorno, “con sua madre al Panorama. Il Panorama raffigura la battaglia di Sedan. Il bambino trova tutto molto bello: ‘Solo, peccato che il cielo sia così cupo’. ‘Così è il tempo in guerra’, ribatte la madre”.

Il tempo di Proust, quello perduto e ritrovato, è kronos o kairos? Se il tempo è un anello, e non una linea retta (e se la noia è l’esperienza che facciamo di questo eterno déja vu) allora l’Angelus Novus, rivolgendosi all’indietro, ha lo sguardo fisso sul futuro. L’hauntology non è un glitch nel tessuto del tempo: è il tempo nella sua circolarità.

La lapide a Portbou, sormontata dal suo piccolo cespuglio di bosso, è sempre esistita in attesa dell’unico finale possibile. “Una gabbia andò in cerca di un uccello”, scrisse Kafka. Sono sempre stato il custode.

Niente passa perché tutto, incessantemente, passa. Dal sogno non ci si sveglia veramente mai, si salta solo di sogno in sogno, come in Inception. Anche il mostro alla fine è una fantasmagoria. “Peccato che il cielo sia così cupo”. Ma in fondo è solo un diorama.

ARTICOLO n. 5 / 2023

DICIANNOVE ANNI DI “SCRIVERÒ DI PIÙ”

L'anno che verrà

Benvenuti nel 19esimo anno in cui il mio buon proposito è “scrivere di più”. Un proposito difficile da quantificare legato a un’attività che dà soddisfazioni e molte rogne. Rimasto immutato nonostante il passaggio alla maggiore età, all’inizio della carriera lavorativa e all’aver superato i trent’anni, l’auspicio ha lo stesso indice di fallimento di quello di perdere 5 chili entro l’estate, ma molti più sensi di colpa, perché è un proposito che lega la stima di sé alla prospettiva lavorativa, unione che è la grande fortuna degli psicoterapeuti del nuovo millennio. Di seguito, la cronologia di come questo proposito si è insinuato nella mia vita e come è stato in vario modo disatteso.

(Qualcuno esperto di come si danno le notizie potrebbe avere da ridire sul fatto che non si sia aspettato il 2024 per pubblicare un anniversario tondo, il 20esimo. I motivi sono due: per prima cosa si spera che il prossimo anno non stiamo ancora dietro a ‘sta stupidata e il buon proposito sia “provare a indossare di più il giallo”, o qualcos’altro di frivolo; la seconda è che è l’unica idea che mi è venuta in mente, per cercare di realizzare questo proposito anche nel 2023.)

2004

Nel 2003, a 16 anni, mi innamoro di uno che mi dice che dovrei mandargli delle mail dove gli racconto cose, perché secondo lui la scrittura è un’attività bellissima che dovremmo condividere. Il problema è che io mi vergogno di fargli leggere quello che scrivo perché penso che lui sia un genio della scrittura, così apro un blog anonimo dove racconto quello che avrei dovuto raccontare a lui. È un’attività molto divertente, molto più che rispondere alle mail di questo tizio che nel frattempo mi scrive che devo scordarmi una relazione a distanza con lui e che si è messo con una sua compagna di classe. A Capodanno 2004 mi dico che dovrei “scrivere di più”, intendendo sul blog. Il buon proposito si realizza per il semplice fatto che l’anno prima il blog era stato aperto per neanche quattro mesi. Prima e unica volta in cui il buon proposito ha successo, arrivo persino a dire a un prete che mi chiede cosa voglio fare da grande: «Io voglio scrivere per far ridere la gente». Il prete mi guarda con pietà.

2005

Insisto sul punto dello scrivere di più, ma quest’anno c’è dell’ambizione: c’è questa cosa della blogosfera, mi dico che 18 anni è il mio momento per diventare una giovane blogstar, anche perché, imbevuta di ageism, mi convinco che se non sfondo nella letteratura entro la fine del mio diciottesimo anno di vita posso tranquillamente considerarmi una fallita. Questa scadenza è già stata rimandata di qualche anno, visto che nel 2004 il successo dei libri di Melissa P. e Zoe Trope (mie coetanee) mi fanno già sentire in ritardo. Ovviamente l’entusiasmo per il blog e il fatto che non sia diventata una blogstar entro febbraio mi fanno scrivere meno, e l’uscita del libro di Margherita F. celebrato come il più rappresentativo dell’adolescenza in Italia mi fa sentire già sconfitta. Anche l’aver sbagliato un congiuntivo nel tema di maturità non aiuta. La cosa migliore che scrivo è la mail in cui mando a cagare quello là che mi convinse a scrivere – non perché mi abbia convinto a scrivere, per altri motivi.

2006-2009

Finito il liceo a metà 2005, due amici mi consigliano di leggere i libri di David Sedaris e Walter Fontana, scoprendo così cosa vuol dire scrivere per far ridere la gente. La reputo una cosa per me impossibile, ma ormai mi ero incistata su questa cosa della scrittura, quindi mentre studio comunicazione all’università passo tutti i Capodanni a dire che dovrei scrivere di più ma non so bene di cosa. Scribacchio sul blog quattro stupidate, metto qualche battuta scema su FriendFeed, continuo a leggere e guardare gente che fa molto ridere e mi incupisco. L’unico anno in cui il proposito si realizza è il 2009, quando un sito di recensioni cinematografiche mi chiede di collaborare in cambio di andare a vedere film gratis. Io non so niente di cinema, ma non sarà l’ignoranza sul tema a fermarmi, che poi è il principio su cui si fonda buona parte della professione giornalistica.

2010

Il Capodanno del 2010 arriva un mese dopo la mia laurea. Il piano per la ricerca di un lavoro è trovare una redazione di una rivista e piazzarmi lì a scrivere. Non volevo fare la giornalista, volevo scrivere – forse la categoria di persone peggiore che si possa trovare nella redazione di un giornale. Quindi “scrivere di più” era un auspicio lavorativo, ma anche un piano per farmi notare nel caso ci volesse più tempo del previsto per trovare un posto in redazione. Il blog l’avevo praticamente abbandonato, guardare a 22 anni quello che scrivevo a 17 o 18 anni era grande fonte di imbarazzo. Questo “scrivere di più” non aveva una casa, e se non posso pubblicare qualcosa da qualche parte non vedo perché scriverlo. A marzo 2010 entro nella mia prima redazione, ma in quella fase a noi stagisti non ci facevano scrivere, inizialmente non avevamo neanche accesso alle riunioni di redazione. Anche il fatto che ogni consegna io la viva con l’angoscia di chi aspetta il referto di un esame specialistico richiesto d’urgenza non aiuta. Scrivo poco, ma cose significative: il primo articolo pubblicato su un cartaceo, la prima intervista, cose così. 

2011-2015

Nel momento in cui prendo gusto all’idea di scrivere, le responsabilità dentro la redazione diventano tali da non lasciarmi il tempo per farlo. Passo gli anni a chiedere a persone che lavorano fuori dalla redazione di scrivere cose che vorrei scrivere io. Ogni Capodanno mi dico che basta, l’anno prossimo scriverò di più, delegherò tutto il resto. Appena lo faccio, mi ritrovo un’altra cosa da fare che non è scrivere. Roba bella alcune volte, enormi dita nel culo altre volte. Nel 2015 trovo una collaborazione con un mensile, che dura 4 mesi perché poi cambia direttore e quello nuovo mi schifa. Nel frattempo, il provider del mio blog fa saltare in aria i server, con mio enorme sollievo.

2016-2017

Entro in un’altra redazione, dove sono già disillusa dall’idea di scrivere più spesso di quanto facessi nella precedente, ma dato che nel frattempo ho iniziato a lavorare come autrice per un programma comico mi dico: devo scrivere più cose comiche. Per farci cosa non è dato sapere. Magari sui social? Magari sì, ma tanto non lo faccio. La realizzazione del proposito di scrivere nel 2017 potrebbe arrivare a una svolta grazie a un licenziamento arrivato a sorpresa. E invece sono troppo impegnata ad andare in sbattimento per la partita iva per fare qualsiasi altra cosa.

2018-2019

Compresi i meccanismi della partita iva (o meglio, arresa al fatto che non esiste partita iva senza angoscia), il proposito si concretizza nel rimettere insieme un paio di contatti per pubblicare dei pezzi mentre faccio altri lavori. Questa attività costituisce circa l’1,5% dei miei guadagni – non solo perché paga poco, ma pure perché lo faccio poco. A furia di frequentare comici, nel 2019 la formulazione di questo buon proposito prosegue con “per provare a fare stand-up”, ma il dio della procrastinazione mi ha preservato da una figura di merda. A fine 2019 mi regalano un abbonamento a Masterclass, la prima cosa che faccio è guardare la serie di lezioni di David Sedaris dove ribadisce quello che dice in tutte le interviste: lui scrive tutti i giorni, prende appunti costantemente. Dice che ogni testo che scrive viene riscritto almeno 6-7 volte, anche 10. Io non ho manco voglia di rileggere quello che scrivo alla fine della prima stesura, figurati. Mi chiedo se questo proposito abbia poi così senso.

2020

A Capodanno bevo e poi rilancio: è l’anno giusto per scrivere un libro. Per puro caso azzecco sul fatto che è un ottimo anno per stare chiusi in casa a scrivere, ma l’angoscia del lockdown non mi permette di farlo, poi quando il lockdown finisce c’è il tempo all’aria aperta da recuperare, e insomma ci siamo capiti. In un momento di follia pubblico un racconto su un sito di self-publishing e succede un miracolo: arrivano delle persone a chiedermi di scrivere cose. Scopro che funziono solo con il senso di colpa. Non è l’anno in cui scrivo di più, ma è quello in cui scrivo delle cose che davvero mi interessano: i cazzi miei. Qualcuno mi chiede se ho “cose nel cassetto” da fargli leggere, vorrei metterlo in contatto con la me nell’universo parallelo in cui si realizzano tutti i buoni propositi, che ha cassetti pieni di racconti e non ha mai superato i 55 chili di peso.

2021

Ribadisco il buon proposito del libro, di cui non ho manco aperto un file Word, poi mi guardo attorno: tutte le persone della mia cerchia hanno pubblicato o stanno per pubblicare un libro (non tutte-tutte, ma più del 50% sì). Comincio a farmi domande sull’editoria, sul senso che può avere pubblicare un libro in un momento così pieno di libri, sulla percezione della scrittura umoristica. Tutte domande che mi faccio invece di scrivere.A un certo punto mi viene un coccolone per cui finisco in ospedale un mese e mezzo, unico periodo in cui non scrivo senza sensi di colpa perché c’ho la scusa che non va un braccio. Appena esco a dicembre scrivo un raccontone per un giornale, la mia fisioterapista mi dovrà rimettere a posto la spalla per le successive tre sedute, ma è una grande soddisfazione. Quattro giorni dopo è l’ultimo dell’anno.

2022

Parto carica a pallettoni, prometto cose a chiunque, poi ogni volta che mi metto alla scrivania mi vengono dei fastidiosissimi formicolii al braccio sinistro, lascito del coccolone e spiegati con dei “boh” dai medici. Fino ad agosto io vorrei solo parlare con la psicologa e farmi scrocchiare dal fisioterapista, ma ho promesse da mantenere. In autunno il mio neurologo mi dice che va tutto bene, e allora con slancio mi risiedo alla scrivania e mi faccio prendere dalla foga, finché dopo circa 3 ore non mi ricordo che aver scritto è bellissimo, scrivere no. Allora mi alzo per fare una pausa di circa 72 ore e poi riprendo, non riuscendo a mantenere un sacco di promesse.

2023

Il 2 gennaio scrivo su un foglio che quest’anno devo scrivere tutti i giorni, poi mi prendo due giorni di ferie dal mio proposito. A seguito del secondo buon proposito, “diventa più diligente”, mi metto a recuperare gli arretrati del 2022, tipo questo testo qua, che è l’arretrato più veloce da smazzare. Ne ho un altro da chiudere entro un mese. Se riesco a chiudere quello, stai a vedere che è l’anno in cui ricomincio a guidare – perchélimitarsi solo a danni virtuali?

ARTICOLO n. 4 / 2023

IMPARARE A NUOTARE, ANCORA UNA VOLTA

L'anno che verrà

Doveva esserci una luna piena appesa sopra la vasca, ma il bagnino mi dice che l’hanno tolta da tempo, che era un’installazione temporanea. C’è ancora però l’enorme donna di Maurizio Cattelan, un murale che copre una parete intera della struttura già di suo monumentale. La donna è distesa sotto al pelo dell’acqua come se fosse sotto a una coperta. Di lei emergono solo le mani, pacificamente poggiate sulla coperta-acqua, e il viso, che è rivolto verso l’alto mentre le pupille sono rovesciate di lato, cioè verso chiunque entri in piscina, e anzi è uno di quegli sguardi che fissano l’osservatore in qualunque punto si trovi. Mi avevano parlato della piscina Cozzi alcuni amici che la frequentano, uno di loro la chiama “il mare” per via della profondità della vasca che arriva a cinque metri dal lato dei trampolini per i tuffi. Costruita in epoca fascista, con la conseguente grandeur architettonica, mi è sembrata abbastanza solenne per frequentarla senza fare troppo caso a me e al mio proposito per l’anno in cui compirò quarant’anni, che è il prossimo, ed è anche l’anno in cui voglio imparare di nuovo a nuotare.

Per molto tempo, l’ipotesi di frequentare una piscina per il nuoto libero amatoriale mi è parsa impraticabile, a causa dell’affollamento sentimentale che cova dentro a ogni cosa, nell’odore di cloro e vapore, nel segno del costume sulla pelle, in quel particolare tipo di rimbombo delle voci nelle vasche coperte. Sono stata una nuotatrice per una manciata di anni, che a pensarci adesso sembra trascurabile, ma che l’economia della memoria tende a far pesare più di tutti gli altri nella costruzione di sé. Ho cominciato da piccola, in una piscina affacciata sull’Arno, a Firenze, in un settembre degli anni Ottanta, come tanti bambini costretti a buttarsi in acqua controvoglia perché ai loro genitori era stato raccontato che “il nuoto è lo sport più completo”. Avrò avuto quattro anni quando fui iscritta al primo corso, che aveva la sola pretesa di insegnarci a gestire la respirazione dentro e fuori dall’acqua o, nel gergo dei maestri di nuoto per bambini, a fare le bolle. Prima attaccata al bordo e piano piano, galleggiando sorretta da qualche adulto di cui ho rimosso il nome e le sembianze, facevo dunque le bolle con la faccia sott’acqua, spingendo fuori l’aria con impegno, e riemergendo con la disperazione che preme alla fine di ogni respiro, prima che l’ossigeno rientri in circolo. La bambina ha un’ottima confidenza con l’acqua, dicevano a quanto pare le figure preposte, e questa apparentemente laterale caratteristica della mia persona finì per inchiodarmi al nuoto per i dieci anni successivi, e rendere la piscina un paesaggio costante di quel periodo di straordinarie trasformazioni in cui da bambini si diventa adolescenti. Una volta entrata nella squadra agonistica mi allenavo tutti i giorni e d’estate, appena finiva la scuola, due volte al giorno, mentre nei fine settimana c’erano spesso le gare regionali, che mi regalavano risvegli alle sei del mattino per essere alle otto a Carrara, a Livorno, a Certaldo. Facevamo il riscaldamento nell’acqua fredda di queste vasche di provincia, dove tutte le squadre si allenavano in contemporanea in un drammatico carnaio, e poi convivevo per le ore seguenti con un misto di noia e tensione in attesa della convocazione ai blocchi. Non ho mai provato gioia o divertimento a gareggiare, anzi, la descrizione più accurata vista da qui è che ero insofferente a ogni cosa di quelle giornate campali, e desideravo solo il momento in cui dopo la doccia piazzavo la testa sotto i phon a parete degli spogliatoi, e chiudendo gli occhi nel getto di aria calda sapevo che era finita. Detestare le gare non mi impediva di continuare a nuotare e di passare le estati insieme ai miei compagni di squadra a ciondolare sul bordo della piscina affacciata sull’Arno, quando finalmente la scoprivano e il fiume si vedeva davvero. Era riservata ai soci della squadra anche quando diventava una piscina di svago ed era il nostro territorio, ci sentivamo al centro del mondo, veneravamo Aleksandr Popov e odiavamo Gary Hall Jr., guardavamo le pubblicità di automobili con Franziska van Almsick e ci sembrava che il nuoto esaurisse l’universo del conoscibile, o almeno di quello che contava. Lasciai la squadra a quattordici anni, appena la vita liceale mi parò davanti altre più interessanti forme di intrattenimento, e non ci furono drammi perché ero dopotutto una nuotatrice media, senza speranze di diventare professionista. In qualche modo sotterraneo, però, mi sono sentita una nuotatrice sempre, per la forma che il nuoto aveva già dato al mio corpo, delle spalle larghe quasi maschili, perché è intorno a una piscina che ho iniziato a sperimentare alcune emozioni di base e, più di tutto, per quella confidenza con l’acqua che è rimasta intatta, nonostante io abbia evitato di frequentarla.

La donna di Cattelan mi fissa mentre rincalzo i capelli dentro la cuffia di silicone, e poi mentre regolo gli occhialini, e poi mentre deposito le ciabatte vicino al bordo e cerco di individuare la corsia meno affollata. Le prime vasche vanno via come niente e mi danno il tempo di illudermi che sia tutto ancora lì, l’arco della bracciata, la spinta delle gambe, c’è un istinto dei movimenti che si è conservato, li riconosco. Il problema, me ne accorgo quasi subito, è la respirazione: mi tocca accettare l’idea che non so più fare le bolle. La massa di acqua scura che si apre sotto di me dove la vasca è profonda cinque metri (eccolo, “il mare”) mi dà una specie di vertigine e mi porta a cercare l’aria dopo ogni bracciata. Dopo pochi minuti, sono in affanno. Non riesco a nuotare piano come vorrebbero i miei polmoni, e il respiro si spezza, si fa irregolare, manca. Due vasche e ferma, due vasche e ferma. La Cozzi inoltre non incoraggia il fermarsi a riposare: non si tocca da nessuna parte, il bordo è molto alto rispetto al livello dell’acqua, bisogna proprio appendersi, e i cordoni che separano le corsie (in realtà si chiamano corsie anche quelli, è scarno il lessico del nuoto) sono troppo grandi e tesi per potercisi sbracare sopra come fa ogni nuotatore da ogni tempo quando vuole riprendere fiato. Nel quadro di sottili prevaricazioni dimensionali che la grandeur architettonica esercita su di me c’è anche ovviamente la lunghezza della vasca, trentatré metri, una taglia anacronistica dagli anni Cinquanta in poi, e che risulta, nella prospettiva psicologica del nuotatore, una normale vasca da venticinque metri dove però lui è diventato più piccolo.

La prima settimana della nuova vita da nuotatrice se ne va col fantasma della me adolescente attaccato addosso: è nella pelle che sa di cloro anche dopo la doccia, nell’acqua nelle orecchie, nel solco che gli occhialini mi lasciano sulla faccia. E mi ricorda anche quanto nuotare in piscina comporti mischiarsi con gli altri, condividere l’acqua in cui speriamo sempre che nessuno pisci ma in cui di sicuro tutti sudano e sputano. Vuol dire mettersi quasi nudi in mezzo a sconosciuti e nella fatica diventare un tutt’uno.

Charles Sprawson era un autore inglese che all’inizio degli anni Novanta scrisse un libro per ripercorrere la vita e le imprese di alcuni scrittori e poeti che sono stati anche nuotatori intrepidi – e nella cui scia si inserisce volentieri, raccontando di essersi cimentato lui stesso nella traversata dello stretto dei Dardanelli e del fiume Tago. Il libro, che si intitola Haunts of the Black Masseur (tradotto con L’ombra del massaggiatore nero da Adelphi nel ‘95), racconta come il nuoto, celebrato in epoca classica, cadde poi in disgrazia, per essere riscoperto solo all’inizio dell’Ottocento, quando in Europa, e in particolare gli inglesi, impararono di nuovo a nuotare. La rinascita del nuoto passò anche dal diventare attività prediletta di alcuni poeti romantici come Byron, Shelley, Swinbourne, e un esercizio di sfogo e libertà per altri letterati successivi, tra cui Flaubert, Zelda Fitzgerald, Tennessee Williams. Il nuoto che racconta Sprawson non è lungo le corsie di una piscina, ma attraverso mari e fiumi o sotto le cascate, è una fonte di ribellione e di scoperta, di estasi e rischio, è una materia per avventurieri e sperimentatori.

Leggendo le storie dei nuotatori eccentrici mi sono ricordata di un episodio, verso la fine del mio periodo di agonismo. Durante una gara, credo i duecento stile libero, la cuffia cominciò a scivolarmi via. Nuotai una parte della gara con la cuffia calata a metà testa, una cosa che mi innervosì moltissimo, finché interruppi le bracciate e mi fermai per sfilarmela del tutto, scaraventandola via insieme agli occhialini come si potrebbe lanciare un pallone da pallanuoto. Feci ovviamente un tempo pessimo, anche per questo gesto che non aveva alcun senso e che ancora oggi non riesco a spiegarmi, e mi trascinai piena di vergogna davanti all’allenatore che se non ricordo male non infierì, forse anche lui spiazzato dalla mia teatralità estemporanea. Non mi stupisce che sia uno dei ricordi più nitidi del mio passato sportivo, ma è curioso che al di là del gesto mi ricordi la sensazione di quelle ultime due vasche senza cuffia e occhialini, l’adrenalina della gara sommata a quella del comportamento irregolare e la sensazione di sentire l’acqua molto meglio di prima. La sola ad avere il coraggio di rivolgermi la parola in merito fu la madre di un mio compagno di squadra che vedendomi passare mi disse, è stato un lancio bellissimo, come una danza. Allora mi parve una forma di commiserazione perché avevo poca fiducia nella fantasia degli adulti, ma col senno di poi quel gesto mi sembra l’unico squarcio di ribellione del mio periodo agonistico, e l’unico punto di contatto tra la nuotatrice di allora e quella che vorrei essere nell’anno che verrà.

Parlando di nuoto con un amico che frequenta la Cozzi da anni, lui mi dice che mentre va su e giù per le vasche ha lunghi dialoghi con se stesso e che ne ricava degli effetti meditativi. La ripetitività del nuoto si addice a questo uscire dal corpo, ne sono certa, e mi fa pensare che i nuotatori amatoriali si possano distinguere in chi mentre nuota pensa ad altro, vaga per le altezze dei pensieri, e chi pensa solo ai movimenti, al corpo che sente l’acqua. Per me, che appartengo ai secondi e che non sentivo l’acqua da più di vent’anni, si tratta di rientrare nei gesti vecchi con un corpo nuovo, che non è solo invecchiato ma che rispetto alla nuotatrice ragazzina a cui tutto doveva ancora succedere, ha vissuto dolore, eccitazione, depressione, amore e che da tutte queste cose è stato trasformato. Che deve imparare a prendere aria e buttarla fuori, e poi a vivere il nuoto come una danza. Mi sembra una cosa tutto sommato avventurosa. Non c’è uno stretto da attraversare ma almeno ho “il mare”, una donna gigante che mi fissa e qualche ombra con cui fare pace.

ARTICOLO n. 3 / 2023

NOTIZIE DAI BUCHI NERI

L'anno che verrà

Fine novembre 2022. O giù di lì.

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sull’anno che verrà. 

Ho risposto, da sconsiderato che sono: «sì, ci sto, ti ringrazio!»

E subito dopo mi sono sentito in una posizione temporale falsata.

8 dicembre. Premessa escatologico/comunicativa.

Per reazione alla proposta, seguendo la mia naturale capacità di essere pigro e di procrastinare, ho pensato di scriverne uno sull’anno che non verrà. Ma è un pensiero eccessivamente ottimista. Potrebbe invece arrivare, e pure in perfetto orario. Mi sconsiglio di far propositi proprio nel giorno in cui la terra segna il suo giro attorno al sole, di solito è previsto molto traffico.

Ripenso al primo anno di pandemia, all’agendina Moleskine di quel 2020, rimasta praticamente intonsa, poi rivenduta su EBay in un Black Friday dove avevo scritto che il Faust è un buon dramma perché mostra che non c’è bisogno del Black Friday per fare pessimi affari. Se solo ripenso che fino a poco tempo fa si profetizzava ripetendo che dalla pandemia “ne usciremo migliori”, come nelle scene dei film dove il malcapitato abbandonato in un bosco di notte, per farsi coraggio ad attraversarlo, canticchia tra sé una canzone per tenersi compagnia ma neanche troppo forte, per paura che il mostro lo trovi e se lo mangi tutto, se solo ci ripenso mi viene una malinconia, ma una malinconia! Ho avuto, in quel periodo, l’illusione che il futuro abbia avuto luogo esattamente come quando si ha l’illusione che una comunicazione importante fra due esseri sia esistita, come nella brevissima parabola di Kafka Un messaggio dell’imperatore: Kafka da del tu proprio al lettore, dicendogli che un imperatore morente da un regno lontanissimo ha affidato a un messaggero valoroso il suo ultimo, decisivo messaggio, e questo messaggio è rivolto a lui, al lettore, identificato nell’ultimo dei suoi sudditi, solo a lui e a nessun altro. Il messaggero affronta nel viaggio difficoltà insormontabili, dispera di riuscire a recargli il messaggio, eppure va avanti nonostante comprenda l’inutilità di ogni sforzo. E il suddito aspetta, continua ad aspettare, non smetterà mai di aspettare. Kafka chiude la parabola così: «Tu, però, resti affacciato alla tua finestra, e al messaggio dai vita nei tuoi sogni, quando scende la sera». Certe mattine in piena pandemia, dopo aver passato notti catatoniche davanti ai catastrofali notiziari TV (quante volte avrò sentito pronunciare dai giornalisti “niente sarà più come prima” con un tono che a furia di sentirlo ripetere aveva assunto ormai un che di morbosamente sadico come il “ricordati che devi morire” al punto che di morire ti dimentichi), mi svegliavo credendo di essermi trasformato come cento anni fa Gregor Samsa in un mostruoso insetto, meglio ancora in un mostruoso inetto, no, cento anni dopo dall’uscita de La metamorfosi, ancora peggio: in me stesso e basta. In Ragno. Ragno Tommaso. Perché il confine tra uomo e animale è arbitrario, ve lo dico da Uomo Ragno.

Senza più a disposizione la casualità che faceva parte della “realtà”. Sapevi esattamente dove eri e in che momento eri. Via dai marciapiedi. Nessun accadimento. Nessuna improvvisazione. Nessun principio di indeterminazione. Braccato nell’armatura di un totale teatro di regia, che è qualcosa di simile a un fermo di polizia. Noia non mancava. Ne accumulavo tanta per il futuro, per quando ne sarei “uscito migliore”. Ma intanto condannato a essere solo e soltanto me stesso tutto il giorno. Nessun “altro da me” da sperimentare sul palcoscenico o sul set. Una metastasi di tempo sprecato, almeno per chi come me fa quel genere di lavoro che non può prescindere dall’essere in presenza e non in remoto. E io in quel momento avevo iniziato a sentirmi più che altro trapassato remoto. Ad aspettare il messaggio imperiale dal futuro. Dal futuro che fu… arrivava un’irrealtà reale creata da QualcunAltro. Un senso di vuoto e il tentativo di descriverlo. E, ancora di più, privato di quello spazio di fuga che sono i set e i palcoscenici in comune ad altri esseri in fuga che sono gli attori, avevo bisogno dell’immaginazione, perché è un’energia che se da un lato crea percezioni non per forza realistiche (per fortuna!) può però condurre alla vera essenza di ciò che è reale. 

Non essendo io un astrologo, né un profeta, tantomeno Iddio e nemmeno così narcisista da poter dichiarare che ne sarà dell’anno che verrà, che cosa da lì ci aspetti, ho chiesto aiuto a un amico filosofo:

«…e che diceva Hegel riguardo al futuro?»
«Che migliora.»
«E Marx?»
«Che peggiora prima di migliorare.»
«E Nietzsche? Che dice Nietzsche?»
«Nietzsche dice che è tutto sempre uguale. Quale preferisce?»
«…mi dia il solito, grazie.»

La sola cosa che mi sento di dire al riguardo è questa: l’anno che verrà dopo il 2022 sarà il 2023. E questo, onestamente, è quanto c’è da sapere. Usando come sistema di misura qualunque calendario, il risultato resta lo stesso. Per me la questione potrebbe finire qui.

Interstellar.

Col tempo ho capito che le risoluzioni, i bei propositi per l’anno che verrà sono delle mannaie, in fondo una forma di odio per se stessi che conduce a un aumento di odio per se stessi quando non riesci a mantenerli. E fare la stessa cosa più e più volte aspettandosi esiti diversi significa o che sei pazzo, o che stai appunto facendo propositi per l’anno che verrà.

La pigrizia ha poi ceduto alla vanità, e allora ho deciso di scrivere lo stesso qualcosa sotto forma di diario-calendario dell’Avvento, come quelli che in questo periodo si vendono con dentro tante finestrelle a sorpresa, biscotti della fortuna cinesi, con tante frasi incoraggianti, tanti cioccolatini giorno per giorno dall’inizio fino alla Vigilia di Natale. Uno tira l’altro in attesa del giorno successivo. Nel centenario della morte di Proust, ne ho comprato uno che contiene delle madeleine, una al giorno, ognuna con un sapore diverso, classiche o ricoperte di cioccolato, o di spezie speciali di cui posso dir gli Orienti e gli Occidenti. E così, di madeleine in madeleine, vedi mai che arrivo a ricordarmi la password dimenticata che mondi possa aprirmi e, mentre le ingurgito con la promessa che ogni sapore mi distorcerà e mi curverà la percezione del tempo e dello spazio, di certo subirò anch’io una distorsione spazio-temporale arrotondandomi di qualche chilo in più. Ma poi, secondo la scoperta di qualche anno fa dei due buchi neri che si scontrano, siamo sicuri che la distorsione di spazio e tempo fu causata da onde gravitazionali o gli scienziati avevano semplicemente appena scoperto l’Amore?

In attesa della risposta, mi dico che quella sensazione di spazio-tempo distorto non deve esser diversa da quando ci si ubriaca. 

Ubriaco d’amore, a questo io brindo.

Le celebrazioni e le ricorrenze in generale sono fatte per ricordare a noi stessi che siamo a bordo di una macchina del tempo: mentre questa macchina procede illusoriamente in avanti, guardo nello specchietto retrovisore per vedere cosa lascio dietro ma anche cosa ancora può arrivare dal passato che ancora attende di esser realizzato.

Per quanto io sappia che esiste la convenzione di un tempo cronologico, faccio finta di niente, nei confronti del tempo continuo a comportarmi come non lo fosse. E dicevo di Proust. Qualche giorno fa ho portato a termine la registrazione dell’audiolibro de Il tempo ritrovato, l’ultimo dei sette volumi de Alla ricerca del tempo perduto, è ritenuto il romanzo più lungo che sia mai stato scritto, anche se probabilmente non quello a esser più a lungo letto. Fatto sta che dopo averlo finito ero arrivato a letto, questa volta non come mostruoso inetto ma in stato di totale proustrazione.

Quando lo si inizia a leggere e si va avanti, si entra davvero in un’altra percezione, in un cortocircuito temporale, è uno di quei libri che si fa insieme a chi lo legge: mentre tu lo leggi anche il romanzo legge te. La lettura che ne fai, l’investimento che fai mentre lo leggi contribuisce a far risorgere quello che sta sepolto dentro quelle pagine (che un libro sia buono tanto quanto lo è il suo lettore è la maledizione dei buoni scrittori e la consolazione di quelli cattivi, ma anche la consolazione degli editori).

Ne faccio quindi una sintesi pecoreccia nonché riduttiva per non proustrarvi a leggerlo:

alla fine del romanzo, il narratore, che per tutto il tempo della sua vita sperimenta amori gelosie delusioni perdite crolli e nascite scoperte nel mondo del sesso dell’arte del linguaggio, sviluppando man mano che cresce prima la sensazione e poi la certezza di non avere nessun talento per la scrittura, verso la fine della sua vita, attraverso degli avvenimenti fortuiti e banalissimi, scopre che tutto ciò che gli era parso “tempo perduto” in realtà non lo era. 

La vita, in tutti quei decenni, aveva creato in lui un capolavoro, si era trattato solo di aspettare, di assecondarla, di lasciarle compiere l’opera. In lui. Da quel momento in poi tutto quello che sembrava un puzzle senza senso comincia invece ad averne. Comprende di essere insieme la miniera e il minatore del tesoro che il tempo perduto ha depositato in lui. E solo allora sente che può finalmente iniziare a fare ordine e comporre l’opera. E che è proprio quella che il lettore per sette volumi ha avuto tra le mani. Solo che il lettore e l’autore lo scoprono insieme alla fine. E la fine e l’inizio coincidono. La ricerca del narratore diventa la stessa del lettore. Proust crea il lettore a immagine e somiglianza del narratore, diventa addirittura il migliore dei suoi personaggi. Sono gemelli. E i tre tempi di presente, passato e futuro confluiscono in una sorta di tempo originario, senza inizio né fine. Si può ricominciare a leggere il romanzo con questa nuova consapevolezza, e chi lo legge o lo rileggerà (anche molti anni dopo) contribuirà a illuminare aspetti che erano sfuggiti. Come farebbe un archeologo, il quale lavora proprio coi depositi di tempo e le resurrezioni.

E, a pensarci un attimo, io stesso, senza troppo saperlo, non sono già un elemento di archeologia? Non vivo e lavoro e mi do da fare già inconsapevolmente per il futuro dell’archeologia proprio mentre perdo il mio tempo a vivere? Immagino un archeologo di una civiltà futura che disseppellisce dei resti sul fondo degli oceani che avranno sommerso il pianeta e trova in ciò che resta della mia mano un iPhone 14 waterproof e riscopre l’antico gioco di Super Mario che tra millenni, grazie alla patina del tempo, acquisterebbe un valore strabiliante. Perché è quella la cosa che si compra quando si acquista un oggetto del passato ed è ciò che le conferisce un valore esclusivo e irripetibile: la patina. 

Di fronte all’“anno che verrà”, appena ci penso, mi torna in mente un fatto per me decisivo: mi viene la stessa espressione facciale di Bob Dylan durante la registrazione della canzone We Are The World, che usciva proprio sotto il periodo natalizio del 1985, un’iniziativa capitanata da Harry Belafonte, Bob Geldof, Michael Jackson e Lionel Ritchie per “U.S.A. For Africa”. In quel momento (il video lo si trova su YouTube), la faccia di Dylan, in mezzo a un coro di all star della musica che cantano, alcune commosse, altre commosse e dolenti, ma in generale felici e sorridenti, appare evidentemente stranita, perduta, allibita, sembra la faccia di un attore che chiede perdono a Dio perché non sa quello che dice, che si è scordato le battute da dire e cerca di non darlo a vedere mentre il pubblico lo guarda, lui butta gli occhi a destra e a sinistra in cerca di un suggerimento o di una quinta da dove uscire ma niente da fare, è braccato in mezzo al coro che ripete ottimista che “We Are The World”. A un certo punto, circondato e sballottato da quella gioia corale attorno a lui, il suo sguardo diventa vitreo, narcotizzato, quasi demente, fisso davanti a sé verso un orizzonte cieco, dal labiale si intuisce che è totalmente fuori sincrono, e allora sembra non cantare quasi più, è oramai rassegnato, nonostante sia lì per una più che buona causa, sembra uno svegliatosi di botto, dopo un sonno di decenni, in un paese di cui non capisce la lingua, la faccia di uno che si sta pentendo di sposarsi quando è ormai all’altare, la faccia di uno che è stato troppo a lungo nel mondo da avere ormai smarrito la strada per sempre. 

Penso alla sua Blowing in The Wind, una canzone che pone domande capitali su, per esempio, cosa ci vuole perché le guerre finiscano per sempre o quante orecchie deve avere un uomo prima che possa accorgersi della gente che piange. E a tutte queste domande enormi il suo famoso refrain ripete in tono lieve, gentile e profondamente compassionevole che “la risposta, amico, la puoi sentire soffiare nel vento”. 

We Are The World, che pure ha temi molto simili, presume di essere invece la risposta. E se Dylan può essere un mistero, non appare esser invasato da pia illusione. Di qui la sua faccia alienata in mezzo a un coro che canta “Noi Siamo Il Mondo”. È solo una mia interpretazione, forse tutto questo non c’è, forse era solo inorridito da quella musica e tanto basta. E sarebbe una ragione sufficiente. Anzi l’unica che interessi, se è vero che il fatto etico ed estetico coincidono. Ad ogni modo, la faccia di Bob Dylan che pare dire “Io non sono qui” con quell’espressione facciale alienata sotto Natale e poco prima dell’anno nuovo è l’unica cosa che almeno posso dire di condividere, io e Bob Dylan, contro l’egorìo della vita moderna. 

«Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena e vi tiene a terra dovete ubriacarvi senza tregua. Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi. E se talvolta sui gradini di un palazzo, nella tetra solitudine della vostra stanza vi risvegliate perché l’ebbrezza è diminuita o scomparsa, chiedete al vento, alle stelle agli uccelli, all’orologio, a tutto ciò che fugge, che geme, che scorre, a tutto ciò che canta, che parla, chiedete che ora è; e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, l’orologio vi risponderanno “È ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo”. Roba da Fiori del male di tale Baudelaire, poeta, mistico, ribelle, sostenitore del libero amore, melanconico, ubriacone, fondamentalmente un utente Tinder del XIX secolo se fosse vivo oggi, scrivesse sui social e fosse commentato dai forzati alla ricerca della felicità sponsorizzata. 

Se dicessi che viviamo in tempi di incertezza, sarebbe un eufemismo. Perciò non lo dirò. Ops, l’ho appena detto. Davvero l’ho detto?

Per secoli si è sbattuta la testa contro i muri per rispondere alla domanda profonda ed elementare di Shakespeare: essere o non essere?

E ci siamo riusciti? Come no! Anzi, alla ricerca di ulteriore grandezza, siamo andati oltre la semplice scelta binaria. Grazie all’umano ingegno, oggi è possibile avere entrambe le opzioni: essere e non essere. Negli anni ‘80, al tempo delle prime segreterie telefoniche incorporate, la Telecom aveva escogitato una pubblicità irresistibile: su un’immagine dell’apparato telefonico campeggiava questa scritta: Esserci? Non esserci? Nessun problema. Shakespeare, Heidegger, Kafka, “assenza più acuta presenza”, tutto il ‘900 e balle simili risolte in un solo colpo di telefono registrabile. Bisognava aspettare un paio di decenni ancora prima di capire che non c’è bisogno di essere un Lenin per sentirsi dare sui nervi un pochino ogni volta che qualcuno avesse definito uno schermo iPhone di due millimetri più grande una “rivoluzione”. E quindi: esserci e non esserci?

Ma questo non contraddice la logica umana? Niente affatto, almeno secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, pietra angolare della meccanica quantistica che afferma un limite fondamentale alla certezza della conoscenza. Secondo questo principio non è possibile determinare sia la velocità che la posizione delle particelle (bosoni, elettroni, quark, etc.) contemporaneamente. Come quando da Amazon possono dirvi lo stato dell’ordine fatto o la sua posizione ma non tutt’e due le cose. Dato che è impossibile sapere se la posizione del vostro ordine è X o X, allora quell’ordine può essere sia in posizione X sia non essere in posizione X, simultaneamente. Perciò “essere e non essere”. Capito?

Alla faccia dell’incertezza. Io, che senza occhiali alla guida non vedo una ceppa, se li tolgo sembro assumere lo sguardo assorto e compresso come fissassi la vastità nebbiosa della Val Padana in novembre, ma in realtà in quel momento sto solo cercando di aguzzare la vista per evitare di andare a sbattere contro un palo, ecco io in quel momento, senza saperlo, sto applicando il principio di Heisenberg. Si può applicare anche alla recitazione, nel rapporto tra testo, attore e personaggio, quando si dice che l’attore non deve sapere già quello che il personaggio farà e dirà. All’anno che verrà in attesa di segni numinosi con la retorica motivazionale di multinazionali del male e del banale. Nei versi di Montale si trovano spesso concetti di fisica dei primi del Novecento. In Tempo e tempi, per esempio: 

Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s’intersecano. È quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.

E grazie Eugenio, ma qua non si è sicuri in nessun luogo, nemmeno per le coincidenze in un aeroporto.

Congiunzioni gastro/astrali.

Qualche anno fa, il firmamento regalò un evento astronomico rarissimo agli occhi di un terrestre: la più lunga eclissi di luna del secolo e una grande opposizione di Marte, il pianeta rosso. Quella congiunzione di corpi celesti fu lunga, spettacolare, ipnotica, l’umano genere poteva assistere alla graduale immersione della luna nella luce marziana che le donava la lucentezza brillante del rosso pomodoro. Il giorno dell’eclissi mi trovavo a trascorrere una serata con amici e familiari in una località del Sud Italia nel cuore della Magna Grecia. Quel luogo, dove le divinità antiche sono di casa, era perfettamente numinoso per accogliere nei nostri occhi quella bellezza interplanetaria che non poteva che suscitare riferimenti a teogonie, segni divinatori, riflessioni su chi siamo cosa siamo dove andiamo insomma anche lì l’occasione era perfetta per distorsioni spazio/tempo, o altrimenti detto: per darsi al bere. E ancora più gradita mi era l’occasione per esser stata accompagnata da una cena con una pasta al pomodoro di bontà ineffabile, che mio figlio allora seienne aveva gustato con infinita beatitudine. Dopo le libagioni, uscimmo tutti a riveder le stelle per contemplare la luna rossa nell’infinito in un silenzio redentore. Mi ricordo un mio caro amico e mio figlio di spalle che guardano il cielo. Dopo un lungo silenzio l’amico fa a mio figlio: «Vedi? Un giorno ricorderai questo momento epocale nella storia e potrai raccontare di avere visto l’eclissi di luna rossa». Dopo un altro lungo silenzio, sento mio figlio proferire lentamente, mentre osserva la luna, ispirato, assorto, sacrale, sotto i cieli noncuranti: «Io invece mi ricorderò la pasta al pomodoro».

Signori, il pranzo è servito! È stato un momento rivelatorio davanti al quale mi sono inchinato non tanto per rispetto di fronte al cuore semplice di un bambino, ma perché ho visto in atto che nemmeno un prodigio celeste, per quanto bello, riesce a generare quel senso della durata, la pura sensazione di vivere, quella quiete che è data, insieme al piacere del carboidrato (sempre sia lodato), dalla scoperta dell’ovvio, insito in un gesto quotidiano, qualcosa che si condivide con milioni di altre persone, facendo cose che diventano parte del pulviscolo del tempo, perfettamente ignorabili, e che senza accorgersene riportano sulla cosiddetta via maestra dei giorni a venire…

ARTICOLO n. 2 / 2023

COSA FARÒ DA GRANDE

L'anno che verrà

Fin da bambino, sentirsi chiedere che cosa avrei voluto fare da grande era un mantra che esaltava la mia dote di indecisionista cronico. In mio soccorso arrivavano gli incarti delle gomme da masticare (per tutti noi si trattava delle “cicche”, la parola chewing gum a Castelleone, nel 1971, era al di là dal venire). In quelle cartine uscivano dei pronostici del nostro futuro, ne ricordo alcune: “da grande farò l’astronauta” (disegno dell’astronauta) oppure: “farò lo scienziato” (disegno dello scienziato con camice e occhiali), la più ambita tra i miei amici: “farò il calciatore”. Di tutti e tre i pronostici, il più credibile per il sottoscritto era l’astronauta. Poter partire per la luna era più plausibile che giocare una partita di pallone e questa cosa la dice lunga sulla mia empatia con qualsiasi gioco di squadra, d’altro canto lo scienziato evocava anni di studi e di formazione, quindi anche no.

Sentirsi chiedere che cosa avrei voluto fare da grande valse sino alla soglia delle scuole medie, da lì in poi si cominciò ad accantonare la fantasia per iniziare a fare sul serio, ovvero a inquadrarsi socialmente.

Di fatto la scuola superiore ti indirizzava inesorabilmente verso una professione. I pragmatici istituiti tecnici avevano dei nomi che comodamente si traducevano in lavori: perito meccanico, geometra, ragioniere, e via così; quelli tra noi che potevano permettersi di fare i sognatori andavano ai licei.

In una di queste scuole tecniche, un professore, all’approssimarsi della fine dell’anno, ci chiedeva di formulare dei propositi per l’anno nuovo. Ricordo la mia desolazione nel saper allineare solo qualche povero pensiero relativo al miglioramento scolastico. Nessuna tensione ideale verso il futuro, solo la speranza di cavarmela senza esami di riparazione in modo da mantenere intatto il patrimonio dei giorni delle vacanze estive.

In realtà non facevo altro che rimandare l’appuntamento con le scelte definitive, mi sembrava di camminare su un trampolino da tuffi olimpici, passo dopo passo l’assicella prima o poi sarebbe terminata, vivevo quel tempo di sospensione come un condannato all’indecisione. E quel trampolino si prolungò sino nei paraggi della facoltà di Architettura, che scelsi solo in virtù di una incerta propensione per il disegno tecnico. A una debolissima vocazione verso l’architettura arrivò perentoria e provvidenziale la cartolina precetto che mi spinse giù nel baratro, non di una piscina, ma di un’enorme caserma operativa in quel di Bellinzago Novarese, e per dodici mesi qualcuno avrebbe deciso per me cosa avrei dovuto fare, come vestirmi, cosa mangiare, financo cosa pensare. 

Ricordo ancora lo smarrimento di ritrovarmi, dopo 52 settimane, fuori dalla porta carraia e in abiti civili, una bella giornata di sole con un borsone pieno di indumenti da lavare e un foglio di congedo che si traduceva in una parola con cui non avrei voluto avere a che fare, ovvero: libertà.

Ma alla fine ci si abitua a tutto, anche ad accettare che tra te e la tua vita non ci sia più nessun ostacolo, così dopo aver assecondato il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Difesa, ora mi toccava in sorte il Mistero dell’affrontare scelte mai fatte.

In realtà non successe niente di epico tra me e il mio futuro, nessuna scelta radicale, niente partenze per l’India per cercare se stessi: si comincia ad aiutare un cugino architetto, a frequentare oscuri corsi serali di disegno industriale, a limitarsi a tastare il terreno attorno per verificare cosa può sedare per un momento l’insoddisfazione per ciò che non si è, per ciò che non si ha. In questi casi si dovrebbe parlare di sopravvivenza, ma, se torno a quei giorni, più che “sopra(v)vivere” mi sembrava di vivere al di sotto di tutto. Ma si sa, il tempo è un medicinale che non richiede prescrizione medica, e così l’idea del futuro, e che cosa fare “dopo”, si assopiva lentamente tra impegni quotidiani, scelte subite (tante) e scelte in proprio (poche).

E poi, è tra le pieghe del tempo “minore”, ovvero del tempo non segnato da eventi epocali, che la vita prende sapore e una direzione. Il “che cosa farò?” diventa un “fare quotidiano” senza troppe sovrastrutture, e così ci si accorge che ciò che da sempre era un’innocente evasione (disegnare oggetti e in molti casi realizzarli) poteva diventare un lavoro in grado di dare un senso a tutto il casino combinato prima. E così è stato.

Ma che fine ha fatto l’insoddisfazione che mi ha sempre perseguitato? A dire il vero è sempre qui con me, si dice che se non si riesce a uscire dal tunnel convenga arredarlo. Nel caso della mia insoddisfazione cronica, non potendo guarirla l’ho accettata. In qualche modo, non essere mai pienamente soddisfatti di ciò che si è e si fa è uno stimolo per migliorarsi (mettiamola così).

Nonostante questo apparente stato zen che mi auto-attribuisco, quando comincia a profilarsi la fine dell’anno, l’idea di dare una sterzata alla vita, iniziare l’ennesima dieta, provare a programmare scelte (vegetarianismo, finire tutta la Settimana Enigmistica, affrontare LRecherche, riordinare l’archivio e così via…) sono scampoli di decisioni che potrebbero concedere l’illusione che si è ancora padroni di mischiare le carte della propria vita. Ma poi, tra armadi da sistemare, l’aprire e il richiudere in fretta uno dei tanti libri di Proust, si affaccia una domanda a cui non so rispondere, ovvero: da quando ho barattato il mio futuro e le scelte radicali con questi piccoli e asfittici propositi?E soprattutto: Perché nessuno mi chiede più che cosa farò da grande? Ma ancor di più: perché non comincio io una buona volta a chiedermi cosa fare da grande?!

ARTICOLO n. 1 / 2023

NON SO PERCHÉ STO PRENDENDO QUESTO TRENO

L'anno che verrà

Sto comprando questo pane bianco pieno di mollica che si chiama pane per toast e non c’è nessun umano per pagare al supermercato della stazione, devo farlo con la voce robot della cassa, che ha solo la voce, non dorme, non mangia, non sa neanche che cazzo sto comprando, non sa la differenza tra una scatoletta di tonno e un sogno. 

C’è poco tempo prima che parta il treno, tipo 8 minuti. Ora saranno 7. Sto pensando di lasciare giù la confezione ma non ci riesco perché ho il cervello in granelli e c’ho fame. Ho scelto questo pane perché è quello più vicino alle casse, si chiama pane per toast e sta dentro a un contenitore di plastica, a forma di baule, non so come dire, a forma di armadillo visto dall’alto senza testa, senza coda, senza squame, non ha niente di vivo, non sembra neanche che lo puoi mangiare, sembra fatto di cera e gel per capelli. 

Penso di rubarlo, di non pagare, per una volta. L’ho già fatto da piccola, da Body Shop, avevo rubato delle palline di bagnoschiuma che si sciolgono nella vasca. Le avevo nascoste nella borsa di mia nonna così se qualcosa andava storto, beccavano lei. In quel periodo se avessi avuto della droga le avrei messo in borsa pure quella, alla stazione, così la mettevano in prigione e io potevo farmi i cazzi i miei per tutti i pomeriggi da lì in poi. 

Alla fine pago sti 330 grammi di pane chimico e corro con il pane, le valigie, il cellulare in mano tutto scarico, io mezza rotta con uno strappo alla spalla, c’ho il ciclo che è appena arrivato quindi è più forte di me, più forte di tutto quello che posso mettere tra lui e il mondo, chissà cosa sta succedendo lì sotto, chissà cosa percepisce il mondo di quello che sta succedendo lì sotto, è meglio non chiedere, è meglio non sapere, è meglio proseguire con l’arroganza della fretta e l’innocenza della ferritina sempre più bassa fino a svenire.

Devo salire le scale mobili, arrivare alle porte meccaniche che si aprono solo se scannerizzo proprio bene il biglietto del treno, che è sul mio cellulare, che ha il due per cento di batteria. Mi trascino dietro ‘ste due valigie che porca puttana mi pare si odino, all’inizio non era così, ma adesso che sono state insieme parecchio, una sopra l’altra, una sbattuta sull’altra, porca troia non si sopportano più, era ovvio che non potevano innamorarsi, non mi aspettavo questo, né scopare, perché appunto sono delle valigie e le valigie non fanno queste cose, le valigie rotolano se hanno delle ruote, e queste due in particolare rotolano sempre una da una parte e una dall’altra. 

Ai binari e mi accorgo che il mio treno è in ritardo di 120 minuti. Controllo il cartellone luminoso e c’è scritto davvero 120, non 12, non 0,12 perché non è un compito di chimica di quando andavo al liceo e mi piastravo i capelli, c’è scritto proprio 120. Nell’economia di una vita due ore non sono poi così tante, ne ho sprecate tantissime, riempite di ogni cosa che trovavo per terra, che trovavo a caso, che mi facevano niente e ora mi fanno vergogna, ma non so perché queste due ore mi fanno proprio girare le palle. Così incazzata, piena di pane, di pesi, di stracci, di strappi e di sangue, mi reco al piccolo chiosco per i cambi last minute. Quando mi indicano l’infopoint, lo chiamano proprio chiosco: io lo so che non l’ha fatto apposta il capo dei biglietti a chiamarlo così, ma porca puttana, ci sono due gradi e sto sudando dal freddo, se dici chiosco è perché stai per comprare un gelato fior di fragola o una Piña colada, dovevo restare piccola e andare al chiosco dei giornalini, chiedere se è già uscito W.I.T.C.H. di questa settimana, potevo aprire un chiosco delle limonate e fare un sacco di soldi, ma non potevo restare piccola, siamo sicuri che non potevo? Forse qualcuno ha trovato un modo e nessuno gli crede perché è piccolo.

Non sento più niente per un attimo, poi un altro brivido di freddo, la voce metallica che annuncia un altro treno in ritardo dopo il mio – giuro, non ne sono felice, non sono fatta così –, le luci della profumeria Douglas, menomale che ci sono un sacco di profumerie perché forse puzzo, l’adrenalina, il pile, gli ormoni. Mi metto in coda all’infopoint come una appena morta, tanto c’ho 120 minuti da aspettare, non 12, né 0,12 porca puttana. Succede questa cosa: che davanti a me c’è un signore di 70 anni con la sua mamma, e la sua mamma ne ha 95 e fa fatica a stare in piedi. Il signore chiede a due tipi davanti se può passare perché la sua mamma ha 95 anni e lui deve solo cambiare il biglietto, il tipo risponde che anche lui deve solo cambiare il biglietto, poi si gira dall’altra parte. 

Allora penso che forse potrei ficcargli su per il culo il suo biglietto, così che mentre prova a toglierselo, i miei due nuovi amici possano superarlo; l’immagine diventa troppo grafica da sostenere e quindi smetto. Guardo il tipo cattivo e mi sembra sempre più disgustoso, con quel naso patetico, quel cappellino patetico, vorrei dirgli che non me lo scoperei neanche se fossi un criceto. Poi posso dire, lo so che non tutti hanno il lusso di 120 minuti da aspettare, però merda c’è modo e modo di rispondere, ma poi chi cazzo ti aspetta per Natale che sei così patetico? Mi dedico alla signora di 95 anni, perché anche io avevo una nonna, anche se le avrei messo la droga nella borsa, ora che sono più matura e lei è morta, ho cambiato idea. Quando li sento parlare immagino tutto quello che c’è prima: che hanno preparato quel viaggio da tanto tempo per fare una visita al San Raffaele di Milano, e hanno fatto la valigia per bene senza dimenticare niente come fanno le nonne, che poi non riescono a dormire quando lasciano la loro casa e mettono dentro anche le saponette, e sono saliti sul regionale da Anzio a Roma e ora sono lì in quel limbo in cui hanno perso il treno perché porca merda è tutto elettronico, lui c’ha gli occhi grossi con le ciglia lunghe e sembra un bambolotto rovinato. 

La signora non sa dove sedersi allora chiedo alla commessa di Douglas se può darle una sedia e lei la piazza accanto a una renna. Il figlio resta stordito, non sapeva che se si perde il treno si devono comprare due biglietti nuovi e costano 90 euro l’uno, e per un attimo mi dispiace di non essere una che c’ha i pony e una terrazza con i limoni perché sennò avrei rimediato. La signora dell’infopoint mi dice che l’unica soluzione è aspettare, grazie Buon Natale. Chi mi ha fatto il biglietto ha incluso pure l’accesso alla lounge per l’attesa, è un pensiero carino oppure mi ha portato sfiga. 

Arrivo in ‘sta lounge e sono emozionata e penso sia tipo un luna park dell’attesa, che c’hanno allestito dentro una mostra interattiva e posso farmi fare un massaggio alle tempie e ci sono dei gruppi di lettura, invece ci sono solo delle prese, dei divani che sembrano fatti di pelle umana e delle pizzette omaggio, tipo insieme uno studio dentistico e un Battesimo con le pizzette. 

Allora sai che c’è? Fanculo pizzette, io mi mangio il mio pane e apro la confezione con i denti ed esce un odore chimico che a ficcarci dentro le narici secondo me ti sballa di brutto, di brutto, finalmente. Giuro, lo mangio tutto, una fetta dopo l’altra, mentre mi viene sempre più da vomitare. Guardo un ragazzo seduto di fronte a me, ha un cane e un maglione enorme che potrebbe avvolgermi come fossi una piccola tarma, nella lana dolcissima. Ma non lo fa. Lo guardo insistentemente per vedere cosa succede. Succede che arriva la sua ragazza che torna dal cesso e anche questo tentativo di essere nel mondo è rovinato da una che era andata a pisciare, allora mi metto a guardare il loro cane. Manco al cane interesso. Entra un gruppo di turisti tedeschi, non gliene frega niente di me. 

Ma dico, è questo lo spirito del Natale? Ma cosa ci sta succedendo? Non so neanche perché sto prendendo questo treno. So che è Natale e quindi dovrei tornare da qualche parte, per questo ho chiesto di prenotarmi un treno anche se non so dove tornare. Un uomo lavora al suo laptop mentre perde i capelli, una pelliccia con una donna dentro si versa del succo all’ananas. Mi ficco in bocca l’ultima fetta di pane, sono piena da vomitare e vuota da morire, mi accorgo che c’è un controllore all’ingresso che può guardare con una macchinetta quanti minuti mancano: mi sembra la cosa più divertente qui dentro. Tiro fuori il cellulare e la macchinetta non dice niente. Ci riprovo, non dice niente. 

«Non funziona ‘sta roba.»

A quel punto sento chiaramente che la macchinetta fa: 

«Sei tu che non funzioni, puttana.»

Io sinceramente non me l’aspettavo. Ma non solo non me l’aspettavo: non me lo meritavo proprio. È difficile far finta di niente in queste situazioni. Spero di non aver sentito bene, perché comunque ho avuto l’otite da poco e l’ho curata in un modo che ho letto su internet, quindi magari non sono guarita bene. Riprovo a scannerizzare il biglietto: niente.

«Non funziona ‘sta macchinetta.»

La provoco.

«Non funzioni lo dici a tua sorella, puttana.»

Le tiro una manata addosso, la macchinetta cade a terra.

Purtroppo, colpisco anche il braccio del controllore che, probabilmente complice, comincia a lamentarsi. Prima con me. Poi con la collega. Poi una scenata assurda davanti a tutti, come se io fossi matta e volessi solo attenzioni. Finalmente il tipo con il cane mi nota. Poi arrivano altri colleghi e io comincio ad aggredire per difendermi. 

Faccio per andarmene, ma questi sono così caricati che manco io ieri notte stavo così carica, ormai hanno creato una specie di squadra contro di me e dicono che non posso lasciare la stanza perché sta per venire la polizia. Non ho paura dei poliziotti. Perché sono nel giusto. Solo che non posso dimostrarlo. Mi chiedono se ho fatto uso di stupefacenti e mi invitano a seguirli. Perdo il treno perché devo far vedere i documenti alla polizia della stazione, che credo si chiami la stazione della polizia della stazione. 

«Sai che me ne frega, tanto non avevo niente da fare a Natale.»
Dico.

C’è un panettone sulla scrivania, mi viene voglia di tirarci una manata ma alla fine non lo faccio.

ARTICOLO n. 100 / 2022

L’ANNO DEL PENSIERO TRAGICO

L'anno che verrà

L’ultima volta che ho azzardato un pronostico era il Capodanno del 2020 e, guidata da un ottimismo senza precedenti e privo di fondamento alcuno, a mezzanotte mandai lo stesso messaggio ad amici e parenti: “2020 anno della svolta”. E svolta fu, in qualche modo, ma emergenze sanitarie e conflitti mondiali non erano esattamente lo scenario che stavo immaginando mentre, meno ubriaca di quanto mi faccia piacere ammettere, brindavo al mio futuro di certo radioso. Quello che auspicavo – e che auspico la maggior parte delle volte che verbalizzo un desiderio – ha a che fare coi soldi: sogno vecchie zie sconosciute che muoiono lasciandomi una grossa eredità, valigie di banconote depositate sul mio zerbino con biglietti anonimi e per niente minacciosi, grandi fortune economiche che per qualche motivo karmico aspettano solo me. Sono materialista oggi e lo sono sempre stata, da che ne ho memoria, da quando costretta da mia nonna a pregare prima di andare a letto chiedevo a Gesù di regalarmi le Barbie da collezione, da quando a ogni notte di San Lorenzo aspettavo il momento in cui una stella cadente sarebbe piovuta dal cielo conficcandosi nel giardino di casa con un Dolce forno convenientemente legato a una delle sue cinque punte, da quando a Babbo Natale scrivevo lunghe lettere paracule nella speranza che mi portasse tutte le Polly Pocket disponibili sul mercato. Le cose, per me, sono sempre state importanti, e non è cambiato molto in questi trent’anni di vita, i miei desideri si sono solo fatti molto più costosi e ormai si misurano solo in metri quadrati. 

Non che abbia mai sofferto la fame, se fosse stato così a quest’ora forse avrei già avuto il mio momento Rossella O’Hara che stringe in pugno la terra di Tara, e con il coltello fra i denti adesso sarei sposata con un Rhett Butler di Porta Romana (o quantomeno non avrei fatto un master di editoria). Invece ho seguito la più antica delle tradizioni della mia famiglia, che da parte sia di madre che di padre ha storicamente sempre scelto di repellere il denaro in ogni sua forma, costeggiando il benessere e sterzando bruscamente in un’altra direzione ogni volta che ci si avvicinava troppo. 

Qualcuno ha sperato che io fossi diversa. Mio padre raccolse tutte le brochure che riuscì a trovare quando in prima media mi accompagnò alle finali delle olimpiadi della matematica alla Bocconi. Già mi vedeva a invertire le sorti del nostro cognome, io piccolo cervello matematico votato al profitto. Otto anni dopo si sarebbe ritrovato a scortarmi tra vari open day di facoltà umanistiche, prospettive di carriera azzerate, le brochure della Bocconi ormai da tempo riciclate con i cartoni della pizza. 

In compenso, dopo uno di questi open day, passando da Vicolo Santa Caterina – un piccolo angolo delizioso e fiabesco nel centro di Milano – dichiarai che mi sarebbe piaciuto vivere lì, in quella casa gialla con i fiori alla finestra (lo scollamento dalla realtà nella nostra famiglia si manifesta anche nel bramare sempre cose molto al di fuori della nostra portata). Un anno più tardi, per una serie di circostanze favorevoli che rendevano la casa gialla più accessibile di quanto avremmo mai creduto, ci vivevo. 

Dico questo non per bullarmi delle mie fortune immobiliari – che pagherò presto venendo sfrattata dalla mia attuale casa milanese, tema su cui tornerò più avanti – ma per evidenziare una verità tanto irrazionale quanto insindacabile: sono una strega in una famiglia di streghe dotate di blandi poteri premonitori. 

Seguitemi un momento in questo delirio antiscientifico. Ho una nonna che in più occasioni ha sognato la morte di qualcuno, solo per essere svegliata il giorno dopo da spiacevoli telefonate che confermavano la sua visione. La bisnonna, in modo decisamente meno tetro, sognava spesso il padre defunto, il quale però le comunicava ogni volta i numeri vincenti del lotto (come è evidente non erano abbastanza vincenti per cambiare gli equilibri economici delle generazioni successive, ma comunque qualche bolletta ce l’ha pagata). Prima di morire giurò a mio padre che sarebbe tornata a farci visita per renderci lo stesso servizio del trisavolo, ma stiamo ancora aspettando. 

Io, nel mio piccolo, ho un talento per captare vibrazioni negative in situazioni che a posteriori si rivelano sempre parecchio sfortunate. Ho predetto, a modo mio, due incidenti in motorino – con due fidanzati diversi, ad anni di distanza, opposi resistenza a montare sui rispettivi scooter, ci salii controvoglia ed entrambe le volte finii sdraiata su dei sampietrini – un furto e un taglio di capelli (e nel 2020 il crollo dell’Occidente, come abbiamo già visto). Chi era con me direbbe che la storia del furto è un po’ pretestuosa, e non avrebbe tutti i torti, ma facciamola breve: nel corso di una vacanza nei Paesi Baschi avevo espresso disinteresse totale per una tappa dove, mentre contro la mia volontà eravamo a rimirare una scogliera che non avrei voluto vedere, ci rubavano tutte le nostre cose dalla macchina parcheggiata su un lungomare affollato. Nessuno crede mai alle mie vibrazioni negative. 

Quella del taglio di capelli è senza dubbio la più accurata e la meno rilevante delle mie premonizioni. Sognai che un’amica che non vedevo da settimane si tagliava i capelli a caschetto, glielo scrissi il giorno dopo e mi rispose con un selfie fresco di parrucchiere, con un caschetto appena fatto che le stava malissimo. Vibrazioni negative e frivole. 

Parlare di stregoneria forse è un po’ eccessivo, qualcuno obietterebbe che portiamo solo sfiga (concetto altrettanto lontano da qualsiasi forma di razionalità) o che la vita è piena di coincidenze strane. Per onestà intellettuale io aggiungo che vivo gran parte delle mie giornate con un costante senso di tragedia imminente, e qualche volta è statisticamente inevitabile avere ragione. Questo dei poteri magici forse non è altro che un rigurgito della mia infanzia popolata da un gran numero di streghe – su Rai2 con Streghe, in edicola con Witche per anni di impareggiabile felicità con Harry Potter, che ha allevato una generazione di rincoglioniti che oggi aspettano eredità a sorpresa come allora aspettavano la lettera in inchiostro verde da una scuola di magia fittizia. A un certo punto ci fu addirittura un summit tra madri per discutere di un libro che io e la mia amica del cuore avevamo comprato di nascosto con non so quali soldi, sapendo a malapena leggere, che evidentemente insegnava tecniche di magia nera per evocare il diavolo. Il manuale venne ritirato e noi tornammo alle pozioni di fango in cortile e alle nostre vibrazioni negative.

Come ho anticipato, tra i miei talenti soprannaturali c’è però anche un dono positivo, ovvero la capacità di trovare la casa giusta al momento giusto. Anche l’attuale appartamento ad affitto bloccato si è materializzato nella mia vita al momento di massimo bisogno (posso forse esimermi da un riferimento alla stanza delle necessità di Hogwarts?), e da quel momento, negli ultimi quattro anni, ho attraversato la strada con una cautela extra, convinta che l’universo mi avrebbe prima o poi punita per questa fortuna sfacciata facendomi travolgere da un veicolo X. La mia punizione invece si è presentata pochi giorni fa sotto forma di due ingegneri muniti di metro laser (magico!) che sono entrati nel mio soggiorno prendendo misure e parlando di aste immobiliari, lasciandomi intendere che il 2023 potrebbe essere l’anno in cui faccio esperienza dello sfollamento. 

Aspettative basse, dunque, per l’anno che verrà. Ma d’altro canto è da quel gennaio del 2020 che ho smesso di augurarmi qualsiasi cosa. Dovevamo uscirne migliori e non è successo, siamo tutti gli stessi poveri stronzi di prima, solo con bollette più alte da pagare. L’aggravante è che da allora ho scavallato la soglia dei 30 anni, consolidando la mia posizione di povera stronza e di stronza povera, e cominciando ad accusare tutta una serie di aspettative che potevo fingere estranee nel corso dei 20. Di nuovo, la carenza di metri quadri si fa sempre più pressante, a maggior ragione alla luce di uno sfratto imminente. Poi: la simulazione dell’Inps sostiene che andrò in pensione, forse, fra 40 anni, morirò prima? Voglio davvero dei figli o penso solo di volerli? Posso permettermi di riprodurmi? Riuscirò a sopravvivere al riscaldamento globale con la mia pressione bassa? Queste e altre domande hanno sostituito qualsiasi buon proposito per il futuro. 

Peraltro, ora che ho 30 anni so esattamente cosa aspettarmi da ogni nuovo anno: due o tre matrimoni estivi, due o tre annunci di maternità, due o tre herpes labiali, quante tasse pagherò. Non c’è più alcun margine per le sorprese e considerate le sorprese dell’ultimo periodo forse è meglio così.Tuttavia il 23 è un numero che mi è sempre piaciuto, non perché sappia alcunché di numerologia – so però che nella smorfia napoletana il 23 è ‘o scemo quindi chissà – quanto per le vibrazioni, in questo caso positive, che mi trasmette. La strega che è in me, la piccola Wanna Marchi che vive a sua volta ad affitto bloccato nel mio cervello, mi suggerisce che alla fine sarà un anno migliore di altri. Considerati i precedenti, si salvi chi può.

ARTICOLO n. 99 / 2022

SA L’HA VIST CUS’È? IL ’23!

L'anno che verrà

Guarda, siccome continui a fare il pirla, ti sbatto giù la cronologia. Si, si, proprio la crono, mese per mese, perché se mi fisso, mi fisso, vado sino in fondo. In fondo all’anno. Anno 2023. Due, più due, più tre, fa sette. Il numero è magico, come si sa. Infatti, ho avuto una visione che neanche la Bernadette.

Cos’è che dicevi? Sarà la solita sbobba… abbiamo perso tutte le partite, altro che il Milan, i secoli bui, eccetera eccetera. Avrai ripetuto dodici volte la parola “ormai”. Gesù. Depressione carsica, senza contare i calcoli renali, un certo innalzamento della pressione, il cuore che mi va fuori tempo, bla, bla, bla. Che poi, non è che se vai a vivere in Portogallo, come dici tu, sei in salvo, bello paciarotto. Cos’è che hai detto? Madeira… un’isola greca… il Giappone. Certo. Sei lì, davanti al mare o davanti a un bel giardinetto zen, tutto contento. Ti guardi attorno: cosa vedi? Il mare, il giardinetto e poi? E poi basta. In compenso, senti. Senti la Pausini. «La solitudine fra noi, questo silenzio dentro me, è l’inquietudine di vivere, la vita senza te…». Che sarei io, noi, quelli che, nonostante tutto, ti vogliono bene. Dai, va là, te e Madeira. Leggi qui piuttosto. Ti faccio il quadro, così la pianti di menare il torrone. Vado? Vado.

Gennaio 2023

Intanto, la neve. Una nevicata che ci seppellirà, come la famosa risata. Tutti a spalare, a sudare, a tirare palle di neve per giorni, i bambini per strada, altro che cameretta, soli soletti a guardare il TikTok. A furia di ridere con le palle di neve, monta l’iniziativa. Quale? Questa: giornata mondiale del silenzio web. Per un giorno tutte le persone, ma proprio tutte, non possono sbirciare in rete neanche per causa di forza maggiore. Sembrava una scemenza. Invece: successone. Anche per via della neve che, nel frattempo, non cessa di venir giù. La cosa produce un certo fastidio a quelli che se non twittano sbarellano. Ma sì quelli lì, che hanno i followers e quindi la mettono giù dura. È che se il follower si dedica alla palla di neve, o magari a fare legna, dico per dire, buonanotte suonatori. Occhio perché ‘sta faccenda può sembrare una cazzata. Invece innesca. Monta, diventa valanga, visto che siamo in tema. Comunque, come inizio, mica male.

Febbraio 2023

La forte e progressiva riduzione degli scambi via web segnala di sponda una serie di avvenimenti clamorosi. Tipo parlare con quelli lì del bar non soltanto del Milan e affini ma anche di questioni leggermente più intime, metti la prostata o l’intenzione di trasferirsi in Giappone in quanto sfiduciati e depressi. Cosa che genera ilarità e una serie di vaffa, abbinati al sospetto che farsi prendere per il culo dai giapponesi risulterebbe assai più arduo e meno indisponente. Di neve non ne è rimasta granché ma a furia di stare in giro sembra che sia diventato di tendenza ritrovarsi a commentare le battaglie con le palle di neve, organizzare delle cose sul genere fiaccolata, raccolta di bottiglie di plastica lasciate in giro, rivalutazione dell’antico gioco della bottiglia (in vetro) ai giardinetti, che magari ci scappa della roba che scotta nonostante la stagione. L’andazzo genera un calo a picco degli ascolti dei cosiddetti talk show. Se lo show lo fai con delle persone sotto casa, cosa guardi le tele a fare? Festival di Sanremo: un flop. Chissenefrega.

Marzo 2023

I giornali annunciano la fine della guerra Russia-Ucraina, fatto che comporta, oltre a un certo sollievo, la definitiva chiusura di molti talk show, peraltro alla canna del gas. Non trovarsi davanti, che so, un Di Battista (ma chi è?), una Santanchè (ma cosa dice?), uno Sgarbi (oh signur), produce una certa euforia anche tra gli anziani. I quali si sentono stranamente liberati, persino ringiovaniti. La stagione notoriamente “pazzerella” fa il resto. Più luce, più ore, più campi di bocce riaperti, per non parlare dei bar di cui sopra che adesso permettono di prendere per il culo quelli che volevano partire per il Portogallo anche all’aperto. “Volevano”, passato. Già perché nel frattempo l’idea dell’emigrazione è stata accantonata al pari di altre ipotesi che si dicono così, per dire… compro una Guzzi V7, una ceramica di Picasso, cambio telefonino…

Aprile 2023

La fine della guerra porta una quantità di persone, chi più chi meno, a riflettere su alcuni fatti pregressi. C’è chi si azzarda a buttar lì, in pubblico, frasi un tempo impronunciabili. Un dubbio, un dubbietto su quel Zelensky, ad esempio, senza il rischio di venir trattato come bastardo filosovietico. Un dissenso sul tema armi da mandare in giro a nastro, senza il rischio di venir considerato una merda umana che abbandona della gente al proprio destino… Il fatto che il web venga considerato sempre più spesso come un ambito superfluo accentua la riflessione. Ambito, si sa, stracolmo di zone d’ombra. Persino sul Covid pare possibile discutere senza litigare. Addirittura, una signora in fila alla posta, dopo aver pronunciato, a bassa voce, «Beh, anche i vaccini – utili sia chiaro – qualche danno lo fanno», viene risparmiata dalla folla presente. Il fatto diventa notizia e la notizia permette a molti di esprimere delle opinioni personali in pubblico senza temere ritorsioni. Insomma per essere aprile, il più crudele dei mesi, una sconcertante festa dell’anticonformismo. 

Maggio 2023

La stampa concede grande risalto ad una nuova iniziativa popolare: il “White Friday”. Nessuno compra una mazza per 24 ore. Poi si sa come vanno le cose: il Friday diventa Saturday, Sunday, Monday. Si discute a lungo sui pro e i contro per arrivare alla conclusione che smettere di comprare è un casino. Così, il White Friday viene soppiantato dal Grey Friday. Cioè: compri solo le cose che servono sul serio, tipo mele, verdure, pastasciutta, il resto ciccia. Da qui la questione si allarga a macchia d’olio e una serie di manifestazioni spingono il governo a vietare per sempre i saldi. Che abbassino i prezzi tutto l’anno e non se ne parli più. Il fatto che queste istanze non siano più dibattute nei talk show rende tutto più semplice. Intanto il Milan vince di nuovo, con largo anticipo, lo scudetto. 

Giugno 2023

Fine delle scuole. Ma i grandi cambiamenti in atto fanno sì che i collettivi di molti istituti pubblici, riuniti a Venegono, abbiano messo a punto un documento che viene subito adottato dal Ministero dell’Istruzione. È, finalmente, una vera riforma. Basti dire che i programmi prevedono di ridurre le ore dedicate al Pascoli e al Carducci (con tutto il rispetto) e di aumentare le ore dedicate a Kafka e a Beckett, raddoppio delle ore di educazione fisica, obbligo di sistemare le palestre, tempo dedicato alla poesia. «Dei telefonini in classe non ne parliamo neanche» si legge in una nota a margine, mentre cambiano radicalmente i metri di giudizio degli insegnanti. I quali possono essere rimandati o bocciati dagli alunni medesimi quando una classe comprende oltre sette studenti sotto la sufficienza. Questa vera e propria rivoluzione innesca una tale euforia che persino le tristemente note baby gang si sciolgono da sole perché se cominci a divertirti, cosa spacchi cosa? Piuttosto, per giovani e giovanissimi la riforma prevede prove di coraggio estremo, tipo dare una mano a chi resta indietro. Il rugby diventa sport obbligatorio sin dalle elementari. Viva!

Luglio 2023

Ciò che sta accadendo nel Paese determina una serie di cambiamenti anche presso gli organi di stampa, indotti a dare sempre meno risalto a cose di nessunissima importanza come le reazioni di ogni esponente politico a decisioni di scarsissima importanza. Alcune puntate della nota trasmissione Chi l’ha visto vengono dedicate a figure che non compaiono più all’orizzonte da mesi. Protagonisti delle prime puntate Maria Elena Boschi (bassa audience), Gianluigi Paragone (bassissima audience), Massimo D’Alema (puntata annullata). Il fatto di non dover presenziare in televisione ogni due per tre porta gran parte dei politici a darsi da fare con la sensazione che va bene tutto ma a un bel momento la gente va in bestia. Da qui, un vero colpo di scena: una profonda revisione del sistema sanitario nazionale capovolge il rapporto di forza tra privato e pubblico. Ci vorrà un po’ ma intanto… Cosa da non credere: sgombrate le sedi di Casa Pound, vietate le adunate a Predappio, altrimenti la polizia comincia a menare, anche perché menare gli studenti è passato di moda. In giro si incontrano delle persone che improvvisamente si mettono a cantare Singing in the RainEl purtava i scarp del tennisLa bella Gigogin anche mentre mangiano un toast farcito.

Agosto 2023

Vacanze. La Svizzera è la più gettonata, vuoi per i picchi, i pendii; vuoi per il rösti vuoi per le caramelle Sugus che altrove ahinoi non si trovano. I Måneskin si sciolgono, ma pensa te.

Settembre 2023

Chi aveva votato Fratelli d’Italia si chiede cosa sia saltato in mente a Fratelli d’Italia, la Meloni in primis, di varare provvedimenti del genere. Il disorientamento è attutito da una palpabile serenità diffusa, cosa che rende inutile star qui a litigare. La Lega nomina un nuovo segretario e la decisione conforta proprio tutti anche se il divertimento viene meno. Il lungo dibattito all’interno del PD porta alla fondazione del “Partito Ex-Comunista Italiano”. Il programmino prevede: rilanciare la sinistra occupandosi di quelli di sinistra, dei poveri, di chi non frega una mazza a nessuno, persino degli operai. L’intenzione è di formare un governo insieme a quelli di Fratelli d’Italia, tanto ormai… Beppe Grillo, emigrato in Giappone, manda dei video di giardinetti zen. I talent show vengono soppressi a furia di vedere a zonzo degli ex-concorrenti spostati che si credono chissà chi. Fedez si propone come giudice in Corte d’Appello. In uno spot si vede la Pausini (sempre lei) che becca una saccata di botte da persone di una certa notorietà per averle convocate d’urgenza scopo mostrare la nuova TV. Mentana organizza una serie di maratone per seguire gli sviluppi del Mondiale di rugby in svolgimento in Francia. Wow!

Ottobre 2023

Tensioni nella maggioranza ma anche nelle minoranze. Di questo si parlotta ogni tanto, mica poi tanto. Piuttosto sorgono come funghi enti dedicati al recupero dei migranti, alla formazione degli ex-migranti, all’accoglienza. In contemporanea il G20 ha finalmente deciso di comportarsi come chi sa cosa è lì a fare. È un fiorire di iniziative trasversali dedicate allo sviluppo di molti Paesi africani, di iniziative sostenibili. Drastica riduzione delle emissioni. Trump in esilio a Madeira, Orban interdetto dai suoi stessi famigliari. E Putin? Lasciamo stare per carità. Pare, dicasi pare, che se andiamo avanti così, prima o poi tocca anche a quelli che evadono il fisco. Per ora è una battuta ma, visto come tira il vento, potrebbe anche succedere. Milano, all’avanguardia come si dice da anni, diventa completamente ciclabile. Chi ancora considera l’automobile un mezzo di trasporto utile è pregato di posteggiare a Gaggiano, Treviglio, Pandino, Legnano o Merate, nel senso dell’hinterland, e poi pedalare, pedalare, pedalare. Casco obbligatorio anche per i pedoni, così imparano a non prendere su la bici. 

Novembre 2023

Le temperature del pianeta indicano un calo sorprendente. Fa un freddo della madonna ma intanto la Groenlandia ne beneficia e mi si estingue meno roba. Il Milan è in testa al campionato. Il bar sempre pieno così. Tempi di attesa al pronto soccorso 20 minuti max. Ciumbia! Si barbella ma l’umore sale a picco. Gli ultrà delle curve più tristemente note d’Italia vengono obbligati dalle società calcistiche di riferimento a spalare la neve lungo i rettilinei, così i ragazzi si sfogano e la smettono di disturbare. Ogni famiglia programma le vacanze invernali. Dove? In Svizzera, che domanda… il ricordo del rösti e la voglia di Sugus spingono verso i Cantoni dove è un attimo registrare il tutto esaurito. In alternativa, Val Gardena, per via dei canederli, Valtellina per i pizzoccheri. I vegetariani benestanti in India, con dei charter pieni di spezie.

Dicembre 2023

Ripresa massiccia delle nevicate. Il futuro si annuncia radioso, a parte per i ciclisti che con la neve fanno una certa fatica a star su. Lettera a Babbo Natale da spedire tassativamente entro il 4 dicembre. Albero di Natale l’8 dicembre. Su questi punti nessuna deroga. Chi con una palla di neve tira giù il cappello di un passante durante le ore scolastiche è giustificato automaticamente. Chi ancora usa il cellulare in metropolitana viene sbeffeggiato senza ritegno. Motto dell’anno: “Il veglione ha rotto il marone”. Da qui tutto ne consegue.

ARTICOLO n. 98 / 2022

NONOSTANTE TUTTO L’UOMO RIMARRÀ BIPEDE

L'anno che verrà

Anche l’anno prossimo è prevedibile che andrà, e che la Terra continuerà a girare intorno al Sole, questo mi sento di sostenerlo senza dubbi di essere smentito su tempi brevi. Sia che sia piatta, sia che sia sferica. In caso contrario, cioè che la Terra si fermasse, secondo me casca, nonostante le concezioni fisiche attuali lo vietino (le cose non cascano più giù nella fisica). Anche se non riesco a capire dove caschi. Ma sicuramente se è piatta, per capirsi, longitudinalmente, cioè come un piatto appoggiato alla tavola, cadrà molto lentamente per questioni di attrito coi venti cosmici, che la faranno un po’ navigare di qua e di là nella sua caduta; se invece è piatta, sempre per capirsi, verticalmente, cadrà giù in frettissima; se è sferica, come sostiene buona parte dell’umanità che ha titoli di studio più alti, cadrà giù a una velocità intermedia tra le due. Ma secondo me continua ad andare per la sua strada ancora per un po’, come negli ultimi due o tre miliardi di anni.

Quasi sicuramente, sempre l’anno prossimo, continueranno a esistere anche malattie non-Covid e Covid-peggiori, come infarti, tumori e ictus, e a questo proposito si vorrebbe far notare che l’influenza si è incattivita perché non ne poteva più che nessuno prendesse più l’influenza e tutti prendessero il Covid e quindi, come nelle migliori pressioni selettive, si è smaliziata ed è tornata a influenzare a grandi numeri con tosse, mal di testa, naso chiuso, abbondanza di catarro e febbre fastidiosa anche superiore a trentotto e cinque. Sugli altri mali Covid-peggiori non so cosa dire perché non ho dati freschi a mia disposizione anche perché c’ho già un’età in cui mi fa un po’ paura leggerli. 

Nonostante l’aumento del prezzo del metano, e gli altri numerosi disagi che possono sempre capitare, sono sicuro che anche l’anno prossimo l’uomo rimarrà bipede, anche perché non si possono buttare via in poco tempo, come potrebbero fare soltanto dei cretini, gli sforzi fatti da miliardi di nostri antenati per stare in equilibrio sulle zampe posteriori, che stavano trasformandosi in gambe, mentre le zampe davanti stavano trasformandosi in braccia, con alla fine delle mani libere, e basterebbe guardare i nostri cugini scimpanzé, bonobo e gorilla, che non si sforzavano di diventare bipedi come noi e, non sforzandosi, apparentemente avevano una vita più spensierata, secondo alcuni più in armonia con la natura, sempre lì felici a non fare un cazzo e ridere, mentre guardavano l’uomo che si sforzava di diventare bipede e iniziava anche a farsi dei vestiti, mentre i gorilla e gli scimpanzé si erano tenuti la pelliccia, e invece che fine hanno fatto i gorilla e gli scimpanzé a forza di fare i fannulloni? È vero che hanno imparato a infilare bastoncini nei formicai, tirarli fuori e leccarsi le formiche, che forse è una prima forma di lavoro. Ma poi? Si sono fermati lì e sono vicini all’estinzione, come i giaguari e i leopardi e altri mille quadrupedi, mentre noi lanciamo le sonde su Marte a forza di esserci sforzati a camminare su due za