archivio articoli

ARTICOLO n. 77 / 2023

ORAZIO PIGATO, CIELO BIANCO

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del ‘900 attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Pranzo in trattoria. Alle pareti un gabbiano un po’ storto, il ritratto di una ragazza con la blusa di Minni, un piatto da portata carico di pennellate azzurre. Attendo una prescrizione nella sala d’attesa del medico: la veduta di un laghetto, un putto brunito dal tempo. Per tornare a casa attraverso il mercato delle pulci: una flotta di navi a righe, una pioggia di virgole s’abbatte su un alberello. 

Quanti quadri incontro ogni giorno, tantissimi. Occhieggiano nei luoghi della quotidianità, testimonianze di un sentire che qualcuno, forse non un artista, ha formalizzato in un qualche giorno di un qualche anno. Esposti alla disattenzione; più immediati e dunque indifesi di un documento scritto o di una traccia audio o video. Oggetti bizzarri i quadri, domestici e dispersi.

Guardare in contesti occasionali tanti quadri brutti o banali o decorativi o dilettanteschi è importante. Quando l’occhio è maleducato ma il display è buono e l’ambiente arioso, lo spazio bianco di una galleria è in grado di nobilitare anche una tela dipinta al grest. Al contrario, per intuire la reale forza di un dipinto è utile, come in un rendering mentale, sottrarlo al bianco e riposizionarlo tra le ‘cose’; sul marciapiede di un mercato, per esempio, tra rubinetterie di ricambio e posacenere, oppure localizzarlo in quelle abitazioni da professionisti all’italiana in cui volenti o nolenti ogni tanto si accede. Eccolo, il quadro, cinto da una robusta cornice bianca, tra tappeti in polipropilene, fermacarte Swarovski e fotografie di bambini sdentati.

In contesti di questo tipo ho incontrato i dipinti degli autori veneti di cui scrivo in questa trilogia di articoli: Orazio Pigato, Antonio Fasan (1902-1985), Renzo Biasion (1914-1996). Sono convinta che se non avessi prestato attenzione nel corso della mia vita a moltitudini di dipinti qualunque – banali, ingenui, pacchiani, scartati, rovinati, tradizionali, irrilevanti – non avrei mai colto la diversa timidezza dei quadri di Orazio Pigato, l’avrei persa nella modestia di altri paesaggi disseminati nel formicaio di negozi antiquari e mercati della provincia italiana, che salvano il salvabile, spesso democraticamente. Per questo The Italian Review, rivista priva di immagini, è il luogo giusto in cui scriverne – non tutta la buona pittura salta all’occhio, alla buona pittura ci si può anche ‘addomesticare’, termine che scelgo per sottolineare una difficile dimensione di mitezza e pazienza dello sguardo dello spettatore.

Tra centinaia di vedute della campagna veronese, impressionismi alberghieri inghirlandati di amarene Fabbri o bruni uvettosi da casa canonica, ma anche tra tanti quadri benfatti, perché un orto, un casolare, una veduta di Cavaion sono diversi, sono opere d’arte, se dipinti da Orazio Pigato?

Mi sono imbattuta nella storia di Pigato in un periodo in cui collezionavo scritti di Renzo Biasion. In un volumetto del 1971 pubblicato dalla Galleria Ghelfi di Verona e intitolato Liricità di Orazio Pigato, Biasion – protagonista dell’ultimo articolo di questa trilogia – scrive poche righe in cui condensa il senso di mantenere un’identità regionale all’interno di prospettiva e cultura internazionali: «Si sa, i veneti sono portati al colore. Una linea del colore veneto potrebbe partire dai primitivi e fermarsi a Guglielmo Ciardi? A mio parere non esiste soluzione di continuità tra un Guglielmo Ciardi e un Pigato. La linea del colore veneto prosegue e si rinnova con tutti i moderni paesisti, da Semeghini e Gino Rossi ai trevigiani e ai veronesi. Tutti hanno guardato i francesi ma sono rimasti veneti, in loro è rimasto l’antico sangue».

Orazio Pigato nasce a Reggio Calabria nel 1896, trascorre sin dall’infanzia la vita a Verona dove muore nel 1966. Inizia a esporre nel 1918 al Museo Civico di Verona; nel 1921 è in una rassegna regionale d’arte di Treviso; nel 1922 è ammesso per giuria alla Biennale; del 1923 la prima partecipazione a Ca’ Pesaro, e poi ancora, nel ‘24 e ’25, Biennale e Ca’ Pesaro. Anche Umberto Boccioni era nato a Reggio Calabria e morto a Chievo, Verona, a 33 anni, nel 1916. I primi critici insistono sull’ombra lunga dell’ardito Umberto, mentre altri asseriscono che i dipinti giovanili di Pigato, perduti, fossero debitori a un certo post-impressionismo veicolato da Gino Rossi ma visto anche su tele francesi. Guido Perocco, in Pittori di terra veneta (1969), lega Pigato alla lezione di Corot in maniera più convincente. Biasion e Perocco sono coerenti sul posizionamento di Pigato. Costui presenta – scrive Perocco – una “impronta lirico-patetica, “tipicamente veneta” e “stati d’animo di soffuso lirismo […] entro una visione che denuncia un profondo equilibrio e serenità interiore”. Anche Biasion, in chiusura al suo scritto, insiste su come la moralità di Pigato sia in sé artefice dell’opera: «Per esempio, chi ha mai parlato della “classicità” delle composizioni di Pigato? [..] Le mostre attuali serviranno a farlo a conoscere meglio e a dargli il posto che gli spetta nella pittura italiana dal ‘20 al ‘60? È sperabile. E i giovani saranno disposti a capire il lato pittorico e il lato umano dell’opera sua? Un alto ordine morale l’ha regolata ed è da augurarsi possa servire da esempio». 

I giovani, le generazioni nate successivamente al miracolo economico, non sono stati poi così disposti. La sfida era quella di leggere una morale, un’architettura del sentire, attraverso le impalcature del disegno oppure del colore. Come reperire la moralità di una sfumatura di rosa, garrula o corrucciata che sia? Esiste un’amoralità nella saturazione di un verde? Può un grigio differire dall’altro e divenire immorale? Eccome, suggeriscono questi critici veneti gustosamente ingialliti. Un grigio può essere sgargiante, secco, monumentale, umile, estivo, invernale, danaroso, muffoso, stupido, dottorale, frivolo, sepolcrale. Per questo un d’après può essere la nemesi del quadro originario. Pigato domava la sua tavolozza, allevava rosa, grigio, verde e bianco come galline. Ne conosceva l’età, il mangime, usi, bizze e costumi, il sapore delle loro uova. 

Lo spettatore di pittura contemporanea spesso ambisce a incontrare un’opera che gli proponga un’epifania visiva: costui entra in uno stanzone e aspetta che l’opera lo “colpisca”, quasi che il moto dell’attenzione si direzioni dall’opera al fruitore e non viceversa. L’inanimato, a guisa di sanguinosa sirena, richiama col canto l’animato e lo ghermisce. Invertendo il processo si restituirebbe la carica attiva allo spettatore e quella passiva all’opera, e si tornerebbe a comprendere il valore del termine utilizzato da Biasion, disposizione: i giovani “saranno disposti”? Leggere un quadro, leggerlo nell’intimo fino ad arrivare ai valori del suo autore, è una gran fatica, irta di tranelli, giusta. Dinanzi a un quadro, sia esso esposto al poliambulatorio o in galleria, è chiesto di scegliere: leggere l’opera o (pensare di) essere letti da essa? 

Morale: parola bellissima e laica di cui oggi spesso s’impadroniscono eruditi manigoldi conservatori. Dov’è la morale di un pittore?  Utilizzo un appiglio che niente ci azzecca, ma che torna utile all’interno di una fruizione “comunicata” o “popolarizzata” dell’arte come quella attuale: il primo capitolo dell’ultimo libro di Martin Amis, La storia da dentro, si intitola “Etica e morale”. Personaggio tra i personaggi, Saul Bellow racconta una storiella riguardante una chiesa della Rinascita in West Virginia e un predicatore puritano indagato per truffa che frequenta un sex club attingendo dalle elemosine. Bellow spiega che in America i due peccati sono stati percepiti in maniera diversa: «La morale riguarda il sesso, l’etica il denaro» – andare al sex club è immorale, pagarlo con i soldi delle elemosine è non etico. Applico questa differenziazione pop tra etica e morale alla pittura visibile oggigiorno: parte della figurazione contemporanea, con i suoi apparati narrativi travolgenti onirici o realistici volti allo stupore, all’enfasi e alla malia, è spesso etica immorale; le immagini che essa contiene non ledono alcuno, ma cercano di infastidire o meravigliare gli spettatori irritabili o in cerca di straniamento. Proprio perché si è ormai predisposti a immagini etiche e immorali, entrare nella morale del nostro paesaggista veneto è laborioso. Pigato è morale e la morale di Pigato è la serenità, consustanziale alla breve stanchezza che precede la sera, alla mitezza, ai cieli mai azzurri e sempre lattiginosi, pesanti di umidità e polveri, poggiati sui tetti delle case, privi di raggi, stesi.

ARTICOLO n. 76 / 2023

TRECENTOSESSANTASEI MODI DI DIRE CIAO

Pubblichiamo un’anticipazione da A book of days (Bompiani, traduzione di Tiziana Lo Porto), da domani in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Il 20 marzo 2018, equinozio di primavera, ho postato la mia prima foto su Instagram. Mia figlia Jesse mi aveva suggerito di aprire un account Instagram per distinguere il mio da quelli fraudolenti che adescano a mio nome. E poi Jesse trovava che fosse una piattaforma perfetta per me che scrivo e scatto foto tutti i giorni. Così abbiamo creato insieme la pagina. Cercavo un modo per fare sapere alle persone che ero veramente io a contattarle, così ho deciso per un approccio diretto: thisispattismith, questaèpattismith.

Ho usato la mia mano come immagine per la mia prima avventura nel mondo virtuale. 

La mano è una delle icone più antiche, una corrispondenza diretta tra fantasia e messa in atto. L’energia curativa viene incanalata attraverso le nostre mani. Tendiamo una mano in segno di saluto e servizio; solleviamo una mano come promessa. Impronte di mani color ocra, vecchie di migliaia di anni, trovate sulle pareti della grotta Chauvet-Pont d’Arc nel sud-est della Francia, sono state realizzate sputando pigmento rosso su una mano e premendola contro una parete di pietra per dare una qualche dimostrazione di forza, o forse per manifestare una preistorica affermazione dell’io. 

Instagram serve a condividere vecchie e nuove scoperte, festeggiare compleanni, ricordare i defunti e rendere omaggio alla nostra giovinezza. Scrivo le mie didascalie su un taccuino o direttamente sul telefono. Mi sarebbe piaciuto avere una pagina fatta solo di Polaroid, ma da quando hanno smesso di produrre le pellicole, la mia macchina fotografica adesso è una testimone in pensione di viaggi precedenti. Le immagini in questo libro sono Polaroid già esistenti, foto del mio archivio e foto scattate con il cellulare. Scelta singolare per il ventunesimo secolo. 

Anche se la mia macchina fotografica e la particolare atmosfera delle Polaroid mi mancano, apprezzo la duttilità del cellulare. Ho avuto il primo sentore che avrei potuto usare il cellulare in modo artistico grazie ad Annie Leibovitz. Nel 2004 ha scattato una foto di interni con il cellulare e poi l’ha stampata come una piccola immagine a bassa risoluzione. Con disinvoltura ha profetizzato che un giorno sarebbe stato possibile scattare foto dignitose con un telefono. All’epoca non immaginavo che avrei avuto un cellulare, ma ci evolviamo insieme ai tempi che viviamo. Il mio, comprato nel 2010, mi ha permesso di unirmi al collage esplosivo della nostra cultura.

A book of days è un assaggio di come navigo in questa cultura a modo mio. È stato ispirato dal mio account Instagram ma ha un suo carattere. L’ho creato quasi tutto durante la pandemia, nella mia stanza da sola, proiettandomi nel futuro e rispecchiando il passato, la famiglia e una estetica personale coerente.

Le didascalie e le immagini sono le chiavi per sbloccare i pensieri. Ognuno di noi è circondato dal riverbero di altre possibilità. Ricordare i compleanni, compreso il tuo, è una richiesta rivolta agli altri. Un caffè parigino è tutti i caffè, proprio come una lapide può fare da eco ad altre persone compiante e ricordate. Avendo perso io stessa tante persone amate, trovo conforto nel frequentare i cimiteri della gente che amo e ne ho visitati molti, offrendo preghiere, rispetto e gratitudine. Mi sento a mio agio con la storia e ripercorro i passi di chi ha realizzato opere che mi sono state di ispirazione; molti dei post sono dedicati al ricordo. 

Mi sono sentita incoraggiata nel vedere i follower del mio Instagram crescere, dal primo, mia figlia, a oltre un milione. Questo libro, un anno e un giorno (per i nati nel giorno bisestile), è offerto in segno di gratitudine, come luogo di conforto, anche nei momenti più tristi. Ogni giorno è prezioso, perché stiamo ancora respirando, commossi dal modo in cui la luce piove su un alto ramo, o al mattino su un tavolo da lavoro, o sulla lapide scolpita di un poeta amato. 

I social media, nel modo distorto in cui praticano la democrazia, a volte incoraggiano la crudeltà, i commenti reazionari, la disinformazione e il nazionalismo, ma possono anche esserci utili. Sta a noi saper distinguere. La mano compone un messaggio, carezza i capelli di un bambino, tira indietro la freccia e la fa volare. Ecco le mie frecce che puntano al cuore comune delle cose. Ognuna è accompagnata da poche parole, frammenti di oracoli. 

Trecentosessantasei modi di dire ciao.

ARTICOLO n. 75 / 2023

IL PROBLEMA DEL MALE

«Se Dio esiste, da dove [viene] il male? E se non esiste, da dove [viene] il bene?»
Leibniz

Potrei iniziare con un indovinello: qual è il problema filosofico che non è mai bene porsi?

Quello del senso del dolore, su cui ci interroghiamo per lo più quando è presente. Per quel che mi riguarda è tornato ad assillarmi nel corridoietto di una clinica, in attesa di una gastroscopia; è scattato nell’istante in cui l’infermiera mi ha detto che la mia ricetta medica non prevedeva alcuna forma di sedazione. Davanti al mio disappunto, la donna ha tentato di convincermi che farla senza anestesia era una soluzione accettabile e se non mi fossi rifiutato all’istante sarebbe stato interessante scoprire quali argomenti avrebbe tirato fuori per convincermi.

Tempo fa, un amico che ha deciso di sua spontanea volontà di fare la stessa analisi senza anestesia se ne è molto pentito, definendo la sua azione come un folle “machismo interiorizzato”. Non è soltanto una battuta, perché qui gli stereotipi di genere si applicano benissimo: un vero maschio non frigna né si lamenta, ma resiste – stavo per dire “virilmente” – al dolore. Che queste etichette siano per lo più culturali e che vengano scavalcate dalla varietà dei casi individuali è noto, e io che sono un maschio ma frigno e non resisto volentieri al dolore ne sono un esempio. Ma non c’è solo questo e per capire gli influssi culturali del nostro rapporto col dolore non possiamo ignorare la religione locale, anche per chi non la professa. Il cattolicesimo dunque, secondo il quale il dolore non solo è stato voluto da Dio, ma anche vissuto dal figlio, che si è sacrificato per la nostra salvezza. È un’idea che ha portato a una forma di beatificazione del martirio: «La penitenza induce il peccatore a sopportare di buon animo ogni sofferenza». E ancora «La conversione si realizza nella vita quotidiana attraverso […] l’accettazione delle sofferenze […] Prendere la propria croce, ogni giorno, e seguire Gesù è la via più sicura della penitenza. [La sofferenza] ci permette di diventare coeredi di Cristo risorto, dal momento che “partecipiamo alle sue sofferenze” (Rm 8,17):59». Il messaggio è chiaro, ma se può trovare qualche appiglio nel personale medico di fede cattolica, con me non funziona. 

Sappiamo per esperienza che il problema del male è il primo e più urgente delle nostre vite; inoltre include molte questioni decisive che assillano la filosofia: l’ordine del mondo, la sua causa, l’esistenza di Dio… per capire la sofferenza dobbiamo rispondere anche a tutte queste domande. È celebre in merito la posizione di Leibniz, che dando per scontata l’esistenza di un Dio perfetto ne deduce che viviamo nel migliore dei mondi possibili, anche se non sembra. È una posizione dileggiata sin dal Diciottesimo Secolo dunque non infierirò, ma a sua difesa va detto che è l’unica coerente con l’esistenza di un Dio benevolo. Nei suoi saggi di Teodicea Leibniz non si limita a questa celebre osservazione, ma passa in rassegna anche le esigenze di un universo meccanico. In un passo scrive:

«L’uomo, in quanto corpo, rientra totalmente entro i limiti stabiliti dall’ordine della natura, e come fenomeno naturale è sottoposto appunto alle stesse leggi che regolano qualsiasi altro fenomeno naturale, la caduta dei gravi, per esempio, la rivoluzione dei pianeti intorno al sole, oppure i rapporti che si stabiliscono tra una pietra dura (infrangibile) e un bicchiere di vetro (fragile) o tra un gatto (forte) e un topo (debole). È un ordine meccanico al quale nulla si sottrae, e che non può certo essere giudicato con criteri di utilità, ma neppure, a più forte ragione, con criteri morali. Secondo tale ordine nulla è cattivo, ma neppure buono, nulla è brutto, ma neppure bello, nulla è giusto, ma neppure ingiusto ecc. L’ordine naturale delle cose è indifferente a qualsiasi valore».

In un universo retto da inflessibili leggi matematiche, opera del caso o di una necessità puramente geometrica, il male non ha alcuna spiegazione, perché nulla ne ha una. Ma un mondo retto da principi religiosi deve spiegare anche questo sgradito elemento. La domanda ha radici antiche e già i filosofi greci avevano meditato sulla cosa. Epicuro ad esempio si diceva: Se Dio vuole prevenire l’infelicità ma non ne è in grado, allora non è onnipotente. Se è in grado, ma non vuole, allora è malevolo. Se non è in grado né vuole non è un Dio, mentre se è in grado e vuole, perché non lo fa? 

Tutte le religioni hanno sviluppato delle proposte ingegnose, ma davanti all’ipotesi di una gastroscopia senza anestesia (e prima ancora per vari e più acuti dolori) ribadisco il mio rifiuto. La meravigliosa immensità del mondo ha una macchia, il dolore, l’unico elemento inaccettabile dell’infinito. Nonostante le fatiche delle varie teodicee, infatti, non sembra possibile dargli una giustificazione. È per via del libero arbitrio? Al netto dei dubbi sulla sua esistenza, non sempre il male accade per una scelta sbagliata, né ha molto senso una libertà utile solo a rinunciarci per essere pedissequi a delle leggi divine. È un necessario percorso di crescita? Potrebbero essercene di meno atroci e più efficaci, senza contare l’inutilità di uno strumento il cui fine ultimo è darti i mezzi per superare se stesso. È una punizione dunque? Sarebbe sommamente ingiusta, perché la stessa entità che ci punisce ci ha creati imperfetti. È allora un’illusione, come insegna il buddismo? Possibile, ma nulla giustifica l’innegabile esistenza di un’illusione così difficile da abbandonare. È forse il frutto di un meccanismo evolutivo? Potrebbe essere così, ma sebbene ne delinei una possibile causa non offre alcuna giustificazione. Anzi, conferma quel che suggeriva Leopardi sull’infamia della natura.

Una delle storie più belle e inspiegabili legate all’esistenza del male è quella di Giobbe, che a giusta ragione ha appassionato molteplici studiosi e studiose anche fuori dalla teologia. In breve, Giobbe era un uomo ricco e felice con una famiglia altrettanto prospera, ed era a tal punto devoto e ligio agli insegnamenti divini che nessuno avrebbe mai potuto congetturare che il suo bene fosse immeritato. Dio era orgoglioso del suo fedelissimo, finché il diavolo attentò all’onniscienza divina con una scommessa: “vedrai che se gli togli tutto non sarà più così devoto”. Inizia così una serie di disastri per il povero Giobbe, che prima perde tutto il suo bestiame, poi i figli, infine la salute. Ciononostante Giobbe non maledice Dio. Al massimo si lamenta con gli amici, che lo ricoprono di pessimi consigli. Elifaz gli suggerisce che Dio punisce solo i malvagi, dunque Giobbe doveva aver sbagliato qualcosa. Bildad invece lo consola con una tautologia, secondo la quale se Giobbe è giusto, sarà risparmiato dal male, se non è risparmiato, non è giusto. Zofar infine dice a Giobbe che Dio la sa più lunga di lui e che punisce i malvagi. A rimbrottare il trio di sapienti il giovane Elihu, che sostiene che Dio è giusto e fa prosperare i retti. Comprensibilmente insoddisfatto delle risposte, Giobbe interpella direttamente Dio. Lo psicologo Carl Gustav Jung ha offerto una divertente descrizione di questo momento:

«”Fino a quando, Signore, continuerai a tenerti nascosto, arderà come fuoco la tua ira? Ricorda quant’è breve la mia vita. Perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?… Dove sono, Signore, le tue grazie di un tempo, che per la tua fedeltà hai giurato a Davide?”

Rivolto a un essere umano il discorso si sarebbe svolto pressappoco in questi termini: “Adesso controllati, e falla finita con queste collere assurde. È veramente troppo grottesco che uno come te se la prenda talmente con queste piante che, è vero, non vogliono crescere diritte ma, certamente, non senza che anche tu ne sia in parte responsabile. Avresti potuto anche essere un po’ più ragionevole prima e aver cura del giardino che ti sei piantato, invece di calpestarlo tutto ora».

Nella storia biblica Dio appare a Giobbe in un vortice e lo mette a tacere con dei modi che, se non appartenessero all’Eccelso, definiremmo da bullo. In breve gli dice che data l’incomparabile differenza che intercorre tra loro non può capire in alcun modo le sue decisioni. Una risposta che Giobbe accetta (aveva forse scelta?) e che per fortuna oltre a porre fine ai suoi tormenti ne raddoppia la fortuna.

Il filosofo russo Lev Šestov si è interrogato spesso sul problema del male attraverso la bellissima parabola di Giobbe:

«Unde malum? Da dove viene il male? Molte teodicee, con poche variazioni, danno a questa domanda risposte che non soddisfano se non i loro autori (ma li soddisferanno veramente?) e gli amanti di letture amene. Quanto agli altri, le teodicee causano fastidio, e quest’irritazione è direttamente proporzionale all’insistenza con la quale il problema del male assilla ogni individuo».

Nella sua lettura di Spinoza, Šestov ci dice che non è possibile ribellarsi a quello che trascende la nostra volontà, «non si può far sì che la somma degli angoli di un triangolo equivalga a tre retti, che le disgrazie capitino solo ai malvagi e solo i giusti riescano nelle loro imprese, oppure che le cose e gli esseri a cui teniamo non periscano. È impossibile soccorrere l’infelice Giobbe».

L’esistenza del male è una verità evidente e insuperabile. È un fatto a cui possiamo trovare cause, mai una giustificazione. La sua esistenza è eticamente sbagliata, ingiusta, inammissibile – sempre. Come noialtri, anche Giobbe è inseparabile dal suo patimento ed è per questo, almeno per Šestov, che «l’uomo deve rinunciare a tutto ciò che è esistenza individuale e, anzitutto, a se stesso, per orientare il suo pensiero verso ciò che non ha inizio né fine, verso ciò che non nasce né muore.

Rinunciare a se stessi o all’illusione di esserlo è una strada nota alle filosofie orientali come il buddhismo, e, nel suo piccolo, è anche la strada che ci concede un’anestesia. Ma il dolore esiste, illusorio o meno che sia, e rimane il più grande problema metafisico. Non esiste redenzione, giustificazione o consolazione – non c’è scusa che tenga insomma, come dimostra la tautologia che l’esistenza del male è inevitabilmente un male. Lo splendore del mondo è insozzato da un elemento inaccettabile, il dolore, che pur essendo minoritario nell’infinito è ben presente nelle nostre vite. Cancellarne la traccia dalla storia è impossibile e quel che possiamo fare è solo ampliare il nostro sguardo a tal punto da restituire a quest’angolo di mondo la sua reale dimensione: un doloroso, ingiustificabile granello dell’infinito.

ARTICOLO n. 74 / 2023

LA RICERCA FEMMINILE DELL’AMORE

Pubblichiamo un estratto da Comunione di bell books (Il Saggiatore, traduzione di Maria Nadotti) da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Le donne parlano d’amore. Già da bambine capiamo che le conversazioni sull’amore sono una narrazione di genere, un soggetto femminile. Le nostre ossessioni in materia d’amore non cominciano con la prima cotta o la prima caduta.Cominciano con quella prima ammissione che le femmine contano meno dei maschi, che, per quanto brave possiamo essere, agli occhi dell’universo patriarcale non lo saremo mai abbastanza. Nella cultura patriarcale la femminilità ci contrassegna fin dall’inizio come immeritevoli o non altrettanto meritevoli, e non dovrebbe sorprendere che impariamo a preoccuparci maggiormente come ragazze, come donne, del fatto di essere meritevoli d’amore.

Cresciute con madri competitive e colpevolizzanti e padri che non riusciamo mai a soddisfare veramente, oppure in un mondo dove siamo la «perfetta» cocca di papà ma temiamo di perdere la sua approvazione al punto di smettere di mangiare, smettere di crescere perché ci accorgiamo che papà perde interesse, perché percepiamo che non ama le donne, siamo incerte sull’amore. Per conservare il suo amore dobbiamo aggrapparci a ogni costo all’infanzia. Fin da piccolissime le bambine continuano a sentirsi dire, se non dai genitori dalla cultura in cui sono immerse, che devono guadagnarsi il diritto di essere amate – che la «femminilità» non è sufficiente. È questa la prima lezione che viene impartita a una femmina alla scuola del pensiero e dei valori patriarcali. Deve guadagnarsi l’amore. Non le spetta di diritto. Per essere amata deve essere brava. E quel brava è sempre definito da qualcun altro, qualcuno dall’esterno. Scrivendo del rapporto con il proprio papà nel saggio Dancing on My Fathers Shoes (Danzando sulle scarpe di mio padre), Patricia Ruff offre un resoconto accorato di come ha perso la sensazione di essere degna d’amore, di essere apprezzata, confessando: 

«Mia madre mi disse che lui voleva prima di tutto una figlia e non avrebbe potuto essere più felice quando venni al mondo. Perciò ero impreparata quando il mio status di principessa, senza alcun preavviso, fu fatto bruscamente a pezzi, come un foglio di carta strappato da un quaderno. Successe qualcosa che nessuno mi spiegò. […] Non riuscivo a dare voce ai miei sentimenti ed ero senza parole per la rabbia e il dolore causati da quel suo essere d’un tratto fuori portata». 

Preoccupata che la sorella più piccola potesse essere esposta a sua volta alla pena di vedersi rifiutata a livello emotivo, Ruff propone di affrontare insieme il padre: 

«Facemmo irruzione nella loro camera da letto, ci gettammo sul nostro attonito padre, che rimase immobile e senza parole mentre noi lo inondavamo di lacrime, agguantandolo, stringendolo, decise a non mollare. “Papà, per favore abbracciaci, dicci che ci vuoi bene, noi ti vogliamo bene, abbiamo bisogno che tu ci voglia bene” implorammo». 

Il rifiuto e l’abbandono da parte dei padri e delle madri sono lo spazio della mancanza che di solito pone le basi per l’ansia femminile di trovare e conoscere l’amore. Spesso, da piccole, le bambine si sentono amate e al centro dell’attenzione. Più tardi, però, quando sviluppiamo forza di volontà e autonomia di pensiero, scopriamo che il mondo smette di confermarci, che siamo considerate non amabili. È l’intuizione che Madonna Kolbenschlag condivide in Lost in the Land of Oz (Smarrita nel paese di Oz) riguardo alla natura del destino femminile: «In qualche modo, siamo state tutte private dell’amore, delle cure materne – se non dell’amore, allora della sensazione di essere state amate. Sapere che siamo state amate non è abbastanza; dobbiamo sentirlo». Come fa una bambina a credere di essere amata, davvero amata, quando da qualsiasi parte si giri vede che la femminilità è disprezzata? Incapace di modificare la realtà della femminilità, si sforza di migliorarsi, di diventare qualcuno degno d’amore. 

Educate a credere che troviamo noi stesse nel rapporto con gli altri, le femmine imparano presto a cercare l’amore in un mondo al di là del loro cuore. Impariamo fin da piccole che le radici dell’amore sono al di fuori delle nostre possibilità, che per conoscere l’amore dobbiamo essere amate dagli altri. In quanto femmine in una cultura patriarcale, non possiamo determinare il nostro valore personale. Le nostre qualità, il nostro valore, e se possiamo essere amate o no sono sempre cose stabilite da qualcun altro. Prive dei mezzi per dare vita all’amore per noi stesse, ci rivolgiamo agli altri perché ci rendano amabili; desideriamo l’amore e siamo in cerca d’amore. 

Se il movimento femminista contemporaneo ha criticato la svalutazione del femminile che ha inizio nell’infanzia, non è tuttavia riuscito a modificarla. Oggi le bambine crescono in un mondo dove da più parti apprendono che le donne sono uguali agli uomini, ma nella loro infanzia non esiste ancora uno spazio reale per il pensiero e la pratica femminista. 

Oggi le bambine lottano contro il sessismo dei ruoli di genere così come facevano le bambine prima del movimento femminista contemporaneo. Se qua e là alcune correnti di femminismo sostengono quella lotta, il più delle volte le bambine si sentono assediate dai messaggi contraddittori determinati dal fatto di essere nate in un mondo in cui alla liberazione delle donne è stato riconosciuto un piccolo spazio, benché le bambine siano rimaste intrappolate tra le braccia del patriarcato. La riprova di tale intrappolamento è il timore, ampiamente diffuso tra tutte le ragazzine, a prescindere da razza o classe, di non essere amate. 

Nella cultura patriarcale, alla bambina che non si sente amata nella famiglia d’origine, è data un’altra possibilità di dimostrare il proprio valore quando la si incoraggia a cercare l’amore dei maschi. Le cotte e le manie ossessive della scolaretta, il suo desiderio compulsivo dell’attenzione e dell’approvazione maschili, indicano che sta perseguendo correttamente il proprio destino di genere, che è sulla buona strada per diventare la femmina che non può essere nulla senza un uomo. Che sia eterosessuale o omosessuale, la misura in cui anela all’approvazione patriarcale determinerà se è degna di essere amata. Questa è l’insicurezza emotiva che infesta la vita di tutte le femmine nella cultura patriarcale.

Fin dall’inizio, quindi, le femmine sono confuse circa la natura dell’amore. Addestrate in base al falso presupposto che troveremo l’amore nel luogo stesso in cui la femminilità è ritenuta indegna e sistematicamente svalutata, impariamo presto a fingere che l’amore conti più di qualsiasi altra cosa, quando, in effetti, sappiamo che ciò che più conta, anche all’indomani del movimento femminista, è l’approvazione patriarcale. 

Dalla nascita quasi tutte le femmine vivono nel timore di essere abbandonate, che se facciamo un passo fuori dal cerchio approvato non saremo amate.

Data la nostra precoce ossessione di sedurre e compiacere gli altri per affermare il nostro valore, ci perdiamo nel tentativo di essere accettate, incluse, desiderate. Il nostro parlare d’amore è stato perciò prima di tutto un parlare di desiderio. In generale, il movimento femminista non ha modificato l’ossessione femminile per l’amore, né ci ha offerto modi nuovi di pensare a esso. Ci ha detto che saremmo state meglio se avessimo smesso di pensare all’amore, se fossimo riuscite a vivere la nostra vita come se l’amore non avesse alcuna importanza, altrimenti avremmo corso il rischio di diventare parte di una categoria femminile veramente disprezzata: «La donna che ama troppo». Il bello, naturalmente, è che molte di noi non amavano troppo; non amavamo affatto. In realtà eravamo emotivamente bisognose, alla disperata ricerca del riconoscimento (da parte di partner maschili o femminili) che ci avrebbe dimostrato il nostro valore, i nostri meriti, il nostro diritto di essere vive sul pianeta, ed eravamo disposte a tutto pur di ottenerlo. Femmine in una cultura patriarcale, non eravamo schiave dell’amore; la maggior parte di noi era ed è schiava del desiderio – desiderose di un padrone che ci libererà e sosterrà, poiché da sole non riusciamo a sostenerci.

La promessa del femminismo è che si sarebbe creata una cultura in cui avremmo potuto essere libere e conoscere l’amore. Quella promessa, tuttavia, non è stata mantenuta. Molte donne sono ancora confuse e si domandano quale sia il posto dell’amore nella propria vita. Molte di noi non hanno avuto il coraggio di ammettere che «l’amore conta», per paura di essere disprezzate e svergognate dalle donne che sono arrivate al potere in seno al patriarcato tagliando fuori le emozioni, diventando simili agli uomini patriarcali che un tempo criticavamo per la loro freddezza e la loro insensibilità. Il femminismo di potere è solo un altro inganno, in cui le donne possono giocare al patriarca e far finta che il potere che cerchiamo e otteniamo ci liberi. Poiché non abbiamo creato un corpus sostanzioso di opere capaci di insegnare alle bambine e alle donne modi nuovi e visionari di pensare all’amore, assistiamo all’ascesa di una generazione di donne sulla trentina che considerano una debolezza qualsiasi desiderio d’amore, il cui sguardo è concentrato esclusivamente sulla conquista del potere. 

Il patriarcato ha sempre visto l’amore come una faccenda da donne, un lavoro degradato e svalutato. E non si è preoccupato del fatto che le donne non imparassero ad amare, dal momento che gli uomini patriarcali tendono a sostituire l’amore con la cura, il rispetto con la sottomissione. Non avevamo bisogno di un movimento femminista per renderci conto che le femmine sono più propense dei maschi a occuparsi di relazioni, legami e comunità. Il patriarcato ci addestra a questo ruolo. Abbiamo bisogno di un movimento femminista che ci ricordi di continuo che l’amore non può esistere in una situazione di sopraffazione, che l’amore che cerchiamo non possiamo trovarlo finché siamo vincolate e non libere. 

Nel mio primo libro sull’argomento, Tutto sull’amore. Nuove visioni, ho avuto cura di dire più e più volte che le donne non sono intrinsecamente più amorevoli degli uomini, ma che siamo sollecitate a imparare ad amare. Tale incitamento ha fatto da catalizzatore alla nostra ricerca d’amore, spingendoci a esaminare attentamente e a lungo la pratica dell’amore. E ad affrontare la nostra paura di non essere amorevoli, di non essere amate a sufficienza. Nella nostra cultura le donne che più hanno da insegnare a tutti sulla natura dell’amore sono le donne della generazione che ha imparato attraverso la lotta femminista e le terapie fondate sul femminismo che l’amore di sé è la chiave per trovare e conoscere l’amore. 

Noi, donne che amano, siamo parte di una generazione di donne che sono andate oltre i paradigmi patriarcali per trovare se stesse. Il cammino per trovare il nostro vero sé ha richiesto che ci inventassimo un nuovo universo, un universo in cui abbiamo avuto l’ardire di far rinascere la bambina in noi e di accoglierla nella vita, in un mondo in cui nasceva benvenuta, amata e per sempre degna. Amare la bambina in noi ha guarito la ferita che spesso ci portava a cercare l’amore in tutti i posti sbagliati. Per molte di noi la mezza età è stata il momento favoloso in cui abbiamo cominciato a riflettere sull’autentico significato dell’amore nelle nostre vite. Abbiamo cominciato a vedere con chiarezza quanto esso contasse, non le vecchie versioni patriarcali dell’«amore», bensì una comprensione più profonda dell’amore come forza di trasformazione che richiede a ogni individuo affidabilità e responsabilità per nutrire la nostra crescita spirituale. 

Rendiamo testimonianza del fatto che nessuna donna può trovare la libertà se prima non ha trovato il proprio modo di amare. La nostra ricerca dell’amore ci ha portate a capire pienamente il senso della comunione. In The Eros of Everyday Life (L’eros della vita quotidiana) Susan Griffin scrive: 

«Il desiderio di comunione esiste nel corpo. Non è solo per ragioni strategiche che riunirsi ha costituito il fulcro di ogni movimento per il cambiamento sociale. […] Questi incontri erano di per sé la realizzazione di un desiderio che è al cuore delle fantasie umane, il desiderio di collocarsi in una comunità, di rendere la nostra sopravvivenza uno sforzo condiviso, di sentire un rispetto palpabile nei confronti dei legami che ci uniscono e della terra che ci dà sostentamento».

La comunione nell’amore che le nostre anime bramano è la ricerca più eroica e divina che un essere umano possa intraprendere. 

Il fatto che nasciamo in un mondo patriarcale, che prima ci invita a metterci in viaggio verso l’amore e poi pone delle barriere sulla nostra strada, è una delle tragedie della vita. Per le donne anziane è giunto il momento di salvare le bambine e le giovani, di offrire loro una visione dell’amore che le sostenga nel loro cammino. La ricerca dell’amore come ricerca dell’autentico sé affranca. Tutte le donne che hanno l’audacia di seguire il proprio cuore per trovare quell’amore partecipano a una rivoluzione culturale che ritempra le nostre anime e ci permette di vedere con chiarezza il valore e il senso che l’amore ha nella nostra vita. Se l’amore romantico è un tratto cruciale di questo percorso, non lo consideriamo più la sola cosa che conta; esso è, piuttosto, un aspetto del nostro lavoro complessivo per creare legami amorevoli, cerchi d’amore che nutrono e puntellano il benessere collettivo femminile. 

Comunione. La ricerca femminile dell’amore racconta la nostra lotta per conoscere il vero amore e i nostri trionfi. Aggregando la saggezza desunta dalle donne giunte a conoscere l’amore nella mezza età, donne che spesso avevano vagato smarrite in un deserto del cuore per buona parte dell’adolescenza fino alle soglie dei trent’anni, Comunione ci dà modo di cogliere l’esperienza di donne dai trent’anni in su che, da cercatrici sul sentiero dell’amore, strada facendo hanno scoperto nuove visioni, intuizioni risanatrici e memorie di rapimento. 

Questo libro è soprattutto una testimonianza, una celebrazione della gioia che le donne scoprono quando riportiamo la ricerca dell’amore al suo giusto, eroico posto al centro della nostra esistenza. Vorremmo essere amate e vorremmo essere libere. Comunione ci dice in che modo realizzare quel desiderio. 

Raccontando il dolore, la lotta, il lavoro che le donne fanno per superare la paura dell’abbandono e della perdita, in che modo ci spingiamo oltre la passione ferita per aprire i nostri cuori, Comunione ci invita a tornare ogni volta là dove possiamo conoscere la gioia, a tornare e celebrare, per entrare nel cerchio dell’amore.

ARTICOLO n. 73 / 2023

TE LO VUOI FOTTERE IL WEST

Pubblichiamo un estratto dal volume Come li pacci. Un racconto a più voci di dieci anni di Sponz Fest (Baldini+Castoldi) a cura di Luca Sebastiani e Irene Sciacovelli. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Era una ventina di anni fa e andavamo con il fratì, Franco Fiordellisi – detto «Ernest Borgnine» per citare Il mucchio selvaggio di Peckinpah – sopra un vecchio furgone Mercedes 405, un ferro con un vetro di guida ampio come uno schermo in technicolor, senza muso davanti, che sotto mangiava la strada, e che il piccolo rilievo bombato di carrozzeria faceva somigliare al furgone del lattaio. 

Quel mezzo lo battezzammo all’uso dei paesani, che l’autobus, la corriera, il pullman, tutti i mezzi a più posti, li chiamavano indifferenziatamente «il postale», quasi fosse la diligenza da assaltare lungo quei tornanti di frontiera tra civiltà e selvatico. 

Ecco, noi sul postale già una volta ce ne eravamo andati in un viaggio memorabile, cercando musica e musicanti oltre regione, al di là del Vulture, il vulcano spento dal nome di avvoltoio, dietro al quale sorge il sole dalle terre dei basilischi.

Ma poi avevamo stretto il cerchio e sulle note di Pat Garret e Calexico avevamo preso a indagare strade più locali, a volte sterrate, che portano a masserie, a rupi e dirupi, come quella della «ripa spaccata» che una volta fece dire ad Antonietta: «Te lo vuoi fott’ lu West».

Era una strada che passava in mezzo alla rupe da cui partiva la discesa per la Frascineta, dove erano spine, ginestre, rovi e pietre, dove l’erba era poca e bassa, che d’estate diventava secca e d’inverno il fango ti arrivava alle ginocchia dietro ai calci dei muli, e quando arrivavi lì… altro che la conquista del West… te lo vuoi fottere il West! Disse così con la sua arguzia volpina, Antonietta. E ci suonò come un titolo. Un titolo di cui sarebbe stato bello fare un film, un western all’antica, fatto di facce e paesaggi muti, parlato in dialetto calitrano stretto, ma coi sottotitoli in inglese. Che poi, più che un western, sarebbe stato un «estern», che sono contrade queste su cui spira il vento dei Balcani più che quello d’America. Come in quel western fallimentare di Milčo Mančevski, Dust, girato nella Macedonia di Prima della pioggia.

Di tutta questa celluloide sapeva quel paesaggio dal cielo sempre fuggente e mutevole, in cui mandrie di nuvole di animali immaginari pascolano veloci. Branchi nell’azzurro che in un attimo può volgere al nero e portare via tutto nella tempesta livida e nei molinelli d’aria che si alzano da terra, di fronte ai quali bisogna sempre sputare, che è possibile siano anime di morti senza pace che non trovano riposo e poi si buttano in corpo al primo che passa. 

Ecco, quei cieli in cui la luce cambia ogni momento, quei paesaggi che passano dalla quercia al roveto, alla steppa, dalla ginestra al calanco argilloso, dal crepaccio al declivio delle coste granose in cui la bestia nel grano corre nel vento, nascosta tra le messi nella stagione del raccolto; in quei paesaggi, che scene si possono animare, quali nuvole spandere, quali idee e quali pensieri? 

Perché il vuoto dà spazio per prendere il volo e si diventa poi metafisici e allora vale tutto. L’antropologia si mescola con la politica, la gastronomia, la filosofia, il cinema, la religione, il gesto artistico, il «cunto» e la poesia e la musica.

«Sì, ma quali musiche si possono alzare da questa terra insieme alla polvere? Quali frontiere?», ci chiedevamo con Borgnine mentre torcevamo le ruote del postale arando strade sbrecciate per i tornanti che furono di Scatozza – il vecchio e irridente domatore di camion che traghettava vivi, morti e brecciolino tra le draghe dell’Ofanto. Ma poi, perché mettere tutto questo in un film da guardare supini? E se ognuno il film se lo facesse da sé? Con una scenografia del genere basta mettere la musica e ognuno la pellicola se la gira per conto suo. La trama la dettano gli incontri e per ognuno andrà come è destino che vada.

E così, come in un lungo fotogramma, ci vennero incontro davanti al vetro anteriore del postale, le immagini di una panoramica srotolata lungo gli anni a venire. 

Apparvero le vecchie sale da veglioni, le «case dell’Eco», dove i paesani ballano fino a «sponzare», e poi i binari della ferrovia che corre lungo il fiume tra i ponti di ferro e bulloni. Le stazioni abbandonate, gli scali, gli scambi e la ruggine. E poi il treno che riappare su quei binari come un miracolo e i cavalli e gli asini e i muli e le notti di luna e il «mululare» del lupo. E i paesi aggrappati ai picchi come costellazioni. La cometa al rovescio di Cairano, «il paese dei coppoloni», e il Formicoso battuto dai venti e il monte Airola di Andretta, e l’episcopio dei «santandriani scorciacani» e il grande scalo abbandonato sotto le rovine di Conza. L’alta rocca dei morresi, i querceti e i pascoli del «casone dei briganti», dove i seguaci di Carmine Crocco arroccavano, e il «sierro» di San Zaccaria dove è sepolto il tesoro di quei briganti. Il casello abbandonato di San Tommaso sull’Ofanto, l’Aufidus tauriforme di Orazio che sorge da Torella, il paese di Sergio Leone, e va a finire a Barletta, davanti al Bar Conchiglia di Peppe Leone! 

E poi ancora le rovine a cielo aperto dell’abbazia del Goleto, il castello di Bisaccia, la gentile, che vigilia sulla discesa daunia, verso est. 

E da est vedere arrivare la luce dell’alba. E con quale musica fare risuonare quell’alba?

La musica che viene dai Balcani, assieme al sorgere del sole. La fanfara che saluta e fa a pezzi il mattino. 

E poi e poi… quali altre musiche? 

La musica ballabile che fa alzare la polvere. La tarantella, il «bottaculo» e il «luquarè», gli strumenti in disarmo di quei balli ripristinati dai banditi della Banda della Posta, che languidamente trillano i mandolini davanti all’ufficio postale dove fanno la guardia alla pensione. 

E poi la musica tex-mex, l’Arizona, la frontiera, l’atlante subsahariano, il rebetiko e le madinades cretesi, il kasapico e il sirtò. La zampogna, il tamburo, la tammorra e il tamburello. L’ipnosi della trance da Antonio Infantino ad Alfio Antico, e poi il twist cromato dei figli di Celentano e le voci di donne che cantano a sonetto e scacciano il demone meridiano. E poi i mariachi con gli ampi sombreri e le medaglie sulla costa dei calzoni, e i suonatori zingari che le medaglie le vogliono in banconote appiccicate sul petto e tra i pistoni e le corde degli strumenti. Il canto a tenore di Ciccillo che risuona tra la selva e le acque, alla conquista dell’inutile come in Fitzcarraldo, portando l’aria d’opera nelle sale abbandonate e nei fiumi intossicati. 

E le serenate e le lamentazioni funebri, e il canto delle prefiche, e quello del raccolto. E il canto da simposio delle «cumversazioni», che a Calitri fa risuonare le grotte del paese «sottaterra»; e poi la musica suonata e cantata nella barberia del gran sacerdote Giovanni Sicuranza e l’organetto quattro bassi che fa alzare la polvere e unire le voci, e l’acre violino di Matalena. Gli spettri sonori e le voci dei fantasmi del «sentiero della Cupa» e le ninne nanne delle sue creature. Tutte insieme risuonavano. 

Ed ecco, come in una visione, l’eco di queste musiche percorse valloni, cime di monti, letti di fiumi, binari abbandonati, grotte e case di paesi vuoti, cieli, albe e selve. 

Come «li pacci» andava per pozzacchi, laghi e roveti, e tutti rendeva «pacci»…

Davanti a noi, davanti al gran vetro del postale, vedevamo quelle strade deserte affollarsi. Torme di genti accorrevano, andavano a sperdersi, intente a cercare luoghi introvabili, non segnati sulle cartine, in corsa con orari non segnati sull’orologio. Accorrevano per quei tornanti alla fine di agosto. Abbandonavano la certezza dell’autostrada e della statale e si gettavano fuori campo, nella mischia, a quadriglie, a cinquiglie verso «l’incontrè», fino a cadere tutti sponzati… «Sponzati» come il baccalà. 

E questa pellicola che ognuno si sarebbe girata a piacere, sui titoli di testa del vetro del postale illuminato dalle luci di una catena di lampadine colorate, aveva per titolo Sponz Fest.

ARTICOLO n. 72 / 2023

IO E GIULIA, DUE CORPI RIBELLI

Pubblichiamo in anteprima la prefazione a Corpi ribelli (Sperling & Kupfer) a cura di Giulia Paganelli. Ringraziamo Pietro Turano e l’editore per la disponibilità.

Io e Giulia, l’autrice che ha curato questo volume, ci siamo vistə di persona tre volte in tutto, forse due, e abbiamo fatto lunghe telefonate non tanto spesso. Se c’è una cosa però che ho imparato in dieci anni di attivismo è che i corpi dissidenti, non conformi, ribelli, si riconoscono. Ma non basta indossarne uno per riconoscersi, serve anche averne una certa consapevolezza.

Mi spiego meglio: forse sembra controintuitivo, ma spesso – e per tantə di noi è stato così per lungo tempo – non ci si accorge fino in fondo di indossare il corpo che si indossa, o si rifiuta, si nega, oppure si indossano le divise di altrə illudendosi che prendendo le loro parti non saremo oggetto di oppressione. Nei campi di sterminio nazisti alcuni omosessuali, identificati con un triangolo rosa, facevano di tutto pur di avere la stella gialla degli ebrei al posto di quel triangolo rosa. Lo racconta bene Martin Sherman nell’opera teatrale – poi anche cinematografica – Bent. Max e Horst sono due ragazzi omosessuali, ma mentre Horst porta un triangolo rosa cucito sul petto, Max è riuscito ad avere una stella gialla. 

Horst: Come hai fatto ad avere la stella gialla? Max: Sono ebreo.
Horst: Non sei ebreo, sei frocio. (Silenzio.) Max: Non lo volevo. 

Horst: Cosa?
Max: Il triangolo rosa.
Horst: Ah, non lo volevi!…
Max: Sei stato tu a dirmi che era il peggiore.
Horst: Sì, qui sì.
Max: E allora non lo volevo. 

In un momento di intimità fra i due, Max racconta a Horst che i nazisti, prima di consegnargli la stella, hanno voluto la dimostrazione che lui non fosse una checca, costringendolo a penetrare il cadavere di una bambina davanti a loro. 

Max: «Non sono checca.» E loro ridevano. «Datemi una stella gialla.» E loro hanno detto: «Ma certo, facciamolo ebreo. Non è checca». E ridevano. Si divertivano. Ma… io… ho avuto… la mia stella… 

Quello del campo di sterminio è sicuramente un esempio esagerato, ma il processo psicologico che spinge Max a fare di tutto per non passare per «frocio» è simile a quello che si verifica in tante persone, vittime di stigmatizzazione e marginalizzazione per via del loro aspetto, del loro comportamento, delle loro scelte. Penso alle persone LGBTQIA+ contrarie alle manifestazioni del Pride per esempio, ma anche alle persone nere che assumono comportamenti razzisti verso altrə e via discorrendo. In sostanza, il proprio percorso di emancipazione, affermazione, autodeterminazione è faticoso e, a volte, proprio chi subisce una discriminazione cade nel tranello del potere, assecondando o riproducendo gli schemi di cui è vittima, nella speranza di poter essere risparmiatə. Tutto questo per dire che non basta avere un corpo non conforme per comprenderne il peso culturale e renderlo ribelle. Ma se due corpi ribelli si incontrano, si riconoscono.

Quando ho sentito parlare Giulia per la prima volta e poi abbiamo cenato insieme, mi è parso in un certo senso di averla conosciuta molto tempo prima, quando eravamo chiusə ognunə nella propria cameretta e credevamo di essere solə, ma non lo eravamo. Giulia, io e un numero enorme di altri corpi eravamo insieme, connessə, a guardare in silenzio la stessa Luna. 

Due corpi ribelli che si incontrano sanno di condividere molte cose: la stessa esperienza di solitudine, di vergogna e poi di orgoglio. Nel libro Gay Bar, Jeremy Atherton Lin scrive: «Comunità è una parola che sentiamo ripetere di continuo. Spesso suona più che altro come un desiderio». Forse ha ragione, ma allora aveva ragione anche Luca Guadagnino quando, durante la conferenza stampa di Chiamami col tuo nome a Roma, rispose a una domanda dicendo che «l’utopia è la pratica del possibile, quindi quello che ho mostrato esiste eccome». Forse quella che potremmo chiamare comunità dei corpi ribelli è solo il desiderio di una comunità di corpi ribelli, ma se possiamo desiderarla allora significa che esiste davvero, ed è fondata sulle nostre ferite, cicatrici, mutilazioni, singhiozzi, nascondimenti e fughe. Siamo i figli e le figlie della notte, siamo stelle, e se le nostre storie possono provare a nascondere tutto questo, i nostri corpi no.

Il corpo è un fatto, innegabile e determinante. Determina uno spazio ed è manifesto, nel senso che ci permette la manifestazione, ma anche nel senso che si fa manifesto di ciò che scegliamo di esprimere attraverso di lui. Proprio per la sua natura fattuale e determinante, è il mezzo che ci muove nel mondo e ci impone al mondo per quello che siamo, senza possibilità di negazione. Per le stesse ragioni, però, è anche oggetto di predeterminazione, attraverso la quale il mondo ci ricorda quali siano gli standard a cui dobbiamo ambire e tendere, quali siano i corpi validi e anche cosa è necessario che questi rappresentino. Di sovradeterminazione, per cui noi e i nostri ruoli veniamo definiti attraverso la percezione altrui del nostro corpo. Poi, esiste lo strumento dell’autodeterminazione, attraverso cui possiamo rivendicare la nostra identità e il nostro corpo in quanto soggetti politici. 

Perché in un mondo in cui predeterminazione e sovradeterminazione producono una narrazione falsata e discriminante, che si esprime sui corpi e verso i corpi di intere costellazioni «minori», noi possiamo scegliere se utilizzare il nostro corpo come strumento politico o meno, ma non possiamo scegliere se sia politico o meno: volenti o nolenti lo è già, e autodeterminarsi attraverso questo è altrettanto politico e addirittura rivoluzionario. 

Il corpo è anche l’unica cosa che ci appartiene, insieme al tempo presente. La cultura dominante vuole che il potere si conservi e consumi sui corpi-campi di battaglia, promettendo salvezza in cambio del sacrificio dei nostri fratelli e sorelle non conformi. Sotto i nostri occhi accade il controllo sistematico dei corpi e ci viene venduta la possibilità di essere sentinelle armate del sistema. Per la salvezza ci viene venduta anche un’altra cosa che non può appartenerci: il tempo futuro. Se farai questo potrai salvarti, se comprerai questo diventerai chi vuoi essere, se ti reprimi o rinneghi potrai camuffarti sempre meglio.

Gli standard normativi non sono altro che ex voto e indulgenze di fumo sul mercato capitalista e patriarcale, promesse bugiarde e irraggiungibili, funzionali affinché il sistema non venga attaccato e possa conservare il proprio potere, mentre chi non lo ha si fa la guerra per averne un pezzo (a discapito di qualcun altrə). Siccome il corpo è un fatto innegabile, la cultura dominante usa tutti gli strumenti a sua disposizione per educare fin da subito alla normatività e per invisibilizzare ciò che non è conforme. Siccome il corpo è un fatto, quando un corpo non conforme è visibile, va stigmatizzato. Siccome il corpo è un fatto e i corpi ribelli sono manifestazioni materiali di un’alternativa alla cultura dominante, vanno anche delegittimati, perché la loro parola è pericolosa. Luca Starita scrive in Pensiero stupendo

In italiano, la parola «pericolo» è sempre associata a qualcosa di negativo, qualcosa che può risultare nocivo per qualcuno o qualcosa. In realtà, «pericolo» rimanda al latino periculum perior e al verbo greco peirao, che significano «tentare», «provare», «rischiare». In italiano quindi abbiamo nel tempo legato un’accezione più negativa a un termine che di per sé è legato all’idea del cambiamento, del rischio inteso come mobilità e non associato a un senso di impotenza di fronte a esso. 

Siamo dunque corpi ribelli e pericolosi, perché impariamo a muoverci nell’oscurità fra tutto ciò che è stato chiuso nella cantina del mondo; a forza di sfregarci le mani sul corpo abbiamo imparato a farci fuoco e brillare della nostra stessa luce.

Libri come questo, di saggistica divulgativa e partecipata, sono frammenti di luce che proviamo a gettare nel buio. Qui troverete storie di corpi ribelli, alcuni, non tutti, perché ogni corpo è diverso e ogni ribellione è un’esperienza soggettiva, anche se tutte, più di quanto pensiamo, si richiamano. Ogni corpo porta pelli, ferite, sembianze, luci e ombre, lacrime diverse. Vive esigenze, paure, limiti, ambizioni diverse. Per questo a volte i corpi ribelli vengono invisibilizzati, altre vorrebbero essere invisibili, a volte ricordano tutto, altre praticano la dimenticanza. Ogni corpo ribelle si fa manifesto ma non è davvero un manifesto, è soprattutto un corpo, umano, vivo.

ARTICOLO n. 71 / 2023

BOMBAY BEACH HA TROVATO ME

Intervista di Giancarlo Livano D’Arcangelo

Last Stop Before Chocolate Mountain di Susanna Della Sala ha vinto numerosi premi al Festival dei Popoli, ha sfiorato la finalissima ai David di Donatello per il miglior documentario ed è entrato in selezione al Festival di Locarno. Il film racconta la comunità che vive ancora a Bombay Beach, un tempo località balneare tra le più ambite in California, poi caduta in disgrazia a causa di un disastro ambientale. Dove un tempo vi era una ricca economia basata sul turismo di massa, oggi c’è l’ultimo rifugio per reietti e inclassificabili del nostro tempo: c’è chi ha perso un figlio, chi faceva parte di una grande famiglia decaduta, chi deve dimenticare un passato difficile, chi cercava Dio e non l’ha trovato. Cosa portano alla fine della strada donne e uomini in fuga da sé stessi e dal mondo? Con Susanna Della Sala, abbiamo parlato di cinema e realtà, di fughe e ritorni, di frontiere e di baricentri.

Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Susanna, in Last Stop Before Chocolate Mountain racconti una comunità di frontiera, in cui la frontiera è in tutta evidenza non solo un luogo fisico ma soprattutto una condizione dell’anima. È Bombay Beach la metafora perfetta di questa condizione umana di confinamento per i sognatori, per gli “sconfitti” e gli inclassificabili in questo tempo?

Susanna Della Sala: lo è per tutti, non solo gli sconfitti e gli outsider. Anzi, Last Stop non è una storia di sconfitti. La chiamano la cittadina fantasma, eppure questi “fantasmi” si sono rivelati di una vitalità mai incontrata prima, spinti dalla voglia di ricostruire, di creare, di collaborare, di comunicare. Bombay Beach per me non è un luogo fisico in un determinato contesto, rappresenta più un luogo metaforico che racchiude l’esigenza di tutti noi di sentirci parte di qualcosa, di sentirci accettati, di poter ricostruire partendo dalle rovine del nostro passato. È la frontiera della libertà.

G.L.D. Ecco, capisco ancora meglio come mai dal tuo racconto emerge in modo evidente il profondo legame emotivo che hai provato con la gente di Bombay Beach. In un documentario che punta a raccontare l’umanità, l’amore per il proprio oggetto di indagine mi sembra una componente decisiva. Lo hai portato con te dall’Italia o l’hai trovato lì?

S.D.S. Tutti i miei progetti partono sempre da un innamoramento, che sia per un personaggio, una storia, un luogo, un oggetto. Mi sono innamorata di queste persone che sono state per me come dei maestri di vita. Mi hanno insegnato che la vera meta è il modo di vedere le cose. Come si dice: “guardare è facile, vedere è un’arte”. Ecco, questa frase riassume forse il vero tentativo di questo film.  

G.L.D. Qualcuno potrebbe dirti, o forse te l’hanno già detto: l’Italia è un paese denso di storie incredibili, una spirale in cui il ribaltamento del senso è una costante quotidiana. Perché scegliere una storia lontana migliaia di chilometri per esordire alla regia? 

S.D.S. Quanto lontano siamo disposti ad andare per poter trovare un senso di appartenenza, relazioni umane autentiche e la libertà di essere noi stessi? Ai confini del mondo. Non importa il luogo fisico ma come dicevamo prima conta quella sensazione di innamoramento. Ho scoperto questo posto tramite un incontro casuale con uno degli abitanti, posso dire che sia stata fortuna. Anzi, penso che tra simili a un certo punto ci si incontri e Bombay Beach ha trovato me. Non ho scelto un luogo e una storia a tavolino, ma ho drizzato le antenne e quando mi si è palesata questa opportunità l’ho colta, senza dare spazio alla paura. Fare questo film è stata una necessità più che un obbiettivo lavorativo.

G.L.D. È molto stimolante se le due cose coincidono…

S.D.S. Sì, questo luogo si è rivelato “il luogo” per eccellenza che da sempre volevo raccontare, proprio perché è universale. Bombay Beach racchiude tutte le contraddizioni e gli errori dell’essere umano – nel disastro ambientale, nel progetto imprenditoriale fallimentare, in tutte quelle categorie di persone abbandonate a loro stesse – ma è anche un esempio della capacità trasformativa dell’uomo, grazie a un’innata linfa vitale e creativa. E così ci insegna che anche da un terreno arido può fiorire qualcosa e quel qualcosa è spesso indistruttibile. Bombay Beach è un luogo che costringe a fare i conti con noi stessi, ci riporta al nostro passato e ci mette davanti alle nostre responsabilità: non solo di abitanti della Terra (e in quanto tali responsabili del nostro pianeta), ma anche alle responsabilità che abbiamo come genitori, figli, donne e uomini, verso i nostri legami e il nostro futuro. 

G.L.D. Come hai scelto i personaggi a cui dare voce? E come hai conquistato la loro fiducia?

S.D.S. Sono arrivata a Bombay Beach senza richieste e senza pretese, ho vissuto lì per nove mesi e ho finito per farmi un posto all’interno di questa comunità. Lentamente si è creato un rapporto di amicizia molto profondo e di rispetto reciproco. Ancora oggi ci sentiamo di più che con molti miei amici in Italia. 

G.L.D. Immagino non sia stato semplice…

S.D.S. Certo è stato difficile, le persone erano inizialmente impaurite e distanti soprattutto a causa di alcuni film precedenti finiti sul web. Non vogliamo il porno-povertà“, mi dicevano. Non sono stata io a scegliere i personaggi, ma sono stati loro a scegliere me. Io ero lì, con il mio terzo occhio, pronta ad ascoltare. Chi ha voluto mi ha cercato, spinto dall’esigenza di raccontare la propria storia, a volte per esorcizzare i propri traumi e a volte come modo per stare assieme e comunicare. In questo senso il film è nato in maniera spontanea e collettiva proprio come sono nate le innumerevoli opere d’arte di chi popola Bombay Beach. 

G.L.D. Hai un metodo prestabilito per rappresentare ciò che accade sotto il tuo sguardo?

S.D.S. Il mio metodo di approccio a questo film è stato quello di lasciare libertà e quello di non imporre il mio sguardo, la macchina da ripresa o un linguaggio definito che secondo me alla lunga sarebbe stato limitante. Nel film vediamo i personaggi rivolgersi alla camera o in momenti di vita osservazionali o in interviste più classiche. Bombay Beach è un luogo libero e stravagante, non potevo incatenarlo in un linguaggio unico prestabilito e formale.

G.L.D. Cos’è per te il cinema, cos’è il documentario, cos’è la finzione cinematografica. A Bombay Beach i tuoi protagonisti sembrano cercare un nuovo film da vivere nella propria realtà. 

S.D.S. Per me non c’è differenza tra il genere e il mezzo, che può essere quello filmico, fotografico, pittorico o performativo. Per me il mezzo artistico è una ricerca, una lente di ingrandimento sulla realtà, una riflessione collettiva. 

G.L.D. Io credo che una delle funzioni del documentario, a prescindere naturalmente dagli obiettivi estetici, sia la conservazione della memoria. Noi siamo abituati a dare alla memoria un alto valore morale, se non addirittura proprietà taumaturgiche e pedagogiche, ma è sempre così? Nella comunità di Bombay Beach c’è qualcuno che ha mostrato invece una gran voglia di non guardarsi indietro e rimuovere il passato?

S.D.S. Nel film uno dei protagonisti, Tao Ruspoli, ci racconta di aver sognato di uccidere il proprio padre (il principe Italiano Dado Ruspoli). Nel raccontarglielo la mattina seguente il padre risponde: “Ma è fantastico! Tutti dovremmo uccidere i nostri padri! La razza umana è spinta dal progresso, dallo scandalo, dal superamento e da una crescita costante, e non da un rapporto bigotto con il passato”. Questo è un aspetto che ci differenzia profondamente dagli americani. In Italia c’è più resistenza alle innovazioni o a qualsiasi iniziativa che susciti un cambiamento. Siamo un popolo di conservatori con un istintivo rifiuto delle novità forse proprio perché subiamo molto il peso della storia e della tradizione. Anche se pensiamo di contemplarlo con ammirazione ne siamo forse in soggezione e rischiamo di chinare la testa. La storia può essere positiva a patto che sia al servizio della vita e non viceversa. L’eccesso di storia può indebolire la forza creatrice dell’essere umano ed è questo che mi hanno insegnato a Bombay Beach. Le rovine si possono ricostruire.

G.L.D. Mi ha colpito molto, il tuo film, e il merito è della tua regia che rende molto bene e poeticamente questa condizione, il ribaltamento tra giorno e notte che sembra regolare i ritmi di vita a Bombay Beach: il giorno è il momento dei ritmi lenti, della riflessione, della pausa. La notte è il momento della vita mondana, delle danze e della vitalità.

S.D.S. Si. La notte, oltre a essere il momento più vitale della vita a Bombay Beach, è anche simbolicamente un momento di trasformazione. Di notte ci si perde e rimangono le stelle, il fuoco, i suoni, il sonno e quindi il sogno. Ho cercato di sottolineare l’aspetto onirico che ci porta su altre frequenze emotive. Ci sono degli aspetti del reale che sono nascosti, legati alla sfera emotiva del luogo e delle persone ma che per me esistono, fanno parte della realtà anche se poco tangibili. È stato proprio questo che ho cercato di indagare. Quelle sensazioni, quella poesia, quella magia e quell’energia propria di quelle persone e del luogo.

G.L.D. La terra che hai raccontato vive nel declino economico dopo un momento di gloria. Un tema, quello del declino, che fa parte del mio bagaglio di scrittore. Quando ho scritto Invisibile è la tua vera patria ciò che mi interessava dei grandi poli industriali italiani dismessi era raccontare l’inesorabile indifferenza della storia, la cinica caducità della gloria, e la conseguente invisibilità repentina di ciò che un tempo era sotto il riflettore della ricchezza o della fama. Come hanno vissuto questo trapasso i superstiti della gloria che fu? 

S.D.S. Alcuni abitanti sono rimasti ancorati al ricordo di una Bombay Beach gloriosa e questo li ha immobilizzati in uno stato di malinconia. Immobilizzandoli anche nel provare a migliorare il luogo stesso. Poi sono arrivati gli artisti che per natura provocano, mettono in discussione, distruggono per creare. Questo ha aiutato quelle persone a immaginarsi un futuro che non ricerca più l’imitazione ma che ricorre a nuove modalità per raggiungere una gloria alternativa. 

G.L.D. Cos’è per te la montagna di Cioccolato?

S.D.S. La Chocolate Mountain è una meta da raggiungere, una sorta di visione paradisiaca che è un miraggio, ma che allo stesso tempo funziona da guida. Quindi – Last Stop – prima della montagna di cioccolato è l’ultima fermata in una terra di passaggio dove potersi mettere in discussione, dove sperimentare, redimere e redimersi prima della realizzazione finale.

ARTICOLO n. 70 / 2023

HO FATTO AMARE PROCIDA ALLE PERSONE CHE AMAVO

In occasione della pubblicazione del volume Scialoja A-Z (Electa) a cura di Eloisa Morra, in libreria dal 12 settembre, pubblichiamo un inedito di Toti Scialoja. Ringraziamo Eloisa Morra per la disponibilità.

Ho fatto amare Procida alle persone che amavo. A Silvio Radiconcini, a Cesare Brandi. Gli ho detto: Lo sai che c’è un posto meraviglioso nel Golfo di Napoli. Divenne un procidano convinto, un procidano fanatico. Un altro appassionato di Procida era un architetto che stava dove avevano stanze e si poteva mangiare; alle Centane, e lui occupava una camera che poi divenne la mia. Andavo sempre lì, vi erano mattonelle incredibili, belle bianche e nere di Vietri. Era Rudovsky, delizioso, un uomo incantevole di uno spirito straordinario, ricordo le mattonelle a forma di piccole mezzelune bianche e nere del primo Ottocento. Poi Elsa Morante. Era un periodo nel quale andavo a Capri a villeggiare; ero molto amico di Moravia e Elsa Morante e le dissi una volta “Ma guarda che Capri è bella, spettacolare, incredibile, al di là di ogni racconto, però c’è un altro posto di sogno molto più segreto, più sottile, più intimo da scoprire, è dolcissimo e se uno lo scopre rimane incantato: si chiama Procida”. Allora lei si incuriosì, prendemmo un battello da Capri a Procida direttamente; un servizio curioso ogni due-tre giorni. Lei già nel porto con la fila di case, quella merlata a destra, restò incantata e scrisse poi un famoso libro: “L’Isola di Arturo”, Procida. Il mio merito è di averle fatto conoscere Procida. Così a tutti i miei amici pittori, a Afro che addirittura si appassionò a Procida e andava a lavorare lì tutte le estati; prese in affitto una grande casa, non ricordo bene il luogo, una grande casa con terrazzo e fece lì il suo studio. Un pittore italoamericano allora molto conosciuto; adesso un pochino dimenticato: Corrado Marcarelli. Cy Twombly, il famoso pittore americano che viveva a Roma; lo accompagnai a Procida e lui si innamorò di Procida in modo incredibile e andò a vivere in una casa piccola piccola nella baia di Solchiaro e la sua mercantessa venne da lui chiamata da New York e visse per qualche giorno su una specie di cupola di sassi, un frantoio per l’olio, per frantumarlo e conservarlo; con una sola apertura, anche finestra. Fece una festa; siccome i sassi erano irregolari all’interno, mise molte candele accese sulle mensole e ideò lo spazio per la festa. Cy Twombly disse all’affittuario: “Ma qui non c’è un gabinetto”. “Guardi le ho preparato il gabinetto: ho scavato una grande fossa nel campo. C’è una pala e tutta la terra messa a montarozzo; lei fa i suoi bisogni, prende un’altra palettata di terra, in modo che a fine villeggiatura è tutto palettato e concimato”. Questo faceva ridere Cy Twombly. Portai a Procida più volte anche Achille Perilli, Novelli, i miei allievi, Carlo Battaglia, il quale divenne un pittore abbastanza conosciuto. Poi il grande pittore americano Phil Guston con la figlia e la moglie. Mario Mafai entusiasta; stavamo in barca insieme sotto Vivara: “eh caro Toti lo so tu sei giovane, ricordati che fino ai quarant’anni il pittore se la cava bene perché c’è l’istintaccio, ma dopo i quaranta è difficile”; disse questa frase molto commovente; detta questa frase memorabile si mise sulla prua e si tuffò in acqua.  

ARTICOLO n. 69 / 2023

PICCOLE FRAGILITÀ QUOTIDIANE

La temperatura dell'estate

L’uomo aveva passato l’estate nella casa al mare. Quando l’aveva comprata, tre anni prima, non avrebbe mai immaginato di godersi così tanto il suo nuovo bene immobile, settanta metri quadrati disposti al piano terra, oltre al giardinetto. Dall’inizio dell’estate era rimasto quasi sempre steso su un lettino che pareva prelevato da uno stabilimento balneare frequentato da vip. Il lettino era in un angolo del giardinetto, accanto alla rete di recinzione che divideva la proprietà dell’uomo da una delle proprietà confinanti. L’immobile era all’interno di un residence edificato nella seconda metà degli anni Settanta, dieci anni prima che l’uomo nascesse. Il residence era costituito da una serie di villette bifamiliari, che contenevano appartamenti al piano terra e al primo piano, cosicché poteva capitare – e nel caso dell’uomo era accaduto – che un giardinetto fosse al centro degli sguardi di altre quattro proprietà confinanti. Il giardinetto dell’uomo era il cuore di questa porzione di residence.

L’uomo aveva acquistato un ombrellone a palo decentrato, il palo in alluminio grigio sormontato dal telo in poliestere bianco, che durante i pomeriggi assolati irradiava una luce abbagliante verso l’aria ferma attraversata soltanto da moschini e zanzare; ecco la prova che le indicazioni del libretto di istruzioni – trattamento di protezione anti UV – erano vere, il telo attirava tutta la luce disponibile che rimbalzava via, il telo proteggeva l’uomo, scacciava altrove calura e raggi ultravioletti, mitigando la temperatura percepita. 

Il braccio laterale permetteva di inclinare l’ombrellone in rapporto alla posizione del sole, assicurando l’ombra e un po’ di frescura anche nelle giornate più torride. 

Bastava che l’uomo si alzasse dal lettino per girare la manovella, e quei giri di manovella, giorno dopo giorno, avevano segnato l’estate come il sottofondo di un motivetto orecchiabile, e la luce era mutata con il passare delle settimane e in particolare all’inizio di settembre, quando il buio aveva conquistato tre o quattro minuti di ogni giornata, occupazione sottolineata dal cigolio della manovella, segnale della fine di stagione.

E tuttavia la temperatura, anche a settembre, rimaneva al di sopra della media; il prato artificiale del giardinetto – in polietilene e polipropilene – scottava le piante dei piedi, l’uomo passava il tempo sdraiato sul lettino o seduto all’ombra, su una delle due sedie in teak, i piedi appoggiati al tavolino abbinato, lo smartphone tra le mani, la testa china verso il piccolo schermo. Forse l’uomo sentiva la mancanza della moglie, una coetanea con la quale si era sposato una decina di anni prima; dal loro matrimonio erano nate due bambine, una di dieci anni e l’altra di dieci mesi. 

A settembre, la moglie e le figlie erano ritornate in città, ma durante i tre mesi precedenti la donna era andata in spiaggia assieme alle bambine. L’uomo invece non era mai andato in spiaggia, era rimasto nel suo solito spazio ricavato in un angolo del giardinetto, e nessuna delle figlie si era chiesta come mai il padre non andasse in spiaggia, nemmeno la più piccola aveva ripetuto, pa-pa, allungando le braccia verso l’oggetto del suo amore. 

I giorni settembrini erano passati senza le discussioni dei mesi precedenti, discussioni che l’uomo aveva sostenuto con la moglie stremata dalla sua presenza continua nel giardinetto. I litigi avvenivano sulla soglia tra il giardinetto e i settanta metri quadrati, in corrispondenza dello stipite della portafinestra che metteva in comunicazione il soggiorno con il giardinetto; quel punto della casa, osservato dalla finestra di uno dei vicini, era coperto dalla presenza di due albicocchi, che con le loro foglie occultavano l’origine delle discussioni coniugali, come se il tono sempre più alto delle voci, le accuse reciproche, gli insulti, le bestemmie – ripetute per lo più dalla donna, e non dall’uomo – fossero un elemento naturale, il frutto generato da quello stesso venticello che smuoveva le foglie verdi in accordo alle parole, prima della caduta autunnale. 

Ma nonostante fosse settembre, l’autunno pareva ancora lontanissimo, l’uomo si distendeva sul lettino, alternando la visione dello smartphone a una consultazione molto accurata, un’ispezione, del proprio corpo, quasi che il corpo osservato non fosse del tutto suo: il corpo tatuato sulle braccia, sulle gambe, e forse anche in corrispondenza delle caviglie; si scrive forse poiché, osservato dalla finestra di uno dei vicini, erano visibili soltanto il volto, il busto, le gambe fino alle tibie; i malleoli e i piedi erano preclusi allo sguardo. 

L’uomo si difendeva dalla luce con i Rayban da aviatore, la montatura dorata, le lenti blu, che a seconda della torsione della testa ricordavano il mare calmo e cristallino di un dépliant pubblicitario, o l’imbrunimento pomeridiano reale, tipico dell’alto Adriatico.

Il taglio di capelli era simile a quello di molti calciatori: corti, ma non troppo, sulla parte superiore della testa; sfumati sulle tempie e sulla nuca. Un taglio banale ma molto curato, incongruo per un uomo che, all’apparenza, era rimasto chiuso in casa almeno tre mesi. Forse l’uomo aveva ricevuto a domicilio un parrucchiere, che gli aveva sistemato i capelli in soggiorno. 

A settembre, rimasto solo nel vuoto ancora assolato, forse l’uomo sentiva la mancanza della famiglia: dal lettino non vedeva più la figlia maggiore, non vedeva la moglie girare attorno al perimetro del giardinetto spruzzando, con la piccola in braccio, insetticida contro le reti e le siepi divisorie, mentre la bambina indirizzava la mano verso il getto di veleno, credendo fosse un gioco. 

Forse l’uomo sentiva la mancanza delle bestemmie coniugali, la pienezza delle urla domestiche. Quando litigavano, l’accento di entrambi era un miscuglio di Nord e Sud, ma, a seconda dei picchi di intensità, una delle due zone geografiche prendeva il sopravvento; lei, in particolare, aveva un accento bolognese, eppure nell’incrinatura della voce, durante i litigi, rivelava un’inflessione segreta, custodita dentro di sé: un Sud generico, televisivo, blasfemo, le due inflessioni trovavano l’equilibrio perfetto soltanto quando la donna bestemmiava; ecco che allora, il suo banale e personalissimo dio porco, il suo banale e personalissimo dio cane, il suo ancor più banale e personalissimo e sostitutivo dio canta, non erano più davvero soltanto suoi: erano l’Italia, la nazione.

In una calda serata di metà settembre, l’uomo era rimasto da solo al buio, nel giardinetto a stento illuminato dalla luce gialla di una lampada. Oltre alla moglie e ai figli, tutti gli altri villeggianti avevano lasciato il residence. O almeno, così credeva l’uomo, sprofondato nella sedia in teak. Aveva scritto una serie di messaggi, poi era andato in bagno, aveva aperto il rubinetto dell’acqua e composto un numero di telefono azionando il vivavoce, tanto che il pigiare sui numeri si era avvertito in tutta la porzione del residence, così come la voce della moglie. All’inizio la voce non era sembrata proprio quella della moglie, e non soltanto a causa della differente percezione tra una voce ascoltata dal vivo e una voce ascoltata tramite un apparecchio che, grazie alle finestre spalancate a causa del caldo anomalo, rimbombava ogni sillaba, provocando la leggera distorsione rispetto all’originale; la voce della moglie era sembrata diversa anche a causa del tono; la conversazione, infatti, era molto affettuosa, intervallata da continui amò, ripetuti sia da lei sia da lui; quelle loro schermaglie amorevoli erano destabilizzanti, sembravano senza lingua, senza città, senza origine, senza destinazione: parole incuneatesi dentro gli apparecchi, al momento della fabbricazione.

L’affetto telefonico si era alternato a consigli pratici e i consigli pratici avevano riportato la coppia nel mondo.L’uomo aveva chiesto alla moglie delucidazioni a proposito della procedura relativa al suo rientro a casa, in città. Aveva ricevuto una lettera grazie alla quale era autorizzato a uscire dalla casa al mare. Era agli arresti domiciliari, portava il braccialetto elettronico alla caviglia.

La conversazione tra i due coniugi era durata ventisette minuti passati dall’uomo sotto la doccia, un getto di cui si era percepito lo scroscio molto forte, che dalla schiena dell’uomo scendeva verso lo scarico, e forse la donna aveva ripetuto più volte le stesse raccomandazioni poiché la conversazione era stata disturbata dall’acqua entrata nelle orecchie dell’uomo, il quale, non è da escluderlo, teneva gli occhi socchiusi o chiusi, quasi per difendersi dalle parole della donna, e dall’acqua. 

Il 10 aprile 2023, Lunedì dell’Angelo, mi è tornata in mente la storia che ho scritto qua sopra. Avevo un dolore molto forte alla caviglia sinistra. Non riuscivo a camminare o ad appoggiare il piede a terra, e anche restando immobile e sdraiato la caviglia era attraversata da una serie di fitte dolorose, sia al malleolo laterale, sia al mediale. Sono rimasto a letto, non riuscivo a leggere, a scrivere, non riuscivo a guardare un film o un po’ di sport. Guardavo il piede adagiato su due cuscini, il gonfiore doloroso, espanso al di là del mio stesso corpo, e allora ho ripensato al braccialetto elettronico dell’uomo. 

Se l’uomo avesse avuto il mio stesso problema fisico, non avrebbe potuto indossare il braccialetto elettronico. La caviglia era così gonfia che il braccialetto elettronico si sarebbe trasformato in una tortura. Forse la pressione tra il gonfiore e la stretta del dispositivo avrebbe spaccato il braccialetto elettronico, trasformando l’uomo in un evaso. Dovevo avere qualche linea di febbre mentre pensavo alla storia dell’uomo, e mi rimbombavano in testa, a distanza di una decina di mesi, le bestemmie della donna, e, soprattutto, il suono dell’acqua, ventisette minuti di doccia durante una calda serata di settembre. Quanti litri d’acqua servono per una doccia di ventisette minuti? Quanti minuti dura la doccia in un carcere? Quale tipo di reato aveva commesso l’uomo? Furto? Truffa? Ricettazione? Spaccio di droga?

Sette giorni dopo il Lunedì dell’Angelo, ho acceso riluttante l’auto per andare al supermercato e ho guidato con più prudenza del solito, rimpiangendo di non avere il cambio automatico. Ogni volta che premevo la frizione, sentivo una fitta al malleolo, come se avessi qualcosa attorno alla caviglia, qualcosa che appesantiva, indolenzendo non solo il malleolo, ma anche tibia e perone; cambiavo marcia e mi ritornava in mente l’uomo agli arresti domiciliari e quello che ripetevo a proposito dello sguardo nella scrittura: ovvero quello che mi capitava da ragazzo, allorquando, dopo una partita amatoriale di basket, sentivo un dolorino al polso, e ogni volta che cambiavo marcia, quel dolorino si trasferiva dal polso allo sguardo, e influenzava il modo in cui fissavo ciò che accadeva al di là del parabrezza, la mia percezione. 

Stavolta l’epicentro del dolorino era in basso, vicino alla frizione, ma non era un dolorino, era un dolore in potenza lancinante, appena sotterraneo, pronto a manifestarsi.

Ho fatto la spesa e all’uscita, mentre spingevo il carrello nel parcheggio, ho sentito una fitta, che mi ha costretto a una smorfia e ad appoggiarmi al carrello. Ho iniziato a zoppicare trascinando il carrello dalle rotelle cigolanti verso l’auto parcheggiata. Ho sollevato lo sguardo e notato che, accanto a un’auto a pochi metri dalla mia, era fermo un cinquantenne, mi fissava molto interessato alla zoppia e alla mia smorfia sofferente. 

Ho ricambiato lo sguardo, sapendo che nel suo interesse non c’era nulla di caritatevole. Mentre caricavo la spesa nel bagagliaio, è arrivato un vigilante del supermercato e l’uomo interessato alla mia zoppia è andato via. Sono uscito dal parcheggio e, sul bordo della strada, c’era l’auto dell’uomo, ferma, i finestrini abbassati. Anch’io ho abbassato i due finestrini, avevo caldo. Al mio passaggio ho sentito un forte botto, tipico dei ladri-truffatori che da anni usano questo metodo in tutta Italia. Di solito lo usano con anziani e anziane, o con persone fragili. A volte funziona. 

Secondo il truffatore, ero una persona fragile. Dopo il botto si è accodato a pochi centimetri, poi si è accostato mentre procedevamo a trenta all’ora, ha urlato insultandomi, accusandomi di essere la causa del botto. 

Gli ho detto, senza urlare e accelerare, senza chiudere il finestrino: non rompere il cazzo. 

E gli ho mostrato il telefono. È schizzato via, veloce, e nella svolta seguente ha messo la freccia per girare a sinistra, e ho resistito alla tentazione di fotografare la sua auto da dietro, la sua freccia ineccepibile e lampeggiante, non volevo distrarmi alla guida utilizzando il telefono. Bene, ho pensato al semaforo successivo, ecco due cittadini modello, questa è educazione stradale. 

Quando sono ripartito, ho premuto il pedale della frizione e sentito riacutizzarsi la fitta alla quale non avevo mai pensato durante quei pochi secondi precedenti.

Quest’anno, l’uomo al mare non è più agli arresti domiciliari. Dal lunedì al venerdì è fuori casa. La prima figlia ha undici anni, la madre la accusa di non prendersi cura della sorellina, le ripete, ha due anni. A volte, ripete, ha due anni, dio cane. 

Un giorno, rivolgendosi alla bambina più piccola, ha detto, hai due anni di merda. 

La madre sembra identica a ciò che era l’anno scorso: magra, tatuata, abbronzata, proprio come il padre. Non ha perso l’abitudine di urlare e bestemmiare circondata da oggetti costosi, ma a differenza dell’anno scorso urla e bestemmia soprattutto dal lunedì al venerdì, quando il marito è assente. Non ha perso nemmeno l’abitudine di spruzzare l’insetticida contro le reti e le siepi divisorie; prende la figlia in braccio, agita prima dell’uso la bomboletta multinsetto, la bomboletta color fucsia adatta a ogni tipo di insetto, volante e strisciante: spruzza, spruzza, spruzza, spruzza, gira lungo il perimetro come le lancette, il meccanismo di un orologio che si prende tutto il tempo per agire meglio, per uccidere meglio. La figlia minore forse ha capito il senso dei gesti materni ma vuole partecipare fingendo che sia un gioco, e in quell’oscillare tra verità e menzogna sta la perdita di innocenza. La madre inclina la bomboletta spray verso il male invisibile. Quando spruzza nell’aria diffonde una piacevole fragranza fresca, tace e ha il volto rasserenato.

Elimina anche gli insetti che non vedi.

Dal giorno del Lunedì dell’Angelo ho smesso di correre, ignoro quale sia la causa del problema e non voglio saperla: posso solo camminare, conscio che il dolore stia sottotraccia, pronto a manifestarsi anche quando non corro. 

Eppure quanta soddisfazione dopo il tentativo di truffa subito fuori dal supermercato: in quei pochi metri alla guida non ho sentito alcun dolore, non ho sentito più niente, non sapevo nemmeno chi fossi e dove mi trovassi. 

Talvolta, a piccole dosi, un po’ di odio fa bene.

ARTICOLO n. 68 / 2023

VIAGGIO SOLA

La temperatura dell'estate

Qui mi piacerebbe abitare, mi dico ogni volta che passo davanti a una di quelle che chiamo le case barbute – sono case ricoperte di rampicanti, edera o vite americana, che d’autunno virano al rosso, in primavera a un verde tanto tenero da esser quasi violento, e d’estate a un buio bluastro, fresco, da giungla disegnata in un libro per bambini. Mi vedo dentro le stanze ombrose di bosco, fra pareti avviluppate di peduncoli tenaci; sogno di galleggiare nell’aria tinta dei riflessi delle fronde, immagino di seguire sul soffitto, nei tardi pomeriggi dorati, i profili tremuli delle foglie. Mi penso felice. Ma se lo dico a voce alta, che mi piacerebbe abitare in una casa barbuta; se lo dico a voce alta, nella fattispecie, a qualcuno, ricevo sempre la stessa risposta: sì, ma ti immagini quanti insetti? Oppure: ma ti immagini l’umidità. O ancora, dai più pragmatici: ma pensa che fatica la manutenzione. Ti ci vorrebbe pure un giardiniere, qualcuno che sappia come si fa; non ci si può mica improvvisare, con un rampicante così, cominciano la concione; e proseguono poi per un bel pezzo a enumerare gli svantaggi di quelle magnifiche palazzine fronzute che ingenuamente avevo eletto a sfondo ideale per un futuro sognato. 

Il bello è che hanno ragione, e io lo so benissimo. D’altronde non penso che mi potrò mai permettere una casa barbuta, e men che meno un giardiniere per la manutenzione. Di fatto, però, quando le repliche realistiche degli altri la riportano a quello che è, ogni fantasticheria si affloscia su sé stessa, si spegne. Torno a quello che stavo facendo, torno a occuparmi di piccole incombenze prosaiche, mi scordo una volta per tutte i glicini e la penombra delle stanze non mi attira più con l’intensità magnetica di poco prima. Tornano in primo piano le preoccupazioni del giorno, le commissioni da sbrigare, il pensiero del lavoro da finire, le consegne. Torno a essere una partita IVA che si arrabatta e non si sogna nemmeno di assumere un giardiniere addetto ai rampicanti.

Per via del lavoro in cui, per l’appunto, giorno dopo giorno mi arrabatto, trascorro in viaggio, e per la precisione in treno, circa due terzi del mio tempo di veglia. Viaggio sola. Mi piace molto, anche se qualche volta mi prende una gran malinconia, nelle piccole stazioni, quelle in cui l’edicola ha chiuso da anni e rimane lì, gabbiotto sbarrato ricoperto di firme, tag, qualche volta una dedica d’amore, un insulto a qualcuno che non conosco e non conoscerò, perché sono sempre di passaggio. Le piccole stazioni, oltre all’edicola, spesso hanno perso anche il bar; qualche volta c’è un distributore di bibite e merendine che si mangia la moneta da un euro e si blocca, oppure una moneta da un euro non ce l’ho e non c’è nessuno a cui chiedere se ha da cambiare.

Qualche volta aspetto una coincidenza che non arriva, il secondo treno è in ritardo; qualche volta la coincidenza l’ho persa, in ritardo era il primo treno e il secondo invece puntualissimo, e ne devo aspettare un altro che pare non arrivare mai. Allora mi prende una punta di tristezza perché penso che nessuno, sulla faccia della terra, può conoscere la noia di aspettare come la conosce chi l’ha provata una, due, tre, quattro volte, nelle stazioncine di provincia, ed è un pensiero che mi consola e mi raggela insieme; il pensiero del tempo perso, dei cumuli di minuti e ore sbocconcellati da quella forma d’attesa dimessa, per cui, anche a spazientirsi, non cambia niente, nella solitudine da eterna domenica pomeriggio delle piccole stazioni. In piedi sulla banchina del binario 2 – il 3 non esiste –  leggi frasi scritte a pennarello dai ragazzi sulle panchine, lei ama lui, lui è bonissimo, quell’altro è un infame, e ti fai domande perfettamente inutili (chissà come si chiama chi ha scritto questa cosa, chissà se l’ha scritto in segreto o per impressionare qualcuno che stava proprio qui, chissà che giorno era, quanti anni sono passati, quanto resiste una scritta a pennarello?), per ingannare il tempo che lì, però, non si lascia ingannare; resiste, ha una consistenza che non si lascia sciogliere nella distrazione. Capita che passi un merci sferragliando, fa un gran baccano e il sussulto ti fa guadagnare un mezzo minuto; poi torni a ripensare al tempo perso.

Dimentico questo sconforto tipicamente ferroviario quando il treno è in movimento. Quando il treno è in movimento non dico a nessuno le cose che penso mentre guardo fuori dal finestrino, dunque nessuno mi può dire che nella casa che ho avvistato in mezzo ai campi, o alla periferia di una città in cui dovremo fermarci, chissà quanti insetti e quanta umidità, e quanta manutenzione ci vuole. E allora, mentre il treno va fisso gli occhi oltre il finestrino; qualche volta c’è il sole, oppure piove. Qualche altra volta il cielo è grigio, o scolora nel crepuscolo, o nell’alba. Sempre, sotto qualsiasi cielo, faccio lo stesso gioco.

Guardo la campagna che fugge fuori dal vetro, e mi dico che non c’è da stupirsi se il cinema è iniziato con il film di un treno che corre; anche da dentro il treno si vede un film. Guardo la campagna e gli alberi, le colline e i fiumi, ma soprattutto le case. Non è facile, perché scappano velocissime; ma fa parte del gioco. Devo cercare di imprimerle nella retina in una frazione di secondo, quel che basta a fantasticare: di abitarle tutte, tutte quelle che sfilano, case coloniche e cascine, ville o palazzotti, qualcuna poco più di un capanno. Guardo i giardini cintati, che per qualche ragione mi fanno tenerezza, soprattutto quando circondano villette isolate; le aie e i pergolati, le piscine, d’estate splendenti di azzurro, d’inverno coperte dai teli. Un cane che salta dietro il cancello, come se potesse inseguire il treno; un altro che saggiamente se ne resta seduto sull’erba, e guarda i vagoni passare, e chissà cosa pensa, se pensa. Allora io, seduta al mio posto, il computer aperto davanti, perché ho del lavoro da sbrigare, perché quel tempo non lo dovrei perdere, e proprio per questo finisco per dissiparlo, mi immagino di scomparire, di inabissarmi come il treno che entra in galleria, e saltar fuori da tutt’altra parte, riemergere in una vita alternativa, fuori dal vagone, in una di quelle case sconosciute.

Quasi la vita fosse – per il tempo della fantasticheria – non una successione di indicativi, in cui si rincorrono a tappe forzate presente futuro e passato, ma un rigoglio di congiuntivi che si corroborano l’un l’altro, come virgulti di un cespuglio esuberante di possibilità. Così finalmente mi sento risarcita dell’avarizia della vita vera, che esige il sacrificio di mille possibili futuri perché possa aver luogo un unico presente. Nella fantasia non è così, e nel giro di qualche ora di viaggio mi ritrovo ad abitare, senza la fatica di un solo trasloco, dieci case diverse, per lo meno. Case che sicuramente hanno i loro problemi, formiche o umidità o manutenzione; se ci fosse il tempo di realizzare la fantasticheria, basterebbe un attimo e me ne accorgerei, dell’attrito della realtà. E allora capisco una cosa, dopo anni di viaggi, di sogni a occhi aperti, di case viste baluginare e un istante dopo ricordate solo con gli occhi della mente, che guarda mattine di primavera sotto quel certo pergolato, a far colazione e veder passare i treni – treni immaginari che non fanno rumore, perché l’immaginazione non ha bisogno di pagare lo scotto al vero, no?, ma che se confidassi la mia chimera a qualcuno, il rumore tornerebbero a farlo: ti immagini che frastuono, a cento metri dalla ferrovia?, mi direbbero, e ancora una volta l’illusione si sgonfierebbe come un soufflé estratto prematuramente dal forno. Capisco che non vorrei vivere davvero in nessun luogo che non sia quello in cui vivo già; e da cui posso permettermi questo gioco, che non serve a niente, non costa niente, non porta a niente, di guardare le case per un istante solo e concedermi di immaginare vite impossibili, senza che nessuno me lo faccia notare. 

ARTICOLO n. 67 / 2023

FARE L’AMORE CON GENTILE IMPRUDENZA

La temperatura dell'estate

C’è un luogo a Barcellona in cui la vecchia muraglia romana incontra i vizi della contemporaneità.
Si trova nel casco antico della città, che in alcuni punti è sopravvissuto quasi intatto al passare del tempo. Proprio lì, incastrata tra minuscoli viottoli maleodoranti e all’apparenza indistinguibili, si nasconde una piazzetta fiocamente illuminata dai lampioni e incorniciata dagli alberi. Noi la chiamiamo “la piazzetta segreta” perché ogni volta ci dimentichiamo – o fingiamo di dimenticarci – come si chiama davvero. Quando ci viene voglia di raggiungerla dobbiamo sempre reimparare il cammino per arrivarci, tiriamo a indovinare, giochiamo a chi la trova per primo. Costeggiamo la cattedrale lasciandoci piazza Jaume I alle spalle, attraversiamo le antiche torri, scendiamo di appena una baixada e poi, puntualmente, ci perdiamo. 

È proprio questo alone di mistero che circonda quel luogo che riempie di incanto ogni nuovo incontro avvenuto nei suoi pochi metri riempiti da tavolini traballanti. La piazzetta segreta è testimone dell’esistenza di molte storie nate a bassa voce. È a lei che gli amanti affidano le loro inconfessabili promesse d’estate, quelle che si fanno sussurrando mentre tutto sembra possibile, quando le antiche mura riparano appena un poco dal caldo torrido e dagli sguardi curiosi dei turisti che affollano il centro città. Qui gli archi gotici diventano portici sotto ai quali nascondersi per scambiarsi baci appassionati. 

È lì, in quella precisa piazzetta, che ho pensato per la prima volta che l’amore assomigliasse alla follia. Come si fa, mi chiedevo osservando gli amanti con occhi avidi, a innamorarsi d’estate quando il caldo soffocante diventa un monito pronto a ricordarci che non esiste futuro? Come si stringe la mano di uno sconosciuto immaginando di poter costruire mentre si ha l’impressione che il mondo intorno vada in fiamme? Quanta speranza è racchiusa all’interno dei fuochi di cuori ignoranti e incuranti di quella che chiamano “l’estate più fresca del resto della tua vita”?


Mentre ci penso sento un tonfo al cuore. La chiamano eco-ansia ed è una sensazione di paura e impotenza che si prova quando ci si sofferma a pensare allo stato di salute del nostro pianeta. L’eco-ansia ha lo stesso rumore dei sogni infranti: è la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla distruzione inesorabile dei nostri ecosistemi nell’era antropocentrica, è il senso di colpa paralizzante che si insinua dentro di noi quando analizziamo il valore delle nostre scelte ecologiste individuali per limitare i danni dell’imminente apocalisse, è la percezione vivida che il mondo, così come l’abbiamo conosciuto, sia destinato alla morte. 

Secondo il filosofo ambientale Glenn Albrech sono sempre di più gli stati psicoterratici negativi che si scatenano in risposta ai cambiamenti di equilibrio tra umanità e ambiente, e la mia generazione purtroppo ne è la principale vittima. Nel 2021, la rivista Environment International pubblicava un articolo scientifico in cui suggeriva una correlazione tra l’aumento delle alte temperature e il deterioramento del benessere psichico umano, riscontrando un’impennata estiva di ricoveri ospedalieri e visite al pronto soccorso per condizioni come ansia, depressione o schizofrenia, così come un picco di suicidi e omicidi. Quest’idea è ben nota anche nel campo della psicologia, che da anni racconta come i periodi di clima caldo siano tendenzialmente caratterizzati da maggiori esplosioni di violenza e rabbia, sia verso sé stessi che verso gli altri. D’estate il nostro battito cardiaco accelera, il nostro respiro si accorcia, e la nostra capacità di gestire gli sbalzi emotivi associati al disagio si abbassa: diventiamo insomma più impulsivi perché troppo concentrati sulla regolazione del nostro corpo. Io stessa, nonostante durante l’inverno desideri ardentemente l’arrivo del caldo e sia disposta a percorrere anche grandi distanze per ritrovarlo, nei mesi estivi mi sento più irascibile, come se insieme alla terra andassi a fuoco anche io. Questa sensazione aumenta progressivamente di anno in anno, creando solchi profondi come calanchi che erodono la mia stabilità mentale e, insieme a lei, la mia illusione di non star sprofondando nella più totale follia. Così l’estate, un tempo simbolo di libertà e infinite possibilità, oggi mi terrorizza.  

Osservando un’altra volta gli amanti della piazzetta segreta ricordo con tenerezza le mie prime estati spagnole, quando il tepore estivo non faceva paura e insieme a lui sopraggiungeva anche l’illusione dell’amore. Lo aspettavamo con ansia a vent’anni, eccitati e avidi di conoscere il mondo e saggiare i limiti della fugace libertà che ci offrivano quei mesi di pausa. Io accoglievo con gioia il caldo asciutto di Madrid che annunciava il suo arrivo con aliti di vento roventi che non spettinavano mai i capelli. Ero spensierata, piena di vita e ottimista, e ai primi canti di rondine diventavo felice. Allora pensavo con ingenuità e un pizzico di presunzione che il cambiamento climatico l’avremmo fermato in tempo, noi della Facoltà di Scienze Politiche di Somosaguas, e in quella credulità di bambina nemmeno l’amore mi incuteva timore, anzi: bramavo di lasciarmi consumare dal desiderio fino a rendermi cenere. 

Ma oggi? Dove resta spazio per l’amore quando tutto sembra essersi perso e l’eco-ansia somiglia più che altro alla resa? Sembra che ormai possiamo affacciarci all’Altro solo in forma mutilata, consci della possibilità che tutto finisca prima ancora di iniziare e che la promessa di passare la vita insieme al proprio essere amato somigli più a una condanna da scontare insieme che a una promessa di futuro. Anche per questo molti dei miei coetanei stanno abbracciando la scelta di non mettere al mondo dei figli al fine di evitar loro la sofferenza che sarebbe vivere in un mondo devastato dall’ebollizione globale. Fare figli è da egoisti, dicono, è inutile esasperare ulteriormente il nostro mondo sovrappopolato con scelte riproduttive irrazionali. È folle sforzarsi di pianificare, edificare e immaginare il domani mentre le nostre certezze sul mondo si sgretolano insieme alle città.   


Eppure, agli amanti della piazzetta tutto questo non sembra interessare. A ben guardarli si direbbe che se ne infischino della paura, della rabbia e dell’odio che gli esplodono intorno, perché la fine del mondo per loro esiste solo nei baci, nei corpi riscaldati, nello sfinimento del desiderio insaziabile. Solo allora mi risuonano in mente le parole di bell hooks nel suo meraviglioso trattato sull’amore e sulla possibilità che esso ci offre per essere catalizzatori del cambiamento.

Nella pratica dell’amore, dice hooks, impariamo a resistere, a prosperare e a guidare in qualsiasi circostanza, e amando cresciamo spiritualmente imparando a immaginarci come parte di un unico organismo con un unico cuore pulsante. Mentre la paura paralizza, l’amore autentico e gentile ci attiva.

Abbracciare un’etica amorosa significa vivere la propria vita prendendosi la responsabilità di qualunque atto, parola e pensiero che formuliamo, senza mai dimenticare l’essenziale interconnessione delle nostre esistenze.Solo comprendendo appieno il significato dell’amore si può davvero metterlo in atto. Esso non include solo l’amore romantico ed erotico, ma anche quello amicale e familiare, così come le spinte amorose ed empatiche che possiamo provare verso uno sconosciuto o qualcuno che appena conosciamo. L’amore in questo senso rappresenta un impegno, un compito, un’abilità da acquisire che richiede determinazione, dedizione e talvolta fatica; tuttavia, esso è l’unica forza politica a cui ancora possiamo affidarci per sperare di salvarci di fronte alle minacce di distruzione e dissoluzione che si prospettano davanti, perché l’amore, e solo l’amore, è ancora in grado di orientare le decisioni collettive sulla base della cura e della creazione attraverso l’incontro con gli altri.

Gli amanti della piazzetta ancora non lo sanno, ma il loro amore che profuma di imprudenza ora si è acceso dei colori della speranza.

Finalmente sorrido.

ARTICOLO n. 66 / 2023

MORIREMO GIOVANI, BRUTTI E GRASSI

La temperatura dell'estate

Per la mia famiglia, andare in vacanza è sempre complesso: nostro figlio Andrea ha paura della spiaggia, non ama la campagna e pur di non camminare farebbe carte false. In più, abbiamo due cani, un gatto e una decina di pesciolini che stranamente sopravvivono malgrado la negligenza un po’ di tutti.

«Cosa possiamo fare quest’estate?», chiedo mentre addentiamo un prosciutto caro come una vacanza ai Caraibi e un melone che non sa di niente. Alex torna a Chicago, dove si è trasferita, e farà dei viaggetti con gli amici. Dopo tutto, ha 24 anni e giustamente si fa i fatti suoi. Vera, che di anni ne ha 16, ci ricorda di aver trovato un lavoretto per l’estate e che ha solo tre giorni di ferie, informazione probabilmente falsa, dettata dalla pochissima voglia di stare con noi. Andrea ascolta per la seicento millesima volta James Taylor.

Per paura che io e Ryan insistiamo per andare in vacanza tutti insieme, i ragazzi lasciano la tavola, dopo aver messo il loro piatto nel lavandino, come se la lavastoviglie fosse lì per bellezza. Ma li capisco: anche a me verrebbe voglia di andarmene in camera. Rimaniamo a tavola io e Ryan, in silenzio, poi mi sento pure dire: «Anche tu, che domande fai? È ovvio che pur di non venire in vacanza con noi e Andrea si arruolerebbero nei Marines…».

Il fatto è che io, Ryan e le ragazze sappiamo bene cosa significa fare un viaggio con Andrea. Essendo lui autistico a basso funzionamento, servono molte precauzioni e anche molta pazienza. Come tutte le persone come lui, la giornata di Andrea è strutturata nei minimi particolari: ogni cambiamento, ogni deviazione dalla sua quotidianità gli procura ansia, panico e terrore, perché non la può controllare. È per questo che anni fa comprammo una casetta in campagna, che Andrea ama: da noi alberghi, viaggi, cambiamenti non sono mai percepiti come una vacanza, ma più come un incubo.

Ma indipendentemente da Andrea, andare in spiaggia negli Stati Uniti di solito è un pacco tremendo. Per una persona come me, di sangue puro mediterraneo, passare anche solo qualche ora su quel mare è un incubo. Manca tutto quello che serve per una vera vacanza balneare, anche scarsa.

Prima di tutto bisogna adeguarsi al colore del mare, l’Atlantico, per me che vivo da questa parte. È marroncino opaco, con molte chiazze verdi o marrone scuro delle alghe, sia quelle vive che quelle in decomposizione, che si legano ai piedi di chi, non so perché, è tentato di fare il bagno. La temperatura dell’acqua atlantica in estate non raggiunge i 20 gradi centigradi: è talmente fredda che in alcune parti della costa è meglio indossare una muta, perché se si passano più di dieci minuti in acqua si muore assiderati. Stesse temperature nell’oceano Pacifico: 20 gradi centigradi ad agosto contro i 26, 27 del Mare Nostrum. Già questi due piccoli dettagli bastano e avanzano per decidere di andare in montagna. L’unica speranza di trovare il mare blu e meno ghiacciato è la Florida, con il suo mare del golfo messicano, ma per molti americani è una meta irraggiungibile, per questioni di soldi e, per alcuni, di politica: Ron DeSantis, il governatore, è quasi peggio di Donald Trump. 

Mettiamo pure che si decida di andare comunque al mare, anche per solo una giornata. Nella maggior parte delle coste americane, non esistono stabilimenti balneari, a parte in alcuni alberghi di gran lusso. Questo significa che alla tipica famiglia americana tocca caricare in macchina ombrellone, sedie, asciugamani, bottiglie d’acqua in grande quantità, panini, frutta e snack da mettere nella borsa freezer portatile, tenda, per ripararsi ulteriormente dal sole cocente, giochi da spiaggia, gonfiabili o no, creme varie, le mute e la speranza che un meteorite si scagli in riva al mare per cambiare programma, anche all’ultimo momento. 

Si riempie la macchina di figli, e del minimo indispensabile per non morire assiderati o cotti dal sole, e si arriva a un parcheggio enorme, mille metri quadrati di cemento armato. Temperatura media: 53 gradi centigradi. Temperatura della sabbia: 95 gradi centigradi. A questo punto tocca scaricare la macchina, facendo avanti indietro trentasei volte tra il parcheggio e il posto scelto in spiaggia. Tempo previsto: mezz’ora. Poi si fissa l’ombrellone nella sabbia, si mettono le vivande all’ombra, si monta la tenda, che dopo quattro minuti massimo raggiunge, all’interno, una temperatura insopportabile. Si suda come delle bestie, sapendo perfettamente che non ci si potrà tuffare per via della temperatura ghiacciata e delle alghe che fanno schifo solo a guardarle.  

A questo punto, i bambini frignano e si spera solo che un gabbiano se li porti via: vogliono subito buttarsi, ma prima bisogna mettere la crema, (“L’hai portata tu la crema? Qui non c’è! Ma è possibile che ti dimentichi sempre tutto?”), bisogna capire come indossare ‘sta muta che ogni volta che la vedo mi sale la pressione (“Ah, mi sono dimenticato le mute in macchina, vado a prenderle!”). Immancabilmente, dopo aver messo la muta, a qualcuno scappa la pipì, ma i bagni, se ci sono, sono a tre chilometri di distanza. In questo esatto istante, uno dei genitori (di solito la mamma) perde il controllo di sé e diventa una belva. Ma tiene duro perché “lo si fa per i bambini”.

La sabbia bollente brucia anche con gli infradito, che si squagliano. Si arriva ai bagni, che sono pubblici e dunque piuttosto schifosi. Tempo previsto tra andata e ritorno: circa 37 minuti sotto un sole che neanche a Riad. Finalmente i bambini entrano in acqua. A questo punto partono quei cinque, sei minuti in cui i genitori bisticciano: “Ma che cazzo siamo venuti qui a fare? Se non possiamo permetterci la Florida, andiamo da un’altra parte, no?” “Ma ai bambini piace…”. “Ma chi se ne frega dei bambini! Ci sono piscine comunali bellissime in tutte le zone della città…”.

Dopo sette minuti nell’acqua schifosa, i bambini pieni di sabbia tornano all’accampamento e hanno fame. “Questo panino non mi piace!” “Perché a lei hai dato quello al prosciutto cotto che era per me?” “Hai portato solo l’acqua? Io volevo il succo…”. L’ombrellone continua a volare via perché spesso noi cittadini non siamo in grado di piantarlo bene. Uno frigna, l’altro ha la sabbia nel costume e si lamenta; la piccola piange perché le è caduto il panino che adesso invece che con il prosciutto è con alghe marce e tanta, tantissima sabbia. 

Una come me, che già si irrita ad andare al mare, anche in Sardegna, perché dopo minuti sette si ustiona, rovinandosi così il resto della vacanza, a questo punto, esausta, versa la prima lacrima. Quando il marito nota lo sfinimento e la frustrazione della moglie, dice la frase più sbagliata, l’ultima goccia che fa traboccare il vaso di una giornata di merda: “Perché non vai in macchina per un po’, così stai tranquilla”. Perché? Perché nella macchina ci sono 297 gradi centigradi, e l’ormai ex-moglie si è sempre ripromessa che se proprio le tocca morire, vorrebbe farlo nel suo letto, mentre dorme. La happy family è in spiaggia solo da un’oretta e già il matrimonio è in crisi e i bambini stanno per essere mandati a quel paese. Insomma, una bella gita.

Capisco la meraviglia che provano gli americani, quando vengono in Italia e decidono di andare al mare, azzurro, non ghiacciato e senza alghe; dove ci sono baretto, cabine, ombrelloni, sedie a sdraio, e tutto il resto. Io mi dico: ma quelli che tornano da una vacanza del genere, perché non pensano di aprire uno stabilimento balneare? Gli americani hanno inventato di tutto, anche l’anguria senza semi, e a nessuno è venuto in mente di offrire ai suoi fellow Americans un’esperienza migliore al mare? E invece no: insistono a sacrificare la propria salute mentale e psicofisica e ignorare l’istinto, forte, di abbandonare i figli capricciosi al largo e di scappare in montagna. 

Dopo tanto discutere, quest’anno abbiamo deciso di andare in macchina fino a Chicago, dove abita Alex. Sono mille chilometri circa, e ci fermeremo due volte all’andata, nello Stato di New York e nell’Ohio, e al ritorno passeremo dal Canada. Così Andrea, che ama viaggiare in macchina, è contento. Ryan e io possiamo ascoltarci tutti i podcast che vogliamo, la musica o al limite bisticciare sulle scemenze, tipo: “Non ne posso più di mangiare McDonalds, possiamo fermarci da un’altra parte?” “Ma ad Andrea piace McDonalds…”. “Ah, OK, moriremo giovani, brutti e grassi, però con Andrea contento…”. “La prossima volta sto a casa”, e cose del genere.

ARTICOLO n. 65 / 2023

LA RAGAZZA CHE MI TRASCINA CON SÉ

Giro la chiave. Scirocco artificiale nell’abitacolo: la prima zaffata del climatizzatore è un vento caldo e puzzolente. Pensavo che la macchina l’avessimo venduta da mesi e invece la sto guidando, bestia di lamiera marcita nel sole tonto dell’Estramurale Capruzzi. Secondo l’orologio analogico incastonato sopra la fessura CD della radio sono le 7:30 del mattino. Ma io non mi sveglio mai così presto. 

Fuori dai finestrini opachi e sigillati i marciapiedi sono bianchi e desolati. Le ruote scivolano su Corso Sicilia. Non si chiamava così, questa strada. Contraggo le palpebre per mettere a fuoco la targa della via al primo semaforo rosso. Corso Sicilia, sì, mi sarò sbagliata. Il semaforo diventa verde, ma in questo caso regolare l’incrocio non serve a nulla. Sono sola. La careggiata è sgombra. Ricordo uno scenario simile soltanto in piena pandemia. L’aria condizionata adesso mima l’inverno, anche se dovrebbe essere luglio. Ho cento spilli nell’avambraccio coperto di brina, il mio anello di bigiotteria con la pecten al dito atrofizzato dal freddo. Ancora le 7:30 spaccate, anche se ormai sto parcheggiando. C’è qualcuno vicino a me, ma non c’è nessun altro. 

Mi inoltro tra le siepi lasciandomi il cancello di ingresso alle spalle. La mia migliore amica del liceo si è fratturata una gamba per scavalcarlo nel cuore della notte, quand’eravamo piccole. Cerco il telefono nella tasca anteriore dello zaino perché un pensiero conduce a un altro e dovrei scriverle per dirle guarda, pensa amore mio, sono qui adesso, non è incredibile che i nostri spettri ancora infestino il fogliame? Ma non ho nessuno zaino e la brina sulle mie braccia si è sciolta in gocce d’acqua. 

Il pallore infuocato del Parco 2 Giugno. Oltre gli alberi tisici vedo la colossale insegna del GS che s’è fatta modesta perché sono le mie proporzioni a essere cambiate. Friniscono le cicale e il suono delle scarpe sul pavé si traduce in un sussurro via via più melodioso mentre m’avvicino allo slargo: Avec mes souvenirs / J’ai allumé le feu.

Si scompaginano i parallelepipedi di cespugli e davanti a me si staglia una ruota panoramica che languisce nei trentasei gradi delle 7:30 del mattino, a Bari. C’è il Tagadà. La Nave dei Pirati. Le macchine da scontro e i Calci in Culo. C’è una montagna russa verde e rosa dall’aria assai pericolosa. E due baracchini dei fucili; i fucilini, cosiddetti, o forse sono io a chiamarli così. Eppure, manca qualcosa. Continua a mancare qualcosa. 

«Sei stata puntuale», mi dice: i capelli grossi e neri imbiancati della rena smossa dai miei passi. 
Sotto l’altoparlante del luna park, il sussurro è tuono: C’est payé, balayé, oublié / Je me fous du passé. 
«È molto tempo che non ascolto questa canzone», dico ruotando il mento verso la ragazza. Metto a fuoco le sopracciglia che sono spazzole di setola dura sopra le ciglia turgide, guardiane di iridi verde bottiglia. Sorriso di latte.
«Quale canzone?», mi chiede e ride, mi prende le mani, sta danzando anche se la musica non la sente. 

Mi guardo intorno e ci siamo soltanto io e lei. Non un gabbiotto è presidiato. Eppure, le luminarie delle giostre scintillano a malapena visibili nella luce del giorno, intermettono e chiamano. «C’è qualcuno vicino a me, ma non c’è nessun altro», bisbiglio. 

La ragazza mi trascina con sé sollevando altro terriccio chiaro che mi si appiccica sulle labbra, sui gomiti. Ci avviciniamo ai Calci in Culo e i nostri corpi non proiettano ombre. I seggiolini si muovono in modo dapprima impercettibile, poi vorticoso. Finché si fermano. 
«Sali a fare un giro e vediamo chi tra noi due riesce a prendere il pennacchio», dice la ragazza.

La gomma rossa delle sedute intrecciate a filo mocciola per terra, sciolta dall’arsura: «Mi sporcherò i pantaloni», dico, ma lei scuote la testa e io ubbidisco anche se di nuovo non vedo alcuna persona nel gabbiotto, non ho idea di chi possa stare azionando l’attrazione, non posso credere di essere già stata sparata come un proiettile sopra le chiazze scarlatte di seggiolino liquido, su, nel tremore giallo delle prime ore di una mattina afosa nella città in cui sono nata. La ragazza non c’è, non è salita, mi ha preso in giro, mi fa un cenno dal basso, sono altissima. La mia mano raggiunge il pennacchio che è una bisaccia piena. 

Mi gira la testa. Ora sono a terra. Lei mi chiede di aprire la bisaccia anche se non so come io abbia fatto a scendere. Sento il suo respiro che odora di petrolio mentre ricevo un’extrasistole dal petto. 

Il premio dei Calci in Culo è un completo maschile elegante. Nero. Giacca e pantaloni coordinati in lana, di fattura resistente. Una camicia candida, di cotone leggero, con le maniche corte. 

«Manca qualcosa», commenta afferrando il mio polso e di nuovo sorride. Il sorriso è giallognolo come cagliata, i capelli più corti hanno acquisito una sfumatura olivastra, la faccia è gonfia e lucida mentre mi consegna una canna da pesca che culmina in un cerchio di metallo. «Catturane uno, forza», mi dice con convinzione e io mi sporgo sul chiostro d’acqua lurida su cui galleggiano piccoli animali impagliati: manguste, marmotte, gufi, falchetti con le ali dispiegate per l’eternità.
Pesco una donnola rampante. 
«Bravissima!»: si porta i pugni stretti alle guance la ragazza, che ora sale sulle punte dei piedi per prendere il mio trofeo tra i molti trofei che pendono da ganci da macello, ognuno dei quali mi è familiare per un verso o per l’altro. Un libro su Tutankhamon con molti gemelli – una collezione intera, a dire il vero, di quelle vendute in edicola – e una bottiglia piena di aranciata amara senza zucchero, un’arcata superiore di denti finti, Momendol in confezione intonsa, vecchia edizione de 
La buona terra di Pearl Buck, lavagna bianca con logo di casa farmaceutica, bastoncini di incenso, pile stilo a grappoli. 

La ragazza mi dà, raggiante, una cravatta blu istoriata da germogli celesti. La sclera si rapprende, molle, attorno alle due iridi scure. «Ho scelto bene?». 

Mi brucia la lingua, mi asciugo il sudore attorno al naso con il monte di Venere della mano, la gomma dei seggiolini dei Calci in Culo rappresa sui polpastrelli. «Non è tutto», sospiro. «Non è tutto». 

Pronuncio queste parole e le nostre giunture sono squassate in un anello di latta rovente che fa sopra e sotto, sotto e sopra. Stavolta sull’attrazione è salita anche lei, mi stringe forte le falangi con le dita gelate, il sorriso da cagliata si è fatto fontina, tremano i denti guasti separati da un diastema in cui soffierebbe il vento, se soltanto di vento ne soffiasse in questa mattina di luglio al luna park del Parco 2 Giugno, nella città in cui sono nata e cresciuta. 

Io rido perché di tutte le giostre il Tagadà m’è sempre parsa la più divertente. Rido ma mi accorgo presto del completo di lana nera disabitato, con la cravatta bene annodata, che la ragazza ha messo in forma sulla panchina di fronte alla giostra. E la forma umana disabitata sembra proprio che mi stia osservando, o almeno vegliando, mentre la sagoma della ragazza sta mutando a partire dalla clavicola incassata negli zigomi verde acido sempre più ampi della faccia sempre più rotonda, la chioma ormai rada.  

«Vuoi fare la Nave o vuoi scoprire il prossimo premio?», mi scorta e mi accorgo di come abbia smesso di somigliare al termine che finora ho usato, cioè ragazza.
Non rispondo. È la creatura a decidere. 
«Premio sia», dice e mi porta a sparare. 

I peluche appesi nei fucilini sono i miei peluche, li riconosco. «Ecco dov’era finito il Pisolone», dico tra me e me soffermandomi sui molti musi di pezza espulsi dalle pozze della memoria, alcuni accomodati sulle mensole, altri impiccati. 

«Puoi colpire Mamma Oca, Grubby o Teddy Ruxpin»: la voce della creatura non ha perduto allegrezza, ma ora pare distorta. 

I tre pupazzi parlanti rantolano, come une nenia, quattro lettere in sequenza: p, a p, a. La pallina di piombo viene inghiottita dalla pelliccia dell’orso. 

Sento un rumore simile a un applauso e mi viene recapitato nei palmi un paio di occhiali. Grandi, quadrati, montatura marrone, tartarugata. Li conosco più di ogni altra cosa.
«Adesso hai capito perché sei qui?», chiede la voce distorta a me che non ho il coraggio di alzare lo sguardo. 

Non, rien de rien / Non, je ne regrette rien. 

Le pupille della creatura mi fissano dall’ovale lentigginoso di lepidottero, le antenne corte attente, bocca spalancata, lingua aerografata color pesca da cui gronda un rivolo di saliva. Dai segmenti di invertebrato-giocattolo spuntano cinque paia di zampe e pseudozampe. 

«Adesso prendi il completo, la cravatta e gli occhiali. Depositali qui», continua la bestia puntando il dito contro la sua stessa cassa toracica, una mela di stoffa logora solcata da un varco. Dal tunnel spira maestrale profumato. «Seppellisci il tuo dolore dentro di me». 
«Questo luna park non esiste più, non è così?», chiedo.   
Annuisce.
«Negli anni Ottanta venivo qui con mio papà tutte le domeniche».
«Lo so», risponde il Brucomela. «Conservo il ricordo di tutte le bambine che mi hanno attraversato il cuore».

ARTICOLO n. 64 / 2023

LE MIE LACRIME EVAPORANO

La temperatura dell'estate

Da un decennio faccio finta che non sia estate. Questo perché l’estate italiana è pura cronaca, un canale all-news che alterna barbecue, roghi e stelle cadenti.

Scrivo questo primo paragrafo a inizio giugno e già immagino i dolori dell’estate: scemeranno i titoli che sostituiscono a “catastrofe climatica” la parola “maltempo” e inizieranno le perifrasi per descrivere l’Italia che brucia. Qualcuno in settembre dirà che un’alta percentuale di roghi dolosi è dovuta a “povera gente” che fa danno per ledere il vicino, far crescere gli asparagi selvatici, non annoiarsi, stanare i cinghiali. Gesù, i cinghiali – inizieranno i servizi sui cinghiali nell’Urbe deserta, sui cassonetti che bruciano, sulle code, sulla necessità di idratarsi col gelato gusto frutta ché la crema fa ingrassare, sull’escherichia coli e gli enterococchi nelle acque calde e sporche. Qualche sudato amministratore si mostrerà scandalizzato perché un tedesco in mutande si è tuffato in un canale di Venezia, nella prospettiva di multare persino i bagnanti nei teleri di Gentile Bellini; qualche politico commenterà le azioni estive di Ultima Generazione (che nell’agosto 2022 si incatenò alla Cappella degli Scrovegni, l’unica immagine dolce come la giustizia dell’intera stagione) e lo farà con parole tanto bonarie quanto inascoltabili. I social perderanno l’unica utilità di strumento di divulgazione professionale, per mostrare foto di paradisi naturali che porteranno alcuni a pensare di provare invidia quando no, non la proveranno più, perché l’invidia richiede immaginazione. Poi arriverà l’ecfrasi degli storyteller novecenteschi, i templari della Sammontana: scrittori, poeti, editorialisti, tendenzialmente Millennial, determinati a liricizzare tutto, tovaglie onte, teste di triglia, latte di Coca-Cola tra i cardi, schedine dell’Eurojackpot aggrovigliate alla lattuga di mare. Filtrata dalla loro penna l’estate italiana è un sospiro languido e dorato; la Morte è in ferie, il caldo ci accarezza, tutti sono innamorati. E poi di nuovo cinghiali.

L’estate. Proprio oggi leggo sui quotidiani che la Procura di Padova, la mia adorata città, ha impugnato 33 atti di nascita, dal 2017 a oggi, di figli di coppie omogenitoriali, dichiarandone illegittimo già uno. I bambini si troveranno orfani di un genitore davanti alla legge. I fratelli non saranno più fratelli. Il Procuratore esclude ripercussioni sulla “vita sociale” della bambina a cui è già stato negato il secondo genitore; e la vita interiore, psichica, il simbolico di quella bambina, chi lo tutela quello? Quale estate dovrebbe mai iniziare con una notizia così? 

Inutile dire che c’è l’idea di estate italiana, e l’estate stessa. Ogni ventuno di giugno inizia il dickensiano Canto d’Estate, prendiamo per mano un tizio smunto con i braccioli, lo Spirito dell’estate passata: rivediamo la piazza di campagna piena di passerotti che saltellano tra le chips, oggi sbranati dai gabbiani; di sera corriamo verso il campanile inseguendo il garrito delle rondini, oggi ingollate dai falchi. Con le palpebre socchiuse e impastate di crema solare, udiamo la cantilena del Cocco Bello e il papà sbuffare perché qualche altro bimbo gli ha spruzzato il giornale con l’acqua di mare; il nostro sudore profuma di lenzuola d’albergo e ci innamoriamo di qualsiasi ragazzino che abbia il caschetto di DiCaprio. Il nostro nostalgico amico, lo Spirito, ci dà un bacino e ci si scioglie appresso, lasciandoci alla mercé di un sole antagonista.

L’estate italiana è dei bambini, agli adulti ormai si dovrebbe chiedere solo di arginare i danni e sopravvivere moralmente. E proprio per elargire un consiglio in merito alla sopravvivenza morale ho deciso di unirmi a questa serie estiva dedicata all’idea di temperatura. 

Il mio consiglio: piangere leggendo, piangere copiosamente nella giornata più calda della stagione; affrontare una catarsi che frigga insieme moccio e sudore, questo è l’unico modo per resistere all’Italia che ci si scioglie tra le mani.

Nel giorno torrido dell’estate 2022, la più calda dal 1979 e quella che ha segnato la più grave siccità in Europa nel corso di cinquecento anni, sdraiata in un posto indefinito lungo la costa Est sudavo l’acqua che non avevo bevuto, mi ricoprivo la pelle fototipo 1 di bolle, mentre il naso si intasava poiché leggevo e rileggevo i ricordi di Edith Eva Eger e in particolare la pagina in cui si separa definitivamente dalla madre davanti all’ingresso di Auschwitz. L’anno prima si consumava la medesima scena lungo la costa Ovest con un libro di Mario Tobino, Per le antiche scale, che racconta l’andirivieni in un manicomio lucchese poco dopo la metà del secolo; meno straziante a livello oggettivo, ma commovente per me che sono affettivamente ossessionata dagli alienati. L’estate antecedente era stato il turno di Tutti i viventi di C.E. Morgan, che mi aveva commosso pazzamente ma non ricordo perché, rammento solo che mia cugina chiese: “Cazzo piangi ancora?”. L’anno prima fu la volta di un paginone della nostra migliore scrittrice, la Rosa Matteucci, che ho il privilegio di chiamare amica; non ricordo se per una scena con il padre o in memoria di un infante, fatto sta che le telefonai con voce spezzata e lei, sempre contegnosa, mi liquidò con un “Caretta sto marciando”. Quest’anno penso di essermi bruciata il libro più straziante in maggio, Come d’aria di Ada d’Adamo, la storia della scrittrice, ancor giovane madre malata di cancro e di sua figlia, affetta da una grave patologia. La narrazione piena di grazia dei loro corpi esili, sofferenti e dipendenti, del destino di uno quando sarà privo dell’altro, s’intreccia al pulsare sociopolitico di temi come l’aborto terapeutico, il dopo di noi, le barriere non solo architettoniche, attraversati da queste due creature massimamente femmine.

Ricercare lacrime interpersonali, che esulano dai propri dolori, nei giorni in cui gli italiani si dimenano per celebrare l’idea di estate, offre conforto. Tiene saldi alla vita, impedendo a questo nemico, il nuovo caldo, di bruciare la coscienza. Forse la mia è solo una versione alfabetizzata dell’ideale dell’ostrica di verghiana memoria, il “tenace attaccamento” della povera gente allo “scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere”, la “rassegnazione coraggiosa” all’affanno, quando si è sostenuti da alcuni valori. Forse lo scoglio cui sta attaccata la mia ostrica è il dolore corale, oggi soppiantato dalla sua confusa sorella, la rabbia. 

La rabbia divora se stessa oltre che la mia siesta. Gradi 32, sdraiata sul divano ascolto una voce provenire dalla radio, un dirigente privo di biografia utilizza parole populiste per annientare il concetto di agroecologia. Sento: “tradizione” – mi assopisco pensando che non va bene che persino gli agricoltori abbiano cominciato a starmi sulle palle – “melanzane…”. Zzz. Questo problema dell’essere privi di biografia è penetrato nel mondo dell’arte: artisti bravissimi, privi di biografia. A dover raccontarne la vita dopo i diciotto anni, si elencherebbero le mostre in istituzione; per fortuna che le privazioni infantili spesso corrono in soccorso al discorso biografico, altrimenti costoro sarebbero per la maggior parte grandi professionisti, alla meglio professionisti con vizi. Mi sveglio, qualcheduno su Radio3 parla di Botticelli, ma io ho cominciato a odiare persino Botticelli e pure questo non va affatto bene. Nel mio dormiveglia dittatoriale, sogno di rinchiudere La Nascita di Venere nel deposito degli Uffizi, privando ben tre generazioni di Italiani di quella composizione lassista. L’arte negata è arte politica. Zzz. Un’intervista a un bagnino. Zzz. Il meteo.

Se la temperatura delle estati d’adulta è quella che permette alle lacrime della mia catarsi arrostita di seccarsi sulla pelle, da ragazzina era la temperatura della Resistenza. Al liceo, l’intera classe fuorché la sottoscritta adorava il professore d’italiano. Il prof era borbonico, penso, e dava da sei in su onde poter dire in classe quello che gli pareva. I miei compagni mangiavano la carota, felici di avere un professore così bonario. Questo individuo dell’Italia che fu aveva un programma culturale riassumibile in: Tomasi di Lampedusa, Federico de Roberto, tutti i librettisti d’opera e stop. Di conseguenza la mia scaletta di letture estive doveva compensare le lacune dell’anno scolastico: sotto l’ombrellone si portava Pratolini, Fenoglio, Vittorini, i lenti vagoni dei loro treni, la polvere sulle loro suole. Mi sembra archeologia, l’idea che una ragazzetta veneta litighi su Fontamara con il proprio professore abruzzese, però l’esempio è utile a suggerire l’idea di quanto sia cambiata, almeno per me, la temperatura dell’estate. I venticinque gradi percepiti di allora accompagnavano la mia scaletta estiva di libri utili a conoscere l’Italia magica che mi aveva preceduta, i 35 gradi di oggi accompagnano lo scalone di libri dolenti che aiutano la mia coscienza a rimanere salda, contro ogni canale all-news, contro chi fa spallucce se interrogato sul prelievo dell’acqua per uso agricolo, contro il gelato al pistacchio come unico pasto, contro il mirabolante evento di ritrovarsi un cinghiale nel cassonetto.

ARTICOLO n. 63 / 2023

VUOTI A RENDERE

La temperatura dell’estate

Estate. È una canzone che circola nell’aria fredda dell’inverno. Il brano lo compose Bruno Martino nel 1960, testo di Bruno Brighetti. Titolo, in origine, “Odio l’estate”. Quando Lelio Luttazzi ne fece una parodia, Odio le statue, il verbo, dunque la ripugnanza, venne eliminato. È rimasto nel testo, ha avuto fortuna la melodia, per le versioni meravigliose e dolenti di Chet Baker o di Joao Gilberto. 

Un amore, ovviamente. Estivo e perduto. Con il portoghese virato Brasil ad accentuare il sapore. Un sapore che ciascuno di noi conosce e ritrova, nel freddo di un febbraio, tra il rimpianto e la speranza, perché è quella la stagione, quella la temperatura più densa e colma di memorie. Con ampio, persistente accompagnamento musicale. 

Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso, eccola qui. La cerca Paolo Conte, la cerchiamo un po’ tutti. Un grande fotografo scomparso, Carlo Orsi, verso aprile, ogni anno, ripeteva: “dai che ci facciamo un’altra estate”. L’ha ripetuto sino all’ultimo giugno, convinto di farcela, povera stella mia. Diceva: “Eccola, eccola che arriva”. 

Prepariamoci, dunque, perché tutto può accadere in un pomeriggio azzurro, persino troppo azzurro per noi. È una questione banalmente meteorologica che adesso, con la quantità enorme di sciocche chiacchiere sul caldo, che caldo, non se ne può più, viene un po’ maltrattata nella significanza profonda. Il caldo spoglia, spalanca, apre, permette, illumina, autorizza. Cambia il modo di fare, stare e immaginare. Toglie il telo da una moto, mette il grasso sulla catena di una bici, ripristina un guardaroba. Alleggerisce gli abiti, altri pesi perché il momento della prova costume riguarda anche chi del costume se ne sbatte altamente, figuriamoci della prova.

Cuore caldo, testa calda, sangue caldo, calde lacrime. Picchi, comunque. Di passione, di esuberanza, di emozione. Fanno parte del pacchetto, del viaggio, di una obbligatoria, accurata, delirante ipotesi vacanziera. Vanno su i gradi nel termometro, cresce il desiderio. Di cogliere, finalmente, un’occasione mancata, l’estate scorsa, due estati fa…; di progettare escursioni interminabili, visto che sarà interminabile questo tempo nuovo in arrivo. Un regalo da personalizzare, in relazione alla voglia accantonata per mesi, per una vita; all’età, al godimento di un’altra, metti ultima, stagione felice. 

Nel Nord della Scozia o a Samoa puoi andarci solo lì, quando la fantasia circola in un’afa provvidenziale. Le dita che indugiano davanti a un vecchissimo o nuovissimo numero di telefono, ma dài, ma sì. Si farà vivo un figlio lontano, così come un padre, una madre distratta. Attese, progetti. Sbocciano, al pari dei gelsomini. Emanano un profumo che tira, spinge, moltiplica le aspettative. Un colossale Sabato del Villaggio, inaugurato puntualmente, quando la primavera segnala, via meteo, il passaggio. Aprile, maggio, giugno, luglio. Poi viene la domenica, torrida e fastidiosa, a questo punto. Le piante, i fiori, le nuvole, indicano un nuovo transito. Il culmine dura pochi giorni, ore. Colme di ombre, perché ciò che è stato, soprattutto ciò che non è stato, diventa irreparabile. Si accorciano le giornate e si allungano le malinconie. Da domenica, appunto, con appresso, inesorabile il lunedì. 

Scozia? Macché. Salento, una bolgia. Flirt? Ma dài, cosa vuoi? Giacomino? In Scozia, lui sì, con gli amici. Mentre io… beh, io neanche un prete per chiacchierar.

Mica vero, non per tutti. Non per Giacomino o Giulia, o Marianna che hanno il fisico, l’età, la sfrontatezza di attraversarla, l’estate; di sguazzare in questo sole, di amare e farsi amare, di rischiare un dolore, quel dolore lì, assoluto, da cuore caldo e infranto. Di partire davvero, come immaginato, senza tante balle, uno zaino e si va. I bilanci, dopo, casomai. Molto dopo, perché l’adolescenza, la giovinezza, come l’estate, sono infinite.

Dunque, dipende. Dall’anagrafe, dal coraggio. E, magari, dalla consapevolezza di avere a che fare con la temperatura e la stagione del vuoto. Sta qui il baricentro. Nel vuoto, ecco. Che è il compendio stagionale più certo, abbinato ai 30 gradi. Si spopolano i palazzi, le strade, la città. Vanno. Vanno via tutti, ma dove cazzo vanno? In un altro vuoto, protetto da un ombrellone o da una mulattiera, simile al tuo che resti.

Non ha rilevanza alcuna il dove. È la percezione di un’ora da riempire, di un pomeriggio silente, di un caos gioioso che, in definitiva, non ti riguarda affatto. Così, nello spazio soltanto estivo, con un libro tra le mani, una granita di primo mattino, il cellulare spento, non a caso, insomma in uno stallo acustico improvviso e provvidenziale, si spalanca una voragine vagamente prevista certamente straordinaria. Il caldo, allora, diventa un tappeto, uno sfondo, persino un conforto, mentre incappi in un pensiero che in quel vuoto si fa largo e lì resta, come un salvagente sulla superficie mossa del mare. 

È un invito quasi perentorio alla riflessione, a una lentezza rimossa nella ritmica consueta e quotidiana. È un’occasione in forma di domanda. Su te stesso e sul senso del tuo fare. Su un vizio non necessariamente assurdo, su trascuratezze trattate come innocenti sbadataggini. Sospensioni intime, dunque provviste di implacabili specchi. Una vera vigilia, equivalente alla Vigilia di Natale, l’anno che svolta, come ai tempi della scuola. Il momento dei buoni propositi. Sinceri in quanto segreti, azzardati in relazione alla fatica. Di essere e di far finta di essere. Di peccare e di far finta di farla franca. Di tirare dritto quando sarebbe il momento di osservare, accogliere, dare una mano. Meglio, di più, forse, vedremo. Con il caldo che, invece di esaltare, fa sudare, una gnagnera da sfinimento. 

Sono pause mute e sconcertanti. Sono abissi necessari. Istanti, questi sì, nei quali progettare il viaggio, seguendo una mappa solo interiore, da scansionare con ciò che resta della nostra più onesta vitalità. Un caffè, una birra in meno, un’attenzione in più, una sincerità liberata, lo sguardo che passa da se stessi all’altro, quello là, che anche di me avrà avuto, ha di certo bisogno. Piccoli o enormi proponimenti che, comparendo, giustificano e rilanciano, tirano una riga. Sulla sabbia, sul pavimento, sull’anima di chi, la propria anima, in questo caldo stagnante riesce a far volare.

Il pensiero dell’estate, modestamente, per quanto mi riguarda, riporta a pieno schermo il viaggio di Nanni Moretti con la sua Vespa. Caro Diario, il film. Le immagini contengono quella libertà nota ai vespisti, ai motociclisti da agosto in città; l’odore dell’asfalto molle delle strade periferiche, l’abbandono e la solitudine di chi, dentro appartamenti dimessi e bui, dietro tende sfilacciate e verdi da balcone, sopra letti di ospedale, nel silenzio tremendo di un corridoio da penitenziario, fa i conti con un doppio vuoto. Interiore e agostano, assoluto e dimenticato. Per loro, per chi sa cosa lo aspetta, l’estate rappresenta un supplemento di pena, una condanna al nulla spaventosa. Penultimi che diventano ultimi, ultimi che diventano invisibili. Tagliati fuori da ogni condivisione, da ogni percorso euforico, destinato a fallire o meno non importa. 

Il caldo, qui, diventa un tormento che lo scorrere lento dei giorni amplifica. Quale Sabato del Villaggio? Domenica, si spera, in grave ritardo. In desolata attesa del lunedì. Del momento in cui l’estate degli altri, i vuoti irrisori degli altri, le solitudini relative altrui, avranno termine. Con la debole speranza che un qualche proposito buono, elaborato tra una granita e le pagine di un romanzo, in qualche modo li riguardi. 

A piedi, intanto, senza Vespa. Una camicia azzurra, dopo una doccia tiepida. Ogni prospettiva comparsa in primavera si è dissolta, come previsto da un inconscio allenato all’imbroglio. Meglio, bene così. Lo sguardo per aria, lungo facciate di case che il traffico impediva di osservare. Targhe sulle facciate, a ricordare residenti celebri. Parchi senza bambini, giostre deserte, roba da saltare sul camioncino dei pompieri con la certezza di afferrare il codino sospeso, giro gratis, uno via l’altro, cosa tieni aperto a fare?

Macchie di sudore sulla camicia. Ghiaia che scricchiola. Anziani con il Corriere. Anziani con la badante. Badanti annoiate con anziani che leggono il Corriere da tre ore. Il profumo di una crema solare, spuntato non si sa come e perché, forse una babysitter rimasta senza baby. Arriva, piglia e scarica ai Bagni Scogliera. Odore di vernice fresca, cabina appena ridipinta rosso vivo. Il molo per i tuffi. La mia estate migliore è vecchia di cinquant’anni ed è bellissima ancora adesso. Eccola qui. La intravvedo per un attimo di nuovo, mentre perlustro il vuoto di agosto, riempito dai miei vuoti.

ARTICOLO n. 62 / 2023

PER FORTUNA I NERI MUOIONO SOLO D’ESTATE

La temperatura dell’estate

In edicola, tra una bionda con un sorriso di cera e il nuovo numero di una terribile rivista femminile che in regalo offre alle sue lettrici un mazzo di tarocchi dal Negro, c’è il volto tondo e sorridente di un uomo nero. Sulla copertina della rivista, la sua pelle è lucida. Deve essere morto, perché la foto pubblicata è il tipico ritratto del morto. Si tratta di Frederick Akwasi Adofo, quarant’anni. Sotto una didascalia scritta in caratteri cubitali, rossi, parla di lui. Senzatetto. Immigrato. Clochard. Ucciso da due minorenni di cui non si sa molto. Foto sgranata. Forse l’unica. Lui, benvoluto da tutti. Innocuo. Infantilizzato al fine di creare maggiore trasporto emotivo tra la vittima e il pubblico. Se la gente non vede il nero grosso come un bambinone, non capirà che è morto un uomo. Penseranno solo a un extracomunitario. Invece in questo modo è meglio. Più pietà. Più tenerezza. Un grosso, bambino nero di quarant’anni, con i tipici problemi degli immigrati neri adulti, che oramai però, vista la retorica e i tempi che corrono, non bucano più né lo schermo, né i cuori della gente. Tant’è che la sua esistenza, prima della sua cancellazione, era nota solamente ai volontari e gli operatori che lo avevano sostenuto nel suo percorso per l’ottenimento della licenza media, mentre ora il suo caso veniva reso noto a tutto il Paese, come l’ennesima storia di un nero che muore d’estate, ucciso dai bianchi.

E gli assassini? Dei ragazzini abbandonati a loro stessi di appena sedici anni che postano il video di quella atroce violenza sui social. Come se quelle mazzate date a un senzatetto prima di andare a dormire fossero un rito giornaliero di liberazione da una ferocia che viene raccontata come disumana, ma che di umano e comune ha ogni suo singolo pezzetto. E mentre il ventre della società civile si appresta a espellere i resti di questi giovani abortiti, in pochi si chiedono come mai ci sia questa fretta di prendere le distanze da questi giovani Caini, gli assassini dell’Abele nero.

Saranno questi trentasette gradi e mezzo a farmi poco bene, ma leggere quei caratteri accesi di rosso, che parlano di quell’uomo nero, morto di botte nell’androne di un palazzo, mi dà le vertigini. È una storia che conosco. Una storia che quelli come me si aspettano. Perché ce lo aspettiamo sempre, che cose di questo tipo accadano. Il punto è quando, e come. Ma l’epilogo è sempre lo stesso.

Consapevolezza: conosci la tua casa. Conosci ogni sua stanza. Conosci il tetto, e le finestre che ti proteggono dal Mondo di fuori. Conosci anche il tuo Paese. Che è la tua casa nella diaspora. Misura la sua temperatura, calcola il peso specifico di ogni singola parola che utilizzano per categorizzarti ed etichettarti. In TV, per strada, in fila alle Poste, al supermercato, mentre passeggi. Ogni movimento e reazione inconsulta è un segno, un indicazione della temperatura delle cose. E bisogna stare dietro ai dettagli, se si vogliono prevenire i casini.

Era da un po’ che il clima in Italia non faceva tanto schifo. Né freddo, né caldo. Semplicemente duro, asfissiante, soprattutto nebbioso. L’aria stessa che si respira pesa come una marcia militare, i cui passi avanzano pesanti su un asfalto rovente. Lentamente, adagio, tornano i simboli del fascismo, riproposti in una salsa moderna, eppure così terribilmente vecchia. La nuova tolleranza stabilita dal Governo ha un occhio di riguardo e una mano gentile, solo a favore dei violenti e dei conservatori, che vedono in qualsiasi fluttuazione dell’esistenza una minaccia all’integrità del Paese. È importante quindi che si faccia particolare attenzione ai racconti che si fanno delle minoranze, e al modo in cui le giurie popolari che dalle radio e dalla televisione emettono le loro sentenze sul Mondo che verrà, e che vogliono evitare che arrivi. Le persone nere con un po’ di sale in zucca controllano il polso del Paese, con tutti i suoi battiti. E stanno ad aspettare la prossima mossa. Sanno che quando la temperatura sale, la sacca che contiene la rabbia bianca si riempie per esplodere. Per questo la morte dell’uomo nella foto non mi sorprende. Ho un cerchio alla testa, e una sensazione terribilmente familiare, come se stessi rivivendo lo stesso evento, ma con i dettagli differenti.

Il déjà-vu che sto vivendo è forte. Sono già stata qui, in questo luogo della mia anima, dove mi raccolgo per constatare in silenzio che un’altra persona nera è stata uccisa da una persona bianca. Sembra quasi la formula per una delle tante ricette del Caos. Una formula a cui molti sono così abituati da darla per scontata, al punto da non riuscire nemmeno più a vedere tutto quello che c’è intorno alla cancellazione del corpo di una persona povera, nera, che vegeta sulla soglia di un privilegio al quale non ha alcuna possibilità di accesso. Lui resta e muore in un margine invisibile, scavato da concezioni secolari classiste e razziste, che nonostante l’usura e la sfida del tempo arrivano fino a noi del tutto intatte.  

C’è un motivo per cui quella notizia mi risuona così familiare. Tutto mi rimanda alla morte di Alika Ogorchukwu, il cittadino nigeriano ucciso da Filippo Ferlazzo nel 2022, a Civitanova Marche.

Ricordo perfettamente che per commemorare la sua morte venne indetta una manifestazione antirazzista. Io c’ero. Mi recai a Civitanova Marche con un gruppo di amiche e amici. Parlando con la gente di lì, nessuno voleva cedere all’idea del movente razziale. Ciò che noi, in quanto persone razzializzate, vedevamo con una chiarezza più pura del cristallo, per la gente di lì non era altro che lo spettro di illazioni su un presunto razzismo che a Civitanova Marche, come a Pomigliano d’Arco, non esisteva. Era come se fossimo tutti spettatori di una realtà che, nonostante lo spazio abitato insieme, non condividevamo. 

Non solo non credevano ai motivi razziali dietro l’omicidio di Alika Ogorchukwu, ma ciò che forse più li offendeva nel loro onor, era l’idea che tutto il paese reale li avesse etichettati con l’appellativo di razzisti. Civitanova Marche, la città dove l’indifferenza e il razzismo hanno un ucciso un immigrato disabile. L’onta del razzismo, svuotata del suo significato e potere, e quindi ridotta soltanto a una parola triviale e offensiva, è un’accusa che nemmeno i fascisti accettano.

E a distanza di un anno, con una temperatura che arriva a sfiorare i trentasette gradi, ecco che viene ucciso un altro uomo. Questa volta nel Sud Italia, a Pomigliano d’Arco. Anche lui povero, anche lui nero. Espulso dal circuito dell’accoglienza come una ciste infetta arrivata alla fine del suo ciclo vitale e spedito a vivere per strada, su una panchina, senza nessuna possibilità di negoziare con lo Stato i termini della sua marginalità. 

La storia di Frederick Akwasi Adofo, chiamato dalla gente di Pomigliano d’Arco semplicemente Frederick, il senzatetto che non avrebbe fatto male a una mosca nemmeno se avesse voluto, è fatta di elemosina, e chiacchiere coi passanti. Un uomo povero e disoccupato che, escluso dal circuito dell’accoglienza, si era ritrovato a dormire su una panchina. Per via di queste due condizioni, che non è mai bene si accompagnino insieme, era stato più volte vittima di violenze da parte di sconosciuti. Era già successo, ma, per qualche ragione, qualcuno ha pensato non fosse necessario proteggere un uomo il cui corpo e la cui vita, secondo alcuni, non avrebbe valso mai abbastanza da spingere qualcuno a proteggerlo. Frederick valeva soltanto per chi lo amava, ma i singoli che amano altri singoli non sono sufficienti a proteggere persone come lui. Dunque, chi era quest’uomo? E perché mi sembra di vivere un déjà-vu?  

Vorrei urlare al Mondo intero che ho visto quell’uomo nelle mie visioni fatte di ansia quotidiana. Chi sarà il prossimo? Perché ce ne sono stati altri prima di lui. E gli somigliavano nelle linee generali. Uomini neri poveri cancellati. Uomini neri poveri uccisi a mani nude. Uomini neri poveri che spariscono tra le ceneri di ghetti dati alle fiamme dalla Camorra, che storicamente è portatrice di odio razziale, come dimostra la storia della repressione dei ghetti di Rosarno, o della Strage di Castel Volturno del 2008, in cui sette giovani uomini neri vennero giustiziati dalla Camorra con fucili d’assalto.

Filippo Ferlazzo dice qualcosa di emblematico all’indomani dell’arresto per l’omicidio di Ogorchukwu. Non voleva uccidere, ma solamente “dare una lezione” a quell’uomo nero incivile e maleducato, venuto nel suo Paese per chiedergli l’elemosina. Certo, dicono i cittadini di Civitanova Marche, Alika era un po’ insistente, ma non meritava di morire soffocato dalle sue stesse stampelle. Ci vogliono una forza e una volontà di ferro per uccidere un uomo in quel modo. Non ci può essere casualità alcuna in quel tentativo coloniale di raddrizzare il non raddrizzabile, lo straniero, il negro che vuole restare negro e che con la sua negrezza disturba e deturpa le aiuole, infestando con la sua miseria un panorama fatto di luccichii e altre ossessioni piccolo borghesi, che escludono a priori una tale irruzione della realtà, come quella imposta da un corpo nero disabile e fuori dalle fantasie che promette quel profumo di eterno benessere estivo, che solo le località balneari sanno trattenere tra le loro grinfie. Chissà perché la maleducazione e l’inciviltà che tipicamente si trovano in giro non avevano mai scatenato, prima d’allora, l’ira e la ferocia di Ferlazzo. Mia madre mi diceva di vestirmi sempre bene. E di comportarmi come una signorina. Perché ciò che è concesso a un bianco non viene mai concesso a un nero. Non a caso, l’ordine che vigeva nelle colonie conservava in sé una filosofia terrificante, una politica dell’annientamento fisico che si celava dietro l’intento di insegnare ai non-uomini delle colonie come essere uomini veri simili ai bianchi, e non animali. Anche loro non volevano radere al suolo civiltà secolari, ma insegnare a vivere meglio, alla Occidentale. E così, ecco, il regime coloniale crea Uomini e Donne rinati nel Cristo e nella Patria che li sottomette a suon di mazzate e di discriminazioni. E non conta che nel processo di apprendimento qualcuno muoia o resti lesionato a vita dallo zelo dei professori della strada, che di notte ti prendono a calci in faccia o ti soffocano con una stampella. Il tutto sta nel riuscire a sopravvivere a questo brutale processo di apprendimento che è sì violento, ma per i più necessario ad assurgere al nobile scopo di far capire ai selvaggi dalla pelle cupa come funziona la civiltà in Italia e quanto bisogna incassare per diventare dei cittadini italiani. Degli italiani brava gente. 

ARTICOLO n. 61 / 2023

VENTO STRANO

La temperatura dell’estate

Incontro Jinks per le vie del villaggio, mentre scendo per la cena. È un revenant anche lui, come me, ma di solito è qui fuori stagione. Mi dice Nice weather.

Sappiamo entrambi di cosa si tratta: vento caldo e secco da Nord, che sostituisce il meltemi e andrà a calare fino a diventare un alito appena percepibile, con mare piatto a sera, una superficie madreperlacea, irresistibile. Stanotte faremo molto tardi nelle taverne di questa che è una grande spiaggia di sassi con gettate di cemento. Si annullerà la differenza di temperatura tra noi e il mondo circostante. Lo scambio di calore sarà affidato a una traspirazione asciutta, una sublimazione che scosta gli abiti dalla pelle e la rende liscia anche nei punti dove di solito suda.

Qui conoscono questo vento, che da noi non esiste, ma non sanno darne spiegazione meteo: da dove viene? Se attraversa il mare dovrebbe essere umido. Probabilmente è un’aria leggera e calda del tutto normale – ma questa è terra di meltemi forte – che viene lavorata dalla montagna alle spalle del villaggio, ma in modo diverso dal solito. Il grande sperone roccioso là in alto intercetta l’aria veloce di Nord-Ovest, la comprime e la raffredda, gettandola poi in basso a velocità doppia. Ma prima le sottrae l’umidità e la condensa in una nube perenne, che si straccia lontano sul mare. Stasera la nube non c’è, il cielo del crepuscolo è chiarissimo e intensamente viola, la linea dell’orizzonte tende a scomparire, ad Est il visibile è un’unica manifestazione cromatica, l’acqua è come plastificata, il villaggio è silenzioso. Ci incontriamo al Blue per un Campari surdimensionato con ghiaccio, commentiamo il tempo, il calore, il mare. Lo facciamo a voce bassa, estasiati. Sappiamo che se il tempo non cambia domani sarà dura, ma questo momento, questa notte, sono nostri. 

Non c’è niente di paragonabile a questo su tutta la superficie del pianeta, dice qualcuno che è qui, ma potrebbe essere in un altro caffè, o già sotto la pergola di una taverna a mangiare le solite cose. Il suo essere qui in questo momento è casuale come lo è per me. Ci si conosce, ci si incontra, si condivide l’attaccamento al luogo, di cui si dicono e ridicono le stesse cose da anni, da decenni, con la stessa ammirazione. Ma ciò che ci fa tornare qui non è la bellezza dei luoghi, la trasparenza dell’acqua, la gentilezza della gente del posto, è il vento.  

Veniamo qui per il vento, ma non per il vento di stasera. Torniamo per il meltemi, per stare nel meltemi. In casa col meltemi, sulla riva col meltemi, al caffè sotto le raffiche fredde e asciutte di meltemi. È il vento che si incunea nella valle, accelera, rinfresca e ci salva dal caldo, impedisce di volare alle mosche succhiasangue, rende impraticabile il volo alle zanzare, in spiaggia ci sottrae una buona parte del calore solare, ci romba per ore nelle orecchie finché non ci avvolgiamo una pezza attorno al capo, come beduini. 

Questa è la norma del meltemi, ma stasera è tutto diverso e strano e misteriosamente più lieto e silenzioso. Mi piace il Campari liscio sul ghiaccio con lattina di soda a parte da aggiungere a piacere, dose si diceva abbondante, e una conca di arachidi tostate: dopo qualche minuto comincia ad alterarsi la percezione delle cose. L’alcol per chi lo regge poco è una specie di sostanza psicotropa, rallenta la percezione del tempo. O forse per tutti è così. Per me è certamente così. Bevo da un po’ e il fatto che attorno a me ci siano persone non altera la coscienza di cosa sia stasera la sensazione del mare, la sua continua presenza nella mia mente, il piacere di averlo piatto ai miei piedi, senza un’increspatura, senza la più piccola onda di risacca. L’aria si muove lentamente attorno a noi e le parole, invece di volare via col meltemi, per una volta restano nelle vicinanze, immobili nell’aria per qualche istante, come bolle di sapone: forse per questo parliamo poco, a bassa voce. 

Osservare l’acqua, per ore, giorni, mesi interi è il motivo per cui sono qui, ma è racchiuso in una capsula motivazionale più grande: sono qui perché voglio essere qui, e voglio essere qui per essere qui. Difficile costruire qualcosa di logico attorno alla questione dell’essere qui, anzi del tornare, dell’estenuarsi qui per mesi interi, perso nell’idea di isola e nella prassi insulare, che qui significa stare su un grosso scoglio lontano, sul limitare Sud dell’Egeo, prima del grande intervallo d’acqua che separa la civiltà europea da quella medio-orientale. Qui il meltemi arriva di slancio, in accelerazione lungo un arco che parte verso Sud-Ovest dalle terre di Tessaglia e arriva qui fortissimo per perdersi non so dove. È questo vento fresco il vero confine, il muro d’aria che d’estate ci separa dall’Egitto. È qualcosa di cristallino, di minerale, per l’elargizione generosa di limpidezza, che è quando le ombre si fanno nette e i colori si fanno vividi e i contorni delle cose si definiscono al di là delle nostre stesse capacità di rilevarne la definizione: da qui lo spostamento del visibile verso una dimensione metafisica, potendola noi definire tale perché il concetto fu già descritto e indagato a fondo già molti anni fa e non possiamo fare altro che riconoscerlo e riprenderlo.  

Il sole se n’andato dietro la montagna, niente striature di vento sull’acqua. Si percepiscono lontano strani fermenti, come se il mare frizzasse di qualcosa. Potrebbero essere pesci o pesciolini se non fosse che anche questi fondali sono ormai quasi deserti, ma l’idea che in qualche punto l’acqua ancora brulichi di vita – com’era un tempo, certo, ma qui quasi tutto è cambiato da com’era un tempo, il villaggio non è rimasto fermo al 1975, il mare ha sofferto e seguita a soffrire, le case tradizionali sono state sostituite da palazzine a tre, quattro piani della bruttezza incerta che si produce quando ci si inoltra nel territorio di un linguaggio sconosciuto, in questo caso del costruire alla moderna. L’idea che ci sia ancora vita è confortante in sé e, se il mare qui e là frigge, non è del tutto infondata.

Indico l’area di fermento a un amico seduto lì vicino, esperto subacqueo del luogo. 

Kalamares, dice. 

Kalamares. È qualcosa. Anzi, considerata l’intelligenza dei molluschi, È qualcuno, dico a voce bassa. Nessuno degli astanti sembra rilevare l’osservazione, poi un revenant incallito dice che l’altra notte, sotto la luce gialla del molo, tra la prua di un caicco ormeggiato e i ciottoli della spiaggia, ha visto ragazzini pescare calamari. 

Per il calamaro la luce notturna non è resistibile: in certi giorni di fine estate, quando si radunano lungo la scogliera tra Opsi e Forokli, si va a prenderli la notte con le polpare fosforescenti. Quando li tiri in barca non li vedi. O forse solo io non li vedo per via dei bastoncelli delle mia retina che non lavorano più come si deve: sento solo fischi e sospiri e strani schiocchi da organismo alieno, che è mentre mi spruzza addosso l’inchiostro senza che me ne accorga. Il nero resta lì impresso sui bermuda cargo per tutta l’estate, probabilmente per sempre, come un marchio. 

Oggi all’ombra in terrazzo, il caldo fortissimo rendeva i pastelli a olio meno gestibili, cioè più morbidi, pastosi, con tendenza a spezzarsi, e però più efficaci, dove per efficacia intendo qualcosa di non definibile, un fattore che mi dà gusto nello stenderli e che contribuisce al mistero del perché io faccia quelle carte, dovendo trascinarmi fino a qui i materiali essenziali per farne, a meno che invece per due interi mesi nemmeno li tocchi, com’è accaduto due anni fa, che scrivevo solamente, spendevo l’intero mattino alla stesura di testi di cui non ricordo nulla e smettevo solo quando ero fisicamente e mentalmente stanco e mi mettevo a dormire verso l’una del pomeriggio per poi svegliarmi alle due, andare a mangiare qualcosa e a nuotare nell’acqua fredda. Penso che questi siano i sonni più belli della mia vita. E anche stanotte, quando dovrò spalancare le imposte e dormire completamente nudo, svegliandomi alla luce a alla carezza di freddo dell’alba, penserò che questo tempo mi regala sonni indimenticabili e che dormire è la cosa più bella che c’è.

Ma non escludo che verso le tre, le quattro del mattino potrei svegliarmi in un bagno di sudore e di angoscia pura – cioè priva di cause che non siano l’ignoto che si nasconde nel futuro – e che potrei trascinarmi fino al bagno e, lì mentre piscio, potrei vedere il rosso violento della prima alba dal finestrino con retina anti-insetti e non escludo di uscire sul terrazzo a scambiare calore con l’aria fresca circolante all’esterno. Non escludo poi di tornare e finire il lavoro del sonno, cioè di stare il più possibile disconnesso dal reale, senza riuscire a dissociarmi dalla cattiva abitudine del mio inconscio di produrre brutte situazioni come perdere una nave – quindi un aereo, quindi un ritorno a casa, un levarmi da qui, da questa ipnosi – mentre sto facendo di tutto per perderla, perché non faccio la valigia in tempo. Nella realtà ho visto una persona fare questa cosa per ben due volte, con due navi diverse. Forse viene tutto da lì. Correva giù verso il porto trascinando il trolley mentre la Prevelis alzava la rampa d’imbarco e cominciava a dare motore per portarsi sulle ancore e poi prendere il largo: qui siamo esperti osservatori di manovre, riconosciamo il capitano dallo stile diverso, più elegante/meno elegante, con cui viene eseguito l’attracco. 

Ho comprato guanti sottili di gomma per maneggiare i colori senza dover usare solventi per lavarmi le mani: gestire il rosso è il mio problema, ma naturalmente non è il solo, l’altro problema è la profondità del nero, che è sempre insoddisfacente. In principio è l’impulso quasi irresistibile a stendere un rettangolo rosso usando il pastello di piatto. Il caldo mi aiuta, anzi mi induce a farlo. Tutto il resto del lavoro sta nel cercare di dare al rettangolo il giusto non-senso, accostandolo ad altri oggetti cromatici di cui è necessario decidere sul momento il colore e le eventuali sfumature. Stamane il sudore mi colava lungo la schiena, mi gocciava dalla punta del naso sul tavolo di lavoro esterno che uso per fare le carte. Finivo di nuovo a letto accettando la vita e tutto ciò che mi circondava, i miei anni e le malattie nascoste, il caldo benedetto che ci avvolge e che anche stanotte mi farà fare molto tardi su una sdraio della spiaggia, musica nelle cuffie, niente da dire, da pensare, solo guardare il mare così piatto, l’impercettibile risacca, una resa plastica come rotolo che si svolge e si riavvolge su se stesso, senza onda, senza frangente, solo fruscio di sassolini. Questo vento debolissimo, inesistente, eppure presente, ha aumentato l’internità della grande camera d’acqua tra Thalassopunta e Capo Agrea, rendendo il golfo quasi una cosa intima, segreta, dove noi ritornanti stanotte ci sentiamo al sicuro. Più tardi andrò in spiaggia. 

ARTICOLO n. 60 / 2023

MALENVIRNE

La temperatura dell’estate

Il prisma ottagonale visto dall’alto sembra un lascito alieno, fantascientifico. Sembrerebbe quasi un lontano parente del monolite di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick se non fosse per la sua quasi totale trasparenza.

Lo spazio in cui è inserito è antitetico rispetto alla sua futuristica figura eppure nessun elemento sembra fuori luogo.

Le otto facce specchiate della struttura, alta circa tre metri, frammentano il riflesso delle pareti del cortile Maqueda di Palazzo dei Normanni rendendo la solenne dimora di Federico II meno austera, più docile, quasi tenera agli occhi del pubblico.

150-93 VIII è l’ultima opera di Edoardo Dionea Cicconi, artista romano che dialoga con il passato e il futuro, con la scienza e la fotografia, nel tentativo di trovare nuove espressioni comunicative che rendano il lascito della tradizione meno polveroso e pesante e soprattutto meno rigido di quanto a oggi non sia.

Il prisma ottagonale – il cui nome in codice altro non è che la distanza tra Terra e Sole –, i cui raggi vengono assorbiti dalle pareti della struttura durante il giorno, di notte diventa trasparente e cangiante, senza però mai smettere di dialogare con e riflettere la staticità dell’ambiente che lo circonda. Il prisma è un elemento che balza innegabilmente all’occhio dei passanti: il cortile in cui è inserito, il Maqueda, è un piccolo gioiello interamente porticato e circondato da due ordini di logge rinascimentali che sembra essere fermo al ‘600.

La dicotomia che prende vita nello spazio ristretto del cortile è un bizzarro quanto affascinante fenomeno, perfetta metafora dello stato dell’arte.

Ho spesso pensato, osservando l’opera dell’artista – in senso lato: il dialogo tra passato e presente, tra tempo e spazio è una costante del lavoro d’ingegno di Cicconi -, a quanto la luminosità riflettente delle superfici da lui spesso utilizzate nelle installazioni sia un perfetto specchio – pardonne-moi, non era voluta – dello stato della cultura italiana.

Nello specifico, il prisma ottagonale dell’opera di Cicconi in esposizione a Palermo fino a fine agosto mi ha dato da pensare allo stato di salute dell’editoria italiana, ancora tanto, troppo incapace di far dialogare passato e presente e tantomeno presente e futuro.

E dal prisma al centro del cortile Maqueda del Palazzo dei Normanni di Palermo voglio proprio partire per provare a spiegare quanto l’editoria non sia in grado di fare da ponte tra generazioni, spazi e soprattutto tempi. Cosa che invece l’arte contemporanea, grazie al lavoro di artisti e fondazioni, musei e collettivi, curatori e collezionisti sta invece riuscendo a smuovere.

L’arte sembra stare bene.

Lo stato di salute non è invece dei migliori, qui tra gli scaffali dei libri.

Se penso alla temperatura dell’editoria italiana di oggi non penso di sicuro a un organismo in salute: febbricola, segni di raffreddamento, congestione e nasi arrossati sono i sintomi che mi trovo spesso a osservare dal mio angolo di scrittrice.

Un grosso cortile tiepido, quello dell’editoria, in cui il peso del passato si fa sempre maggiore più il tempo progredisce, in modo tragicomico e inversamente proporzionale. 

Passato e presente mal dialogano nel cortile dell’editoria, perché nessuno lascia mai volentieri le proprie poltrone e le giovani voci che vorrebbero avvicinarsi alla narrativa vedono poche porte aperte, anticipi da fame e contratti davvero miserabili.

Ma questo braccio di ferro sta rendendo l’industria statica e anacronistica, perché da un lato le case editrici continuano a proporre a cadenza regolare i soliti nomi, dall’altro il pubblico chiede evidentemente e a gran voce linguaggi nuovi. 

E qui si crea un bizzarro cortocircuito, tutto all’italiana perché, ehi, oltralpe se la passano un po’ meglio.

Se all’estero nascono infatti progetti interessanti e innovativi, collettivi come 4 Brown Girls Who Write – fondato a Londra da Roshni Goyate, Sharan Hunjan, Sheena Patel e Sunnah Khan – e associazioni di scrittori e scrittrici under 40 in grado di rivoluzionare le regole del gioco editoriale solleticando la curiosità delle case editrici più prestigiose e dando vita a veri e propri fenomeni under 30, qui in Italia le cose non vanno ancora in modo così spedito. Anzi.

I grossi nomi su cui vengono ancora oggi fatti più investimenti sono i mostri sacri contemporanei, quelli che hanno venduto tantissimo – generalmente tutti maschi bianchi etero over 45 che vanno fortissimo sotto Natale e nei dibattiti televisivi in cui viene chiesto loro quanto siano malati questi tempi – ma che secondo GfK – che osservo avidamente da un paio d’anni – non vendono affatto come dovrebbero, o peggio: come le case editrici si aspetterebbero, visti gli anticipi da capogiro che circolano intorno ai soliti nomi a discapito dei nuovi arrivati, che per 200 pagine di libro prendono tre zeri in meno per poi, in alcuni casi, vendere pure di più.

Il calo delle vendite dei soliti colossi non è però stato improvviso: è un procedimento in atto da qualche tempo, era prevedibile, intuibile e quindi forse arrestabile. Ma ciò che mi interessa di questo flop dei soliti noti (per alcuni è stato davvero un flop, non me ne vogliate, le aspettative erano troppo alte per non essere disattese in pieno ricambio generazionale e rinnovata crisi economica e del settore) è lo spostamento di vendite verso altri lidi, altri temi, altri linguaggi, altre età.

Partiamo da un fatto incontrovertibile: i libri più venduti in Italia sono i fumetti. Zerocalcare e gli anime giapponesi dominano le classifiche dieci mesi all’anno, con vendite da capogiro – nessuno, vi giuro, nessuno, vende così tanto -, e incassi da record. Questo è indicativo di due fattori: il pubblico divora linguaggi trasversali (soprattutto se trasmessi da colossi di talento capaci come pochissimi altri di analizzare con lucidità e universalità il mondo che ci circonda, vedi Zerocalcare) e il pubblico che ne fruisce è giovane.

La fascia che sta più influenzando il mercato è infatti quella “giovane” (e per giovane intendo pure noi millennial anche se dovremmo non esser più considerati di primo pelo ma si sa, qui da noi nel bel paese si è bambocci o “giovani artisti” fino alla decima pubblicazione o al terzo rinnovo della patente) e lo si vede benissimo da alcuni indicatori, di cui vi riporto un paio di esempi:

Il successo di Spatriati, vincitore dello scorso Strega e che parla proprio di millennial; il grosso riscontro di pubblico avuto da quel piccolo capolavoro candidato e ahimè non scelto per la cinquina dello Strega che è Le Perfezioni di Vincenzo Latronico, sempre incentrato sui millennial; la voce nuova, brillante, vibrante di Beatrice Salvioni capace, con il suo esordio e già bestseller La Malnata, di ribaltare le regole del gioco editoriale e infilarsi come presenza stabile nei GfK degli ultimi mesi senza mai abbandonare i primi venti posti della classifica nella narrativa italiana, tenendo testa ad Ammaniti; il bellissimo percorso de I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni, che dopo il Campiello ha continuato un percorso fruttuosissimo e a mio avviso forse poco spinto da chi avrebbe dovuto continuare a spingerlo, così come si fa e confà ai capolavori. Il caso Erin Doom, che non devo neanche spiegarvi; lo spazio tra i classici che ha indubbiamente conquistato Febbre di Jonathan Bazzi; le Ragazze perbene di Olga Campofreda così come L’anima della festa di Tea Hacic-Vlahovic. Anche dall’estero bramiamo novità: la già citata Patel, la svedese Johanne Lykke Holm, il colosso che è ormai Sally Rooney, Pajtim Statovci, Melissa Febos e perfino Joel Dicker sono libri divorati da GenZ e millennial, che riempiono bookclub e pagine social, classifiche e booktok da migliaia di visualizzazioni.

Quelli citati non sono solo libri o nomi di scrittori. Sono indicatori di qualcosa che si sta smuovendo e richiede autori e autrici più giovani, nomi nuovi, stili nuovi, racconti nuovi di generazioni giovani, con scenari differenti da quelli a cui la narrativa italiana ci ha abituati negli ultimi anni.

Precari, inquieti, giovani, complessi, sboccati, reali, scorretti, disillusi, stanchi, animaleschi, Malenvirne: questo vuole il pubblico ma soprattutto questo vuole raccontare una nuova editoria, che cerca di farsi spazio riflettendo sulle sue pareti specchiate un cortile composto da una società desueta, la cui austerità ha ormai stancato chi crea e perfino chi fruisce. 

Ma il dialogo generazionale che dovrebbe avvenire in questo immaginario cortile non c’è ancora e questo è un peccato, perché spesso i giovani che vengono inseriti nei circuiti editoriali sono costretti a esprimersi come gli uomini di mezza età che per gli ultimi anni hanno dominato incontrastati le classifiche, in una brutta operazione di snaturamento che ha come effetto quello di creare orde di radical chic da salotto a unico servizio delle vecchie leve e che di innovativo ormai non hanno niente. 

Questo avviene perché i mentori non sanno più lasciar andare gli allievi e replicano schemi che sono stati di successo sì, ma qualche anno fa. In un altro tempo. E nell’era del digitale il tempo si accorcia sempre di più, allargando però gli orizzonti e le fasce di pubblico, che sono sempre più variegate e che sentono sempre più bisogno di nuove rappresentazioni.

Comprendo che i nuovi ritmi così come le nuove voci possano spaventare la vecchia leva, ma qui ci torna utile riprendere in mano l’analisi dell’opera di Cicconi.

Il presente, il nostro prisma, deve necessariamente dialogare con il futuro. E per farlo non può prescindere dall’ambiente in cui è inserito, il meraviglioso cortile Rinascimentale di cui sopra.

L’opera contemporanea si specchia nel passato e questo è indubbio (Zannoni, Salvioni, Bazzi hanno evidentemente masticato Orwell, Ferrante e Tondelli), ma per diventare altro, non una replica. Non un figlio minore.

E questo non sarebbe neanche stato possibile, perché anche nello spazio editoriale, così come in qualsiasi altro spazio umano, fermare il tempo è contro natura. 

E con gli anni e le generazioni che passano arrivano nuovi linguaggi, nuovi libertini, nuovi modi di discutere e raccontare le storie che acchiappano un pubblico curioso, annoiato da decenni di staticità in cui non si riconosce più (o in cui non si è mai riconosciuto) che alla fine della fiera ha arricchito pochi, uniformato molti, soddisfatto alcuni.

Il dialogo è un esercizio costante di ascolto e presa di parola.

In questo senso, l’editoria potrebbe davvero apprendere dall’arte contemporanea, aprendosi a temi attuali, voci nuove, linguaggi freschi e offrendo delle garanzie economiche maggiori, ridistribuite, eque e gratificanti per nuovi autori e autrici, che saranno invogliati a rimanere nel sistema editoriale senza sentirsene esclusi o senza essere costretti a settecento part-time e a tour di presentazione inesistenti. 

La temperatura dell’editoria è tiepida e questo può dire due cose: o che qualcosa si sta tristemente raffreddando o che, finalmente, ci stiamo avvicinando all’ebollizione.

Spero nella seconda, altrimenti la crisi forse ce la meritiamo davvero tutta.

ARTICOLO n. 59 / 2023

IL GIARDINO DEI CILIEGI IPOTECATO

La temperatura dell’estate

24 giugno 1993. L’estate è appena iniziata, ma a Firenze già si suda. Qui è sempre così: estati torride e inverni intollerabili, e tutto perché ci sono ancora queste antiche convenzioni chiamate “stagioni”, che agli ambientalisti ricordano un mondo migliore. E tutto sommato anche a me, ma solo perché mi fanno tornare in mente Four Seasons of Love di Donna Summer.

La gente passeggia per strada e ammazza il tempo in attesa dei fuochi d’artificio. Oggi è la festa di san Giovanni Battista, patrono locale e simbolo di rettitudine morale e correttezza politica. In una città chiusa come questa le occasioni di mondanità scarseggiano e, pur di avere una scusa buona per festeggiare, gli tocca riesumare la leggenda di un povero santo fatto decapitare per un capriccio di Salomè, la più grande socialite della Giordania.

Sono invitato a una festa in terrazza, in un palazzo a Oltrarno. La padrona di casa è una discendente di Machiavelli, ma l’astuzia politica evocata da quel cognome non è che un ricordo: Firenze non è più un crocevia di intrighi internazionali, ma un dormitorio per ricchi americani che vogliono vedere quel che resta della città che ha inventato gli interessi bancari.

Avrei dovuto vestirmi più leggero, questa camicia rosa – una Vivienne Westwood dal colletto largo anni Settanta – comincia a pesarmi. Ho appena sedici anni, ma mi sento già come uno dei personaggi del Giardino dei ciliegi di Čechov, un aristocratico decaduto e costretto a ipotecare l’ultimo pezzetto di terra che gli dà gioia. Ho la sensazione che la mia riserva di serenità sia rinchiusa in un passato idealizzato e inesistente, un periodo aureo in cui – passato l’inverno – riuscivo ancora a trovare conforto nell’arrivo della primavera e dell’estate, quando potevo raccogliere le mie simboliche ciliegie, rinascere e trovare sprazzi di felicità.

Non è necessario grande intuito per capire che sono gay: il primo paio di scarpe in vernice con tacco a spillo l’avevo comprato a Londra a quattordici anni e a quindici, a Parigi, avevo preso delle zeppe argentate e una pelliccia ecologica (solo perché non potevo permettermi lo zibellino). All’estero non mi faccio problemi a dichiarare la mia omosessualità, e durante le mie estati in Sardegna parlo addirittura di me al femminile. “Sono pronta per la prima colazione” dico ogni giorno al mio risveglio, verso le tre del pomeriggio. Perché su quell’isola mi sento più libero? Forse perché lì fa più fresco e posso sfoggiare i frutti del mio shopping, raccolti in giro per mercatini nei cupi mesi invernali.

Il resto dell’anno e nel resto d’Italia, invece, vivo da omosessuale non dichiarato. Non ho fatto coming out neanche con la mia famiglia, anche se loro – avendo fatto le scuole dell’obbligo – hanno già capito tutto. Non mi chiedono niente solo per eccesso di discrezione. Temono che una parola fuori posto possa frantumare come un cristallo di Boemia il mio cuore adolescente.

Ma chi voglio prendere in giro? Guarda che camicia che ho! Se avessi un triangolo rosa cucito addosso, darei meno nell’occhio. Eppure, niente, proprio non riesco a dirlo, non per codardia ma perché mi sono convinto che devo aspettare il traguardo formale della maggiore età. Come dicono tutti: “Quando avrai diciott’anni potrai fare quello che vorrai”. Mi sono illuso che in quel preciso istante, un attimo dopo aver soffiato sulle candeline, potrò finalmente pronunciare un liberatorio: “Sono frocio”. Ma fino a quel momento, niente. Dio solo sa cosa potrebbe succedere se lo dicessi prima. E per Dio intendo le forze dell’ordine.

Arrivato alla festa, scopro con piacere che si tratta di una di quelle rare circostanze in cui gli invitati non sono una cricca compatta. Delle ottanta persone presenti, infatti, ne conosco giusto una quarantina. Per evitare la noia, volteggio tra la gente con la grazia di uno Jury Chechi, schivando gli sguardi dei soliti noti, fino a quando vengo intercettato dalla padrona di casa.

“La vedi quella?” mi fa, indicando timidamente una splendida signora un po’ sperduta. “È Barbara Hershey”.

Sulle prime il nome non mi dice un granché. So che è un’attrice importante, ma non sono così vecchio da sapere che nel 1973, quando aveva venticinque anni, Barbara è stata una pioniera dell’allattamento in diretta TV. Lo ha fatto davanti alle telecamere del talk show di Dick Cavett (visibilmente inorridito), perché non sopportava di sentire Free, suo figlio di otto mesi, che piangeva dietro le quinte. Né sono abbastanza fricchettone da sapere che nel 1969 aveva scelto di farsi chiamare Barbara Seagull, in onore di un gabbiano morto durante le riprese di Last Summer. Ci tengo a precisare che il film in questione non fu girato a Ostia, come certe opere di Sergio Citti, altrimenti al posto del gabbiano morto ci sarebbe stato un volatile molto più casalingo, come il pollo di Herzog in Stroszek, e Barbara Chicken avrebbe avuto una carriera alla David Byrne, tutta incentrata sulla poetica del quotidiano.

“Fammi un favore” mi chiede l’erede Machiavelli, “parlaci un po’ te che sai bene l’inglese, sennò resta tutta sola…”

Che cosa potrà mai dire un sedicenne a una signora over40 con un brillante (e difficile) curriculum hollywoodiano alle spalle?

“Ehi! Ma tu sei quella che muore di cancro in Spiagge?”

Non è il modo migliore per attaccare bottone, ma devo pur dirle qualcosa e Spiagge è l’unico film in cui sono certo di averla vista, una sob story per famiglie dove lei muore e lascia i figli all’amica Bette Midler, un film sull’amicizia tra donne ricche. Nel 1993 non è esattamente il mio genere. Barbara sorride e, chiacchierando, mi fa capire che ha fatto molto di più. Ha lavorato con Peter O’Toole, Carrie Fisher, Sally Field, Shelley Winters, Willem Dafoe, Harvey Keitel, David Bowie, Gene Hackman, Michael Caine, Sam Shepard, Robert Redford, Robert Duvall, Glenn Close, Dennis Hopper… e, soprattutto, è stata diretta due volte da Martin Scorsese. La prima nel 1972 in America 1929, un piccolo film prodotto da Roger Corman grazie al quale il semi-esordiente Scorsese si fa notare dalla critica americana. La seconda nel 1988 nell’Ultima tentazione di Cristo, uno caso cinematografico internazionale.

L’ultima tentazione di Cristo?” Non ci posso credere. “Io venero Scorsese, ma quel film ha fatto talmente incazzare i cattolici che qui in Italia non è riuscito a vederlo quasi nessuno!”

“Sai, sono stata io a passare a Marty il romanzo di Nikos Kazantzakis”, mi dice. “Gliel’avevo dato sul set di America 1929, gli ci sono voluti sedici anni per trovare i soldi e il coraggio per ricavarci un film. Non hai idea delle cose orribili che hanno scritto su di me…”.

E comincia a raccontarmi di quanto sia stata dura per lei affrontare il bigottismo degli americani, che non le hanno mai perdonato la sua giovinezza hippie, la lunga esperienza da madre single, lo stile di vita indipendente, il ritocco alle labbra (all’epoca una cosa inaudita)* e il suo ruolo di Maria Maddalena in un film maledetto come L’ultima tentazione di Cristo.

Barbara non è il tipo di donna che si guadagna immediatamente l’ammirazione di un sedicenne da cabaret come il sottoscritto, ma non sa di avere un asso nella manica.

“Poi c’è un regista che vorrebbe tanto mettermi nel suo prossimo film… ma è un ruolo po’ troppo rischioso per me.”
“E chi sarebbe?” le chiedo, mentre le mie antenne vibrano sovraeccitate.
“Sono anni che continua a mandarmi questo copione, Cecil B. Demented, si chiama John Waters…”
“John Waters? Ma è il mio eroe!”
“Ah sì? Allora quando torno a casa ti faccio mandare il copione”.

Non ci crederete, ma Barbara avrebbe mantenuto la promessa. Il copione di Cecil B. Demented, che sarebbe stato realizzato solo molti anni dopo, nel 2000, con Melanie Griffith nel ruolo che Waters aveva pensato per Barbara, è ancora nascosto da qualche parte in casa mia. Ricordo che sfogliandolo mi sono soffermato su una sua annotazione: a un certo punto, nelle note di regia, c’è scritto che uno dei personaggi fa “pocket pool” e Barbara ha appuntato a matita “che vuol dire?”. Questa anima innocente non sapeva che vuol dire stuzzicarsi il cazzo attraverso la tasca dei pantaloni.

Per quanto io adori Waters, uno dei registi più divertenti della storia del cinema, capisco la titubanza di Barbara: dopo la gogna mediatica subita per il suo ruolo di Maria Maddalena, è comprensibilmente sul chi vive e lavorare con il più scandaloso dei filmmaker americani non sarebbe una mossa molto astuta. In quella fase così delicata della sua vita, Barbara non può permettersi il lusso di fare una follia come Nicole Kidman con Lars von Trier: le sue uniche preoccupazioni sono rimettersi in piedi, riconquistare la sua privacy, riprendersi la sua carriera di attrice e la sua quotidianità. È una persona pratica, concentrata sul suo lavoro fin da quando aveva diciassette anni. È bellissima, certo, ma non è una mezza calza e non bada molto all’apparenza. Quando viaggia, mi confessa, si porta dietro solo vestiti che non necessitano di essere stirati. Forse perché il ferro da stiro evoca un feudale codazzo di servette e Barbara, invece, ama viaggiare leggera. Vent’anni dopo capirò di somigliare più a Donatella Versace, che per un weekend si porta dietro l’intero guardaroba, un arsenale degno di una vera Iron Man della moda, ma in quel momento mi sento in profonda sintonia con Barbara. Io, un sedicenne “eterosessuale”, convinto di essere schiacciato dal peso del mondo, mi illudo di capire il suo dolore, l’ostracismo subito da Hollywood durante la prima fase della sua carriera (dal 1965 ai primi Ottanta) e la tempesta di fango, insulti e lettere minatorie che l’aveva travolta all’indomani dell’Ultima tentazione di Cristo. Da quando era poco più che una ragazzina, ogni aspetto della sua vita privata è stato gettato in pasto al pubblico.

Qualcosa mi dice che i miei (inesistenti) problemi sono paragonabili a quelli della donna che, prima dell’avvento di Facebook, ha ricevuto valanghe di minacce di morte da ogni angolo del pianeta. Da drama queen quale sono, mi sento capito da questa donna che ne ha davvero passate di tutti i colori: non poteva mettere piede fuori di casa e c’era sempre qualcuno che andava a rovistare nei suoi bidoni della spazzatura. È come se su quella terrazza, sotto il cielo appesantito dal caldo, ci fossimo solo noi due. Sarà che stiamo parlando in inglese e quindi posso scordarmi di essere in Italia, sarà che tutti – come la Blanche DuBois di Tennessee Williams – confidiamo nella gentilezza degli sconosciuti, sarà che anche io voglio contribuire alla conversazione ingigantendo ad arte qualche mio mini-dramma adolescenziale, fatto sta che non riesco a trattenermi. E glielo dico.

“Sai, Barbara, io sono gay”.

È la prima volta che lo dico a qualcuno, qui in Italia. E glielo confesso abbassando la voce, riducendola a un tono circospetto, come se la stessi mettendo a parte di chissà quale segreto di Stato. Come se la mia camicia non avesse già svelato il mio “segreto” prima ancora che aprissi bocca.

Barbara mi sorride, mi rassicura. Dice che è normale aver paura di venire allo scoperto, a prescindere da quale sia il tuo segreto, perché nel momento in cui ti esponi devi essere pronto al peggio. “Soprattutto se finirai a lavorare nello showbusiness” mi dice, dandomi una dritta fondamentale per quello che diventerà il mio mestiere. “In questo giro le persone sono incattivite e disilluse, ti vogliono male anche quando le aiuti, perché credono che tu le abbia aiutate solo per poi tenerle in pugno”. Ma per fortuna non siamo mai soli al mondo, mi rassicura: c’è sempre qualcuno in cui riconoscersi, qualcuno che capisce le tue paure, e non perché le ha superate, ma perché come te non può fare altro che affrontarle.

Siamo diversi, Barbara e io, ma all’ombra delle sue parole posso trovare riparo e sentirmi felice, anche solo per un attimo, con la consapevolezza che in futuro dovrò contare su altre persone come lei. È una sensazione calda, disarmante, un assaggio di cameratismo che mi ottunde i sensi. Sono le dieci e mezza, i fuochi d’artificio si arrampicano in cielo, ma io sento solo piccoli scoppi lontani. La terrazza si anima, gli invitati alzano lo sguardo e fanno “Oooh…”, mentre il sorriso di Barbara si perde nella mischia.            Qualche ora dopo, tornando a casa, l’adrenalina del coming out comincia a scemare. Mi sento di nuovo pesante, come sempre. Non c’è leggerezza per chi ha ipotecato il suo giardino dei ciliegi.


* Sette anni dopo l’incontro con Barbara, forse subconsciamente in suo onore, mi sono fatto un piccolo ritocco alle labbra.

ARTICOLO n. 58 / 2023

GIANNI CELATI: RIPARTIRE

Trilogia Celatiana. Diperdersi

Joseph Cambpell ha detto in un’intervista che il trickster è «un diavolo, un pazzo, e il creatore del mondo». Ci sono tricksters in tutte le mitologie, dalla Grecia antica alla tradizione vedica, ma il termine è stato coniato negli anni Cinquanta dall’antropologo Paul Radin per parlare dei miti dei nativi americani, e non è forse un caso che la vita itinerante di Gianni Celati parta proprio dagli Stati Uniti, dove arriva per la prima volta nel 1971 per insegnare alla Cornell University a Ithaca. È negli Stati Uniti che scrive Le avventure di Guizzardi ed è dagli Stati Uniti che comincia il suo “esercizio autobiografico in 2000 battute” («Parte per gli U.S.A. – Due anni alla Cornell University – Vita nel falso, tutto per darla a bere agli altri», eccetera). Negli Usa Celati torna fino al 2000. L’anno dopo, in Cinema naturale, pubblica un racconto intitolato “Come sono sbarcato in America” che è la storia in terza persona di un personaggio che si chiama Giovanni, arriva negli Stati Uniti per insegnare e gliene capitano un po’ di tutti i colori, e durante tutta questa lunga serie di avventure, che sono avventure nel senso celatiano del termine, avventure in cui non succede davvero mai niente e in cui non si va da nessuna parte, il narratore è interessato a fare una cosa sola, e cioè scrivere una lettera per raccontare agli amici rimasti in Italia com’è l’America. E ovviamente, come nei sogni (il racconto prenderà in effetti una piega onirica, con spettri che parlano alle tavole dei diner e un gallo che canta la notte), questa lettera non riuscirà mai a scriverla.

Celati è un pazzo, nel senso di un giullare, ed è il creatore del mondo: ogni scrittore lo è, e il racconto “Come sono sbarcato in America” lo spiega bene, cioè spiega bene questa cosa ossessiva che è l’arte di narrare, questa ossessione di voler continuamente inventare l’esperienza nell’atto di raccontarla. Celati è anche un diavolo, è «ambiguo e anomalo, inganna, cambia forma, sovverte le situazioni, imita gli dèi, è un tuttofare sacro e lascivo» (Haynes e Doty, Mythical Trickster Figures: Contours, Contexts, and Criticisms). Il trickster è l’anima nera, invertita, sovversiva dell’«indiano metropolitano» del Settantasette bolognese. Celati è luce e ombra, la luce di Celati passa attraverso lo specchio e diventa ombra. Dall’altra parte dello specchio, nell’upside-down della letteratura italiana, c’è un Celati nero, esotico e mutevole, e la sua parola d’ordine è: dispersione.

Il trickster è un mutaforma, uno shape-shifter, perché assume infinite facce. È una deriva deleuziana in cui un singolo brandello di informazione, o un coagulo di informazione, cambia all’infinito rimanendo in fondo sempre uguale a sé stesso. Nei racconti e nei romanzi di Celati non ci sono veri personaggi, c’è un unico personaggio dai molti volti (Guizzardi, Menini, Cevenini) e tutti questi volti sono e non sono quello di Celati, che in questo modo diventa un vero e proprio eroe nel senso che Campbell dava al termine. Il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” è e non è Gianni Celati, la letteratura di Celati è e non è autobiografica perché, come scrive Gabriele Gimmelli, «cerca di collocarsi appena prima» che la distinzione tra fiction e non-fiction abbia luogo – ed ecco liquidato in due sole parole il «deliro burocratico» della collocazione di Celati in un genere letterario o nell’altro. Celati si è mosso per venticinque anni in giro per il mondo, tra Francia, Stati Uniti, Inghilterra, Italia e Africa, ma non è mai uscito dall’Emilia. La pianura di Menini è il Mali di Avventure in Africa: la nebbia della prima si trasforma nella sabbia della seconda («Non è la nebbia che rende la vista così opaca, ma sabbia in sospensione»), lo stupore per il mondo è lo stesso («Tutta la nuvola del niente di speciale che ogni giorno ci avvolge»).

Questo perché il trickster sembra non andare da nessuna parte, o se ci va segue logiche oscure: il suo posto nell’ordine del cosmo è ambiguo. Il trickster inventa il mondo dal fango, come un demiurgo gnostico, non attraverso atti grandiosi come quelli di un dio ufficiale. Crea, ma è difficile capire il senso di quella creazione, che non è né bella né buona e certamente non è utile, e contiene in sé tanto dolore e bruttezza quanto splendore e bellezza – e tutto appare casuale, frutto di un capriccio, e imperscrutabile. Disperdersi è essenziale, perché le energie del trickster richiedono per loro natura di essere consumate, buttate al vento: il trickster deve esaurirsi per dare vita al mondo e, contestualmente, a un tipo di eroe più maturo che possa popolare quel mondo. Celati cammina e cammina, e cammina e cammina, finché non rimangono più energie, finché si è compiuto l’atto propiziatorio che mette in contatto con gli dèi, vale a dire con i demoni.

Il 15 dicembre del 1994 scrive a John Berger, che di lì a qualche anno lo accompagnerà in Emilia per girare Case sparse: «C’è qualcosa (nel tuo tama) – una levitazione spirituale […]. Ma credo che questa levitazione sia per te il risultato di una disciplina, come lo era per gli antichi Santi. Ora, è proprio il senso di questa disciplina che mi sfugge (la disciplina era il mio solo obiettivo nella scrittura, ma adesso sento il demonio in me, e il demonio è l’opposto della disciplina – è il caos)». Questo non è solo il linguaggio di un uomo in lotta con la depressione, è anche il linguaggio di un pellegrino diretto al mondo infero e in cerca del suo Caronte.

Africa

In questo mondo di sotto Celati scende attraverso percorsi paralleli, come un fiume diretto a valle si ramifica in tanti rivoli. Potremmo spiegare forse così questo strano desiderio che gli viene tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila di andare in Africa. Un desiderio pericoloso per gli standard celatiani, perché rischia di trasformarsi in un’“avventura” nel senso romantico del termine, un esotismo, una ricerca consapevole di qualcosa e, non sia mai, di una parte di sé più autentica. Infatti Celati in Africa ci deve andare con una scusa, prima quella di accompagnare in Senegal, Mali e Mauritania l’amico documentarista Jean Talon, che per un gioco del destino si chiama come un amministratore coloniale francese del XVII secolo, e cinque anni più tardi per assumere lui i panni del documentarista e filmare la vita di un villaggio del Senegal. Alla maniera del protagonista di “Come sono sbarcato in America”, durante questi viaggi Giovanni/Gianni non può fare a meno di scrivere tutto quello che vede. Ne escono due diari (Avventure in Africa e Passar la vita a Diol Kadd) e un film che è a sua volta una specie di diario (Diol Kadd appunto). E ne nasce un altro racconto di Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, che è una sorta di commento sul commento fatto da Celati delle sue avventure in Africa, una riflessione sulle sue motivazioni, un dialogo tra due volti di Celati ma anche, come vedremo più avanti, qualcosa di più. “Cevenini e Ridolfi” chiude Cinema naturale nello stesso modo in cui “Come sono sbarcato in America” lo apriva: con un resoconto scritto di un’avventura che non può mai veramente essere scritta.

Consapevolmente o meno – in queste cose non fa poi molta differenza – Celati arriva in Africa sulle tracce di quello che forse è il trickster più famoso di tutti, famoso almeno come il coyote delle leggende dei nativi americani: il coniglio Be’er, che è trasmigrato fino alla modernità capitalista nella duplice forma del Fratel Coniglietto di Walt Disney e del Bugs Bunny di Warner Bros – e che popola insieme ad altri tricksters (Bouki, Leuk) le storie wolof. Avventure in Africa è pieno di figure ambigue e sovversive, personaggi incontrati per caso che si rivelano sempre diversi da quello che sono e costruiscono mondi dove non c’erano, inventando alberghi e servizi di taxi. Ma proprio nel momento in cui arriva più a fondo nella ricerca di della sua anima nera, Celati rischia anche di cadere nella trappola della leggibilità: quando nel 2010 esce al cinema Diol Kadd sono passati vent’anni da Strada provinciale delle anime, quel primo film con le sue dissolvenze fuori moda, le sue atmosfere hauntologiche e il suo mondo di spettri destinati a scomparire. Se Strada provinciale era passato inosservato, Diol Kadd viene presentato al Festival di Roma e Celati deve fare una cosa che probabilmente non avrebbe mai pensato di fare, camminare su un red carpet («Quando ho visto il red carpet volevo entrare nell’auditorium zoppicando, come Quasimodo, il gobbo di Notre Dame», scrive, ed è il trickster a parlare in lui. «Se mi sento a disagio, comincio a fare lo scemo».) Diol Kadd rischia, cito ancora da Gimmelli, «l’alone ecumenico di capolavoro», e infatti riceve il premio come miglior documentario sociale. Il pericolo dell’altromondismo è concreto per quello che è il suo «film più costruito e tradizionale», il suggello dello status scomodo di «classico in vita».

Tanto più che Celati il discorso sul colonialismo lo sta affrontando, in una maniera o nell’altra (cioè in maniera disordinata: ricordiamo il demone del caos) fin dai tempi del suo primo matrimonio con Anita Licari, italo-tunisina che aveva sposato nel 1966. Celati andava nella Tunisia da poco diventata indipendente e Anita, che era francesista a Bologna, nel 1978 pubblicava con Roberta Maccagnani e Lina Zecchi un libro intitolato Letteratura esotismo colonialismo. L’introduzione di Celati (“Situazioni esotiche sul territorio”) propone – scrive Gimmelli – «la via di fuga […] della flanerie intesa come viaggio nell’indifferenziato»: propone cioè da un lato di «recuperare l’esotismo nei termini deleuziani di una riterritorializzazione del mondo» e dall’altro di «riappropriarsi dell’idea di avventura liberandola dalle incrostazioni dello sguardo coloniale». Non dimentichiamo che siamo negli anni di Alice disambientata, il testo più deleuziano di Celati. Dunque andare in Africa per liberare lo sguardo dall’idea dell’Africa, dell’esotico; andare in Africa per perdersi, per disperdersi. Ma anche per riterritorializzare il movimento di quella perdita e di quella dispersione: è un equilibrio sottilissimo e forse Celati non l’avrebbe mai raggiunto con la scrittura e l’ossessione della scrittura di dire quello che non c’è, il suo implacabile impulso a creare mondi. Per arrivare in quel punto ci voleva l’occhio “oggettivo” del cinema.

Cinema

Facciamo un passo indietro. Come abbiamo visto, Celati al cinema aveva esordito nel 1992 con Strada provinciale delle anime¸ ma l’avvicinamento alla macchina da presa era stato lungo e laborioso, al punto che potremmo dire che nell’opera celatiana il cineasta è fin dall’inizio parallelo allo scrittore, anche se nascosto: una sorta di ombra del Celati ufficiale. Tant’è che già Alice disambientata aveva dato origine a un breve film, nato in parallelo alla scrittura collettiva del libro, e che diverse idee di progetti erano nate e tramontate prima che Strada provinciale arrivasse a essere trasmesso in TV. Ancora una volta ci troviamo di fronte all’aspetto ricorsivo del metodo di lavoro celatiano, il percorrere e ripercorrere gli stessi sentieri. E ancora una volta ci troviamo al cospetto di una forma del trickster, questa volta quello che si trova nell’«anima della commedia», come ha scritto Eric Weitz, la figura «dispettosa, ingenua, indulgente, piena di risorse, guidata dagli istinti di base e vitale che popola le sfere dell’intelligenza illogica che chiamiamo solitamente “humor”». Non è un caso che, come ha notato Marco Belpoliti, gli interessi cinematografici di Celati partano dalla slapstick comedy, al punto da «eleggere Buster Keaton a figura-guida».

Ma un altro parallelo tracciato da Belpoliti mi sembra qui particolarmente interessante: quello con il cinema di Dziga Vertov (parlando di Diol Kadd: «il racconto si svolge a Diol Kadd, ma potrebbe essere un villaggio della campagna ferrarese o friulana degli anni Cinquanta o Sessanta. Una cronaca minuta e senza nessuna pretesa di esaustività; immagini terse, pulite, sguardi ampi, e visioni scorciate, viste attraverso gli ingressi delle case e delle capanne, come se a girare il tutto fosse stato un Dziga Vertov lirico e postsovietico»). Da Vertov, Celati sembra mutuare quel «carattere testimoniale della registrazione meccanica» (Enciclopedia Treccani) senza il quale si rischierebbe di sprofondare nel soggettivismo esasperato della scrittura, nella tentazione della creazione del mondo a cui tentano inutilmente di sottrarsi il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” e il Cevenini di “Cevenini e Ridolfi”. Ricordiamo il linguaggio della lettera del 1994 a Berger: il tama (il sapere occulto della tradizione vedica), la «levitazione spirituale», gli «antichi Santi», il «demonio»: è evidente che qui Celati ha abbandonato il cinema come puro movimento, il cinema come sovversione dell’ordine, e sta cercando – anche, ma non solo, attraverso il cinema – una forma di spiritualità.

Quindi è logico che alla fine scelga proprio Berger come animus per il suo film più hauntologico e destrutturato, è logico che Berger faccia il ruolo di traghettatore verso una sorta di aldilà, ed è logico che questo viaggio verso gli inferi passi per la Pianura Padana: Case sparse è un viaggio nel mondo di sotto e come tale non può che essere un ritorno laddove tutto è cominciato, l’Emilia; è un viaggio nella malinconia, personale e collettiva, privato del senso del tragico (che in Celati non esiste nemmeno nei momenti più cupi); è, letteralmente, uno sguardo alla casa che crolla e che ci si lascia alle spalle – e non per niente dopo Case sparse Celati all’Emilia nel suo lavoro non ci torni più, come se un percorso si fosse finalmente esaurito. 

Attraverso l’Inghilterra di Berger Celati può tornare all’Emilia e lasciarla andare: ciò che segue nei dieci anni successivi, gli ultimi significativi della produzione celatiana, è l’Africa, il (post)esotico, l’altrove. Berger è una figura infera perché conduce alla morte, permette di attraversare la morte, permette di guardare finalmente il mondo dall’altra parte della morte, come succede alla protagonista del racconto “Nella nebbia e nel sonno” che vede tutte le cose coperte di polvere, come saranno in un futuro postumo. Permette di arrivare appunto a un “cinema naturale” della mente, dove le cose scorrono come su uno schermo nella loro naturalezza: permette, cioè, di arrivare a una sorta di pace.

Pace

Il cinema di Celati parte dal movimento sovversivo e asignificante della slapstick comedy e arriva al lirismo calmo, a suo modo trascendente, di Diol Kadd; nell’esotico, o meglio nel post-esotico, il movimento si deterritorializza per riterritorializzarsi in una dimensione diversa, eterea; l’irrequietezza dello scrittore-camminatore, dello scrittore che per scrivere deve esaurire e disperdere le proprie energie, arriva a un fragile, precario punto di stasi, un fermarsi che non corrisponde più alla morte ma una sorta di esperienza spirituale. È una visione, letteralmente, filtrata dall’occhio meccanico del cinema. «Dolcezza del vivere e trascorrere del tempo», scrive ancora Belpoliti, «un tempo che non si esaurisce, che non fugge, ma che ricomincia». Ripartire stando fermi: in Diol Kadd Celati raggiunge la sua «levitazione spirituale», tiene a bada per un momento il demone del caos.

Ed è qui che il racconto che chiude Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, diventa la pietra angolare di una inaspettata svolta dell’opera celatiana. All’apparenza la trama è delle più classiche: due «vecchi amici un po’ avanti negli anni», che «passavano la vita senza far niente di speciale e al massimo di sera giocavano a carte oppure a biliardo nei bar di campagna vicino a casa» un giorno decidono di partire per un viaggio in Africa. La ragione del viaggio è che Cevenini, che è ottimista e posato, vuole curare con la magia l’amico Ridolfi, che invece è depresso e soggetto a incontrollabili attacchi d’ira. Durante tutta l’avventura, Cevenini scrive delle memorie che costituiscono la fonte del narratore del racconto: dunque abbiamo Celati, autore di un racconto (“Cevenini e Ridolfi”) che inventa un personaggio (Cevenini) autore di un diario delle sue “avventure in Africa” (come un libro di Celati) che il narratore del racconto (forse Celati, forse no) commenta e riassume: basterebbe questa contorsione metaletteraria degna del Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore per farci capire che ci troviamo di fronte a qualcosa di più che un racconto semi-comico, o semi-tragico, che è lo stesso, di avventure.

Infatti “Cevenini e Ridolfi” è quello che potrei definire il resoconto di un’esperienza mistica in uno degli scrittori italiani che apparentemente sembrano più lontani dall’idea di misticismo. Già dalle prime battute risulta abbastanza chiaro che Cevenini e Ridolfi sono due incarnazioni di Celati stesso, potremmo dire la luce e l’ombra che si combattono in tutta la sua opera, l’aspetto scanzonato e quello iracondo, la fiducia e la depressione; e il fatto che nel corso del racconto i due personaggi arrivino a scambiarsi i ruoli, con Cevenini che diventa via via più pessimista mentre Ridolfi viene investito da un’illuminazione che gli fa scordare il suo mal di vivere, ne è la prova. Ma è proprio il procedere del racconto, che (come tutti i racconti di Cinema naturale, ma qui forse in maniera più estrema, più consapevole) divaga fino alla destrutturazione, alla dispersione, alla perdita di sé, alla dissoluzione nell’astratto, a riportarci in maniera più decisa sui confini sfumati tra la fiction e la non-fiction, il racconto e la meditazione filosofica. Forse qui non appena prima del confine, ma appena dopo, in un altrove non completamente mappato.

Perché man mano che i due amici penetrano nel cuore dell’Africa, e Ridolfi penetra nel cuore della sua illuminazione, e penetrando nella sua illuminazione guarisce del mal di vivere e si ammala nel corpo fino alla paralisi e alla morte, ciò che il scopre nel suo filosofeggiare è la «bellissima calma delle cose buttate via»; scopre che il segreto della felicità è quello di «scaricare via le fisime dell’immaginazione, che poi fanno sempre venire delle foie, e con le foie dopo uno vorrebbe che tutto andasse come vuole lui»; che «le cose esistono solo in particolare, solo come cose particolari, una per una». E man mano che si ammala, o guarisce, perché forse tra le due cose non c’è differenza, Ridolfi diventa una specie di guru, impegnato solo nel dire frasi filosofiche come «la virtù è la mente che agisce e non patisce, le foie sono la mente che patisce e non agisce», oppure «sono triste ma la mia tristezza è naturale, non mi dà fastidio». E naturalmente c’è dell’ironia in tutto questo, c’è una comicità, e anche una grande tristezza, ma c’è anche, finalmente, un punto d’arrivo: uno sguardo che si apre ampio e calmo. Non c’è più bisogno di muoversi, ci si è persi abbastanza da non aver più bisogno di disperdersi.

Che cos’è infatti il cinema naturale se non questo sguardo terso, questo schermo su cui scorre lo spettacolo del mondo, nella sua naturalezza, senza l’immaginazione che produce desiderio, senza le generalizzazioni che producono concetti? Questo schermo su cui scorre la vita così com’è, le cose particolari, una per una? Che cos’è il cinema oggettivo di Dziga Vertov se non una metafora della mente come campo aperto dove le rappresentazioni del mondo passano senza essere trattenute, dove il mondo compare e scompare, si modifica, scorre? E che cos’è questa mente come uno schermo dove scorre l’apparenza del mondo se non una mente che medita, che ha raggiunto una forma di pace sufficiente da guardare le cose così come sono, senza bisogno di descriverle, di riscriverle, di inventarle, di sostituirle? Che cos’è questa mente-come-cinema, questa mente che medita, se non il punto in cui la scrittura si disperde totalmente, smette di essere necessaria?

Alla fine il movimento ha condotto alla calma, per quanto temporanea possa essere; lo spirito sovversivo del trickster a una forma di spiritualità; la discesa negli inferi, proprio come capita a Ridolfi, porta una nuova luce alla coscienza. Perdersi porta a ritrovarsi scoprendosi diversi. In questo agire senza patire, in questo tornare naturali, nel disperdere le energie mentali fino all’esaurimento, Celati trova il suo tama. Nell’altrove, scordando sé stesso, trova il punto al centro di sé stesso da cui in fondo non si è mai spostato. Trova il miracolo di una scrittura senza scrittore, di un cinema senza regista né personaggi né spettatori, in cui il mondo scorre davanti a una macchina da presa dietro la quale non c’è più nessuno. 

ARTICOLO n. 57 / 2023

tuttoamore

Pubblichiamo come anticipazione del volume di Nisargadatta Maharaj, Essere è amore (Il Saggiatore) – in libreria da venerdì 7 luglio -, la prefazione di Aldo Nove.

Dopo la fine della Storia. Nell’inciampo quotidiano della sua distorsione, sono sempre di più a percepire che in questo mondo, in questa vita, «c’è qualcosa che non va». A livello di massa, il testo popolare che meglio lo ha espresso è in realtà un film, Matrix. Il protagonista, Neo (nome scelto non certo a caso), percepisce che tutto ciò che lo circonda ha qualcosa che non lo convince. Non lo convince affatto. Non lo convince la sua stimata posizione sociale. Non lo convincono le sue stesse percezioni. Si tratta, per Neo, di scendere nella tana del Bianconiglio, crossover con l’esoterico classico di Lewis Carroll Alice nel paese delle meraviglie

Qualcosa che ci contiene prosegue.
Una tragedia irrisoria.
Irrisoria e ostinatamente mortale: «La tragedia è ciò che continua a finire» scrive un Hegel illuminato nella sua Fenomenologia dello Spirito. 

Questi tempi, mysterium iniquitatis, ci spingono forse a un salto di consapevolezza. Alcuni lo ipotizzano, altri ci credono fermamente, in special modo in plurimi contesti new age. 

Fatto sta che stiamo male. 

La narrazione, qualunque piega prenda, non funziona più.

E come per ogni malattia, è opportuna una medicina. Sri Nisargadatta ci offre la medicina suprema, che è anche il titolo di un suo libro, reiterazione tendente all’infinito del suo mantra: «Io sono», da ripetere fino all’esautoramento di ogni significato possibile di quell’io.

Fino alle radici dell’Essere (curiosa la questione delle maiuscole e delle minuscole, quando ci si avvicina all’inesprimibile, che sta sempre oltre il linguaggio). 

In un altro contesto, quello della filosofia occidentale coeva al percorso dell’insegnamento di Nisargadatta, veniva emergendo, specialmente nell’incontro tra psicanalisi e strutturalismo, un’analoga «demolizione dell’ego». «L’inconscio è strutturato come un linguaggio», il celeberrimo concetto di Jacques Lacan introdotto nel suo Discorso di Roma del 1953, unito all’altra «rivelazione-mantra», «C’è chi parla», spinge gli spiriti più acuti e tormentati (felicemente tormentati) a nuove vette di coscienza. Vette in Italia divulgate, probabilmente, da chi, «recitando sé stesso», le ha messe in pratica condividendole sotto forma di un teatro spostato verso l’oltre, sempre verso l’oltre: Carmelo Bene. 

Il suo «Io non esisto» pareva a molti una boutade.
Lo pare ancora.
Ma intanto macina.
Sono quei «semi di fuoco» (così li chiamava Nisargadatta) che senti e poi, consciamente, magari dimentichi. Ma intanto maturano dentro. 

Ti scaraventano altrove. 

2.

Difficile descrivere la ridda di emozioni che ha suscitato in chi scrive (saranno passati trent’anni da allora) la prima lettura di Nisargadatta. Quel libro, Io sono quello, caposaldo ormai del pensiero mistico indiano contemporaneo (ma esiste una contemporaneità, in una tradizione millenaria che cambia i maestri ma non l’essenza senza tempo del suo insegnamento?), prima e più celebre raccolta di discorsi del Maestro, la prende un po’ alla larga. Nisargadatta accetta le divagazioni, risponde pur con sarcasmo alle curiosità di chi è accorso da tutto il mondo per sentirne le parole. Con il passare degli anni, e della sua malattia, il discorso si fa più rarefatto e al contempo stringente. In prossimità dell’abbandono di questa forma temporale, Nisargadatta non può sprecare parole. Essere è amore va dritto subito al bersaglio e lì si inchioda, e ci inchioda. Ma, sempre, a una prima lettura (come alla quindicesima) le sue parole bruciano. Ustioni nell’anima a rigenerarne il percorso di autoconoscenza, spingendo sempre oltre l’asticella che separa il conosciuto dallo sconosciuto, l’ego dall’infinito. Quello che credo chiunque percepisca alla sua lettura è che non c’è luogo o condizione in cui acquietarsi. Almeno fino a che si è soggetti di qualcosa. 

Sul palco della grande illusione di questo mondo, della sua esistenza, tutto deve sparire. E poi deve sparire il palco. 

E il teatro.
E tutto ciò che li circonda.
Fino a che il vuoto o l’essere, anch’essi svuotati di un’essenza che non hanno in realtà mai avuto, si possano abbandonare al tuttoamore che per sempre e da sempre vibra imperturbabile. 

Il tuttoamore è pura presenza. Il tuttoamore non contempla altro che sé stesso, che non c’è. 

Io siamo quello. Noi siamo quello.

E se nessuno è nato e nessuno è morto, tutto ciò che ci vincola a questa esistenza è ciò che ci preclude la via ultima, da quando qualcosa inizia a percepirsi come un essere, quella cosa determinata e a sé fedele tra infinite altre cose, nel precipitato illusorio di onde universali che si infrangono, alla fine, contro la propria stessa impalcatura di menzogne, complice la mente, ingannatrice suprema e subdola, nostro parziale, parzialissimo amore che muore, ogni giorno, di più. 

Fino a completa guarigione. 

Mauro Bergonzi[1] è uno dei pochissimi italiani ad avere avuto la fortuna di incontrare Sri Nisargadatta Maharaj nel 1981: ossia durante i satsang[2] le cui trascrizioni sono qui raccolte. Ne ricorda i piccoli e nerissimi occhi, lo sguardo di fuoco. E ricorda come Nisargadatta si fosse rivolto direttamente a lui dicendogli, ex abrupto: «Non ti perdere nei mille rami delle mille domande, ma vai dritto alla radice. All’unica domanda che conta… Io ti ci metto. Anzi, ti ci seppellisco. E rimani lì. Fino a che non scompare colui che cerca. Allora ti troverai al di là. Nell’ignoto». 

Perinde ac cadaver, diceva della sua conversione sant’Ignazio di Loyola: «allo stesso modo di un cadavere». Si tratta, per Nisargadatta, proprio di «morire» definitivamente. 

Ma cosa, chi muore? Ciò che non è tutto. Ciò che non è Essere. Ciò che non è Amore. L’ego.

Allora resta (termine rischioso, questo «resta») l’Essere. Che è amore assoluto e incondizionato, senza scissioni, senza differenze («qualcosa di completamente impersonale», dice altrove Nisargadatta). Quel «qualcosa» (in riferimento alla nostra esperienza, quando si realizza consumandosi del tutto) si allarga fino a essere tutto l’universo e tutti gli universi ed è inesprimibile. Lo chiamo tuttoamore per giocare con le parole come intuitivamente sento essere, e ovviamente arbitrariamente, in italiano, abilitato da uno scarto linguistico improbabile e per questo, forse, efficace. 

Quando mi è stato chiesto di scrivere la prefazione al vertiginoso libro che tenete tra le mani, ho provato il senso di un grande onore ma anche quello di lanciarmi in una mission impossible. In realtà, di questo libro non si può parlare, perché va oltre ogni possibilità dell’umano dire («Trasumanar significar per verba / non si poria» diceva del resto uno molto famoso e con una certa dimestichezza con questi temi). Nisargadatta prende a calci in culo ogni pretesa intellettuale, e lo fa con amore. 

Diceva Kundera che ogni libro serve ad andare oltre ogni libro, e questo, anche senza saperlo, cerca di farlo. 

Ma, continua Kundera, quel libro, forse, non verrà scritto mai. 

E infatti Nisargadatta, come Buddha e Cristo, non ha mai scritto un libro.

In qualche modo li ha distrutti tutti. Come Buddha.
Come Cristo.

tuttoamore. Altro alla meta non è dato. Qua il paradosso estremo della mistica e del sublime mentore che ne fu Sri Nisargadatta Maharaj. Alla meta non c’è più nessuno. 

Oppure, c’è proprio lui, Nessuno.
Che c’entriamo, noi, con Nessuno?
C’entriamo.
Ma, come scriveva Rainer Maria Rilke, «è difficile essere morti».

3.

Maruti Kampli nasce a Bombay[3] il 17 aprile 1897, dove morirà, con il nome ormai conosciuto in tutto il mondo di Sri Nisargadatta Maharaj, l’8 settembre 1981. E già queste note biografiche iniziali sono paradossali per chi ha sempre proclamato di non essere mai nato e di non essere mai morto. Altrettanto paradossale, o meglio, nell’ottica della Tradizione che Nisargadatta ha rinvigorito, inconsistente è il luogo, che, ha più volte dichiarato Nisargadatta, in sé non esiste. Non esiste «Bombay» se non come illusione mentale. Partendo dall’esperienza, l’unica cosa che davvero conta nel coacervo di elementi che chiamiamo individuo è solo lì, nessuno ha mai fatto esperienza di «Bombay». Si tratta di una convenzione linguistica e dunque delle conseguenze figurative dell’evocazione di un fantasma sottoposto a restrizioni quanto mai elastiche della cianfrusaglia mentale che abita la mente che ci abita. 

E poi la vexata quaestio dell’essere nati.
E pure, dopo, l’essere morti.
A chi gli chiedeva (e succedeva sempre) «Cosa c’è dopo la morte», Nisargadatta ribaltava la domanda chiedendo all’interlocutore cosa ci fosse stato, per lui, prima della sua nascita, e su quello insisteva di meditare. Ovviamente, la risposta era sempre uno smarrito arrampicarsi sui vetri, incalzata da un «Ricordi tu, forse, che prima di nascere stavi male?». Con la risposta, a cui è impossibile sottrarsi: «No». E con un successivo, martellante: «E la nascita, la tua nascita, la ricordi?». La replica è altrettanto ovvia quanto micidiale. Quindi a nascere o, meglio, a manifestarsi, è la mente. La mente che dice di essere un individuo. Si localizza, legandosi a un corpo, e il rapporto di quello con ciò che quello non è (pur essendo già il corpo un insieme di elementi tenuto assieme momentaneamente) è «la realtà» individuale. 

L’aprirsi di una ferita. 

Che si rimargina alla completa guarigione. Attraverso la meditazione.

«Meditazione» o «yoga», o «pratica» che era, è, sempre, indagine del presente. Perché nulla esiste se non il presente. C’è o, meglio, appare, per Nisargadatta come per tutta la tradizione advaita, solo quello che viene proiettato sullo schermo dell’assoluto incontaminato adesso.

Per scorrere via e lasciar posto ad altre manifestazioni del gioco della vita (lila, in sanscrito). Identificarsi con il flusso di queste apparizioni, con l’alternanza mondana di gioie e dolori, nell’alternanza di sogni e paure, è il grande inganno di Maya, il velo che tutto (s)copre per infinita autocompiacenza dell’Essere. Ne consegue che il primo passaggio del ricercatore è quello di osservare con distacco quello che succede (nel nostro caso, quello umano, si tratta di osservare il nostro corpo, attraverso il quale è possibile «fare esperienza del mondo»). Nisargadatta ci pone ben oltre questa posizione (che è quella poi dell’«osservatore» nella pratica, ad esempio, vipassana o anche, a Occidente, della meditazione trascendentale)[4] e ci spinge sulle soglie dell’Ignoto e oltre. Lo fa con rude affettuosità. Ci scaraventa nell’abisso con amore. 

Perché non è l’abisso a farci paura, ma la paura dell’Ignoto.

Torniamo alle, per quanto stringate, note biografiche. Quello che poi diventerà uno dei più grandi maestri spirituali induisti cresce in una famiglia povera. Se seguissimo il sistema delle caste indiane, potremmo dire che si trovava al livello più basso. Suo padre era prima «assistente domestico» (cameriere generico, factotum) e poi agricoltore. Quando il padre morì, Nisargadatta (aveva allora 18 anni) trovò lavoro come tabaccaio o, meglio, come produttore e venditore di bidi[5]. Lavorò con la sua famiglia (si sposò poco dopo, generando quattro figli, tre femmine e un maschio). Quello resterà, fino alla sua morte, per lui e per la sua famiglia, il mezzo di sostentamento materiale. L’illuminazione avvenne quando ottenne il moksha[6] durante l’unico viaggio della sua vita, sull’Himalaya al seguito del guru Sri Siddharameshwar, penultimo anello di una catena di maestri a cui si aggiungerà, appunto, Sri Nisargadatta Maharaj. 

Dopo il moksha, tutta la sua vita si svolgerà nel mezzanino di casa sua, dove sempre più gente e da tutto il mondo si radunerà a seguire i suoi satsang. Le parole di un tabaccaio analfabeta si sono così infiltrate nella coscienza dell’Oriente e dell’Occidente, spostando davvero al limite i paletti dei nostri limiti, che sono tutti mentali.                                                                                              

Semi di fuoco. 

4.

satsang di Sri Nisargadatta Maharaj erano vere condivisioni di elevazione spirituale, davvero molto lontani da quello che noi possiamo immaginare in relazione a un maestro che si rivolge ai suoi discepoli. Nisargadatta rimase fino all’ultimo curiosissimo di tutto e di tutti. Spesso era lui a rivolgere domande a chi si avventurava ad ascoltarlo nel suo periferico quartiere di Bombay. Spesso parlava molto, a volte non diceva che pochissime parole. Ma l’essenza delle sue «prediche» (o «conferenze»: così ho trovato in diverse traduzioni) era il dialogo, in una modalità in qualche modo maieutica (come lui stesso ha dichiarato) per far sì che a parlare fosse, alla fine, non la persona Nisargadatta, ma quello spirito incondizionato che da lui fluiva irradiandosi oltre l’illusione del molteplice, accogliendo così ogni religione o via di ricerca spirituale, certo oltre l’«intelligenza» o la «sapienza» di un maestro che è più il direttore di un’orchestra tesa al raggiungimento della consapevolezza di essere non coro ma unità. 

Sciogliendosi nell’unità.

La via della liberazione prevede che ogni percorso non possa che essere individuale prima di trionfare nel tuttoamore che è squisitamente impersonale. 

Essere-coscienza-beatitudine[7]. L’Universo si ama.
L’Essere si ama. 

LEssere è Amore.


[1] Docente di Religioni e filosofie dell’India presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, Mauro Bergonzi ha scritto diversi libri sulla filosofia advaita. Ci piace segnalare il suo intenso Il sorriso segreto dellessere, Mondadori, Milano 2011. L’esperienza riportata è reperibile su YouTube, raccontata dallo stesso Bergonzi, all’indirizzo: https:// www.youtube.com/watch?v=C4_Ls8PdALY.

[2] Difficile tradurre un termine come satsang. Così come è difficile trasporre nella nostra cultura tutta la terminologia dell’induismo advaita, specialmente laddove si propone di andare oltre il nostro essere «persone» (ma qua ci aiuta l’etimo, in latino «persona» è «maschera»). Satsang è composto da sat («essere» e/o «verità») e sang («riunione», «comunità»). Tutti i libri di Nisargadatta sono trascrizioni dei suoi satsang.

[3] Oggi Mumbai, è la prima città, per densità di popolazione, al mondo.

[4] Nell’antica lingua indiana pali, più o meno «osservare le cose profondamente, per quello che sono». Pratica insegnata direttamente da Gotama il Buddha per superare la sofferenza del vivere. Degna di rilievo credo sia la possibilità di accostare la figura di «chi compie l’osservazione vipassana» agli esiti ultimi della fisica quantistica e, in particolare, a quelli di David Bohm, che ebbe un lungo e proficuo confronto con Jiddu Krishnamurti (uno dei tre maestri di cui Nisargadatta esponeva, nel mezzanino in cui svolgeva i suoi satsang, l’immagine). Ma già nel famoso esperimento del gatto di Schrödinger «l’osservatore» scopre che è lui a determinare le qualità delle manifestazioni della materia. La Meditazione trascendentale, sempre da origini vediche e introdotta in Occidente nel 1958, è appunto la più diffusa, fuori dall’India, «forma di meditazione senza oggetto determinato».

[5] Piccole sigarette costituite da un’unica foglia di tabacco arrotolata. Sri Nisargadatta Maharaj ne fumerà una dietro l’altra per tutta la vita, anche durante i suoi satsang. A chi gli chiedeva come mai un maestro spirituale si lasciasse andare a un tale vizio, rispondeva impassibile che il vizio lo aveva il suo corpo, non lui.

[6] «Liberazione», «salvezza», «affrancamento dal ciclo delle reincarnazioni» in tutte le tradizioni induiste, e prossima al da noi più conosciuto nirvana del buddismo. Noi l’abbiamo qui introdotto con «illuminazione» in quanto più prossimo alla nostra cultura e per quanto il termine sia soggetto a molteplici sfumature.

[7] Sat-cit-ananda: l’Essere supremo, Dio, l’Assoluto. «Chi mi percepisce dappertutto e vede ogni cosa in Me non mi perde mai di vista, né io perdo mai di vista lui» dice Krishna ad Arjuna in Bhagavad Gita VI:30. 

ARTICOLO n. 56 / 2023

QUASI ZERO

in memoria di g. detto p.

All’inizio di questa primavera è morto un uomo di novant’anni. È stato uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento e dei primi ventitré anni del nuovo millennio, sebbene non abbia mai pensato di essere un rivoluzionario. Il suo stile di vita, se fosse stato diffuso in tutto il mondo e soprattutto in Occidente, forse avrebbe cambiato le sorti del pianeta, ma il suo stile di vita era eversivo, inaccettabile proprio per l’Occidente.

L’uomo era nato e cresciuto nell’hinterland sudovest di Milano, quando hinterland esisteva come parola ma non ancora come zona periferica estesa intorno alla città. 

Negli anni Sessanta, la cittadina nella quale l’uomo viveva offriva tutto ciò di cui un essere umano, nel Novecento, necessitava: case, scuole, un ospedale, fabbriche, uffici, autobus, treni, campi coltivati, cascine, orti, un mercato trisettimanale, supermercati, sedi di partito, circoli dopolavoristici, bocciofile, campi da calcio, una piscina, una biblioteca.

L’uomo aveva conosciuto una coetanea, si era fidanzato e sposato. La moglie faceva la casalinga, non si sa se per scelta, poiché in quel periodo era abbastanza semplice trovare un lavoro. L’uomo lavorava come operaio in un’azienda che produceva lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, scaldabagni e altri elettrodomestici.

Il loro primo e unico figlio era nato nel 1962. La coppia viveva in affitto, all’ultimo piano di una palazzina di quattro. Era una di quelle palazzine senza ascensore, costruite negli anni Cinquanta, l’intonaco beige, le tapparelle nocciola, le finestre al piano terra con affaccio sulle auto parcheggiate rasente il muro condominiale, e i piccoli balconi punteggiati dalle tende blu, rosse, verdi, indispensabili durante i mesi estivi. 

Una vita condominiale tranquilla, vivacizzata soltanto dalla musica che il vicino di casa ascoltava a un volume ritenuto, dall’uomo, troppo alto. Allora l’uomo percorreva due metri sul pianerottolo e bussava alla porta del vicino. Preferiva bussare al posto di suonare il campanello: forse in quella scelta, che prevedeva l’uso di una parte del proprio corpo, sentiva una intenzionalità, una responsabilità, un rigore morale. 

E tuttavia, al tempo stesso, si infastidiva poiché doveva bussare forte, picchiare le nocche su quel legno modesto, rivaleggiando, nella scala del rumore, con le canzoni di Mina, Celentano, gli acuti di tutta la musica leggera italiana. 

Il vicino apriva la porta e dopo i rimproveri abbassava il volume, per il quieto vivere. A volte, invece, non si alzava dalla poltrona: riconosceva il suono delle nocche sulla porta e abbassava il volume, lasciando all’uomo la sensazione che tutto fosse una specie di allucinazione prodotta dalla sua mente, dal suo battito accelerato davanti alla porta di un estraneo.

L’uomo considerava il vicino amante della musica leggera come qualcosa di vago, un giovane, un giovanotto, o meglio, un giovinotto, sebbene il vicino avesse soltanto quattro anni meno di lui. 

Dopo un decennio in affitto, la coppia aveva deciso di acquistare un appartamento al quinto piano di un palazzo di nove. Il figlio avrebbe avuto una stanza tutta per sé. 

L’uomo lavorava in un’azienda solida, le pubblicità delle lavatrici e delle lavastoviglie apparivano su alcuni quotidiani, a volte perfino sul giornale del Partito Comunista Italiano. L’uomo non comprava mai il giornale del Partito Comunista Italiano: non era comunista, ma anche qualora fosse stato comunista, non avrebbe comprato il quotidiano del Partito Comunista Italiano; se fosse stato socialista, non avrebbe comprato il giornale del Partito Socialista Italiano, e se fosse stato democristiano non avrebbe comprato il quotidiano della Democrazia Cristiana. L’uomo aveva uno stipendio dignitoso, ma comprava pochissime cose, evitava di lasciarsi sedurre dagli slogan e dalle esigenze indotte dalla pubblicità. La pubblicità degli elettrodomestici prodotti dall’uomo esaltava la qualità di lavatrici e lavastoviglie, arrivando a sostenere: Danno rilievo alla vostra personalità.

La coppia aveva acquistato l’appartamento, l’aveva arredato in modo frugale, comprando pochi mobili e gli elettrodomestici indispensabili – il frigorifero e la lavatrice – ma non la lavastoviglie, sebbene la producesse proprio l’uomo lavorando alla catena di montaggio. E invece, dopo cena, l’uomo lavava i piatti, anzi, pretendeva di lavare i piatti: dopo otto ore di lavoro in catena di montaggio, amava riempire il lavandino di detersivo e immergere le proprie mani nell’acqua calda mimetizzata nella schiuma bianca, per allontanare e dimenticare – nel calore che diventava molto in fretta tepore e freddo in pochi minuti – il motivo per cui aveva passato tutte quelle ore dentro la fabbrica. Una lavastoviglie, invece, glielo avrebbe ricordato sempre.

Del resto, come anticipato all’inizio di questo omaggio a uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento, l’uomo si era distinto per la frugalità quasi assoluta, che rasentava il fanatismo mistico, se soltanto l’uomo fosse stato incline al misticismo religioso. 

Non aveva mai voluto prendere la patente di guida e quindi non aveva mai comprato un’automobile. La distanza dalla casa alla fabbrica era di 1300 metri. L’uomo percorreva quel tragitto quasi sempre in bicicletta, a volte a piedi, impiegando, a seconda della scelta, quattro o sedici minuti. Usava la bicicletta in qualsiasi stagione dell’anno, quando pioveva pedalava proteggendosi con un ombrello; qualora nevicasse, davanti a una decina di centimetri sull’asfalto decideva di andare al lavoro a piedi. Indossava la tuta da operaio fornita dall’azienda, un giubbotto blu in autunno-inverno, e calzava scarpe antinfortunistiche. 

In primavera-estate, non appena tornava a casa scendeva nel proprio orto. L’uomo coltivava un piccolo pezzo di terra ricavato nel campo adiacente al condominio: lattuga, pomodori, zucchine, melanzane. Indossava un paio di jeans, una canottiera bianca, e calzava sandali di plastica, marrone, quel tipo di sandali che abbiamo visto in luoghi marini fin da quando siamo nati, quasi sempre di colore rosso, e invece l’uomo li aveva acquistati marroni, forse perché marroni, di plastica, non li voleva nessuno. 

Cenava presto, verso le 18.30, poiché dopo aver lavato i piatti scendeva in cortile – di lunedì, mercoledì e venerdì – per occuparsi del giardino condominiale. È un mistero immaginare cosa pensasse mentre fissava l’acqua uscire dalla canna. A volte ripeteva frasi che sembravano originati da un discorso rimasto incastrato nella propria mente e centellinato da un gocciolare in dialetto milanese.

Incoue (oggi). E poi taceva.

Vegna chi (vieni qui), come se parlasse a un insetto che gli girava intorno disturbandolo, come se parlasse all’aria, a una parola. E poi taceva.

Giüga no a la bala (non giocare a pallone). E poi taceva.

Il sabato, una volta al mese, tagliava l’erba del giardino condominiale. Non è chiaro se lo facesse per guadagnare qualcosa oltre allo stipendio. In quel periodo storico, un operaio guadagnava abbastanza per mantenere una famiglia di tre persone. 

L’amministratore condominiale era contento della sua disponibilità. Quando la fabbrica di elettrodomestici chiudeva per ferie – quattro settimane in agosto, come era consuetudine in quegli anni – l’uomo non andava in vacanza. Si alzava all’alba, pedalava per sette chilometri e raggiungeva la sponda del fiume. Se andava bene pescava alborelle, un paio di trote, tornava subito a casa, la moglie cucinava il pesce. Dopo pranzo l’uomo abbassava a tre quarti la tapparella della camera da letto e si addormentava in penombra. 

A differenza della maggioranza degli altri condomini, non aveva montato sul balcone le cosiddette veneziane, quei serramenti di listarelle verdi, di plastica, collegate da nastri e orientabili in modo da variare il flusso luminoso. Non aveva acquistato nemmeno un piccolo ventilatore. Usufruiva della corrente d’aria fresca generata dal lasciare aperte tutte le finestre. Quando si alzava, beveva un caffè con la moglie e andava nell’orto. Innaffiava utilizzando l’acqua di una roggia che scorreva a pochi metri. 

Dopo cena, lavava i piatti, scendeva in cortile tre volte alla settimana, per innaffiare il giardino condominiale.

Può sembrare noioso passare così le quattro settimane di ferie, o meglio, la vita; eppure le quattro settimane di ferie passavano davvero in fretta, proprio come novant’anni, proprio come la vita; e a settembre ricominciava il lavoro alla catena di montaggio delle lavastoviglie. 

In autunno e in inverno, l’uomo indossava il giubbotto blu sopra la tuta da operaio. La moglie, quando usciva per andare al mercato o al supermercato, indossava un giaccone e calzava scarpe basse stringate. Difficile dire se, almeno all’inizio del matrimonio, avesse desiderato un altro stile di vita; difficile dire se la sobrietà rivoluzionaria dell’uomo fosse condivisa e incentivata dalla moglie casalinga, oppure se la donna subisse le scelte estremiste del marito. A ogni modo, la donna usciva quasi sempre in bicicletta, una Graziella con la quale ritornava a casa traballante, poiché infilava due sacchetti della spesa ai lati del manubrio.

A differenza di molti operai, che si indebitavano per acquistare a rate la pelliccia desiderata dalle mogli, desiderata da loro stessi per avere una moglie impellicciata, l’uomo non aveva mai comprato una pelliccia.

Eppure avrebbe potuto subire le pressioni sociali, le convenzioni conformiste che, nelle giornate festive e prefestive si manifestavano in modo evidente. Capitava che la coppia uscisse di sabato pomeriggio nel centro della cittadina, proprio come altre coppie. 

Nel centro affollato incontravano anche i colleghi dell’uomo, operai e impiegati che passeggiavano assieme alle mogli impellicciate: pellicce per lo più di opossum, ma non mancavano, tra gli impiegati, chi aveva scelto la pelliccia di volpe bianca, e non mancavano, tra i capireparto, chi aveva scelto, per distinguersi sia dagli operai sia dagli impiegati, una pelliccia di visione. Ecco allora che le parole ascoltate durante la pausa pranzo – opossum, volpe, visone – avevano un senso, in particolare opossum, che l’uomo identificava con un desiderio più accessibile di altri, un desiderio che, a maggior ragione, riteneva superfluo.

Eppure, nonostante la parata di animaletti uccisi che si muovevano lenti o stazionavano davanti alle vetrine dei negozi, l’uomo non aveva mai ceduto, e la donna neppure: avanzano in quella carneficina stretti nei loro giacconi di panno.

La domenica, nessuno dei due andava a messa, sebbene avessero seguito i normali riti cattolici: si erano sposati in chiesa, avevano battezzato il figlio, lo avevano mandato a catechismo per la comunione e poi per la cresima.

Il figlio nei primi anni di vita si era adeguato allo stile di vita austero imposto dal padre, ma già durante le scuole elementari aveva sperimentato quanto fosse difficile confrontarsi e competere con le vite degli altri: nessuna vacanza al mare, in montagna, nessuna immersione, nessuna camminata, nessuna nuova città, nessun monumento, nessuna avventura vacanziera da raccontare, e crescendo, nessuna nuova ragazzina incontrata al mare, in montagna. E così, dopo la terza media, forse per allontanarsi dallo stile di vita imposto dal padre, il figlio aveva deciso di abbandonare gli studi. Era andato a lavorare come operaio in una piccola fabbrica, molto più piccola di quella in cui lavorava il genitore. Aveva comprato un motorino, un Garelli. È plausibile credere che il padre si fosse opposto all’acquisto, ma così come aveva accettato la decisione del figlio di interrompere gli studi, allo stesso modo aveva accettato l’acquisto del Garelli. E tuttavia aveva imposto alcune restrizioni: il figlio poteva guidare il Garelli soltanto di sabato e domenica, non poteva usarlo durante la settimana. Il figlio andava al lavoro in bicicletta, proprio come il padre.

Quando era diventato maggiorenne, il figlio aveva pensato di comprare un’auto, e il padre non si era opposto. Il figlio aveva scelto una Fiat Ritmo, ma il padre, ancora una volta, aveva imposto di non utilizzare l’auto durante la settimana, e il figlio, benché fosse maggiorenne, aveva obbedito. 

Padre e figlio continuavano ad andare al lavoro in bicicletta. 

L’azienda di elettrodomestici non andava bene come dieci, vent’anni prima. L’azienda era stata acquisita da un’azienda più grande che aveva pianificato molte acquisizioni in Italia e all’estero, e come un impero troppo smanioso di ingrandire la propria influenza, alla fine era crollata, trascinando con sé le aziende controllate. 

L’uomo aveva fatto appena in tempo ad andare in pensione. Il figlio si era sposato e il padre, grazie alla liquidazione, aveva aiutato il figlio a comprare una villetta.

L’uomo aveva continuato a vivere come nei decenni precedenti, se si eccettua la libertà conquistata andando in pensione dopo trentacinque anni di fabbrica.  

Nessuna vacanza. La pesca. L’orto. Poi aveva smesso di coltivare l’orto e di pescare. Usciva in bicicletta un paio di volte al giorno. Fino a novant’anni. 

Come a volte capita in questi casi, marito e moglie sono morti a distanza di pochi giorni.

Qualche settimana fa ho visto un trentenne davanti al condominio, stava appendendo un cartello, l’annuncio di un’agenzia immobiliare con la scritta vendesi. 

Poteva essere l’appartamento acquistato dalla coppia mezzo secolo prima, l’appartamento che il figlio ha deciso di vendere; forse il figlio ha perlustrato la casa arredata come cinquant’anni fa, la cantina quasi vuota, il garage quasi vuoto, se si eccettuano le due biciclette dei genitori.

Sarebbe troppo facile equiparare lo stile morigerato di quest’uomo e di questa donna con quello di molte persone più o meno giovani che si preoccupano delle sorti del pianeta; persone che, in pochi anni di vita, hanno prodotto più CO2 di quanta ne abbia prodotta quest’uomo in novant’anni di esistenza.

Ha usato la stessa bicicletta negli ultimi cinquant’anni. Non ha mai preso un aereo. Mai una nave. Mai un autobus. Mai un treno. Non ha mai guidato un’automobile. Non ha mai usato il Garelli del figlio. Lo hanno trasportato sull’ambulanza che lo ha condotto in ospedale. Lo hanno trasportato sul carro funebre che lo ha condotto al cimitero. 

Ha vissuto novant’anni, in Occidente, muovendosi dalla casa alla fabbrica in bicicletta o a piedi, come un cinese del Novecento di Mao, ma resistendo a molte più tentazioni. Se tutti gli abitanti dell’Occidente novecentesco avessero adottato il suo comportamento, forse ci sarebbe stata una disoccupazione di massa. Ignoro quanto sia desiderabile una vita come la sua. Ignoro quanti miliardi di persone sarebbero disposte a vivere come lui. 

E chissà se uno stile di vita come il suo avrebbe potuto salvare il pianeta. 

Alle scuole elementari, la maestra ci aveva portato a visitare la fabbrica di elettrodomestici. Avevo visto l’uomo concentrato lungo la catena di montaggio, senza che potesse sollevare lo sguardo. Come capita quando una scolaresca visita un luogo con intenti pedagogici, anche la catena di montaggio si era fermata per alcuni istanti. L’uomo aveva sollevato la testa e, riconoscendomi, aveva abbassato lo sguardo, colpito dall’assenza di rumore, dal silenzio artificiale coperto dalle voci di chi ci accompagnava. Credo che non fosse contento di essere esposto a un gruppo di bambini, e in particolare, a me, che lo conoscevo. Una sorta di pudore per la propria condizione, per la mia impudenza infantile che immaginava di poter guardare tutto, di avere davanti ancora tanto tempo, di essere lì, nel 1974, fuori dal tempo, poiché perfino il tempo produttivo si era inchinato per qualche istante all’afflato educativo; poi i macchinari erano ripartiti, avevo fissato l’uomo e non mi era sembrato più lui, come se il rumore in sottofondo e i gesti necessari componessero un’altra persona, e non l’uomo che innaffiava l’orto, il giardino condominiale, l’uomo che non desiderava nulla. 

Mi ero allontanato assieme al resto della classe, ero bambino e mi sentivo mortale, avevo guardato i miei compagni, le mie compagne: bastava poco, per non essere più noi, mezzo secolo fa. 

ARTICOLO n. 55 / 2023

IL NOSTRO BISOGNO OCCIDENTALE DI ORIENTAMENTO

È ora di cambiare le nostre parole se vogliamo adattarci alle nuove realtà. Non siamo consapevoli del fatto che alcuni termini utilizzati per definire concetti specifici o anche vaghi ci imbrigliano in realtà sorpassate, ci portano su antichi binari che ci irrigidiscono la mente, già di per sé organo sempre meno flessibile. 

La parola che vorrei riuscissimo a studiare per comprendere quanto ci porti a concetti sbagliati sulla realtà internazionale è “Oriente.” Tanto quanto la parola Occidente oggi avrebbe bisogno di un sinonimo più preciso.

“Orientarsi” è la parola più usata per indicare la posizione in cui ci trova in un dato istante, sinonimo di raccapezzarsi e ritrovare sé stessi. La forma riflessiva di “orientare” significa capire dov’è l’est, stabilire la propria posizione rispetto al sorgere del sole.

Per vederci più chiaro, soprattutto nelle ore mattutine, greci e romani dell’antichità orientavano i loro templi con affaccio a est. Da questo concetto, in molte lingue si è sviluppata l’idea di “orientamento” come un processo verso la conoscenza di sé.

Nascosto tra le pieghe del nostro linguaggio esiste quindi il bisogno di capire ciò che chiamiamo ancora “l’Oriente.” E oggi ferve un bisogno ancor più pressante, in Europa e in America, di disegnare una mappa per riorientarsi, interrogandosi su come “il vecchio Occidente possa affrontare il nuovo Oriente.”

 È la domanda stessa a essere sbagliata. Non vi è nulla di più disorientante delle parole usate per formulare questa inchiesta. La civiltà nel cosiddetto Oriente non è nuova. È antichissima. 

Il presunto “nuovo Oriente” attinge a quest’antichità per trovare coesione e forza, sia nel collettivismo che deriva dalla filosofia di Confucio, sia nella filosofia induista che nutre la spinta propulsiva del sub-continente inseguendo il suo dharma, e sia nel tradizionalismo familista, dinastico, religioso e culturale che attraversa il Sud come il Nord dell’Asia, dove anche il comunismo cinese si presenta oggi come una forma reazionaria, una propulsione al servizio di un’ideologia antica e che poco ha di innovativo in un mondo basato sul globalismo di Internet, sulle trasformazioni attuali e imminenti dell’Intelligenza artificiale, sulla trasmutazione della società dalla rivoluzione industriale ottocentesca vista in chiave marxista al 2023 cibernetico post-pandemico e inter-connesso del telelavoro. 

La spaccatura dicotomica di “Occidente e Oriente” è una pigrizia storica dell’Europa e delle culture anglo-sassoni, ovvero: le Isole britanniche più il Nord America (Messico escluso) e Australasia. 

Nella terminologia più contemporanea l’aggregazione di questi Paesi viene ora definito come Nord Globale (con l’aggiunta del Giappone). 

Per Asia, Africa e America Latina s’è affermata la definizione di “Sud globale,” a sostituire la gerarchia svilente del termine “Terzo mondo” o quella spiazzante di “Paesi in via di sviluppo,” dove si valuta il cosiddetto sviluppo attraverso una prospettiva europea e anglo-sassone legata a un concetto di progresso non necessariamente condiviso nel resto del mondo. 

Nel contesto bellico iniziato nel 2014, la Russia si identifica in un ponte chiamato “nazione euroasiatica,” il che spiega il suo ruolo di prepotente aggregatore, lanciato a riportare l’Europa alla sua realtà geografica di propaggine estrema di un territorio ininterrotto che inizia ai confini con l’Alaska e termina a Gibilterra.

Tutto ciò per liberarci da una briglia mentale pericolosa, quella costruita sulla parola “Oriente,” pregna di stucchevole esotismo, e dell’aggettivo sostantivato di “orientale,” che oggi nel mondo anglo-sassone viene percepito dalle minoranze asiatiche come un insulto razzista. 

Forse questo ragionamento può servire anche a decostruire l’idea di Occidente, termine che definisce una realtà ancor più magmatica e inafferrabile. 

Definire “gli altri” riesce sempre più facile che definire sé stessi. 

Cos’è l’Occidente oggi? È woke? Odia gli immigrati? È ancora democratico? O ama il leader forte al comando, con pochi limiti? Molti europei sono stati colti di sorpresa dalla Brexit, attoniti di fronte all’isolazionismo anti-atlantista trumpiano, spaccati a est dagli ammiccamenti al putinismo, e in fase di esame di coscienza sulla disumanità tutta occidentale di un colonialismo che ha arricchito il Nord globale negli ultimi cinque secoli. 

Nuovo Oriente e vecchio Occidente. Niente di più sbagliato. 

L’Oriente non è nuovo. Il rafforzamento del ruolo dell’Asia rappresenta un ritorno storico a com’erano gli equilibri internazionali prima della guerra dell’oppio, non è una novità. Una storia interpretata da una vera prospettiva globale ce lo racconterebbe meglio, non questi sussidiari dei vincitori che ci hanno distorto uno sviluppo degli eventi diverso da quanto è accaduto.

Ma, poi, Oriente rispetto a quale punto cardinale? Dov’è collocato il centro di Occidente e Oriente? Nel Medio Oriente di Gerusalemme? Sarebbe una prospettiva giudaico-cristiana che riflette una prospettiva culturale e geografica non condivisa da tutto il mondo. Per Oriente intendiamo spesso l’Asia. Mentre “Oriente” è un termine che colloca l’identità come decentrata da un altrove, “Asia” esprime in modo più neutro sul mappamondo l’ubicazione di una regione specifica dove, si dice, sta germogliando il nostro futuro. Che, come vedremo, è già il presente.

L’Occidente non è vecchio. La cultura europea è più giovane di quella indiana e cinese. Nemmeno antropologicamente siamo i più vecchi, poiché gli esseri umani si sviluppano in Africa, come ci spiega la scienza. I primi esseri umani comparvero in Africa circa 300 mila anni fa. In Asia, 50 mila anni fa. In Europa solo 43 mila anni fa. L’Europa è il continente più giovane, in questo senso. 

Ma anche nel contesto delle civilizzazioni. Le più antiche nacquero in Mesopotamia, in Egitto, nella valle dell’Indus e in Cina. Nessuna in Europa.

I bianchi caucasici non sono altro che il risultato di una tendenza alla depigmentazione cutanea per assorbire vitamina D dai raggi solari, quando per necessità l’eccesso di umanità si è vista costretta a spingersi verso zone dove il sole si nasconde a lungo d’inverno.

La stessa America bianca, quella anglosassone e protestante, quella che comanda, fa le leggi, influisce sull’economia, quella che ha gestito il potere all’interno degli Stati Uniti dalla Rivoluzione americana a oggi, è giovanissima, figlia dell’adolescente Protestantesimo (nel contesto delle antiche religioni) e dell’imberbe Illuminismo (nel contesto delle filosofie globali).

Ciò che chiamiamo Occidente, cioè il Nord globale, non è vecchio. Ma sta invecchiando. Soprattutto, cosa più preoccupante, si sente vecchio. Sempre più vetusta è la sua cultura, poiché noi così la percepiamo.

Il Nord globale è, sì, vecchio, ma in quanto, lasciando da parte gli eufemismi, è pieno di vecchi, torturati da acciacchi e malattie pur rimanendo combattivi. Vecchi nostalgici pieni di vecchie idee, refrattari e inflessibili al cambiamento, all’adattamento, sempre più lenti nell’innovare.

 In questo, l’Occidente è in effetti più vecchio dell’Oriente. Ovvero il Nord globale invecchia demograficamente e sente una stanchezza culturale, aggrappandosi a sani principi di antica democrazia, un rispolverare i diritti civili (dopo aver violato quelli di gran parte del mondo con la colonizzazione), e alla miscela ondivaga di libertà e uguaglianza che si eroga in sede parlamentare, dove gli eletti dovrebbero legiferare per modulare queste due forze plasmanti della società. 

In termini meramente demografici, è giusto parlare di nuova e giovane Asia e di geriatrica e consunta Europa alleata a Nord America-Australasia. 

Giovane Sud e vecchio Nord del globo

Questo di per sé dovrebbe spiegare perché il travaso migratorio conviene a tutti: il Nord globale dovrebbe esportare un po’ di pensionati verso il caldo dei tropici thailandesi, malesi, indiani e indonesiani, e il Sud globale dovrebbe esportare quei giovani in eccedenza che vogliono lavorare nel Nord globale, contribuendo con i loro redditi a finanziare le pensioni del Nord. Bisognerebbe prenderne atto onestamente e organizzare il flusso, evitando gli orrori alle frontiere per i quali saremo ricordati dalla Storia.

Per capire l’Asia come lei vede sé stessa, e liberarci dei nostri offuscati prismi, bisogna iniziare dalle parole. Non parliamo più di Oriente e di Occidente. Parliamo di Asia, di Europa, di America del Nord. Chi gioca ancora con queste parole, nei suoi libri, nelle sue rubriche, manipola una rigidità mentale che è dannosa per tutti. Siamo un po’ più precisi e liberi da divisioni che stanno mutando. E studiamo la storia. Anche quella recente.

Le quattro fasi storiche dello sviluppo asiatico dal Dopoguerra a oggi sono note. Comincia con il miracolo giapponese che risorge dalle ceneri post-atomiche di Hiroshima e Nagasaki e ricostruisce economia e industrie per raggiungere l’acme negli anni Ottanta, inseguita dalla seconda fase, quella delle Tigri asiatiche, guidate dalla Corea del Sud che con la sua ingegneria e duro lavoro si afferma anch’essa creando un contesto regionale attorno al Giappone, aprendo la strada negli anni Novanta alla svolta cinese verso una forma di capitalismo comunista, ossimoro su cui si basa ancora il suo successo (comunisti a casa, capitalisti nel mondo), che apre ora alla quarta fase, quella di un Sud-est asiatico guidato dall’India quinta potenza economica globale, con una crescita dell’economia più veloce del mondo, assieme a Vietnam e Filippine, incalzata dal galoppo dell’Indonesia.

Da più di trent’anni, molti europei e anglo-sassoni tengono gli occhi puntati ossessivamente sulla minaccia cinese. Lì ci sono gli affari, lì c’è una potenza militare che incute timore. E da questo sguardo interessato si forma quindi il timore dello sviluppo del nuovo centro di un nuovo impero. 

Per contro, la Cina predica il desiderio di partecipare, prima inter pares, a un mondo multipolare, dove vige la democrazia tra Paesi, e non il dominio di un super-potere come nel blocco a Ovest, con l’America che fa il poliziotto del mondo e gli altri che si devono accodare. Democrazia nei rapporti tra nazioni che al loro interno hanno ben poca democrazia.

Così, però, ci perdiamo ancora in un paradigma che non è detto si snodi come lo immaginiamo, con la Cina padrona del mondo, una visione in realtà sorpassata. Il futuro prossimo è nel Sud-est asiatico, lì c’è il prossimo mercato. 

La Cina ha già raggiunto un punto di culmine di un arco, non solo demografico, ma anche di espansione economica aggressiva. Difficile vedere crescite esponenziali in Cina come le impennate viste dagli anni Novanta a oggi. Quelle sono previste in India. 

Grazie al contenimento americano, ma anche grazie all’arco stesso dello sviluppo di una nazione, la Cina punta oggi, come tutti coloro che hanno seguito nella tradizione del mercantilismo anche di natura hamiltoniana, al suo mercato interno, a vendere prodotti cinesi ai cinesi, per arricchire la propria economia riducendo la dipendenza dalle esportazioni, dove resta comunque forte. La Belt and Road sembra sempre più un tentativo, molto costoso, di consolidare mercati. E ha avuto risultati poco gloriosi, finora, con investimenti che non hanno generato frutti succulenti. Forse li darà in Africa, ma in Asia, per ora, la scommessa non ha restituito tantissimo. 

Molti temono che il conflitto globale vero non deflagrerà in Ucraina, ma nell’Indo-pacifico. Lì vanno ammassandosi le armi, con l’India che è uno dei massimi importatori e ora vuole diventare un produttore di armi, con grande gioia dei mercanti e produttori europei e anglosassoni di sistemi di difesa. Ma ciò rischia di diventare un ineludibile gioco di détente simile a quello della Guerra Fredda. Un gigantesco affare per tutti i produttori di armi accalcati attorno a Taiwan come fosse il nuovo Muro di Berlino in una nuova Guerra Fredda con, da un lato, il Nord globale guidato dagli Stati Uniti e, dall’altro, il Sud globale che si propone come un riallineamento multipolare dei BRICS (organizzazione intergovernativa di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) cui potrebbero unirsi l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita, Paesi che grazie a Xi Jinping per la prima volta in molti anni si stanno stringendo la mano nonostante siano occupati in una guerra per procura prolungata nello Yemen. Le basi del mondo multipolare potrebbero chiamarsi quindi BRICSIA.

Ma non è così elementare. Sarebbe bello poter semplificare tutto così. La realtà è che i protagonisti sulla scacchiera della geopolitica operano in maniera più complessa. I rapporti all’interno dei BRICS sono triangolati. Cina e India hanno un conflitto militare sull’Himalaya. Mentre la Cina sostiene il Pakistan, altro nemico nucleare dell’India, Mosca pare sostenere Delhi cui vende armi e che sostiene da sempre in sede Onu. 

La Cina tiene la Corea del Nord sotto la sua ala protettiva, provocando il Giappone, colpito dai giochi missilistici di Kim Jong-un. Iran e Arabia Saudita sono ufficialmente in guerra. E mentre in questa rete sempre più complicata la Cina tesse le sue alleanze, la sua flotta navale provoca nazioni filoccidentali come le Filippine di Marcos, spinte sempre più verso nazioni come l’Australia, il Giappone, gli Stati Uniti e l’India alleate nel patto strategico Quadrilaterale, chiamato il Quad. 

L’India, com’è importante notare, fa da perno sia nei BRICS del Sud globale che nel Quad del Nord globale. Riesce a barcamenarsi al centro di questa nuova e presunta Guerra Fredda come Paese centrale, alleato da un lato e dall’altro. Ed è per questo che oltre alla Cina bisogna fare i conti proprio con l’India, che nel 2023 supererà la Cina in popolazione.

Dopo la pandemia è bene rilevare che le nazioni del BRICS contribuiscono di più al Pil globale, in termini di parità di potere d’acquisto (calcolando quindi anche i tassi di cambio), della somma dei Paesi del G7, cioè America, Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone, Canada e Italia. Il declino del G7 a scapito dei Paesi oggi facenti parti del BRICS è iniziato nel 1992 (con la crescita cinese), ma con la pandemia le curve si sono incrociate e divergono. Brics su, G7 giù.

Significa che siamo al culmine del decoupling, cioè che il mondo si sta spaccando anche commercialmente in due blocchi? Non è proprio così. In realtà la globalizzazione è viva e lotta insieme a noi. Anche perché è una forza verso la quale ci orientiamo sempre più, dopo i danni del protezionismo del Diciannovesimo secolo. 

Si parla tanto dei disastri della globalizzazione soprattutto perché ha impoverito una parte della classe medio-bassa degli Stati Uniti, gli elettori di Trump, e dell’Europa, gli elettori della destra nazionalista. Ma ciò che non si dice è che il commercio tra Cina e Stati Uniti nel 2022 è cresciuto del 10% in rapporto al 2021. Che la produzione di iPhone si sposta sempre più dalla Cina all’India, ma resta globale. E che con la nuova corsa al riarmo nell’Indo-Pacifico, compresi i nuovi accordi siglati anche dal governo Meloni nella riunione del G20 il mese scorso a Delhi, il flusso commerciale tra Nord e Sud globale non farà che crescere, in entrambi i sensi.

La paura nucleare

C’è quindi da stare tranquilli? Sì, tranne per la minaccia nucleare. Non solo per i missili putiniani e la frontiera Nato in Finlandia, ma proprio in Asia, dove l’India si confronta con il Pakistan e con la Cina, impegnata nei giochi navali a Taiwan. In Asia, dove un consolidamento del dialogo tra Iran e Arabia Saudita potrebbe creare un patto pericoloso verso lo sviluppo di armi nucleari in entrambi i Paesi. E senza scordare i giochi pericolosi nella Corea del Nord, nonostante sembrino sempre grida di aiuto per ottenere denaro in cambio di tranquillità in Nord Asia, il gioco che fa da sempre la famiglia al potere lassù. 

Per tornare alla domanda iniziale: come “orientarsi” in tutto ciò? Capendo che non c’è dunque un confronto tra il vecchio Occidente e il nuovo Oriente. 

C’è un Nord globale che va ridefinendosi, che nel 2024 con le elezioni presidenziali americane potrebbe cambiare radicalmente (se la guerra in Ucraina non dovesse terminare prima delle elezioni americane, e se dovesse vincere Trump, finirà subito la guerra?), dove la Nato sembra rafforzarsi, ma la Ue che ha perso il Regno Unito vede al suo interno forze che ammiccano alla Russia e nazioni che potrebbero riprendere a flirtare con la Via della Seta. 

E poi c’è un Sud globale in cerca di una coesione, ma il cui futuro non può essere interpretato con la chiave storica utilizzata negli ultimi secoli, poiché potrebbe presentare sorprese, in quanto espressione di mentalità ben diverse da quella che ha trasformato il mondo, dominandolo, per qualche secolo.

ARTICOLO n. 54 / 2023

ALLA RICERCA DEL PIACERE PERDUTO

Sesso, godimento, desiderio

Alcuni anni fa, in un periodo in cui ero ancora una balda e giovane studentessa universitaria, mi capitò di vedere un documentario spagnolo su sessualità ed eros in Giappone. Il documentario, che si intitolava L’Impero dei Senzasesso, raccontava come la terra nipponica detenesse già ai tempi (il 2013) il record mondiale di astinenza sessuale, con oltre il 40% della popolazione tra i 18 e i 35 anni che si dichiarava vergine e non interessato/a ad avere un incontro sessuale o una relazione. 

La cosa più curiosa, però, è che il Giappone era (ed è) al contempo il paese con un’industria sessuale altamente redditizia, posizionandosi tra i primi paesi al mondo esportatori di pornografia, bambole gonfiabili e addirittura androidi studiati ad hoc per soddisfare i piaceri sessuali degli astinenti. Infatti, mentre gli incontri sessuali di coppia continuano la loro inesorabile decrescita, lo stesso non si può dire dell’autoerotismo e del consumo di pornografia di ogni tipo. Gli onakura, ovvero negozi dedicati alla masturbazione (principalmente maschile) ed equipaggiati di cassette pornografiche, sex toys e addirittura dipendenti pagate per guardare,proliferano nelle città giapponesi ormai da anni. Sono ambienti scuri, isolati e solitari che i frequentatori apprezzano molto poiché, dicono, trovano l’idea di un rapporto sessuale o romantico estenuante e preferiscono appagare il proprio desiderio in solitaria senza bisogno di interfacciarsi con un essere umano. 

Se ai tempi in cui consumai quel documentario il Giappone mi sembrava un mondo distante, distopico e ai limiti dell’assurdo, negli ultimi anni mi è capitato di ripensare spesso alle storie degli hikikomori (“i reclusi”), dei parasaito shinguru (“i single parassiti”, ovvero persone che vivono con i genitori oltre i vent’anni) e, in generale, alla sekkusu shinai shokogun (“sindrome del celibato”) giapponese, cominciando a scorgere i sintomi di queste tendenze anche nelle società occidentali, sebbene naturalmente con alcune alterazioni. Ciò che mi risulta particolarmente intrigante è la trasversalità di un’astinenza sessuale che sembra trovare il suo nucleo non tanto in un completo abbandono del piacere, quanto più in una forte crisi delle relazioni umane.

In effetti, di recessione sessuale si parla sempre più spesso anche da noi, e se ne parla soprattutto nei termini per cui essa pare affliggere specialmente le generazioni più giovani. Già da prima della crisi sanitaria del Covid-19, nel 2018, la rivista Atlantic battezzava questo fenomeno pubblicando un articolo dal titolo Perché le persone giovani fanno così poco sesso?, il quale riportava alcuni dati rilevanti sulla vita sessuale della cosiddetta Gen Z e dei Millennial che, secondo numerose ricerche condotte in diversi paesi occidentali e orientali, stava subendo un notevole calo sia nella quantità che nella qualità. Anche in Italia il fenomeno è stato indagato soprattutto dopo la pandemia e, nel 2020, uno studio dell’Università di Firenze e di Catania ha mostrato come oltre la metà dei giovani si dichiarasse non appagato sessualmente. 

Ma da dove arriva il rifiuto del sesso in una società ormai sempre più pornificata in cui la rappresentazione sessuale è diventata parte integrante della nostra cultura e quotidianità? A questa domanda e a tutte le sue contraddizioni è dedicato l’ultimo saggio di Stella Pulpo, intitolato C’era una volta il sesso: Divagazioni ombelicali per ritrovare il piacere perduto in uscita in questi giorni con Feltrinelli Urra. Nel volume, l’autrice – già nota al pubblico femminile millennial per il suo storico blog “Memorie di una Vagina” – indaga con ironia e rigorosità il fenomeno del calo del desiderio sessuale e, di conseguenza, del nostro piacere. Mettendo a nudo il suo trascorso personale prima come donna, poi come femminista e infine come madre, Pulpo fa dialogare una moltitudine di fenomeni che costellano il mondo della sessualità sollevando una serie di riflessioni importanti sul legame tra la recessione sessuale e un’angoscia esistenziale sempre più pervasiva. Attraverso un’analisi leggera ma mai superficiale, l’autrice raccoglie diverse ricerche e punti di vista che la portano alla conclusione che le cause della recessione sessuale vadano ricercate nel sistema capitalista (basato sui concetti di competizione e individualismo) e l’incertezza del futuro (nero, precario e imprevedibile), i quali sviluppano delle conseguenze mortali sulla nostra libido e sul nostro piacere. Del resto, già nel 1955 il sociologo Herbert Marcuse scriveva nel suo Eros e civiltà che una società votata al lavoro, schiava dei ritmi capitalisti e vittima della repressione erotica sarebbe stata destinata all’infelicità e al disagio psicosociale. Che una società stressata, arrabbiata e impaurita faccia fatica a ricavarsi del tempo per pensare al piacere non è una novità (tanto che l’etnografa Kristen Ghodsee addirittura sostenne attraverso uno studio antropologico del 1990 che i sistemi socialisti e improntati alla collettività migliorassero l’appagamento sessuale e la qualità dell’intimità). 

E in effetti, chi riesce a dirsi oggi davvero immune a stati mentali deleteri per la salute come l’ansia, la depressione, lo stress, il senso di solitudine e di abbandono e la stanchezza? In questi ultimi anni, duri e tesi, abbiamo normalizzato così tanto il malessere psicologico che sembriamo esserci ormai arresi a un’esistenza in cui il piacere, in tutte le sue forme, viene relegata all’ultimo posto nella lista delle nostre priorità. Il tempo e lo spazio dedicati all’intimità non solo si sono assottigliati, ma hanno preso sempre più la forma dello smarrimento, della mancanza di interesse vero l’Altro, del mito della performance e soprattutto della criminalizzazione del piacere come attività non produttiva. In altre parole, le strutture sociali hanno contribuito a modellare e orientare il nostro desiderio fino a ridurlo ai suoi minimi storici, mantenendolo vivo unicamente all’interno di quelle attività che vengono ritenute proficue per il sostenimento dello status quo.

È questo il caso, ad esempio, della fertilità, del lavoro domestico e riproduttivo, e del desiderio maschile, concetti ancora profondamente radicati ai dogmi patriarcali e alla divisione dei ruoli sociali secondo regole binarie. Come bene spiega l’approccio femminista marxista, in Italia rappresentata dai preziosi contributi di Silvia Federici, non è infatti possibile analizzare le contraddizioni del sistema capitalista senza coglierne l’intersezione con il sistema patriarcale, poiché il capitalismo non solo è compatibile con lo sfruttamento e la produzione di gerarchie, ma ne è anche il principale produttore e fruitore. Proprio per questa ragione la disuguaglianza di genere, e tutti i costrutti culturali che essa si porta con sé, diventano una preziosa fonte di sussistenza per il sistema dominante. E anche per questo il piacere può esistere solo in una formula mercificata, commerciale e sempre più relegata all’ambito individuale. 

In questo senso, anche Stella Pulpo ragiona su come gli stereotipi di genere, i tabù e in generale la “maleducazione sessuale” siano complici di un sistema che finisce per sopprimere il piacere e il desiderio a favore di un’insoddisfazione vitale. Ed è qui che temi caldissimi come il consenso, la comunicazione, l’educazione al piacere, il poliamore e la fluidità relazionale emergono sottoforma di argomenti di cui non possiamo più ignorare l’esistenza, pena fustigarci con vite preimpostate e prescelte per noi, fatte di regole che non funzionano più e che limitano il raggiungimento del nostro piacere. Il calo del desiderio sessuale ed erotico, allora, simbolizza più il guasto di un sistema economico, politico e sociale di matrice capitalista-patriarcale che ci inibisce, ci intristisce, ci affatica e ci dissolve. In un mondo ormai pervaso di coach motivazionali, mindfulness e manuali che suggeriscono di pianificare i nostri momenti di piacere come se fossero appuntamenti di lavoro, Pulpo suggerisce l’adozione di una “resistenza erotica” che sfidi il sistema e, parafrasando Elisa Cuter, ci aiuti a ripartire dal desiderio. 

Non è molto lontana la sua posizione da quella di adrienne maree brown, che nel suo libro Pleasure Activism: La politica dello stare bene, pubblicato nell’estate dello scorso anno, immagina una militanza e una resistenza che mettano al centro proprio il concetto del piacere, inteso in senso ampio come rivendicazione della felicità, della soddisfazione, dell’umorismo, delle arti, e ovviamente anche del sesso. L’attivismo del piacere, secondo maree brown, attinge alla felicità e allo stare bene come una nuova forma di produzione di giustizia, liberazione e guarigione, mantenendo lo sradicamento dell’oppressione come l’obiettivo finale a cui ogni lotta dovrebbe aspirare. «Quando sono felice, ne beneficia il mondo», scrive l’autrice, ricordandoci che anche lo spazio e il tempo per il piacere fine a se stesso sono un diritto, e che, in assenza del godimento e della gioia necessari per scegliere di vivere a pieno la nostra vita, forse nemmeno le disuguaglianze, le ingiustizie e i sistemi oppressivi possono venire davvero sconfitti e radicalmente sovvertiti. 

Ci troviamo in un punto morto della storia in cui l’individualismo e l’egoismo che caratterizzano le società capitaliste del nuovo millennio stanno creando fratture difficilmente sanabili. Forse, però, se ricominciassimo a mettere a fuoco le nostre vite attraverso la lente del desiderio con una maggiore consapevolezza di noi stessi e dei nostri bisogni, si potrebbero finalmente creare nuovi spazi di riflessione politica e nuove utopie a cui aspirare.

Anche perché, se i nostri corpi nascono ed esistono per poter provare piacere, non è alquanto contro natura vivere in un sistema che punta a eliminare ogni fonte di benessere? O è forse preferibile un mondo fatto di onakura in cui rinchiuderci in solitaria per evadere dai dolori del mondo? Io, personalmente, preferisco credere nella resistenza erotica. La lotta per la liberazione del piacere non è più rimandabile.

ARTICOLO n. 53 / 2023

GIANNI CELATI: FERMARSI

Trilogia Celatiana. Nascondersi

Fermarsi, prima o poi bisogna fermarsi. Ecco una verità struggente della materia organica, più struggente mi pare della verità della morte, perché la morte è tutto tranne che stasi, la morte è trasformazione, decomposizione, nigredo, nuova vita, basta leggere il Bardo Thodol per rendersi conto quanto in Occidente abbiamo scelto di abdicare a metà della vita quando abbiamo deciso che la morte è solo non-essere invece che una nuova forma dell’essere. Ma fermarsi è doloroso, ha a che vedere con la perdita dell’energia, con l’energia che ci lascia. Abbiamo camminato e camminato verso l’orizzonte e alla fine l’abbiamo raggiunto, non c’è più nessun posto dove andare, ci sediamo e lasciamo che l’erba e il muschio ci seppelliscano. Nel Suffolk, cercando di raggiungere una spiaggia mediocre battuta dal vento in una primavera piovosa, passo davanti a un allevamento di maiali: gli adulti sembrano sassi tanto sono immoti, eppure fino a poco fa, quando erano piccoli, avevano tanta energia da non riuscire a stare fermi. Com’è possibile? La visione mi rattrista più della pioggia. La spiaggia è peggio che mediocre, è brutta, c’è un uccello morto, credo un cormorano ma è difficile dirlo perché è mezzo sommerso del mare, le piume incrostate dalla salsedine, è lontano e non ho più voglia di camminare per raggiungerlo. L’universo si espande, si raffredda e rallenta. Sembra così ovvio che l’energia vitale, il chi, sia l’unica cosa degna di essere studiata nel mondo, eppure pochi di noi ci badano, oggigiorno, a queste latitudini.

Alla fine anche Gianni Celati si è fermato: in Inghilterra, nel 1990. Non che si sia fermato davvero, ha continuato ad andare e venire, è tornato alla sua Emilia ancora per anni, ha girato mezzo mondo, ma insomma ha messo radici in qualche maniera, anche se alla sua maniera strana, sghemba, incerta, precaria. Abbiamo detto, nella prima parte di questo saggio, che tutto in Celati è duplice: uno strabismo, una sovrapposizione, come un’interferenza di due canali radio. Ogni cosa in Celati è enigmatica, e anche la sua decisione di fermarsi in Inghilterra lo è. Certo, Celati in Inghilterra ci veniva dai tempi del dottorato, e ha sposato una donna inglese, ma siccome negli scrittori veri non c’è davvero distinzione tra vita e letteratura, non possiamo fare a meno di chiederci quale sia il significato letterario dell’Inghilterra celatiana. Quando Cealti è morto, nel gennaio del 2022, ho letto in un profilo che il suo era stato un esilio, come quello di Meneghello, ma non sono d’accordo: Celati era in esilio anche prima, e allo stesso tempo era sempre a casa, non perché fosse un apolide, un cittadino del mondo, ma perché in lui la casa era proprio quello spazio aperto dall’esilio, quel movimento tra le parole.

No, non credo che Celati fosse in esilio in Inghilterra. “Esilio” è una parola troppo drammatica, troppo seria, e implica una polemica avrebbe definito “burocratica”, del genere che lo esasperava. Invece penso che in Inghilterra, letterariamente parlando, Celati ci sia venuto per nascondersi, ed è ancora nascosto tanto bene che nessuno l’ha trovato, né da una parte né dall’altra della Manica.

Inghilterra

L’Inghilterra è lo specchio attraverso cui si passa perché tutto sia uguale ma anche diverso, o diverso in una maniera che sembra uguale. È un’illusione, un gioco di prestigio, credi di vedere ciò che hai sempre visto e invece ci sei passato dietro e nemmeno lo sai. Vedi il negativo delle cose e nemmeno lo sai. Di tutti i posti in cui poteva decidere di stabilirsi, Celati ha scelto il più simile a Bologna: non Londra, troppo inumana, non le campagne bucoliche, troppo simili a cartoline, e nemmeno i laghi di Coleridge. Ha scelto Brighton, la città più hippy del Regno Unito, quella dove andiamo tutti quanti quando abbiamo bisogno di ossigeno in questa terra desolata del tardo capitalismo isolazionista. Brighton che dopo il referendum di Brexit ha cercato in maniera semiseria di proclamarsi città-stato per protesta, Brighton il paese delle meraviglie. La prima volta che ci sono arrivato mi ero appena trasferito, sarà stato il 2013, e ho subito pensato a quando dieci anni prima da Torino andavo a trovare la mia ragazza che abitava a Bologna, anche qui bisognava saltellare tra ragazzini punk e il suono di bonghi, però c’era il mare. Chissà cos’ha pensato Celati nel 2016 guardando quel mare, guardando verso l’Europa, di questo mondo sempre più ossessionato dai confini e dalle barriere, lui che ha speso tutta la vita a oltrepassare i confini e sfuggire alle barriere. Forse avrà visto un presagio della fine, i tempi stavano diventando inabitabili per uno come lui.

Quando si vive all’estero ci si nasconde sempre dentro a un’altra lingua. Ci si accorge che la lingua è sempre una maschera, ma anche una parte essenziale della personalità, in una maniera che non si coglie pienamente quando si è identificati con la propria cultura: ci sono cose che posso dire solo in inglese perché a dirle non sono io, è un altro, ma questo presuppone che anche le cose che posso dire solo in italiano le dica qualcun altro, perché se non la pensassi così sarei una specie di sciovinista linguistico: ma allora chi sono io senza la lingua? Questa è una domanda a ben guardare molto molto strana, una domanda che apre una vertigine profonda nel senso dell’io, e una domanda che chiunque si muova tra le lingue, come gli emigrati e i traduttori, non può fare a meno di porsi. È come se togliendoti la maschera ti togliessi anche la faccia e ti ritrovassi all’improvviso nudo e indifeso, ma anche libero, e credo che fosse proprio quella libertà che cercava Celati, quella libertà e quel senso di dislocazione, anche se portava con sé dell’angoscia. Per quella libertà Celati veniva amato e celebrato, ma il mondo dall’altra parte dello specchio, quell’angoscia, era anche quella una parte essenziale della sua scrittura.

Celati era molto consapevole della dimensione allo stesso tempo ironica e angosciante di questa dissonanza. C’è un racconto del 1991 intitolato Il desiderio di essere capiti in cui il narratore si trova ricoverato in un ospedale inglese e non riesce a parlare con l’infermiera giamaicana, lei non lo capisce e lui non capisce lei, e la situazione è comica ma fa anche paura, perché questo narratore è malato e vorrebbe che qualcuno lo capisse, invece i suoi sforzi si perdono, è come se un rumore statico coprisse la comunicazione. Quando si vive all’estero si perde molto di quello che si dice, quasi tutto, il che ti fa capire meglio come quasi tutto quello che dici anche nella tua lingua madre viene perso, e nessuno capisce veramente nessun altro, e la cosa è un po’ terrificante. Quando ho letto per la prima volta questo racconto di Celati lui era appena morto e non avevo capito che fosse un racconto, né che l’avesse scritto trent’anni prima: mi sembrava un resoconto dei suoi ultimi mesi da un ospedale dell’East Sussex. La letteratura serve a farci capire anche meno di quel che capiamo solitamente, e forse è giusto così.

Questa della lingua in un certo senso è una banalità, lo sappiamo tutti come stanno le cose. Ma uno scrittore che vive all’estero può nascondersi anche in altri modi, ad esempio più nascondersi nella tradizione letteraria, e anche questa è una cosa che ha fatto Celati e che in pochi hanno colto, mi pare, forse perché Celati si è portato addosso tutta la vita gli anni del Dams e di Bologna, del Settantasette eccetera, e questo ha un po’ oscurato quello che è diventato nella seconda parte della sua carriera. Prendiamo ad esempio Verso la foce: dove lo mettiamo un libro del genere nella tradizione letteraria italiana? Da nessuna parte, perché in Italia non esiste il nature writing, non esiste nemmeno l’essay in senso anglosassone, e il racconto di viaggio è sempre un racconto della bellezza che opprime il Bel Paese ovunque si vada. In Italia non si cammina molto, magari si cammina in montagna ma non si va certo nell’hinterland di Milano o sull’A4 a raccontare gli abusi edilizi e i capannoni industriali. In Inghilterra invece si cammina moltissimo, in pratica si potrebbe camminare da Londra e Edimburgo e da Norwich alla Cornovaglia senza incontrare opposizioni, mi verrebbe da dire che è proprio per questa abitudine a camminare che le enclosure del 1773 sono state qualcosa di tanto traumatico e che nelle città, persino a Londra, sopravvivono ancora i common, terreni aperti che sono di tutti.

Ma anche qui c’è una dimensione letteraria sottintesa al camminare: perché cos’è tutto questo vagare, questo andare a zonzo, andare avanti e indietro, perdersi e ritrovarsi, se non una metafora del saggio, dell’essay? O anche: che cos’è l’essay se non una fotografia di questo camminare, un camminare della mente, un camminare delle parole? Quando si cammina si attraversano zone belle e zone brutte, e la mente che cammina entra ed esce da cose belle e da cose brutte, a volte c’è il sole e a volte piove, questa è una cosa che il tanto bistrattato British weather insegna a noi italiani che vogliamo sempre il sole, sempre le immagini da cartolina. Quando ti risolvi a vagare in uno spazio privo di desiderio, del desiderio di arrivare a questo o quell’altro posto bellissimo, puoi andare sul delta del Po e raccontare i capannoni industriali e le villette geometrili anche se nessuno capisce esattamente quello che stai facendo né perché.

Hauntology

Oppure pensiamo all’hauntology, questo concetto inventato da Jacques Derrida per parlare degli spettri del marxismo che Mark Fisher ha applicato prima alla musica e poi a buona parte della cultura britannica dell’ultimo secolo: Gianni Celati è forse ciò che più si avvicina in Italia all’hauntology. E dico questo sapendo di essere inaccurato, e sapendo che se Celati mi sentisse, posto anche che sapesse cos’è l’hauntology, cosa che dubito, si arrabbierebbe moltissimo, direbbe che sto paragonando le mele con le pere, e certamente da qualche punto di vista avrebbe ragione. Ma ancora una volta ci troviamo di fronte allo strabismo, alla dissonanza, che è la scrittura di Celati: la sua Emilia leggera e scanzonata è anche inquietante, il mondo che racconta è già finito nel momento stesso in cui lo racconta, e quindi è un mondo di fantasmi, proprio come quello immortalato dalle fotografie di Ghirri che con il loro senso di nostalgia e sospensione, con il loro sottotesto politico implicito, parlano sempre di ciò che infesta, ciò che perseguita, haunt appunto, anche se lo fanno con i colori morbidi e le luci soffuse della provincia emiliana che non hanno niente a che vedere con l’inquietudine, le eerinessdirebbe Fisher, del panorama inglese. Ma non dimentichiamoci che siamo dall’altra parte dello specchio, le cose sono simili ma mai uguali. C’è sempre uno scarto, uno spazio, un’interferenza.

Prendiamo uno dei racconti più famosi di Narratori delle pianureBambini pendolari che si sono perduti. Si potrebbe pensare che è un racconto tenero, un po’ comico, un racconto sull’infanzia come spazio interstiziale, in cui viene ribaltata la prospettiva e sono i bambini a essere accondiscendenti nei confronti degli adulti come se l’età adulta fosse un inconveniente della vita, cosa che in effetti certamente è agli occhi di un bambino. Ma il racconto si conclude con un’immagine strana, inquietante. Ci viene detto che i due bambini si trovano «in mezzo ai campi gelati», che «non vedono più niente» e intorno è «tutto bianco», «una nebbia bianca come non l’avevano mai vista», tanto che ovunque si voltino c’è «una grande parete bianca» nella quale è impossibile «ritrovarsi l’un con l’altro» e anche «vedere il proprio corpo» o «percepire bene un richiamo». I bambini «hanno freddo» e «si sentono soli», non possono andare «né avanti né indietro» e sono costretti a stare lì, «in quello stranissimo posto dove s’erano perduti» finché non gli viene il sospetto che «la vita possa essere tutta così». Poi certamente è un caso, ma che i bambini prendano il treno a Codogno con il senno di poi sembra un’iperstizione.

O pensiamo al racconto Mio zio scopre l’esistenza delle lingue straniere, nel quale il narratore ascolta il figlio nato in Francia e gli viene in mente “un mare pieno di nebbia che non si può traversare”, al di là del quale “c’è uno che ti parla e tu lo senti, ma non ci arriverai mai a farti capire, perché la tua bocca non riesce a dire le cose come stanno, e sarà sempre tutto un fraintendersi, uno sbaglio a ogni parola, nella nebbia, come vivere in alto mare”. O al radioamatore di “L’isola in mezzo all’Atlantico”, che da Gallarate si inventa una vita intera su un’isola al largo delle coste scozzesi e poi quella vita si materializza: onde radio, fantasmi, iperstizioni.

Anche il film dedicato a Ghirri, Strada provinciale delle anime, sembra leggero ma a ben guardare è angosciante. È hauntologico anche nella forma, con quelle dissolvenze da documentario Rai degli anni Sessanta, con quel suo raccontare un mondo già perduto, in procinto di perdersi, un mondo di anime appunto, di spettri. C’è una scena in cui uno degli autobus si perde e il narratore, o uno dei narratori, lo racconta come un episodio divertente, ma intanto vediamo questa corriera che avanza nei campi, sempre più persa, e sentiamo che l’autista parla alla radio e i suoi messaggi sono sempre meno chiari, c’è sempre più rumore statico, siamo da qualche parte nella bassa padana ma potremmo benissimo essere sul traghetto che porta agli inferi, e infatti si sente questo gracidare di rane sempre più forte, si vedono queste inquadrature sull’erba che fanno pensare a un film di David Lynch e all’improvviso, dopo che solo cinque minuti fa eravamo in un paese con degli anziani che parlavano in dialetto, ci troviamo in piena eeriness, in piena crisi dell’agentività: c’è una corriera che avanza ma non c’è più direzione, né un autista, e non c’è nemmeno una sola voce a raccontare questo viaggio verso la terra dei morti ma tante voci incorporee come nell’Ade.

Fantasmi

Ci sarebbe molto da dire su questo tema, molti esempi da portare, anzi bisognerebbe proprio scrivere un libro intero su Celati e l’Inghilterra, ma quello che voglio far notare qui invece è un’altra cosa e ha di nuovo a che vedere con l’atto della scrittura e con l’atto di camminare: Celati non stava mai fermo, viaggiava ovunque, viveva di qua e di là, ma continuava a riscrivere i suoi racconti. I racconti di Quattro novelle sulle apparenze, e anche quelli di Cinema naturale, sono stati scritti e riscritti nel corso di decine di anni. Questo è interessante, perché se la scrittura può essere una forma del camminare, se scrivere può essere un modo di esplorare territori sempre nuovi, può essere cioè la deriva deleuziana dell’Alice che tanto affascinava il primo Celati, la pratica rizomatica di muoversi in tutte le direzioni insieme e nessuna, allora l’atto di riscrivere, e soprattutto quello di riscrivere sempre gli stessi testi, è il suo opposto: il primo è un movimento espansivo, il secondo un movimento di contrazione. Riscrivere è un rimuginare. Rimuginare e rimuginare alla ricerca della cosa luminosa che si nasconde sotto queste parole che non vogliono mai dire niente e non vorranno mai dire niente, anzi più le si lucida e si fanno trasparenti più significano tutto e niente, più il significato si perde, non indicano più una direzione, sono solo uno specchio in cui vediamo riflessi noi stessi e ci mette di fronte a una “grande parete bianca” come i bambini che si sono persi.

Un altro che ha riscritto ossessivamente il proprio capolavoro, ancora e ancora, nell’arco dei decenni, è stato Robert Burton, che ci ha messo tutta la vita a finire Anatomia della melanconia e non era ancora soddisfatto quando è morto, fosse stato per lui avrebbe continuato a riscriverlo per mille anni. Il che mi fa pensare a sua volta a Jan Potocki, anche lui un grande viaggiatore, di cui si dice che abbia lucidato per moltissimi anni la pallottola d’argento con cui si sarebbe ucciso nel 1815 perché era convinto di essere sul punto di trasformarsi in un lupo mannaro. A riscrivere i propri racconti e a lucidare i propri proiettili sono sempre i depressi.

Burton è un buon nume tutelare di questa storia, perché per quanto si viaggi e per quanto si scriva e riscriva prima o poi bisogna fermarsi. Prima o poi la luce scoppiata del pittore d’insegne Menini si affievolisce e bisogna lasciare le cose «da sole nella loro disgrazia». Celati si è dovuto fermare, anche se non si è fermato davvero, anche perché il mondo che stava raccontando, il mondo che aveva cercato di far sopravvivere con l’incantesimo della sua scrittura, stava finendo, quella corriera perduta nei campi della pianura era davvero una corriera di anime in viaggio verso il mondo dei morti. La seconda parte della sua produzione, quella degli anni Ottanta e Novanta, non può essere compresa se non si vede questo aspetto malinconico, se non si capisce che la “ricettività crepuscolare” è prima di tutto una forma di crepuscolo. Nella dissonanza che è la scrittura di Celati, nello strabismo che ha cercato e coltivato in tutta la sua carriera, una parte rimane sempre dietro lo specchio, a guardare le cose dal retro. E quello dietro lo specchio è anche un luogo molto buio e molto immobile, un luogo molto vuoto e impersonale, un luogo di presenze che osservano mute, un luogo di interferenze e parole perdute, un luogo di silenzio.

ARTICOLO n. 52 / 2023

IL MOSTRO NON SI NASCONDE NEI BOSCHI

Il Mostro come corpo culturale

La notte tra l’8 e il 9 gennaio del 2018 al Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills va in scena la 75° edizione della cerimonia di premiazione dei Golden Globes. Guillermo del Toro, in gara come migliore regista per The Shape of Water, sale sul palco dopo aver sentito pronunciare il suo nome per la prima volta in venticinque anni di carriera. La forma dell’acqua, il titolo in italiano, racconta una storia visionaria e in mille sfumature di verde, ambientata durante la Guerra Fredda, nel pieno degli esperimenti militari. Elisa è una ragazza muta addetta alle pulizie di un enorme laboratorio governativo dove avvengono manipolazioni genetiche a scopo bellico. Durante un turno di pulizia, Elisa e la collega Zelda scoprono per caso una creatura antropomorfa anfibia chiusa in una teca di vetro piena d’acqua. Il rapporto che si instaura tra Elisa e il mostro è una storia d’amore gentile e potente, un amore che vive oltre la barriera dei corpi apparentemente incompatibili e che sfocia nel delta dell’eternità. La mostruosità della storia passa di significato dalla creatura che indossa un corpo totalmente aderente alla categoria mentale che abbiamo di “mostro” ai comportamenti dei personaggi che ricoprono il ruolo di antagonisti del racconto, lasciandoci con la domanda – forse più retorica che reale – su chi sia effettivamente il Mostro delle nostre storie. 

Il mostruoso ha una vita millenaria, con radici mitologiche accertate fin dalla cultura accadica, anche se sospettiamo che già nelle società di caccia e raccolta ci fosse una proto-narrazione ben indirizzata in quella direzione. Fin da bambini, infatti, ascoltiamo racconti che ritraggono il mostro col corpo e poi attraverso comportamenti crudeli: golem, vampiri, lupi mannari, calamari giganti, fantasmi, alieni, l’uomo dell’ombra, la strega che rapisce i bambini per mangiarli, pupazzi assassini, draghi, demoni. Tutte queste rappresentazioni hanno lo scopo di creare un antagonista visivamente identificabile, un simulacro di nefandezza, qualcosa che ammonisce chiunque intraprenda un viaggio eroico: alla fine della storia, se sei il protagonista, devi uccidere il mostro per poter consacrare la tua gloria. Viviamo quindi in una costante dicotomia tra l’Eroe e il Cattivo da sconfiggere, eliminando tutte le sfumature che intercorrono necessariamente nella creazione di questi due personaggi. Se l’eroe deve avere successo alla fine del suo viaggio, è norma che nel corso del racconto tutti gli accadimenti e i modi di affrontarli appartengano alla categoria del Bene. Ma se è vero che ogni cosa succede all’interno di una virtù morale che giudichiamo positiva e, di conseguenza, appendiamo la coccarda del meritevole al protagonista, dove finiscono le ombre? E ancora, se tutte le ombre giacciono nelle strutture cognitive e comportamentali del mostro, la condanna è già scritta fin dalla prima parola della storia. E ancora, se la condanna è già scritta, quale curiosità possiamo avere di indagare gli strati che compongono il mostro? Quando ci fermiamo all’assolutismo del “è fatto così e deve morire” se già partiamo imboccati di questo orientamento? Infatti, le dimensioni della mostruosità non vengono mai indagate in profondità, lasciando davanti ai nostri occhi un modello in carta velina che è poco consistente, ma comodissimo da applicare su qualsiasi superficie si voglia inserire dentro la categoria del mostruoso. Ma è altrettanto pericoloso perché la definizione di mostro viene via via svuotata del suo significato rivelatore e livellata all’esigenza di additare velocemente, con uno solo sguardo, ciò che è impuro e per questo deve essere eliminato. Ma il mostro delle narrazioni ha anche una matrice biologica che concorre alla sua definizione, una predeterminazione che passa dal corpo informe e deforme e che manifesta fin dalla vista il suo essere privo di morale, discernimento e regole sociali. E proprio in questo passaggio, nel modo in cui il suo corpo riflette la mancanza di umanità e di virtù morali, si spiega il suo essere antagonista assoluto. Il mostro è tale perché non può fare altrimenti, non ha altre possibilità, è una bestia feroce con un obiettivo – unico – chiaro: distruggere e uccidere.

In Monster Theory Jeffrey Cohen ci regala sette chiavi di lettura per andare in profondità e svelare le sfumature che compongono il mostruoso. Secondo Cohen, il Mostro è quello che altre volte qui abbiamo definito come “corpo culturale”. Quel suo corpo respingente è il prodotto di un complesso intreccio tra tempo, sentimento e luogo, un’applicazione moderna della teoria di Taine. Il mostro incorpora la paura, l’ansia, l’immaginazione, la sperimentazione e il desiderio del suo tempo, avverte il mondo che queste cose esistono e apre una finestra sul prato di fiori appassiti che indossa. Ma proprio per questo motivo, proprio perché è un corpo culturale, il mostro modifica se stesso a seconda del momento in cui viene letto, ma anche di quello in cui viene utilizzato. Per questa capacità camaleontica, il mostro non smette la sua attività alla fine di una singola storia, ma si volatilizza per tornare più avanti, in un altro tempo e in un altro luogo. Questo fa sì che sotto lo stesso nome esistano una serie infinita di creature che non stanno mai ferme e immobili, ma anzi agiscono per logorare i lembi della categoria più grande. Cosa è mostruoso, cosa non lo è? Non serve aspettare molto tempo prima che una categoria così ampia e rassicurante scenda dai racconti e si depositi nel mondo reale, sovrapponendo in modo maldestro il fantastico con la nostra necessità di distacco da eventi truci che non riusciamo a guardare come possibilità del nostro comportamento. Così, la parola “mostro” ha assunto nel linguaggio comune un’accezione ancora più ampia, mettendo in ombra addirittura le creature fantastiche che conosciamo e arrivando in soccorso dell’opinione pubblica di fronte a casi di cronaca che presentano dinamiche ben lontane dallo schema di “buono e giusto” che conosciamo e di cui abbiamo imparato anche ad assorbire le sbavature, certo, ma sempre nei limiti del plausibile. Così diventano mostruosi assassini, femminicidi, pedofili, torturatori, perché se non inseriamo queste persone nell’immaginario fantastico, quali domande dovremmo farci su noi stessi? E quale sguardo stiamo utilizzando?

Perché, vedete, quando parliamo di mostri restiamo sempre aggrappati alla dinamica del viaggio dell’Eroe dove il Buono e il Cattivo sono due personaggi ben distinti. E questo è molto facile perché ci rassicura, a suo modo. Se non siamo noi quelli che finiscono sui giornali, allora significa che siamo dalla parte dei buoni, sulla riva giusta del fiume.Ma se cambiamo le lenti attraverso cui esploriamo le storie e torniamo alla teoria di Cohen, non possiamo più pensare in termini binari, ma dobbiamo iniziare a utilizzare latitudine e longitudine del nostro sistema culturale. E visto che ognuno di noi è un prodotto culturale, formato e riformato su una secolare stratificazione, l’indagine del mostruoso non può avvenire fuori da noi, con delle comparse che indichiamo come mostri nel racconto e che mettiamo sulla riva opposta del fiume, ma nelle nostre profondità. Siamo composti ineluttabilmente da ampie vetrate colorate da cui filtra il sole e da stanze buie in cui proliferano i divieti, le atrocità e la possibilità di compiere qualsiasi gesto. E queste stanze sono chiuse a chiave da una struttura educativa e culturale che ci cresce stabilendo cosa è giusto e cosa è sbagliato, tutto minuziosamente dettagliato e spiegato non tanto dal motivo per cui certe cose non bisogna farle, ma da cosa capita a chi le fa. Il Michel Foucault della Storia della follia nell’età classica ci dice che la punizione per chi devia dalla norma – e per deviazione dalla norma intendiamo qualsiasi tipo di comportamento che esponenzialmente si allontana dalla virtù morale assoluta – ha lo scopo di eliminare il colpevole, ma anche di educare chi osserva dagli spalti la pubblica gogna. Così, in questo spazio metaforico tra la ghigliottina e il posto in sala, si confondono colpe e necessità, origini e spiegazioni, perché la nostra prima reazione non è mai capire il motivo, ma è sempre prendere le distanze. Così, quando leggiamo sui quotidiani che è stato catturato un mostro e continuiamo a indicarlo in questo modo, quello che facciamo non è comprendere l’avvenimento nella sua matrice, ma rimarcare il prima possibile che noi non facciamo parte di quella storia. Non impariamo nulla agendo in questo verso, perché restiamo sul pelo dell’acqua. E al prossimo femminicidio, al prossimo omicidio, alla prossima vittima e al prossimo carnefice resteremo costantemente immobili nel cercare disperatamente di trovare un punto di distacco, un gesto che ci porti a dire “noi non siamo come loro”. Ma il Mostro non è mai là fuori, non si nasconde nei boschi. Il mostro è la lente attraverso cui possiamo comprendere il nostro tempo e chi siamo, solo se distruggiamo questa distanza e iniziamo a indagare la nostra struttura iniziale, per cercarlo.

ARTICOLO n. 51 / 2023

IL CINEMA È (ANCHE) TRADIMENTO

Intervista di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

Le Favolose di Roberta Torre è tra i film italiani più significativi del 2022. Dopo essere stato presentato a Venezia alle Giornate degli Autori, ha ricevuto grandi riscontri al festival di Tokyo e ha vinto il premio per la miglior regia all’IDFA – International Documentary Film Festival di Amsterdam. La fusione innovativa tra gli strumenti filmici è la cifra stilistica di un’opera che coglie l’immenso potere di reinvenzione del reale che le immagini offrono. Con Roberta Torre abbiamo parlato del cinema che è, e che verrà.

Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Roberta, parliamo di fusione. In fisica la fusione è il passaggio di una sostanza da uno stato solido a uno stato liquido. Nel cinema cos’è? Il passaggio di ciò che consideriamo verità, o realtà, a uno stadio più libero e potente, cioè il verosimile?

Roberta Torre: Io ho sempre bisogno di partire da una storia vera per raccontare qualcosa. Poi però ho anche altrettanto bisogno di tradire quel reale e lavorare su qualcosa di nuovo che sia in grado di evocare una verità di fondo. C’è differenza secondo me tra realtà e realismo. Il realismo a me non interessa, la realtà sì. E di conseguenza è chiaro che non ho l’obiettivo di riprodurre ciò che vedo in una modalità il più possibile fedele al reale, ma voglio lavorare sul tradimento del reale, perché il tradimento secondo me è alla base del racconto. Senza il tradimento una storia diventa cronaca, perde quel valore aggiunto che ha un racconto quando diventa cinema o letteratura. Trovo quindi che la cifra giusta sia quella dell’impasto, una fusione tra ciò che è reale, i codici dell’invenzione, e ciò che la storia reale mi ha evocato. 

G.L.D. E nel caso de Le Favolose cosa ti ha colpito?

R.T. Sicuramente mi hanno colpito le storie reali delle morti di queste persone transessuali. Anche nell’ultimo atto, la morte, le loro aspettative vengono violentate, disattese rispetto alla loro sensibilità più profonda, e si ritorna alle convenzioni che i vivi collegano al loro genere di origine. I transessuali in punto di morte subiscono un mancato riconoscimento del proprio corpo, perché il loro corpo non era mai accettato dai familiari secondo il genere che loro avevano scelto di vivere. Dunque ai funerali venivano rivestiti da uomini quando invece avevano trascorso una vita da donne. C’è una violenza duplice in tutto questo, che mi ha fatto scattare il desiderio di andare fino in fondo, provando a capire come si potesse fare a mettere in scena quella violenza. Ed ecco la fusione, allora. Prendere il frammento di realtà che mi interessava, e tradirlo inserendolo in una nuova narrazione. 

G.L.D. Il tema della transessualità, lo sappiamo, è ormai molto discusso nel dibattito pubblico mainstream, ma le tue protagoniste restano nel cuore grazie ai fremiti della loro umanità, non come programmi politici di solidarietà umanitaria. C’è differenza.

R.T. La loro è una storia di persone, di esseri umani che hanno il diritto di essere ricordati nella maniera più fedele possibile a ciò che sono stati in vita, e il fatto che questo diritto nel loro caso fosse disatteso nella realtà mi è sempre sembrata una grande violenza. Ho lavorato in modo da far venire fuori il loro vissuto e per fortuna i loro ricordi non sono mai stati i ricordi di vittime. Loro sono appunto favolose, non si sentono vittime, sono persone che hanno avuto vite drammatiche, drammi a cui hanno risposto in maniera vitale, vincendo la partita. Ecco, questa è la cosa che sin da subito me le ha fatte sentire vicine. Siamo diventate amiche, proprio perché hanno questa grossa capacità di autoironia e di forza. 

G.L.D. Sì, verissimo. Vedendo il film emerge tanto questa vitalità, questo orgoglio nell’aver vissuto dei drammi e aver reagito evolvendosi, crescendo. Senza cristallizzarsi nella posizione di vittime, che è la preferita di questo tempo.

R.T. Loro sono quasi tutte persone molto realizzate, questo è fondamentale. Non c’è una di loro che sia una persona irrisolta. Il fatto stesso di aver raggiunto un obiettivo che era complicatissimo, soprattutto nell’epoca in cui hanno la maggior parte di loro ha fatto la transizione, le fa sentire vincitrici, persone di successo. Hanno avuto il risultato che volevano, hanno vissuto la vita che volevano, hanno affrontato tutte le difficoltà e alcune volte sono state difficoltà mostruose. Mi ha colpito molto che quando il film è stato visto a Londra al London LGBTQIA+ Film Festival in tanti mi hanno detto che fa ridere. In Italia non è successo. Il pubblico inglese invece l’ha trovato molto divertente, è una delle cose che li ha colpiti di più, è proprio il fatto che è del tutto assente questa sorta di vittimismo. Ma il merito è loro perché come dicevo non si sentono vittime, non si sono mai rappresentate in questa maniera.

G.L.D. Nel tuo film le immagini di finzione e quelle d’archivio s’incontrano e si mimetizzano rompendo un codice linguistico, amplificando la portata dei significati verso l’onirico, verso l’evocazione della memoria. È questa anabasi del reale verso l’immaginifico il tipo di “altrove” dove il cinema può e deve trasportarci? 

R.T. Si tratta di un mockumentary: molto di ciò che sembra archivio in realtà è ricostruito. Un altro esempio di tradimento e di trasformazione del realismo in realtà che il cinema come forma espressiva rende possibile. 

G.L.D. Ci troviamo in un universo di rappresentazione, quello trans, dove in primis era la realtà stessa che attingeva al mondo del cinema. Mi riferisco alla fase della vestizione, del travestimento, una vera e propria messa in scena in favore dei clienti. 

R.T. Questo è proprio ciò che loro dicono sempre. “Tra il delirio e il dramma, abbiamo sempre scelto lo spettacolo”. Alla fine è il senso del film, è la frase manifesto del film insieme a “Il mio corpo è un atto politico”. Il corpo cammina nel mondo e si mostra, si fa vedere, ed è un atto politico perché chiaramente si tratta di corpi non conformi ai generi biologici, e questa situazione crea sentimenti di delirio e dramma. Lo spettacolo allora è una terza strada per mettersi in scena e offre una salvezza: la possibilità di potersi auto-rappresentare e di sfuggire alle classificazioni. Quindi creerei una frase unica, perché le due cose non sono disgiunte. “Il mio corpo è un atto politico e tra il delirio e il dramma abbiamo scelto lo spettacolo”.

G.L.D. Ciò mi riporta a Guy Debord. E forse, questa frase è la migliore spiegazione del perché lo spettacolo sia diventato l’asse portante della nostra società. 

R.T. Lo spettacolo ti rinnova, ti dà la maschera, ti dà la possibilità di svelarti continuamente, di cambiare, di essere altro, e questa cosa chiaramente apre l’immaginario. 

G.L.D. Torniamo agli archivi. Mi pare stiano diventando sempre più centrali nel tuo cinema. Che accade? Si tratta di una scelta estetica o di un sentimento sul contemporaneo, visto che tutti noi, quasi nessuno escluso, oggi abbiamo un archivio personale di immagini pressoché infinito, che si tratti di foto o video, di momenti simbolici o insignificanti? Shakespeare diceva, ne Il racconto d’inverno: «Il re vivrà senza eredi se quello che fu perduto non sarà ritrovato». 

R.T. Il tema centrale mi sembra la memoria evocata attraverso l’archivio, che comunque è portatore, per l’appunto, innanzitutto di memoria. È solo da qualche anno che per il mio cinema penso all’archivio, prima non ci ho mai pensato. Nelle Favolose, come detto, non c’è esattamente la parte storica, perché l’archivio è un archivio ricostruito e un po’ fiction, perché le parti della giovinezza sono interpretate dalle stesse attrici nella parte di se stesse. Sicuramente però il lavoro sull’archivio apre la possibilità di entrare in una storia. Per me, l’archivio nel cinema ha questa valenza, aprire squarci nella storia, ai quali è possibile agganciarsi per lavorare sul contemporaneo. E non come si leggerebbe un libro di storia, ma leggendo l’oggi grazie a delle iniezioni di passato. Credo che questo sia il valore più grande. Sono questo gli archivi. Hanno valenza storica ma non solo. Per esempio a me piace molto anche lavorare sul potenziale onirico degli archivi, ed evocare legami con il presente che siano inconsci.

G.L.D. Mi sembra che molta della produzione audiovisiva di questi anni, soprattutto in Italia, vada nella direzione opposta alla tua, ovvero la descrizione per immagini della realtà premasticata, semplificata. Si assiste alla costruzione di mondi schematici, attenti a riprodurre i temi del dibattito mediatico, veri e propri diorami. Hai anche tu questa sensazione?

R.T. Oggi siamo sovrastati da milioni di immagini, e mi viene in mente un paragone con i vestiti. Armadi pieni, vestiti su vestiti che continuano ad arrivare ma non c’è nessuno che dica vabbè, compriamo meno vestiti perché ce ne sono già troppi, cioè possiamo anche fermarci qui. Con le immagini è lo stesso, ce ne sono infinite e tutte uguali, mentre servono immagini che raccontino qualcosa che fino adesso non abbiamo mai visto. Se dobbiamo ripetere continuamente le stesse immagini, allora io preferisco tornare a prendere quelle del passato, quelle che dal passato sappiano raccontare il contemporaneo. 

G.L.D. La tecnologia, intesa come strumento di produzione e di fruizione, sta condizionando il nostro modo di mostrare e osservare, mi riferisco in primis allo smartphone. Vorrei sapere che tipo d’impatto vedi su produzione e fruizione cinematografica nel futuro prossimo. 

R.T. Sento molto il problema delle troppe immagini prodotte perché i mezzi lo consentono. Oggi chiunque può fare un film, diciamocelo, basta uno smartphone, non era così fino a dieci, o vent’anni fa. E quindi si crea una sovraproduzione di immagini spesso non così indispensabili. Anzi, proprio superflue. Per stare nel contemporaneo bisognerebbe farsi una domanda preliminare: perché io devo fare altre immagini? Cos’ho di così unico da dire che mi devo proprio mettere a fare un film, o a creare un immaginario? Sono veramente all’altezza di farlo? Capisco però che siano domande che nessuno si pone più.

G.L.D. In questa modalità stilistica che si appoggia agli archivi come cambia il rapporto con gli attori e il loro utilizzo?

R.T. In questo caso specifico ho lavorato con le modalità che uso sempre quando lavoro con gli attori non professionisti. Ho una traccia scritta di sceneggiatura definita, poi, poiché non si può chiedere a degli attori non professionisti di imparare delle battute o di seguire una drammaturgia, a me tocca il ruolo di instradarli affinché riescano a seguire tutte le tappe, tutti gli step del racconto. In questo caso avevo un grande vantaggio perché le favolose possiedono un loro linguaggio, un codice comune condiviso tra loro.  C’è proprio un mondo di modi di dire, modi di ricordare parole chiave, battute, che sono ricorrenti nel loro parlato: “militante” diventa “militonto”, “lotta continua” diventa “cotta continua”. Loro hanno questa serie di giochi di parole che sottintendono codici strutturati negli anni e che hanno inventato. Si crea dunque, tra loro e di conseguenza nel film, un mondo linguistico importante, e i dialoghi funzionano molto bene. Il mio compito è stato quello di portarle alla fine del lavoro, cioè creare una storia dentro cui loro potessero improvvisare. Si tratta di un modello che ho usato all’inizio in maniera inconscia, un po’ intuitiva, e che poi, piano piano, ho strutturato come metodo di lavoro vero e proprio con gli attori non professionisti: oltre a quello di rubare tutto quello che combinano e fanno senza che se ne accorgano, dare input a cui loro devono rispondere. Con gli attori professionisti, invece, il discorso dell’intersezione tra il repertorio e la recitazione funziona bene, offre milioni di altre possibilità. Una delle quali a cui sto lavorando con soddisfazione è quella di costruire una narrazione drammaturgica a partire dal repertorio e far interagire gli attori con il repertorio stesso, con risultati molto originali. 

G.L.D. Parliamo di trame. Quanto sono importanti nel tuo cinema? O nel tuo prossimo film Mi fanno male i capellidedicato a Monica Vitti? Don De Lillo, uno scrittore a me caro, dice in Libra che tutte le trame tendono alla morte. 

R.T. Se parliamo della classica suddivisione aristotelica, i tre atti, inizio e svolgimento e fine, indubbiamente all’inizio della mia storia registica non è una strada che ho preso in considerazione, non esisteva proprio. Ora sono convinta che invece la trama sia fondamentale per poter raccontare una storia. Anzi, mi sono sempre più convinta che la scrittura, la sceneggiatura, sia una delle componenti più importanti di un film. Se vogliamo raccontare una storia che comunque abbia una drammaturgia compiuta, deve esserci una scrittura solida. Il cinema poi naturalmente non è solo quello, però è ovvio che anch’io, come spettatore, sono affascinata dai film con la trama. Si possono raccontare storie in mille altri modi, però indubbiamente la drammaturgia classica è piacevole, non è mai stata superata. 

G.L.D. Immagini e parole. Nel 2022, un anno prolifico per te, è stato pubblicato anche il tuo nuovo romanzo Strana carne, per Fandango. Quanto il cinema è influenzato dalla letteratura e viceversa. 

R.T. Riguardo al mio romanzo, rileggendo la distanza di un anno posso dire che è molto cinematografico, quindi forse in me esiste una struttura mentale che ripercorre degli stilemi del cinema a prescindere dalla forma espressiva. Credo molto, però, che dalla letteratura si possano trarre grandi film, anche se spesso è necessario tradire la struttura dei romanzi. Penso, per fare un esempio recente, a Blonde di Joyce Carol Oates che è un romanzo straordinario. Pur essendo due codici completamente differenti hanno un legame molto stretto e come tutti i legami stretti hanno bisogno di tradimenti…

G.L.D. Citando Blonde apri un tema importante. Il legame, molto chiaro ed evidente in una storia reale, tra tutto quello che pubblicamente si conosce della Monroe e la grande, poderosa, meravigliosa possibilità che la finzione cinematografica e letteraria hanno di colmare i vuoti.

R.T. Esatto, mi pare che anche questa sia una straordinaria forma di tradimento. Oppure si può chiamare rielaborazione, o si può chiamare invenzione. Io credo che in Italia siamo un po’ impantanati dalla questione della realtà, del realismo, che poi è quanto di meno affascinante ci sia, a mio parere. Ciò che è affascinante, invece, è partire dai casi di cronaca e andare a riempire quelli che tu chiami i vuoti. Come stiamo facendo nel nostro lavoro sulla storia drammatica del delitto Casati Stampa, la cui dinamica lascia la possibilità di entrare a delle voci che non sono state trascritte, come se in fondo ognuno di loro potesse raccontarci una storia diversa, alla Rashômon. La forza della rappresentazione cinematografica consiste nel fatto che, attraverso il film, ogni personaggio, se oggi fosse in vita, potrebbe raccontare la stessa storia da un punto di vista differente e in una maniera assolutamente unica, diversa da ciò che i giornali hanno riportato, facendoci immergere in un ventennio, dal 1950 al 1970, che contiene dei topoi italiani straordinari. Dal Leone d’oro a Fellini a Miss Italia, dal boom economico all’esplosione della società dello spettacolo. Quelli erano anni in cui tutti avevano l’idea di poter andare sulla luna, e poi invece tutto si è risolto in un nulla di fatto. Ma quel senso di potenzialità infinite non c’è mai più stato. Quegli anni, in cui sono cresciuta, hanno creato una generazione di gente che pensava di poter andare sulla luna e Venere, in senso metaforico e non solo.

G.L.D. Ecco, a me sembra che molti dei nuovi registi abbiano più competenza tecnica fredda, intesa come capacità di adottare bei movimenti di macchina, codificati, che capacità stilistica di linguaggio, ambizione, voglia di tradire il realismo. Forse hanno bisogno di più letteratura di qualità?

R.T. Penso che chi vuole raccontare abbia a modo suo la necessità di essere contemporaneo, e che ci siano registi molto, molto giovani che hanno folgoranti intuizioni sul presente. È bello che ci siano degli sguardi nuovi, non penso che si debba inculcare ai nuovi artisti chissà quale metodo. La cosa fondamentale credo sia appunto essere contemporanei: sei capace di farmi vedere questo tempo in un modo a cui non avevo mai pensato o che mi che mi fa sentire fortemente cosa sta succedendo? Sì, e allora a me basta quello, credo che il valore vero di un regista, di un artista, di un narratore risieda nella capacità di percorrere lo spirito del tempo. Negli Anni Sessanta c’erano i film in cui i protagonisti si baciavano poi la camera andava altrove, sul caminetto. Cosa ti diceva quel movimento? Che stava capitando qualcosa di importante, però tu dovevi guardare il caminetto. Un dettaglio che raccontava un’epoca. 

G.L.D. Il mezzo tecnico, dunque, non basta… perché solo l’autore/regista può tradire?

R.T. L’intelligenza artificiale tra poco ci toglierà di mezzo completamente! No, non serviremo più a nulla, io vedo questo, lo vedo proprio chiaramente. È solo questione di tempo. Milioni di storie con milioni di intrecci possibili.

G.L.D. E secondo te non è in dubbio l’effettiva capacità della macchina di dare un senso alle storie? L’imprinting comunque resta umano. Non c’è rischio che la macchina vada per la tangente?

R.T. È una certezza, la macchina andrà per la tangente. Leggevo una conversazione tra una persona che scrive all’IA: «Adesso raccontami una cosa falsa» e lei risponde: «Io sono un coniglio, ho le orecchie verdi». E lui: «No dai, questa è una scemenza, dimmi una cosa falsa seria». E la macchina, in chiusura: «Io non sono un umano». Questo presuppone una coscienza folle della macchina, quindi di fronte a questo che è molto inquietante, io vedo una preminenza dell’umano solo su temi di cui la macchina non ha possibilità di elaborare una conoscenza, e sono due, nascita e morte. Kubrick ce l’aveva detto già molto tempo fa. Qual è dunque il messaggio per i nuovi registi? Datevi da fare ora, perché tra un po’ non ce ne sarà più per nessuno. Oddio. Io vedo questo.

ARTICOLO n. 50 / 2023

IL MITO DEL DESIDERIO FEMMINILE

Quando ho compiuto quattordici anni mia madre mi ha regalato un abbonamento a un paio di riviste per teenager. Si trattava di un mensile e un settimanale di moda, gossip e interviste a cantanti e attori famosi che all’epoca facevano girare la testa a tutte le mie coetanee. Sfogliavo con piacere quelle pagine, soffermandomi in particolare sugli approfondimenti dedicati alla sessualità e all’affettività. Gli articoli proponevano sempre qualche strategia per scoprire se quel ragazzo aveva davvero intenzioni serie, davano suggerimenti per trovare le parole giuste con cui rifiutare le avance più esplicite senza rovinare la relazione e rispondevano a tutti i dubbi sulla verginità e sul primo rapporto completo, in particolare sull’età a cui era consigliato averlo.

Negli anni Novanta non era così scontato riuscire a parlare di sesso, neppure tra amiche. L’educazione sentimentale, per le ragazze di provincia, era per lo più affidata alle immagini, alle canzoni e alle pagine di magazine e fumetti. Erano gli anni di Non è la Rai, celebre programma di intrattenimento andato in onda per un lustro sulle reti Mediaset, di Britney Spears e Christina Aguilera, dei cartoni animati giapponesi che insegnavano alle giovani, più o meno esplicitamente, come intrattenere le prime relazioni affettive senza spingersi mai oltre certi limiti. Il confine, taciuto ma sempre ben visibile, era quello che separava le cattive ragazze da quelle dai saldi principi morali.

Nel nostro viaggio che ripercorre i miti intorno a cui si è costruito, nel corso del tempo, un certo ideale di femminilità, non possiamo non nominare la questione del desiderio. Analogamente a quanto affermato nell’articolo precedente parlando di verginità, anche questo dispositivo è, per le donne, uno strumento di controllo della sessualità che merita di essere osservato da vicino per capirne il funzionamento. 

Accertamento della verginità e repressione del desiderio sono uno il rovescio dell’altro: meccanismi sottili che continuano a produrre i loro effetti sulla vita delle donne. Nonostante la rivoluzione dei costumi degli Anni Sessanta, la sessualità femminile è ancora oggetto di critiche, soprattutto quando si discosta da quella considerata “perbene”.

Proprio alle “ragazze perbene” è dedicato l’omonimo romanzo di Olga Campofreda. Il volume racconta la vita di Clara che, a causa dell’imminente matrimonio della cugina Rossella con lo storico fidanzato Luca, è costretta a lasciare Londra, dove vive da tempo, per far ritorno per un po’ a Caserta, sua città natale. L’evento, che tutta la famiglia accoglie come la conclusione di una storia – quella tra Rossella e Luca – perfetta e in qualche misura già scritta, offre alla protagonista lo spazio per guardare in prospettiva la sua, di storia. Tra un pranzo in famiglia e un addio al nubilato, Clara si interroga su come sarebbe stata la sua vita se non avesse deciso di andarsene a studiare all’estero. Se la sua esistenza è, come quella di molti expat, precaria e incerta, ma libera, quella della cugina appare come l’esito perfetto di una serie di passaggi obbligati a cui tutte le ragazze perbene della città sono costrette ad aderire.

Femminilità, obbedienza e accoglienza delle esigenze maschili sono i tre assi che racchiudono, secondo Clara, la vita delle ragazze di buona famiglia, a partire da quelle vissute dal ramo materno della famiglia. Sua madre, le zie e anche la nonna nascondono vicende tragiche, rapporti imposti e taciuti a cui non si sono mai potute ribellare per non infrangere quella facciata di rispettabilità necessaria a sopravvivere nelle cittadine di provincia.

«Siamo state cresciute lasciandoci credere che saremmo diventare donne quando avremmo imparato a badare a una casa tutta nostra e a prenderci cura di un figlio e un marito (…) non eravamo pronte a fare i conti col desiderio, nessuno ce ne aveva parlato».  La frase che Campofreda fa pronunciare a Clara è potente. Effettivamente, le donne sono escluse da qualsiasi discorso riguardante il desiderio perché considerate refrattarie al sesso. Se negli gli uomini è descritto come una pulsione biologica primaria, compulsiva e anticipatoria, per il genere femminile l’interesse sessuale si ritiene essere lento e reattivo. I loro desideri, cioè, si accendono in risposta a un intervento esterno e non in maniera autonoma, come accade gli uomini.

Nella sua lunga disamina attorno a questo concetto, la scrittrice Katherine Angel sottolinea come questa visione binaria, fortemente differenziata, del desiderio maschile e femminile nasconda pericolose insidie. Nel 1980, giunto alla sua terza edizione, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) inizia a classificare le disfunzioni sessuali in relazione al “ciclo di risposta sessuale umana”, un modello formulato dai ginecologi e sessuologi William Masters e Virginia Johnson negli anni Sessanta. Scrive Angel: «secondo questo modello, il sesso inizia col desiderio, attraversa l’eccitazione e approda all’orgasmo; dunque, le donne che non avevano un accesso facile al proprio desiderio venivano patologizzate come disfunzionali».

Tuttavia, il modello operativo approvato dal DSM III escludeva o sembrava ignorare alcune premesse indispensabili: per poter innescare e poi assecondare il desiderio è necessario anzitutto (ri)conoscerlo. Inoltre, è fondamentale che l’ambiente circostante lo sostenga e lo approvi. Si tratta di variabili da non trascurare perché coinvolgono sfere diverse: una – quella relativa al riconoscimento – ha a che fare con la dimensione educativa, l’altra con le dinamiche sociali e i rapporti di potere tra i generi. Considerando questi fattori singolarmente o insieme, però, i risultati non cambiano: le donne sono state educate a reprimere i propri desideri e le forti pressioni sociali hanno avallato questo atteggiamento nei loro confronti.

Come ricorda lo storico Paolo Orvieto nel suo volume Misoginie, il genere femminile è sempre stato rappresentato come passivo e sessualmente inattivo. Dalle Sacre Scritture ai testi pseudoscientifici dell’Ottocento, il ruolo della donna si esaurisce in quello di moglie e madre, la cui integrità morale è diretta conseguenza della sua attività sessuale e per questo deve essere controllata e contenuta mediate l’inibizione del desiderio. L’unico sesso ammissibile dentro la coppia è quello procreativo, che differenzia le donne “perbene” da quelle con cui gli uomini sono socialmente autorizzati a intrattenersi proprio per sfogare i loro istinti primari.

Oggi si potrebbe pensare che molte cose siano cambiate. A partire dagli nni Novanta (proprio quelli di Non è la Rai e di Britney Spears) abbiamo assistito a un’apparente liberazione del discorso intorno alla sessualità e ai desideri delle donne. L’emancipazione sessuale femminile cominciata negli anni Sessanta sembra approdare, per la prima volta, a un linguaggio esplicito che la affranca dai retaggi del passato. Alla fine del XX secolo compare pertanto un nuovo ideale di femminilità. Sulla scia dei modelli offerti dalle star della musica e del cinema (come il gruppo delle Spice Girls o Catherine Tramell, personaggio interpretato da Sharon Stone nella pellicola Basic Instict) le donne appaiono più disinibite, sicure della propria sessualità, capaci di esprimere i propri desideri in modo esplicito, assertivo, a tratti spudorato. 

Si tratta di un cambio di paradigma che necessita di essere approfondito perché, sostiene Angel, ha generato un cortocircuito che ha portato a confondere il piano del desiderio con quello del consenso. Una sessualità esplicita, infatti, non è di per sé liberatoria, né consensuale. Come ricorda Elisa Cuter nel suo volume Ripartire dal desiderio, ha più a che fare «con quella cura del sé e quell’ossessione per l’immagine che il capitale ci propina come fonte di liberazione». 

Il discorso intorno al desiderio femminile appare ancora fortemente stereotipato, basti pensare ai casi di cronaca.Quando una donna subisce un’aggressione o una molestia si scatenano opinioni non richieste che fanno supporre che la colpa sia anche sua e che abbia in qualche misura partecipato all’avvenimento, per esempio manifestando un certo desiderio, poi ritrattato. È quello che accade, nella finzione narrativa, anche a Clara quando da adolescente subisce in ascensore le avance non richieste del vicino di casa, un uomo molto più grande di lei. Confidandosi con la madre, la donna le chiede cosa abbia fatto per causare il comportamento dell’uomo e la invita a usare le scale per “sentirsi più sicura”.

Il cambio di paradigma ha soltanto sostituito il modello della donna refrattaria al sesso con quello della donna disinibita, tuttavia non ha scosso quegli stereotipi che continuano a fare da sfondo al ragionamento. La libertà di avere un rapporto sessuale è sì strettamente connessa alla capacità di riconoscere ed esprimere i propri desideri, ma anche alla disponibilità da parte dell’ambiente di accoglierli senza giudicarli come inappropriati.

In un articolo apparso qualche anno fa su Internazionale, la giornalista e scrittrice Laurie Penny afferma che i corpi e i desideri femminili continuano a essere alla mercé degli uomini perché il cambiamento avvenuto negli ultimi trent’anni non ha alterato i rapporti di potere tra i generi. La società continua a essere ostile nei confronti delle donne e ciò è evidente se consideriamo la “cultura dello stupro” ovvero «il processo per cui l’agire sessuale delle donne è costantemente negato» mentre le molestie e gli abusi che subiscono vengono giustificati e normalizzati. In un contesto di questo tipo la libertà sessuale delle donne è secondaria rispetto al diritto degli uomini di poter avere rapporti sessuali, per questo si richiede alle prime una costante sorveglianza rispetto ai confini della propria sessualità e la capacità di esprimere il proprio desiderio, senza mai rinnegarlo. Sostiene ancora Penny: «siamo circondati da così tante immagini di sessualità che è facile pensare a noi stessi come persone liberate. Ma la liberazione, per definizione, deve riguardare tutti. Invece nel bombardamento di messaggi del marketing (…) l’unico desiderio accettabile va in una sola direzione: dall’uomo verso la donna».

Per poter essere davvero liberatoria, la sessualità femminile ha bisogno di trovare uno spazio più autentico in cui sia possibile accogliere il desiderio per ciò che è, uno stato fluido di durata e intensità variabile. È necessario, ancor prima, riequilibrare i rapporti di potere tra i generi affinché il desiderio delle donne non sia obbligato a fare da cassa di risonanza a quello maschile per essere accolto. Abbiamo bisogno di dar vita a una nuova cultura della sessualità, in cui ogni persona – indipendentemente dal genere e dall’orientamento – sia nella condizione di poterla esprimere invece che negarla per adattarsi al contesto.

ARTICOLO n. 49 / 2023

GIANNI CELATI: PARTIRE

Trilogia Celatiana. Perdersi

Ogni volta che leggo qualcosa scritto da Gianni Celati, ma anche che vedo un film di Celati, o che vedo Celati parlare in un’intervista (Celati sempre bello e distratto, con quei modi allo stesso tempo scanzonati e tristi), la sensazione che provo è quella di sospensione. Con Celati si è sempre in una terra di mezzo, nel flusso di un movimento da un posto all’altro, e non si è mai sicuri di quale sia il luogo in cui ci troviamo o quale sia la meta del viaggio. Pochi scrittori hanno fatto dell’esperienza di perdersi una caratteristica tanto fondamentale del proprio lavoro. Leggendo Celati si è sempre persi, nelle storie ma anche nella lingua. E se è vero come scrive Franco La Cecla che perdersi intenzionalmente è impossibile, che «l’azione riflessiva è il cercarsi e non trovarsi, non il perdersi», possiamo capire quanto lavoro – letterario e non – sia necessario per produrre una letteratura del perdersi, cioè una letteratura abbastanza precisa da portarci in un luogo e abbastanza vaga da farci ritrovare perduti. La scrittura di Celati è sempre un duplice movimento, o meglio è lo spazio aperto da quel duplice movimento.

Che perdersi fosse per Celati una questione eminentemente letteraria lo si capisce dal nervosismo con cui accoglieva i «deliri burocratici» e i «problemi giuridici» (così li chiamava) dei critici che cercavano di risolvere il rebus della sua scrittura. Celati era molto insofferente alle categorie, ma bisogna dare atto ai suoi lettori che stargli dietro non era facile: un giorno era il traduttore dell’Ulisse e un professore universitario, il giorno dopo uno scrittore di racconti comici, un altro giorno ancora era partito per un viaggio e non tornava per mesi. Scappava continuamente dalla letteratura e poi ci tornava sempre. Era molto elusivo e cercava sempre di sottrarsi, soprattutto rispetto a sé stesso. E quindi la domanda che critici e lettori non hanno mai smesso di porsi, quella di dove collocare Celati nella letteratura italiana, era in fondo una domanda più profonda che riguardava la collocazione di Celati nel mondo: a ben guardare gli stavano chiedendo di stare fermo il tempo necessario per poterlo capire davvero. Ma Celati non era una cosa o l’altra, era il movimento tra quelle due cose. Così lui si innervosiva, e loro si innervosivano, e Celati rimaneva un enigma per tutti, che in fondo è la ragione per cui Celati è uno scrittore tanto luminoso, difficile e irripetibile.

Emilia

Ma mettiamo da parte per un attimo il nervosismo. Persi per persi, di un punto di partenza abbiamo comunque bisogno, ora che Celati non c’è più e ci rimane solo la critica su Celati. Abbiamo bisogno di partire da qualche parte per lasciarci andare pienamente a questa «passione del perdersi», come la chiama ancora La Cecla. Faremmo un errore, lo stesso errore dei suoi critici, se provassimo a collocare Celati partendo dalle categorie letterarie, se provassimo cioè a interpretarlo come uno scrittore comico, uno scrittore di viaggio, un avanguardista, un etnologo, un saggista, un traduttore e via dicendo, perché Celati era tutte queste cose e nessuna fino in fondo. Il problema fondamentale con Celati è sempre quello del dove, il discorso letterario è un problema di collocamento nello spazio. Per questo l’unica cosa certa che possiamo dire di lui è la seguente: che era uno scrittore emiliano.

Mi rendo conto che è un paradosso. Celati non è nemmeno nato in Emilia ma a Sondrio, anche se per un accidente (la famiglia si trovava in Lombardia a causa del lavoro del padre ma entrambi i genitori erano originari della provincia di Ferrara), e in Emilia ha vissuto in maniera irregolare. Una cosa di lui che sanno tutti è che era un grande viaggiatore e ha abitato un po’ ovunque: in America, in Francia, in Africa e soprattutto in Inghilterra, dove è rimasto per tutta la seconda parte della vita e dove è morto il 3 gennaio del 2022, una settimana prima di compiere 85 anni. Eppure sarebbe impossibile comprendere Celati senza l’Emilia. In questo è l’opposto di Calvino, suo mentore, amico e modello. Calvino, nato anche lui per caso altrove, a Cuba, è uno scrittore assolutamente apolide. Celati avrebbe potuto anche vivere in Giappone e non avrebbe smesso di essere uno scrittore emiliano.

Più difficile è definire in cosa consista questa emilianità e perché sia utile come categoria letteraria. In Pianura, Marco Belpoliti si riferisce al rapporto di Luigi Ghirri con la campagna emiliana parlando di un «modo di abitare […] frettoloso, disattento alle cose», mentre di Celati dice che la sua parlata «molto manierata» era il suo «modo emiliano di rivolgersi all’interlocutore in forma affettuosa». Belpoliti e Anna Stefi hanno intitolato la loro raccolta di conversazioni celatiane Il transito mite delle parole, e in quel richiamo alla mitezza c’è la morbidezza e la fluidità, la leggerezza, la «passione per il mondo coì com’è», l’ironia che non diventa mai sarcasmo di tanti scrittori, registi e fotografi provenienti dall’Emilia-Romagna. Come se la vita non fosse veramente una faccenda seria. Ma potremmo menzionare anche la finzione e la superficialità, il comico (che dagli anni Ottanta evolve in qualcosa di più sottile), il senso beckettiano dell’attesa. E poi la luce, quella «luce dispersa» in cui annegano le ombre, la «luce scoppiata» di cui parla il pittore d’insegne Menini quando dice: «io credo che bisogna chiedersi cosa è luce e cosa è ombra per non lasciare le cose da sole nella loro disgrazia». Tutta questa è l’emilianità di Celati.

All’inizio della sua carriera, l’Emilia è soprattutto Bologna, dove insegna letteratura angloamericana per buona parte degli anni Settanta. Nel 1977 diventa una figura importante del movimento studentesco («un po’ indiano metropolitano, un po’ clown triste», ha detto Nico Orengo) con un laboratorio di scrittura collettiva su Lewis Carroll che darà vita ad Alice disambientata, libro sorprendente e polifonico che fluttua da qualche parte tra Deleuze, il Cappellaio Matto e Basaglia. Il libro è unico nel suo genere, gira di mano in mano e non riceve nessuna recensione ufficiale. Celati lancia copie del libro in aula. Non che sia così strano, è il Settantasette a Bologna, ma stiamo parlando di uno scrittore che ha già pubblicato quattro libri con Einaudi, del traduttore di Swift e Céline, quindi non è nemmeno così usuale.

Subito dopo Celati scompare. Nessuno sa esattamente dove vada nei sette anni successivi, ma un elenco parziale comprende: la Pianura Padana, l’America, la Scozia, Parigi, Montpellier, Friburgo. È uno di quegli allontanamenti ciclici dalla letteratura, un sintomo dell’irrequietezza che lo accompagnerà tutta la vita. Ha deciso di smettere di scrivere perché, spiega, «non avevo più niente da dire a nessuno». Ma anche questo non è vero, in realtà stava cambiando: abbandonava il registro comico per approcciarsi a qualcosa di nuovo, più sfumato e indefinibile, che chiamerà «ricettività crepuscolare». Quando torna a pubblicare, nel 1985, lo fa ripartendo dall’Emilia. A ricondurlo sulla strada della letteratura sono i fotografi della scuola italiana di paesaggio, soprattutto Luigi Ghirri, che se lo sono portati «avanti e indietro nelle zone lungo il Po» per dare parole ai loro scatti. Qui Celati sente raccontare le storie minime e strane che diventeranno i racconti di Narratori delle pianure e Quattro novelle sulle apparenze. Nel 1988 fa un passo ulteriore e descrive in Verso la foce i «territori devastati» del delta del Po. Il libro si inserisce in tradizioni letterarie, quella della psicogeografia, del diario di un viaggio a piedi e del nature writing dell’antropocene, che in Italia non esistono nemmeno, né all’epoca né ora.

Nel 1992, passato all’attività di regista, dirige il documentario Strada provinciale delle anime, dedicato alla memoria di Ghirri, morto proprio quell’anno. Ancora nel 2003, quasi settantenne, torna alla pianura padana nientemeno che con John Berger per girare Visioni di case che crollano. All’Emilia Celati torna per quasi tutta la sua vita, poi negli ultimi vent’anni non ci torna più.

Movimento

A questo punto devo fare una confessione: io Celati non lo capisco sempre. Voglio dire che di quelle sue frasi eleganti, bellissime, spesso non riesco a penetrare il senso logico. A volte sembrano voler dire due cose insieme, come uno strabismo, o una cosa che sta tra le due e non è né l’una né l’altra come le note della musica atonale. Altre volte invece sembrano ricordare la nebbia della pianura, o quelle fotografie di Ghirri in cui vedi e non vedi, ti sembra di capire ma non capisci veramente. Credo che sia anche questa la ricettività crepuscolare, l’aura della scrittura di Celati. E credo che quest’aura abbia essenzialmente a che vedere con il movimento: tutto nella sua scrittura serve a far risaltare il moto fisiologico, la gestualità. Celati si muove, le sue parole si muovono. Niente sta mai fermo e lascia dietro di sé una scia, come le stelle cadenti. Parlando a un intervistatore di tutt’altro, cioè del lavoro di fare documentari, dice: «dentro di te c’è un movimento inspiegabile che è una buona guida».

Sono convinto che ci siano diversi tipi di scrittori-camminatori. Ci sono quelli che sentono il bisogno di raccontare tutto, di divagare all’infinito, di raccogliere in un unico periodo tutto lo splendore e l’orrore del mondo, come Sebald. Ci sono quelli che camminano per dieci anni per riassumere migliaia di ore di camminata in un centinaio di pagine, in un processo di liofilizzazione dell’esperienza, come J.A. Baker. Ci sono quelli che camminano per far sì che il corpo vada alla velocità delle idee perché se si fermassero impazzirebbero, come Coleridge. E poi ci sono gli scrittori che camminano attraverso la lingua, gli scrittori per cui le parole sono una specie di fluido, battiti che compongono un ritmo, bandierine attraverso cui fare lo slalom. Ecco, Celati cammina tra le parole, dietro le parole, si muove sempre e quando provi ad afferrarlo con la mente è già andato da un’altra parte. Lo scrittore, dice, è «un essere microscopico in un movimento pressoché infinito».

Questo movimento, è inutile dirlo, non va da nessuna parte. All’inizio di Strada provinciale delle anime il narratore, o uno dei narratori, perché non è ben chiaro chi sia a raccontare e chi ad ascoltare, si chiede cosa ci sia di tanto interessante da vedere in giro per il mondo. Interrogato su cosa intenda lui per «avventura», Celati risponde che l’avventura non ha niente a che fare con l’esotico e nemmeno con il desiderio, anzi è quello «spazio aperto» che si crea proprio dove non c’è desiderio, perché gli «oggetti socialmente desiderabili ti bloccano la testa per sempre». È un ribaltamento totale dell’idea romantica, dell’avventura come desiderio del desiderio. Più avanti un altro narratore, o un’altra voce del narratore molteplice, riflette sul perché le persone vadano in vacanza e si risponde che vanno in vacanza per non sentirsi persi. E poi si chiede: «ma è meglio sentirsi persi o guardare solo quello che ti hanno detto di guardare?»

L’avventura non c’entra niente con il desiderio e i libri di viaggio non fanno nemmeno il tentativo di guidare il lettore attraverso il luogo di cui parlano: leggere Avventure in Africa in Mali o Verso la foce per fare una gita sul Po sarebbe inutile perché sono l’opposto di una mappa. Celati odiava le mappe, andava da Bologna a Londra in auto e sulla strada si fermava a Parigi da Calvino, e il tutto senza una mappa. Calvino, che è uno scrittore-mappa, uno scrittore-labirinto ma anche uno scrittore che per tutta la vita non ha fatto che disegnare la mappa per uscire dal suo stesso labirinto, lo rimproverava. Quando gli chiedono se si senta più saggista o scrittore Celati risponde: «vado avanti un po’ a caso, devo dire». 

Ma come tutto il resto in quella ricerca di strabismo che è la sua scrittura, anche il movimento ha un duplice significato. Celati era molto ansioso e talvolta molto depresso, e sappiamo che camminava a lungo prima di scrivere, come se si potesse scrivere solo quando si è esausti, come se la scrittura fosse il sottoprodotto dell’esaurimento. Camminare quindi era anche una terapia, un esorcismo, un rito sciamanico, il rituale per evocare la ricettività crepuscolare, vale a dire il luogo di passaggio in cui si trovano le uniche cose che vale la pena scrivere.

Voci

È bella, questa immagine del camminare come atto rituale, perché comunica l’idea che la scrittura migliore nasce sempre quando lo scrittore si è messo K.O. e lascia che a parlare al posto suo sia «quel movimento inspiegabile» che è «una buona guida». Chi parla attraverso Gianni Celati? Ecco un’altra cosa di lui che è stata ripetuta fino allo sfinimento: che non dimostrava l’età che aveva. «Gianni è sempre stato un ragazzo, anche quando l’ho rincontrato e non era più il giovane professore del Dams. Aveva più di cinquant’anni eppure ne dimostrava trenta» (Belpoliti); «Celati è un uomo bello, dalle mani lunghe ed eleganti, uno sguardo dolce e distante. Ha quarantotto anni e gliene daresti trentacinque» (Marcoaldi); «Celati è sveglio, magro, nervoso, si veste come un ragazzo» (Emanuele Trevi). «Possa il puer chiamarci a essere noi stessi», scriveva Hillman. 

Il puer in Celati è tante cose: l’irrequietezza, quel continuo spostarsi da un genere letterario all’altro, l’insofferenza per tutto ciò che immobilizza la vita, il fastidio per le regole che incasellano e ordinano l’esperienza, il rifiuto dell’efficienza e della produttività. Quella volontà pervicace di rimanere sempre sfuggenti, senza radici, senza un posto tranquillo e istituzionalizzato nella vita come nella letteratura. Lo sguardo fresco, la capacità di continuare a stupirsi. Penso che si possa dire di Celati quello che Hillman scriveva del puer come forza psichica, quel fuoco dentro di noi che rimane giovane nonostante il passare degli anni e per farlo nega la psicologia come forma di profondità inutilmente pesante: «è al puer che Psiche soccombe proprio perché egli ne è l’opposto», il suo spirito «è il meno psicologico, il meno dotato di anima». Per creare un linguaggio capace di comunicare gesti, dice Celati, «bisogna abbandonare la psicologia, bisogna ripulirsi e cancellarsela dalla testa».

Non è quindi un caso che nei suoi viaggi americani Celati sia andato spesso alla ricerca più o meno consapevole del trickster, quella «figura d’un eroe che ne combina di tutti i colori ma resta sempre un po’ incomprensibile perché la sua ricerca non corrisponde a un desiderio già definito». Il trickster, dice Celati, è un po’ «come il bambino», che «non ha ancora idee precise sugli oggetti socialmente desiderabili»: è un’energia immatura, che rifiuta di essere rinchiusa in una forma, ma per questo tanto più incontrollabile. Celati amava l’imprevedibilità, il caos, il dialogo inintelligibile, il nonsense e più in generale tutto ciò che è inafferrabile e impossibile da categorizzare. Parlava molte lingue, talvolta tutte insieme. Quando scrive sembra sempre che ci siano più persone, almeno due, che scrivono in contemporanea, e questo non vale solo per i racconti ma anche per la saggistica critica. L’effetto su chi lo incontrava era talvolta straniante.

Dispersione, ricomposizione. Partire, fermarsi, ripartire. Scrivere e non scrivere. Scrivere e camminare. Allontanarci dalla scrittura per ritornarci sempre diversi. C’è una frammentarietà costitutiva della scrittura di Celati, che pure per altri versi è così curata, così precisa. Anche in questo campo, è il doppio speculare di Calvino, che si è affannato tutta la vita di trovare la parola esatta che lo salvasse dal caos: in Celati la parola esatta è proprio la strada per arrivare al caos. Perché la parola esatta è luminosa al punto che significa tante cose insieme, come un prisma, e ognuno di questi significati va in una direzione diversa. Celati scriveva, piantava tutto a metà, poi ritornava su quei frammenti dieci anni dopo e li riprendeva, che è un po’ come tornare in un luogo in cui si è stati molti anni fa e vederlo con occhi nuovi: ecco il «movimento pressoché infinito» dello scrittore, della scrittura. Amava i racconti perché «ogni racconto può andare per conto suo, ha la natura del frammento disperso», perché «i racconti sono come gocce di mercurio che si sparpagliano da tutte le parti, sfuggenti e mutevoli», perché «i racconti sono frammenti vaganti nella dispersione».

Non è tutta così, la scrittura di Celati? Un «frammento vagante nella dispersione»? Storie captate, intercettate, storie di passaggio, capite male, storie lacunose, storie inventate, che si sono perse, che sono riuscite a creare le condizioni per sentirsi finalmente perse. «Alla fine abbiamo portato a casa una serie di riprese sparse, per lo più frammentarie, casuali», dice parlando del processo di realizzazione di Diol Kadd

«Un frammento vagante nella dispersione» fa pensare a un meteorite, una stella cadente che brucia nel cielo, per un attimo, senza nessun altro significato che la propria luce. L’esperienza corporale di quel momento idiosincratico e inafferrabile, indescrivibile perché non incasellato dalle categorie logiche, è forse la maniera più fedele di interpretare la scrittura di Celati. Per il quale «basta un accenno che spunti come un lampo e si bruci nell’energia del dire, del ridire qualcosa in buona vena: quello è già una storia».

ARTICOLO n. 48 / 2023

GOOMAH LO DICI A TUA SORELLA

Around The Table. Una serie americana in italiano

Tra tutte le domande che facevo a mia madre, quella che la irritava di più, che le dava talmente tanto fastidio da poter sentire le vibrazioni dei nervi come delle corde di un pianoforte, era la seguente: “Cosa c’è per cena?”

Adesso che la mamma sono io, condivido il suo fastidio. Non solo: lo capisco. Non è che le mamme stanno tutto il giorno a girarsi i pollici e hanno il tempo di programmare menù da ristoranti. Altrimenti un piatto di pasta, una bottiglietta d’acqua liscia temperatura ambiente e un frutto fanno diciotto euro, coperto compreso, s’intende. Anzi, ringraziare Iddio che qualcuno sia andato a lavorare per permettersi la spesa, che viene cucinata e trasformata in cibo da mettere in tavola! Ma non solo: la domanda potrebbe rappresentare l’inizio di lamentele ingiuste e inutili, non ammesse né mai concesse per nessuna ragione al mondo. Servono solo a far scattare urla di Tarzan. “Quello che passa il convento”, mi sentivo rispondere con quel tono lì ogni volta che ho osato chiedere. 

Invece, mia figlia Vera, impeccabile, me lo chiede tutte le sere. Ma lei va oltre, tasta terreni che io non ho mai azzardato prendere in considerazione: siccome non mi teme, osa lamentarsi. “Non mi piace”,” l’abbiamo già mangiato ieri”, “avrei voglia d’altro”. E io sono addirittura peggio di lei: so bene che questo mio grave errore mi porterà nel girone infernale in cui per punizione si viene sgridati dalle mamme per l’eternità. Io, che non ho polso, le chiedo cosa vorrebbe. Sento mia madre rigirarsi nella tomba ogni volta che pronuncio queste parole. Cedo perché sono pigra, quasi sempre stressata e non ho voglia di litigare, e perché l’importante è che mangi qualcosa. «Posso farmi le fettuccine (feducin) chicken Alfredo? Giuro che lavo tutte le pentole che uso». Me l’ha chiesto anche l’altra sera, storpiando come sempre le parole in italiano. Io, piuttosto di mangiare quella cagata, digiuno. Vera lo sa e infatti ne fa solo una porzione per sé.

Senza litigate, finalmente siamo tutti a tavola: Vera con il suo piatto puzzolente di pasta scotta e insipida con panna e pollo disgraziati, io, Ryan e Andrea con delle bistecche impanate e dell’insalata. C’è anche Martina, che da qualche tempo ha deciso di farsi chiamare Alex, perché è un nome neutro. Va bene: basta che mangi. Sembra che siano tutti contenti, ed è forse anche per questo che decido di rovinare il momento della happy family che mi fa tanto Mulino Bianco: «E comunque, ‘sta roba delle fettuccine (feducin) chicken Alfredo non è italiana. In Italia si mangia il primo, che sarebbe una pasta o una minestra, e il secondo, dove viene servita carne, verdure o pesce. Non si mischiano quasi mai. E si pronunciano FET-TUC-CI-NE e AL-FRE-DO, non come lo dici tu!» In tavola cala il silenzio, seguito da uno sbuffo all’unisono. Qualcuno alza gli occhi al cielo. Io mi verso il terzo bicchiere di vino e fingo di non capire.

È interessante come la cultura americana sia un mosaico che contiene aspetti di civiltà di altri mondi, lontanissimi da qui.Se non fosse per il genocidio dei nativi americani, si potrebbe usare senza sensi di colpa il termine Nuovo Mondo. Transit. È su queste coste che gli antimonarchici inglesi misero piede per primi. I ribelli, insomma. E da allora, con la vastità di terreno e ricchezze che piano piano si vennero a scoprire dall’Est all’Ovest, gli Stati Uniti diventarono e sono tutt’ora una calamita molto potente che attira popolazioni di ogni luogo. Lo so, la violenza, la marginalizzazione, lo schiavismo, il genocidio e altri piccoli particolari fanno parte integrante della storia americana e non bisogna dimenticarselo, ma mi viene da dire a noi europei che chi è senza peccato lanci la prima pietra. Comunque, il fatto di essere così vivamente multiculturale li rende ricchi, affascinanti, unici: tutti gli americani hanno radici da qualche altro angolo del globo.

Le persone provenienti dallo stesso Paese si raccolsero in comunità dove poter mantenere un’identità d’origine: Chinatown, Little Italy sono solo due dei mille esempi. Portarono con sé le proprie credenze, i propri valori, la propria cultura e il proprio cibo.  A differenza della società di provenienza, che negli anni si è evoluta, i connazionali d’oltreoceano hanno sempre mantenuto le usanze e i costumi legati al periodo storico in cui si trasferirono. Non sono mutate, non hanno avuto modo di stare al passo coi tempi. È per questo, per esempio, che qualche tempo fa uscì la notizia riguardo il Grana Padano. Pare che quello fatto negli Stati Uniti sia più simile alla ricetta originale, perché gli italiani che arrivarono allora non sono stati mai influenzati da certi cambiamenti. Sicuramente negli anni, in Italia si sono modificate le ricette o gli strumenti per produrne in grande scala. 

Come in Italia con la lingua inglese, anche qui si usano termini che, seppur molto storpiati o antichi, sono di origine italiana. Liz, una mia amica di origine siciliana, mi aveva raccontato che da piccola, era venuta a vivere con lei la goomahd. Facevo sì con la testa, ma non ho mai avuto la più pallida idea a cosa si riferisse, men che meno che fosse un termine di provenienza italiana. Poi, guardando la serie I Soprano, mi è stato tutto più chiaro: la goomahd è la madrina, mentre la goomah senza la di finale, è l’amante. Che ruolo abbia la comare in famiglia è ancora un mistero, ma basta googlare, come ormai si dice in Italia.  Quando sgrida i suoi figli, Liz finisce sempre con la parola kapeesh. Quando le chiesi cosa significasse e da dove derivasse il termine, si mise a ridere: «Ma come, non è italiano? It means do you understand…», capisci? Non ci sarei mai arrivata. Altre parole usate dagli italoamericani sono: maronn (Madonna), manigot (manicotti), goompà (compare, amico), regoat (Ricotta), mosaré (mozzarella), pastafazool (pasta e fagioli). Molti, come si nota, sono termini legati alla famiglia o al cibo, che sono i perni della comunità italoamericana.

Trovo molto interessante che negli Stati Uniti si possano scoprire ancora piccoli pezzetti di una società antica, di un’Italia che ormai non esiste più. L’immagine che mi balza in testa quando penso a questi residui di un linguaggio tra l’italiano e il dialetto, termini che per due secoli sono rimasti intaccati dalla modernità, è quella di un insetto dentro un pezzo di giada. Preservato con cura, come se il suo valore fosse inestimabile, come se perderlo significasse perdere anche le proprie origini. Eppure, è legato a un’Italia che invece ha subito mille trasformazioni: le due guerre, Mussolini, Hitler, la Democrazia Cristiana, il Milan, Berlinguer, Nilla Pizzi. E poi il sessantotto, il femminismo, le leggi sull’aborto e sul divorzio, gli anni di Piombo, Falcone e Borsellino, settecento governi diversi. Un luogo lontano ormai anni luce dalle goomahd di una volta. Sicuramente anche le culture provenienti da altri luoghi hanno mantenuto stretti e tramandato brandelli di un Paese che ormai non esiste più.  Un momento ben preciso della storia, rimasto intaccato e gelosamente tenuto puro dal tempo. 

Per motivi molto diversi, legati in parte alla tecnologia e in parte a questa cosa che tutti chiamiamo Internet, anche l’italiano si è arricchito di molti termini inglesi, anche fin troppo, a mio parere. In Italia fu Mussolini, la cui personalità non si può descrivere come versatile, elastica e nemmeno poliedrica, a vietare termini anglosassoni nella lingua italiana.

Il Popolo del luglio 1938 pubblicava il seguente commento:

«Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi, o di Londra, o d’America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare noi, come guardarono a Roma o all’Italia del Rinascimento…»

Certamente è un caso che il governo di destra della Presidente Meloni faccia le stesse critiche della “mascella che al cortile parlava” (cit. De Gregori): ci sono troppi termini inglesi nella nostra lingua. Interessante invece che le sia venuta in mente questa proposta dopo aver lanciato la scuola che lei chiama Made in Italy. Se non fosse per i cento euro di multa e per il terrore di passare per quella che sta con i fascisti, una piccola parte di me sarebbe segretamente d’accordo. 

Ogni volta che vengo a Milano, mi stupisco di quante parole inglesi siano ormai entrate a far parte del gergo. Sono sempre di più, tanto che ormai quando ne uso una, chiedo se si dice già anche in Italia. La risposta è sempre positiva. La cosa buffa è che spesso sono usate in modo sbagliato e sempre pronunciate sulla stessa onda di manigot. In poche parole, la pronuncia è talmente lontana da quella corretta, che non si capiscono proprio. Personalmente, poi, faccio sempre figure di merda perché le pronuncio come si dovrebbe o perché faccio fatica a decifrarle: i miei amici dicono che sono snob e che faccio finta di non capire. Ce la metto tutta, ma quando mi chiedono se ho il blutut, io davvero non ho la più pallida idea di cosa mi stiano chiedendo. Ripeto, è esattamente come quando non capisco la parola goomahd

Comunque, il dilemma su come pronunciare le parole inglesi quando si sta parlando un’altra lingua, se farlo in modo corretto o no, esiste eccome. Ne parlava anche David Sedaris, scrittore e genio americano, che per anni ha vissuto in Francia. Raccontava che una sera era a cena con degli amici francesi. Durante la conversazione, gli chiesero dove avesse vissuto prima di trasferirsi a Parigi. La risposta era: New York. Il suo dilemma, invece, era: pronuncio New York come lo pronunciano a Parigi o come si pronuncia veramente? Perché immancabilmente ci si sente un po’ snob, in questo hanno ragione i miei amici italiani, a pronunciare come si dovrebbe, ma allo stesso fa molto da ridere quando ci si impone di imitare il modo sbagliato per non fare brutte figure. Alla fine, per non passare per la saputella, mi sono imposta di dire blututColgatecol (call), o amburgher. Quando venni in Italia con Alex e Vera, mi presero molto per il culo: “Amburgher?!?”

Pronuncia a parte, ci sono parole di provenienza inglese usate solo in Italia. Per esempio, col (call). Non si dice, non si usa né negli Stati Uniti né in Inghilterra: qui, si dice meeting. Poi, che ci si incontri al computer o meno non è un dettaglio che pare interessi. Durante la pandemia, si lavorava in smartworking. Ma solo in Italia. Nei Paesi anglosassoni, di lavorava da casa (work from home). Un’altra: fare footing. Non sono neanche sicura che esista come termine (devo googlare), ma generalmente, quando uno si mette le scarpe da ginnastica, i pantaloni della tuta, una maglietta e gli airPods, va a running, non a jogging

Infine, spesso viene cambiato il significato di certe parole inglese usate nel linguaggio italiano. Questa cosa l’ho scoperta una sera di qualche anno fa. Ero a Bologna con degli amici ed eravamo seduti in un bar, tutti un po’ brilli. Loro continuavano a dire una parola in inglese che non capivo e a ridere come matti. Dopo aver chiesto, ho scoperto che in italiano dire la parola squèrt (squirt) è una roba erotica volgarissima. Qui la si usa quasi esclusivamente quando si sta per addentare un amburgher e ci si vuole mettere del checiap: non ha nessun connotato sessuale, ma piuttosto una parola che descrive un gesto banale, lontano mille miglia dalle luci rosse. Infatti, risposi a voce alta: “Ah squirt!”, perché la pronunciavano male. Ci fu una risata a crepapelle generale, di tutti quelli del bar, amici e non, e quelli seduti ai tavolini fuori. Solo quando i miei amici, con le lacrime agli occhi dal ridere, mi fecero il gesto di abbassare la voce e mi spiegarono, anche per me questa parola ha acquistato un connotato erotico. Quando tornai negli Stati Uniti, spiegai ai miei amici americani in quale contesto viene usato questo termine negli States. Magari mi ero persa qualcosa. Confermarono: mai sentito associato al sesso. 

Comunque sia, da allora aspetto il 4 di luglio manco fosse babbo Natale. Spero sempre che invece delle bandiere a stelle e strisce e birre acquose, venga fuori qualcosa di un po’ più piccante. E non lo dico per il checiap, che tra l’altro tanto bene non fa sicuramente.

ARTICOLO n. 47 / 2023

ESISTE ANCORA L’ITALIANO LETTERARIO?

Questo intervento è stato letto dall’autore alla Camera dei Deputati, in occasione del Forum della lingua italiana, tenutosi il 23 maggio 2023.

“Seguono il navigatore e finiscono con la macchina nell’Oceano Pacifico”. 

Qualche anno fa, tre persone in vacanza hanno seguito con una tale fiducia le indicazioni del navigatore che, pur a un passo dal cadere nell’oceano, sono andate avanti, perché il navigatore ne era certo: la strada giusta era quella. Poco importa che quella non fosse una strada, ma il modo migliore per finire, appunto, nell’oceano.

Leggendo questa notizia su un importante quotidiano nazionale – nella fittissima mole di informazioni e dati prodotti in ogni istante e destinati all’oblio in ogni istante – potremmo chiederci come è successo? E quando è successo? Come è successo, quando è successo, che la nostra specie, la specie cui apparteniamo, ha iniziato a lasciarsi condizionare così tanto dalla realtà esterna? Quando ha iniziato a essere invasa da una così intensa assenza mentale?

Il nostro cervello è esploso a dismisura per milioni di anni. Quasi da sempre, ci è stato possibile, davanti a un cielo stellato, sentire la presenza di milioni di galassie. Sentire l’immensità. Sentire l’infinito. 

Uso la parola sentire e non capire, perché comprendere di essere felici, per esempio, è ben diverso che sentire di essere felici, così come comprendere di provare dolore è molto diverso dal sentire il dolore. Quando qualcosa si sente, la si vive. Se la si capisce, non sempre c’è la conversione: non sempre la stiamo vivendo sulla nostra pelle. 

Si potrebbe dire che i tre turisti, prima ancora che capire il pericolo di finire nell’oceano, non l’abbiano sentito. Non erano affatto nel presente. Con la mente, erano da un’altra parte, come capita in vario modo, a noi tutti, ogni giorno. Per questo appaltavano le decisioni al navigatore. 

La loro caduta nell’oceano, scenografica ma non così drammatica, può suggerire un sorriso, ed è giusto così: sorridere è un atto molto umano, se possiamo. Non deve però farci dimenticare che quei turisti siamo noi. E che noi tutti, ogni giorno, mettiamo sempre più da parte questo sentire, questo vivere nel presente, questo vivere nell’istante.

Si trattava di tre giapponesi in Australia ma, per quanto nel mondo sembra che ci siano ancora persone che non ne siano convinte, ogni essere umano è uguale a un altro: ha sangue rosso e lacrime salate, prova molto amore, prova molto dolore. Ognuno è responsabile della sua vita, certo, ma ognuno di noi è nell’universo, e quindi ogni essere umano (così come ogni essere vivente) siamo noi. Noi non siamo nella natura ma siamo la natura. Non ci siamo noi da una parte e il mondo dall’altra: noi siamo il mondo. 

Naturalmente il punto interrogativo che chiude il titolo di questo intervento – esiste ancora l’italiano letterario? – si configura come un piccolo muro di Berlino, che tiene fuori un’altra parte della domanda: esiste ancora l’italiano letterario, nell’era della distrazione, della disattenzione, o nell’epoca algoritmica che ha messo al centro, come forse mai prima d’ora, le istanze dell’ego? Ego che come una scheggia impazzita invade il mondo, esplode nei mille rivoli del personal branding, fino al confine, spesso superato, dell’autocelebrazione?

E poi: esiste ancora l’italiano letterario, in un contesto in cui il dibattito (letterario e non) si contrae, si spettacolarizza, si infantilizza e in cui è sempre più esasperata la sovrapposizione – tutta del nostro Ventunesimo secolo – tra prestigio e numeri, talento e consenso, in cui in sostanza è molto più facile confondere il successo con l’opera artistica?

E infine: esiste ancora l’italiano letterario in un tempo in cui il nostro sentire è a rischio?

Non si può che chiedere scusa alle grandi domande per le piccole risposte. 

La risposta è sì. 

È innegabile che sono tempi ostici per la lingua letteraria, ma finché esisterà la nostra specie, ne sono convinto, esisterà questa scintilla, questo incantesimo.

Prima di addentrarci, però, è necessario specificare che cosa si intende, qui, per “letterario”. Naturalmente la prospettiva non è qui quella di un linguista, o di un sociologo della lingua, ma di uno scrittore o al massimo di un lettore.

Se prendiamo una ciotola d’argilla piena d’acqua e la svuotiamo, la ciotola ora è vuota. Così sembra. Eppure la ciotola è piena d’aria. Eppure il vasaio, per impastare l’argilla, ha avuto bisogno di acqua. Eppure il vasaio, per cuocere l’argilla, ha dovuto usare il fuoco. E senza l’aria, il fuoco non avrebbe divampato e il vasaio non avrebbe respirato. E poi: il fuoco non sarebbe stato possibile senza legna. E poi: senza la pioggia, senza il sole, senza la terra, non sarebbero cresciuti gli alberi. Quella ciotola, allora, ai nostri occhi può essere vuota, ma è evidentemente piena: di acqua, di aria, di fuoco, di terra, per esempio. 

Lavorare con l’italiano letterario – usare la lingua dentro uno spazio letterario – significa proprio questo: guardare ciò che non si vede. Indossare lenti speciali che permettono di andare oltre l’apparenza, oltre la forma. Reinventare il mondo, ma non a tavolino. Abbattere le pareti del linguaggio. Andare incontro all’ignoto.

L’ignoto non è un fatto vago. È qualcosa di concreto. È lo spazio non previsto, non immaginato. È lo spazio dove non siamo mai stati, il tempo che non pensavamo di poter vivere. Tuffarsi, con le parole, in questo ignoto, significa creare un fatto nuovo: qualcosa di impensato.

In questo senso, lavorare con l’italiano letterario è un atto politico.

La letteratura è fatta di materia, di presente, di virgole, di spazi, di punti e a capo. Ma è viva solo se sa fare questo tuffo nell’ignoto. Così la politica. È fatta di emergenze – come quella molto drammatica di questi giorni -, è fatta di piccole decisioni della vita quotidiana, ed è fatta di presente: ma non è viva se non sa guardare ciò che non si vede. Andare incontro all’ignoto, creare un fatto nuovo, passare dall’arte del possibile all’arte dell’impossibile. Permettere, quindi, ai significati, di proliferare.

Posso scrivere: Maria spegne la luce. Oppure posso scrivere: la luce spegne Maria. 

Se deve esserci una frase giusta e una sbagliata, per la letteratura quella giusta è la seconda. La prima è una frase didascalica, narrativa. È tutto chiaro. La seconda genera infiniti significati. Come può una luce spegnere Maria? E che significa spegnere? È tale l’intensità del fascio di luce da accecarla? O solo da addormentarla? O da immalinconirla? E che tipo di luce è? Da dove arriva? E chi è questa Maria? Una bambina? Di che tempo? O è Maria di Nazareth? Che cosa è successo?

Nel 1980, il poeta Andrea Zanzotto incontra gli studenti di una scuola di Parma. Uno studente gli chiede: «Come mai la poesia contemporanea è spesso difficile da capire?» Il poeta risponde: «C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così […]. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto».

Questa definizione è sicuramente da estendere alla letteratura tutta, e non solo alla poesia. 

L’atto letterario – come l’atto politico – equivale al cammino di un pellegrino. Se ogni viaggio separa la partenza da un arrivo, rischiamo di considerare gli spazi intermedi come un tempo inutile, da dimenticare, o da vivere il più velocemente possibile.L’atto letterario – come, credo, quello politico – invece deve abbattere l’idea di percorso. Tutto ciò che c’è in mezzo tra la partenza e l’arrivo non è più intermedio: è una transizione, una catena di momenti da vivere il più intensamente possibile. Non bisogna accelerare per superarli e per arrivare alla meta – ci sono percorsi lunghi, e non esistono scorciatoie. Bisogna viverli. Appunto: sentirli. In questo modo, tutto diventa reale. Lo spazio in cui viviamo è reale. Il tempo che viviamo è reale. 

L’evento di oggi – leggo – nasce allo scopo di “valorizzare la lingua italiana in una prospettiva legata allo sviluppo culturale del paese”.

Non ho gli strumenti o, come si dice, le ricette, per immaginare come sia possibile valorizzarla. Spero tuttavia che sia possibile, un giorno, quantomeno suggerire che la nostra lingua – la nostra “materna locutio”, quella che, scrisse Dante, “riceviamo senza alcuna regola imitando chi ci nutre” – possa essere valorizzata nella sua complessità, e non bistrattata, trattata solo come uno strumento. Che possa servire a perforare le nostre certezze, i nostri tic, i nostri dualismi. Che possa essere utile a chi scrive, a chi legge, a chi fa politica, a chi vive nelle nostre città e nei nostri paesi, a ricordarci che qualunque sia la nostra attività bisogna essere come specchi. Lo specchio non può fare niente per riflettere un’immagine: può soltanto mantenersi pulito. Che possa, infine, essere il veicolo che ci spinga, come i tre turisti giapponesi, a tuffarci nell’oceano – nell’“oscurità da eccesso”, nell’ignoto, nella vita, nel futuro – ma questa volta senza GPS. E così, nuotare verso nuovi significati che non conosciamo.

ARTICOLO n. 46 / 2023

IL POMODORO DEMONIACO

La mistica del cibo

Se vi foste trovati su un’imbarcazione affacciata sulle rive del nuovo mondo, conquistadores intenti a studiare dove attraccare, vi sareste quasi di sicuro imbattuti in un intrico di rampicanti, vegetazione massiccia e movimenti furtivi nella penombra, un muro imponente di vita che pulsa arrogante e non si cura di nascondersi.

Non è un caso che a molti sembrasse di essere approdati nell’Eden, dove bastava allungare un braccio per trovare cibo offerto dagli alberi.

Una delle piante che avrebbe catturato la vostra attenzione sarebbe stata un groviglio verde acceso, ricco di frutti variopinti dall’aspetto invitante, tondeggianti e turgidi, con quest’aura pericolosamente invitante.

La verità è che la natura delle Americhe era tanto generosa quanto estremamente insidiosa, e bastava ingerire per errore una pianta e le conseguenze potevano essere ben poco gradevoli.

La pizza, la pasta, gli gnocchi rievocano idealizzazioni tipicamente italiane del pomodoro. Rosso, dolce al punto giusto, lo infondiamo di italianità, lo eleggiamo a simbolo di una mediterraneità, di una napoletanità, di una sicilianità che non ammetteremmo mai che qualcuno possa toglierci.

Un simbolo, il pomodoro, quasi scontato per noi italiani, che oggi porta significati non poi così prevedibili rispetto a qualche secolo fa.

Insieme alle patate, tra i prodotti del Nuovo Mondo che hanno subito un lungo e intricato processo di accettazione, i pomodori sono tra i donu dell’orto che hanno incontrato maggiori resistenze al loro arrivo in Europa. I simboli cambiano da un’epoca a un’altra e da una società a un’altra, e sono prodotti culturali, nati da un sentire collettivo, in costante movimento.

Sentito collettivamente come ortaggio per la sua succosità e dolcezza, il pomodoro si è guadagnato un posto di primato nelle cucine del mondo, ma non sempre è stato così ben visto.

Quando, all’inizio del XVI secolo, gli esploratori spagnoli incontrarono per la prima volta i pomodori in America Centrale, si dimostrarono piuttosto scettici rispetto al loro consumo: sulle prime lo scambiarono per una pianta di belladonna che, nell’Europa di allora in cui l’Inquisizione e le persecuzioni contro le streghe erano all’ordine del giorno, non era un vegetale che godeva di una buona reputazione.

Le solanacee – come il giusquiamo, la belladonna, la mandragola e la tromba d’angelo – non solo erano note per essere estremamente velenose: erano anche considerate frutti del diavolo, creati da forze maligne invisibili.

Streghe e belladonna per le superstizioni europee dell’epoca correvano di pari passo, venivano entrambe legate alla sfera del non-noto, del malvagio, facenti parte di quell’insieme di ingredienti usati per la produzione di pozioni e infusi diabolici, che portavano alla licenziosità, alla prostituzione e ad altre attività poco ortodosse.

Anche un’altra pratica, in uso nel centro America, faceva sì che il pomodoro, per quanto innocente, non fosse ben visto: i cronisti spagnoli riportano con disgusto che gli Aztechi sacrificavano i loro prigionieri di guerra, tagliando loro il cuore ancora pulsante per offrirlo al dio Sole. La carne rimanente di alcune delle vittime veniva poi preparata a mo’ di stufato condito con pomodori e peperoncini e servita ai nobili.

Sebbene gli studiosi non siano d’accordo sulla misura in cui il cannibalismo fosse praticato dalla comunità azteca, concordano sul fatto che avveniva occasionalmente, soprattutto per scopi rituali.

Pratica più malvagia e diabolica non poteva esserci per le menti dei conquistadores, che vedevano il Nuovo Mondo come “Terra di Dio” e, così, trovavano ancor più forti motivazioni per le loro missioni di conversione forzata.

Sembravano invece dimentichi che in madre patria, sempre in nome di Dio, ardevano pire per eliminare con il fuoco l’imprevedibilità femminile, le così chiamate “streghe”.

Gli Aztechi usavano i pomodori anche come medicina: purtroppo, la maggior parte delle loro ricette medicamentose sono tuttora molto difficili da eseguire. Per esempio, per curare l’acne si preparava una maschera di escrementi di lucertola, fuliggine e succo di pomodoro.

La bevanda per la convalescenza e il rafforzamento generale ci suonerà certamente molto più gradevole: succo di pomodoro appena spremuto, semi di zucca macinati, paprika gialla e succo d’agave cotto. Per l’asma e altri disturbi polmonari si mettevano i pomodori cotti, il più possibile caldi, sul petto, strofinandoli non appena erano abbastanza freddi assieme al copale, una incenso resinoso derivante dalla pianta di Icica icicariba.

Per i Maya il pomodoro era un alimento di uso quotidiano. Credevano che il succo di pomodoro aumentasse il sangue rosso in cui risiede la forza vitale dell’essere umano, rafforzandone così il corpo. Con il succo di pomodoro fresco si curavano anche le infezioni della pelle e le emorroidi.

La parola tomato, pomodoro in lingua inglese, deriva dalla parola azteca tomatl, che significa “una cosa rigonfia”, mentre i botanici europei hanno dato altri nomi a questo frutto sospetto. Il primo fu lycopersicum, “pesca del lupo”. 

Il termine “pesca” deriverebbe da una descrizione non molto dettagliata di un’antica pianta velenosa egiziana – presumibilmente la mandragola – che aveva anch’essa bacche di colore giallo oro e che il famoso medico romano Galeno aveva citato nei suoi scritti.

Il “lupo” derivava dal fatto che gli europei pagani chiamavano “piante lupo” tutte le piante velenose, caustiche o addirittura “maligne”.

L’illustre medico tedesco e membro della Royal Society dottor Michael B. Valentini (1657-1721), scrisse: il pomodoro «è chiamato ‘pesca del lupo’ perché, sebbene sia piacevole agli occhi, se la gente lo mangia, può venirne uccisa, proprio come dai lupi». Il frutto era chiamato anche “mela d’oro dall’odore fetido”.

Il termine pomodoro è da attribuire al botanico senese Pietro Andrea Mattioli, che per primo documentò il frutto in Italia nel suo Medici Senensis Commentarii del 1544, dove lo definì mala aurea. Lo stesso botanico lo ha tradotto letteralmente in italiano come “pomo d’oro” (per il suo caratteristico colore giallo oro prima dell’ultima fase di maturazione) prima nel suo Commentario a Dioscoride (1574) e poi nel suo Herbarius.

Altri botanici del XVI secolo pensarono a nomi più amichevoli per la nuova pianta, come “mela dell’amore” (poma amoris) o “mela del paradiso”.

Ma anche questi nomi trasmettono una diffidenza di fondo, una paura dell’erotismo e della sensualità. Il frutto, succoso e rosso come le labbra voluttuose, e pieno di semi viscidi, ricordava agli studiosi una fatale tentazione femminile. In Germania, una ragazza attraente viene ancora chiamata “pomodoro caldo” – che potrebbe però rivelarsi aspro – o “pomodoro capriccioso” – e una donna capricciosa viene chiamata “pomodoro con pepe”.

Quando il pomodoro divenne noto, gli studiosi dell’epoca si chiesero se potesse essere il frutto proibito che cresceva sull’Albero della Conoscenza Proibita nel Giardino dell’Eden. Il loro sospetto derivava dal resoconto di Cristoforo Colombo del suo terzo viaggio, che lo aveva portato fino alla foce del fiume Orinoco, sulla costa nordorientale del Sud America. Colombo scrisse che la regione era bella oltre ogni misura, la vegetazione era rigogliosa, gli animali erano pacifici e gli indigeni erano belli e in perfetta salute. Era convinto di essere approdato ai confini del Paradiso, il Giardino dell’Eden descritto nei testi sacri. 

Era mai possibile che i numerosi pomodori selvatici che crescevano in quel luogo fantastico fossero i discendenti del frutto proibito? 

Il nome “mela del paradiso”, già citato in precedenza, si diffuse relativamente. Per esempio, era il nome usato nei Paesi dell’Impero asburgico – Boemia, Slesia, Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Voivodina) e Tirolo; in Scandinavia sono ancora note come “mele del paradiso”: paradisaebleparadisaepplerajčica, o paradižnik, questi i nomi usati in questi luoghi. E oggi a Vienna solo i forestieri comprano “tomate” al famoso Naschmarkt; i viennesi acquistano Paradeiser.

Nell’Odenwald, vicino al Reno, i locali chiamano ancora il frutto “pomo d’Adamo” in ricordo della prima vittima della seduzione femminile. Anche se la gente diffidava di questo esotico “pomo d’amore” o “pomo d’oro”, esso trovò posto nei giardini europei come pianta decorativa, non da mangiare bensì come ornamento, troppo bello per non nascondere insidie.

Quest’aura di bellezza da temere attribuì al pomodoro poteri eccitanti e afrodisiaci che gli valsero appunto nomi come “pomme d’amour” in francese, o Liebesapfel in tedesco, o “love apple” in inglese.

Nella seconda metà del 1600 in Francia, gli spasimanti ne donavano grappoli ornamentali alle loro dame, a far intendere i loro desideri inesprimibili, e stuzzicarne l’appetito erotico.  Gli alchimisti lo impiegavano in pozioni e filtri magici.

Per molto tempo il succo di pomodoro è stato considerato una pozione d’amore segreta, che agli occhi dei Puritani “porta alla licenziosità”.

A poco a poco, però, se ne scoprirono le proprietà medicinali: il frutto rosso era ritenuto in grado di guarire ferite di vario tipo, tanto che il suo succo fresco veniva versato direttamente nella ferita per prevenire l’accumulo di pus e spalmato sulla cute contro lo sviluppo dell’erisipela. Gli esperti di medicina sperimentarono tinture a base di gambi freschi. L’idea derivava dalla forte somiglianza dei frutti della belladonna, che veniva usata per le pustole e le malattie della pelle di natura scrofolosa, come quelle causate dalla sifilide e dall’abuso di pomate al mercurio. 

Secondo il modo di pensare dell’epoca, era logico che questo “pomo d’amore” alleviasse i sintomi della sifilide, la malattia venerea con cui la dea dell’amore sensuale, Venere, aveva colpito l’umanità. Dopotutto, furono i marinai di Colombo a contrarre per primi la terribile malattia sessualmente trasmissibile, portandola con sé dal Nuovo Mondo. La dottrina medica dell’epoca affermava che il luogo in cui aveva origine una malattia era anche quello in cui si poteva trovare la cura.

Ma bisognerà attendere il XVI secolo prima che gli europei prendano in considerazione l’idea di mangiare pomodori, che dovettero passare attraverso i consueti processi di accettazione culturale.

L’incorporazione di questi prodotti nuovi, come molti provenienti dal Nuovo Mondo, entrarono nel meccanismo di sostituzione per diventare accettabili gastronomicamente: l’atteggiamento verso queste novità esotiche era di grande cautela e curiosità, tanto che ci si impiegò più o meno tre secoli prima che il pomodoro (e i suoi compagni, la patata, il mais, il peperoncino, il peperone) venisse adottato definitivamente, entrando nella dieta occidentale in modo così profondo e sistematico che sarebbe difficile immaginare le cucine europee senza di esso.

Il trucco è stato credere di poter trattare i nuovi prodotti in ricette tradizionali, dimostrando la capacità dei sistemi alimentari di rigenerarsi grazie ad apporti esterni e al tempo stesso riaffermare la propria identità: incorporare l’ignoto assimilandolo a sé.

Gli italiani furono i primi a osare mangiare il temuto frutto. Forse fu un innamorato respinto che volle togliersi la vita con la poma amoris, la mela dell’amore; forse cadde sul pane abbrustolito o nella pasta con olio d’oliva, aglio e prezzemolo. In ogni caso, il botanico Gioacchino Camerario il Giovane (1534-1598) scrisse: «In Italia molti hanno l’abitudine di mangiare questi frutti cotti con sale, aceto e olio, ma si tratta di un cibo molto poco salutare». 

In prima battuta si provò a friggerlo in padella come i funghi e le melanzane, ma l’evento decisivo che ne segnò il lancio fu la sua trasformazione in salsa di accompagnamento, utilizzata dal XVII secolo con carni e pesci e infine con la pasta.

Col tempo, l’Italia divenne la seconda patria del pomodoro, che si unì in matrimonio intimo con la pasta, sancendo il definitivo trionfo della pummarola.

Dal Settecento inizia la vera e propria “rivoluzione rossa”, a partire da Napoli, e la pasta si colora di rosso, non solo al Sud ma anche al Nord.

Interi campi di pomodori venivano coltivati anche nell’Italia settentrionale. I contadini della regione di Parma furono i primi a conservarli cucinando il succo o essiccando i frutti al sole.

Attraverso la riduzione del pomodoro a salsa, fu adattato a una fisionomia tipica della tradizione europea: già dal Medioevo i trattati di cucina dedicano moltissima attenzione alle salse, indispensabile accompagnamento a ogni piatto. Anche il pomodoro fu quindi accolto nelle cucine del vecchio continente solo dopo la sua riduzione morfologica a qualcosa di noto: una salsa, che lo rendeva decifrabile dagli usi tradizionali, aggiungendo nuove note di colore e sapore.

Invece, gli europei settentrionali e occidentali e i nordamericani impiegarono molto tempo per superare il grande tabù, anche se l’erborista William Salmon (1644-1713) riferì di aver visto crescere il pomodoro nelle prime colonie americane – nell’attuale Carolina del Sud, nel 1710 – presumibilmente solo come pianta ornamentale. Un colonnello americano di nome Robert Gibbon Johnson fu dichiarato pazzo nel 1820 quando annunciò che il 26 settembre avrebbe mangiato pubblicamente un intero cesto di pomodori seduto nel suo portico. Il giorno stabilito, più di duemila curiosi si presentarono per assistere allo spettacolo e, tra lo stupore di tutti, sopravvisse. 

Nel 1866 nella Germania settentrionale il “pomo d’amore” era considerato una pianta ornamentale, mentre nella Germania meridionale veniva coltivato e consumato come contorno o come ingrediente di zuppe. Ma scienziati e medici nutrivano ancora dei dubbi: sostenevano che, in quanto verdura che produce acidi, il pomodoro acidifica il sangue e i tessuti del corpo, esponendoli a reumatismi, gotta e artrite e, peggio ancora, favorendo il cancro. Oggi sappiamo che è esattamente il contrario. 

Solo dopo il 1920 il pomodoro è diventato veramente popolare negli States. L’industria agroalimentare ha coltivato enormi campi di pomodori ibridi standardizzati nelle nuove aree coltivabili nel deserto della California meridionale. Di conseguenza, il mercato statunitense fu inondato di succo di pomodoro, concentrato di pomodoro, pomodori in scatola, zuppa di pomodoro e ketchup. Per le star di Hollywood, il succo di pomodoro divenne parte del rituale quotidiano al pari del succo d’arancia e degli spinaci; e durante il Proibizionismo un cocktail popolare, il Bloody Mary, mascherava bene la vodka che si nascondeva al suo interno. 

Oggi l’americano medio consuma circa cinque chili di pomodori all’anno.

Non molto tempo dopo, i medici hanno trovato il modo di attestare notevoli vantaggi per la salute di questo ortaggio appena diventato di moda e redditizio. Essi riferirono che i pomodori sono buoni per la digestione, i disturbi dell’ira, la gotta, la polmonite e le affezioni cardiache e renali. I pomodori freschi aumentano la secrezione del pancreas e stimolano il movimento intestinale. Inoltre, sono ricchi di vitamine di alta qualità, tra cui la vitamina C, il carotene, la tiamina e la vitamina E, la “vitamina della fertilità”. Viene raccomandato per contrastare l’acidità di stomaco, la stitichezza, per fluidificare il sangue e per i disturbi legati alla gotta. Si usa anche appenderne gli steli e le foglie negli armadi per tenere lontane tarme e insetti.

Gli antroposofi, tuttavia, hanno ancora dei dubbi sul pomodoro. Notano che questa pianta non ha la forza per crescere sul suo stesso stelo essendo “appesantito dalla materia”. Il botanico Alfred Usteri (1869-1948), di orientamento antroposofico, era sospettoso di quella che definiva «una pianta rapace che prospera sui propri rifiuti e detriti compostati». Egli sostiene che il pomodoro riflette il materialismo che ha messo radici all’inizio del XV secolo e che è l’immagine speculare dell’egoismo umano che ha portato al razzismo, al nazionalismo e al consumismo. Il pomodoro, quindi, può causare malattie nell’essere umano, che rappresentano l’espressione fisica di queste configurazioni mentali. In altri scritti antroposofici ci sono anche avvertimenti sulla “forza espansiva in eccesso” del pomodoro e sulle “forze formative sbagliate che possono contribuire a promuovere il cancro, i reumatismi e la gotta”.

È interessante notare che recenti ricerche indichino ancora una volta il contrario: il pomodoro è anticancerogeno. Infatti, i casi di cancro sono statisticamente meno numerosi nelle zone in cui si consumano molti pomodori. Uno studio ha dimostrato che, grazie all’alta concentrazione di carotene e licopene, è particolarmente benefico per il cancro ai polmoni. Il contenuto di licopene del frutto lo rende anche uno degli alimenti antiossidanti più quotati.

E che dire delle folli fantasie che ritenevano il pomodoro una pianta stregata in grado di provocare pazzia e allucinazioni? Il glicoalcaloide solanina presente nelle foglie e nei gambi dei pomodori è davvero velenoso; può causare nausea, irritazioni alle vie biliari e ai reni, fluttuazioni cardiache, sudorazione profusa, crampi e perdita di coscienza, ma non è assolutamente uno psichedelico. 

A inizio maggio è il momento in cui pianto i pomodori in orto. Queste minuscole piantine, nate da un singolo seme di un frutto, in brevissimo tempo, con il calore del sole della stagione e poca acqua, raggiungeranno una stazza notevole e si riempiranno di grappoli pelosi, pieni di fiori gialli.

Il mio orto a metà giugno diventa un’esplosione di pomodori di ogni genere, pronti a soddisfare la mia voglia di freschezza o a riempire vasi di conserva.

Fino a fine settembre, se lasciate fare, le piante di pomodoro produrranno frutti, riempiendo ciotole su ciotole di frutti ogni settimana.

Non a caso questa pianta veniva vista come infida e demoniaca: da un solo seme si poteva avere un raccolto notevole, una vera stregoneria, opera del demonio.

Io, come molti di voi, ormai accetto che questo frutto azteco sia il protagonista della mia cucina estiva. E mentre mi mangio una frisa coloratissima e profumatissima, mi immergo nel fascino della storia di questa pianta magica.

ARTICOLO n. 45 / 2023

NANNI MORETTI IN FUGA

Il sol dell'avvenire

L’immagine è quella di un uomo di quarant’anni, capelli lunghi e ondulati, fisionomia sottile. Quest’uomo vaga lungo un viale con gli occhi arrossati dalle lacrime, cammina senza pace. È ottobre, è Parigi e quel viale è Boulevard Raspail che quel giorno di ottobre del 1984 apparirà ancora più grigio di come già non sia solitamente. Un viale che è un lungo vuoto che scava non poca angoscia nel mezzo di Montparnasse. Quell’uomo è Jean-Pierre Léaud e ha saputo da poco che François Truffaut è morto. L’uomo che lo ha cresciuto e formato proprio come un padre è morto all’assurda età di cinquantadue anni. Léaud non si dà pace e forse non si darà pace mai più. Siamo nel mezzo degli Anni Ottanta, ma i francesi ancora non lo sanno. François Mitterrand è presidente già da tre anni, molti sono delusi, ma in qualche modo Ronald Reagan e Margaret Thatcher appaiono ancora lontani e con loro appaiono lontane le facce orribili di anni che si pretendono leggeri e spensierati e che non saranno altro che il primo volgare rigurgito di una mostruosità antropologica che oggi i nostri anni accolgono invece con assurda ovvietà. 

La fine della storia non riguardava la storia in sé, i cicli economici e di potere, ma avrebbe riguardato invece le nostre stupide facce intrise di espressioni sempre più prive di memoria. La morte di Truffaut segna in un certo senso un passaggio, illuminato ancor di più durante le sue esequie dall’icastico viso atrocemente bello e straziante di Fanny Ardant. Appariva in quel giorno di lutto sui volti dei presenti la grana spessa del tempo e della memoria. Le storie erano ancora visibili come tatuaggi fissati nel pensiero di chi le aveva vissute e ben percepibili da chi ancora allora sapeva leggere nel prossimo. Gli occhiali scuri erano indossati per non esibire il proprio dolore: quanto stridore con gli occhiali scuri di oggi, inforcati invece solo per evidenziarlo durante funerali assordati dagli applausi. Il gesto è il medesimo, ma l’effetto è decisamente di verso opposto. 

François Truffaut lottò fino all’ultimo, non tanto con la malattia, ma con la propria meraviglia che aveva la forma del fare cinema, e non derogò mai alla propria arte come al proprio desiderio. Quello che allora aveva assunto la forza di un’utopia del possibile oggi, nella migliore delle ipotesi, è solo una pericolante perdita di controllo, un fare cinema ridotto ai minimi termini e sovrastato da apparenza mista a paura, angoscia e panico da sala vuota.

E allora bisognerebbe tornare a Jean-Pierre Léaud, alla sua mano. La immaginiamo mentre scorre sottile tra i capelli per fermarli dietro all’orecchio prima che ricaschino oltre, mossi dal vento e dallo sconforto di quell’ottobre. Torniamo a un attore fragilissimo come dovrebbero essere forse sempre gli attori. Un artista cui va conquistata la fiducia perché si possa fidare e affidare, perché possa essere controllato facendosi guidare fino al punto di offrirsi al proprio pubblico libero e vivo per sé e per gli altri. E vivo per sé e per gli altri Léaud lo è stato in maniera assoluta e splendida. 

Un piacere per gli occhi, un dono raro. Ed è di questa forma di controllo, che seppe offrire Truffaut, e di questa forma di fiducia che seppe offrire Léaud che oggi latita sempre più un’arte cinematografica decadente e a tratti moribonda, in parte nei suoi contenuti, quasi sempre nella sua fruizione. Un cinema che da sala è diventato da cameretta, una forma di fruizione ridotta che non riguarda ormai più il popolare, ma quella che si dice una sua nicchia; che sia ceto medio, più o meno riflessivo conta ormai ben poco.

E attorno a questa forma insieme di riduzione e di mancanza sembra parlare il cappio che sta al centro della scena de Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Cappio con cui dovrebbe impiccarsi il protagonista del film di Giovanni, Silvio Orlando, ma che al tempo stesso sembra destinato proprio a Giovanni. Un regista, quello interpretato da Nanni Moretti, non esplicitamente depresso o privo di idee, perché molti film ha ancora in mente di fare, ma rinchiuso in una gabbia critica e soprattutto autocritica, ormai incapace di cogliere la realtà e il suo senso.

Un suicidio, una morte che aleggia attorno a tutto il film di Nanni Moretti come al film che Giovanni pretende insistentemente come politico. Una morte quasi desiderata, una fragilità esposta eppure inedita al punto da capovolgere il ruolo e il compito di un regista che pare ormai in balia degli eventi (Giovanni) e privo di una poetica che da sempre lo ha caratterizzato (Nanni Moretti). 

Nanni Moretti, in anni in cui il cinema italiano declinava pericolosamente riducendosi a pochi autori (e ancor più a pochi spettatori) e a una produzione di bassa qualità, ha – con Sogni d’oro (1981), Bianca (1984) e La messa è finita (1985) mostrato un’idea del cinema netta e anche divisiva. Un regista che ha sempre imposto un controllo ossessivo nella regia, nel controllo del set e nella caratterizzazione dei suoi personaggi. Moretti ha rappresentato un cinema innovativo, ma fortemente classico nella visione generale, segnato da un tentativo di controllo a tratti assoluto che ha in qualche modo reso impraticabile uno sguardo permeabile, ampio e curioso su una società e su una realtà che il regista romano non sembra più in grado di leggere, prima ancora che di rappresentare. Se nel 1984 Michele Apicella in Bianca uccideva i suoi amici perché non poteva controllarne le storie, oggi Giovanni preferirebbe fare da sé uccidendosi e lasciando perdere tutto il resto. È come se la fragilità dell’attore – quella di Jean-Pierre Léaud sperso lungo Boulevard Raspail – si fosse trasferita ad un regista diventato lui stesso il fulcro e il centro della scena, ma al tempo stesso la sua negazione: perché senza di lui – «mi viene da dirgli: spostati un po’ e fammi vedere il film» disse Dino Risi, non resta più nulla, non c’è nessuna scena, nessun film. Un regista che non controlla, un regista che non decide si trasforma in un film che non può esistere.

Un film su se stesso e per se stesso? Forse, ma anche un film su un regista senza alcuna possibilità di controllo, su un regista che ha perso il controllo di ogni cosa. Un regista che diviene totalmente attore esponendo una fragilità però non curabile. Nessuno dietro la camera può più guidare lui e la scena. Gli attori provano a fare da sé, a darsi un ruolo per conto proprio, ma tutto questo non può funzionare a lungo e infatti non funziona, né nel film nel film e ancor meno nel film stesso. Il funzionare è basilare per ogni macchina perché significa senso e ragione e tutto questo Il sol dell’avvenire non lo ha, restando per altro comunque lontano dall’ambizione di una utopica macchina celibe. E il continuo incespicare in citazioni e autocitazioni – divertenti per chi segue Moretti da quaranta anni – offrono il ritratto di una passione triste che sembra volere per principio oppure ciò che è stato (e non è più ripetibile) a ciò che potrebbe funzionare e forse pure meravigliare.

Un regista può essere sordo (sempre François Truffaut in La nuit américaine) oppure cieco (Woody Allen in Hollywood Ending), ma non può essere fragile, soprattutto se la fragilità va a determinare una totale perdita di controllo, o meglio una voluta perdita di controllo. Il sol dell’avvenire mostra il corpo di un regista che non può – ovviamente – essere il regista di quaranta anni fa, ma al tempo stesso non offre una possibilità diversa di sguardo al possibile regista di oggi e così anche allo spettatore (salvo che per gli spettatori groupie di quaranta o venti anni fa). 

È un garbuglio, un nodo scorsoio pericoloso che rivela una debolezza che non sta solo in Nanni Moretti, ma che probabilmente il regista romano tende a riflettere da una società che della nostalgia ha fatto una mitologia, senza accorgersi però che i reperti vanno maneggiati con cura e non utilizzati come vettovaglie buone per tutti i giorni. Una tensione che resta priva di dramma e colma di stanchezza.

Una stanchezza reale eppure vacua, perché incapace di offrire un’utopia, o anche solo una possibile forma di resistenza. Il controllo è una forma di equilibrio oltre il quale tutto diviene ingestibile, ma è anche una forma di adattamento continuo capace di aggirare la stanchezza. Per raggiungere il quale non basta citare “la storia”, ma occorre mettere in discussione ciò che è stato per individuare una nuova strada, quella più adatta, dare in sostanza un equilibrio (sempre mobile) alla storia e alla sua morfologia.

Mettersi in discussione non appartiene proprio a Il sol dell’avvenire che gioca sì con la storia, immaginandola con i sé, ma con l’unico obiettivo di confermare un’idea precisa e già data. Dare forma a una certezza non dovrebbe appartenere al cinema e alla sua capacità di creare nuovi immaginari. In questo falso movimento che appartiene sempre più all’ultimo Moretti, sicuramente da Tre piani in poi, si avverte una perdita comune del ruolo del regista, di quel mestiere oscuro che lo stesso Ettore Scola faticava a spiegare ai suoi genitori (Silvia Scola, Paola Scola, Chiamiamo il babbo), ma che si palesava in un saper fare dentro al quale ogni elemento della troupe acquistava pienamente senso. 

Ne Il sol dell’avvenire si avverte un liberi tutti, una resa al cambiamento e un assoluto disinteresse per come questo cambiamento possa essere interpretato. Una pretesa di centralità che trasforma la voce di Moretti intesa come sguardo, intuizione e intelligenza in una parodia di se stesso.

Mentre Marco Bellocchio che esordì nel 1965 ancora sembra divertirsi come un pazzo giocando su più piani e con più forme di cinema, Nanni Moretti abbandona il campo chiedendo ai propri attori di fare da sé in un finale celebrativo di un passato che si vorrebbe come una scatola ermeticamente chiusa, ma che rischia solo di dare forma a un presente inadeguato, mentre il mondo vive tensioni inedite e mutazioni radicali. Forse queste attrici e questi attori sapranno fare meglio da soli, alcuni già stanno da altre e in altre parti, ma abdicare al ruolo di guida per un regista come Nanni Moretti assume il segno grave di una sottovalutazione del dolore (proprio e altrui) in nome di una sopravvalutazione di se stessi. Tornando a quell’ottobre del 1984, non si può non vedere come le foto dei funerali di François Truffaut mostrino una forza cinematografica che certamente riguarda solo in parte il grande regista francese. Tra gli scatti si può cogliere a fianco di Fanny Ardant l’interprete dell’uomo misterioso, quello che avvicinandosi alla coppia Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) e Christine Darbon (Claude Jade) in Baisers volés avverte Christine del proprio amore per lei, un amore definitivo e assoluto al punto da dirsi pronto ad attenderla quando lei avrà deciso di “abbandonare il mondo del provvisorio” per unirsi a lui. Chiaro, quello era un tempo in cui non era necessario cercare “il cinematografico” perché tutto per certi versi lo era già, ma credere nel cinema e nella sua funzione vuol dire anche saper creare un immaginario al di là di se stessi e che vale sempre più di se stessi.

ARTICOLO n. 44 / 2023

IL CORPO DELL’ATTRICE, IL CORPO DELL’AUTRICE

Un dialogo

Si può chiamare in tanti modi: contenitore, confine, carne e, in definitiva, possiamo affermare che il corpo è uno spazio che occupa spazio. Generatore di amore, di sgomento, di ammirazione, il corpo non è solo un accidente e non è da investigare solo per estetica o scopi medici, ma è un viaggio, una mappa, una fotografia di quel che siamo, rivelatore di futuro e memoria del passato. Erotico nella sua capacità di legarsi e creare ponti fra: persone, cose, luoghi. 

È su questo oggetto insieme terreno e misterioso che Sonia Bergamasco, attrice raffinata, poeta, musicista sempre alla ricerca di domande, più che di risposte, affida il proprio ragionare e le proprie memorie al suo primo libro in prosa dal titolo Un corpo per tutti, Einaudi. È qui che dispiega i motivi per cui per un’attrice il corpo è tutto e che cosa significa, per lei, avere scelto questo mestiere, che di corpo e di voce ha bisogno, non a caso si dice “dare corpo a un personaggio”, che non è solo un prestito, ma un saper plasmare o modificare una materia già viva. La biografia di un mestiere, come recita il sottotitolo, più che di un’attrice, un libro essenziale per chiunque voglia avvicinarsi alla recitazione e per chi di recitazione sa un bel nulla, come me. Non un memoir, ma una testimonianza, scritto con lingua tersa, onesta e diretta su un mestiere che non parla solo di lei, dell’attrice, ma che riesce a parlare di tutti e a tutti. 

Volevo darle del lei, perché sono sempre molto eleganti le interviste dal tono cortese. Alla fine, però, ha vinto la spontaneità, le risate in un giovedì mattina, quando la distanza dei nostri corpi si è accorciata e abbiamo chiacchierato di che cosa è il corpo, di come lo raccontiamo. 

Melissa Panarello: Per parlare del corpo, inizi dalla voce. Nel libro l’hai resa terrena, anzi terrosa, quando da tutti è considerata aerea. 

Sonia Bergamasco: E questo discorso ti è tornato? 

M.P. Molto! Tu fai gli esempi di Marlon Brando, da cui ti aspetteresti una voce densa e sensuale e invece, scrivi, aveva un timbro opaco e strascicato. Oppure di Monica Vitti, il cui timbro definisci rugginoso e gorgogliante, “slacciato” dalla sua figura. Io ho pensato a Pino Daniele, alla sua voce così sottile che proveniva da un corpo massiccio. E anche a me stessa, che sono alta un metro e quarantanove ma ho la voce di chi supera abbondantemente il metro e mezzo. E di te io ricordo più nitidamente la voce che il viso. 

S.B. Sono così felice che tu lo dica perché la voce è sempre stata in primo piano, per me, anche quando era selvaggia e ineducata. Ha camminato passo-passo con me nel mio percorso di consapevolezza. È il segnale di un tutto, fa parte di un tutto e lo rappresenta. Un attore, un’attrice, sono un coro di voci. Poi c’è la voce quotidiana, quella dritta, della lettura quotidiana, e quella con cui ti presenti.

M.P. È una cosa che capisco benissimo perché ha a che fare anche con la letteratura: ciò che si scrive è diverso da ciò che si dice e ovviamente da come lo si fa. Nei libri una cosa a cui presto moltissima attenzione è la voce dell’autore, dell’autrice. Non tanto quello che scrive né come lo fa ma il timbro, la vibrazione che avverto fra le pagine. Tu nel libro ti definisci un’attrice immersiva, e come scrittrice come ti senti? 

S.B. Ci ho poi ripensato, in realtà. Immersiva lo sono nel senso che il desiderio è quello di sciogliermi nell’altro, però rimane sempre un margine di forma che non riesce a essere completamente abbandonata e quindi c’è un’alchimia necessaria. Nella scrittura forse quello che cerco è il desiderio di pulizia, di chiarezza e di ricomporre drammaturgicamente visioni articolandole in un racconto. Ho cominciato poi con la poesia perché è in rapporto strettissimo con quello musicale, che è stata la mia prima strada e quindi immagino che dalle letture e dallo studio e dall’essere sempre a contatto con un linguaggio musicale, il passaggio a una lingua poetica sia stato molto diretto e facile. Se oggi devo dirti quale scrittore o scrittrice si avvicina più alla mia idea di scrittura, ti dico Annie Ernaux. 

M.P. Mi sono chiesta anche io che tipo di scrittrice sono e di certo posso definirmi immersiva. Questo ha molto a che fare con l’eros, se ci pensi, ovvero l’eterno rapporto fra le cose, che poi è anche il rapporto con il pubblico, come scrivi nel libro. Cos’è l’eros nel tuo lavoro? 

S.B. L’energia che scorre e che rende necessario, credibile e potente quello che si sta raccontando e in definitiva si sta vivendo insieme. Un soffio vitale, uno strumento che unisce e passa attraverso, inteso come legame. 

M.P. Per me l’eros non ha a che fare con il sesso o meglio, ha pure a che fare con il sesso quando è legame; è più che altro un filo invisibile che lega il dentro e il fuori, il te e il me.

S.B. Se ci pensi è potentissimo anche nel bambino piccolissimo. 

M.P. A proposito di bambini, un’altra cosa che mi è venuta in mente leggendo il tuo libro è che a un certo punto i neonati, dopo pochi mesi, si rendono conto di avere un corpo. Mi ero dimenticata di questo fatto, ma ora che ho di nuovo una figlia appena nata mi accorgo che lei non è consapevole di avere delle mani. Lo scoprirà fra qualche settimana e in quel momento si definirà nello spazio. Tu quando l’ha scoperto?

S.B. Ero una bambina allo specchio, avrò avuto sette o otto anni. Mi guardavo per capire chi fossi, facevo piccoli movimenti nello spazio per cercare di definirmi attraverso quello strumento magico che è lo specchio, che sembra riflettere il nostro corpo e invece ci porta chissà dove. Non saprei circostanziare i tempi in cui sono venuta a patti con il mio corpo, so solo di averci messo un bel po’ a non essere soltanto l’idea di un corpo. Però c’è stato anche molto gioco, che mi ha aiutato a sciogliere molte tensioni e incomprensioni che partono da lontano. E forse recuperare il gioco perduto dell’infanzia attraverso il lavoro d’attrice non è casuale, è una possibilità di riappropriarmi del mio corpo intero, di viverlo pienamente e consapevolmente attraverso una forma amata, che è appunto quella del gioco. 

M.P. In questo in effetti gli attori sono dei privilegiati, cioè nella scoperta del proprio corpo. Immagino che i turbamenti e gli scoramenti nei confronti del nostro corpo li abbiamo tutti, voi però avete, per mestiere, la possibilità di attraversarlo e di compiere questo viaggio. Uno scrittore no, si dimentica di avere un corpo. 

S.B. Sì, nella scrittura è più complicato. Però se tu affronti il racconto anche in voce, e se dai corpo a questo racconto e cerchi un rapporto con il pubblico, riesci a recuperare una dimensione più erotica. 

M.P. Un mio amico dice di essersi innamorato di sua moglie per il modo in cui occupa lo spazio. Tu come lo occupi? E che valore dai al corpo delle persone che ami e che condividono con te lo spazio?

S.B. Mi piace la dimensione fisica dell’abbraccio. Ho necessità di vicinanza e presenza. Questo perché caratterialmente, per molto tempo e per timidezza, mi sono preclusa tante possibilità. E adesso, riscoprendo una forma più libera di me stessa, ho il desiderio di stare insieme. 

M.P. Questo in realtà ha molto a che fare con la leggerezza, a un certo punto scrivi che è stata per te una conquista. 

S.B. Bisogna arrivarci alla leggerezza, oppure la possiedi di tuo, anche se è rarissimo. Per arrivarci devi passare attraverso quella che è la tua storia, che anche il tuo corpo ti chiede. Poi ognuno ha i propri tempi, e ciascuno ha i propri traguardi. 

M.P. In effetti uno dei consigli più utili che mi hanno dato da ragazzina, quando ero molto appesantita da sovrastrutture e insicurezze, è stato: sii pop. Una cosa che allora mi sembrò un insulto e invece con il tempo ho capito che essere pop è il regalo più grande che puoi fare a te stesso e ha a che fare con la leggerezza. A un certo punto dice una cosa coraggiosissima: l’arte, la cultura, non servono a niente. Che cosa può riscattare la cultura, oggi? 

S.B. Non si può appesantire l’opera o il gesto artistico di qualsiasi tipo con una missione, significato o descrizione. Bisogna affrontare l’opera per quello che è: una voce che ci dovrebbe aprire a ulteriori possibilità, illuminandoci dentro, che ci deve sconvolgere. Nell’arte non può esserci una visione moralistica del fare, altrimenti entriamo nella scuoletta, in qualcosa che ha a che fare con il ministero. 

M.P. Nel tuo libro parli spesso di memoria. Cosa è la memoria del corpo?

S.B. La memoria vive nello spazio interno del corpo e nello spazio esterno della rappresentazione. C’è insomma un disegno complessivo, quelle memorizzate dall’attore non sono parole in orizzontale che vengono assorbite in una zona più o meno nota del cervello. Scivolano nei muscoli, nelle intenzioni più profonde, devono essere dimenticate, sciolte nel corpo per essere rivissute come azione. Altrimenti restano vuote, come tutte le parole che non vengono davvero vissute dal corpo. Tutte le parole che noi stiamo usando adesso, le mie, le tue, sono parole che passano attraverso un’esperienza fisica, una memoria del corpo, un’esperienza emotiva. È questo che l’attore e l’attrice devono sempre replicare per dare vita a quello che dicono, a quello che fanno, altrimenti è tutto morto. 

M.P. Stai compiendo un viaggio alla scoperta del mestiere dell’attore, dell’attrice. Ti vedremo mai nei panni di Eleonora Duse? 

S.B. Nei panni della Duse no, però la voglio raccontare. Il desiderio è quello di parlare del mio mestiere attraverso un’artista assente, perché di lei non abbiamo quasi nulla se non immagini fugaci, fotografiche, e un solo film in bianco e nero che non la rappresenta compiutamente. In questo periodo è quasi un’ossessione, è un momento della vita in cui sento la necessità di guardare attraverso. Non voglio parlare di me, penso solo che questo mestiere sappia parlare di noi. 

M.P. Io ho capito una cosa leggendoti: gli attori sono la nostra casa, quella di tutti noi. Siamo noi che vi abitiamo, allora. 

S.B. E per questo c’è una grossa responsabilità da parte nostra, di essere all’altezza di questo. Il desiderio però è quello e quando ci riesci tutto rimane vivo e ti regala qualcosa che nessuno mai più ti potrà portare via. 

ARTICOLO n. 43 / 2023

KAFKA. L’ADESIONE AL MONDANO

Pubblichiamo un’anticipazione dalla raccolta di saggi Kafka: (Mimesis) a cura di Riccardo Panattoni e Rocco Ronchi in libreria da oggi. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Schiacciato dall’ammirazione. È quel che provo oggi leggendo e rileggendo Franz Kafka. Da ragazzo ero entusiasta e sfrontato, e invece di ammutolirmi venivo eccitato dalla scoperta di quel modo di raccontare che non somigliava a nessun altro. La lettura mi riempiva di desiderio, un desiderio tanto pungente quanto imprecisato era il suo oggetto. Dire che era la letteratura sarebbe troppo vago: leggerla, studiarla, scriverla, insegnarla? O tutte queste cose insieme? Come impadronirsene? Da dove cominciare? 

Esattamente come si apre il Meridiano Mondadori dei Racconti di Kafka (a quell’epoca di Meridiani se ne trovavano a metà prezzo o anche meno nel Remainders di piazza San Silvestro e nelle librerie dell’usato a via del Pellegrino, a Roma), e cioè con la Descrizione di una battaglia, così ebbe inizio la mia ondivaga carriera di scrittore. 

Già verso la mezzanotte alcune persone si alzarono, sinchinarono, si strinsero le mani, dissero che era stato molto bello e passarono poi dallampia porta nellanticamera per infilarsi il soprabito. 

Fu la struttura della frase a farmi incamminare. Cinque principali coordinate infilate una appresso all’altra, una oggettiva subordinata alla quarta principale e una finale subordinata alla quinta: semplicissimo e funzionale, una partenza subito movimentata, promettente. Ho ancora preciso il ricordo di me che sfogliavo il Meridiano con crescente meraviglia: Smascherato un gabbamondoInfelicità dello scapoloRiflessioni per un cavaliereLa condannaIl cruccio del padre di famigliaSciacalli e arabi (da quel momento e ancora adesso, per me, il culmine assoluto della prosa narrativa) e poi il testo letterario che ho riletto più volte in vita mia, vale a dire Un medico di campagna, fin quasi a mandarlo a memoria nella versione italiana di Rodolfo Paoli, a cui resto irrimediabilmente affezionato. Quindi il mio preferito proprio perché minore nel suo formato, eppure così commovente e comico, Il cavaliere del secchio. Ah, Il cavaliere del secchio! Quando la moglie del carbonaio si stringe al petto il lavoro a maglia, quel gesto domestico inequivocabile… 

Un amore fisico, sensuale, verso il dettaglio.

O quando, racconta il medico di campagna, poggiato l’orecchio sul petto nudo del ragazzo malato, per auscultarlo, questi »rabbrividisce a contatto della mia barba bagnata». 

Ecco, più che per le sue massime insuperabili (se tento di riprodurle mi confondo e parafrasandole le sciupo) o per le sue visioni profetiche, è per questo, precisamente per questo, cioè per aver dato nome al brivido del ragazzo malato, che Kafka merita il titolo di “veggente”. 

Sul fianco destro, verso lanca è aperta una ferita grande come il palmo di una mano; di color rosa, in diverse gradazioni, scura in fondo, più chiara verso gli orli, leggermente granulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aperta come la bocca duna miniera. Vista da lontano è così. Ma da vicino appare ancora più grave. E come guardarla senza ansar lievemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei di suo, spruzzati anche di sangue, brulicano, trattenuti nellinterno della ferita, colle testine bianche e le numerose zampine tendenti verso la luce. Povero ragazzo, nessuno ti può aiutare… 

(N.B. Volevo chiudere la precedente citazione, ma non sapevo dove, non trovavo le connessure, il discorso formava un tutt’uno, inarrestabile… come un nastro di Moebius.) 

Ho scoperto la sua orrenda ferita; questo fiore nel tuo fianco ti farà morire. La famiglia è felice, perché mi vede allopera; la sorella lo dice alla madre, questa al padre, il padre ad alcuni ospiti che entrano, in punta di piedi, tenendosi in bilico con le braccia distese, dalla porta rischiarata dal lume della luna. »Mi salverai?» sussurra singhiozzando il giovane, abbagliato dalla vita che ferve nella sua ferita. Così è la gente del mio paese. Chiedono dal medico sempre l’impossibile… 

Sgombro il campo dall’equivoco: per me “veggente” è colui che vede la realtà, nella realtà, non oltre di essa, poiché ciò che si trova oltre di essa è comunque realtà. Il veggente riesce a sopportare la visione di ciò che semplicemente è, e a reggerla insieme (per uno scrittore vuol dire nella gabbia della pagina – che non è solo un formato tipografico). Nessun elemento di ciò che il suo sguardo contempla è irrilevante, dunque gli occorre pazienza e un notevole coraggio per accettare la dismisura del compito di indagarla. La sua eventuale attitudine mistica consiste, semmai, in questa accettazione integrale dell’esistenza, di cui nulla va deprezzato come residuo o scarto. 

Ed ecco un narratore che la vulgata vorrebbe ripiegato su se stesso, introverso e sognatore, timoroso della vita che costantemente lo elude e lo mortifica e dunque proiettato verso mondi interiori o ulteriori – insomma un simbolista, un cabalista, uno scrittore di incubi – e invece risulta implacabilmente fattuale, fisico, sensuale, attivo. Kafka incalza il suo lettore investendolo con una serie ininterrotta di gesti, ambienti, abiti (tantissimi abiti minuziosamente illustrati, nella sua prosa, come nemmeno in Francis Scott Fitzgerald…), gente che si veste e si spoglia, entra ed esce, protesta, minaccia col pugno chiuso, cappelli che si levano nel saluto, pozze di birra in terra, chiodi sporgenti che graffiano le scarpe, cavalli irrompenti, ferite, frustate, asce, lanterne, carbone, sciacalli che bevono sangue, gambe doloranti, baci a cameriere, sottane che scivolano sul pavimento. E poi cinghie, catene, forbici, pulci, dadi… 

Lasciano attoniti le descrizioni come quella che dà inizio al Cacciatore Gracco, con quelle frasi allineate una appresso all’altra, come fosse l’ekphrasis di un paesaggio fiammingo, per due pagine di pura registrazione visiva, fino a spezzarsi con la secca domanda che l’uomo in barella rivolge al sindaco (il quale, va notato, ha in testa »un cilindro listato a lutto»: ma perché “listato a lutto”? come gli sarà venuto in mente, a Kafka, questo dettaglio?): »Chi sei?» 

Dunque l’effetto spiazzante e inebriante che scambiavamo per onirismo e per un attributo della letteratura fantastica, catalogandolo secondo l’equivoca formula del “realismo magico”, si deve, al contrario, proprio alla cocciuta resistenza di Kafka ad alterare la realtà, ad apportare una qualsiasi modifica al suo dettato, per esempio arricchendola o stilizzandola alla maniera primitiva o stravolgendola oppure ancora scavalcandola per volare chissà dove, secondo le ricette e i manifesti programmatici di una delle tante baldanzose avanguardie della sua epoca. È singolare come Kafka vi resti totalmente estraneo: non ostile (Kafka non è ostile a nulla), bensì, alieno. Forse deriva da qui il turbamento che tuttora si prova nel leggerlo, mentre, tanto per fare un esempio, ci suonano innocuamente scontati, oramai, i cari tartagliamenti futuristi o il déréglement programmatico di Breton, Aragon e soci, che allora destavano scandalo. Siamo talmente disabituati a questa nettezza, a questo aderire senza ritegno al lessico minimo di cui sono formate la lingua e la vita, da scambiare il brivido che ci comunicano per una deformazione onirica. Come quella coniugale, la fedeltà al reale è in effetti un’ossessione più morbosa ancora del desiderio di evaderne.

Di “magico” la scrittura di Kafka ha piuttosto il carattere della vocazione, della più elementare nominazione. »La magia non crea, bensì chiama»: è dunque una forma di appello, di classificazione e certificazione dell’esistente, grazie a cui si rende manifesto e, per così dire, glorioso, tutto ciò che normalmente resta negletto. L’esatto opposto della trascuratezza. Nominando – allinea, giustappone, mette ordine, illustra. È un mezzo di contenimento. Edifica un equivalente verbale del mondo, per renderne lo splendore che sarebbe altrimenti opacizzato. Mentre la musica potenzia le emozioni, la scrittura le mette in chiaro. 

Sono tornato, ho attraversato lingresso e mi guardo intorno. È la vecchia fattoria di mio padre. Lo stagno nel mezzo. Vecchi attrezzi inservibili, aggrovigliati luno sullaltro, impediscono di passare alla scala del solaio. Il gatto è appostato sulla ringhiera. Un panno mezzo strappato, legato una volta per gioco attorno a un palo, si agita al vento. Sono arrivato. Chi ci sarà ad accogliermi? Chi aspetta dietro luscio di cucina? Dal camino esce fumo, stanno preparando il caffè serale. Sei a tuo agio, ti senti a casa tua? 

Talvolta questo inventario magnifica lo “splendore della vita” da cui siamo circondati, talvolta invece suscita un pungente senso di estraneità – che però fa risaltare in modo ancora più tagliente il profilo delle cose. L’estraneità come una pellicola di smalto. 

È la casa di mio padre, ma le cose vi stanno freddamente luna accanto allaltra, come se ognuna di esse fosse intenta alle proprie faccende che io ho in parte dimenticato e in parte non ho mai conosciuto.

Può darsi che la sorprendente e inesausta “adesione al mondano” di Kafka derivi, come sostiene Ferruccio Masini, da una radice spirituale ebraica, secondo la quale non si può e non si deve svalutare l’immanenza poiché è in essa che si rinviene la possibilità stessa del miracolo. Il mondo visibile include il mondo invisibile, esattamente come l’amore sensuale include quello celeste: e proprio perché lo contiene, la materia trova nello spirito le forze necessarie a nasconderlo in sé fino a farcelo scordare. Quel che chiamiamo “romanzo” (e la ragione per cui resta distinto dalla “poesia” e della “filosofia”) non è che una sfrenata, sacrificale dedizione al mondano, una devozione assoluta verso il visibile e le sue figure (umane, animali, naturali), al fine di renderne evidente il mistero costitutivo senza bisogno di ipotizzarne e indagarne un altro che si nasconda dietro le sue apparenze. Se un dio si degna di abitare il romanzesco, si tratta di un Augenblicksgott, una divinità momentanea, un dio del batter d’occhio, che esaurisce la sua funzione in ogni singolo accadimento, e scompare una volta compiuto il suo miracolo, miserabile oppure portentoso, che ora potrà essere una festa da ballo, ora un convegno amoroso o una grande battaglia, una visita medica, un paio di orecchini rubati, venduti, impegnati, smarriti e poi riapparsi, la scrittura di una lettera maliziosa o straziante, una vendetta tra bande di ragazzi, una sbronza, un naufragio, l’uccisione di un mostro e quella di un innocente, un atto di coraggio e uno di codardia – alcuni di questi eventi clamorosi, altri senz’altro banali, ma tutti egualmente decisivi, nessuno irrilevante – per il romanzo, intendo, solo per il romanzo, e non per la storia o per la morale o per la legge, che invece avanzano la giusta pretesa di soppesare e discriminare. Il grano e il loglio nelle pagine di romanzo hanno pari valore e pari opportunità – e così i buoni, i cattivi, i mediocri. Non stupisce nelle conversazioni di Kafka il persistente richiamo a Goethe, allo scrittore olimpico per eccellenza (»Goethe ha detto quasi tutto ciò che può essere detto su noi uomini»), e ancora di meno stupisce quello a Kleist, e alla sua lingua »chiara e universale», alla sua prosa »senza acrobazie verbali, senza commenti e senza elementi di suggestione».

Molti tuttora si affaticano a interpretare allegoricamente l’impenetrabile Davanti alla legge; mentre io fin dalle prime letture ne trascuravo il significato (troppo arduo per me da scandagliare e comunque inattingibile – e chissà, almeno in parte una beffa, addirittura una parodia, un pastiche di parabola chassidica), mentre mi sentivo irresistibilmente attratto dalla pura sciarada delle frasi, quella concatenazione implacabile che invano avrei cercato per tutta la vita di riprodurre, riuscendo tutt’al più a simularla.

E siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell’oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. 

Sto dicendo soprattutto della seconda parte del racconto, la cui prodigiosa progressione si incrocia, a canone inverso, con la regressione del povero uomo di campagna verso la vecchiaia e la morte. Le ultime quattordici frasi del racconto, da »Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano senza interruzione» al rintocco fatale di quell’«Ora vado a chiuderlo» formano una sequenza che è pura Ἀνάγκη, Ananke, qualsiasi forza per i Greci si nascondesse in quel nome: la necessità, ciò che non può che essere, ed essere esattamente così – insomma, l’ineludibile, l’inesorabile. E tutto come effetto di una sciarada di frasi! Che si leggono d’un fiato con la sensazione di esservi costretti.

La lettura di Kafka rappresenta spesso un’esperienza punitiva e soverchiante, ma proprio per questo fonte di godimento. Il disagio è causato dalla elementarità dell’incardinamento sintattico, dalla linearità quasi disumana del discorso e dalla sua capacità di avvincere malgrado la storia stia conducendo, obiettivamente, a una delusione, a un fallimento, o a una vera e propria catastrofe: come nella discesa nel Maelstrom descritta da Poe, quello sprofondare nel vortice, ecco, suscita ammirazione, e persino una paradossale forma di sollievo. Perché, insomma, se ha da essere per forza così, che sia. Se alla fine K. deve morire senza aver mai saputo di cosa era accusato – ebbene, che muoia! 

(Per una volta non suona enfatica l’espressione francese “je suis ravi”: una lettura di questo tipo è a tutti gli effetti un rapimento). 

“Inesorabile” vuol dire, alla lettera, che è inutile rivolgergli preghiere (in-ex-orare), non cederà alle suppliche, se è scritto che deve accadere accadrà comunque, spazzando via l’ostacolo di ogni parola superflua – ma non di colpo, bensì per gradi, una frase dopo l’altra. Invece che risalire in superficie si sta scendendo nel cerchio inferiore, anzi si è oramai scesi. Inesorabilmente. Come appunto nel Maelstrom. 

Proprio per la sua gradualità, la sua sconcertante progressione (sconcertante appunto perché imperturbabile, si direbbe quasi burocratica – in definitiva una “pratica da sbrigare”, come quelle che Kafka si ritrovava sulla sua scrivania di impiegato presso l’Istituto di Assicurazioni per gli Infortuni sul Lavoro), il cambiamento di livello non viene immediatamente avvertito, le ombre si allungano proiettate in un altrove (il futuro? il destino? o semplicemente le proposizioni che seguiranno?), seminando un’inquietudine calma, come nelle pagine di apertura del Processo, o nella minuziosa descrizione della macchina ad aghi che infligge la pena al condannato ne La colonia penale, o nell’intero impianto di un romanzo esasperante come è Il castello. La sintassi in perenne movimento, ma mai per un istante in subbuglio, sempre ben allineata e sommessa, talvolta persino scolastica, infila i quadri degli episodi l’uno nell’altro sicché risulta impossibile scollarsene – sei costretto, sì, costretto ad andare avanti, spinto in avanti. E intanto le ombre si allungano, cambiano forma…

Anche per questo fu geniale l’idea di Orson Welles di commissionare il prologo del Processo all’animatore Aleksandr Alekseev, con la sua magica tavola di spilli, una complicatissima macchina produttrice di visioni ondeggianti, ombre, immagini in metamorfosi perenne e senza spiegazioni – perfetta dunque per Davanti alla legge come per Il naso di Gogol’ o Una notte sul Monte Calvo. Fantasmagorie create da una tecnica certosina. Un milione di spilli che perforano lo schermo cambiando inclinazione, simili a quelli che iscrivono la sentenza nella carne del condannato. 

Una macchina romanzesca automatica come quella di un feuilleton ottocentesco e indifferente come il congegno che infligge il supplizio al condannato ne La colonia penale viene applicata da Kafka (impersonalmente – ma stavolta sul serio, assai più sul serio che presso naturalisti e veristi, che quella macchina avevano inventato) per narrare sequenze di fatti a prima vista poco significativi, puntando esclusivamente sulla chiarezza della concatenazione sintattica, che risulta trascinante appunto perché insindacabile, non soggetta ad alcuna trattativa. L’effetto comico che ormai molti sostengono essere la chiave giusta in cui vada letto Kafka, sostituendo un nuovo dogma a quello canonico dell’angoscia, dell’incubo e dell’assurdo che ancora imperava ai tempi in cui iniziavo a leggerlo io (e da cui discende l’infelice e abusato aggettivo “kafkiano”), sta tutto in questa millimetrica impassibilità, che al cinema negli stessi anni veniva raggiunta e perfezionata da Buster Keaton, un altro autore che lascia sbigottiti per la ritrosia a farsi catalogare. Che cosa infatti sarebbe il suo cinema – esistenzialismo, surrealismo, slapstick? Fa ridere, non fa ridere, oppure fa pensare – ma a che cosa, esattamente? Insomma, cosa produce, a cosa conduce la sfilza di disavventure inanellata da quell’uomo perplesso in camicia e pork-pie hat messo di traverso? 

Kafka si ritaglia un ruolo laterale nel processo della vita: diceva di non essere un giudice, semmai uno sottoposto al giudizio – anzi no, ancora meno, »un semplice usciere ausiliario». Anche per questa, chiamiamola così, modestia, bandisce dalla sua pagina ogni tipo di virtuosismo narrativo o linguistico, poiché «il virtuoso adopera la sua destrezza per porsi al di sopra delle cose». Mentre Kafka non è mai “al di sopra”, non può essere al di sopra di niente e di nessuno. La corda della realtà non è tesa in aria, ma vicino a terra: la terra su cui saltella un po’ goffamente la grigia cornacchia del suo cognome. Sarebbe sciocco e artificioso dunque sforzarsi a »introdurre miracoli negli avvenimenti quotidiani»: «è la normalità a essere già di per sé miracolosa!» avvisava Kafka a beneficio del giovane amico Janouch, il segreto si nasconde qui vicino, »ce l’abbiamo sotto il naso», non ha bisogno di nascondersi »dietro avvenimenti straordinari» né noi di alonarlo con effetti poetici o magici. Basta attendere, e il mondo »ti si torcerà davanti in estasi», in attesa di essere semplicemente descritto. »La quotidianità è il più grande romanzo di gangster che ci sia…». 

L’azione prosegue magari tortuosa ma imperterrita in una specie di presente assoluto (anche quando i verbi si coniugano al passato remoto), un susseguirsi che non s’interrompe mai con flashback, antefatti, riprese, come se la mano non si staccasse mai dal foglio per un ripensamento, o meglio, come se la mente che in realtà è torturata senza posa dai ripensamenti non rinunciasse mai a darne subito ragione sulla pagina, qui e ora, pur continuando il suo cammino. Una mente in movimento, in perenne trattativa con se stessa. 

Si porti a esempio lo strepitoso capitolo ottavo del CastelloAspettando Klamm. È inutile che io qui ne riassuma la circostanza: sono nove pagine di pura frustrazione lavorata all’uncinetto, non si potrebbe tirarne via un filo o una frase che si smaglierebbe tutta, e culminano nella scena del cocchiere che dalla sua slitta offre un po’ di cognac e di ospitalità all’agrimensore infreddolito e deluso – e subito K. si sente rivivere, si rianima nel morbido delle pellicce che ricoprono l’interno della slitta, e al profumo dolce e caldo del liquore. Così la sua mortificante attesa si è trasformata per miracolo (il miracolo del cognac?) in esultanza, e in un sentimento assurdo quanto autentico di invulnerabilità. 

Allora parve a K. che qualsiasi collegamento con lui fosse stato interrotto e che egli fosse più libero ora di quanto fosse mai stato, e potesse stare lì, in quel luogo altrimenti vietato, ad aspettare tutto il tempo che voleva, e avesse conquistato tale libertà come nessun altro sarebbe forse stato capace di fare, e a nessuno fosse lecito toccarlo o scacciarlo, anzi neppure dirgli una parola, solo che (questa convinzione era almeno altrettanto forte) nulla fosse tanto insensato, tanto disperato, quanto questa libertà, questa attesa, questa invulnerabilità.

È probabile che oggi qualsiasi casa editrice rifiuterebbe il manoscritto del Castello, qualsiasi consulente lo mollerebbe dopo averne “annusato” (si dice così nel gergo editoriale) qua e là gli smisurati dialoghi, le sfinenti tirate su chi è Klamm, dove sta Klamm, cosa desidera Klamm, e quando arriva Klamm – cioè il tipo di questioni che, alleggerite e stralunate, trent’anni dopo l’uscita del romanzo avrebbero fatto la fortuna del teatro di Samuel Beckett. Eppure di quel libro ostile e inclemente resistono per me come puri oggetti di venerazione innumerevoli pagine, paragrafi e periodi come quello che qui sotto riporto, formato da dodici proposizioni, con le subordinate che si aggrovigliano intorno a uno spunto semplicissimo (»Il padre cercava intanto di spogliarsi da sé…») per cedere poi al passo spedito delle tre coordinate che chiudono l’azione – per il sollievo del lettore. 

Il padre, sempre scontento che la madre fosse accudita per prima, cosa che però succedeva solo perché la madre era ancor più bisognosa daiuto di lui, cercava intanto di spogliarsi da sé, forse anche per punire la figlia della sua presunta lentezza, ma sebbene avesse cominciato dalla cosa più semplice e superflua, dalle enormi pantofole in cui i suoi piedi quasi nuotavano, non riuscì assolutamente a sfilarsele, dovette ben presto rinunciarci con un roco rantolio e si appoggiò di nuovo rigido alla sedia.

Questa era la mia lavagna, il mio esercizio, a questo tipo di scuola l’apprendista scrittore andava pieno di voglia di imparare ed emulare, mettendoci tutta la diligenza possibile, quella a cui lo stesso Kafka fa cenno quando parla dei »compiti a casa ben fatti».

»Alla scrivania, lì è il mio posto, la testa fra le mani, quella è la mia posizione». Tutto qui il mestiere dello scrittore. Ci vogliono anni per tirar su il secchio, e un istante solo perché esso ripiombi giù nel pozzo. 

Il principio comunque è elementare: va nominato anche ciò di cui non varrebbe la pena parlare, anzi soprattutto quello, »per non tralasciare nulla, affinché dopo non nascano discussioni» – lo stesso atteggiamento, beffardo ma in definitiva onesto, che tiene il guardiano della Porta della Legge, quando intasca i doni con cui l’uomo di campagna tenta di corromperlo affinché lo lasci entrare: »Li accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa». La prosa di Kafka è egualmente imparziale: accetta tutto, alla maniera dei grandi scrittori realisti, e dei santi. A torto si crede che questi ultimi rinuncino a tutto pur di scalare i cieli: in verità se li guadagnano accogliendo tutto.

Dicevo che non esistono passato e futuro nella prosa di Kafka, non nel senso dei tempi verbali, ma dell’eventualità che la narrazione possa spostarsi avanti e indietro, o arrestarsi per poi riprendere da un punto remoto dopo lo stacco, oppure cambiare voce, come la letteratura ha imparato a fare dal nono libro dell’Odissea, nel momento in cui Ulisse comincia a narrare in prima persona le sue passate disavventure. Unità di tempo e di azione caratterizzano i racconti e i romanzi di Kafka come (credo) in nessun altro scrittore moderno, il che rende spaventosamente semplice la struttura complessiva che li regge: una pura sequenza di fatti. Basterebbero a illustrare questo principio le ultime inarrestabili pagine del Processo, di abbacinante nitore fattuale, o (un esempio come un altro), i Fragmente dell’autunno 1920. 

Due uomini sedevano a un tavolo di rozza fattura. Una lampada a petrolio vacillante pendeva sopra di loro. La mia patria era lontana. 

«Sono nelle vostre mani», dissi. 

«No», disse uno dei due uomini, che si teneva ben dritto e affondava la mano sinistra nella barba piena, «sei libero e per questo sei perduto». 

«Allora posso andare?» chiesi. 

«Sì» disse l’uomo e mormorò qualcosa al suo vicino mentre gli carezzava benevolmente la mano. 

»Il sospetto costante è che si tratti di Verismo», ha scritto Roberto Calasso, e non dello “straordinario” nel senso dei racconti di Poe. Le mie impressioni di lettura di questo ultimo anno concordano con quelle di Calasso: in controluce appare Dickens, piuttosto che Hoffmann – anche perché all’interno dell’impianto solidamente realistico in Dickens è presente e incluso anche lo straordinario, il bizzarro, l’eccentrico, persino il delirante. Del resto non vi è nulla di più palpabile e concreto del delirio. La vita di noi uomini ne è la prova. Per cui mi sono messo a caccia di pagine e spunti dickensiani, ed eccone di seguito un paio, dai Quaderni in ottavo

Sopra una panca di pietra accanto alla porta, stava seduto un uomo gigantesco, le gambe accavallate, le mani incrociate sul petto, la testa appoggiata indietro, con lo sguardo rivolto al cespuglio di fronte a lui, che gli toglieva tutta la visuale. Guardai involontariamente, con aria interrogativa, la donna. »Questo è il mammalucco», disse lei, »non lo sai?». Scossi la testa, guardai di nuovo l’uomo con stupore, specialmente il suo alto berretto di pelo d’agnello, ma poi venni fatto entrare in casa dalla vecchia. In una piccola stanza sedeva a un tavolo coperto di libri ben ordinati un vecchio signore con la barba, in veste da camera, che di sotto la campana del lume da tavolo guardò verso di me. Naturalmente pensai di essermi sbagliato, e mi volsi per uscire dalla stanza, ma la vecchia mi sbarrò la strada, e disse al signore: »Il nuovo ragazzo del latte». »Vieni qui, piccolo marmocchio», disse il signore ridendo. Io mi sedetti allora su un panchettino vicino al suo tavolo, e lui accostò il suo viso vicinissimo al mio.

Potrebbe essere un capitolo espunto da Grandi speranze, l’atmosfera di mistero è la stessa di quando Pip incontra i forzati lungo il Tamigi. O ancora leggete questa: 

Un gran berretto tondo di agnello gli stava ben calcato sulla testa. Dei folti baffi gli si aprivano, rigidi, sul viso. Quanto al vestito, portava un largo cappotto marrone tenuto raccolto da un poderoso sistema di cinghie che ricordavano i finimenti di un cavallo. In grembo aveva una corta sciabola ricurva dentro un fodero pallidamente rilucente. I piedi erano infilati in un paio di stivali di montone provvisti di speroni, un piede era posato su una bottiglia di vino rovesciata, l’altro, sul pavimento, era un po’ rialzato, e col calcagno e lo sperone puntato contro il legno.

Di nuovo il berretto di agnello! Be’, se non si tratta di vero e proprio realismo, è il romanzo di avventure, che dal realismo discende. Abbiamo detto che nulla appare mai cruciale, nelle storie di Kafka. Si procede gradualmente per intensificazione, ed è questo forse l’unico elemento davvero fiabesco, il tratto comune con lo schema antico di costruzione dell’avventura (oggi dei videogiochi), vale a dire un modello a gradini, col superamento (o il fallimento) di prove in successione sempre più difficili, una sequela di controlli, ostacoli, di porte e di guardiani sempre più ostili, man mano che scemano le forze per affrontarli e aumenta quella che in Kafka sembra la condizione umana più diffusa: la stanchezza. Sentirsi venir meno, eppure continuare, continuare… continuare. Avevo cominciato ad appuntarmi i brani in cui si di- chiara l’invincibile stanchezza dei personaggi di Kafka, ma poi, a mia volta stanco, ho smesso, sono innumerevoli, se ne potrebbe riempire un intero quaderno. Ho immaginato lo stremo di questo insonne che riempie incessantemente i suoi, di quaderni, in vista di un’opera che secondo lui avrebbe dovuto restare privata e quindi cessare definitivamente di esistere, pagine di »documenti personali di debolezza umana» da cui invece gli amici »si sono messi in testa di cavare letteratura». 

Com’era possibile che lui dovesse sentirsi così invincibilmente stanco proprio in quel luogo, dove nessuno era stanco o dove piuttosto tutti erano continuamente stanchi, senza che però il lavoro ne risentisse, ma anzi, pareva che ne traesse giovamento? Se ne poteva dedurre che si trattava di una stanchezza di tutt’altro genere da quella di K. Lì era stanchezza nel bel mezzo di un lavoro felice, qualcosa che all’esterno pareva stanchezza, ma che in realtà era quiete indistruttibile, pace indistruttibile. Se a mezzogiorno si è un po’ stanchi, questo fa parte del felice corso della giornata. 

Le prove da superare in successione del Castello ricordano avventure come quella di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, l’enigmatico poemetto anonimo del XIV secolo: e anche lì il vanaglorioso Galvano non le superava, anzi falliva, ritirandosi pieno di vergogna. In verità, il romanzo cavalleresco fin da sempre, e non solo al suo tramonto con il Don Chisciotte, inanella sconfitte e umiliazioni. Il fallimento dunque non è affatto una peculiarità “moderna” (Onegin, Oblomov, Zeno Cosini, Madame Bovary, gli Indifferenti, il console Firmin, Lily Bart, l’agrimensore K.), anzi, sembra essere fin dall’antichità il destino segnato degli eroi, e non appannaggio degli anti-eroi contemporanei. Sterilità, nevrosi, vergogna, impotenza, indecisione, lacrime copiose, involontaria comicità, solitudine, follia e ripiegamento sono iscritti nel codice dei miti millenari. Il Re Pescatore non se l’è inventato Eliot per The Waste Land, sanguinava da secoli, forse da sempre. Sarebbe un’occasione d’oro riconsiderare le categorie dell’Antico e del Moderno servendosi di Kafka come guida, facendo luce sulle epoche in vista di una loro riconfigurazione. 

(Nell’Edda di Snorri Sturluson, il castello del Gigante che ha beffato Loki, l’astuto dio beffatore, e umiliato lo strapotente Thor, facendolo battere nella lotta da una vecchietta, si rivela vuoto, illusorio. Quando sconfitti e derisi gli dèi lo abbandonano, alle loro spalle il castello si dissolve). 

Ho detto che la costruzione a gradini tipica di molte sue storie (dalla singola pagina lavorata delle brevissime prose come Il rifiuto, al grande formato del Processo e del Castello, e anche del picaresco America) ha di fiabesco soprattutto il principio dell’intensificazione. Intensificazione di cosa? Del dolore, della sensualità, dello spirito avventuroso, della mesta allegria, del distacco oppure, sul lato opposto dello spettro emotivo, del riso compassionevole – quel tipo di mitezza caratteristico di chi ha doppiato il capo della conoscenza ma depone ogni tentazione di compiacersene. Non più contrastanti tra loro, convergono in un medesimo punto compimento e distruzione, quasi come fossero sinonimi, e forse in effetti lo sono. »Vi è un punto oltre il quale non vi è ritorno. Questo è il punto da raggiungere». Stupiscono il coraggio di un’affermazione tanto perentoria, e, persino nel culmine dell’angoscia, la mancanza di tragicità. Il tragico è stato prosciugato dalla stessa tragedia in corso, come le lacrime consegnano a chi le ha versate il sollievo dell’aridità. Il dissidio viene composto dalla precisione con cui lo si prende su di sé, lo si fa proprio in modo integrale. Non so se abbia senso parlare di rassegnazione, o stoicismo, o di sublime saggezza, o di semplice assunzione di responsabilità artistica verso la vasta materia della vita. Si potrebbe persino sostenere che vi sia maggiore compiutezza artistica in certi appunti da quaderni e fogli sparsi, che si rinvenga, cioè, una suprema per quanto paradossale finitezza nel non-finito kafkiano. Forse perché nell’ossessività circolare dei frammenti più ancora che nello svolgimento romanzesco (il quale necessita sempre di qualche aggiustamento di tiro in vista di ciò che seguirà) è presente in purezza il realismo radicale di Kafka, cioè la registrazione senza interferenze o diaframmi, sino al limite della tollerabilità, di ciò che appare vivente: figure, forme e gesti. Tutto reso attuale e stagliato in una transitorietà assoluta che, a ben pensarci, sta agli antipodi del progetto romanzesco. Certi incipit formidabili restano per forza sospesi, e interrotti, appunto perché a loro modo compiuti, esausti, perfezionati e dunque liquidati dalla loro stessa perfezione. Compimento e distruzione, compimento nella distruzione. 

Prendiamo alcuni dettagli gratuitamente esatti come, ad esempio, questo che segue: il bambinesco gioco al rialzo del trombettiere. 

All’ombra dell’albero, sedeva un giovane che si dondolava sulla sedia, incurante di tutto ciò che accadeva intorno, lo sguardo perduto in cielo a seguire il volo degli uccelli, e che si esercitava in segnali militari su un corno da caccia. Era una cosa utile come qualsiasi altra, ma ogni tanto il comandante ne aveva abbastanza, e allora, senza alzare gli occhi dal lavoro, faceva cenno al trombettiere di smetterla; e quando questo non serviva, si girava e gli urlava qualcosa; allora per un po’ c’era silenzio, finché il trombettiere, solo per provare, ricominciava a soffiare piano e, vedendo che lo si lasciava fare, a poco a poco riportava il suono all’intensità precedente. 

Ah! Andrebbe mandato a memoria questo periodo zeppo di incisi che suonano ironici ma sono il contrappeso di un’azione con un’altra azione, che serve a completare la precedente, a campire poco alla volta il quadro, passando da un senso all’altro, dall’udito alla vista e viceversa, come si passa dal suono dello strumento (il corno) alla voce umana (dello spazientito comandante) e poi di nuovo al suono – il quale monta poco alla volta, subdolo e impertinente, fino a tornare allo stesso livello di prima. Il trombettiere soffia e guarda gli uccelli, il comandante in maniche di camicia redige il suo piano di battaglia e intanto strilla al soldato di smetterla. 

L’accostamento sinestetico più azzardato e violento che io conosca, dopo quello di Inferno, XIII (“sì de la scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue”), l’ho trovato in Kafka: »Dalla finestra accanto alla porta di casa, che era ricoperta di assi, salvo una piccola fessura, uscivano fumo e baccano» (il corsivo è mio). 

E forse solamente in Kafka (e in un modo minore e posato, in Raymond Roussel, o prima ancora, con la pedanteria dell’illuminista perverso, in Sade, oppure nella Morgue di Gottfried Benn – che era suo coetaneo, ma con un surplus di estetismo) troviamo questa imperturbabilità nella narrazione di ciò che è perturbante: come se fosse proprio l’imperturbabilità della descrizione, il suo andamento distaccato, procedurale, ad accentuarne l’effetto inquietante. 

(Forse non è inutile rammentare come su alcune modalità rappresentative escogitate da Kafka ci abbiano campato intere squadre di movimenti letterari e non letterari, legioni di scrittori e singoli autori, fino all’École du regard e a Peter Handke, passando per la Neue Sachlichkeit. Solo che il suo non era precisamente uno stile letterario, bensì il precipitato di una forma peculiare di esistenza, una postura umana a cui concorrevano troppi fattori perché non fosse inimitabile.) 

Continuare a scrivere si trasforma nello scrivere continuamente. Rivela il suo carattere coattivo, di Ananke, costrizione, necessità. Forse solo a un primo livello il meccanismo cieco e inarrestabile che agisce nel Processo è quello della legge, che spinge K. attraverso mille peripezie (alcune delle quali sfiorano il ridicolo, ed è infatti lui il primo a riderne) fin nella cava dove verrà giustiziato. Piuttosto, si tratta della scrittura. La macchina che procede inesorabile, malgrado le sue lentezze, i suoi giri a largo, i periodi di latenza per cui ci si dimentica persino di quello che si è fatto e detto, è la scrittura, è la scrittura il demone meschino e il nobile lottatore che non abbassa mai la guardia, che non chiude mai occhio, mai, costringendoti a pagare “una bolletta della luce molto alta”, come diceva Kafka al diciassettenne Janouch, a causa delle notti passate a leggere e scrivere. Per quanto ci vada cauto con le letture allegoriche (credo di averlo dimostrato sin qui), sono considerazioni strettamente letterarie a farmi avanzare questa ipotesi. Ad incalzare autore e personaggio del romanzo sono le Erinni del romanzo stesso, della necessità di scriverlo, e scriverlo in quel modo. 

Io molto di rado anzi quasi mai sono riuscito a lasciarmi trascinare così, o piuttosto, trainare, come fosse un dispositivo meccanico, dal puro potere della lingua in cui scrivo; mai sono riuscito a tapparmi le orecchie e a non prestare ascolto alle continue interferenze, prima fra tutte quella della mia stessa intelligenza che finiva per costituire un intralcio con le sue pretese analitiche e la saccenteria, laddove la sola necessità sarebbe stata di procedere senza indugi nella connessione verbale; e poi tutte le altre suggestioni che è il talento medesimo a disseminare come trappole lungo il cammino – la finezza psicologica, il gusto di una pagina ben riuscita, le bellezze proprie della lingua adoperata, la duratura influenza delle letture compiute e persino il fatto di porsi modelli alti di letteratura (come quello di Kafka, appunto) che se almeno un poco possono fungere da argine contro la mediocrità, quella personale come quella del tempo a cui si appartiene, alla stessa stregua ostacolano il dettato, lo inceppano, sciupandone la trasmissione. E poi l’orgoglio, la debolezza, le fissazioni, il carattere, la volontà un po’ ingenua di far fruttare le ore passate in solitudine, non ammettendo neanche morti di averle sprecate. »Nessuno può sbarazzarsi di sé».

La scrittura oscilla sempre tra i poli della pretesa di dominio e della propria esistenziale impotenza, tra la discutibile concretezza del risultato e gli sforzi penosi per raggiungerlo, tra la gravità solenne del compito e il sospetto di una sua totale superfluità, che niente e nessuno potrà riscattare, nemmeno col conseguimento di elevate vette artistiche, le quali, in definitiva, rischiano di suonare persino più futili e decorative dei risultati mediocri. I cosiddetti capolavori non riscattano chi li ha realizzati, anzi, non di rado, lo dannano. Lo scrittore è perciò un ibrido, »la sua stanchezza è quella del gladiatore dopo la lotta, il suo lavoro è stato imbiancare l’angolo di una stanza d’impiegato» (negli Aforismi di Zurau). Non si può quindi impedire a nessuno di ridere alle spalle di un’attività così opinabile, svolta da una figura tanto controversa: gladiatore, circense, imbianchino, impiegato. 

C’è una porta in casa mia a cui finora non avevo fatto attenzione. Si trova in camera da letto, nel muro che confina con la casa accanto. Non me ne ero fatta alcuna idea, anzi non sapevo neppure che esistesse. Eppure è ben visibile, anche se la sua parte di sotto è nascosta dai letti […]. Ieri è stata aperta… 

Prendiamo la morbosa fissazione per le porte, segrete o monumentali, che segnano l’accesso ad altre sale ed altre porte, in infilata. Stanze private in cui però si aprono innumerevoli accessi. Solo nell’indice tematico di Aforismi e frammenti figurano ventiquattro voci relative alle porte. Un’ossessione simile a quella che mezzo secolo prima aveva covato Lewis Carroll e mezzo secolo più tardi infesterà l’immaginazione di Hitchcock, Polanski, del Kubrick di Shining. »Era una porticina bassissima, quella che conduceva in giardino, non molto più alta degli archi di metallo che si piantano in terra nel gioco del croquet». Le svolte narrative sono porte che in una storia si aprono e si chiudono, da lì irrompono sconosciuti, o Gregor Samsa riesce a fatica a uscire dalla sua stanza diventata una tana. Dietro a una porticina che si era sempre pensato immettere in un ripostiglio, un uomo vestito come un macellaio (»indossava un indumento di cuoio scuro, aderente, che lasciava nudi il collo fino a mezzo petto e tutte le braccia») ne sta bastonando altri due. Sono le inquietanti e sofistiche icone della possibilità, dunque una risorsa per infinite variazioni narrative. Le porte non sono in verità simboli di nulla. 

… corro di là e vedo che la porta, la porta a me finora sconosciuta, viene aperta lentamente e che nello stesso tempo i letti vengono scostati con forza straordinaria. Io grido: »Chi è? Cosa volete? Pia- no! Attenti!» e mi aspetto di vedere entrare una squadra di uomini violenti, ma è solo un giovane esile che, appena la fessura è sufficiente, scivola dentro e mi saluta lieto. 

La condizione è la seguente. Da questa condizione occorre, comunque, ripartire. 

Egli ha sete, e dalla fonte è separato solo da un cespuglio. Lui però è diviso in due: una parte abbraccia con gli occhi l’insieme, vede che egli è lì e che la fonte è a un passo, ma una seconda parte non nota nulla, ha tutt’al più la vaga intuizione che la prima parte veda tutto. Ma poiché non nota nulla, egli non può bere. 

Ecco, quando sento di scadere, che il mio dono nello scrivere lo sto, più che buttando via, utilizzando solo per difendermi o farmi bello, per temporeggiare e per ingannare me stesso prima che gli altri, allora torno a leggere qualche pagina di Kafka, qua e là, che mi ripesca, mi riporta in una zona di aria rarefatta eppure stranamente respirabile. Non voglio dire che mi salvi, anzi, in un certo senso, aumenta il mio sconforto, mi scoraggia con le sue formulazioni vertiginose ed esatte, di cui sono appena in grado di accarezzare la superficie. Quella sì, è in grado di riprodurla e imitarla chiunque abbia un minimo di talento, e io da giovane quel minimo lo avevo, e infatti la imitavo, indulgendo a un virtuosismo da cui proprio Kafka mette in guardia perché un artista lo adopera »per porsi al di sopra delle cose», dunque per mettersi al sicuro. Essendo l’insicurezza forse il vizio più temibile ma anche la principale virtù di uno scrittore. 

ARTICOLO n. 42 / 2023

PLAGIO O ISPIRAZIONE?

Arte Activa Volume 2

Dopo un po’ di tempo che si indossano gli occhiali non ci si accorge di averli sul naso, perché il cervello considera l’informazione inutile. La vita d’altronde è faticosa e richiede il massimo del risparmio energetico, motivo per cui non amiamo mettere in discussione schemi comportamentali e convinzioni acquisite, al punto da non percepire nemmeno la loro presenza. È il caso degli occhiali, ma anche quello del diritto d’autore, una serie di norme che, nonostante siano relativamente giovani e in continuo mutamento, vengono spesso date per scontate.

Proviamo a percorrerne velocemente la storia: la paternità dell’opera è un’idea antica e già Marziale si lamentava di chi imitava i suoi versi, sebbene l’aneddoto più famoso veda come protagonista Giordano Bruno, scoperto a plagiare quasi parola per parola alcune opere di Marsilio Ficino durante le sue lezioni a Oxford. Al tempo non era prevista una pena e la condanna consisteva per lo più nella vergogna: Bruno, ad esempio, fu cacciato da Oxford. Questi diritti diventano più precisi in parallelo a mutamenti politici e tecnologici legati alla nascita della stampa, e nella tarda metà del quindicesimo secolo apparvero a Venezia le prime forme di tutela di editori e stampatori. Per avere qualcosa di vicino al copyright contemporaneo però si deve aspettare l’Inghilterra e lo Statuto di Anna del 1710, e in seguito la Francia della rivoluzione. Quest’ultimo è un momento interessante su cui vale la pena dilungarsi, perché per strappare i diritti intellettuali dalla gestione della (smantellata) monarchia, la proprietà delle opere dell’ingegno vennero trasferite ai rispettivi autori. Era l’idea del filosofo illuminista Diderot, cui si opponeva parzialmente un altro intellettuale, Condorcet, che nei suoi Fragments sur la liberté de la presse (1776) sosteneva che un’opera, in quanto vettore di idee, non doveva essere considerata privata, e che la legge doveva permettere a più uomini contemporaneamente di usare le stesse idee, perché figlie di un processo collettivo. Si tratta forse di una delle prime formulazioni nella direzione dell’idea di “pubblico dominio”, ma ebbero la meglio furono le idee di Diderot e il 13 gennaio 1791 la legge Le Chapelier garantì i diritti d’autore per cinque anni dopo la morte, che nel 1793 vennero prolungati a dieci con la legge Lakanal. Questo limite temporale nei secoli si è sempre più allungato, anche per difendere gli interessi di potenti detentori di diritti come la Disney Company, che, nel 1998, a ridosso della scadenza di un’opera di Topolino, riuscì a far estendere i diritti postumi fino a settant’anni, con quello che ironicamente è stato chiamato il “Mickey Mouse Protection Act”. A tutto questo si aggiunge l’invenzione del concetto di trademark, che ha una diversa e complessa sfera di applicabilità e che non possiede limiti di tempo al rinnovo.

Negli anni molti studi hanno messo in dubbio il valore dell’attuale regolamentazione del diritto d’autore, sia per la sua efficacia che per la sua equità, ma non entrerò nel merito di un dibattito molto complesso e combattuto. Se volessimo estrapolare l’essenza delle critiche, potremmo dire che per molti le attuali legislazioni del copyright limitano la creatività e l’innovazione, non garantiscono una giusta remunerazione per gli autori ma vanno solo a vantaggio delle grandi aziende, limitano l’accesso alle opere culturali, non tengono conto della natura collaborativa e collettiva della produzione culturale, sono inadeguate alle tecnologie digitali, limitano la ricerca e ostacolano i cambiamenti sociali. Sono critiche che in larga parte condivido, ma com’è ovvio hanno subito anch’esse delle contro-critiche. Quel che mi interessa però non è proporre un’indagine sul diritto d’autore, ma sugli effetti che questo mutevole concetto filosofico e legislativo ha avuto sull’arte e sugli artisti.

Come dicevo in precedenza, i plagi hanno una storia antica. Nel caso della scrittura, che è un linguaggio notazionale in cui può essere ambiguo il riferimento (il significato delle parole) ma non la formulazione del testo (la posizione delle lettere) è da sempre molto facile individuare quando e quanto un’opera viene copiata. Più complesso, ma comunque verificabile, è il caso della musica, anch’essa legata a un linguaggio notazionale, cui però va aggiunto l’aspetto performativo. Girolamo De Simone ne tratteggia una bella storia, che ci insegna come nella musica il plagio sia una prassi molto comune sin dall’antichità. Un esempio su tutti: «il grande Mozart, amato dagli dèi e filmicamente odiato da Salieri per il suo genio, si divertì a copiare temi di altri compositori. Nella Ouverture del Flauto magico vi sono temi di Cimarosa e di Clementi, considerato il “padre della musica pianistica”. Mozart, come ricorda Luciano Chailly, “ebbe molte accuse di plagio per ‘prestiti’ da Gluck, Haydn, Paisiello, J. Christian Bach, Sarti, ed altri”». Non sono un esperto di musica ma ricordo che mio padre, un melomane dall’orecchio quasi assoluto, riconosceva dopo pochi istanti chi aveva preso da chi e cosa. I casi erano innumerevoli, spesso tra celebrati maestri. Ecco che sorge il problema del plagio, che da un punto di vista formale è irrisolvibile: quand’è che si tratta di plagio e quando di legittima ispirazione? O, per tradurlo nei termini legali, quando un’opera è sufficientemente trasformativa? Il caso dell’arte visiva, che a differenza di musica e scrittura non ha (quasi) mai un linguaggio notazionale di riferimento, può essere d’interesse nell’esplorare questo difficile discrimine.

Come nella musica, anche in quest’ambito le accuse di plagio hanno una storia antica che non possiamo ripercorrere, ma basta aprire un libro di storia dell’arte per riconoscere e scoprire gli innumerevoli plagi – o ispirazioni – di cui ha vissuto e vive l’arte. A uno sguardo severo ogni -ismo della storia dell’arte potrebbe essere una forma di plagio, data la somiglianza interna tra diverse opere appartenenti al barocco, al neoclassicismo, l’impressionismo, l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo, la pop art, l’arte povera… queste opere vengono accomunate in -ismi appunto per la presenza di somiglianze riconoscibili. Il problema è stabilire quando si tratta di plagio e quando di ispirazione e il problema del problema, per così dire, è che questo criterio non è in alcun modo oggettivo, ma cambia con il mutare della sensibilità culturale, storica e geografica. Giovanni Carlo Ballola scrisse che «se Mozart fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe dovuto passare molto tempo, per i suoi plagi, in un’aula di Pretura». Eppure oggi non facciamo a meno delle sue opere.

Di esempi di vere e proprie denunce nell’arte se ne possono fare moltissimi. Jeff Koons ne ha subite (e perse) diverse, Isgrò ne ha vinta una contro i Rolling Stones, Shepard Fairey è stato messo in difficoltà dalla Associated Press, Damien Hirst è stato spesso accusato di plagio e ha provocatoriamente confessato che tutte le sue opere sono copiate, anche se spesso non ricorda da chi. Anche l’arte astratta è soggetta a plagio, come dimostra il caso in cui Emilio Vedova ha sconfitto Pierluigi De Lutti – e in effetti nell’osservare i loro quadri qualcosa mi fa dire che sono molto simili, cosa che non direi per la foto di Obama e l’opera di Fairey. Nel caso Vedova-De Lutti la fama del primo sopravanza quella del secondo, ma pensiamo a Mimmo Rotella, che anni dopo l’artista francese Jacques Villeglé ha utilizzato senza subire denunce la tecnica inventata da quest’ultimo, il décollage, per quadri molto simili e per di più molto più quotati.

La legge non è il mio ambito e a essere sincero mi dispiace solo quando una persona più ricca di un’altra pretende del denaro da quest’ultima per aver violato una proprietà intellettuale, dato che non ci vedo alcun vantaggio collettivo. Certo, la legge vale per tutti, ma permettetemi di storcere il naso verso l’avidità di alcune denunce. Sappiamo inoltre che le leggi possono cambiare, così come le sensibilità e i rapporti di potere cui fanno riferimento. Il professore di Diritto Privato Roberto Caso scrive in alcune preziose slide a proposito del plagio che «il giudizio deve seguire una valutazione complessiva e sintetica, non analitica, incentrata sull’esame comparativo degli elementi essenziali delle opere da confrontare, dovendosi cioè valutare il risultato globale o l’effetto unitario». Parafrasato nel mio impreciso linguaggio mi sembra significare che non esiste una regola precisa e bisogna valutare caso per caso secondo criteri comuni. Già, ma quanto sono comuni questi criteri?

Qui entra in gioco la nostra sensibilità – nostra come quella degli artisti – e come questa sia cambiata nel tempo. È esemplare l’esempio della Brillo Box di Andy Warhol. La grafica della scatola Brillo di cui si appropriò Warhol era stata creata nel 1961 dal pittore espressionista astratto James Harvey (1929–65), che si guadagnava da vivere anche come grafico commerciale. Durante una lezione a un gruppo di studenti americani, prima di rivelare la reazione di James Harvey a Brillo Box ho chiesto come avrebbero reagito al posto suo: pongo la stessa domanda a chi mi legge, se non conosce l’aneddoto. La totalità (sottolineo, la totalità) degli studenti avrebbe denunciato Andy Warhol. Secondo il resoconto del filosofo e critico d’arte Arthur Danto, Harvey era presente al vernissage di Warhol presso la Stable Gallery. «Harvey rimase sconcertato… si rese conto che aveva progettato delle scatole che la Stable Gallery vendeva per diverse centinaia di dollari, mentre le sue non valevano nulla. Ma Harvey certamente non considerava le sue scatole opere d’arte». scrive Danto. Il mercante d’arte newyorkese Joan Washburn, che aveva già organizzato due mostre di Harvey presso la Graham Gallery, era al vernissage con l’artista. «Fu sopraffatto», ricorda Washburn. Quando gli viene chiesto se Harvey fosse arrabbiato, rispose: «No. Lo trovò divertente. Tutti quelli che entrarono alla Stable Gallery quella sera si divertirono». Io la penso come James Harvey, e se anche volessimo ascrivere la cosa a una casuale comunanza caratteriale è innegabile che molta della grande arte del Novecento sarebbe ora a rischio di denuncia, se non proprio illegale. Per fortuna le gallerie d’arte sono ancora terra franca, a patto che i lavori siano pezzi unici venduti come opere d’arte, ma non siamo più nei primi del secolo scorso, e gli artisti vivono anche (se non soprattutto) di altri ambiti editoriali, dove le leggi sono diventate sempre più restrittive. Anche la sensibilità degli stessi artisti è cambiata, assecondando sempre più l’individualismo della società occidentale a discapito del collettivismo che pur è vitale per ogni creazione artistica. Può sembrare strano, ma gli artisti sono tendenzialmente animali possessivi e conservatori.

Per tornare a stile e diritto d’autore, vale la pena analizzare il caso del musicista Robin Thicke, che è stato considerato colpevole di plagio e condannato a rimborsare oltre sette milioni di dollari per Blurred Lines, un brano del 2013 che la famiglia dello scomparso Marvin Gaye aveva trovato troppo somigliante a Got To Give It Up del 1977. In questo delicato caso, se consideriamo che a essere protetta dal diritto d’autore era solo la sequenza di note e che questa è differente nelle due canzoni, ci potrà stupire che Thicke abbia perso la causa per via della somiglianza stilistica tra i brani. Lasciamo ora perdere le leggi, che come dicevamo possono cambiare, e ascoltiamo semplicemente le due canzoni: Blurred Lines e Got To Give It Up. In base alla nostra sensibilità potranno sembrare troppo simili o sufficientemente diverse, ma non c’è nulla di oggettivo cui appellarsi. Per me vale la seconda, senza contare che trovo assurdo che a lamentarsi siano stati gli eredi e non l’artista, dato che questi non hanno creato un bel nulla ma solo ereditato dei diritti. Ma soprattutto concordo con Tim Wu, quando, commentando questo caso, scrive: «Provate a considerare quanti artisti sarebbero danneggiati se una tale sentenza fosse emessa con maggiore frequenza. Tutti sanno che i Rolling Stones hanno copiato lo stile di Chuck Berry e di altri artisti R’n’B. I primo album dei Rush ricorda molto i Led Zeppelin – che, tra gli altri, si erano rifatti a Robert Johnson. E questo non vale solo per la musica. Georges Braque e Pablo Picasso portarono avanti le idee di Paul Cézanne per sviluppare il Cubismo, uno stile che, a sua volta, è stato imitato da diversi altri pittori. Ci sono centinaia di esempi simili. Suggerire che questo verdetto incoraggerà un cantautorato migliore significa mal interpretare la storia delle arti. La libertà degli artisti e di altri creatori di copiarsi a vicenda è legata al principio che le idee non possono essere soggette a copyright, una nozione essenziale per la libertà d’opinione e per l’espressione artistica».

Sia in Italia che all’estero si susseguono ormai da decenni critiche politiche ed economiche alla gestione del diritto d’autore, che in modi diversi argomentano la tesi che chi fa arte non trae alcun vantaggio dalla limitazione della diffusione delle proprie opere e che i vantaggi vadano solo ad autori affermati e grandi aziende. Ciononostante queste norme si sono fatte sempre più restrittive e forse in futuro lo diverranno ancora di più. Di recente, per esempio, si parla molto della liceità o meno dell’uso di materiale protetto da copyright per addestrare i sistemi di machine learning, liberi o proprietari che siano. In Europa si sta già votando per costringere le aziende a rendere trasparente il proprio dataset, che al momento è tale solo per i software open source. La trasparenza è sempre la benvenuta (al netto della difficoltà dei controlli, perché il dataset non è contenuto nel software), ma per molti questa decisione va nella direzione di vietare il training su materiale non proprietario. Se questa fosse la strada e se fosse adottata globalmente, il futuro delle intelligenze artificiali sarà probabilmente nelle mani dei monopoli delle big tech che possono permettersi o già possiedono i diritti di grosse moli di dati, come suggeriscono i progetti AI di Adobe e di Shutterstock. Anche le varie alleanze in corso (Adobe con Google, Shutterstock con Microsoft) sembrerebbero confermare questa ipotesi. Fa comunque eccezione l’industria bellica, che per sviluppare sistemi di riconoscimento iper-umani non può certo farsi problemi di copyright – ma evidentemente per molti gli usi militari sono il pericolo minore. Un altro caso notevole è la recente vittoria in tribunale della Galleria dell’Accademia contro una casa editrice che aveva usato l’immagine (sottolineo: l’immagine) del David di Michelangelo senza pagar loro un canone. Un bene comune fuori dal diritto d’autore da secoli di fatto non è più comune. La notizia ha ricevuto sia critiche che lodi, tra cui quelle del Ministro della Cultura, ma a mio parere queste ultime testimoniano come la sensibilità nei confronti dei beni pubblici si sia distorta negli anni. Per quale motivo non posso guadagnare usando un bene che è patrimonio dell’umanità da cinquecento anni? Dovremmo pagare i diritti agli eredi o agli autoproclamati custodi di ogni invenzione, opera e tecnologia che utilizziamo a partire dalla ruota? Purtroppo questo è il segnale che abbiamo perso qualunque idea di “patrimonio dell’umanità”, un bene trasversale alle nazioni e agli usi, parte della storia di ciascuno di noi e su cui nessuna persona, azienda o nazione può accampare primati.

Nel parlare di copyright risulta evidente che la ragion d’essere di queste norme è economica più che ontologica. Come Kirby Ferguson infatti, credo che l’arte sia sempre un remix e un’operazione collettiva. Se Picasso fosse nato cinquecento anni prima sarebbe forse diventato un pittore, ma di certo non quello che conosciamo, perché non avrebbe avuto accesso alle rivoluzioni artistiche e tecnologiche dei secoli a venire. Non solo Picasso non ha alcun merito per le scoperte passate, ma non può neanche arrogarsi quello di moltissime a lui contemporanee, che lo hanno aiutato a plasmare la sua poetica – sua come quella di chiunque altro. Togliamo da Guernica quello che non è possibile imputare all’estro creativo del Maestro: l’invenzione di materiali e tecniche usate, quella del linguaggio attraverso cui sono state apprese, delle opere d’arte che ne hanno influenzato la genesi, delle persone e delle cose che gli hanno suggerito alcune idee, del contesto culturale che altri hanno costruito, della guerra, eccetera – del quadro rimarrà ben poco. Riprendo qui con piacere alcune affermazioni di Condorcet, che pur con i limiti del contesto culturale in cui si inseriva era giunto a intuizioni molto interessanti: «C’è un’incertezza inevitabile nel limite da cui si deve cominciare a considerare come nuovo, come frutto del genio, il risultato di un’operazione dell’intelletto umano», scrive il filosofo, che poi oltrepassa il problema dichiarando che il genio non è un dono fatto dalla natura a qualche essere umano privilegiato, ma una facoltà comune inegualmente ripartita. È forse il momento di accorgerci che gli occhiali che indossiamo senza accorgercene stanno diventando così scuri da nasconderci il truismo che ogni opera dell’ingegno è collettiva.

ARTICOLO n. 41 / 2023

NON HO ALCUN RISPETTO PER MICHEL FOUCAULT

Intervista di Giulia Paganelli

Ci sono studi e libri da cui non è possibile prescindere quando si sceglie di varcare la soglia degli studi umanistici e sociali. Sexual Personae (Luiss University Press) è uno di questi. Io e Camille Paglia sulla carta siamo interlocutrici lontane, provenienti da due periodi storicamente e culturalmente ben distinti e inevitabilmente incisivi nella nostra formazione accademica e analitica. Abbiamo scoperto, in realtà, di avere in comune alcune cose importanti come il valore che diamo alla conoscenza storica nello sviluppo delle scienze sociali e antropologiche, l’urgenza di vedere il sistema accademico modificarsi e ristrutturarsi nelle scienze umanistiche perché così non funziona, l’amore profondo che diventa ossessione per i collegamenti nel tempo e nello spazio – e chissà come sarebbe davvero avere un pomeriggio di tempo e nessun limite tecnologico per tracciare nuove bisettrici in questi Atlanti cognitivi e simbolici. Entrambe da piccole volevano fare le egittologhe, entrambe da grandi abbiamo fatto percorsi tortuosi perché studiare solo una cosa non ci sembrava abbastanza. Ci sono, anche, incompatibilità fortissime che riguardano i nostri femminismi perché sicuramente Paglia fa parte di un’ondata precedente che difficilmente potrà mai sfociare nel movimento intersezionale, pratica che oggi è mia anche se non ne condivido molte delle modalità violente con cui si srotola nel mondo digitale. Ma anche questo è, indubbiamente, un percorso che ha bisogno di nuova teoria e di nuova tecnica, nuove voci e nuovi inizi, ma anche viaggi inversi che ritornino all’origine delle cose per far sì che gli orrori e gli errori non si ripresentino e su questo siamo d’accordo entrambe. Ma più di ogni altra cosa siamo due persone che credono nella conversazione critica e nel dibattito che nasce quando posizioni contrarie e distanti si mettono a sedere e parlano di società e dinamiche generali, senza cannibalizzarsi a vicenda. Il resto sono solo chiacchere.  

Giulia Paganelli: In un dialogo con Jordan Peterson, lei dice che «le religioni sono la vera rivoluzione». Io sono atea, ma sono anche un’antropologa e le cosmogonie così come le grandi religioni contemporanee mi permettono di acquisire moltissime informazioni sui sistemi culturali che osservo. Le chiedo se può approfondire per noi questo punto, in che modo le religioni sono una vera rivoluzione per gli studiosi del nostro tempo. 

Camille Paglia: Dopo le manifestazioni per i diritti civili e le proteste contro la guerra degli anni ’60, l’istruzione universitaria negli Stati Uniti e nel Regno Unito iniziò a spostarsi verso un orientamento apertamente politico, negativo nei confronti della cultura occidentale, che veniva descritta come irrimediabilmente sessista, razzista e imperialista. Tra le voci influenti che hanno assunto alcune o tutte queste posizioni c’erano Herbert Marcuse e Edward Said. Negli anni ’70 iniziarono continui attacchi al “canone” della grande letteratura e arte occidentale, che fu sempre più sostituito da opere contemporanee con un messaggio apertamente politico. Uscendo dalla scuola di specializzazione all’inizio degli anni ’70, pensavo che il curriculum universitario avesse un disperato bisogno di una profonda riforma, ma credevo che il “multiculturalismo” sarebbe stato meglio raggiunto da una riorganizzazione della struttura universitaria attraverso un modello interdisciplinare che fondesse le scienze umane e sociali. Le discipline umanistiche, a mio avviso, richiedevano un importante riorientamento verso la storia, come nell’ampia borsa di studio dei professori tedeschi della fine del diciannovesimo secolo, che erano profondamente eruditi in molteplici discipline. Uno degli ultimi grandi studiosi di quella tradizione è stato il marxista Arnold Hauser, i cui quattro volumi The Social History of Art (1951) mi hanno profondamente colpito quando stavo facendo ricerche per la mia tesi di dottorato a Yale.

Altre persone certamente hanno visto anche i limiti della struttura dipartimentale accademica standard. Tuttavia, in mezzo alla pressione per inserire nel curriculum materie nuove e urgenti come il femminismo e la letteratura afroamericana, gli amministratori universitari hanno erroneamente superato la loro autorità creando rapidamente unità di “studi” indipendenti, come studi sulle donne, studi afroamericani, studi sui nativi americani – al di fuori della supervisione accademica dipartimentale. A mio avviso, questi argomenti estremamente importanti e vitali sono stati purtroppo fortemente politicizzati fin dall’inizio, polemicamente ostili alla cultura occidentale e imponendo una semplicistica dicotomia oppressore-oppresso a tutti i discorsi sulla società e sull’arte.

Sostengo fortemente il multiculturalismo come ideale animatore dell’istruzione superiore. Ma mi oppongo alla politicizzazione ristretta e stridente che ora regna. Questa pratica ben intenzionata ma grossolanamente riduttiva trascina i giovani nelle liti contemporanee provinciali che sono diventate sempre più monotone ed estenuanti. Sebbene io sia atea, sostengo che la vera rivoluzione nell’educazione sarebbe quella di fare della religione comparata il fondamento del curriculum universitario di scienze umane. Vedo le grandi religioni del mondo come giganteschi sistemi di simboli contenenti verità complesse sulla vita umana. Al contrario, il marxismo manca di una metafisica e non vede altro nell’universo che politica ed economia.

La mia ultima raccolta di saggi, Provocations, contiene la mia dichiarazione di apertura per un dibattito del 2017 alla Yale Political Union, dove ho difeso la risoluzione (un argomento che avevo proposto), “La religione appartiene al curriculum”. Lì affermo: «nessuna società o civiltà può essere compresa senza fare riferimento alle sue radici religiose. Ogni studente dovrebbe laurearsi con una familiarità di base con la storia e i testi sacri, i codici, i rituali e i santuari delle principali religioni del mondo: induismo, buddismo, giudeo-cristianesimo e islam».

Ristampato in Provocations è anche il mio lungo saggio, “Cults and Cosmic Consciousness: Religious Vision in the American 1960s” (un ampliamento di una conferenza all’Institute for the Advanced Study of Religion di Yale). Qui sostengo che la massiccia influenza delle religioni non occidentali sui ribelli anni ’60 è stata stranamente dimenticata. Il buddismo zen era un tema importante nel movimento Beat degli anni ’50 a San Francisco, che ispirò direttamente la “controcultura” degli anni ’60 in quella città. L’era hippie fu soffusa di influenze dall’induismo, che ebbe inizio in California quando Ravi Shankar dimostrò il sitar al Monterey International Pop Festival nel 1967. La sua performance elettrizzante può essere vista nel documentario Monterey Pop. I sitar furono presto ascoltati in tutta la musica rock degli anni ’60, introdotta da George Harrison dei Beatles, la cui visita di gruppo in India per studiare con il Maharishi Mahesh Yogi finì in un fiasco.

La mia pratica come interprete della letteratura e dell’arte deriva in ultima analisi dall’antropologia, in particolare dalla “critica del mito”, le cui origini risalgono all’impatto della Cambridge School of Anthropology della fine del diciannovesimo secolo sullo psicologo Carl Jung. In Provocations è inclusa anche la mia conferenza alla New York University sull’analista junghiano Erich Neumann, il cui libro del 1955, La grande madre: un’analisi dell’archetipo, ha fortemente influenzato il mio primo libro, Sexual Personae (1990).

G.P. Da piccola volevo fare l’egittologa, ero sicura che sarebbe andata esattamente in questo modo. Poi ho incontrato Hegel e mi sono lasciata affascinare, arrivando poi solo alla fine del mio percorso accademico a occuparmi nuovamente di “archeologia” come parte fondamentale per codificare il mondo in cui vivo. Sexual Personae è un libro che nasce, secondo me, da un istinto simile. La Storia è imprescindibile per lo studio dei fenomeni complessi, siamo d’accordo?

C.P. Che coincidenza! Anch’io volevo essere un’egittologa. L’archeologia è stata la mia prima ambizione professionale, ispirata da una visita d’infanzia al Metropolitan Museum of Art di New York. Sono rimasta sbalordita e innamorata delle magnifiche sculture in granito rosso di un faraone inginocchiato che fa offerte agli dèi. Solo molti decenni dopo ho scoperto che il faraone era una donna: la regina Hatshepsut!

In seguito ho abbandonato il mio obiettivo di archeologia quando mi sono resa conto che tutti i grandi monumenti erano già stati scoperti e che probabilmente sarei stata condannato a rimontare vasi rotti, cosa per la quale non avevo pazienza. In risposta alla tua domanda, sì, la conoscenza della storia è certamente cruciale per tutto l’insegnamento e lo studio. Ma sin dall’ascesa della “teoria” chic postmodernista, troppi professori di discipline umanistiche hanno giocato ai filosofi dilettanti e hanno irresponsabilmente scartato studi storici approfonditi.

G.P. Da poco in Italia è uscito per Blackie Edizioni il racconto di Simone Wade Foucault in California, una sorta di etnografia sulla prima esperienza di Michel Foucault con LSD. Una volta tornato in Francia, si dice che il filosofo buttò via metà del lavoro scritto per quella che conosciamo oggi come Storia della Sessualità perché, cito, »quella fu l’esperienza migliore della sua vita, la più introspettiva». C’è spazio, secondo il suo punto di vista, per una rilettura delle opere precedenti di Foucault alla luce di questo evento? 

C.P. Non ho alcun rispetto per Michel Foucault, la cui conoscenza era strettamente limitata all’Europa solo dall’Illuminismo. Foucault non sapeva nulla dell’antichità classica o del Medioevo, e le sue osservazioni su quei periodi sono imprecise e a volte ridicole.

Le mie forti obiezioni a Foucault e ai suoi discepoli sono ampiamente contenute nel mio saggio-recensione, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf“, che è stato ristampato nella mia prima raccolta di saggi, Sex, Art, and American Culture (1992). Molte persone credono che Foucault fosse un erudito, ma non lo era. Era gravemente carente come ricercatore di materiali storici. Nella sua ristretta attenzione all’ideologia del potere, non aveva alcun istinto per l’arte o l’estetica. Ha rifiutato assurdamente la psicologia nella sua analisi della sessualità.

Inoltre, Foucault nascose disonestamente il suo enorme debito con i grandi sociologi Émile Durkheim e Max Weber. Durkheim, la vera fonte di Foucault, aveva già studiato carceri e codici penali ed esplorato i principi della classificazione e della tassonomia. C’era un libro del 1985 di J.G. Merquior che ha messo a nudo in modo divertente molti degli elementari errori di fatto commessi da Foucault. Come ho detto in “Junk Bonds”, un giorno la gente guarderà indietro, come facciamo noi alla mania del diciottesimo secolo per Emanuel Swedenborg, e vedrà Foucault come il Cagliostro del nostro tempo. Ma intanto lasciatemi semplicemente dire questo: non ci sono donne in Foucault. Nessuno se n’è accorto?

G.P. In Italia esiste questa credenza diffusa nella finta Ideologia del gender. Certo, buona parte del lavoro in questo è stato fatto dalla destra che ha spinto e creato narrazioni mostruose con una comunicazione costante e martellante, ma dall’altra parte il terreno occupato da questa propaganda, penso, sia stato prodotto dalla mancanza di una conversazione onesta e accessibile da parte della sinistra. Abbiamo avuto leader di sinistra lontani dalle persone e dalla lotta di classe, chiusi dentro una bolla intellettuale e forzata in cui si parlavano tra loro mostrando all’esterno solo incoerenze. Come si recupera tutto questo terreno perso? 

C.P. Sì, sono assolutamente d’accordo sul fatto che molti di sinistra, in particolare professori delle università statunitensi, sono spesso molto lontani dalle persone per cui affermano di parlare. Abitano davvero in una “bolla intellettuale” arrogante.

Quando ero al college, a metà degli anni ’60, ho visto gente di sinistra genuina tra i miei compagni di studio. Erano appassionati nelle loro convinzioni e modi, e parlavano con il linguaggio semplice e diretto della classe operaia. La sinistra accademica, al contrario, ha troppo spesso favorito una “teoria” grottescamente pretenziosa in un codice mandarino d’élite.

Sono certa che il mio disprezzo per il linguaggio snob dei teorici postmoderni derivi dalla mia esperienza infantile tra gli immigrati italiani della classe operaia. Tutti e quattro i miei nonni, così come mia madre, sono nati nell’Italia rurale povera: la famiglia di mia madre in Ciociaria e la famiglia di mio padre in Campania. Sono nata in una piccola città industriale nello stato di New York in cui gli italiani erano emigrati per lavorare nella grande fabbrica di scarpe. Un nonno era un barbiere, e l’altro era un operatore esperto di questa difficile macchina per stirare la pelle. Forse solo un contatto personale diretto e sostenuto di quel tipo può illuminare l’autentico sistema della moderna classe sociale.

G.P. Vorrei parlare della scrittura e della comunicazione digitale. Io penso che lo spazio infinito di Internet permetta di non stringere i discorsi dentro a trafiletti e parole contate su giornali e riviste, allo stesso tempo però questo aumenta anche i contenuti falsi e la proliferazione di fake news, nonché la strumentalizzazione delle stesse per la propaganda politica. Penso, per esempio, allo scandalo che investì Cambridge Analytica. Cosa ne pensa e come possiamo prevenire questo fenomeno? 

C.P. Il Web ha rivoluzionato le comunicazioni sia in positivo che in negativo. Sì, lo “spazio infinito” di Internet è una liberazione, ma è anche una maledizione. Nei media statunitensi c’è stato un grave declino della qualità dei commenti politici e culturali proprio a causa dell’assenza di limiti di spazio. Quando negli anni ’90 scrivevo più regolarmente per giornali e riviste cartacee tradizionali, mi piaceva davvero la rigida disciplina del limite di parole: condensare il proprio articolo a 1000 o anche 800 parole richieste dava grande potere e chiarezza. Oggi, al contrario, molti articoli analitici scorrono in continuazione in modo fiacco, monotono e con un ordine poco distinguibile. Manca la fase finale della riduzione della prosa al suo argomento essenziale.

Ho iniziato a scrivere per il Web molto presto, dal primo numero di Salon.com nel 1995. È sorprendente ricordare che il Web non è stato preso sul serio all’inizio. In effetti, quando sono diventata editorialista al Salon, un importante giornalista del Boston Globe mi ha detto che stavo sprecando il mio tempo e che nessuno nei principali mezzi di informazione considerava seriamente il Web. Come sono cambiate le cose! Il mio saggio del 2003 “Dispatches from the New Frontier: Writing for the Internet”, che descrive le mie esperienze a Salon.com, è ristampato in Provocations.

Purtroppo il web ha distrutto o ferito gravemente innumerevoli giornali e riviste, che hanno perso la loro base economica e lottano per la sopravvivenza. Negli Stati Uniti, ciò ha minato i giornali regionali più piccoli e aumentato il potere dei media aziendali con sede a New York e Washington DC, che sono uniformemente sostenitori del Partito Democratico. Sono una democratica registrata che mette in discussione o rifiuta gran parte dell’attuale dogma democratico.

L’enorme problema odierno delle fake news ingannevoli e della palese propaganda peggiora ogni anno. I giovani dovrebbero essere formati presto su come valutare la credibilità delle fonti di notizie. Penso che dovrebbero esserci lezioni obbligatorie di logica formale tradizionale a livello di scuola pubblica. Gli studenti hanno bisogno di esercitarsi nel seguire argomentazioni sequenziali e nel riconoscere distorsioni, errori e conclusioni non supportate.

G.P. Infine, una domanda diretta: la ricomparsa di fascismi e neonazismi in Europa ci dice che dalla storia non abbiamo imparato nulla? E se sì, come è avvenuto questo processo? 

C. P. La parola “decadenza” appare nel sottotitolo di Sexual Personae perché penso che la cultura occidentale sia attualmente in una fase “tardiva”, di graduale declino. Decadenza non è un termine negativo per me: il mio libro esamina molti esempi di meravigliosa arte della fase tarda, come le sculture manieriste contorte e morbosamente sensuali di Michelangelo nelle Cappelle Medicee. Lo stile decadente ha caratteristiche ricorrenti come androginia, voyeurismo e compressione o distorsione dello spazio. Sono fortemente attratta dall’arte decadente e dai suoi eroi, come Oscar Wilde e Andy Warhol.

Tuttavia, la storia mostra che le fasi successive, come nella Roma imperiale o nella Germania di Weimar, possono innescare una reazione da parte dei nazionalisti militanti che chiedono un ritorno alle virtù semplici e stoiche dei lontani antenati. Penso che sia qui che ci troviamo ora, poiché la cultura occidentale su entrambe le sponde dell’Atlantico ha perso fiducia in se stessa ed è stata eclissata da una forza crescente in Asia.

ENGLISH VERSION

G.P. In a dialogue with Jordan Peterson you say that “religions are the real revolution”. I’m an atheist but also an anthropologist: cosmogonies as well as the great contemporary religions allow me to acquire much information on the cultural systems I observe. I would like to ask you to elaborate more on this: how are religions a real revolution for today’s researchers?

C.P.  After the civil rights demonstrations and anti-war protests of the 1960s, university education in the U.S. and U.K. began to shift toward an overtly political orientation, negative toward Western culture, which was portrayed as irredeemably sexist, racist, and imperialist.  Among influential voices taking some or all of those positions were Herbert Marcuse and Edward Said. In the 1970s, sustained attacks began on the “canon” of great Western literature and art, which was increasingly replaced by contemporary works with an overtly political message.

Emerging from graduate school in the early 1970s, I thought that the university curriculum desperately needed major reform, but I believed that “multiculturalism” would be best achieved by a reorganization of university structure via an interdisciplinary model blending the humanities and social sciences. The humanities, in my view, required a major reorientation toward history, as in the wide-ranging scholarship of late-nineteenth-century German professors, who were profoundly erudite in multiple disciplines.  One of the last great scholars in that tradition was the Marxist Arnold Hauser, whose four-volume The Social History of Art (1951) deeply impressed me when I was doing research for my doctoral dissertation at Yale.

Others certainly also saw the limitations of standard academic departmental structure.  However, amid the pressure to bring urgent new subjects such as feminism and African-American literature into the curriculum, university administrators wrongly exceeded their authority by rapidly creating free-standing “studies” units–such as Women’s Studies, African-American Studies, Native American Studies–outside departmental scholarly oversight.  In my view, these extremely important and vital topics were unfortunately heavily politicized from the start, polemically hostile to Western culture and imposing a simplistic oppressor-oppressed dichotomy on all discourse about society and art.

I strongly support multiculturalism as an animating ideal of higher education.  But I oppose the narrow, strident politicization that now rules. This well-intended but crudely reductive practice drags young people down into provincial contemporary quarrels that have become increasingly monotonous and exhausted. Although I am an atheist, I maintain that the real revolution in education would be to make comparative religion the foundation of the university humanities curriculum. I view the great world religions as gigantic symbol-systems containing complex truths about human life. In contrast, Marxism lacks a metaphysics and sees nothing in the universe but politics and economics.  

My last essay collection, Provocations, contains my opening statement for a 2017 debate at the Yale Political Union, where I defended the resolution (a topic I had proposed), “Religion belongs in the curriculum”. There I state: “No society or civilization can be understood without reference to its religious roots. Every student should graduate with a basic familiarity with the history and sacred texts, codes, rituals, and shrines of the major world religions–Hinduism, Buddhism, Judeo-Christianity, and Islam.”

Also reprinted in Provocations is my long essay, “Cults and Cosmic Consciousness:  Religious Vision in the American 1960s” (an expansion of a lecture at the Institute for the Advanced Study of Religion at Yale). Here I argue that the massive influence of non-Western religions on the rebellious 1960s has been strangely forgotten. Zen Buddhism was a major theme in the 1950s Beat movement in San Francisco, which directly inspired the 1960s “counterculture” in that city. The hippie era was suffused with influences from Hinduism, which began in California when Ravi Shankar demonstrated the sitar at the Monterey International Pop Festival in 1967. (His electrifying performance can be seen in the documentary, Monterey Pop.) The spiritual floating notes of the sitar were soon heard throughout 1960s rock music, pioneered by George Harrison of the Beatles, whose group visit to India to study with the Maharishi Mahesh Yogi ended in fiasco.

My own practice as an interpreter of literature and art ultimately derives from anthropology, specifically “myth-criticism”, whose origins were in the impact of the late-nineteenth-century Cambridge School of Anthropology on psychologist Carl Jung. Also included in Provocations is my New York University lecture on the Jungian analyst Erich Neumann, whose 1955 book, The Great Mother: An Analysis of the Archetype, greatly influenced my first book, Sexual Personae (1990).

G.P. When I was young, I wanted to become an Egyptologist. Then I met Hegel, who fascinated me deeply. Then it was “archeology” all over again, which kicked in as a fundamental part to codify the world I live in at the end of my academic path. In my opinion, Sexual Personae comes from a similar instinct. History is essential for the study of complex events, do you agree?

C.P.  What a coincidence! I too wanted to be an Egyptologist. Archaeology was my first professional ambition, inspired by a childhood visit to the Metropolitan Museum of Art in New York. I was stunned and enamored by the magnificent red granite sculptures of a kneeling pharaoh making offerings to the gods. Only many decades later did I discover that the pharaoh was a woman – Queen Hatshepsut!

I later abandoned my goal of archaeology when I realized that all of the great monuments had already been discovered and that I would probably be doomed to reassembling broken pots, for which I had no patience. In response to your question, yes, knowledge of history is certainly crucial for all teaching and scholarship.  But ever since the rise of chic postmodernist “theory”, too many humanities professors have played amateur philosopher and irresponsibly discarded in-depth historical study.

G.P. Recently, in Italy, Blackie Edizioni published Simone Wade’s Foucault in California, a sort of ethnography about Michel Foucault’s first experience with LSD. It is said that when he returned to France, he threw away what he wrote up to that moment and started again from scratch, giving birth to what we know today as The History of Sexuality: he defined it as, and I quote, »the best experience of his life, the most introspective». Do you think, considering this event, that there could be room for a reinterpretation of Foucault’s previous works?

C.P. I have no respect whatever for Michel Foucault, whose knowledge was narrowly limited to Europe since the Enlightenment. Foucault knew nothing about classical antiquity or the Middle Ages, and his remarks about those periods are inaccurate and at times ridiculous.

My strong objections to Foucault and his disciples are contained at great length in my review-essay, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf”, which was reprinted in my first essay collection, Sex, Art, and American Culture (1992). Many people believe that Foucault was erudite, but he was not. He was severely deficient as a researcher of historical materials. In his narrow focus on the ideology of power, he had no instinct for art or aesthetics. He absurdly rejected psychology in his analysis of sexuality.

Furthermore, Foucault dishonestly concealed his enormous debt to the great sociologists Emile Durkheim and Max Weber. Durkheim, Foucault’s true source, had already studied prisons and penal codes and explored the principles of classification and taxonomy. There was a 1985 book by J.G. Merquior that amusingly exposed many of the elementary factual errors made by Foucault. As I said in “Junk Bonds”, some day people will look back, as we do at the eighteenth-century craze for Emanuel Swedenborg, and see Foucault as the Cagliostro of our time. But meanwhile let me simply say this: there are no women in Foucault. Has no one noticed?

G.P. In Italy, many believe in Gender Ideology – which is a hoax. Certainly, part of the blame goes to right-wing parties who constantly pushed and created appalling narratives about it. On the other side, I personally think that this was also a product of the absence of an open and accessible conversation from left-wing parties. We have had many leftist leaders who were far from people and class struggle, sealed inside their forced intellectual bubble and only showing on the outside their contradictions. How do we fill the gap that left-wing parties left?

C.P. Yes, I absolutely agree that many leftists, especially professors at U.S. universities, are often far removed from the people they claim to speak for. They do indeed inhabit an arrogant “intellectual bubble”.

When I was in college in the mid-1960s, I saw genuine leftists among my fellow students.  They were passionate in their beliefs and manner, and they spoke with the simple direct language of the working class. Academic leftism, in contrast, has too often favored grotesquely pretentious “theory” in an elite mandarin code.

I am certain that my own contempt for the snobbish language of postmodern theorists comes from my childhood experience among working-class Italian immigrants. All four of my grandparents, as well as my mother, were born in impoverished rural Italy–my mother’s family in Ciociaria and my father’s family in Campania. I was born in a small industrial town in upstate New York to which Italians had migrated to work in the vast shoe factory. One grandfather was a barber, and the other one was an expert operator of the difficult leather-stretching machine. Perhaps only direct, sustained personal contact of that kind can illuminate the authentic system of modern social class.

G.P. I would like to talk about writing and digital communication. I think that the endless space of the Internet allows us to go beyond discourses inside paragraphs and a limited number of words in newspapers and magazines. At the same time, it increases the spreading of fake news and their manipulation for propaganda. I think, for example, about the Cambridge Analytica scandal. What do you think of it and how can we prevent this from happening? 

C.P. The Web has revolutionized communications in both positive and negative ways. Yes, the “endless space” of the Internet is a liberation, but it is also a curse. In the U.S. media, there has been a severe decline in the quality of political and cultural commentary precisely because of the absence of space limits. When I was more regularly writing for mainstream print newspapers and magazines in the 1990s, I actually enjoyed the strict discipline of the word limit: condensing one’s article to a required 1000 or even 800 words gave great power and clarity. Today, in contrast, many analytic articles run on and on in a slack, dull way and with little discernible order. They are missing the final stage of stripping prose down to its essential argument.

I began writing for the Web very early–from the first issue of Salon.com in 1995. It is startling to remember that the Web was not taken seriously at first. Indeed, when I became a columnist at Salon, a prominent journalist at The Boston Globetold me that I was wasting my time and that no one in the major news media regarded the Web seriously. How things have changed! My 2003 essay “Dispatches from the New Frontier:  Writing for the Internet”, which describes my experiences at Salon.com, is reprinted in Provocations.

Unfortunately, the Web has destroyed or seriously wounded innumerable newspapers and magazines, which have lost their economic base and are fighting for survival. In the U.S., this has undermined smaller regional newspapers and increased the power of the corporate media based in New York and Washington, D.C., who are uniformly supporters of the Democratic party. I am a registered Democrat who questions or rejects much current Democratic dogma.

Today’s enormous problem of deceptive “fake news” and blatant propaganda is getting worse each year. Young people should be trained early in how to assess the credibility of news sources. I think there should be required classes in traditional formal logic at the public-school level. Students need practice in following sequential argument and in recognizing distortions, fallacies, and unsupported conclusions.

G.P. Lastly, a very straightforward question: could the reappearance of Fascism and neo-Nazism in Europe be suggesting that we haven’t learnt anything from history? And if so, how did this process take place?

C.P. The word “decadence” appears in the subtitle of Sexual Personae because I think that Western culture is currently in a “late” phase of gradual decline. Decadence is not a negative term for me: my book examines many examples of marvelous late-phase art, such as Michelangelo’s twisted, morbidly sensual Mannerist sculptures in the Medici Chapel.  Decadent style has recurrent characteristics such as androgyny, voyeurism and compression or distortion of space. I am strongly drawn to decadent art and its heroes, like Oscar Wilde and Andy Warhol.

However, history shows that late phases, as in imperial Rome or Weimar Germany, may trigger a reaction from militant nationalists calling for a return to the simple, stoic virtues of the distant ancestors. I think that is where we are now, as Western culture on both sides of the Atlantic has lost faith in itself and is being eclipsed by a rising force in Asia.

ARTICOLO n. 40 / 2023

PRODAJE SE

Un viaggio jugoslavo

Il viaggio è stato lungo, più lungo del previsto. Ceniamo al Poema di Popovača. Il nome italiano non fa presagire nulla di buono. Intorno a noi il buio della notte, rare case con i mattoni forati a vista. Nella sala che sa di fumo, due tavoli più in là, sta una coppia. Si vede che è una delle prime uscite. Ci trasmettono una certa tenerezza: i due si tengono la mano, chiacchierano, si scambiano sguardi languidi mentre la pizza di fronte a loro si raffredda. La nostra invece no. Appena ce la portano, la ingurgitiamo con appetito, cercando di non curarci che al posto del pomodoro c’è l’ajvar, una salsa di peperoni leggermente piccante, e che il prosciutto non è tra i più saporiti.

Solo al mattino capiamo davvero dove siamo. La villetta di fronte al nostro alloggio, a Potok, ha due leoni azzurri ai lati del cancello; potremmo essere in Veneto, pensiamo subito, se non fosse che attorno non vi è nessuna azienda a conduzione familiare, con relativa flotta di furgoncini bianchi e magazzino strabordante, nessuna bandiera autonomista, nessuna statale congestionata dal traffico. Solo campi, rimesse agricole, galline, case senza l’intonaco o fatte di legno annerito come baite mancate. 

Arriviamo a Podgarić che è ancora presto, dopo aver percorso una strada piena di curve tra alti alberi e improvvise aperture nella campagna. Facciamo colazione in auto: biscotti e succo di frutta che abbiamo acquistato poco prima in un piccolo negozietto che ci aveva sorpreso per l’ampia selezione di lumini da cimitero esposti in ingresso. Come se la morte qui fosse più diffusa di altrove. 

Tra la pioggia sottile che non smette di cadere, avvistiamo il primo spomenik, parola croata che su per giù significa “memoriale” o “monumento”. È in cima ad una collina, in un luogo assai scenografico. Lo raggiungiamo superando una recinzione e avanzando in un campo mezzo allagato. L’erba è zuppa, piena di funghi. Solo successivamente scopriamo che una stradina seminascosta ci avrebbe permesso di raggiungerlo più agevolmente. Con le scarpe sulla terra bagnata, pensiamo alle migliaia di mine che ancora infestano le campagne circostanti. 

La struttura alata, alta dieci metri e larga venti, trasmette tutta la forza del béton brut, la concretezza del reale e insieme un senso di mistero e di spiritualità. Il suo colore grigio ricorda quello dei pilastri delle tante casupole qui intorno. Proviene da un altro mondo, il monumento, e noi ci sentiamo soli, lontani dal nostro tempo. La patina di passato che lo ricopre (insieme al muschio, nella parte esposta a Nord) ci affascina, un po’ come può avvenire per effetto dell’estetica giapponese del wabi-sabi. Da quassù, dominiamo un paesaggio brullo, un piccolo laghetto artificiale su cui si distende un breve pontile di legno. L’Hotel Garić che vi si affaccia dev’essere pieno d’estate; ora è chiuso e silenzioso, sembra anch’esso abbandonato. Si sente solo il belare delle pecore che pascolano a valle, il suono dei nostri passi. Sarà per la voluta asimmetria dell’arco che sorge poco distante, una sorta di Stargate, per come le forme del monumento dialogano con le colline circostanti o forse per la pioggia, ma l’atmosfera è disturbante, malinconica, greve. Podgarić è stata base logistica e ospedaliera della Resistenza iugoslava; ai nostri piedi sono tumulati i resti di centinaia di partigiani e a giudicare dalla presenza di una corona di fiori ormai spoglia, qualcuno se ne ricorda ancora. Eppure il sito ci sembra destinato all’abbandono o, peggio, a diventare icona pop, sfondo per video musicali e spot pubblicitari. A Houston ne esiste già una versione fatta interamente di Lego.

L’intero territorio della ex-Jugoslavia è punteggiato da decine e decine di monumenti incredibili. Non stanno al centro delle piazze cittadine, ma là dove le battaglie, le stragi, le persecuzioni hanno avuto luogo (anche a opera di italiani, come a Podhum, vicino Fiume), quasi che la funzione del ricordare possa essere garantita anche, forse meglio, lontano dagli occhi della gente. 

Le forme e la simbologia di questi monumenti sono nuovi al nostro sguardo mediamente educato alla tradizione estetica occidentale; sono certamente vicini al brutalismo socialista e all’ideologia che promuoveva, ma in modo autonomo, come del resto relativamente autonoma è stata la Jugoslavia dall’Urss. Gli spomenik sono stati costruiti quasi tutti tra gli anni Sessanta e la fine dei Settanta, quando il governo titino cercava di rafforzare l’unità nazionale e di ricucire le ferite della guerra. Si trattava di ricordare le atrocità commesse durante l’occupazione nazi-fascista, ma anche, forse soprattutto, di dimenticare le divisioni etniche che di lì a poco sarebbero riesplose con tragiche conseguenze. Poi, a seguito del disgregamento della Federazione Jugoslava, queste testimonianze uniche sono state distrutte, vandalizzate o nel migliore dei casi abbandonate. Sono finite per parlare d’altro, ancora una volta. I memoriali eretti dal nuovo governo croato sono meno ambiziosi: piccole lapidi con una lista di nomi e il simbolo cristiano della croce.

Dopo pranzo (mangiamo un čobanac, il piatto dei pastori, uno stufato di carne tipico della Slavonia, un gulash più brodoso che scalda le ossa e l’anima), ci perdiamo nelle stradine secondarie verso il confine bosniaco. Case col tetto a spiovente curate in maniera maniacale (vasi di fiori coloratissimi disposti in ordine crescente, altrettanto ordinate cataste di legna da ardere), fienili e prati incolti scorrono nei finestrini. Prima veniamo seguiti dall’auto di una società di sicurezza privata, poi avvicinati da un furgone rosso di un bar (sic!) da cui scende un uomo che ci consiglia di andarcene: siamo in una zona calda, ci dice, è pieno di migranti che attraversano il confine proprio in questa strada. Siamo nel mezzo della cosiddetta “rotta balcanica” e non lo sappiamo. Premono sulle frontiere dell’Europa i disperati, mentre i potenti delle nazioni osservano il panorama imbarazzante delle migrazioni dai loro schermi. Li immaginiamo, gli oscuri burocrati, lavorare in sinergia per il nostro bene, per evitarci ogni seccatura; e gli agenti segreti che ascoltano con le cuffie lo stormire del vento, i fruscii delle foglie – le cimici sono state posizionate con cura – tentando di tracciare i movimenti di chi attraversa i fiumi, le montagne, i confini.

A Jasenovac l’impressione di sacralità è ancora maggiore; e molto più mesta, sarà anche per il treno posto poco distante che ricorda tante altre tragedie del Novecento. Il camminamento che conduce allo spomenik è fatto di traversine ferroviarie. Siamo nel luogo dove sorgeva uno dei più importanti campi di sterminio del collaborazionista Stato Indipendente di Croazia. Qui, per mano del regime degli ustascia, hanno trovato la morte un numero imprecisato, ma altissimo, di serbi, ebrei, zingari e comunisti. L’enorme fiore di cemento alto più di venti metri ideato da Bogdan Bogdanović ci pare bello soprattutto per come dialoga con il resto del paesaggio (il verde dei prati, la campagna). Sull’erba, cumuli e depressioni circolari sorgono in corrispondenza degli edifici del campo ora scomparsi – esempio ante litteram di land art? – come se la terra ribollisse e la vita potesse risorgere. È un monumento di resurrezione, quello che abbiamo di fronte, possente eppure armonico. Un inno alla vita celebrata in modo assai meno didascalico di quanto possa sembrare. In una sua intervista, Bogdanović racconta che la scelta del fiore è stata dettata anche da ragioni di opportunità politica: si trattava di ricordare, appunto, senza alimentare odi etnici e religiosi. Su internet vediamo delle foto dell’inaugurazione del 1966: una folla di persone, come mossa da un’invisibile mano, si accalca lungo le ali di cemento, quasi a volersi unire alla struttura. Il sito, questa volta, non è abbandonato. Ci sono anche delle indicazioni turistiche. Eppure siamo soli, ancora. 

Dopo aver risolto qualche problema con i colori della Polaroid, piccolo vezzo vintage che ci permettiamo, ripartiamo verso Osijek. Come sempre amiamo perderci; è il nostro modo di comunicare con i luoghi, soprattutto con quelli più reticenti. Prendiamo una stradina sterrata che costeggia il fiume Sava che separa Croazia e Bosnia. Sul nostro percorso troviamo numerosi ostacoli: rami e tronchi caduti, strettoie, buche, fango. Ogni oggetto qui è un confine tra noi e il resto, tra noi e la natura che ci appare improvvisamente selvaggia e indomabile. Sulla sponda bosniaca del fiume si intravedono celati accampamenti, tende solitarie erette, immaginiamo, per riparare qualche povera provvista, i resti di un falò di chi nottetempo ha tentato la fortuna a nuoto.

Tra pochissimo il sole sarebbe tramontato. Ma a tratti la Sava compare tra le fronde placida e bellissima, del colore dell’oro, poi sempre più rossastra, come le foglie multicolori degli alberi. La conversazione tra noi si fa più rada. Osserviamo con ansia le mappe sui telefoni che non hanno campo. Il ponte che avrebbe dovuto immetterci nuovamente in una strada conosciuta è crollato. Ne rimangono solo i pilastri al centro di un canale secondario. Prendiamo in considerazione l’ipotesi di tornare indietro, ma la strada è troppo stretta. Non ci rimane che avanzare lungo questo confine, tra i versi lontani di animali sconosciuti.

Al crepuscolo, due cavalli ci sbarrano la strada. Uno è bianco, l’altro baio, maestosi si stagliano nello spazio. Fermiamo il furgoncino, spegniamo il motore, scendiamo. Loro non si muovono di un centimetro. Ci guardano con i loro occhi grandi, puri, non ci stanno giudicando, ci guardano come se fossimo due uomini e basta. 

Per la maggior parte di noi Croazia significa il mare di Krk, le spiagge di Pag, le feste a Novalja, le code al confine la settimana di Ferragosto, l’Istria e le gite in barca. Sappiamo però che i Balcani sono la porta tra la nostra casa e l’Est Europa, sempre misterioso e affascinante. Nei nostri ricordi d’infanzia portiamo le spore di guerre dimenticate, qualche nome, suggestioni che facciamo fatica a organizzare, ma che ci rendono questo mondo non del tutto alieno.

Il fiume è come tutti gli altri. Quali significati porta con sé l’idea di fiume? L’acqua appena rotta in superficie trasporta zolle di terra bruna, rami, cadaveri di piccoli animali. L’aria è umida. Una costellazione di boe lontane brilla come la schiena del mare alla luna. Ripensiamo all’organo marino di Zara: le brevi onde comprimono l’aria in canne invisibili; il suono è sublime, echeggia nel vuoto, una musica del tutto inumana, eppure così naturale. La stessa che sentiamo ora.

Nel bosco, dopo parecchi minuti di auto, la seconda epifania: vediamo una dozzina di uomini silenziosi fissare la foresta. La loro presenza incongrua ci inquieta. Sono disposti a circa venti metri uno dall’altro. Guardano tutti nella stessa direzione, non verso il fiume, il fiume che di solito è perfetto per le razzie dei pesci gatto che mangiano uccellini morenti, gatti, piccoli roditori per poi essere cucinati sulle braci, ma verso l’interno. Non capiamo il perché di questa postura. Abbiamo letto dei respingimenti illegali e inumani, di una bambina morta nel fiume Dragogna (stavolta tra Croazia e Slovenia) nel tentativo di oltrepassare un altro confine. Vicino a noi, una bambina ha lasciato la mano della mamma mentre era in mezzo al fiume, la corrente l’ha trascinata via, il suo corpo non si è neppure trovato, naviga sul Danubio o forse addirittura in mare aperto. Ci domandiamo: se un migrante sbucasse improvvisamente da quei rami laggiù, salisse rapidamente quest’argine e ancora bagnato, con occhi supplicanti ci chiedesse aiuto, che faremmo? Cominciamo a precisare: aiuto per cosa? Per raggiungere il primo villaggio o per raggiungere l’Italia? Un modo come un altro per aggirare la questione. Che faremmo se qualcuno ci chiedesse aiuto? Tenderemmo la mano a quella bambina? Quello che pensiamo di essere coincide con quello che siamo davvero?

Dopo un’ora di sterrato, sbuchiamo in un piccolo villaggio di stalle, trattori e di case a un piano. Siamo inseguiti da un’auto grigia, che poco dopo accende i lampeggianti. Il primo contatto con il mondo lasciato il fiume è la polizia in borghese. L’agente in tuta da ginnastica grigia scende dall’auto. Ci chiede un sacco di informazioni: chi siamo, dove andiamo, che cosa fotografiamo. In effetti non siamo venuti per i migranti, non siamo venuti nemmeno per gli spomenik. Perché allora siamo venuti? Ci fa aprire le borse, il cruscotto. Alla fine l’uomo, serio, ci intima di andarcene. Questo non è un buon posto dove stare.

Proseguiamo verso Osijek allora, via da quel confine. Alloggiamo in una casa a un piano, fuori città. La proprietaria per l’occasione si è trasferita dalla figlia nella casa a fianco. È una donna grassa e rubiconda. Ci dona delle merendine a forma di orsetto ripiene di latte condensato appena ci vede, forse le sembriamo sciupati. Alle pareti della casa ci sono i ritratti di quelli che immaginiamo essere i suoi figli e i nipoti (in uno scatto, uno indossa la divisa jugoslava da marinaio); qualche libro, qualche vecchissima guida del parco naturale lì vicino, una serie di amari e liquori pieni di polvere nella vetrinetta della cucina che non assaggiamo. La signora esce da casa della figlia con un modem in mano, da cui pende un cavo. Internet! Internet!, ci dice, come fosse una ricchezza inestimabile. Si vede che ci tiene a darci un buon servizio.

Il giorno dopo, ci perdiamo a Nord della città capoluogo della Slavonia, tra campi percorsi da una rete di canali e le paludi del parco naturale. Non possiamo non sentirci a casa: potremmo essere tra le barene della nostra laguna, sugli argini del Delta del Po. Pescatori in giubbotto mimetico sono in fila sulla riva di un canale. Visti da lontano, con il binocolo, fanno impressione. Sembra sia in corso una manifestazione sportiva, un torneo. E poi rane, ricci, lontre, casette per il bird watching dappertutto.

Nel vicino paese di pescatori, Kopačevo, ogni casa ha una carpa disegnata sulla porta. Le campane della chiesa bianca, appena vicino all’unico bar, la domenica suonano per dieci minuti almeno. La carne grassa del pesce gatto sfrigola nella cucina di qualche taverna. Edifici fatiscenti o non finiti recano non sappiamo con quale speranza la scritta Prodaje se (si vende), mentre incongrui e sbiaditi cartelli turistici punteggiano questa desolazione. Passeggiamo per il paese: un’unica strada su cui si affacciano case e anziani sospettosi. Ci accompagnano due cani randagi: uno è grande e slanciato, l’altro più tozzo si muove a fatica. Istintivamente ci è simpatico. Il posto ci sembra allegro, con le sue case basse, colorate, con le sue carpe disegnate, con le campane che suonano per un tempo lunghissimo.

Invece Vukovar è scura e seriosa; città martire della guerra di indipendenza croata del ’91. La torre idrica, quasi distrutta dalle bombe, è stata conservata per ricordare la passata devastazione. Al centro, un enorme albergo abbandonato conserva i segni della battaglia, come molte altre abitazioni. Il Danubio è bellissimo a quest’ora, il confine con la Serbia si accende dei colori del tramonto. Immaginiamo di percorrerlo tutto, di arrivare a Belgrado e poi proseguire fino al mar Nero. I pescatori in riva al fiume si scaldano accedendo piccoli fuochi sui massi dell’argine artificiale. A giudicare dalla loro età, tutti hanno vissuto giorni terribili, non riusciamo a non pensarci. Da noi sono ormai pochissimi quelli che possono dire di aver visto direttamente la guerra. Come può vedere il mondo, o anche solo un fiume che è un confine, chi ha vissuto un assedio di ottantasette giorni?  

Al parco Dudik c’è l’ennesimo spomenik. Cinque coni alti 18 metri, sormontati da una punta di rame e circondati da monoliti a forma di barca, quasi che sotto l’erba ci fosse una città sommersa di cui restano appena visibili pinnacoli misteriosi, come il campanile del lago di Resia. Non vi è alcuna indicazione. Il sito, recentemente restaurato su pressione della comunità serba, è in evidente stato di abbandono. Qui è avvenuta una delle più cruente esecuzioni di civili per rappresaglia contro la Resistenza partigiana. Nel boschetto di gelsi (Dudik) dove siamo, c’erano le fosse comuni. Per terra, giacciono i resti di qualche passata commemorazione, una corona distrutta con scritte in cirillico (che qui è sempre più mal sopportato). Stando alle indicazioni di Bogdanović, il progettista è ancora lui, il visitatore dovrebbe arrivarci come arriverebbe alla leggendaria tomba di Porsenna. Tutti questi monumenti, in effetti, implicano una esplorazione e una scoperta. Se fosse voluta, l’assenza di indicazioni sarebbe geniale. 

Vicino, in un campo di calcio non recintato, si gioca una partita. Il silenzio è irreale. Anche il pubblico tace assorto nel sole freddo. Sentiamo i calciatori ansimare. Poi un urlo improvviso: la squadra di casa ha segnato. La partita finisce poco dopo, pacche sulle spalle. Più in là, il muro di una casa è perforato da numerosi proiettili, una barca giace sul ciglio della strada non si sa da quanto.

A cena mangiamo un pesce gatto che non avremmo mai mangiato in altre occasioni. A casa, osserviamo con un certo disgusto i pochi pescatori che si affacciano sul Fratta Gorzone, il corso d’acqua più inquinato d’Italia, denso e grigio, per pescare questi bestioni infestanti che hanno la carne grassa con un riconoscibilissimo sentore di fango. Prima di ripartire tentiamo di acquistare una zucca; sono esposte in una carriola appena fuori dal nostro alloggio. Ma le kune mancano e non c’è modo di pagarla in altro modo. 

Attraversiamo la frontiera bosniaca a Bosanska Gradiška, superando un ponte sulla Sava, il fiume che avevamo precedentemente costeggiato. La fila infinita di Tir in attesa dei controlli doganali ci fa capire che stiamo uscendo dall’area Schengen. Giungiamo a Banja Luka, capitale della Republika Srpska, una delle due entità territoriali in cui è stata divisa la Bosnia ed Erzegovina dopo la guerra, quella a maggioranza serba. Durante la cena, in un locale fumoso, ubriachi in tuta da ginnastica e giovani donne vestite di tutto punto ridono sguaiatamente. Pensiamo che qui morte e vita debbano presentarsi in forme estreme, grottesche. Le famiglie non possono che essere quelle descritte da Danilo Kiš.

Scendiamo verso Sud. La strada si distende tra montagne rocciose, boschi, verdissime colline. La natura forte e impenetrabile non pare adatta ad ospitare l’uomo. Eppure avvistiamo, uno dopo l’altro, piccoli fuochi ardere tra le valli apparentemente disabitate, colonne di fumo che ci fanno percepire l’umano per indizi. Nei rari centri abitati, altri fumi. Sono quelli dei fuochi accesi per distillare la rakija, bevanda nazionale, quasi sempre prodotta da prugne o mele fermentate. Enormi alambicchi in rame stanno sui cortili delle case, come delle piccole locomotive ferme alla stazione. Uomini sono accovacciati attorno alle fiamme, come i pescatori di Vukovar.

Entriamo nella cosiddetta Federazione croato-musulmana. A Donji Vakuf i cimiteri islamici sono a bordo strada. Lapidi semplici a forma di piccolo obelisco riportano solo il nome del defunto. Nessuna foto. Sono dappertutto: vicino ai cortili delle case, sul ciglio della strada; i cimiteri sono diffusi e non protetti da alcuna barriera visiva – muretto, recinto, alberi – quasi che fosse inutile nascondere la morte, radunarla in luoghi specifici per toglierla dalla vista. Il sepolcro è elemento del paesaggio che però ci appare tutt’altro che mortifero. Nei pressi di una moschea, alcuni ragazzi grigliano la carne a pochi passi dalle sepolture. Ridono e scherzano e sorprendentemente non ci sembra irrispettoso.

Sulla collina Smetovi si gode della vista completa sulla città di Zenica. Da quassù brillano al sole le finestre dei lontani palazzi e le colonne di fumo bianchissimo che escono dalle tante ciminiere della zona industriale. Alle nostre spalle, l’ennesimo spomenik: una sorta di enorme cavatappi costruito nel ’68 e poi ricostruito in anni più recenti dopo essere stato distrutto. Qui i cetnici massacrarono più di trenta combattenti partigiani impegnati contro l’occupante nazi-fascista. La collina oggi è un luogo di aggregazione: troviamo decine e decine di famiglie, ciascuna con tavolo, sedie, asciugamani. Tanti sono i musulmani: le donne portano il velo e gli uomini non bevono birra. Un gruppo di amici sta cucinando fagioli e stinco di vitello. Uno di loro, che ha vissuto per venticinque anni in Texas, ci informa che il tempo di cottura è stimato in 4 ore. 

La notte è tesa, un vestito appena stirato pieno di strappi. Nel piccolo paese che attraversiamo, la locanda è illuminata a fatica, i morsi delle tenebre non lasciano scampo alle lampare. Entriamo trattenendo il respiro. Un solo tavolo dove quattro uomini mangiano stancamente (occhi acquorei per il fumo, braccia possenti e sporche, bocche deformate da sorrisi alcolici, una è deturpata da una cicatrice). Ci avviciniamo al bancone. Un cameriere anziano e panciuto sta lustrando posate e bicchieri. È possibile mangiare qualcosa? La fame ci attanaglia, ci morde lo stomaco, un modo come un altro per sentirsi umani e mortali. Seduta ad un tavolo, persa nell’ombra, una donna fuma silenziosa. Il cameriere ci pensa un po’, poi fa un cenno affermativo con la testa. Ci fa accomodare ad un tavolo tra gli altri sparecchiati. Dalla finestra vediamo la strada che si perde nel vuoto, la nostra immagine riflessa sul vetro. La sovrapposizione delle immagini è perenne, il mescolamento impossibile. Più in fondo, i resti di una gru dimenticata, un paio di vagoni ferroviari trasformati in stalle. L’oste arriva poco dopo. Ci apre il menù sotto gli occhi, non parla. Lo scambio è ridotto ai minimi termini. Questo, almeno, bisognerebbe imparare: adottare una comunicazione sostenibile, amica dell’ambiente. Decifriamo solo in parte le lettere che compongono una lingua straniera; le pagine sono unte, le sfogliamo con due dita. Antipasti, piatti di pesce, piatti di carne, contorni. Non riusciamo a deciderci, non abbiamo voglia di leggere. Quando torna, dieci minuti dopo, ordiniamo la prima cosa che ci viene in mente. Lui dice che non c’è scuotendo la testa. Indichiamo un’altra pietanza. Non c’è neppure quella. Allora interviene indicandoci un piatto, un singolo piatto, l’unico disponibile. Ci arriva una brodaglia rossastra nella quale pezzi di carne galleggiano qua e là come scogli perduti, iceberg fumanti. Mangiamo lo stufato con il pane, sollevati, finalmente, dall’assenza di scelta. 

Il giorno seguente, facciamo colazione all’Hotel Pino di Sarajevo; è un albergo di lusso immerso nella natura. Potremmo essere in Alto Adige. Lì vicino ci sono i resti del villaggio olimpico che ospitò i giochi invernali del 1984. La pista da bob abbandonata è diventata un’attrazione per turisti; noi la vediamo di sfuggita, nascosta testimonianza dell’esistenza di un paese che non esiste più e che non abbiamo conosciuto. L’intera città, la capitale multietnica e affascinante, non ci si svela. Sembra nascondere le tracce di quell’assedio sanguinosissimo e logorante di cui abbiamo solo letto.

Il mercato di Džemala Bijedića è un tumulto di persone di tutte le età ed etnie. La gente si accalca tra bancherelle di montagne di vestiti, scarpe, cappelli, cinture, orologi, attrezzi di ferramenta. Qualcuno si prova un vecchio cappotto in vendita per pochi marchi. Tre donne stendono un lenzuolo al sole per tastarne la qualità. Sorrisi sdentati, mani tremanti, qualcuno azzanna le solite salsicce ficcate dentro a panini scaldati sulla griglia. Ci sembra impossibile comprare qualcosa, eppure in questo mercato, tra questi volti, c’è quello che stiamo cercando. Allontanandoci, incontriamo una signora dall’aria dignitosissima; espone su un telo ciò che ha da vendere: due paia di calzini, una bambola sporca, qualche forcina per capelli.

A Vogošća l’ennesimo monumento. La città è stata una delle più colpite dalla guerra civile che ha dilaniano il paese tra il ’92 e il ’95. Nessuna informazione, solo una struttura rettangolare di cemento con incisioni e bassorilievi. Al centro si apre una ferita, uno squarcio: potrebbe rappresentare il dolore che non si rimargina o forse la forza vitale che continua a uscire da quella che è a tutti gli effetti una cripta. Da sopra la collina dove sorge lo spomenik si vede la nuova moschea, bianca, col minareto di vetro. Assomiglia a una piscina. Un gruppetto di giovani che fumano marijuana ci osserva indifferente.

Ritorniamo verso Nord. Lungo la strada le presenze antropiche sono come al solito scarse. Il terreno è pieno di doline e depressioni. Qualche venditore di miele o di cavoli cappucci. Arriviamo a Bihać che è sera, dormiamo in un appartamento vicino a un fiumiciattolo e una piccola cascata. La memoria, ancora. Bihać è stata protagonista di episodi particolarmente cruenti durante la Seconda Guerra mondiale (è stata liberata e poi riconquistata dall’Asse) e poi durante la guerra civile, quando in lungo assedio morirono migliaia di persone. 

La mattina raggiungiamo la collina di Garavice, appena fuori città, dove c’erano le fosse comuni. La nebbia è fitta. L’erba cresce alta, libera, come da noi non succede più. Parcheggiamo il furgone e raggiungiamo il monumento camminando sull’erba, come era successo a Podgarić. L’emozione è forte, intensa. Dalla nebbia, una dopo l’altra, emergono alcune colonne fatte di blocchi di cemento giustapposti. Tredici in tutto. Ci ricordano le enormi statue dell’Isola di Pasqua. Un sentiero ci passa in mezzo, creando così quello che ci sembra un percorso di ascesa e purificazione. L’aria fredda ci riempie i polmoni. Bogdanović (il progetto è ancora suo) le chiamava “le sue donne”, figure in lutto, meste, sebbene prive di connotati umani. Anche qui mancano pannelli informativi, qualsiasi simbolo religioso o nazionale. La salvezza, se esiste, è fuori dall’identità, dal senso di appartenenza. È nelle cose, nella loro silenziosa presenza. In questa sorta di Stonehenge della morte sono le forme a parlare. Tornando, notiamo i resti di un falò, qualche bottiglia di vodka. 

Il viaggio, come ogni viaggio, non si conclude una volta tornati a casa, anzi. Le immagini accumulate lievitano nel cervello. Portiamo con noi la disarmante malinconia emanata da questi luoghi, diffusasi come un vento radioattivo, i colori così diversi da quelli mediterranei, una piantina che morirà poco dopo e un sacchetto di cioccolata con i canditi, dolcissima e indigesta, che pure non abbiamo il coraggio di buttare. Proseguiamo, quindi, a camminare guardinghi tra i nostri pensieri inesplosi.

ARTICOLO n. 39 / 2023

DESERTO VERDE

Pubblichiamo un’anticipazione dal volume L’Anno del Fuoco Segreto (Bompiani) a cura di Edoardo Rialti e Dario Valentini, che ringraziamo. Il volume sarà in libreria il 17 maggio.

Siamo tutti bambini nel bosco, perduti, abbandonati. Sussultiamo a ogni rametto spezzato, ogni fruscio degli alberi è una mano tesa a proteggerci o forse a ghermirci. 
La scienza evolutiva e le immagini della religione si sovrappongono, rigirano tra le mani lo stesso oggetto scuro, sbozzato, come un manufatto ultraterrestre o una concrezione lavica nel quale pare di scorgere un volto dalla bocca spalancata. Siamo scimmie spaventate, il giardino dell’Eden è sbarrato alle nostre spalle, una spada fiammeggiante ci separa dal riposo e dall’abbraccio universale, la coscienza della nostra nudità ci esalta e ci umilia. Cerchiamo di leggere il mondo e vi proiettiamo speranze e minacce, sogni di comunione la cui dolcezza sbiadisce al risveglio, orrori e crudeltà che ci attirano come falene al fuoco. Gli uccelli cantano, il buio ci osserva. Avanziamo incerti su gambe malferme e ai bordi dei nostri desideri avvertiamo la pressione di tutto quell’oltre, lo popoliamo di demoni e dei. Ragazze emergono dalle nubi e ci tengono le braccia. Scarpette rosse ci fanno ballare fino a sanguinare e scavare una tomba nel terreno. Mozziamo la testa ai bambini e la chiudiamo in una cassa dove continuano a chiamarci con un pigolio. Facciamo l’amore con lupi e serpenti d’acqua. Infondiamo la nostra vita in un oggetto, lo riveliamo a chi lo spezza sotto il tacco. Ci svegliamo al mattino per scoprire che il nostro amore è stato portato via, o che lo abbiamo ceduto noi stessi al re della morte per ottenere un giorno in più sotto il sole.
I processi di razionalizzazione individuali e collettivi ci fanno incanalare le infinite varianti, tutte vere, tutte false, in percorsi lineari. La realtà e le storie diventano rette parallele o perpendicolari, finiscono bene o male, rassicurano la domanda sottesa: È vero? 
Dividiamo i racconti in generi, come altrettante finestre da cui affacciarsi sul mondo e noi stessi. 
Una storia deve essere tale per essere raccontata, eppure non è solo tutto ciò che in essa è taciuto a darle spessore autentico, ma anche l’infinita tempesta delle possibilità alternative, i suoi tradimenti e rovesci, l’irruzione di tutto ciò che pare contraddirla, come un viso angosciato allo specchio che si veda rispondere da un sorriso nel riflesso. 
Le definizioni aiutano e al tempo stesso limitano e uccidono. Si costruiscono templi solo per scoprire che alla fine il fuoco del sacrificio è sprezzato dal dio, che nel frattempo è volato via.


Edoardo Rialti, Dario Valentini

L’uomo davanti a lei era bendato, non poteva vederla. Aveva una mano legata alla sedia, era troppo distante, non poteva colpirla. E l’interrogatorio andava avanti da ore, senza nessun esito, solo quattro parole ripetute costantemente, ossessivamente, come un mantra, come una verità. La tenente Soledad Valverde si accasciò – il viso sul tavolo di plastica verde scheggiata, il contatto fresco di quella superficie sulla guancia – e si prese la testa tra le mani. Non fu che un attimo, si tirò su, si massaggiò le tempie. Aveva male alla testa e bisogno di bere, ma la bottiglia che aveva accanto – anch’essa di plastica, riutilizzata mille volte e probabilmente ormai tossica – era vuota.

I suoi compagni sarebbero stati ancora dall’altra parte dello specchio spia, a guardarla, a ridere dei tentativi di interrogatorio che con tanto accanimento aveva cercato di portare avanti? O se ne erano già andati e ora si stavano ubriacando nella cantina più vicina, con qualsiasi cosa riuscissero a trovare, qualsiasi cosa si potesse distillare dalla selva?

Tutte quelle ore non erano state altro che uno spreco di energia, di aria ed elettricità – la lampadina che illuminava debolmente eppure ferocemente quella sala sotterranea sporca e spoglia, l’impianto di aria condizionata quasi al limite delle forze, era quasi meglio ai tempi del vecchio ventilatore a pale, ma ormai non funzionava più, pendeva dal soffitto, inutilizzato, con quella che si sarebbe detta mestizia – e uno spreco anche delle sue, di forze. Non aveva funzionato. Per quanto le ripugnasse, alla fine di quella giornata, e mancava poco ormai, non avrebbe avuto altra scelta che affidare il prigioniero ai suoi compagni. La tenente María Mendoza avrebbe riso di lei, era l’unica altra donna della squadra, e la più feroce di tutti, donne e uomini. Sarebbe stata lei a incaricarsi delle torture, avrebbe preteso che Soledad assistesse, che imparasse il mestiere una buona volta, come diceva, con un sorriso splendido – perché María Mendoza era davvero bellissima – che si torceva in un ghigno, o almeno così sembrava a lei, Soledad. Era lei sola a vedere quello che vedeva, a incarnare la solitudine che sua madre le aveva impresso addosso nel nome? Ma questa soddisfazione no, non gliel’avrebbe concessa. Avrebbe chiesto il trasferimento per l’interno della selva, per il minuscolo villaggio di Las Luces, dove era cominciato tutto. Al comando temporaneo avevano bisogno di unità e più volte le avevano fatto capire che la sua domanda, se l’avesse presentata, sarebbe stata accolta con procedura immediata, forse con te parleranno, le aveva scritto il capitano Morales dall’accampamento. Forse anche io, non aveva scritto, potrei parlare di nuovo con te, se tu venissi qui, se tu tornassi, Soledad.

Davanti a lei, l’uomo – il suo nome era Elías Hayes – restava immobile come era sempre stato, un braccio appoggiato al tavolo, ripiegato davanti a sé, l’altro trattenuto dai legacci. Anche il sudore gli colava lentissimo sul viso. Era come se avesse rallentato di proposito la circolazione del sangue, ma come era possibile una cosa del genere? Il fascicolo che la squadra – di cui oggi anche lei, Soledad, faceva parte – aveva iniziato a compilare tanto tempo fa diceva che Elías Hayes praticava la meditazione vipassana. Forse era quella la ragione. La benda nera e sudicia che gli copriva gli occhi lasciava vedere tratti bruniti dal sole. Aveva più di sessant’anni, diceva ancora il fascicolo, lo confermavano i capelli grigi in cui spiccava ancora solo qualche ciocca spessa e nera. Era tarchiato e doveva essere più forte di quanto non sembrasse. Soledad rilesse le frasi per quella che le sembrò la millesima volta, avrebbe potuto ripetere il fascicolo a memoria se avesse voluto.

Elías Hayes era stato diplomatico per gli Stati Liberi all’epoca della loro fondazione, trenta o trentacinque anni prima, quando pezzi e pezzi di America Latina si erano strappati dalle nazioni a cui appartenevano per fondersi insieme, e sogni di libertà e giustizia sociale avevano accompagnato quella come tutte le altre rivoluzioni del passato. Trentacinque anni dopo, ne rimaneva ben poco, questo Soledad lo sapeva bene, questo non compariva nel fascicolo di Hayes, che era stato aggiornato al “caso Quinn”. Dopo la morte improvvisa della moglie Rocío in un’aggressione in Sudafrica, Hayes aveva lasciato l’incarico ed era diventato senza fissa dimora. Aveva molti amici in Europa, nei paesi dove era stato distaccato sia prima che dopo la nascita degli Stati Liberi, in Spagna soprattutto e in Francia. Poi aveva trascorso qualche anno in India, forse addirittura in Birmania. Di tanto in tanto veniva avvistato e segnalato, anche se il fascicolo era incompleto, e la ragione delle segnalazioni non era riportata. I fascicoli erano sempre incompleti in quel modo, e negli anni, Soledad aveva imparato a decifrare le assenze, il vuoto, ciò che non veniva messo nero su bianco. In questo caso, però, non ci riusciva, o non completamente.

Le segnalazioni si infittivano dalla data di pochi mesi prima, quando improvvisamente e senza motivo apparente Elías Hayes era rientrato in patria e si era stabilito nel villaggio di Violeta, nelle case di lamiera o baracche che sorgevano a poca distanza dall’edificio della capitanía dove si trovavano adesso. Aveva accettato l’invito di un amico antropologo, Ian Medina Quinn, che da qualche anno si era stabilito a Violeta, anche se conduceva le sue esplorazioni soprattutto nella zona di Las Luces, nell’interno della regione. Tra i due c’era una qualche differenza d’età, ma anche una solida amicizia. Stando al fascicolo, Hayes e Medina Quinn si era conosciuti quando Hayes era in carriera diplomatica in Spagna. Medina Quinn, la cui madre si era ritrovata in mano il passaporto degli Stati Liberi per lo ius sanguinis, aveva lavorato qualche anno in Ambasciata mentre completava gli studi. Poi Hayes era ripartito per nuova destinazione e Quinn aveva proseguito il percorso accademico, fino a diventare un’autorità nell’ambito della ricerca su quelli che allora si chiamavano, con una terminologia che Soledad non poteva impedirsi di trovare razzista, indigeni non contattati. Negli anni, il campo d’indagine di Ian Medina Quinn si era ristretto a poco a poco, a mano a mano che gli ultimi esponenti delle tribù amazzoniche che avevano evitato, o coscientemente rifuggito dopo pessime esperienze risalenti magari a qualche secolo prima, l’incontro con l’Occidente in una qualsiasi delle sue molte forme, erano entrati inevitabilmente in contatto con il mondo tecnologico avanzato, il mondo di cui anche lei, Soledad, faceva parte, nonostante tutto. E nonostante tutto in quella stanza, fuori da quella stanza, nella capitanía, i villaggi di Violeta e di Las Luces ma anche la stessa capitale, le sembrassero nient’altro che rovine, o forse reliquie sopravvissute di una civiltà sul bordo del collasso. Pochi paesi avevano riconosciuto gli Stati Liberi, c’era stato l’embargo, certo, ma… Soledad si scrollò quei pensieri di dosso, si costrinse a continuare, ancora una volta, la lettura. Doveva esserci, in quel dannato fascicolo, qualcosa, una traccia, una pista, un enigma che non aveva ancora scovato.

In un articolo molto discusso, uscito diversi anni prima su uno dei principali quotidiani del paese, La Voz que es nuestra, Medina Quinn aveva sostenuto che, per quanto la fondazione degli Stati Liberi fosse sembrata offrire, nei primi anni, speranze di sopravvivenza nei propri modi di vita per tutti gli indigeni dei nuovi territori – minacciati dall’industria estrattiva e da quella del legname, dal contagio culturale come dalle nuove malattie, dall’abbattimento di zone sempre più ampie di foresta amazzonica, dall’inquinamento delle acque, dall’estinzione degli animali, dalla catastrofe climatica già diventata semplicemente per tutti l’oggi, qui – ormai si poteva dare per assodato che le politiche del governo di Ciudad Dorada – perché così si chiamava, pomposamente, pensò Soledad, la capitale degli Stati, la città d’oro, come l’Eldorado sognato dagli antichi conquistadores, dai pazzi e dagli esploratori anche se quasi tutti la chiamavano semplicemente Dorada, come se fosse un’orata d’allevamento – non avevano più nulla di diverso da quelle di altri stati, del presente o del passato, alle prese con la stessa questione.

Medina Quinn non lo diceva apertamente, certo, il suo era un articolo scientifico e quasi tecnico, intessuto di dati e numeri, ma le conclusioni erano chiare. Per i non contattati, chiunque fossero, qualsiasi cosa veramente volessero, non c’era più spazio, non c’era più tempo, e dunque neanche speranza se anche questa deve per forza annidarsi in una piega dello spaziotempo piegato dall’oggetto che siamo noi, pensò Soledad sentendo ravvivarsi nella mente, con una fitta, i ricordi degli studi scientifici che avrebbe voluto proseguire presso l’Università di Dorada, e che aveva dovuto abbandonare quando suo padre era morto, investito per strada, e lei aveva intrapreso la carriera militare, per ritrovarsi in quella piega esatta, lì, in quella stanza, dopo ore di interrogatorio, davanti a quell’uomo. Elías Hayes, che doveva sapere che fine avesse fatto il suo amico Medina Quinn, dopo essere scomparso nella selva, Ian Medina Quinn e i suoi specchi, e che cosa c’entrassero, se davvero c’entravano qualcosa – perché per quanto i suoi superiori ne fossero convinti, a titolo personale Soledad Valverde si concedeva di dubitarne – con le misteriose apparizioni di luci in cielo che forse avevano dato il nome, decenni e decenni prima, al villaggio di Las Luces nelle profondità della selva e che ora, subito dopo l’arrivo dell’antropologo, e poi del suo amico, avevano ricominciato a infestare il cielo, terrorizzando gli abitanti e i loro animali.

Uno di quegli specchi, l’unico che era stato ritrovato nell’abitazione di Medina Quinn a Violeta, dove Hayes si era installato al suo arrivo, era davanti a lei, coperto da un panno, che Soledad sollevò. Era uno specchio antico, di fattura ottocentesca o forse ancora precedente, la tenente non avrebbe saputo dirlo, non sapeva niente di storia dell’arte. Lo specchio doveva essere di bronzo. Con qualche cautela Soledad vi cercò il riflesso del suo viso. La superficie che avrebbe dovuto essere riflettente appariva invece completamente oscura, brunita più del metallo dell’incastonatura, e la luce vi annegava. Con una rapidità dettata da un ingiustificato, si disse, timore, Soledad rimise il panno al suo posto. Da dietro l’altro specchio, lo specchio spia, le giunse qualcosa all’udito, un rumore, forse i suoi compagni erano tornati, forse solo María, e si stava godendo lo spettacolo. Era ora di riprendere l’interrogatorio.

I fatti, apparentemente – Soledad li ricapitolò per l’ennesima volta a beneficio del suo muto, passivo interlocutore – erano questi.

Dopo l’uscita dell’articolo, e le polemiche che aveva suscitato, Ian Medina Quinn era stato oggetto di aggressioni, in uno o due casi anche molto violente, da parte di gruppi estremisti. Cogliendo – o forse avendo provocato? – questo meraviglioso pretesto, con la scusa della sua sicurezza la capitanía generale della regione lo aveva messo sotto discreta sorveglianza, più discreta e più intensa di quanto non fosse già la vigilanza a cui era da tempo sottoposto. Da parte sua, il governo centrale aveva avanzato all’illustre studioso straniero – Quinn aveva la doppia cittadinanza, degli Stati Liberi per via materna ma anche europea, per parte di padre – l’offerta di una scorta, che era stata rifiutata, perché avrebbe interferito con le ultime possibilità di portare avanti gli studi a cui aveva dedicato gli anni e la vita. Invece, Quinn aveva chiesto e ottenuto di potersi trasferire a Violeta, che era poco più di un avamposto militare, e qualche casa sovrannumeraria, nel midollo stesso della selva, e nelle vicinanze dell’ancora più interna aldea di Las Luces, l’ultimo brandello di terra degli stati dove sembrava che gli indigeni non contattati ancora, forse, sopravvivessero in libertà.

La battaglia a cui Ian Quinn intendeva dedicare ora tutte le energie rimaste mirava alla creazione di un’area naturale ad accesso interdetto che proteggesse la zona da ogni ulteriore incursione civilizzatrice, consentendo così, forse, agli invisibili esseri umani che amava – se studium vuol dire: lungo amore – di un amore non ricambiato da decine di anni di andare avanti ancora, almeno fino alla fine della sua vita, nel modo a loro noto di vivere, e traendone per sé il beneficio egoistico di potersi continuare a dedicare – ancora: fino alla fine – all’unica cosa che aveva sempre fatto o voluto fare: studiare la loro esistenza. Medina Quinn non aveva famiglia, né moglie né figli, e neanche amanti, a quanto diceva il fascicolo. Sembrava completamente disinteressato a qualsiasi essere umano avesse già avuto contatti con la civiltà, o, riportava il fascicolo citando una battuta ironica dell’illustre antropologo, “avesse avuto la disgrazia di nascervi”.

A Violeta, Ian Medina Quinn aveva trovato pace, almeno in apparenza. Occupava una casa concessa dal governo al limitare del piccolissimo agglomerato, sulla frontiera estrema della selva che qui sprigionava tutta la sua incandescenza. Pescava e cacciava come tutti, compresi i militari della capitanía, aveva adottato un paio di cani randagi ma li lasciava vagare liberi, a rischio che venissero divorati dai giaguari, e di tanto in tanto si faceva vedere nell’unico minuscolo spaccio dell’aldea per comprare sapone o altri generi, alimentari e non, di prima necessità. Praticava quotidianamente la selva, prima con qualche abitante del paese contrattato come guida, poi sempre più spesso da solo, scriveva i suoi libri che pubblicava in Europa, dove era una sorta di celebrità – l’ultimo si intitolava Deserto verde – ma, in sostanza, non aveva più dato grattacapi. Se aveva avuto incontri, nel folto della selva, con indigeni non contattati, Medina Quinn non ne aveva fatto parola, e questo non sembrava da lui, per cui non restava che concludere, diceva il rapporto, che non fosse accaduto nulla di simile, se si escludeva la nota questione raccontata nell’ultimo documentario di Quinn, anch’esso intitolato Deserto verde, e per cui nel fascicolo si faceva riferimento a un altro dossier, che approfondiva dettagliatamente la vicenda. La sorveglianza sull’inquieto, ora non più così inquieto, studioso si era allentata, o almeno era entrata in sonno.

Forse per questo l’invito improvvisamente rivolto da Ian Medina Quinn a Elías Hayes, l’arrivo di questi a Violeta ospite dell’antico amico, e le spedizioni che i due avevano intrapreso nella selva con rinnovato vigore, avevano risvegliato attenzione e sospetti. Quinn doveva aver pensato che l’ex diplomatico Hayes fosse ancora dotato di contatti ed entrature che avrebbero potuto facilitare il suo progetto di istituzione dell’area protetta, aiutandolo a convincere della bontà dell’idea alti esponenti della capitale, magari la stessa ministra delle Foreste, che era stata allieva di Hayes nei corsi che questi per un certo periodo aveva tenuto a Scienze Politiche, indirizzo Relazioni Internazionali, all’Università di Dorada. Per questo, probabilmente Ian Quinn aveva invitato Hayes a vedere per conto proprio cosa stava accadendo – se è possibile vedere una scomparsa, in questo caso la scomparsa dei peraltro invisibili non contattati – sperando di suscitare in lui una risposta emotiva, fondamento di una successiva reazione politica. O forse, semplicemente, una vita come la sua, un’intera vita trascorsa in solitudine – o quasi, pensò Soledad, che aveva già completato più volte la lettura del fascicolo, aveva visto il documentario, Deserto verde, e sapeva di Quinn molto più dell’estensore di quelle note all’epoca in cui erano state scritte – cominciava a pesargli, e come Robert FitzRoy, il comandante dell’hms Beagle decenni e decenni prima, cercava la compagnia di un futuro Darwin nel viaggio verso le sue personali Galapagos, anche se qui a parti invertite. Fatto sta che Elías Hayes aveva prontamente accettato l’invito del suo amico, e pagato una cifra non indifferente – forse esorbitante sarebbe stato un aggettivo più appropriato – per un trasporto privato a Violeta in elicottero. Era stata lei stessa, Soledad Valverde, lo ricordava, ad accoglierlo all’arrivo, dato che l’unico eliporto nel raggio di chilometri era quello militare della capitanía.

A solo poche settimane dall’arrivo di Elías Hayes, lui e Ian Medina Quinn, l’ex diplomatico e l’antropologo, si erano già inoltrati più volte nella selva; e l’ultima volta senza guide, con zaini provviste e tende, diretti a Las Luces per via di terra, il che già di suo era una follia, dato che era molto più rapido e sicuro spostarsi tra i due villaggi per via d’acqua. Las Luces era più all’interno della selva di Violeta rispetto alla riva del Victor Jara, il grande fiume della regione, ma c’era un affluente con sufficiente portata d’acqua, El Infiel, che raggiungeva l’insediamento.

Al villaggio, i due, nonostante la grande esperienza di Quinn, non erano mai arrivati. Da quella spedizione, Hayes era rientrato da solo. Che ne era stato di Ian Medina Quinn? Era rimasto nella

selva, era morto, era stato ucciso? Dagli abitanti di Las Luces, dalle misteriose, forse aliene, luci in cielo che recentemente avevano rinnovato con vigore la propria antica e funesta presenza, dallo stesso Hayes resosi di colpo assassino per un movente ancora ignoto; o dai Victor Jara, i terroristi che ultimamente erano dappertutto e che avevano preso lo stesso nome del grande fiume, forse per segnare la loro appartenenza alla regione, forse per farsi gioco dei funzionari del governo degli Stati Liberi che, nei primi anni dopo la creazione della nuova realtà politica, avevano sparso a mani piene sulla mappa della zona i nomi delle più belle voci del secolo trascorso, assassinate o indotte al suicidio dalle mille dittature del continente, come per farle risuonare di nuovo, finalmente libere. È sempre la stessa musica invece, sembravano dire i Victor Jara scegliendo quel nome, non è cambiato nulla, siete come loro. Forse era proprio ai Victor Jara, che sostenevano di proteggere gli ultimi nascondigli dei non contattati con le armi, che si era unito Medina Quinn, ed era questo che Soledad Valverde, e la squadra di cui faceva parte, dovevano scoprire.

Da quando era ritornato, ed era stato prelevato e accompagnato alla capitanía, da quando era iniziato l’interrogatorio sulle sorti del suo amico, Elías Hayes, però, non aveva fatto altro che ripetere le stesse quattro parole: è diventato pensiero vivente.

Solo questo. Quattro parole, o sette.
Ian Medina Quinn è diventato pensiero vivente.
Come se fosse possibile, come se avesse un senso.
Ian Medina Quinn –

ARTICOLO n. 38 / 2023

“CIECO”: MASSIMO FINI IN LUCE

La stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura

Cieco. È il titolo del libro scritto da Massimo Fini alle soglie del compleanno numero 80. È la confessione –ultima dice lui – di un uomo afflitto da un glaucoma che gli ha tolto progressivamente la vista. È un viaggio dentro l’anima esposta di un giornalista, autore, saggista, che ci vede benissimo.Abbastanza, anche ora, forse proprio ora, per continuare a riflettere su se stesso e sui rilanci che la coscienza innesca e determina. Per certi versi, così da sempre. Mi scuso per l’uso qui della prima persona singolare: conosco Fini da molti anni e sono un suo vecchio ammiratore. Per la cultura e la libertà di pensiero; per l’indipendenza e il coraggio; per l’intelligenza e la capacità – talvolta cocciuta, persino autolesionista – di andare contro “pur di…”. 

E non importa nemmeno trovarsi in linea o per nulla d’accordo con le sue opinioni. Conta la stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura. Dunque, un maestro. Anticonformista, presente e attivo, peraltro. In luce, ecco, alla faccia del glaucoma. Per me, per chi ama ancora, ha amato moltissimo questo mestiere. Lo scrivo perché l’ho pensato, per l’ennesima volta, uscendo dalla sua casa colma di libri, dove è un piacere chiacchierare – e fumare – condividendo (anche) qualche comune memoria, un’af-fini-tà per me preziosa.

Giorgio Terruzzi: Il libro, dunque. Cieco. Il titolo maschera una ambivalenza. Annuncia una condizione, una fatica. Ma anche uno stato propizio all’indagine. Non solo intima…

Massimo Fini: Nella mitologia greca il cieco è il veggente. Tiresia, non disponendo della vista, va oltre. Però, porco cane, io ci vedevo benissimo ed ero veggente anche con gli occhi in piena funzione.

G.T. Due date: 1985, 1989. Scandiscono i momenti più difficili della malattia. Puoi ricordarli?  

M.F. La prima data coincide con la prima diagnosi, la seconda segna l’inizio della fine, il momento più doloroso. Guardavo il cielo, osservavo le stelle durante una bellissima notte a Capri. Stavo lì con la mia fidanzata e mentre non riuscivo a mettere a fuoco il firmamento, mi resi conto che non avrei più rivisto nulla del genere.

G.T. Questo testo sembra completare un lungo racconto autobiografico iniziato con Ragazzo. Storia di una vecchiaia, pubblicato nel 2007. È come se l’analisi di te stesso, per certi versi narcisistica, per altri illuminante, sia diventata la vera guida, la fonte del pensiero. Utile a individuare un punto di vista. La cecità su questo procedimento, sino a che punto incide? 

M.F. Be’, io non ho fatto altro che scrivere autobiografie. Se penso a Una vita, soprattutto, a Ragazzo, al Dizionario erotico, a Confesso che ho vissuto, trovo testi autobiografici. Il tema riguarda anche la mia opera filosofica, termine da usare tra virgolette. Come scrive Nietzsche, ogni filosofia è una autobiografia. Credo che questo mio modo di essere, dove è pur possibile riconoscere un certo narcisismo, sia abbinato da sempre a una grande capacità di ascolto. Cosa fondamentale, non solo nel nostro mestiere. Nella vita. Nino Nutrizio, uno dei grandi maestri del giornalismo, direttore de “La Notte” diceva: questo è un lavoro che si fa prima con i piedi e poi con la testa. Bisogna uscire, perlustrare, ascoltare. La testa viene dopo, quando si tratta di dare un senso al materiale che hai raccolto. La cecità ha rafforzato questo modo di fare, quindi di pensare e poi di scrivere. Non avendo la vista sei molto più attento a chi parla, a come parla una persona. In particolare alla musicalità. La scrittura è ritmo, come la musica.Ho notato in che modo i grandi autori di canzoni, ad esempio, collocano un termine in un punto preciso proprio in funzione del ritmo. È ciò che cerco di trasferire nella mia scrittura.

G.T. Penso alle tue passioni. Il calcio, le automobili, la velocità come attrazione verso una spericolatezza che profuma di immortalità. Qui, non vedere, significa fare conti più amari?

M.F. Non è solo una questione di cecità. Nel frattempo sono invecchiato e, in aggiunta, ho dovuto attraversare la pandemia in queste condizioni. Non so come sia riuscito a cavarmela. Certo guidare, usare l’auto per me è stato sempre un segno di libertà. Ti annoi, salti dentro l’automobile, raggiungi un paesino attorno a Milano, una gelataia carina ti sorride e la tua giornata in un attimo cambia sapore. Se parliamo di indipendenza il discorso è più complesso. Il termine vale come cifra della mia vita personale e professionale. Ora non è più così. Dipendo. Dalla segretaria, da una fidanzata, se c’è, da mio figlio, dalla mia ex-moglie. Da tutti. Ho bisogno di assistenza e darmi assistenza diventa difficile perché se una persona mi aiuta troppo mi incazzo, se aiuta poco è un guaio. Per fortuna c’è qualcuno che procede con estrema attenzione. Mio figlio e l’amico regista Edoardo Fiorillo che dispone di autentiche capacità sensitive.

G.T. Leggere per scrivere e scrivere per leggere. Sono queste le inibizioni peggiori?

M.F. Detto i pezzi. Poi li leggiamo, correggo la punteggiatura, la forma, poi verifico la pubblicazione. Ma una cosa è dettare, un’altra è scrivere, anche perché da un aggettivo ne viene fuori un altro mentre lavori sul testo. Ho ammesso più volte che per un bel giro di frase sono anche disposto a dare una direzione diversa, a volte quasi opposta, al senso che avevo immaginato per il mio articolo. Del resto, più o meno meritatamente, mi hanno attribuito il Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura, quindi temo molto di perdere la qualità dello scrivere. I miei amici dicono che non è successo, ma sono di parte. Se leggo testi scritti dieci anni fa mi sembrano linguisticamente migliori. 

G.T. Sonno e sogni. Potenziati da questa condizione di cecità?

M.F. Si, certamente. Borges, che come sappiamo divenne cieco, non sognò per tre anni e per questo era assolutamente disperato. All’inizio della malattia il sonno è stato un rifugio. Se dormi, la tua malattia non esiste più. Ma i sogni, talvolta, sono inquietanti….

G.T. Stimolano la memoria, comunque. Penso al racconto dell’estate 1960. Bagni Umberto a Savona. Tutto perfettamente a fuoco. L’hai inserito nel libro per il piacere di ritrovare, da non vedente, ogni dettaglio del passato? 

M.F. Quanti secoli abbiamo impiegato per uscire dall’infanzia? Per uscire dall’adolescenza? Molto tempo. Perché il tempo procede in una progressione particolare. Negli anni della vecchiaia scorre più velocemente mentre le giornate sembrano più lunghe. Meno impegni, molti vuoti. Non so dire se il ricordo assume rilevanza a causa dell’età o della cecità. Walter Tobagi mi aveva soprannominato, con affettuosa ironia, “Passato è bello”: ho sempre avuto un occhio rivolto al passato. Il futuro mi ha sempre fatto orrore. Così, forse, questa precisione fotografica nel ricordare è una inconscia rivincita che mi prendo da non vedente. I dettagli sono importantissimi nel nostro mestiere e ai dettagli bado molto”.

G.T. In Cieco racconti del primo amore. Poi citi De André, Le passanti. Rinunciare al corteggiamento, al gioco di sguardi è insopportabile?  

M.F. È devastante. Passeggiando sento voci di donne, di una ragazza. Intuisco una freschezza, immagino un aspetto fisico. Ma il gioco di sguardi mi è vietato. Se a questo aggiungiamo che sono un voyeur compulsivo, misuriamo l’entità della fregatura. È vero, come dice De André, che lo sguardo di un attimo poteva valere una vita e invece non ne abbiamo fatto nulla. Ma è anche vero che alcune storie d’amore sono nate proprio da uno scambio di sguardi. Nel 2015, appena terminato di scrivere Una vita pensai alla Recherche di Proust. La morte al termine della stesura del testo. Pensai, persino augurandomelo, potesse accadere a me la stessa cosa. E comunque dichiarai di non voler più scrivere. Mi arrivò una lettera inviata da un giovane giornalista, cieco dalla nascita, che mi invitava a cambiare idea. Gli risposi con delicatezza. Ma se avessi dovuto farlo “finianamente” avrei dovuto scrivere: certo, un cieco può fare moltissime cose, tranne vedere”. 

G.T. Scrivi: felicità è una parola proibita che non dovrebbe mai essere pronunciata. Però poi la usi a proposito di te stesso di fronte al mare…

M.F. Il mare per me è sempre stato taumaturgico. Per noi che siamo nati al di qual delle colline, come canta Paolo Conte, come scrive Cesare Pavese, il mare è mitologico. Da ragazzo dopo una sbronza pazzesca mi bastava cacciarmi in acqua per uscire come se non avessi bevuto. Il mare è importante anche in questa mia situazione. Non vorrei fare paragoni blasfemi ma perché Nietzsche a Rapallo si consolava accendendo falò sulla spiaggia? C’erano solo tre colori: l’azzurro del cielo, il blu del mare e il verde cupo delle colline. Sono toni che, a fatica, riconosco ancora e quindi per me è come sentirmi sano. Soprattutto in quell’ora sospesa che sta tra il giorno e la notte. Tempo sospeso, appunto. Di notte ho scritto tutti i miei libri. Lavori dentro uno spazio infinito, silente. Il tempo per me ha un valore enorme e il vero peccato è sprecarlo. Quindi, per una facile conseguenza, confesso di detestare quelli che vedono e non sanno usare la propria vista.

G.T. Scrivi della stanchezza del vivere. È tutto vero o è una mezza bugia?

M.F. Purtroppo è una verità. Questo libro è una sorta di De Profundis. Ho avuto poco tempo fa una segretaria giovanissima e molto capace. Disse: non so se augurarti di vivere più a lungo sia un buon augurio. Il paradosso dei paradossi è che sono cieco ma fisicamente sanissimo. Mi sono fatto un’idea: che questa malattia mi abbia protetto dalle altre.

G.T. Infatti, di quell’ “anarcoide russo mezzo pazzo”, come ti definì Giorgio Bocca molti anni fa, vedo ancora delle tracce…

M.F. Finché sono vivo spero che qualche traccia anarcoide rimanga. Io non sono una persona duttile. È un difetto e al tempo stesso una forza. Sono rimasto fanciullescamente lo stesso, nonostante tutte le esperienze attraversate. Sono ancora piuttosto ingenuo di fronte alla vita, anche se a questo punto chiunque mi può fregare. Mi piace ancora catturare l’attenzione altrui attraverso un processo mentale. Il fatto è che una persona devi riuscire a catturarla e questa attività è ormai compromessa. Resta la parola…con la parola me la cavo ancora.

G.T. Insomma, potrà arrivare un altro libro, domani o dopo. In fondo, che ne sappiamo del nostro futuro?

M.F. Noi pensiamo che il futuro sia lineare. Il mondo occidentale sembra destinato al collasso, basato com’è sulla crescita esponenziale. Ma in realtà non funziona così, accadono fatti che non possiamo immaginare. Nella vecchiaia c’è sempre l’imprevisto in agguato. In negativo molto spesso. Ma può essere anche in positivo. Un altro pensiero mi viene in mente: spesso da un male può nascere un bene. Quando castrarono il mio Cyrano dalla televisione, decidemmo di trasferirlo in teatro e ci divertimmo moltissimo. Credo che il tema sia legato alla vitalità residua. Comunque, devo stare attento perché quando le cose vanno bene sono in allarme. Temo una ritorsione, una punizione. Sono agnostico ma, come diceva Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Non riusciamo mai o del tutto a uscire dalla cultura cattolica. 

G.T. Cosa sei contento di non vedere?

M.F. Di non vedere me stesso che invecchio, allo specchio.

ARTICOLO n. 37 / 2023

TRA ARTIFICIO E ARTIFICIO

A ripensarci sembra passato molto più tempo, forse perché l’interesse è durato pochi giorni, durante i quali, tuttavia, pareva non esistesse nient’altro. 

Era la fine d’autunno, un autunno mite che sarebbe diventato un inverno altrettanto mite; telegiornali, quotidiani, settimanali riproponevano le immagini di un uomo risalenti a un periodo estivo, immagini che suggerivano l’allestimento della felicità accaduta in estate.

L’uomo era ritratto spesso da solo. In una fotografia era pronto alla guida di una cabriolet. La fotografia era stata scattata da una posizione poco al di là dello specchietto retrovisore destro. La cabriolet era ferma in un parcheggio, l’uomo sorrideva e guardava davanti a sé portando le nocche della mano destra al mento incorniciato dalla barbetta chiara; i capelli sembravano di un biondo naturale, eredità degli anni d’infanzia; l’uomo indossava una maglietta blu della stessa tinta del sedile; due palme erano riflesse, rimpicciolite, nel parabrezza pulitissimo. Poteva essere la scena pubblicitaria di una qualsiasi merce: shampoo, auto, finanziamento a tasso agevolato necessario per acquistare un desiderio. 

E invece era la vita dell’uomo.

In altre fotografie l’uomo era in barca, navigava in un punto del Mediterraneo, la Grecia o l’Italia; erano selfie in costume, gli occhiali da sole con una montatura bianca, una catenella d’oro scendeva dal collo, il crocifisso d’oro adagiato sul petto; capitava che qualcuno scattasse le fotografie in barca, e allora l’uomo appoggiava una mano al timone; sullo sfondo, un’isola o un promontorio, il paesaggio allontanato da qualsiasi tentazione omerica: il mare blu, ancestrale, certo, ma la schiuma bianca a poppa era abbinata alla camicia altrettanto candida, le maniche arrotolate, i bermuda panna.

A volte l’uomo era in compagnia della donna con la quale aveva una relazione. Alcuni giornali hanno evidenziato la differenza d’età inserendola tra parentesi – (9 anni), (nove anni) – per sottolineare ciò che, di solito, è trascurato qualora un uomo abbia nove anni più di una donna. 

La donna ricopriva un’importante carica nel Parlamento Europeo; l’uomo, invece, lavorava come assistente di un parlamentare europeo. 

Nelle fotografie pubblicate, loro due, assieme, non comparivano mai durante le rispettive attività al Parlamento Europeo. Le immagini privilegiavano la vita quotidiana. Un po’ di vacanze, un selfie di coppia nel deserto o forse su una spiaggia così sabbiosa da sembrare un angolo di deserto; e poi lo shopping, la foto di una conversazione effettuata sui gradini di una scala, l’uomo stringeva il sacchetto contenente – a giudicare dal marchio impresso sul sacchetto – un costume da mare di alta qualità. La maison, fondata a Saint-Tropez nel 1971, “crea pezzi estivi per ogni istante e per ogni personalità. Che si tratti di costumi da bagno o short chic, questi costumi da uomo, di alta qualità esprimono sempre il motto senza tempo della maison: lusso, sole e libertà”.

Lusso, sole e libertà. In quest’ordine. Adesso, dopo alcuni mesi di prigione, l’uomo e la donna sono agli arresti domiciliari. L’uomo indossa il braccialetto elettronico, poiché, oltre alle fotografie della cabriolet, della barca, delle vacanze, dello shopping, sono arrivate le fotografie di valigie piene di soldi, di tavoli colmi di banconote suddivise a seconda del taglio: 10, 20, 50 (la maggioranza), 100, 200 euro. E tuttavia qui l’interesse non è investigativo e giudiziario, ma per un altro selfie dell’uomo. Un selfie vicino al punto in cui ho edificato l’immaginario luogo letterario di Cortesforza. 

Doveva essere pomeriggio. A giudicare dagli alberi carichi di foglie verdi sullo sfondo destro dell’immagine, è probabile che fosse un pomeriggio primaverile, e a giudicare dalla luce, è probabile che fossero le 17:30 di un pomeriggio d’aprile, e a giudicare dalla quantità di persone lungo la stradina agricola costeggiante il naviglio – stradina agricola che è considerata, in modo improprio, pista ciclabile – è probabile che fossero le 17.30 di una domenica d’aprile, una domenica d’aprile dalla meteorologia variabile. 

L’uomo indossava un maglione azzurro, di cotone, con lo scollo a V e un marchio indistinguibile a sinistra, poco al di sopra del cuore. L’uomo ha scattato il selfie restando sul bordo della stradina agricola, lungo la linea bianca continua. Alle spalle dell’uomo, un campo appena seminato, e in cielo, una nuvola gigantesca sopra i capelli biondi mossi dal vento. Il lato destro dell’immagine era riempito dal naviglio: in quel punto l’acqua è bassa e scorre placida. La vegetazione lungo l’argine era riflessa sulla superficie. Sfuocati, lungo la stradina agricola, a una cinquantina di metri alle spalle dell’uomo, alcuni passanti ignari, anonimi, una macchia finita sui giornali di tutto il mondo. La luce, nonostante la nuvola enorme nel cielo, consolidava la sensazione di un’esistenza serena, domenicale. E per quanto l’uomo fosse lo stesso delle foto in barca o alla guida della cabriolet, qui, nel selfie di Cortesforza, sembrava più giovane, un giovane uomo carico di promesse, quasi ragazzo, che voleva farsi un selfie attraversando i luoghi in cui è nato e cresciuto, luoghi così diversi da Bruxelles, dal Parlamento Europeo, dal timone di una barca nel Mediterraneo. 

Nel 2007, quando ho inventato Cortesforza, ho pensato a Elio Pagliarani. Come è noto Elio Pagliarani (1927-2012) era nato a Viserba, a pochi chilometri da Rimini. Ce lo ricordava lui stesso, nel testo Pagliarani Elio, pubblicato in Autodizionario degli scrittori italiani (Leonardo, 1990), ripubblicato nel 2019 da Il Saggiatore, in Tutte le poesie (1946-2011), a cura di Andrea Cortellessa. Leggiamo a pagina 475: «Romagnolo di nascita (…) Nel frattempo però il suo paese natale (Viserba di Rimini, 1927) non c’è più, è scomparso (…) Adesso non c’è più soluzione di continuità tra Rimini e Viserba, è tutto un Rimini Nord, tutto alberghi e pensioni, una zona balenare un po’ più popolare di Rimini centro, con ignoranza e presunzione rubiconde di benessere». 

Molti anni fa, ripetevo è tutto un Rimini Nord se mi smarrivo in svincoli caotici, o se infilavo le mani dentro lo zaino, alla ricerca, vana, di qualcosa; e allora è tutto un Rimini Nord, ovvero è tutto uno svincolo, una bretella, una rampa di raccordo, una rotatoria indistinta dalla quale è impossibile uscire.

Ho cercato la mia Rimini Nord sapendo che prima o poi sarebbe stata distrutta da una delle molte autostrade e superstrade lombarde. 

Cortesforza, plastico immobiliare, ridimensionamento della Storia – minuscola di Sforza unita a una corte inesistente – e luogo smemorato, di transito, luogo interstiziale di una comunità posticcia, appartenenza nello sradicamento; Cortesforza e la casa, unico bene, la casa e nient’altro, luogo nel quale non serve nemmeno più il desiderio della merce, poiché il luogo è diventato merce.

Ora, dentro quel luogo immaginario, la realtà sta per arrivare sotto forma di superstrada. La realtà asfalta la letteratura.

L’ubicazione del beneuscito per Einaudi nel maggio 2009, è il libro ambientato a Cortesforza. Dopo la seconda edizione, il libro non è più stato ristampato, da quattordici anni è reperibile solo in ebook. Forse, per essere coerente con quanto accadrà a quel luogo immaginario nella realtà, dovrei interrompere la pubblicazione anche degli ebook, in modo che Cortesforza scompaia.

In attesa di essere distrutto, il luogo immaginario di Cortesforza sarà ancora per qualche tempo un’area topografica precisa, la zona del selfie dell’uomo, il selfie finito su tutti i media d’Italia e del mondo. Per Cortesforza, in particolare, ho pensato a un campo ubicato a metà strada tra il condominio in cui ho vissuto – da bambino e ragazzino – e il ponte dove Michelangelo Antonioni ha girato, nel 1950, la splendida scena di Cronaca di un amore, durante la quale i personaggi interpretati da Massimo Girotti (Guido) e Lucia Bosè (Paola) progettavano l’omicidio del marito di Paola, laddove alcuni operai lavoravano, pochi metri più in basso –  a un centinaio di metri di distanza – all’interno del naviglio in secca. 

Il giorno in cui l’uomo si è fatto il selfie, il naviglio non era in secca. L’irrigazione di questa zona è un sistema di chiuse progettato, tra gli altri, da Leonardo da Vinci. Ma il reticolo di rogge, fossati e fontanili, risale all’opera dei monaci cistercensi francesi del XII secolo, le cosiddette marcite, terreni irrigati in permanenza: la temperatura dell’acqua protegge l’erba, che cresce anche nei mesi invernali, assicurando cibo fresco per gli animali.

I campi sono delimitati secondo un ordine millenario, costituito da filari di pioppi e da coltivazioni stagionali. I filari degli alberi, disposti lungo i fossati, appartengono a un criterio, a una trama, con al centro le cascine o ciò che resta delle cascine, le stalle dei pochi animali allevati, i fienili, le coltivazioni. 

L’armonia ereditata si percepiva alle spalle dell’uomo, ma tutto ciò che era alle sue spalle nel selfie già da molti anni è destinato alla distruzione, per trasformare quei luoghi agricoli in una superstrada diretta all’aeroporto di Malpensa; progetto ventennale eppure desueto, che tuttavia distruggerà un millennio di civiltà umana, distruggerà la terra per sostituirla con altri capannoni, altri centri commerciali, il vero obiettivo della superstrada: ciò che nella spietata lingua burocratica italiana, intrisa di gergo aziendale, diventa “valorizzazione massima delle aree infrastrutturali, comprese le aree connesse”.

Chissà come parla l’uomo del selfie a Cortesforza, quali sono i tic verbali, le parole abituali, cosa pensa della superstrada e della zona in cui è nato e cresciuto, la zona del selfie a Cortesforza. Di lui si conoscono soltanto le fotografie. Non ricordo un’intervista, una dichiarazione ai cronisti dopo un interrogatorio. Del resto, prima delle disavventure giudiziarie l’uomo esisteva nell’anonimato mediatico come assistente di un parlamentare europeo. L’uomo era uno di quei collaboratori senza nome, quelli che si notano appena al fianco dei politici durante le riunioni, collaboratori che suggeriscono qualcosa accostandosi all’orecchio. E tuttavia, l’uomo esisteva nel piccolo ecosistema del Parlamento Europeo in quanto fidanzato della donna che ricopriva l’importante carica in quella istituzione; forse, la disparità di posizione all’interno della coppia ha autorizzato i media italiani a dare, come sempre, il peggio di sé, senza che nessuno avesse qualcosa da dire, poiché le medesime dinamiche linguistiche, per molti decenni, sono state applicate alle donne, e allora le guardiane e i guardiani del linguaggio contemporaneo hanno taciuto, a proposito di: “il bel fidanzato”, “il biondo 35enne”, “il biondo 35enne istruttore di vela”, “scopatore inflessibile”, “Mister Europarlamento”, “il surfista dell’Idroscalo”, colui che “sogna di comprarsi una barca da emiro”. 

Ma questo appartiene alla tristezza passeggera italiana, sempre pronta a farsi ammaliare da una nuova tristezza, tristezza nazionale che distrae. 

Pensiamo invece alla tristezza definitiva, la fine di questa piccola parte del pianeta.

«Il popolo italiano è sempre stato un grande costruttore di strade perché è un popolo a tendenza universale. Le strade consolari che partivano da Roma e arrivavano fino agli estremi limiti del mondo conosciuto erano le strade sulle quali correva la grande civiltà. Esaltiamo il lavoro. Esaltiamo coloro che lavorano col braccio. Tutto il nostro Paese deve diventare un cantiere, un’officina». 

Così parlava Mussolini, in un giorno di marzo, nel 1923. Subito dopo aveva affondato il piccone nel terreno della campagna di Lainate, in modo che i fotografi potessero ritrarlo. Era la prima zolla del cantiere autostradale della Milano-Varese. 

Dopo il gesto dimostrativo, quattrocento sterratori armati di badili e picconi avevano iniziato a lavorare, i cavalli avevano trainato rimorchi carichi di frammenti di pietra provenienti da rocce un tempo compatte, quasi indomabili, che sarebbero divenute grani del catrame: era nata così l’Autostrada dei Laghi, considerata la prima autostrada del mondo.

È passato un secolo, l’inaugurazione di un’autostrada o di una superstrada contemporanea non è molto diversa da quella del settembre 1924. La banda suona l’inno nazionale. Le forbici d’oro tagliano il nastro tricolore. I fotografi urlano, presidente, per favore, si giri da questa parte, presidente, grazie! 

Eccolo, giacca e cravatta e casco da operaio dei cantieri, il politico contemporaneo, sottomesso alla retorica del nuovo e alla lingua del passato (“Tutti voi che siete qua, autorità tutte”) con l’aggiunta di un surrealismo deresponsabilizzante (“È l’asfalto che passo dopo passo è andato avanti”) e di anglicismi prelevati dalle aziende (“project financing”)

E così, a parte l’imbellettamento anglofono, le strade comunali e provinciali sono punteggiate di buche o rattoppi frettolosi, come se il potere, anche quello locale, attendesse una grande opera per occultare incuria, indolenza, incapacità.

Le grandi opere di questi anni italiani sanciscono il ritorno alla monumentalità che bilancia, in apparenza, la spinta inesorabile verso il frammento, la disintegrazione, la scomparsa. La massima visibilità, o niente. Chi ha voglia di occuparsi della manutenzione dell’ordinario, del piccolo? La grande opera è il potere esposto, il marchio, il logo dell’autorità. La grande opera, anche qualora sia banale ed equivalente ad altre, è riconoscibile, ma è sempre una riconoscibilità di cui si perde il senso originario. La grande opera rimanda, come tutti i marchi, a sé, conquista l’immaginario, la parola, e ammutolisce il resto. 

La superstrada anacronistica interesserà il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud Milano. La superstrada voluta dai politici – locali, regionali, nazionali – che più di tutti ripetono parole come radici, valori, tradizioni. È la lugubre destra italiana. Ma l’altra parte politica? L’altra parte politica, che amministra il Comune di Milano, dovrebbe occuparsi anche della Città Metropolitana di Milano coinvolta dal progetto della superstrada, e invece è disinteressata a tutto ciò che accade appena al di là dei confini cittadini, e si preoccupa che le auto non entrino in città per gratificare il sogno progressista del proprio elettorato: credere di trovarsi in una metropoli davvero internazionale.

E così, mentre il Comune di Milano ipotizza un limite di velocità di trenta chilometri orari, e pubblicizza la nuova edizione di Milano Green Week, “una manifestazione bella, ricca, partecipata (…) una manifestazione di play street sul modello del Parking Day”, ecco che a quindici chilometri dal confine comunale, nella Città Metropolitana di Milano, continuano gli espropri dei terreni delle aziende agricole, gli espropri di ettari ed ettari da asfaltare per la superstrada e ciò che seguirà: transito di camion e furgoni e auto che peggioreranno, se possibile, la già pessima qualità dell’aria più inquinata d’Europa; aria che peggiorerà anche dentro il capoluogo, poiché l’aria, per fortuna, non conosce confini.

È una visione molto simile a quella di Jovanotti. In un post su Facebook, del 10 agosto 2022, Jovanotti ha risposto a una lettera di Mario Tozzi, il quale, con toni molto accondiscendenti, aveva sottolineato alcuni aspetti negativi del Jova Beach Party. «Le spiagge dove suoniamo sono luoghi popolari sempre pieni di gente (…) fosse per me la spiaggia di Budelli (…) e simili andrebbero proprio rese inavvicinabili, tipo Gioconda al Louvre, guardare non toccare».

Ha ragione Jovanotti nel dire che sono luoghi popolari, anche se nessuno di quei luoghi sostiene, di solito, cinquantamila persone pigiate, che saltano e ballano in poche ore di concerto, senza contare il lavoro invasivo di preparazione e smantellamento, prima e dopo l’evento. 

È ovvio, un concerto di Jovanotti non è devastante come una superstrada.

Ma quella di Jovanotti – l’intoccabilità dei luoghi Gioconda a discapito di altri – è la stessa concezione contemporanea del paesaggio alla milanese, che propone un nuovo piatto, anzi, piattino: zolla alla milanese – biologica – coltivata all’interno dei confini comunali (meglio ancora se all’interno dei Bastioni).

Il problema non è soltanto l’uso dell’automobile, dei furgoni, dei camion, non è soltanto gli aerei che volano in questo cielo. È qualcosa di più profondo. L’occultamento del paesaggio, ciò che circonda la figura umana. 

C’è una centralità assoluta del personaggio ritratto, ma il personaggio contemporaneo è isolato dal contesto, si accontenta di essere il protagonista di un monologo che ha la consistenza di un coro stonato, in cui ognuno parla per proprio conto, diventando comparsa, rumore di fondo, come è accaduto all’uomo del selfie di Cortesforza.

Oggi è l’ultimo giorno di secca nel naviglio. Tra poche ore l’acqua tornerà, con una portata molto minore a causa della siccità, ma tornerà, come l’uomo del selfie di Cortesforza, quando finirà di scontare la pena. 

E tuttavia, oggi il naviglio è ancora in secca. Una giovane coppia, a una trentina di metri da me è appoggiata al parapetto di cemento. Apprezzo il loro impulso per nulla sentimentale – chissà se davvero consapevole o casuale – di sbaciucchiarsi presso l’incrocio di due canali vuoti. 

Il ragazzo estrae dalla tasca uno smartphone, i due si fotografano abbracciati, escludendo tutto il resto, il punto in cui arriveranno la superstrada e la campata del ponte di seicento metri che squarcerà Cortesforza. Si guardano nel piccolo schermo, poi fissano per qualche istante il vuoto, la realtà. Forse, liberate dall’immagine, le carezze della coppia racchiudono una speranza più forte dell’immediata gratificazione personale. 

«Predicano sempre il molteplice che sta alle loro spalle», avrebbe detto Zanzotto. Un tempo avrei detto, certo, la ricerca di un equilibrio tra artificio e natura.

Ora non più. È troppo tardi per quello.

La ricerca di un equilibrio. Tra artificio e artificio.

ARTICOLO n. 36 / 2023

C’È CHI DICE NO

Leggo la rassegna ancora distesa a letto, appena sveglia.

Seleziono i giornali principali escludendo sapientemente quelli che so che mi darebbero mal di stomaco fin dalle prime ore del giorno.

Controllo prima la politica, poi la cronaca, poi gli esteri e infine la sezione cultura.

Spulcio tra una testata e l’altra e cerco di vedere come le stesse notizie vengano affrontate in modi differenti.

Mi soffermo sempre sulle interviste. Mi piacciono le interviste.

È a tutti gli effetti una deformazione professionale: da quando ho iniziato a farle, a porre domande ai miei ospiti in radio, nelle presentazioni e a Basement Café mi sono ritrovata spesso a curiosare tra le domande degli altri, cercando di leggere tra le righe i non detti degli intervistati, cercando anche – perché no – alcuni spunti per i prossimi lavori.

Negli ultimi tempi – mesi? anni? orientativamente dall’immediato post-lockdown, ma potrebbe essere iniziata prima, questa tediosa tendenza – noto sempre più interviste simili tra di loro.

Sono quelle rivolte a piccoli, medi e grandi imprenditori che dovrebbero servire per analizzare lo stato di salute del mondo del lavoro italiano.

Queste interviste – tutte molto brevi, tutte molto compatte tra di loro – sono corredate da titoli che suonano come accorati appelli alla popolazione: “Offro tot soldi ma nessuno vuole lavorare”.

Sottotitolo, opzione uno: “Il reddito di cittadinanza ha ucciso l’entusiasmo”.

Sottotitolo, opzione due: “I giovani preferiscono divertirsi o stare sul divano”. A volte i due possono essere fusi in una sola frase del tipo: “Il reddito di cittadinanza ha reso i giovani pigri”, crasi tra le preferite dai maggiori quotidiani nazionali.

Nel corpo dell’intervista, gli imprenditori disperati raccontano di quanto prima (unità di tempo non chiarissima, potrebbe riferirsi al tempo del boom economico come al pre-Covid) non fosse così, come prima le persone non si tirassero dietro davanti alla possibilità di lavorare anche a costo di spaccarsi la schiena.

Subito dopo questo o tempora, o mores, gli imprenditori del caso (si va dal proprietario di un pastificio a gestori di locali, ristoranti, bar, stabilimenti balneari) raccontano sempre quanto sarebbero disposti a pagare i lavoratori.

Ho letto che un cuoco avrebbe rifiutato 63mila euro lordi, di bagnini che avrebbero detto no a tremila euro al mese, di camerieri e cameriere impossibili da trovare a 1600 euro contrattualizzati.

Nei commenti a questi articoli si scatena dunque sempre un incontrollabile panico generazionale.

Chi è nato durante il boom economico non comprende la svogliatezza dei giovani, chi ha lavorato negli anni ’90 non capisce perché questi ragazzi siano tutti così viziati, noi Millennials, invece, sorridiamo sornioni.

Già, perché mentre i nostri genitori godevano del boom economico e di un ascensore sociale in pienissima attività, noi abbiamo capito subito che le cose erano due: lacrime nostre o lacrime nostre – scusa, Elodie.

Dopo due crisi economiche vissute sulla nostra pelle, dopo aver studiato molto più di qualsiasi altra generazione precedente alla nostra, ci siamo ritrovati con un pugno di mosche in mano, ascensore sociale murato, lavori sottopagati e la falsa promessa di un roseo futuro per chiunque avesse aperto una partita iva – spoiler: non fatelo.

Abbiamo quindi imparato ben presto a riconoscere le bugie sul mondo del lavoro, quando queste ci vengono raccontate.

Siamo la generazione con più lavoretti saltuari mai esistita, siamo stati ovunque: dai social alle cucine, dagli uffici alle vigne, dai bar agli studi in cui ci facevano fare stage non retribuiti in vista di future assunzioni che non sarebbero mai arrivate, dalle università allo spaccio di droga per riuscire a pagare un affitto. 

Per questo le parole degli affranti, inconsolabili imprenditori ci suonano come le scuse di Pinocchio dopo esser scappato con Lucignolo verso il paese dei balocchi.

Sappiamo infatti che il famoso contratto che prometterebbe 1600 euro per una settimana lavorativa di 48 ore nell’HORECA con un giorno di riposo nasconde delle zone grigie non trascurabili.

Innanzitutto, la questione straordinari: nei pub, nei cocktail bar e nei ristoranti è difficilissimo calcolare le ore extra effettuate, e solo rarissimamente queste vengono pagate. Subito dopo gli orari: l’imprenditore dell’intervista – che gestisce un pub – dovrebbe sapere che chi fa il lavoratore notturno non ha una socialità (lavorando ogni sera tranne una – il lunedì, che in Italia è la chiusura dei cocktail bar e di quasi tutti i ristoranti – non esistono aperitivi con gli amici, le cene fuori, le serate sul divano, il cinema, il teatro, la birra in piazza, gli appuntamenti romantici), non ha facilità nell’accedere ai servizi più basilari (banca, posta, palestra, spesa, medico, nido, parrucchiere, dentista, centri di analisi ASL, determinati negozi aperti solo al mattino) e non ha garanzia di non essere esente da ore extra durante il giorno (gestione di fornitori, lavanderia, frutta, carico e scarico merce, aperture straordinarie e varie ed eventuali vengono tutte svolte in diurna). 

Perciò, in un momento storico di inflazione alle stelle, crisi economica, affitti raddoppiati rispetto ai primi anni 2000, con 1600 euro che in busta paga diventano poco meno di 1300 per un totale di 8,33 euro l’ora, non se ne voglia a male, questo buon samaritano, ma a noi ci scappa proprio da ridere. 

Se vent’anni fa con uno stipendio di questo tipo potevi affittare una bella stanza o un monolocale, oggi, nella stragrande maggioranza delle città italiane, puoi permetterti un posto bici nel cortile condominiale e le spese per le bollette di luce e gas. 

Simile ma a tratti più inquietante è il discorso per il povero bistrattato cuoco che avrebbe rifiutato i 63mila euro del contratto sopracitato.

Leggendo l’intervista a Gabriele Cartasegna – direttore del Capac di Confcommercio – viene fuori che questa offerta sarebbe stata fatta a uno chef appena formato.

Oltre alla puzza di bufala – non il formaggio, scusate il gioco di parole non voluto: stipendi come quello millantato dal direttore del Capac li vedono gli executive chef di alto rango, non cuochi appena formati – evidentemente a Cartasegna sfugge quanto sia snaturante e alienante la vita di una brigata di cucina, con orari impossibili, caldo micidiale, turni serratissimi, sforzi fisici costanti e una media di 12 ore lavorate al giorno, nonostante il tetto massimo settimanale sia di 48.

Non mi stupisco dunque se negli ultimi due anni il 30% della forza lavoro impiegata in bar e ristoranti si sia data alla fuga insieme agli altri grandi sfruttati del terziario, ovvero gli stagionali: in condizioni di lavoro prive di tutela, prive di rispetto e spesso prive di legalità (il famoso mezzo stipendio in busta paga e l’altro mezzo in nero in busta di carta) perché fare dei lavori che per quanto magnifici ci facciano rimanere poveri e per giunta privi di una qualsivoglia vita sociale?

La risposta è logica e davvero banale, ovvero: per nessun motivo. 

Soprattutto in un’epoca in cui per vivere servono ben più di 1200 euro in busta paga: 800 vanno in affitto, gli altri in bollette, non ci vuole Pitagora per capire che in questo momento storico uno stipendio del genere sia davvero anacronistico.

Eppure ai giornali piace strizzare l’occhio a Confcommercio e Confindustria, leccando un po’ di culi ai piani alti, pubblicando l’imprenditore che piagnucola perché i giovani non hanno più voglia di sporcarsi le mani.

Ma i giovani hanno ben più consapevolezza della situazione in cui versano i lavoratori e il mercato.

Sicuramente ben più di chi ha ereditato aziende o soldi dalle generazioni precedenti.

La morte del settore terziario, ricchissimo di lavori meravigliosi come quello del bartender, di chi serve in sala, di chi lavora nelle brigate di una cucina, sta morendo non per colpa dei lavoratori, ma per chi lo ha svenduto rendendolo un luogo inospitale.

Ma il vecchio adagio dei tempi che, signora mia, non sono più quelli di una volta, i giovani sono tutti scansafatiche, sarà la droga, guardi che capelloni, è un format funzionale e brevettato per non ascoltare i giovani, che del lavoro dovrebbero essere i protagonisti. 

Silenziando i giovani, screditando la loro professionalità e, di conseguenza, i loro sogni e bisogni, i nostri eroi di Confindustria e Confcommercio non dovranno muovere un dito. 

Già, perché in tempo di post-pandemia e con un tasso di povertà alle stelle, per ogni rifiuto a contratti di merda ci saranno almeno due persone che non possono permettersi di rifiutare quelle condizioni.

E questo perché il mercato del lavoro si nutre da sempre della manodopera dei più poveri con questi trucchetti da banditi e ladroni che permettono ai salari di rimanere invariati: tanto basta scavare nelle classi sociali sempre più povere e sempre più sole.

Per questo mi viene da dire – non ai cravattoni con la lacrima facile, ma ai giovani che sognano un futuro migliore – che, fin quando sarà possibile, per quanto vi possa essere possibile, rifiutate le proposte di chi gioca sui vostri diritti, tempo, energia.

La mia generazione è collassata sotto queste false promesse, mangiata e divorata da sciacalli che diventavano sempre più ricchi mentre noi non riuscivamo a mettere da parte neanche due euro.

La mia generazione, quella del lavoro in nero e dei voucher INPS, ha guardato passivamente a tutto questo, rimanendo inerme mentre ci levavano ogni cosa promettendoci però il mondo, per farci rimanere buoni, dei bravi schiavi.

Sono orgogliosa ogni mattina quando vedo le reazioni dei social media ai piagnistei dell’imprenditore di turno, perché vuol dire che il futuro è sempre meno fesso di noi, dei nostri fratelli più grandi e pure di quelli che abbiamo sempre chiamato geni, ovvero i baby boomer.

In questa giornata dal valore così prezioso che stiamo svendendo (guardate come si è ridotto il concertone del Primo Maggio a Roma: sembra Sanremo, ha perfino gli stessi sponsor) mi viene da dire bravi voi, che non vi fate infinocchiare dal sistema.

E ai miei coetanei vorrei ricordare che cosa eravamo e siamo ancora oggi: se abbiamo imparato una cosa dalle generazioni precedenti è il non fare come loro hanno fatto con noi. Perciò ascoltiamo la generazione Z, affianchiamola nelle giuste battaglie che riguardano il lavoro e il clima – che vanno di pari passo – e vi prego. Ve ne prego. Non diventiamo i prossimi che frignano dalle pagine di un giornale.

Il lavoro è un diritto, ma la dignità lo è ancor di più.

Tolta la nostra che ormai è andata in malora, garantiamola a chi verrà dopo di noi interrompendo questa catena di odio generazionale che ha creato solo nuovi schiavi di nuovi padroni.

Capisco solo oggi che quelle lacrime di coccodrillo che leggo ogni mattina dalle pagine dei giornali hanno un nome ben preciso: quel nome è ricatto.

E sono davvero fiera che nessuno, dopo noi Millennial, ci stia più cascando.

ARTICOLO n. 35 / 2023

NON SPARIRÒ COME LILA

A proposito de "L’amica geniale"

Pubblichiamo un’anticipazione dal libro di di Marina Pierri, Lila. Attraverso lo specchio (Giulio Perrone editore) da oggi in libreria. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

Cammino avanti e indietro su corso Vittorio Emanuele: il salotto buono di cui ogni città è provvista. Cammino tra le palme che grondano semi marrone scuro dalle bisacce nere. È mezzogiorno e devo salire da mio padre. Dobbiamo pranzare assieme, come sempre facciamo quando torno a casa, a Bari. Ma non riesco. Mi siedo su una panchina. Mi alzo. Mi inerpico sulla salita Miramare dove andavo a limonare con il mio ragazzo nell’ultimo anno di liceo. Fa freddo, o forse fa caldo, non mi ricordo. I miei genitori sono separati da quando sono piccola e a oggi, a quarantadue anni, nelle visite frequenti alla mia città natale vado e vengo, vengo e vado, da due appartamenti diversi. Casa mia, o almeno le mura cui attribuisco quello specifico significato, è a Milano. 

Sono Elena Greco: fuggo di casa a diciotto anni. Sono Raffaella Cerullo: resto.
Sono Marina Pierri e sto ascoltando in cuffia il quarto volume de Lamica geniale, da cui non riesco a staccarmi anche se è ora di pranzo, la pasta si raffredda e io non riesco a citofonare per farmi aprire, perché non riesco a smettere di ascoltare.

Lila ha perduto sua figlia. All’improvviso, la bambina non c’era più. Nunzia detta Tina, quasi una crasi del nome delle bambole di Lila e di Lenù quando erano piccole, Nu e Tina – oggetto di un potente incantesimo di inabissamento – è svanita. Tina, bambola viva, è stata inghiottita dal ventre del rione. Ora pure lei riposa nello scantinato dove dormono le Ombre. 

Sto male per Lila.
Lila mi è entrata dentro e forse serve un esorcismo. Questo libro è il mio esorcismo.

Sulla salita Miramare, mentre ascolto, gli occhi che vanno da tutte le parti, mi ricordo la saliva dei baci di diciottenne; la violenza dell’essere diciottenne e la violenza con cui ricercavo la lingua del giovane uomo androgino, assai bello, che mi aveva intossicata e, poco più tardi, mi avrebbe abbandonata. Per tornare, sì, certo, ma solo dopo avermi regalato la mancanza. Da qualche anno si è sposato e si è aperto un negozio di tè qua vicino. 

Conto i minuti che restano alla fine dell’audiolibro, il quarto volume, Storia della bambina perduta, e sono troppo pochi. 

Nel documentario, che ho assai apprezzato, Ferrante Fever, Elizabeth Strout dà la misura di questa sensazione: allora si esce, e si esce così, dal labirinto della tetralogia? Quando si arriva ai confini del dedalo, diventa chiaro che non ci sarà alcun epilogo edificante per Lila. Non sarà possibile un’inversione delle circostanze. Non nel poco tempo che rimane. Nessuno spazio per un lieto fine. So bene che a sparire finirà per essere Lila stessa, e lo so perché è così che L’amica geniale inizia, con la sua scomparsa. Con la sua mise en abyme, cioè l’inabissamento programmatico che informa l’intera tetralogia. Quando la conosciamo, e non uso il plurale a caso perché questa esperienza non è solo mia, ma di noi tutte, conosciamo già la sua fine. Io questa vicenda l’ho letta, l’ho ascoltata quando dovevo fare altro e dovevo staccarmi dalla pagina, per poi fare ritorno alla pagina, sempre. Ora dovevo fare altro, appunto. Devo fare altro. Devo citofonare e salire a casa di mio padre dove mi sta aspettando il pranzo sul tavolo. Mio padre mi sta aspettando e io non riesco ad arrivare. Perché sono bloccata sulla salita Miramare di Bari insieme ai fantasmi: quello della Marina che cerca la bocca di un uomo bellissimo, che ama più di quanto sia riamata; quello di Tina; quello di Lina. 

Questa bambina, mi dico, deve essere ritrovata. Povera Lila.
Povera Lila. 

Mi faccio male mentre ne ascolto il destino. Non ritroveremo Tina, e non ritroveremo Lina che guarda sempre con gli occhi dell’Ombra. Gli occhi di Lila sono gli occhi dell’Ombra. 

Non può essere; non è giusto, penso. 

Il mare puzza, o profuma, e l’odore vero si salda a quello immaginato delle stanze chiuse dove Lila inizia ad aspettare, a guardare fuori dalla finestra senza poter sperimentare la morte. Piango, ma non mi sfogo. La sensazione è quella di un fazzoletto strettissimo al dito che blocca il flusso del sangue. 

Lila! Ti prego, Lila. Non può essere capitata a te, questa cosa. Dopo tanto lottare, dopo tanto soffrire, dopo tanto resistere alla fine sei stata sconfitta; alla fine ha vinto la tua maledizione su tutte le nostre benedizioni. 

Elena Ferrante: perché? Perché hai fatto questo a Lila? 

Non farò la stessa scelta di Lila, nelle pagine che stai per leggere: non sparirò. 

Ci ho pensato, e ci ho pensato a lungo. Sono il tipo di persona che tende a sparire dietro le idee e dietro i concetti. Faccio fatica a postare un selfie e raccontare la mia vita privata sui social, o anche soltanto i miei sentimenti. In tantissimi momenti preferisco inabissarmi, specie quando faccio fatica a trovare un equilibrio tra il dovere di esprimermi e la necessità di farlo. Ma non me ne vado mai del tutto. Piuttosto rallento, provo a diventare trasparente per riprendere consistenza in uno specchio che è solo mio. Spesso ci riesco. Sono presente a me stessa. E con questa presenza dico ora: non sparirò, in questo libro, dietro la maschera di Lila. 

Sono Marina Pierri e ho scritto un libro che si chiama Eroine, sul Viaggio dell’Eroina. Ho fatto e faccio anche altre cose, che potranno apparire o non apparire in queste pagine. Mi sono affezionata a Lila come tantissime altre persone, come Elena Ferrante. 

Lila è chiave di volta, passe-partout, disegno che tutti gli altri disegni contiene, eppure è più simile a un collage, o a un découpage, come quello che lei stessa sforma, costretta a essere una fotografia in uno spazio – quello del calzaturificio Solara – che non è possibile colonizzare. Ma tutto questo già è noto, già esiste, perché Tiziana de Rogatis, nel suo Elena Ferrante. Parole chiave, lo ha già indagato. A me, quindi, tocca fare un passo al lato, non in avanti; trovare un’altra direzione. Per la precisione, intendo fare due passi, uno a destra e uno a sinistra, o se preferisci uno su e l’altro giù, decidendo di restare brevemente al centro, sulla cosa stessa, su me stessa, sulla mia configurazione unica di essere umano che qui non sparirà come accade di solito nei saggi, brevi o corposi che siano. 

Del resto, io non credo che si possa leggere e guardare Lamica geniale in una maniera che non sia in sé stesse. 

Lamica geniale nasce già intrecciata ai nostri vissuti di donne, di persone, di fruitrici, di autrici, di madri, di non madri, di corpi, qualunque corpo abbiamo. 

La peculiarità de Lamica geniale sta nel suo essere saldata in modo pregresso al nostro genere caricato di valori simbolici, quelli del fantasmagorico femminile o di un femminile fantasmagorico che esiste in primo luogo perché qualcuno o qualcosa ce lo ha consegnato alla nascita come un libretto di istruzioni fatto e finito, che poco margine lascia all’interpretazione individuale. In secondo luogo, come eredità comoda o scomoda che ci fa piangere, perché ci ricorda di tutte le madri che non abbiamo conosciuto e pure sono state le nostre, delle figlie che abbiamo o non abbiamo avuto e sono state le nostre, delle nonne, delle bisnonne, delle trisavole, delle suocere, delle donne oppresse, di qualsiasi oppressione abbiano sofferto. 

Leggere de Lamica geniale, e in particolar modo di Lila, significa questo: guardare nel pozzo del sé profondo e terrorizzante in cui peschiamo per compiere le nostre scelte quotidiane, quelle grandi e quelle piccole; e sapere non con il cervello, ma con la pancia, che questa storia ci appartiene. 

Proprio la sensazione di appartenenza mi ha sempre intrattenuta de Lamica geniale, e non nell’accezione comune di intrattenimento; quell’intrattenimento che al più è un’arma con cui veniamo minacciate di essere petulanti, poco a fuoco, di scarso interesse. Intratenuta nel senso latino: Lila mi ha legata, mi hanno legata tutti e quattro i volumi, forse in particolar modo l’ultimo con una corda che a oggi non so staccare, tanto che ho deciso di scrivere questo libro. Non tanto perché volevo liberarmene ma perché volevo finalmente essere capace di toccarla, la corda, di sentire di quale materiale è fatta e perché ha scelto proprio me. Ma ha scelto proprio me? 

ARTICOLO n. 34 / 2023

LETTERA A GIORGIA MELONI

Cosa si può scrivere oggi sul 25 aprile che non sia la solita riaffermazione impettita e retorica dei valori della esistenza, che non incide più, non è più proporzionale al nostro inquietante presente, dentro il quale ci sarebbe invece bisogno di scaraventare, nuda e cruda, questa ferita che ancora sanguina e che chiama a una resistenza ancora più tridimensionale e più grande?   

Rimuginavo dentro di me questi pensieri, in vari momenti della mia giornata, anche mentre camminavo di notte e persino mentre ero a letto sveglio, e mi venivano in mente mille diverse idee e ispirazioni, perché all’inizio avrei voluto parlare del 25 aprile in modo sghembo, diagonale. Ad esempio, mi era venuto in mente di far dialogare tra di loro due cani che avevano seguito scodinzolando eccitati la fiumana dei liberatori nelle vie di Milano, oppure che si erano trovati sotto i cadaveri a testa in giù a Piazzale Loreto. O addirittura di far parlare i cadaveri a testa in giù, tra di loro o magari con un animale, un cane, un uccellino, far parlare un uccellino con il testone capovolto di Mussolini. Oppure di mettere in relazione narrativa il 25 aprile con qualche avatar da me particolarmente amato: Don Chisciotte, Pinocchio, la piccola fiammiferaia, lo scarafaggio di Kafka… 

Queste e altre cose mi passavano per la mente. E forse ne sarebbe venuta fuori una cosa bella e originale. Però c’era qualcosa dentro di me che desiderava parlare del 25 aprile in modo più implicato, magari scomodo, rischioso, ma personale, diretto, senza abbellimenti. Così mi è venuto in mente di scrivere una lettera scorticata e aperta, e all’improvviso, d’istinto, ho pensato di indirizzare questa lettera a Giorgia Meloni.  

Cara Giorgia Meloni,

ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza in mezzo a fascisti. Mio padre era un militare fascista, che è stato fatto prigioniero in Libia e ha passato sei anni in campi di prigionia in India. È tornato a casa con forti problemi psichici e di alcolismo ed è stato internato in due diversi manicomi militari. Ho passato la mia infanzia a vedergli massacrare mia madre e ho ancora negli occhi l’immagine del suo corpo trascinato per terra e nelle orecchie le sue grida da animale scannato. Ogni tanto usciva dal suo mutismo e raccontava del suo trasferimento con gli altri prigionieri dalla Libia all’India, di quando, ammassati su un camion scoperto, passavano sotto un ponte del Cairo e gli arabi gridavano dall’alto “fascisti” e “Mussolini” e poi “si tiravano su quei loro sottanoni e ci pisciavano addosso”. Tutto questo per dire che sono stato attraversato da parte a parte, non in modo astratto ma viscerale, da questa spaventosa tragedia e che riesco persino a comprendere tutta la disperazione e il blocco emotivo e mentale dei vinti.  

Il fratello di mio padre, mio zio Demostene, era comunista. Era sotto sorveglianza dell’OVRA, era stato arrestato più di una volta ed era infine emigrato in Brasile, dopo essere stato minatore in Belgio e in Istria, da dove, pur essendosi dichiarato comunista internazionalista, era dovuto fuggire per non venire gettato nelle foibe. Però era stato lui che, quando mio padre fu dichiarato disperso, aveva fatto ricerche attraverso la Croce Rossa e aveva scoperto alla fine che era vivo e prigioniero in India. È stato il fratello più amato da mio padre, e viceversa, forse perché tutti e due, ciascuno a suo modo, avevano sperimentato una leopardiana “strage delle illusioni”… Tutte cose che ho raccontato in un libro sulla storia della mia famiglia, intitolato I randagi.

Vivevo in una casa di nobili, perché mia madre, poco più che bambina, spinta come gli altri suoi fratelli alla diaspora dalla miseria della propria famiglia contadina, era andata a bussare alla porta di una grande villa di nobili che c’era nelle vicinanze (quella di San Prospero che si vede in Novecento di Bertolucci) ed era rimasta per tutta la vita con loro, come domestica e poi quasi-figlia. Mio nonno (lo chiamavo così anche se non era veramente mio nonno) votava per il partito monarchico (che alle elezioni si alleava con l’MSI). Però non perdonava a Mussolini di avere istituito la tassa sul celibato, che lui – non sposato e senza figli – era costretto a pagare.

Il mio amico di infanzia e di adolescenza era uno dei figli di un’altra famiglia di nobili che abitavano nel nostro stesso cortile. Era fascista anche lui e una volta, per cercare di convertirmi, mi aveva portato nella sede mantovana del MSI (il MIS, come veniva chiamato allora) dove, a un certo punto, un vecchio laido aveva aperto un baule e tirato fuori il suo antico manganello, tra le risa compiaciute degli altri.   

Alcuni anni dopo, quando ormai avevo preso la strada di mio zio Demostene invece che quella di mio padre e prima di sperimentare anch’io la mia “strage delle illusioni”, in una piccola prigione di transito dell’Oltrepò pavese, prima di entrare nella mia cella e di buttarmi sopra il paglione, un ragazzo della cella vicina mi aveva rivolto la parola con gentilezza. Mi aveva detto di essere fascista ma di sapere chi ero e di essere stato a lungo indeciso se andare dalla mia parte politica oppure dall’altra, perché poteva succedere che, nei ragazzi, queste scelte fossero dettate non da convinzioni lungamente maturate ma anche da suggestioni momentanee, superficiali, comportamentali, emotive, a fare la differenza bastava magari un incontro casuale, un amico ammirato, un ragazzo o una ragazza che affascinavano. E poi questo ragazzo mi aveva allungato un romanzo da leggere, perché potessi distrarmi un po’ nelle mie prime ore da prigioniero. E io allora avevo pensato: “ma guarda, se noi due ci fossimo incrociati in una manifestazione ci saremmo avventati l’uno contro l’altro, mentre adesso che siamo tutti e due nella stessa condizione…” 

E adesso, molti anni dopo, mi dico che forse faceva gioco a qualcuno mettere una parte della mia generazione contro l’altra, che mentre si mandavano avanti dei ragazzi fanatizzati quelli che, dietro, comandavano veramente erano sempre gli stessi, come forse sta succedendo anche adesso, in un momento in cui siamo di fronte a emergenze mai viste prima, addirittura di specie. E invece siamo continuamente rigettati all’indietro mentre dovremmo fare un inconcepibile passo in avanti e inventare e reinventare le nostre vite. Siamo riportati alla paura dell’ignoto e dell’aperto, all’illusione di poter fermare, esorcizzare e pietrificare il mutamento con degli editti, all’irresistibile inclinazione per ciò che vi è di più autoritario e retrivo, veniamo riportati a Dio Patria e Famiglia, a una idealizzata famiglia tradizionale, al bambino che deve avere il suo bravo papà e la sua brava mamma, come se questo fosse il paradiso, e io l’ho sperimentato questo paradiso! Mentre avvengono continue stragi nelle famiglie, mentre si sa che le famiglie sono piene di dolore, come d’altronde possono esserlo anche altre forme di aggregazione umana, nessuna esclusa. Dobbiamo assistere alle parole ipocrite di persone che vivono in tutt’altro modo ma che recitano queste giaculatorie perbeniste alle confuse e spaventate moltitudini trattate come nuove plebi da abbindolare con delle semplificazioni, dei simulacri. E poi… un Dio a cui non credono ma di cui ostentano in modo grottesco i simboli religiosi, l’esasperazione delle identità, la Patria e i suoi presunti custodi, che già tanti disastri ha provocato nel nostro recente passato e che nulla ha a che vedere con il vero amore per il proprio Paese, la propria cultura e la propria lingua, che anch’io, come uomo e come scrittore, sento profondamente. L’idea, l’illusione di potersi rinchiudere in un rassicurante orticello nazionale, in un mondo sovrappopolato e interconnesso e di fronte a una sfida di specie che dovrebbe unire piuttosto che dividere gli umani e chiamarli a una grande invenzione. E gli uni abbaiano, e gli altri abbaiano, e così tutti sono costretti ad abbaiare, mentre ci sarebbe invece bisogno di silenzio, di silenzio e ardimento. Durante uno dei miei cammini, in Sicilia, un branco di cani randagi ci aveva affrontato, e i cani che stavano davanti, in prima linea, erano quelli che abbaiavano più forte, fin quasi a strozzarsi, e sembravano sempre sul punto di avventarsi contro di noi per sbranarci. E allora un altro camminatore che se ne intendeva di cani mi aveva detto: «lo vedi, uno può pensare che il capo sia uno di quelli che stanno davanti e che abbaia di più, ma il capo del branco è quello là dietro, che se ne sta zitto, immobile». E infatti, a un certo punto, quello zitto e immobile si è girato e se ne è andato in silenzio, e allora gli altri cani hanno smesso improvvisamente di abbaiare e l’hanno seguito a loro volta in silenzio.    

E così arrivo alla seconda parte di questa lettera.

Cara Giorgia Meloni,

lei si trova a capo del Governo il nostro Paese, proiettata e legittimata da elezioni che ha stravinto. Ha la responsabilità e l’onore di dirigere questo Paese fratricida e perennemente incompiuto, però capace a volte di invenzione, di fervore, di scatto. Un Paese che si trova a condividere con altri paesi europei un sogno continentale di cui è stato uno degli ispiratori, il sogno di un continente boreale composto di nazioni che si sono combattute per migliaia di anni e che adesso, dopo le tragedie causate nel Novecento dai nazionalismi esasperati, dalle tirannidi e da due guerre mondiali nate sul suo territorio, pur con tutti gli egoismi, ritardi e zavorre, ha imboccato una via controcorrente, trascendente, esemplare a livello mondiale, prefigurativa. Tutto questo in un momento in cui sempre nuove tirannidi piccole e grandi stanno crescendo come tumori in ogni parte del mondo, con il loro consueto portato di guerre, deliri nazionali e imperiali che ci riportano continuamente indietro e che non possiamo più permetterci, come specie che si è autoproclamata la più intelligente e che invece si sta dimostrando la più stupida, cieca, folle e suicida, che sta distruggendo le condizioni stesse della propria vita. Com’è possibile che in un momento simile, tra le mille identità su cui i potenti o presunti tali fondano il loro breve potere e il loro divide et impera, non se ne cominci ad affermare anche una nuova, di specie, di una specie che si trova a vivere nello stesso irripetibile habitat, sulla stessa zattera planetaria sperduta tra le galassie, insieme ad altre specie viventi interconnesse, vegetali, animali?  

Come si può, in un simile contesto e passaggio d’era, non avere coscienza che, senza liberarsi del retaggio di radici come quelle di cui la sua parte politica è ancora emanazione, non ci sarà futuro? Lei mi dirà che c’erano al mondo altre tirannidi oltre a quella nazista e fascista, come quella dell’Unione Sovietica di Stalin che, essendo stata invasa dalle orde naziste e avendo pagato per questo un prezzo altissimo, ha potuto mettersi nella schiera dei liberatori e dei “buoni”. Sì, però l’altra parte politica da molto tempo si è liberata di questi retaggi, ha strappato queste radici. Ha visto quale catastrofe, dietro la maschera delle palingenesi ideologiche, è avvenuta nell’URSS, ne ha tratto le conseguenze e fatto tesoro. Noi abbiamo ascoltato e accolto le terribili verità che ci hanno raccontato i testimoni di quella spaventosa servitù volontaria, quello che ci hanno raccontato Šalamov, Vasilij Grossman, Solzenicyn, Bulgakov, Nadežda Maldel’štam… E voi, che pure dovreste sapere cosa hanno combinato Hitler e Mussolini? Non sembra proprio, ad ascoltare le dichiarazioni di uomini della sua parte politica. Quanti ripostigli segreti, quante ambiguità, quanti doppi fondi, quante “sgrammaticature”, ma tutte sempre in un’unica direzione! Era sembrato, con la svolta di Fiuggi, di cui anche lei ha fatto parte, che foste capaci di una ripulsa netta e senza ambiguità del fascismo, ma poi avete intorbidito le acque, dando l’impressione di avere fatto marcia indietro. E anche lei… quanta ambiguità, elusività, reticenza, quanti opportunistici arrampicamenti sugli specchi, quanti italici contorcimenti! Lo so, lei deve tenere insieme i pezzi del suo mondo arrivato al potere, compreso il suo zoccolo duro elettorale, perché anche lei, nella migliore delle ipotesi, è imprigionata dentro la stessa ragnatela che ha contribuito a tessere e non può e non ha il coraggio di lacerarla, di liberarsi e di nascere. Anche se avete giurato sulla Costituzione – antifascista e repubblicana – e quindi qualcuno potrebbe persino dire che siete, tecnicamente, degli spergiuri.

Lei mi dirà: “Povero idiota, e chi me lo fa fare di recidere nettamente queste radici, di non riproporre la paccottiglia nazionalista e clericofascista visto che elettoralmente sta funzionando, che il vento sta girando da questa parte, e non solo in Italia? E poi, cosa credi, nessuno sega il ramo su cui è seduto!” E io le risponderei: “Certo, ma quel ramo è marcio! Sì, certo, lo so, il potere ha un orizzonte breve, non gli interessa il domani, non vede una spanna al di là del proprio naso. E per un po’ vi andrà bene così, ma verrà il momento in cui questa illusione regressiva e questa sproporzione tra i bisogni e desideri umani in questo passaggio d’era e le vostre depistanti, ottundenti ricette diventerà insostenibile, e allora anche voi verrete travolti”. 

Credete di rifarvi una verginità dicendo che siete dalla parte degli ebrei sterminati e che le leggi razziali sono state una vergogna, credete di poter separare questo indicibile orrore da tutto il resto e dall’humus politico e ideologico da cui è sorto. Ma non si può separare questo immane crimine dalla complicità attiva di Mussolini e del fascismo, dalla collaborazione nei rastrellamenti, nelle delazioni, nelle deportazioni, nelle stragi. Io ho camminato lungo un sentiero impervio che va da Pietrasanta a Sant’Anna di Stazzema, e c’era con me anche un uomo la cui nonna era stata assassinata. Ho camminato passo dopo passo sullo stesso identico sentiero che avevano percorso i soldati delle SS saliti a compiere quella terribile strage, mentre era ancora buio, prima dell’alba, con le armi leggere e anche quelle più pesanti che non so come abbiano fatto a trascinare là sopra, e c’erano con loro anche dei fascisti della RSI che facevano da informatori e da guide ai nazisti. Salivano tutti in silenzio, prima di arrivare in cima, di irrompere in quel piccolo paese con le sue case disseminate e di sterminare la sua popolazione, tutti, 560 persone, di cui 65 bambini, persino una neonata di venti giorni. E così in diversi paesi poco distanti, come Vinca e altri, centinaia di persone sterminate, mitragliate, impiccate, bruciate con i lanciafiamme… Non c’è niente da fare, il pacchetto è lo stesso, non si possono separare fascismo e nazismo, non si può prenderne una parte e pretendere di scartare l’altra, non si possono prendere per buone le mistificazioni ideologiche e le chiacchiere e pretendere di separarle dagli orrori, perché le due cose sono strettamente connesse, sono una cosa sola.  

E allora, a questo punto, domando, a lei ma anche e soprattutto ai più catafratti della sua parte politica: che cosa c’è nel fascismo che a molti di voi sembra ancora da ammirare e salvare, tanto da non riuscire a liberarvene? Che i treni arrivavano in orario? Le bonifiche? L’edilizia popolare? Ma anche Hitler poneva molta attenzione all’aspetto sociale, e infatti il suo partito si chiamava nazionalsocialista. E lo scrive ripetutamente nel Mein Kampf, che il suo partito non doveva mai perdere di vista questo aspetto, che doveva presentarsi come il paladino degli interessi popolari, legando a sé il popolo per dominarlo, fidelizzarlo e trascinarlo poi verso le sue deliranti e criminali imprese. Ma cosa c’era sull’altro piatto della bilancia? Il nazionalismo esasperato, il delirio razziale, le guerre di aggressione, il rogo dei libri, l’arte degenerata, la disumanità, l’antisemitismo, l’orrore assoluto e la profanazione dei Lager… 

E in Mussolini cosa mai vi può ancora piacere e affascinare? continuo a chiedermi. Che cosa, che cosa? Non so a lei ma di sicuro a molti di voi. Il trasformismo? La prepotenza? Il bullismo? Ma non vi viene da ridere quando vedete la sua grottesca figura con i pugni sui fianchi, che digrigna i denti? Ci vuole così poco per abbindolarvi? Oppure vi affascinano la cancellazione delle libertà politiche, le stesse di cui avete usufruito voi dal dopoguerra a oggi, oppure il suo conigliesco usa e getta delle donne, o forse gli assassini degli avversari politici, lo spaccare la testa a bastonate agli oppositori, l’umiliarli dando loro da bere dell’olio di ricino, il suo cinico “ci servono qualche migliaia di morti per sederci da vincitori al tavolo della pace”, il patto con il massacratore industriale del popolo ebraico? Come fate a convivere, anche solo in minima parte, con un simile orrore? Cosa può esserci di questo schifo che ancora vi piace e vi affascina? Siete così bloccati, così non cresciuti da non riuscire a liberarvi di questo schifo e ci avete costruito sopra la vostra identità? Siete mentalmente così servi che avete bisogno di un padre cattivo da idolatrare perché possa dare anche a voi il permesso di essere dei padri cattivi? Siete così spaventati e frustrati che avete bisogno di identificarvi a tal punto con l’aggressore?

“Povero idiota” lei potrebbe rispondermi ancora, “io sto facendo un gioco politico grosso, e per fare un simile gioco c’è bisogno di attrarre non solo pezzi di mondo politico precedente sempre in cerca di un nuovo padrone ma anche masse di scontenti, incattiviti, frustrati, che hanno sempre bisogno di dare le colpe a qualcun altro, e allora c’è bisogno di un collante ideologico per poter attirare e galvanizzare queste variegate masse di elettori, c’è bisogno di agitare soluzioni semplici, non importa se strumentali, ma che le possa capire anche un bambino.” D’altronde lo avevano detto chiaro e tondo Berlusconi e anche Trump, che bisogna parlare agli elettori come si parla a un bambino di sette anni, mostrando così tutto il loro disprezzo per le loro stesse moltitudini elettorali blandite.

Ce lo aveva spiegato bene Dostoevskij, come anche altri, che gli uomini hanno paura della libertà, che hanno bisogno di sbarazzarsi del fardello della libertà, che sono portati al servilismo e all’idolatria, a vendere l’anima a chi permette loro di sbarazzarsi del pesante fardello della libertà, che hanno bisogno del miracolo, dell’autorità. Perché si paga sempre un prezzo, un prezzo molto alto, per la propria libertà. È più facile, è più “naturale” essere servi che liberi, tanto più quando si spera di ricevere una ricompensa per il proprio servaggio. Meccanica che funziona non solo nel suo campo ma in ogni campo, compreso quello culturale, e io lo so bene per averlo sperimentato di persona. E lei, in questi primi mesi in cui detiene il potere starà assistendo sicuramente allo strisciare servile o infido di chi ha imbarcato o che potrà in futuro imbarcare, perché le persone, si sa, hanno la tendenza a saltare sul carro del vincitore. Spettacolo che forse, spero, la disgusterà. 

E ce lo aveva spiegato bene anche Tolkien come funzionano il potere e lo stregamento del potere. Voi dite di amare il Signore degli anelli, ma cosa avete capito del Signore degli anelli? Del suo fiabesco e implacabile svelamento dei meccanismi del potere e della fascinazione del potere, del bisogno di resistere e di combattere per la libertà dal dominio e dalla fascinazione della tirannide del potere volto al Male? Una battaglia incerta fino all’ultimo istante e in cui non si sa mai se si vincerà o se si perderà, però non si combattono solo le battaglie che si è sicuri di vincere. Cosa c’entrate con la lotta per liberarsi dal potere malefico dell’anello, voi che avete appena afferrato l’anello e ve lo tenete ben stretto, non vi passa neanche per la testa di gettarlo dentro il vulcano? Cosa c’entrate con Gandalf, con gli alberi che si sradicano, con gli hobbit, gli elfi, i nani?

Che grande leader lei potrebbe essere se trovasse dentro di sé l’indipendenza e l’ardimento per sradicarsi, come gli alberi del Signore degli anelli! Per compiere uno scarto improvviso, da cavallo di razza, per liberarsi della rete di inganni che la proiettano ma la imprigionano! Per traghettare verso un inaspettato e creativo futuro anche il migliore bagaglio della cultura “di destra”, ammesso che si possano operare separazioni di superficie per scrittori, pensatori e poeti che hanno raccontato, indagato e cantato con intensità e radicalità le nostre irripetibili vite e il nostro irripetibile mondo, e che anch’io ho letto, assimilato e amato. E per traghettare anche, attraverso la forza libera dell’esempio, il retaggio di irriducibilità che hanno contrassegnato le vite di interi popoli e di singole e verticali figure: i nativi americani, i sognatori e visionari come Garibaldi, il colonnello Lawrence, Che Guevara…: il coraggio, la sfida, la lotta per la libertà o per quella che ci può apparire o balenare come libertà. Che segno profondo, che ricordo, che eredità indelebile potrebbe lasciare! Lei, come ogni altra persona e vita, se ne andrà, ma potrebbe lasciare dietro di sé, come un interminabile mantello regale, questo segno del suo passaggio nel mondo.

Ma lo so che questo non succederà, che queste sono solo mie illusioni infantili, fantasticherie. Che lei è dentro una macchina, che è trascinata dall’ansia ma anche dall’ebbrezza ascensionale di questa macchina, e che questo taciterà ogni altra voce che può, forse, di tanto in tanto, salirle da dentro, perché lei è nello stesso tempo ammaliatrice e ammaliata, giocatrice e giocata.

E allora…

VIVA IL 25 APRILE
VIVA LA RESISTENZA

ARTICOLO n. 33 / 2023

IL PEDIGREE DEL POLLO

Around The Table. Una serie americana in italiano

«È pronto!», urlo dalla sala. Dopo poco sento una porta aprirsi. È quella di Vera. «Puoi aiutare Andrea a scendere?», le chiedo quasi subito. Vera apre la porta della camera di suo fratello. La sento parlare. «Andrea, dài, vieni che è pronto. Stasera ci sono le bistecche impanate, quelle che tu chiami MAYO perché le mangi affogando ogni pezzo nella maionese. Dài, ti aiuto io. Andiamo ché poi la mamma si arrabbia…».

Con l’estrema e snervante lentezza che lo caratterizza, Andrea scende le scale tenendo in mano il suo iPad, che da tre mesi gli suona la stessa canzone: Enough To Be On Your Way, di James Taylor. Vera è già a tavola, si riempie il piatto con una bistecca impanata e degli spinaci. Ryan intanto sta tagliando la carne per Andrea. Io sono ancora in piedi: mi accorgo che chi ha apparecchiato ha dimenticato pane, acqua, maionese e il mio solito bicchiere di vino.  

«Stasera si mangia tutto quello che vi mettete nel piatto, perché questa cena mi è costata come un viaggio a Parigi in business class. Buon appetito a tutti». Sono ancora sotto shock per la mia esperienza pomeridiana a Whole Foods, il supermercato dietro l’angolo che per correttezza nei confronti dei clienti, si dovrebbe chiamare Gioielleria Commestibile. Quasi ogni prodotto è biologico. Se ne compri uno, come dire, normale, le cassiere ti guardano malissimo, e ti insultano con lo sguardo: «Se sei povera, vai a fare la spesa da un’altra parte, stronza!».

Per arrivare al supermercato, dopo aver varcato la soglia, ho preso le scale mobili che portano alla sezione che vende fiori, piantine grasse e bigliettini per i compleanni. Davanti alle scale, sfoggiata come un quadro di Monet, l’ortofrutta, tutta bella in ordine. Ogni mela o arancia viene accarezzata con tenerezza, a volte spolverata bene e delicatamente appoggiata sulle altre per formare una specie di piramide; le verdure sorridono e invitano i clienti a posarle sui loro carrelli verdi, anche loro biologici. Ho comprato degli spinaci che mi hanno ringraziato per mezz’ora. Ho anche preso due limoni e tre mele. Il totale aveva già superato di gran lunga i quindici dollari. D’altronde, ai ragazzi piacciono le bistecche impanate e gli spinaci… Dopo la frutta e la verdura, ci si trova davanti alla pescheria, dove i pesci vengono ammazzati a botte di complimenti: «Vedrai che sarai buonissimo! Ti cucineranno con spezie fenomenali! Se fossi nato salmone, vorrei essere venduto qui anch’io, mangiato da tutta questa bella gente, che rispetta l’ambiente e che ha delle pentole da mille dollari l’una». Un po’ più in là, la macelleria. Mi sono avvicinata per chiedere un petto di pollo, e il macellaio mi ha raccontato con entusiasmo della stirpe di provenienza del povero pennuto: famiglia onesta, nata e cresciuta in campagna, libera di svolazzare nell’aia, libera di avere le proprie idee politiche e i propri sentimenti. Una stirpe nobile, insomma. Un chilo di pollo figo mi è costato ventun dollari. Con la voce un po’ tremolante da magone, il macellaio ha aggiunto che le uova, della stessa aia, erano dietro di me. «Costano un po’, ma la qualità è irraggiungibile». In effetti, otto dollari per una dozzina di uova possono essere giustificati solo se ci trovi dentro un tuorlo d’argento. 

Mi ritrovo di fianco alla corsia delle creme di bellezza, dei saponi e delle vitamine. Lì non mi fermo dal 2004, e cioè da quando comprai uno shampoo senza guardare il prezzo e mi venne un mancamento. Finalmente sono di fronte al pane: metto due francesini in un sacchetto di carta. Dài, cosa vuoi che siano quattro dollari. Vado a cercare il pangrattato, e sono costretta a fare delle scelte importanti: biologico? Normale? Aromatizzato al rosmarino? E le briciole: piccole, un po’ più grandi, soffici o dure? Per paura degli sguardi violenti delle commesse, prendo quello biologico, briciole piccole, non aromatizzato. Costa tre dollari di più, ma almeno non vengo umiliata davanti a tutti. Mi serve anche il burro (otto dollari e cinquanta), l’olio (diciassette dollari e quarantanove centesimi) e una bottiglia di vino scarso, al modico prezzo di ventun dollari. 

Quando la ricevuta della spesa viene sparata violentemente fuori dalla cassa, tutti noi veniamo colpiti da tremori incontrollabili, dalla mancanza di salivazione e dal dubbio di essere stati presi per il culo. Si prendono le scale mobili per scendere, si va in macchina e si piange. Neanche questa volta avremo i soldi per il cinema: andati tutti in spinaci e petti di pollo.

Per cui, quando un po’ più poveri ma felici, ci ritroviamo attorno al tavolo, se qualcuno si permette di dire frasi del tipo: non ho fame; do gli avanzi ai cani, non mi piacciono gli spinaci, io mi trasformo in Goldrake e spacco tutto. 

Sono appena tornata da Milano, dove sono stata a casa di mia madre. Di fronte al palazzo c’è un supermercato, molto più piccolo di Whole Foods, anche perché si trova in Italia, dove le dimensioni sono a portata d’uomo. Sono andata a fare la spesa anche lì: uova, formaggio, yogurt, pasta, cioccolato Novi con nocciole (due tavolette, vino (Pecorino buono), due etti di salame Milano. Alla cassa, mentre aspetto, tiro fuori dal portafogli la carta di credito. La cassiera, di marcato accento milanese, fa un po’ di battute sulle tavolette di cioccolato che mi fanno ridere. «Sono venticinque euro», mi dice dopo avermi dato un sacchetto. «No, scusi, è impossibile!», a cui lei risponde: «Eh sì, ha comprato il vino più caro…», come a dire che costa tanto per quello. 

Capisco che gli stipendi italiani e quelli statunitensi sono molto diversi, e che il costo della vita è direttamente proporzionato a questo fattore. Capisco poi che Whole Foods non è il tipico supermercato, ma quello dei fighetti o delle persone pigre come me, che non hanno voglia di prendere la macchina per andare a fare la spesa da un’altra parte. È ovvio che le aie americane hanno l’aria condizionata e i polli fanno massaggi e pedicure almeno due volte la settimana, mentre i poveri cristi italiani sono cresciuti in fattorie e vivono in modo semplice e onesto. Capisco tutto, ma mi sembra che il confronto fra il supermarket americano e quello italiano mostri senza ombra di dubbio che i prezzi di Whole Foods siano talmente esagerati da trasformarsi addirittura in un’ingiustizia etica e sociale.

Ogni quotidiano, italiano o americano, parla ogni giorno di salute: come invecchiare bene, come avere rapporti sessuali dopo la menopausa, come fare esercizio fisico una volta al mese. Ma il tema più importante è l’alimentazione. Spiegano che bisogna mangiare molta frutta, verdura e legumi, e meno carne o pane. Aggiungono che l’olio d’oliva, il latte magro, il pesce appena pescato e la dieta mediterranea siano necessari per una vita lunga e gioiosa. Negli ultimi anni, poi, si è aggiunta l’importanza di mangiare cibi biologici, non trattati con pesticidi.

Ma tutto ciò richiede un certo agio sociale: se il pesce fresco costa troppo, può essere acquistato soltanto da un ristretto gruppo di persone. Stessa cosa per quanto riguarda una mela, un grappolo d’uva, un’insalata, un petto di pollo biologici. Sono più sani, ma costano il doppio. Un cheeseburger da McDonalds costa due dollari e cinquanta; una mela biologica anche. Solo che il primo ammazza il fegato, ma sazia; la seconda fa bene, ma sazia per venti minuti. Nel 2013, in una zona povera di Detroit è stato aperto Whole Foods, che notoriamente ha prezzi molto alti. Fortunatamente, i manager del nuovo supermercato hanno capito che nessuno avrebbe fatto la spesa lì e dunque hanno abbassato considerevolmente i prezzi. Una storia a buon fine, ma talmente rara che attira l’attenzione dei mass media.

Ci sono principi che dovrebbero essere uguali per tutti, senza distinzione di genere, etnia o età. Mangiare sano è uno di questi. Negli Stati Uniti, le persone con la pelle di colore scuro sono discriminate anche per quanto riguarda l’alimentazione. La popolazione economicamente svantaggiata mangia cibo preconfezionato, frutta e verdura in lattina invece che fresca, cibi pieni di zuccheri e carboidrati perché ha poche scelte. Infatti sono loro che sviluppano diabete, obesità, ipertensione, e che hanno il colesterolo alle stelle. Noi, con i nostri bei branzini al forno e con la nostra verdurina, cresciuta solo per noi, siamo più sani perché possiamo permettercelo. 

Questo fenomeno di discriminazione alimentare è molto studiato dai sociologi americani che lo chiamano food desert, il deserto del cibo. Il termine viene usato per descrivere zone per lo più rurali o ai margini delle città abitate da persone a basso reddito (per lo più minoranze) che non hanno accesso a supermercati perché sono a chilometri di distanza oppure vivono in zone in cui i prezzi sono troppo alti per le loro tasche. Di conseguenza, sono costretti a comprare il cibo nei negozietti che non vendono nulla di fresco, ma junk food (cibo spazzatura). Fortunatamente, ci sono sempre più iniziative volte a diminuire il più possibile il disagio che questo fenomeno causa.È strano pensare che fare la spesa possa diventare un atto discriminatorio, che spendere così tanto per beni di prima necessità significhi entrare in una macchina del male, che ripudiamo con forza. L’immagine che mi balza agli occhi è quella di un serpente che silenzioso si intrufola nella nostra vita e contribuisce ad aumentare ulteriormente il gap tra chi può e chi no. È facile dimenticare la realtà di persone che non conosciamo, perché nel nostro quotidiano non sono che numeri in uno studio statistico. Fa un po’ impressione, pensavo pulendo la cucina, che anche quando si fa la spesa ci si trovi coinvolti, anche inconsapevolmente, in una macchina sociale iniqua e terribile. Aveva ragione mia madre, quando ci diceva che tutto quello che facciamo anche senza accorgercene deve essere considerato un atto politico.

ARTICOLO n. 32 / 2023

RITRATTO PORTATILE DI PIERGIORGIO BELLOCCHIO

Piergiorgio Bellocchio ha passato tutta la vita a Piacenza. Non si è mai spostato. Proprio come William Faulkner dalla sua Oxford, in Mississippi. E potrebbe essere anche suo, in fondo, il celebre telegramma con cui proprio Faulkner, nel 1950, rifiutò l’invito a cena del presidente Truman, alla Casa Bianca, per festeggiare la vittoria del Premio Nobel: «non ha alcun senso prendere un volo per una cena». Stesso temperamento ispido, stessa insofferenza per la retorica e la vanagloria, e, ancor più, stesso fastidio epidermico per il sentirsi esposti, per il parlare in pubblico. Ne ho un ricordo personale. Vidi Piergiorgio Bellocchio una sola volta, a Siena. Ero ancora studente universitario. A Lettere presentavano la ristampa di Ragionamenti: insieme a Luca Lenzini, c’erano Romano Luperini, Delfino Insolera, Renato Solmi e, appunto, Bellocchio. Mi colpì la sua premessa: «non ho abilità oratorie di alcun tipo: quindi leggo il testo che ho scritto». Così, senza preamboli, diretto e secco. La ritrosia, se non il fastidio, rispetto al sentirsi esposto, al parlare in pubblico, era chiarissima. Piergiorgio Bellocchio è stato un intellettuale radicale, introverso e fuori campo. Dalla sua base provinciale – porto sicuro, eppure mai magnificato – ha co-diretto, insieme a Grazia Cherchi, la rivista culturale più importante della Nuova Sinistra italiana: i Quaderni Piacentini. Rivista che, per quasi vent’anni, è stata molto più che un semplice foglio di ricerca, visto che ha contribuito a formare quella nuova comunità – fatta di battitori liberi, intellettuali senza mandato, storici politici e militanti di base – che è stata protagonista di quanto Primo Moroni, Nanni Balestrini e Sergio Bianchi hanno definito «orda d’oro»: vale a dire, dell’assalto al cielo del quindicennio di lotte del lungo ‘68 italiano. 

A partire dal «golpe Moro» e dalla conseguente implosione dei movimenti anti-sistemici, l’Italia iniziò però a mutare,esattamente come aveva diagnosticato qualche anno prima l’amato/odiato Pasolini; ma questa volta davvero, nel giro di pochi anni e ad una velocità impressionante. I Quaderni Piacentini nel 1984 chiudono. È ormai scomparso, infatti, intorno alla rivista, quel cosmo politico di cui era stata un attendibile sismografo. Bellocchio però non sa stare senza un progetto editoriale condiviso. Perché non è uno scrittore di libri, ma un saggista. E i saggi – si sa – sono come degli assoli che per suonare al meglio hanno bisogno di uno spazio orchestrato: la rivista, appunto. Ma ogni rivista è sempre un progetto politico: parla di Sé, mentre parla del mondo. Quaderni Piacentini aveva costeggiato una rivoluzione impossibile e, anche per questo, era stata un’esperienza editoriale entusiasmante: aveva coinvolto, in oltre vent’anni di vita, centinaia di collaboratori, un microcosmo sociale dentro un’onda politica vasta, radicale, ingenua e generosa. Nel 1985, però, l’orizzonte è tutt’altro. Per questa ragione, Bellocchio fonda un nuovo progetto editoriale, ma di indirizzo diametralmente opposto: si chiamerà Diario, uscirà per otto anni, senza alcuna regolarità. Uscirà quando deve uscire, senza giustificazioni, né tantomeno programmazione. Una rivista, per di più, fatta in casa, a Piacenza, da due sole persone: lui e Alfonso Berardinelli. Una sorta di scrittura a duetto, quasi una raccolta di Lieder: solo voce e piano. Malinconici, ma inconciliati; sarcastici perché disillusi. Accanto alle due voci, stralci di classici amatissimi: Kierkegaard, Leopardi, Baudelaire, Herzen, Thoreau, Tolstoj, Simone Weil e Orwell. Di fronte, la stupidità implosiva degli anni Ottanta: non solo Craxi, il socialismo della Milano da bere e l’inizio delle invasioni barbariche leghiste. Quanto soprattutto Repubblica, con il suo club di progressisti a buon mercato; e poi Umberto Eco, metonimia perfetta, per entrambi, di quella nuova sconfortante cultura del ceto medio riflessivo italiano, a metà strada fra esterofilia provinciale e narcisismo stolido. La diagnosi della rivista è implacabile: di quest’amalgama, che si oppone all’acculturazione politica di massa del decennio precedente, la telecrazia berlusconiana è un effetto; non causa.

Per l’insieme di queste ragioni, Diario è stato un progetto editoriale quasi clandestino perché radicalissimo, sprezzante e sulfureo. Basta leggere anche solo come veniva pubblicizzato, per capirne la nota bassa di fondo: «è in edicola il N.4 di Diario. Contiene sempre meno novità, sempre meno notizie, sempre meno argomenti inediti. Come al solito non contiene inchieste né rubriche di moda scienza bellezza cultura. Leggi Diario, ti darà di meno». Se Quaderni Piacentini aveva provato a cavalcare il futuro, scommettendo su analisi tendenziali e su una creatività intellettuale di tipo nuovo, perché posizionata dentro un conflitto politico di massa; Diario, all’opposto, si ritrae dal presente perché tutti i segnali che la cronaca emette sono inquietanti e inequivocabili; è meglio non decrittarli più. A questo proposito c’è un aneddoto significativo, benché malinconico, che Bellocchio riporta in quello strano Zibaldone personale, da poco pubblicato con il titolo Diario del Novecento a cura di Gianni D’Amo. Ricorda di essere andato a trovare Franco Fortini nel 1992, a casa sua, a Milano, qualche mese prima che morisse. Fortini è stato uno dei mentori di Quaderni Piacentini e, soprattutto, un maestro che entrambi, sia Bellocchio che Berardinelli, maltratteranno; e non senza rimorsi. Bellocchio osserva Fortini, che ha quasi ottant’anni e per di più è mezzo moribondo, mentre continua ad ipotizzare scenari nuovi, mosso da una costante ansia patologica per il futuro, perché non può non essere all’altezza del presente, che va sempre aggredito, rincorso: non si può restare indietro. Bellocchio lo guarda, quasi con tenerezza. Lui, il poeta classico della Poesia delle rose, che ha sempre odiato l’avanguardia, gli si rivela, in quell’istante, per quello che è davvero: un puro avanguardista, che continua, nonostante tutto, a giocare a scacchi con il futuro, senza capire che quella partita è, purtroppo per noi, e da mezzo secolo ormai, truccata. Bellocchio scrive: «gli faccio notare che da molto tempo ho smesso di seguire l’attualità. Mi tengo fedele e fermo a vecchi valori e mi comporto come se fossero sempre validi. Invece di fuggire in avanti, come lui insiste a fare, io retrocedo, mi nutro di passato. Gli ricordo il suo Goethe, che si rifiuta di proseguire nella lettura di Hugo, perché vuol difendere il suo modo di sentire naturale: si può per questo giudicarlo retrogrado?». Diariocontinua in questa cosciente retroversione fino al 1993. Perché l’anacronismo funziona benissimo come reagente di contrasto e il presente, osservato fuori campo, è nitido, benché orrendo. Ma quando ormai nessun anacronismo funziona più perché le previsioni si avverano e nulla più è da scoprire, il gioco si interrompe e la rivista si ferma: 

Quello che soprattutto valeva per noi era l’aver scritto, senza riferimenti politici e in solitudine, contro il mito della politica, la nuova classe media universale e lo strapotere delle comunicazioni di massa. Negli anni Novanta avevamo di fronte una situazione che confermava le nostre più pessimistiche intuizioni e avremmo avuto più da ripetere che da scoprire. I due autori concordano nel considerare quegli anni i più liberamente e felicemente produttivi della propria attività letteraria. Scrivendo “Diario”, ci siamo sentiti politicamente impegnati come mai prima.

I libri che Piergiorgio Bellocchio ha iniziato a pubblicare a partire dal volume intitolato Dalla parte del torto(1989) – e ricordiamo almeno: il delizioso Oggetti smarriti (1996); Al di sotto della mischia (2007); Un seme di umanità. Note di Letteratura (2020); e il suo Zibaldone, Diario del Novecento (2022) – sono tutti raccolte di saggi.  Alcuni sono già apparsi su Diario, altri scritti per rubriche su giornali – ne ha tenuto una bellissima, tra il 1992 e il 1993, per il supplemento libri dell’Unità, dove recensisce libri fuori catalogo miracolosamente ritrovati su bancarelle dell’usato – altri ancora sono prefazioni (stupenda quella dedicata al Pasolini politico, nel Meridiano curati da Walter Siti e Silvia de Laude) o introduzioni a libri altrui. Come ogni vero saggista, la sua è una scrittura di servizio, con un tono immediatamente riconoscibile: sarcastico, asciutto, a tratti giocoso, a tratti malinconico e meditabondo. È stato probabilmente una delle ultime incarnazioni novecentesche del modello goethiano dell’intellettuale dilettante. Che ha sempre difeso, contro il falso professionismo dei giornali e delle cattedre che è tanto più intimidatorio, quanto più è inessenziale.

Non ho mai avuto padroni, semmai dei soci. Del resto, anche negli scarsissimi rapporti di collaborazione con altre testate o case editrici, mai avuto un contratto, sempre stato cottimista, pagato a lavoro, a pezzo. Gusto dell’autonomia, non dover rendere conto a nessuno se non alla propria coscienza.

ARTICOLO n. 31 / 2023

HO LETTO MOLTO, MOLTISSIMO

Intervista di Fabio Bozzato

Poeta, scrittore, traduttore, editore: Michael Krüger ha vissuto per tutta la vita di libri. Per quarantacinque anni è stato l’anima della Carl Hanser Verlag di Monaco, da editore, direttore letterario e amministratore. Alla guida della rivista Akzente ha pubblicato una quantità di autori italiani, primo fra tutti il suo amato Cesare Pavese. Quaranta volumi tra poesia, romanzi, saggi portano la sua firma. Nel 2013, per celebrare la sua lunga carriera è stato insignito del London Book Fair Lifetime Achievement Award. E a marzo di quest’anno, a Venezia, in occasione del Festival internazionale di letteratura Incroci di Civiltà, promosso dall’Università Ca’ Foscari, ha ricevuto il Premio Cesare De Michelis.

Fabio Bozzato: Partiamo da alcuni ricordi personali, se permette. Oggi siamo dentro un’atmosfera di guerra, come mai l’Europa ha conosciuto negli ultimi 80 anni. Lei ha passato l’infanzia in un paese devastato dalla guerra. Che ricordi ha? Sognava già da bambino di fare lo scrittore? 

Michael Krüger: Sono nato durante la guerra, verso la fine del 1943, in un paesino a Sud di Lipsia. Peraltro, Lipsia era la città della Sassonia famosa per la sua fiera del libro e per le sue attività industriali già nel XIX e XVIII secolo. In quel paesino mio nonno aveva una grande fattoria, dove sono nato. Mia madre ha presto raggiunto mio padre a Berlino, dove lavorava all’ufficio postale e là hanno avuto altri tre figli. Io sono rimasto con i miei nonni perché mio padre era sicuro che Berlino prima o poi sarebbe stata bombardata. E così ha pensato che fosse meglio lasciarmi in campagna con i vecchi genitori. Nessuno di loro si immaginava in quel momento che ci sarebbero voluti sei anni per ritrovarci. 
Al villaggio erano rimasti quasi tutti anziani, per lo più donne. Gli uomini erano al fronte. Finita la guerra è stata molto dura per i miei nonni. Hanno perso la fattoria, perché era considerata troppo grande per i nuovi funzionari russi, dicevano che le fattorie più grandi di una certa dimensione dovevano essere smantellate. I due vecchi si sono ritrovati praticamente senza soldi. È stato tutto confiscato. I nuovi arrivati trovavano un lavoro solo se iscritti al partito. Ma mio nonno era un contadino con le sue convinzioni e ogni tanto apriva la finestra e urlava. Noi lo riportavamo dentro, «Non farlo, non farlo», gli dicevamo; ma lui era arrabbiato, solo che così rischiava di essere picchiato o arrestato.
Non c’era molto da mangiare, ma trovavamo sempre qualcosa. Andavamo in giro e lui spesso incontrava qualche vecchio amico. E così a volte gli davano un uovo, o trovava quello di cui aveva bisogno, come una lama da rasoio. Non aveva soldi. Comunque, quando ho cominciato a camminare andavo sempre in mezzo alla campagna a passeggiare con lui. In primavera era bellissimo. E d’estate pure. Solo d’inverno era più dura, bisognava trovare abbastanza legna per riscaldare la casa.

F.B. E i libri? Che ricordi ha dei libri?

M.K. Libri non ce n’erano. Avevamo due libri. Una era la Bibbia, una bellissima edizione con le illustrazioni, e l’altra era un libro sulle piante, uno di quei libri che ti spiegano il nome, il tipo e il significato delle piante. Così, nelle passeggiate con il nonno, passavamo tutto il giorno nei campi a raccogliere frutta, semi, funghi. Cercavamo cibo e una volta tornati a casa spulciavamo il libro per sapere che tipo di piante avevamo trovato. Ho avuto un’infanzia tranquilla, sì. Poi, certo, non avevamo nessuna radio, né ovviamente c’era la televisione. L’unica cosa che potevo fare era imparare più o meno a memoria quei libri. La Bibbia in particolare, piena di storie fantastiche. E come si sa, è proprio dalla Bibbia che poi sarebbero usciti tutti i romanzi che conosciamo negli ultimi duemila anni. Ho l’impressione che più o meno tutti i romanzi siano contenuti dentro la Bibbia. La nonna mi leggeva ogni sera un capitolo. A volte era difficile comprendere quelle storie e le domandavo: «come ha fatto Mosè a chiedere al mare di dividere le acque? Come era possibile che il popolo di Israele passasse in mezzo con l’acqua da una parte all’altra?». Allora lei mi spiegava e, a pensarci, le sue spiegazioni sono state davvero una sorta di poetica, di estetica della mia scrittura futura. Lei mi diceva che nella letteratura, nel pensiero e nell’immaginazione, è possibile dire al mare di andarsene. Sono stato con loro fino ai sei anni, poi ho raggiunto i miei a Berlino e ho cominciato andare a scuola.

F.B. E là ha scoperto la lettura

M.K. Ho letto molto, moltissimo. A Berlino vivevamo in un appartamento, i miei genitori, due fratelli e una sorella maggiori. E io parlavo un buffo dialetto della Sassonia, che era strano a Berlino e non si poteva sentire. Era lo stesso dialetto che parlavano i governanti della Germania Est, Walter Ulbricht e Wilhelm Pieck. Io ero molto solo e leggevo, ma tutto sommato stavo bene. Quando sono arrivato alla maturità, mio padre mi ha detto: «potresti studiare filosofia». È che mi aveva visto leggere Aristotele. Ma io, il giorno dopo che la scuola mi ha consegnato i documenti, ho deciso di diventare tipografo. Così ho cercato un posto dove imparare a stampare. A quel tempo avevamo ancora le vecchie macchine, sì, era il ’61 e c’erano quelle vecchie macchine tipografiche e così ho imparato davvero a mettere insieme una pagina, un libro e così via. È stato un periodo molto interessante della mia vita. Nel frattempo, andavo in una casa editrice e l’ha ho appreso a organizzare il lavoro con i libri. Ho lavorato così per due anni e mezzo e poi sono andato a Londra da un libraio. A quel punto dovevo trovare un modo per guadagnarmi da vivere e così ho cominciato a scrivere, scrivevo recensioni per dei giornali. Nel ’68 ero editor di un annuario letterario e incontravo molti scrittori, con cui parlavo di letteratura, poesia, estetica. E alla fine mi son detto: «scriverò io stesso». Ho aspettato un po’ prima di pubblicare qualcosa, avrò avuto una trentina d’anni. Ora sono un uomo anziano e continuo a scrivere. 

F.B. Lei è uno scrittore-editore. Quanto cambia lo sguardo di un editore che è anche scrittore rispetto a un editore-editore? Come guarda la letteratura degli altri?

M.K. Prima di tutto, chiediamoci: perché un editore non dovrebbe essere uno scrittore? Abbiamo avuto ottimi esempi. In Italia penso al mio buon vecchio amico Roberto Calasso. E così, l’altro mio amico Umberto Eco è stato un ottimo editore con Bompiani. Ricordiamoci che T.S Eliot, uno dei più grandi poeti, dirigeva anche una delle grandi case editrici di Londra, Faber and Faber. Quindi è possibile. Certo, non ho mai pubblicato le mie cose nella casa editrice dove lavoravo. Peraltro non sono mai stato proprietario di una casa editrice tutta mia, ero pagato per fare l’editore. Per Roberto Calasso era diverso, il suo lavoro di scrittore rientrava nel suo progetto. Nel mio caso ho sempre pensato che dovessero essere gli altri a pubblicare le mie cose, sennò qualcuno può pensare che la cosa puzzi un po’ disonesta. E comunque il modo di vedere il tuo lavoro cambia se lo sguardo è esterno, ma la logica è sempre la stessa: è il tentativo di aggiungere un libro in più a tutti gli altri libri esistenti. Ed è strano, perché già ci sono molti libri buoni e molti libri fantastici. Dunque, come editore di trovi a pensare che sei nella perfetta condizione di poterne aggiungere un altro. A dire il vero, è anche un pensiero un po’ egoista. Ma io ho sempre trovato un nuovo libro da pubblicare. E continuo a farlo. Pubblico, pubblico, pubblico e scrivo e nel frattempo invecchio. Credo che forse anche sul letto di morte, scriverò le righe di un nuovo libro.

F.B. Lei ha pubblicato anche molta poesia. In un’intervista ha detto: «è una cosa non negoziabile». Cosa significa pubblicare poesia?

M.K. Ho sempre amato pubblicare poesie, nessun’altra grande casa editrice ne ha pubblicate così tante. Ogni anno pubblico dieci, quindici libri di poesia e sempre gli addetti alle vendite mi dicono: «buon Dio, Michael, perché pubblichi tutto questo? Dai poeti non possiamo ricavarne un soldo». Eppure, tutti questi poeti, dopo dieci anni, hanno ricevuto grandi premi, compreso il Nobel. Quindi la mia lista di poesie nel suo complesso ha avuto un gran successo, penso a Iosif Brodsky a Seamus Heaney. Penso che la poesia sia una delle parti principali del mio lavoro. Penso a quanta poesia italiana abbiamo pubblicato, soprattutto i grandi poeti italiani, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Dino Campana, ma anche i poeti più giovani come Valerio Magrelli e così via. Quindi sì, amo la poesia e penso che la poesia sia la più interessante tra le forme letterarie, è la sfida più interessante per scrivere qualcosa di nuovo.

F.B. Perché la poesia può essere uno strumento così importante per la contemporaneità?

M.K. In realtà la poesia non è molto accettata come modo di pensare, guardare il mondo, affrontare il mondo. La poesia non ha davvero una grande reputazione in questo mondo. Succede ovunque, che sia in America, Italia o Germania: ci sono sempre 2430 persone interessate alla poesia, non di più. A volte uno di questi poeti ottiene un grande premio e allora entra nelle librerie e nelle biblioteche. Ma è guardando indietro, a tutta la storia della poesia, che ci si accorge come tutti i grandi poeti siano sopravvissuti molto più degli scrittori di prosa, anche i più famosi. E così alla fine penso che la poesia sia una tartaruga e la prosa una lepre molto veloce. La tartaruga è lenta, ma quando arriva all’obiettivo, è molto più felice e molto più rispettata di tutte le altre. Perché? Credo sia una questione di forma: nella poesia, in quella piccola scatola di parole, puoi trovare tutto il mondo, se sei fortunato a trovarlo. Lo capisci, ad esempio, se pensi a Ungaretti col suo famoso «M’illumino d’immenso»: due righe, sai che quelle due righe faranno per sempre parte della letteratura. «M’illumino d’immenso»: è enormemente più di 800 pagine di un qualsiasi romanzo borghese.

F.B. Eppure siamo un paese strano, ci vantiamo della nostra storia della poesia ma non ci sono programmi che supportino i giovani poeti né i traduttori, né li promuoviamo all’estero. La poesia sembra cristallizzata nel passato.

M.K. L’esperienza americana è molto diversa. In ogni college trovi una cattedra o un docente di poesia, lui stesso poeta. Così i poeti possono insegnare, avere uno stipendio e continuare a scrivere. E averli fa parte della qualità e della reputazione dell’università che li assume. Così fanno tutti i miei amici americani, così hanno fatto John Ashbery al Bard College, Adam Zagajewski a Chicago, Charles Simic alla Northwestern. Quindi tutti avevano un lavoro e i college erano orgogliosi di avere questi poeti come insegnanti. L’ultima statunitense vincitrice del premio Nobel, Louise Glück, ha insegnato ad Harvard, cioè il luogo più prestigioso che può sognare un docente. Dimostrano che sì, puoi vivere di quello. Questa è una situazione, diciamo, molto di lusso. Non ce l’abbiamo qui in Germania. Certo, a volte ci sono lezioni di poesia all’università, lo faccio anch’io ed è così interessante parlare con i giovani.
Tuttavia, penso anche che se nessuno è veramente interessato alla poesia, non ha senso costringere la gente a leggerla. Penso che quel piacere lo devi trovare da solo o sei perso. E posso solo dirlo ai più giovani: senza poesia, la tua vita è molto più povera. Se non mi credi, se non credi a questo segreto che ti sto raccontando, non ti posso costringere. Ma se ti piace, probabilmente avrai un’idea un po’ più chiara di quello che sta succedendo in questo nostro mondo.

F.B. E in questo nostro mondo, mai come ora si scrive e si pubblica così tanto…

M.K. Da quando abbiamo cominciato a sfornare tutti questi programmi educativi, del tipo “come essere uno scrittore”, ci ritroviamo un sacco di libri, a volte interessanti ma non certo affascinanti. E così tutti pubblichiamo centinaia di nuovi libri. Ma a ben vedere, secondo me, la pubblicazione di tutto questo nuovo materiale sembra il tentativo di dare risposte al nostro stare al mondo, ma ha poco a che fare con l’arte. Non sono libri scientifici, non è buona letteratura. A me questa cosa non è mai piaciuta. Probabilmente può suonare un po’ snob, ma a me sono sempre interessati lo stile e le idee. Sappiamo che senza arte ci troveremo in grosse difficoltà. D’altra parte, si dice che l’arte e la letteratura devono essere accessibili, semplici semplici, e quando si presentano difficili significa che non sono buone. Ecco, per me invece, quando una cosa mi si presenta difficile è meraviglioso. Quindi, che dire? Non dobbiamo per forza leggere dalla mattina alla sera per essere persone gentili e istruite, ma dobbiamo sapere cosa leggiamo.

F.B. In una intervista lei hai detto che «per essere editore devi essere psicologo, imprenditore, lettore e amico allo stesso tempo». Quindi cosa significa oggi essere un buon editore?

M.K. È un’ottima domanda che dovremmo farci. In realtà nessuno ti insegna a essere un editore, puoi solo fare del tuo meglio. E forse solo alla fine puoi scoprire se sei stato un Calasso, un Bompiani, un Garzanti o un Einaudi. Quindi, dal momento che non puoi saperlo, devi avere molti lectores intorno a te, perché non puoi fare tutto da solo. Devi avere persone che stanno imparando altre lingue o che parlano lingue che tu non conosci. Devi avere uno psicologo in azienda. Devi avere a fianco un ottimo uomo d’affari: un editore vuole spendere i soldi, pagare gli autori, ma ci vuole uno che ti dica: «cosa spendi se non ci sono abbastanza soldi?». E poi devi avere degli ottimi addetti alle vendite che seguano le tue idee: per me, è sempre stato importante avere un meraviglioso settore vendite, gestito – detto entre-nous – quasi sempre da donne. 
Quando sono in una città straniera, entro sempre in una libreria. Guardo cosa c’è in vetrina, cosa c’è sul tavolo o le raccomandazioni appese alla parete. E mi chiedo sempre: «perché? Come si arriva a questo?». La risposta è che è necessariamente un lungo lavoro di squadra. Persino Calasso, che era così presente tra i suoi libri, anche lui aveva una squadra, aveva bisogno di ascoltare tutti, discutere e scegliere.
Certo, da Giulio Einaudi era molto visibile, dietro ai suoi capelli bianchi c’erano Natalia Ginzburg, Elio Vittorini, Italo Calvino. Erano il cuore della Einaudi, editor coltissimi, che sapevano davvero leggere. È vero che ora c’è un nuovo tipo di editor, che annusa solo e annusa solo il successo e poi pubblica. No, un editor deve saper leggere attentamente e deve essere molto, molto colto. Penso a uno come Bobi Bazlen a Trieste, che ha il merito di aver portato la letteratura tedesca dopo la guerra in Italia. Ecco, lui è un vero esempio di editore.

ARTICOLO n. 30 / 2023

L’ASPARAGO, AFRODISIACO E ARISTOCRATICO

La mistica del cibo

La leggenda narra che il re Juan Carlos, assaggiando un piatto di asparagi, abbia esclamato «están cojonudos!» (“sono cazzuti”), e che da allora siano stati etichettati con questo nome suggestivo, che li distingue da molti altri.  Questi sono gli asparagi di Navarra, chiamati direttamente “cojonudos”, un prodotto che si caratterizza per essere più grande del normale, anche se, dicono, questo non toglia nulla al loro sapore. Coltivati nella parte alta della fertile valle del fiume Ebro, in Navarra, e raccolti a mano, sono un simbolo dell’ispanicità. Sembra quasi che, per gli spagnoli, il simbolismo sia direttamente legato al nome fortemente didascalico, senza sforzo alcuno nell’essere pudichi, anzi, facendosi forti di questo singolare primato mondiale.

Per me, il primo asparago dell’anno è sempre stata una piccola festa, perché voleva dire che la primavera era, finalmente, arrivata. Ricordo benissimo come, quando lavoravo al ristorante, la cella si riempisse di asparagi, cipolle novelle e fragole, unendo i loro profumi in un’unica fragranza inaspettata e gioiosa. Da poco prima di Pasqua alla fine di maggio, gli asparagi hanno accompagnato le mie primavere, sia che li usassi in cucina, sia che li mangiassi per diletto.

Nel Nord Europa, la stagione degli asparagi è un periodo dell’anno molto speciale. Pasqua e Pentecoste, che vengono celebrate con la stessa gioia del Natale, non sarebbero complete senza un piatto di asparagi imburrati.All’inizio della primavera, quando gli asparagi freschi iniziano a comparire sui banchi dei mercati, tutti sanno che il freddo è finito: questo ortaggio porta con sé, in qualche modo, la promessa di calde giornate estive dopo il lungo inverno.

Pianta dalla storia millenaria, i suoi germogli hanno forma cilindrica, il che li rende da sempre un simbolo fallico.Anticamente si credeva che bastasse sotterrare corna di montone forate perché i turioni (così si chiamano i germogli della pianta d’asparago che consumiamo in cucina) crescessero di loro sponte. Un fallo vegetale e il montone, anch’esso simbolo di potenza sessuale, uniti in un unico rito, per un prodotto dai poteri prodigiosi!

Gran parte dell’aura dell’asparago riguarda la sua reputazione di afrodisiaco ringiovanente. In effetti, alla base di questa descrizione c’è la convinzione che questi germogli fallici, dalla crescita prodigiosamente rapida, aumentino il desiderio e la potenza sessuale. Gli antichi greci attribuivano gli asparagi alla dea dell’amore, Afrodite. I Beoti facevano corone di asparagi per le spose. Il poeta Apuleio, autore de L’asino d’oro, avrebbe conquistato il cuore della ricca vedova Pudentilla con un filtro d’amore contenente asparagi, code di granchio, uova di pesce, sangue di colomba e lingua di uccello (il matrimonio gli valse un processo per stregoneria, ma fu assolto).

Questa pianta della famiglia dei gigli è decisamente aristocratica. I libri di cucina la elogiano come la migliore delle verdure, lodata in molti modi dai tempi antichi a oggi. Faraoni, imperatori, re, generali e grandi capi spirituali, poeti principeschi come Goethe e buongustai come Brillat-Savarin: tutti loro mangiavano e mangiano asparagi con grande entusiasmo. Ne consegue che gli antichi fitoterapeuti astrologi vedevano nell’asparago la firma del dio Giove, signore e fruitore di tutti i piaceri sensuali. Per gli antichi egizi l’asparago era un alimento sacro; per questo motivo lo includevano nelle offerte agli dèi. Durante gli scavi della Piramide di Saqqara, gli archeologi hanno rinvenuto preziose stoviglie con tracce di cibo identificate come asparagi. Fasci di punte di asparagi – insieme a fichi, meloni e altri cibi sontuosi – sono stati trovati anche nelle tombe di ricchi egizi sepolti circa cinquemila anni fa. All’incirca nello stesso periodo in Cina, gli ospiti onorati venivano trattati con un rilassante pediluvio agli asparagi al loro arrivo. Gli antichi greci erano soliti raccogliere asparagi selvatici, ma gli antichi romani si spinsero oltre, sviluppando i metodi di coltivazione necessari per la domesticazione di questo ortaggio.

Il modo in cui l’asparago è sempre stato consumato – e in alcuni casi lo è ancora – lo rende quello che gli antropologi chiamano cibo “cerimoniale”, ovvero, cibo consumato in un contesto speciale. I delicati germogli primaverili di questo membro della famiglia delle Liliacee si adattano perfettamente all’immagine della natura che finalmente si risveglia in primavera e alla resurrezione pasquale. Per la cena di Pasqua gli asparagi vengono spesso serviti con il prosciutto, e per una buona ragione: in questo abbinamento si annida un elemento simbolico arcaico. Un tempo, infatti, il maiale era considerato un simbolo di vita, gioia e fertilità per i Celti-Germanici-Slavi del Nord Europa. In alcune occasioni speciali, le tribù germaniche sacrificavano un maiale o un cinghiale per Freyt, dio fallico della fertilità e fratello della bellissima dea Freya. Si credeva che in primavera i due gemelli celesti attraversassero la campagna su un carro, mentre Freya spargeva fiori dalla carrozza. In epoca precristiana la gente celebrava una festa orgiastica di maggio durante il periodo della luna piena. Si innalzava il palo fallico del maggio, si ballava in cerchio e ci si abbandonava a un amore sensuale ed estatico. Dopo la cristianizzazione dell’Europa, questa festa fu trasformata in Pentecoste, che celebrava lo Spirito Santo che scendeva sul popolo per esprimersi nella lingua comune. Per questo motivo, in alcune regioni europee, il pasto della Domenica di Pentecoste consiste in lingua cotta di vacca servita con asparagi.

Tornando in epoca romana, si tramanda che Cesare Augusto fosse particolarmente ghiotto di asparagi, forse perché i germogli erano considerati uno dei più grandi afrodisiaci: e si sa, quello che fa l’imperatore, lo fanno tutti. 

Le cronache storiche riportano che l’imperatore Carlo V (1500-1558), sovrano dell’Impero asburgico, fece una visita inaspettata a Roma durante il periodo del digiuno. Poiché non c’erano molte provviste a portata di mano con così poco preavviso, il cardinale incaricato ebbe un’idea che salvò la situazione: fece preparare ai cuochi tre diversi piatti di asparagi, serviti su tre diverse tovaglie profumate e accompagnati da tre diversi vini squisiti. Si dice che l’imperatore sia stato conquistato da queste prelibatezze primaverili, tanto da lodarle per molti anni a venire.

I piatti a base di asparagi erano molto apprezzati anche alla corte del Re Sole (Luigi XIV). Chi voleva conquistare Madame de Maintenon, la seconda moglie del re, doveva solo portarle una nuova ricetta a base di asparagi. Tutte le ricette che ricevette dettero vita a un libro, e la zuppa di asparagi alla Maintenon è ancora oggi nota tra i buongustai. 

C’è inoltre un aneddoto di lungo corso che riguarda gli asparagi e la Roma dei Cesari. Ce lo racconta Plutarco in una delle sue Vite parallele, la De vita Caesaris. Siamo fra il 54 e il 53 a.C. quando Cesare e i suoi generali giungono a Mediolanum, cioé Milano, durante le vittoriose campagne belliche contro le Gallie. Invitati nella domus di Valerio Leonte, vengono festeggiati con un enorme piatto di asparagi al burro, tipico condimento celtico. I generali romani si sentono offesi per quell’ “unguento” – che le matrone dell’Urbe usavano come belletto – sparso sugli asparagi. Ma Cesare, inappuntabile, divora gli asparagi e ringrazia il padrone di casa, poi chiama a raccolta i suoi generali ed esordisce con una delle frasi capitali sull’estetica del gusto: »de gustibus non dispuntandum est», sui gusti non si discute. 

L’asparago godeva fama di afrodisiaco, e al tempo stesso di anticoncezionale: a tali fini erano utilizzati il decotto della pianta, oppure se ne usavano i semi misti a quelli di aneto, ma secondo alcune fonti anche un sacchetto di turioni nascosti tra le vesti poteva fungere allo scopo.

Aveva grande fama di afrodisiaco anche tra gli antichi greci e romani, che però pare ne avessero opinioni contrastanti: tuttavia lo stesso Plinio lo raccomanda come alimento utile ad accrescere l’eros. Viene prescritto e utilizzato come afrodisiaco anche nel periodo medievale e rinascimentale: il medico cinquecentesco Castore Durante scrive nel suo Herbario novo che gli asparagi, »mangiati caldi con un poco di sale e butiro, provocano al coito».

Oltre che come afrodisiaco, Plinio lo consigliava come cibo salutare per lo stomaco; consigliava inoltre la radice, tritata e bevuta in vino bianco, per espellere i calcoli, calmare le lombalgie e i dolori renali. Sempre secondo Plinio, l’asparago funzionava come deterrente per le api: a tal fine, bisognava aspergersi di asparago tritato e imbevuto d’olio perché le api non si avvicinassero a pungere!

A Francavilla Fontana, con i rami si intrecciavano le corone di spine utilizzate dai confratelli nelle processioni della Settimana Santa.

Sebbene questo pregiato ortaggio sia stato posto sotto il dominio di Giove, non vi risiede in modo esclusivo. I medici medievali, non a caso, lo attribuivano anche a Venere, la dea planetaria che governa gli organi urinari e sessuali. Di conseguenza, questi medici prescrivevano di cuocere l’asparago in acqua o vino e di berlo per aumentare la produzione di sperma e stimolare la libido. I medici galenici umorali prescrivevano la pianta anche per le ostruzioni del fegato, della milza e dei reni, nonché per i calcoli renali, poiché era considerata “diluente, diuretica e divisoria”. 

Dapprima pianta selvatica infestante, che cresceva lungo i bordi delle strade e i binari della ferrovia, nel XVII secolo l’asparago iniziò a essere coltivato in Europa centrale come ortaggio e pianta medicinale.

Da quel momento in poi viene citato nei libri di erboristeria. Negli speziali la radice era chiamata “officinale” – da cui deriva il nome botanico officinalis – che significa che si trovava nell’officinarum, il laboratorio degli speziali. Questo significa anche che la radice di asparago era riconosciuta dai medici galenici come una vera e propria medicina, in particolare per la “fluidificazione del sangue”, per i “dolori alle anche” (reumatismi, sciatica), per l’epatite, per i calcoli renali e per i disturbi urinari. Pietro Andrea Mattioli (1501-1577), medico personale dell’imperatore asburgico, scrisse nel suo libro di erbe del 1544: «L’asparago fa venire agli uomini desideri piacevoli», una convinzione condivisa anche dalla gente più semplice, come recita un ironico detto popolare svevo: «Il pastore sa bene perché ha gli asparagi nel suo orto». In Transilvania era noto come “fuso nei pantaloni”. In Stiria, regione dell’Austria che un tempo fu Slovenia, il vino con i semi di asparagi veniva prescritto contro la sterilità. 

Nella medicina rinascimentale lo si prescriveva come afrodisiaco, «mangiati caldi con un poco di sale e di butiro».

Nella fitoterapia moderna, l’asparago è ancora considerato un efficace diuretico. I preparati a base del germoglio prodigioso vengono consigliati per i calcoli renali, gli edemi, l’artrite, i reumatismi, la gotta, l’insufficienza cardiaca e le affezioni del fegato e della milza. Come tale, è efficace per il diabete, i disturbi cardiaci e le affezioni renali minori.

L’asparago è presente anche in alcuni ricettari magici: tra le antiche ricette rinvenute a fini etno-antropologici dal tossicologo Malizia (una selezione da formulari, manoscritti e testi che vanno dal 1400 agli inizi del 1800), si ritrova insieme ad altri ingredienti nella composizione di un impiastro indicato nella forma di un »composto per riparare la verginità perduta» e come »rimedio per recuperare la virilità».

Ritorna qui la singolarissima credenza magico-popolare per cui, se si sotterravano delle corna di montone forate, da lì nasceva un asparago, come vi raccontavo poco fa.

Come spesso nella storia, la forma rievoca il simbolo che si associa a un oggetto e l’asparago era quindi chiaramente associato alla sessualità in virtù della forma dei turioni, che rammentano il pene in erezione: e così, secondo la teoria della segnatura, il consumo dei germogli di questa pianta influisce in modo benefico sull’organo umano a cui i germogli assomigliano.

In effetti la pianta, soprattutto quella selvatica, è ricca di sostanze energetiche: vitamina A, B, B2, amminoacidi e oligoelementi che migliorano le funzioni renali e ne rimuovono i sedimenti. 

L’asparago era considerato un tonico sessuale anche in altre culture. Gli indù lo attribuivano al loro “cupido”, Kamadeva, che poteva aiutare una bella fanciulla, la giovane Parvati, ad abbindolare persino il dio più ascetico, Shiva; ciò avvenne aiutando Parvati a distrarre il dio asceta ricoperto di cenere per il tempo sufficiente a farlo innamorare di lei. Anche se in seguito sposò Parvati, lo yogi estremo Shiva si infuriò per aver interrotto la sua profonda meditazione e ridusse Kamadeva in cenere con il suo terzo occhio infuocato. Scioccate, le dee implorarono Shiva di riportare in vita il dio dell’amore e del desiderio sensuale. Shiva finalmente acconsentì e riportò in vita Kamadeva, ma non avendo più un corpo divenne ancora più insidioso, soprattutto quando invisibile scagliava le sue frecce al miele nei cuori più sfortunati.

Nella tradizione medica indiana dell’Ayurveda, sebbene l’asparago selvatico (satavar o satamuli: sat = cento, muli = radici) sia usato anche come tonico del cuore e del cervello è generalmente considerato una pianta curativa per i disturbi sessuali e l’infertilità, soprattutto perché si ritiene che aumenti l’ojas, l’energia luminosa generale. Il succo delle radici viene cucinato con burro chiarificato (ghee), succo di limone, miele, pepe lungo (Piper longum) e latte per creare un afrodisiaco che aumenta lo sperma, favorisce la produzione di latte materno e tonifica l’utero. 

In una tradizione simile, i musulmani cucinano le radici (safed musli) nel latte come sostituto del salep, il famoso elisir a base di bulbi di orchidea per aumentare la prestanza maschile e per “addensare e aumentare lo sperma” (de Vries 1989, 303). 

In Cina, l’asparago (conosciuto da più di cinquemila anni con il nome di Tien men Tong) è utilizzato come diuretico ed espettorante. Germoglio prediletto dai regnanti, quando scende di classe assume aura di prezioso, proibito, afrodisiaco, un po’ come quasi tutti gli alimenti nobilitati dall’attenzione delle mode dei potenti. Ed è proprio in una delle città austroungariche più aristocratiche che ho potuto consumarli alla maniera austriaca: una volta, da ragazzino, mi sono trovato a Vienna, a mangiare in un ristorante lungo il Danubio, dove dicevano di servire i migliori asparagi fritti della capitale! Erano effettivamente buoni, ma era forse più suggestiva tutta la scenografia attorno, rimane il fatto che per me gli asparagi bianchi si gustano al meglio bolliti e quelli verdi abbrustoliti direttamente in padella, con olio e sale: la semplicità paga sempre quando l’ingrediente è prezioso.

ARTICOLO n. 29 / 2023

CORPI IN ASCOLTO

Conflitto, rivolta, femminismo

Quando parliamo di femminismo, comunicazione, corpi e teorie c’è sempre un momento in cui dobbiamo scegliere se ascoltare anche la nostra voce critica oppure andare avanti senza ascoltare i dubbi, le immobilità, le incoerenze che una pratica come quella femminista inevitabilmente si porta dietro. Djarah Kan è una scrittrice, una femminista e un’attivista. Ha la forza comunicativa di un vulcano in eruzione e non ha paura di infilarsi dentro gli argomenti più complessi e spinosi, per questo andiamo d’accordo. In due ore di conversazione abbiamo toccato tanti punti, spesso difficili e complessi, ma con un ascolto costante e reciproco importante. Vi serve un divano comodo, una birretta e un po’ di tempo a disposizione. Buon viaggio!

Giulia Paganelli

Parole e contesti

Djarah Kan: Quindi stai abbracciando la tua ombra ora.

Giulia Paganelli: In realtà io ho sempre studiato tanto i mostri e le ombre. Perché raccontano l’imperfezione, ma anche perché generalmente vengono affrontati come narrazione superficiale di una struttura sociale vera, e cioè: esistono corpi che sono costantemente presi come modello di negatività – se studiamo Michel Foucault è chiaramente questo ciò che dice sui corpi non conformi, che cioè sono corpi resi oggetto per educare le altre persone a non diventare mai quelle ombre. Quindi in questo momento forse sto guardando tutte le cose – me compresa – da fuori, e penso che ci siano tante cose che posso provare a fare, così come altre che posso fare meglio.  

D.K. Stai attenta però, stai attenta a questo tipo di pensiero, perché è molto insidioso. Sulla base della mia esperienza, che è individuale ma è anche universale perché comunque io sono parte di un tutto, quando mi sono trovata a fare questo tipo di pensiero sono caduta in un imbuto, perché ero convinta che, qualsiasi cosa facessi, potevo sempre farla meglio. Quindi mentre facevo una cosa proiettavo su di me un desiderio di insoddisfazione che in qualche maniera governava in modo nascosto tutto quello che facevo. Come se ci fosse qualcuno di invisibile che io non vedevo, ma percepivo, che muoveva le mie mani, che muoveva anche il modo in cui strutturavo una cosa, il modo in cui la immaginavo. Sono inciampata nei miei piedi e sono dovuta ritornare un po’ indietro e capire che tutto quello che io faccio è abbastanza, l’importante è non fermarsi mai. L’assurdo è la quantità, la qualità è una cosa che dentro di te sai quando c’è. Bisogna stare attente perché il perfezionismo è un suicidio.

G.P. Il perfezionismo è una delle cose che sto razionalizzando, che sto osservando in tutte le sue sfaccettature caotiche, perché non mi sono mai accorta di essere governata da questi fili. 

D.K. Perché abbiamo questa convinzione hollywoodiana del perfezionismo, della pulizia e del controllo totale. Invece il perfezionismo è caotico, per essere perfezionista devi avere un caos dentro infernale. Il perfezionista sta chiuso in una caverna per anni perché deve spostare un frammento da un posto all’altro.

G.P. il perfezionismo è una narrazione coercitiva. Perché se le cose vengono fatte con ordine di facciata, sono più controllabili. Quindi ricade sempre all’interno della struttura di potere. 

D.K. Infatti in questo periodo ho detto “fanculo l’ordine”, io sono per la vendetta e il caos più totale. Non mi interessa più nulla. Mi ha fatto male in questi anni pensare che l’ordine mi avrebbe portato alla gioia. No, ciao e vendetta. 

G.P. Mentre parliamo provo un senso di sollievo molto profondo, perché sento una persona che ascolta – e ascoltare è cosa rara. Perché per quanto facciamo proclami sull’ascolto e sull’intersezionalità della nostra pratica… 

D.K. Ma quando mai. Sono messaggeri di un mondo che non vogliono nemmeno loro. Io non credo che le persone sappiano cosa stanno creando ed è drammatico. Vogliono tutte essere perfette, sai cosa diceva mia madre? Una cosa molto vera: tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuole morire. Crescendo, questo detto è cambiato in ogni fase della mia vita. Oggi tutte le persone vogliono creare questo mondo pacificato, dove non ci sono più conflitti e dove le persone devono imparare solo in un ambiente protetto che sono i libri, le conferenze, le newsletter, i pantheon di persone che ti insegnano cose. Un ambiente medicalizzato, e a me non piace perché, forse, sono cresciuta come un animaletto che ha subito sul suo corpo un controllo poliziesco e non sono, quindi, molto amante del controllo in alcuna sua forma. 

G.P. Diventa un controllo quasi poliziesco della realtà, dei comportamenti. E questo diventa difficile poi da applicare alla formulazione del ragionamento che, per sua natura, ha bisogno di non avere vincoli e confini e di essere conflittuale. Il ragionamento riconosce ciò che non è coerente con i tuoi valori, ma sondare anche quello che non condividiamo è urgente per comprendere le dinamiche generali. 

D.K. L’altro giorno sono andata al bar e il barista, che avevo visto un paio di volte, mi ha tirato i capelli per capire se era una parrucca oppure no. Ti rendi conto? Era il mio quarto Negroni, però ti dico una cosa. Lui è stato molto maleducato, ma il suo gesto non era cattivo. Un ragazzo a cui nessuno ha insegnato l’educazione, che non significa razzista, significa che non sa comportarsi. Io noto che non sappiamo gestirci, mi è successo anche a me di pisciare fuori dal vaso. E tutta questa retorica del controllo poliziesco delle nostre relazioni sociali, tutta la retorica del self-help anche, tutta la narrazione della tossicità sono forme di controllo sociale che mirano ad annullare i conflitti che sono alla base dei processi che servono per imparare a relazionarsi. Ed è dura. Io a volte ho a che fare con persone bianche più progressiste, ragazze della mia età, che parlano con me e dicono “no ma io da persona bianca privilegiata penso che…”, allora io le guardo e dico »ti rendi conto che abbiamo entrambe 20 anni, ci stiamo bevendo un caffè e ci facciamo una chiacchiera e tu mi stai mettendo in una posizione di subordinazione perché ti relazioni con me sapendo che sei superiore, però ti dispiace e allora me lo vuoi dimostrare». 

G.P. Se non c’è conflitto, non c’è storia. Questo per me è uno spunto interessante perché quando parlo di privilegio e dico »guardate che il privilegio non è una proprietà dell’individuo, ma è qualcosa che viene calato dall’alto dai poteri e in cui tu sei avvolto e coccolato perché facendoti venire voglia di mantenerlo, inneschi la competizione sociale. Ma non è mai in tuo potere». 

D.K. Molte persone, infatti, sono convinte di avere la proprietà del privilegio. “Il mio privilegio”. Ma alle persone che iniziano con me una conversazione impostata in questo modo io chiedo ma tu chi cazzo sei. La mia migliore amica è nigeriana, viene da una famiglia benestante e i suoi genitori sono ricchi. L’altro giorno mi dice: «sai stavo riflettendo sulla questione delle quote razziali all’interno delle università che cercano di fare diversity & inclusion, però a me fa ridere perché sinceramente come fai a dire in partenza che io sono svantaggiata? Io sono ricca. E come fai a dire che una persona bianca è più avvantaggiata di me quando, per esempio, ha dovuto lavorare e fare sacrifici per pagarsi l’università restando indietro anche con gli esami. Come fai a dare per scontato che la sola etnia generi una situazione di svantaggio?» Lei è una mia compagna, è intelligente, è progressista e a me fa ridere pensare a tutte le persone progressiste che guardandola affermano che è una povera nera.

G.P. Secondo me dovremmo rivedere anche la hit parade del privilegio, perché se non partiamo dalla ricchezza e dalla povertà sbagliamo la lettura di tutto quanto. 

D.K. Certo, perché tu puoi insultarmi e darmi della ne*ra, ma se le tue offese non fungono da ostacoli per la mia carriera o per la mia realizzazione a me cosa me ne frega? La categoria della classe è la prima forma di discriminazione. E se teniamo a mente questa cosa poi riusciamo anche a capire dove sta il privilegio e, soprattutto, chi agisce il privilegio. Non c’è nulla di più razzista che stare lì a pensare in automatico che tu sei superiore perché sei bianca. Solo che adesso l’arco del razzismo è cambiato, perché è stato attraversato dal discorso liberale e progressista, per cui io riconosco il mio personale privilegio di essere una persona bianca, però mi dispiace perché tu non lo sei. 

G.P. Esiste, indubbiamente, la tendenza a voler eliminare il conflitto, ma se elimini il conflitto annulli le storie personali e la narrazione. E la narrazione è fondamentale per poter evolvere e risolvere le questioni. 

D.K. Ma io come faccio a capire se sono nel giusto o nello sbagliato se con te non mi scontro? Devo stare buona ad ascoltare la lezioncina che mi fai dal tuo essere dispiaciuta non perché sei bianca, ma perché non lo sono io? L’altra sera a Carnevale un ragazzo aveva una maschera di scimmia e mi fa «hai visto che mi sono travestito da te?» Lui era un altro che pensava di essere talmente progressista da poter dire questa cosa. Io non ho detto una parola, l’ho guardato per un quarto d’ora. Io penso di aver fatto di più guardandolo con disprezzo per un quarto d’ora che a fargli un discorsetto perché non aveva gli strumenti per capirlo. 

G.P. Qui ci sono due ragioni che si intrecciano secondo me. La prima è che tutte le persone sono vittime di una carenza sostanziosa di educazione emotiva, quindi se fai riferimento alle sei emozioni di base – tipo Inside Out – le uniche che capiscono, le persone forse ci arrivano. La seconda è che non stiamo mai affrontando il problema dell’accessibilità alla comunicazione. Io mi domando spesso: ma noi, esattamente, a chi stiamo parlando? Perché mi sembra sempre di essere tra quattro persone e che non si riesca mai ad andare fuori. Per parlare fuori con le persone che non ci conoscono, non conoscono le nostre marginalizzazioni, non hanno studiato le cose di cui parliamo, dobbiamo essere noi a tradurci. 

D.K. Noi viviamo nel capitalismo. Le persone sono educate a lavorare, riprodursi e a soffrire il meno possibile. Questo è lo stato delle cose. Noi dobbiamo capire che tipo di umanità ci offre questo sistema economico e sociale. Allora tu, sulla base dello scenario che hai davanti, puoi cominciare a pensare a un linguaggio. Ma non possiamo pensare che il contadino o la tua vicina di casa che lavora dodici ore al giorno voglia sorbirsi il discorso sulla razza che gli vuoi fare. Quel ragazzo faceva il garzone, probabilmente non aveva mai avuto modo di confrontarsi su questi temi in modo complesso. Ma io devo tenerne conto, io devo capire il suo livello di socialità. Allora è meglio guardarlo con disprezzo per un quarto d’ora perché quello lui può comprenderlo a un livello che va oltre i processi cognitivi.

G.P. Capire il contesto in cui ci troviamo e ci muoviamo è fondamentale, perché non con tutte le persone ti puoi mettere a fare i discorsi alti argomentando l’offesa. Dobbiamo capire in che contesto ci troviamo, altrimenti non possiamo farci capire.

D.K. Io dopo gli ho detto «ma secondo te questo che hai detto è una cosa accettabile per una persona nera? non ti sembra datato ormai come concetto?» E lui mi ha risposto che bisogna essere autoironici, «ho un sacco di amici neri». E lui ha continuato a parlare, sempre più a disagio, sempre più a disagio mentre io lo fissavo e basta fumando una sigaretta. Secondo te gli è rimasto più questo o una bella lezioncina sul razzismo?

La scrittura 

G.P. Cosa stai facendo in questo momento? 

D.K. Io scrivo e cerco di scrivere. Per me è molto difficile gestire questa cosa della scrittura soprattutto quando hai una tecnica che deriva dai tuoi stati emotivi e dalla tua capacità di rimanere concentrata. Non è facile. Però sì, ora sto ricominciando a trovare il senso di scrivere di nuovo, perché per un periodo per me non ha avuto molto senso scrivere, non avevo niente, ero troppo concentrata sul mio dolore. Quindi sì, ora sto cercando di finire il mio libro. 

G.P. Parliamo della difficoltà della scrittura. Sentire l’urgenza della storia da raccontare impone un ritmo in cui tu, inevitabilmente, ti perdi. Almeno, io passo tanto tempo rincorrendo parole e mi rendo conto che se dovessi definirmi come scrittrice di certo non userei la parola “veloce”. La pratica della scrittura per me a volte è una gabbia. “Devi scrivere perché hai delle deadline” solo che io sono una persona di fuoco, funziono a sfiammate. Ci sono giorni in cui parto e posso farlo per 14 -16 ore, altri in cui non posso restare davanti al computer oltre i cinque minuti. E mi rendo conto che questa incostanza genera un artefatto: io scrivo secondo le mie regole che non sono quelle degli altri, ma mentre io non voglio imporre le mie regole a nessuno, il mondo fuori vuole impormi le sue. 

D.K. Io ho capito che non posso affidare la scrittura a come mi sento. Quando devo scrivere mi do un metodo: non esco, zero relazioni sociali. Non sempre è una cosa positiva, ma ne ho bisogno, perché per me scrivere è una cosa molto violenta. L’atto di scrivere costantemente e di restare iper-concentrate su una cosa richiede un rapporto di reciproca comprensione con questa violenza. Ed è una scelta, secondo me. A un certo punto devi scegliere se essere una persona che vive normalmente nel mondo oppure essere una che scrive. Perché se scrivi cambia anche il tuo processo cognitivo e la comprensione di tutto.

G.P. Hai detto bene, è un gesto violento. Perché devi guardare attraverso quelle lenti. 

D.K. Io a volte ho paura di guardare perché non è detto che tutto sia trascrivibile per il mondo dei vivi, a volte ci sono cose che non possono essere scritte. Lo scrittore è una sorta di strana bestia che vive a metà tra il mondo degli esseri umani e un mondo davvero molto diverso, fatto di immagini e suggestioni, fatto di cose spesso misteriose. E tu continuamente fai questo passaggio, tra un mondo e l’altro, un viaggio tra dentro e fuori come Caronte. 

G.P. E Caronte, comunque, non era uno risolto.

D.K. Certo, guardare e osservare quelle ombre, fare in modo che quelle ombre abbiano una sostanza attraverso le tue parole e che si traducano in una lingua che è la tua lingua. E deve farla capire alle persone. 

G.P. È il mito della Caverna di Platone. Tanti abituati a guardare le ombre proiettate sul muro convinti che siano reali e poi il folle che distrugge la catena e vuole colmare quel corpo opaco, vuole tradurla ai suoi compagni. Ma i suoi compagni non lo ascoltano. 

D.K. Certo, la scrittura è sempre fraintendimento. Deve generare un momento di conflitto. Per questo io mi infastidisco quando sento «eh ma quella persona ha usato quella parola e non doveva»Le parole non sono situate in un solo luogo. La parola non ha una casa. Come la n* word, per me non ha una sola casa. Ha tante case diverse perché le persone si muovono nel tempo e nello spazio. 

G.P. Quindi parliamo del politicamente corretto. 

D.K. Il principio del Politicamente Corretto è giusto, ma la sua applicazione è problematica. Se le parole non restano in un solo luogo, l’utilizzo di una parola in me cambia significato nel tempo. 

G.P. Io decido di non usare alcune parole come atto politico. La mia scrittura non perde niente, possiamo usare la lingua con più sinonimi al mondo. Allo stesso tempo, però, non posso fare a meno di chiedermi quanto valore abbia oggi, quando si sono polarizzate due parti, da una parte la rivendicazione della libertà di espressione e dall’altra l’ascolto obbediente e pio delle istanze. Mi manca la parte di conversazione in mezzo, lo spazio in cui capiamo che le parole non sono immobili e costruiamo una lingua collettiva. Io oggi non vedo questo terreno comune, neanche dentro al Femminismo Intersezionale. 

D.K. io per molto tempo ho usato la n*word, poi l’ho smessa, poi l’ho ripresa. Ma il modo in cui la uso io è chiaramente diverso dal mondo in cui lo usa una persona in modo dispregiativo. Noi dobbiamo iniziare a valutare questi contesti, dobbiamo iniziare a porci queste domande. 

G.P. Le parole non sono immobili, lo ripeto. Le parole non sono un insieme di lettere, ma un insieme di immagini storiche, comportamenti e queste cose cambiano a seconda del posto del mondo in cui vivi e del tempo in cui respiri. Quando ho iniziato a studiare e decodificare i corpi, per me è stato subito chiaro che le pratiche discorsive sono alla base della conformazione visiva del mondo in cui viviamo. Io mi sono sempre occupata di antropologia applicata al sistema culturale occidentale, mi sono sempre rifiutata di andare in altri luoghi e trattare ambienti e persone come cavie da osservazione, non fa parte di me. Ma, cazzo, il sistema occidentale ha bisogno di essere guardato dall’antropologia per essere visto e smantellato. Così arrivi al punto in cui capisci che le parole, il modo in cui vestono i corpi, la facilità con cui comunicando conformiamo uno sguardo, sono Il Punto. 

Identità e Nazioni 

D.K. Parliamo di corpi e di identity politics, perché noi prendiamo dal contesto americano tante categorie e teorie pari-pari senza che in contesto italiano sia possibile applicarli. Quando io ho letto il Manifesto della Razza del 1938 ho capito che quella era La Lettura, quel libello spiega perché in questo paese le persone non bianche faticano a trovare uno spazio. Noi siamo corpi astorici, tutto quello che facciamo non è previsto e, anche quando accade, inizia e finisce là, perché viene giudicato un caso. Quindi tutto ciò che non è bianco non è considerato qualcosa che ha valore abbastanza da dover essere indagato. In questo paese c’è stata la strage di immigrati più crudele della Repubblica – a Castel Volturno la camorra ha ucciso sette persone non bianche – causata da motivazioni razziali. In quel momento c’erano molti immigrati e la Camorra ha deciso di andare a sparare a quei sacchi di carbone, li chiamavano così. Sette persone uccise, ma tu senti mai di questa strage? 

G.P. Mai. 

D.K. All’inizio i giornali avevano raccontato questa strage come regolamento di conti tra Mafia Nigeriana e camorra. Invece erano innocenti, persone giovani. E ancora ci chiediamo se l’Italia è razzista. Certo che l’Italia è razzista, perché l’Italia è diventata bianca nel tempo. 

G.P. La storia d’Italia è una storia che va in questo senso, le stesse persone meridionali non venivano considerate bianche quando ci sono stati i primi tentativi di unione. Nel manifesto della razza si parla di omogeneità della pelle, quindi è il corpo che ti rende italiana. E questo ritorna sul discorso dei corpi e delle parole, perché tutti i corpi non conformi indossano degli stereotipi e per questo sono astorici. In Italia abbiamo una complessità ulteriore, perché l’Italia mutua dalle altre nazioni il concetto di identità nazionale, senza averlo costruito davvero. La storia d’Italia si racconta di una frammentazione perenne in ducati e signorie, frammentazione che rivomitiamo fuori costantemente. 

D.K. Rivomitiamo costantemente nel razzismo, perché le autonomie regionali sono feudi che si arroccano perché non vogliono condividere nulla con le altre persone. Noi non solo siamo razzisti, vittime di costanti guerre interne tra territori e territori, ma addirittura a un certo punto ci siamo guardati e abbiamo detto “come costruiamo un’identità nazionale? Andando a invadere altri territori”, così possiamo dire di essere un popolo unito perché siamo andate a massacrare persone che per noi sono inferiori. 

G.P. Quello che sottovalutiamo nell’analisi dell’Italia come nazione è il gap che abbiamo con la storia identitaria delle nazioni che hanno avuto Monarchie assolute e che, nel loro avere un potere centralizzato dall’alto, hanno costruito un tessuto sociale su scala macro, con categorie sociali macro che attraversano il territorio. In Francia con la potenza dell’aristocrazia e delle corti, ma anche con l’opposizione delle classi più povere che a un certo punto hanno agito. In Gran Bretagna con una storia fatta anch’essa di territori divisi ma che vanta un’unificazione ben più longeva e politicamente omogenea della nostra. In Prussia, quando con la Casata degli Hohenzollern si fissa il potere e poi si declina unificando i grandi Elettori sotto un unico presidio, ma anche in questo caso parliamo dell’inizio del 1400. L’Italia non è fatta di queste cose. L’Italia è fatta di una storia che parte già da un Impero Romano che per funzionare ha decentralizzato il potere nelle preture e queste preture erano Stati a se stanti. Certo, esisteva la grande narrazione divina dell’Impero, ma in realtà al suo interno deriva la frammentazione che già fu delle poleis greche. 

D.K. Certo, anche la storia tra Impero Romano e popolo ebraico va in questa direzione. L’Impero Romano impone un dominio, ma lascia alle singole parti la gestione. Questa è la storia dell’Italia, la storia di un paese che ha fatto tantissimi sforzi per concepirsi come unico, ma ha sempre fallito. Solo col sangue dell’unificazione si è arrivati ad avere un solo paese. 

G.P. Un solo paese geograficamente parlando, ma resta totalmente intatta la divisione fino alla storia dell’autonomia recente. Perché noi, nella divisione in piccole province, stiamo comodi. Tanto che la stessa lingua dell’Impero, il latino, muore per lasciare lo spazio alle lingue volgari. Certo, si somigliano tra loro per una questione fisiologica, ma la chiave per interpretare questa cosa è la particolarità territoriale della lingua, data dalla sopravvivenza dei dialetti e dalla loro trasformazione in modi di dire che valgono spesso per un paese e non per quello accanto. Per questo, per questo motivo, quando avere un’identità è stato necessario, abbiamo deciso di essere bianchi e di essere contro tutte le persone non bianche. Il Fascismo ha risposto con slogan e pratiche criminali a questa necessità di aggregazione identitaria. Lo fa anche oggi, è il motivo per cui Meloni vince. 

D.K. Noi siamo italiani perché siamo bianchi, perchè siamo cristiani, perché non vogliamo far abortire le donne, perché non vogliamo immigrati e vogliamo proteggerci. 

I Corpi 

D.K. Teorizzare e parlare di corpi significa rendere consapevoli le persone che ci sono cose che senza esperienza non possono leggere e vedere. Il razzismo non è un problema solo per le persone nere, è un problema anche per le persone bianche, perché non hai la possibilità di vedere quello che ti capita intorno con una consapevolezza trasversale e condivisa. Io non ti parlo di razzismo perché voglio essere riconosciuta, te ne parlo perché la tua è un’identità fasulla e, anche se non riconosci quella violenza perché dici di non essere violenta, io voglio dimostrarti che non è così. Io voglio strappare il velo di Maya che hai davanti agli occhi. 

G.P. Quando vivi in un sistema artificiale e non ti rendi conto di come sia la realtà, è un problema. Questa cosa è molto simile anche al rapporto che abbiamo con i corpi grassi. Quando parlo con persone che subiscono altri tipi di marginalizzazione mi rendo conto che ci sono delle continuità cognitive. Parlare di stigma del peso e di grassofobia a persone con corpi magri o corpi – diciamo – normali è un gran lavoro. È mettermi nella condizione di poter assorbire molta parte della violenza che hanno dentro. Le persone non si rendono conto di essere vittime di un sistema che le porta a performare continuamente col loro corpo e nel loro corpo. Questa cosa di cui non si rendono conto è violentissima, perché li porta a infliggersi pratiche non perché siano giuste, ma perché sono persone terrorizzate di cadere dentro il gruppo di persone ai margini. 

D.K. Ma certo, chi ti ama quando sei grassa? Chi ti ascolta, chi ti vuole, chi ti considera? Nessuno. E te lo dico io, non ho nessun problema a dire che io sono grassofobica con me stessa. Ho avuto per tanti anni disturbi alimentari. Sai che di quel periodo non mi ricordo nulla di me? Ricordo solo che ero grassa, anche se non lo ero per niente. Io ho vissuto il passaggio dall’infanzia all’adolescenza in modo violentissimo. Da piccola bambina magrissima mi sono trasformata in una donna col seno e sessualizzata. Non mi dimenticherò mai tutte le persone che mi hanno costantemente fatto notare quanto seno o sedere avessi. 

G.P. Ma certo, perché fin da quando sei piccola ti insegnano che non puoi meritare nulla se non hai un corpo magro. E questo significa che le persone che hanno a che fare con te sono giudicate come perverse e tu, che non hai ricevuto educazione emotiva neanche per sbaglio, accetti molte cose che mai dovrebbero essere fatte a una persona. Nel DMS c’è ancora l’adipofilia nell’elenco delle parafilie. Significa che in un processo per violenza sessuale se il mio abuser ha un avvocato furbo, nessuno verrà incriminato. 

D.K. Perché è considerata una malattia. Questa è una cosa terribile. Terribile. 

ARTICOLO n. 28 / 2023

IL GIOCO DEL SILENZIO

Esistono cose che non si raccontano. E questo lo sappiamo un po’ da sempre: di certi argomenti è meglio non parlare.

Un vecchio detto italiano recita “alla donna nessun vestito sta meglio del silenzio” e direi che non è stato poi così difficile, viste le nostre premesse culturali, aderirvi in modo pressoché letterale.

I modelli femminili per antonomasia sono infatti incredibilmente silenziosi.

Mi vengono in mente le muse dei grandi stilnovisti: erano donne miti, angeliche, meravigliose, giovanissime, sempre zitte e preferibilmente morte.

Ma anche le educande, allenate al silenzio; le donne della nobiltà di ogni secolo, anche il più moderno, che rimanevano quel famoso passo indietro per permettere agli uomini di mostrare la loro ruota di pavoni; le madri devote; le grandi attrici del passato come Marilyn Monroe, la cui duplice esistenza – sempre in bilico tra una gioia fotogenica di facciata e una pura, solitaria disperazione privata – è quasi emblematica di quel silenzio femminile di cui sto scrivendo.

La dimensione privata femminile è difatti sempre stata sotterranea, impercettibile, inenarrabile: di maternità, violenza, odio, lutto, desiderio, corpo era per le donne indecoroso parlarne; come se questi fossero argomenti tabù, permeati di un malsano orrore e capaci di rendere mostruose le donne che volessero esprimerne pareri – o legittime emozioni – a riguardo.

Le poche voci che riuscivano a levarsi e affrontare certi discorsi venivano prontamente silenziate o brutalmente esposte, come monito per le generazioni a venire: Artemisia Gentileschi è in questo senso un perfetto esempio di emarginazione indotta dalla sua ricerca di giustizia. Ma, senza andare troppo indietro nei secoli, possiamo pensare ad Amber Heard e al processo contro Johnny Depp. 

Le donne che parlano – parlavano? a volte mi piacerebbe poter usare solo il tempo passato – di argomenti intimi e potenzialmente disturbanti vengono da sempre allontanate dal dibattito o rese mostruose.

O meglio, citando Jude Ellison Sady Doyle, il loro femminile viene reso mostruoso.

Si pensa infatti che queste donne non siano adatte a essere mogli, madri, muse, femmine. Ma siano nate sbagliate, corrotte.

Questo perché “i panni sporchi si lavano in casa”, per usare un altro Leitmotiv nostrano, e la casa è ovviamente femmina.

Quello che succede dentro alle mura domestiche non deve uscire, deve rimanere privato e lì deve morire.

Il sistema di isolamento femminile – e isolamento delle voci femminili – è figlio utilissimo di un paese per uomini: se le donne non parlano allora non potranno comunicare tra di loro e, al contempo, il loro dolore e la loro rabbia non verranno accolti, lasciando gli equilibri di potere intatti.

Nei secoli – specialmente nel Novecento – questo atteggiamento si è andato a smorzare, facilitato anche dall’ingresso di sempre più donne nel mondo dell’arte che, per antonomasia, si fa portatrice di significati e messaggi nuovi, rivoluzionari, immediati – nel senso di privi di mediazione tra l’artista e il suo pubblico.

Specialmente dagli Anni Venti del secolo scorso le donne hanno preso sempre più spazio nell’industria dell’arte e della cultura. 

Questo ha portato a un rinnovamento dei temi e delle rappresentazioni stesse dei generi.

Pensiamo al surrealismo, corrente artistica del ventennio passato, profondamente maschile e spesso piuttosto acerba nella rappresentazione del femminile – nel senso che gli artisti usavano i corpi femminili come oggetti per veicolare la soavità, il desiderio, l’eleganza e la passione senza mai far vedere i volti delle modelle che vi erano ritratte, sessualizzandole ogniqualvolta fosse stato possibile – che si vide travolta dalla produzione di opere di artiste come Leonor Fini e Leonora Carrington. Le donne di questa corrente portarono per la prima volta una nuova immagine del corpo della donna, rendendolo feroce, brutale, pericoloso, respingente, dolente, egoista; e, in un panorama culturale ancora così maschiocentrico, questa era una vera e propria rivoluzione.

La possibilità di autorappresentarsi dava modo alle artiste di riprendere temi classici e finalmente caricarli di voci del tutto nuove, interpretazioni carnali, rumorose, terrene, reali, soggettive, prive di romanticizzazione.

La performance art degli Anni Settanta riprese in pieno questo desiderio di stravolgimento del silenzio – anche e soprattutto grazie alla spinta del movimento femminista – e diede voce ai sentimenti da sempre taciuti fino ad allora. 

Marina Abramović, con la sua performance Rythm 0 del 1974 a Napoli, in cui invitava gli spettatori a prendere in mano degli oggetti situati su un tavolo posto vicino al suo corpo immobile e a usarli su di lei, è stata in grado di dimostrare quanto il gioco del silenzio sia stato emblematico nell’isolamento del genere femminile: gli spettatori all’inizio della performance si limitavano a scriverle qualcosa addosso, spostarle capelli, attaccarle dei cartoncini. Ma con il passare delle ore il corpo muto di Abramović andava incontro a vere e proprie violenze: l’artista fu ferita, denudata, brutalizzata; venne perfino impugnata una pistola – carica – contro di lei.

Lo scopo di Abramović non era rendere il suo corpo il centro dell’opera, anzi: lo scopo di Abramović era rendere lo spettatore carnefice davanti al corpo immobile di una donna: dove può portarci il silenzio? La risposta che hanno dato gli spettatori in quelle sei ore di performance è piuttosto significativa.

Dagli Anni Settanta in avanti la voce delle donne dell’arte – in ogni sua declinazione – si è sempre più fatta sentire. Da Vanessa Beecroft – le cui performance costringono chi guarda a passare tra corpi femminili assolutamente erotici ma al contempo respingenti e spaventosi – ad Alda Merini, il silenzio intorno al tema del femminile si è man mano squarciato.

Ci siamo riappropriate della narrazione su argomenti come la perdita – L’anno del pensiero magico di Joan Didion è in questo emblematico – la maternità, la malattia mentale, l’aborto, il sesso, la violenza – dove Lidia Yuknavitch è stata maestra indiscussa con La cronologia dell’acqua –  e perfino l’amore, ripulendolo da quella patina melensa che era da sempre stata abbinata al sentimento di devozione, ritenuto femmineo – e qui mi torna alla mente la mia amata Sheena Patel – dando loro nuovi significati (e se non nuovi, almeno completandoli), aggiungendo voci laddove mancavano e riempiendo i silenzi intorno a sentimenti ritenuti ancora inenarrabili. 

Le scrittrici contemporanee sanno bene quanto sia prezioso questo momento storico e culturale per poter finalmente togliere un po’ di magia all’idea statica di femminile che ci portiamo dietro da secoli e che ci vuole martiri perfette o vittime inattaccabili.

Ecco, è in questa mia lunga, spicciola premessa che si inserisce Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, edito da Einaudi e uscito lo scorso 14 marzo.

Nella sua ultima opera, Lattanzi abbatte il silenzio sulla genitorialità e racconta di due anni della sua vita – e di quella del suo compagno – passati a cercare una gravidanza, a trovarla e poi perderla.

Nel racconto – velocissimo: il ritmo è travolgente, l’impaginazione non lascia fiato anche quando sembra volertelo concedere, il tempo presente ti incalza frase dopo frase – della sua corsa verso il desiderio, poi la paura e poi il dolore, il silenzio non esiste.

Non ci sono assolutamente tabù, non si lascia niente di non-narrato, e al lettore non viene dato spazio per altre interpretazioni se non quella dell’autrice, che ricostruisce due anni della sua vita in modo precisissimo.

In duecento pagine Lattanzi sa prendere il dolore e renderlo tridimensionale, affrontandolo da ogni sfaccettatura: dalla bolla familiare alla paura per il suo lavoro, l’autrice analizza ogni dettaglio su cui si è posata la disperazione, quasi fosse materiale vischioso che non vuole staccarsi da ogni cosa che tocchi.

Un viaggio intimo, profondamente personale, che tocca nodi delicati che si ha poca voglia di vedere da vicino – l’odio verso chi riesce a portare a termine una gravidanza, la determinazione di chi vuole un figlio, la solitudine di chi affronta certi percorsi che ancora non sono annoverati tra le cose che si raccontano – e che conferisce una voce nuova a un altro pezzetto di femminile rimasto per secoli silenzioso.

Lattanzi fa questo con la consapevolezza che il contrario di silenzio sia rumore, eppure non lo fa mai alzando la voce, guidandoci  bensì verso il centro di questo dolore, Caronte consapevole del ruolo della sua letteratura, così intima ma, al tempo stesso, di valore collettivo.

Da quando ho letto Cose che non si raccontano non posso fare a meno di pensare che questo libro si possa inserire tra quelle opere che ti aiutano ad avere un quadro più completo sul complessissimo mondo dell’emotività e della vita femminile, che per secoli ha subito una  costante e micidiale punizione del silenzio.

E questo silenzio ha avuto come conseguenza un isolamento di un intero genere, che è stato incapace di poter esprimere un complesso mondo emozionale legato al proprio corpo e ai desideri e alle paure più ancestrali che ci siano.

Negli ultimi anni si parla di maternità in modo differente, privandola di romanticizzazione, stigma, beatificazione. E non posso fare altro che pensare a come sarebbe stato meno solo il mondo per migliaia e migliaia di donne se voci come quella delle artiste fossero state accolte ben prima, e con diversa attenzione e sensibilità.

Realizzo dunque quanto sarà utile a tantissime persone questo romanzo di Lattanzi, in grado di abbattere il silenzio e spostare l’asticella del taciuto ancora un po’ più un là.

Rendendo le cose che non si raccontano cose che finalmente si possono dire senza paura.

ARTICOLO n. 27 / 2023

SAFFO, LA RAGAZZA DI LESBO

Tasmania, Australia, 9 marzo 1825. Sul “Tasmanian and Port Dalrymple Advertiser” di quel giorno compare un lotto di beni venduti all’asta, tra cui alcuni quadri, e tra questi un ritratto immaginario di Saffo, la poeta vissuta sull’isola greca di Lesbo alla fine del VII secolo Avanti Cristo, la cui ombra dorata si allunga sulle migliaia di anni a venire, fino al giorno in cui si svolge questa scena dall’altro capo del mondo, fino a noi.

Come un’archeologa che dolcemente e tenacemente riassembli una statua ellenica in frantumi, sapendo che dovrà fare i conti con mancanze e vuoti, Silvia Romani, docente di Mitologia, Religioni e Antropologia del mondo classico all’Università Statale di Milano, già autrice di studi dedicati al mito di Arianna e ora di Saffo, la ragazza di Lesbo (Frontiere Einaudi), ne ricostruisce per frammenti la figura e il lascito: dall’Antichità ai giorni d’oggi passando per l’Ottocento, in cui il nome di Saffo diventerà emblema dell’amore delle donne per le donne e, più ampiamente, della libertà di amare senza tabù chi e ciò che si vuole. 

La Saffo di Silvia Romani può essere quindi paragonata a una statua di cui ricostruiamo tra ipotesi e lacune la bella figura, o a un ritratto impressionista sempre in fieri, in cui il tratteggio avviene per intense pennellate: dato che dell’autrice, che Odisseas Elitis descriverà come una creatura minuta e bruna «che tuttavia ha mostrato di essere in grado di sottomettere una rosa», e a cui Lawrence Durrell ha dedicato nel 1950 Sappho. A Play in Verse, non ci restano che esigue e spesso incerte notizie di vita. In più, dei molti volumi che un tempo componevano la raccolta della sua produzione poetica nella Biblioteca di Alessandria, non è arrivato fino a noi che un Inno ad Afrodite, più qualche brandello di componimenti in versi, sufficienti però a tramandarne la grandezza. 

Infinite riscritture e interpretazioni, tra cui, naturalmente, l’Ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi, e uno dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese – in cui a discorrere con la dea cacciatrice Britomarti è proprio l’autrice nata a Ereso e vissuta a Mitilene, sull’isola che si diceva fosse stata razziata dagli Achei diretti con le loro navi nere alla non lontana Troia, l’isola dove poi, dopo dieci anni di guerra, avrebbero fatto di nuovo sosta prima di intraprendere la lunga e spesso mortale via del ritorno – ci consentono di pensare a Saffo, scrive Romani, «anche come a una persona che ci è familiare. Il suo mondo è a un tocco di mano, sbattono le vele delle navi, si gonfiano i tessuti leggeri che indossano le compagne, si svelano i giardini dietro siepi di rose che paiono alberi. E Saffo è lì». 

La ragazza di Lesbo balza così fuori dalle pagine di questo libro come la prima poetessa «ad aver avuto il coraggio di dire “io” con tanta risoluta determinazione. E se pure ora sappiamo che quel pronome di prima persona vuol intendere talvolta un io più grande, un mondo intero, ugualmente raccontare di lei significa anche parlare di ciascuno di noi». Le sue parole sono le nostre parole, scrive Romani, cielo e mare, luna e stelle, rose e viole, e i suoi fantasmi quelli che abitano gli scenari diurni e notturni di tutti: «l’abbandono, la solitudine, la fine di un amore, la vecchiaia, la morte», e anche gli infiniti mondi del perturbante, se a un certo punto la studiosa ricostruisce il tiaso dove Saffo fu forse educatrice, e amante, di ragazze giovanissime nelle forme di un Picnic a Hanging Rock molto ante litteram, sulle tracce del romanzo del 1967 di Joan Lindsay ancora più che del notissimo film, di quasi un decennio successivo, di Peter Weir. 

Nell’era della letteratura in prima persona, e della vita più che mai in prima persona, la stella Saffo – e vogliamo immaginarla non lontana dall’asteroide Saffo 80 che nel 1864 le è stato dedicato – splende più intensa. Accanto al saggio di Romani varrà citare titoli recenti, e in primo luogo la Saffo per bambine e bambini di Io sono la mela, di Beatrice Masini, affermata autrice per adulti e ragazzi e direttrice editoriale di Bompiani. Nel volume, uscito per l’editrice palermitana rueBallu, collana Jeunesse ottopiù e illustrato da Pia Valentinis, figura un sottotitolo: Una storia di Saffo. “Una” e non “la” storia, perché, racconta Masini ai suoi (piccoli) lettori e lettrici, «tutto ciò che è stato raccontato in queste pagine non è successo. Sappiamo così poco di Saffo che qualunque cosa ci azzardiamo a scriverne è una fantasia». I papiri su cui erano state riportate le sue poesie, per esempio, «sono stati gettati via e sono finiti in una discarica, alla periferia della città egizia di Ossirinco, e sono rimasti sotto la sabbia per secoli», fino al loro ritrovamento nell’Ottocento. «Certe volte poemi, tragedie, poesie sono stati usati per imbottire delle mummie (il mondo antico era un posto dove non si buttava via niente. Pezzetti di papiro, tagliati, bucati, macchiati. E sopra le parole. Alcuni erano finiti a foderare la pancia della mummia di un coccodrillo», che possiamo ben dire essere un posto ben strano, conclude Beatrice Masini, per una poesia o un canto. 

Dall’Antichità nuda di oggetti, viva di passioni, in cui Saffo ha vissuto; al racconto di Beatrice Masini, non «basato sulla realtà, ma nemmeno del tutto inventato», attraversando un impossibile buco nero che immaginiamo collocato a sufficiente distanza dall’asteroide Saffo 80 perché non lo risucchi, ci catapultiamo da vicinanza estrema a distanza abissale. Dalla Saffo materica di Silvia Romani – la cui migliore resa in immagini è forse la vulnerabile, lattea statuetta che il Metropolitan Museum di Boston commissionò e poi rifiutò a Auguste Rodin, e di cui oggi, dopo i saccheggi di opere d’arte perpetrati dai nazisti, ci resta solo una fotografia – alla Saffo mediatrice cognitiva tra mondo interiore amoroso prima e mondo dopo l’invenzione della scrittura che la poeta canadese Anne Carson tratteggia in Eros il dolceamaro (Utopia, traduzione dall’inglese di Patrizio Ceccagnoli, con uno scritto di Emanuela Tandello). In questo primo saggio del 1986, rielaborazione della sua tesi di dottorato, Carson, da poeta a poeta, a partire dal Frammento 31 – meglio noto come Ode alla gelosia – fa di Saffo la prima detentrice di quello sguardo lirico che triangola il soggetto amato e l’Altro, simile agli dèi, che l’osserva nella distanza della composizione nero su bianco, nel nuovo spazio dentro la mente e dietro il cuore che la pratica solitaria della grande novità dell’epoca, la scrittura alfabetica, rende possibile. È lì che nasce l’ossimoro, esemplarmente incarnato nell’aggettivo dolcemaro attribuito a Eros. È lì che si afferma la compresenza degli opposti, che la scrittura diventa la dimora privilegiata del senso inteso come ambiguità, come irriducibile complessità. «Il sé prende forma al confine del desiderio, e una scienza del sé nasce dallo sforzo di lasciarsi quel sé alle spalle». È davvero una coincidenza, scrive Carson, «che i poeti che inventarono Eros, facendone una divinità e un’ossessione letteraria, furono anche i primi autori della nostra tradizione a lasciarci le loro poesie in forma scritta?» O, per porre la domanda in modo più diretto, che cosa c’è di erotico nella nascita dell’alfabeto? Una domanda a cui, sembra sorridere maliziosamente Carson, è impossibile rispondere. O forse una domanda di cui solo la poesia, sorride ancora più maliziosamente Saffo nella nostra mente, detiene la risposta. 

ARTICOLO n. 26 / 2023

ANTONIONI IN MANICOMIO

Il documentario: sublime e rovesciamento

Pubblichiamo in anteprima un estratto da Decreazione di Anne Carson in libreria dal 31 marzo (traduzione dall’inglese di Patrizio Ceccagnoli). Ringraziamo l’editore Utopia per la disponibilità.

Il Sublime è una tecnica documentaria. Documentario: «relativo a, basato su documentazione; oggettivo, fattuale» (dal Dizionario della lingua inglese di Oxford). Si prenda il trattato di Longino Sul Sublime. Quest’opera è un cumulo di citazioni. Presenta argomentazioni confuse, poca organizzazione, nessuna conclusione parafrasabile. I suoi tentativi di definizione sono incoerenti o tautologici. Il tema chiave (la passione) rimanda a un altro trattato (che non esiste). Si riemerge dalla lettura dei suoi quaranta capitoli (incompiuti) senza avere un’idea chiara di cosa effettivamente sia il Sublime. Ma la sua documentazione è, a dir poco, elettrizzante. Come un pattinatore, Longino volteggia tra Omero e Demostene, Mosè e Saffo, su lame di pura spavalderia. 

Cos’è una citazione (quote, in inglese)? Una citazione (il termine inglese deriva dal latino quot ed è affine alla parola quota) è un taglio, una sezione, uno spicchio dell’arancia di qualcun altro. Si succhia lo spicchio, si getta la scorza e via, sui pattini. Parte di ciò che ci piace di una simile tecnica documentaria è proprio l’idea di banditismo. Saccheggiare la vita o le affermazioni di qualcun altro e scappare con un punto di vista, che viene definito oggettivo, perché, trattandola in questo modo, si può trasformare qualsiasi cosa in un oggetto; è eccitante e pericoloso. Vediamo chi controlla questo pericolo.

Nel capitolo venti del trattato Sul Sublime, Longino si congratula con l’oratore greco Demostene perché, quando racconta una scena violenta, sa far piovere le sue parole come colpi: 

«Con l’atteggiamento! Lo sguardo! La voce! L’uomo che colpisce può fare all’altro cose che questi non può nemmeno descrivere». 

«Con parole come queste», sorride Longino, «l’oratore produce lo stesso effetto di chi sferra un destro, percuotendo le menti dei giudici colpo dopo colpo», e cita ancora: 

«Con l’atteggiamento! Lo sguardo! La voce! Quando sembra agire con insolenza, quando si comporta come un nemico, quando si serve dei nudi pugni, quando colpisce alle tempie». 

Il punto di Longino è che, mediante la brutale giustapposizione di nomi coordinati o frasi nominali, Demostene traspone la violenza dei pugni nella violenza della sintassi. I suoi fatti traboccano dalla cornice del loro contesto originale e prendono a pugni le menti dei giudici. Pensate a questo rovesciamento. Dall’«uomo che colpisce», alle parole di Demostene che lo descrivono, ai giudici che ascoltano queste parole, a Longino che analizza l’intero processo, a me che ricordo la discussione di Longino e, infine, a voi che leggete il mio resoconto. Questo momento appassionante riecheggia da anima ad anima. 

Ciascuno lo controlla temporaneamente. Ciascuno ne gode citazione dopo citazione. 

Perché un’anima dovrebbe goderne? Longino risponde a questa domanda affrontando la psicologia del guardare, dell’ascoltare, del leggere, dell’essere spettatori. Questa psicologia comporta uno spostamento e un dispiegamento di potere: 

«Toccata dal vero Sublime la vostra anima viene naturalmente elevata, si innalza a un’altezza superba, si riempie di gioia e di vanto, come se avesse creato lei stessa ciò che ha udito». 

Provare la gioia del Sublime significa essere, per un momento, dentro il potere creativo, condividere un po’ di quella vita elettrica che si aggiunge mediante l’invenzione dell’artista, per traboccare insieme a lui. Consideriamo un altro esempio. Quando Michelangelo Antonioni stava girando Cronaca di un amore con l’attrice Lucia Bosè nel 1950, capì che doveva lasciarsi alle spalle la macchina da presa per attraversare il set e plasmare lui stesso la psicologia dell’attrice: 

«Quanti sganassoni prese, povera Lucia, per l’ultima scena. Il film si chiudeva con l’immagine di lei pesta e singhiozzante addossata a un portone. Ma lei era sempre contenta, e non aveva abbastanza mestiere per fingersi disperata: non era un’attrice. Per ottenere il risultato che volevo dovetti usare la violenza, psicologica e fisica. Insulti, frasi mortificanti, umiliazioni, e schiaffi cattivi. Alla fine le saltarono i nervi, piangeva come una bambina piccola: fece benissimo la sua parte».

Tra Antonioni e Lucia la soglia di un portone è una zona di pericolo. È un pericolo documentario. In un duplice senso. «Documentario» implica, da un punto di vista cinematografico, la preferenza per ciò che è reale, nella preparazione di un film, rispetto al ricorso all’immaginazione. Quando emerge da dietro la macchina da presa e si cala nella Cronaca di un amore per migliorare le prestazioni di Lucia Bosè con i suoi meravigliosi sganassoni, Antonioni fa razzia del confine tra l’attrice e la sua parte. «Documentario» si riferisce anche a qualcosa che dipende dai documenti. Chi avrebbe saputo di questo incidente se Antonioni non l’avesse raccontato a un giornalista del Corriere della Sera nel 1978 e non l’avesse incluso nel suo libro Architetture della visione, agendo come il Demostene di se stesso e poi come il suo Longino? Allo stesso modo, forse non avremmo mai saputo dell’effetto di Demostene sui giudici, se Longino non l’avesse elogiato nel trattato Sul Sublime. Forse non avremmo mai saputo della violenza dell’«uomo che colpisce», se Demostene non l’avesse denunciata nel suo discorso Contro Midia. In ogni caso, viene creato, citato e poi spifferato un momento appassionante. Potremmo sentirci le mani che formicolano, l’anima che si invola. 

Il primo maestro nell’arte di far traboccare la forza, ci dice Longino, fu Omero. Ecco Longino che descrive come Omero si trasformi nel suo stesso poema per diventare sublime quanto il suo soggetto: 

«Guardate, questo è il vero Omero che spira come vento accanto ai combattenti, nientemeno di quell’Omero che “infuria come Ares sferzante con la lancia, o come un rovinoso fuoco che divampa sui monti, nelle pieghe della profonda foresta, e la schiuma affiora intorno alla bocca”». 

La schiuma è il segno di un artista che ha immerso le mani nella propria storia, ma anche di un critico che si accanisce e si infuria nelle pieghe della propria, profonda teoria. È evidente alla maggior parte dei suoi lettori che Longino si muove attraverso il trattato Sul Sublime lui stesso coperto di schiuma. «Longino è lui stesso il grande Sublime che dipinge», dice Boileau. «Che cos’è più sublime: la battaglia degli dèi in Omero o l’apostrofe che ne fa Longino?», chiede Gibbon. «Le nature sublimi sono raramente pure!». Lo stesso Longino si esprime così. Uno schiaffo: paf! 

STOP

Il Sublime è grande. «Grandezza» (o «magnitudine») è uno dei sinonimi di sublime adoperati da Longino nel suo trattato. La sua grandezza minaccia di finire sempre fuori controllo, di sommergere e sopraffare l’anima che cerca di goderne. Questa minaccia fornisce al Sublime la sua struttura essenziale, un’alternanza di pericolo e salvezza, che altre esperienze estetiche (la bellezza, per esempio) non sembrano condividere. La minaccia fornisce al Sublime anche il suo contenuto necessario: cose terribili (vulcani, oceani, estasi) e terribili reazioni (morte, terrore, trasporto) all’interno delle quali l’anima sublime è tutto fuorché persa

La schiuma è un segno di quanto sia vicina questa minaccia. Infatti, un’anima sublime è minacciata non solo dall’esterno ma anche dall’interno, perché la sua natura è troppo grande per l’anima stessa. L’oratore sublime, il sublime poeta, il critico sublime, non sono che persone selvaggiamente smarrite nella propria arte, sospinte fuori di sé, incuranti, temerarie, in errore. «Bruciano tutto ciò che trovano dinanzi mentre vengono trascinati!». Longino insiste sull’estasi, sul genio che turbina fuori controllo, come il Reno o il Danubio o anche l’Etna, «le cui eruzioni scagliano dal basso rocce e rupi intere e versano fiumi di quel fuoco strano, spontaneo, nato dalla terra». Allo stesso tempo gli piace soffermarsi sull’orlo dell’Etna, osservarne la mostruosa emorragia, giocare con il controllo concettuale:

«Non si potrebbe forse dire di tutti questi esempi che… Il mostruoso suscita sempre meraviglia!». 

I film di Antonioni presuppongono molte forme di gioco con momenti di passione, diversi modi di diffonderne i contenuti. Al regista piace, per esempio, attirare l’attenzione sullo spazio fuori campo ponendo uno specchio al centro della scena, in modo da lasciarci intravedere un frammento decontestualizzato di mondo. Oppure gli piace regalarci due inquadrature in successione della stessa porzione di realtà, dapprima in primo piano, poi un po’ più in lontananza, non troppo diverse eppure sensibilmente disuguali. Usa anche una procedura, chiamata dai critici francesi temps mort, in base alla quale la telecamera viene lasciata girare su una scena dopo che gli attori pensano di aver finito di recitarla: 

«Quando tutto è stato detto, quando la scena sembra finita, c’è il dopo… Gli attori continuano per inerzia, per alcuni momenti che sembrano “morti”. L’attore commette “errori”».

Ad Antonioni piace documentare questi momenti dell’errore, quando gli attori fanno cose fuori copione, recitano «al contrario» come dice lui. Lì si può manifestare la schiuma. Ha iniziato ad allargare l’inquadratura in questo modo mentre lavorava a Cronaca di un amore. Ha poi lasciato che le riprese proseguissero anche dopo che gli attori erano usciti di scena. Come se qualcosa potesse continuare a frusciare, ancora per un po’, intorno a un portone vuoto.

Che i film di Antonioni siano o non siano sublimi, l’impiego che Antonioni fa di Antonioni lo è certamente. Così come lo è l’impiego che Longino fa di Longino. «Il Sublime è l’eco di una grande mente, come credo di aver detto altrove», dice Longino, facendo eco a se stesso con dolcezza. Si può ritrovare un simile effetto eco anche in Antonioni, soprattutto quando ci racconta la storia del giorno in cui è andato al manicomio, che si ripete in ogni intervista, in ogni conversazione o studio della sua opera. Racconta che la prima volta che ha puntato gli occhi in una telecamera è stato proprio in un manicomio. Aveva deciso di girare un film sui pazzi. Anche il direttore del manicomio sembrava pazzo, o almeno così parve ad Antonioni quando lo incontrò il giorno delle riprese. Eppure i pazienti si sono mostrati efficienti e disponibili nel fornire gli oggetti di scena e le attrezzature, oltre che nel preparare la stanza. «Devo dire che sono rimasto sorpreso dal loro buon umore», confessa Antonioni, prima di accendere i suoi grandi riflettori. 

La stanza «divenne un inferno». I pazienti urlavano. Si accartocciavano, si contorcevano e si rotolavano sul pavimento, cercando di scappare. Antonioni rimase impassibile, e così il suo cineoperatore. Alla fine, il direttore del manicomio gridò «via quella luce!». La stanza si fece silenziosa, con un lento e debole movimento di corpi che si lasciavano alle spalle l’agonia. Antonioni racconta di non aver mai dimenticato questa scena. Se quel giorno avesse girato un film, sarebbe stato un documentario fatto di schiuma. Ma i matti, che sapevano bene cosa fosse un rovesciamento, non volevano essere citati. Bisogna ammirare i pazzi. Sanno come valorizzare un momento di passione. Anche Longino lo sa fare bene. Il suo trattato termina così: 

«Meglio lasciare queste cose e passare a ciò che viene dopo: le passioni, riguardo alle quali mi sono impegnato a scrivere in un altro…». 

Qui il manoscritto Sul Sublime si interrompe. La pagina successiva è troppo danneggiata per essere letta e non si può dire quanto davvero manchi alla conclusione. Longino pattina via. 

IL GIORNO IN CUI ANTONIONI ARRIVÒ IN MANICOMIO
(Rapsodia) 

«Fu un momento inquietante. Si avvicinò». 

Lucia Bosè 

È stato il suono della sua scrittura a svegliarmi. Visto che me lo chiedete, questo è quello che ricordo. La sua scrivania è appena fuori dalla mia stanza. Certi giorni sento suoni troppo forti. Altri, sento una folla e la folla non c’è.

Sulla sua scrivania tiene appunti. Compila liste dei nostri medicinali. Fa le parole crociate o mette un segno di spunta ai margini degli annunci economici. Un suono lieve, secco e stridente. Gli altri ne sono inconsapevoli. Queste differenze sono difficili da sopportare. 

Poi c’è stato l’ammutinamento. Ci hanno detto di scendere in fretta nel salone e «partecipare», quindi ci siamo tutti spogliati. Diciotto persone nude in sala. Lei non ha detto una parola. E questo ci ha spaventato. Ci siamo rivestiti. Tute da lavoro, niente più donne e uomini. 

Ciò che l’occhio poteva scorgere era una pila di documenti sulla sua scrivania, con minuscoli paragrafi, firme e graffette. Questi documenti non sono stati più visti nel salone né altrove. Li tengo d’occhio. Sono stati i documenti a portare la maggior parte di noi qui. «È lui», disse qualcuno mentre scendevamo le scale. Antonioni indossava un maglioncino marrone e sembrava un gatto. Volevo dargli una leccatina o una carezza.

«Incline allo svenimento», direi, era l’umore nella stanza. L’arrivo improvviso di un bell’uomo, più che ingannare le persone, le terrà ben sveglie: ubriachi del nostro stato di veglia ci siamo precipitati a eseguire i suoi ordini. Essere svegli era qualcosa di cui molti avevano sognato, pur continuando a dormire per anni, come la famosa principessa nella bara di vetro. Una volta ho aperto un biscotto della fortuna cinese che diceva «alcuni realizzeranno il desiderio del cuore, purtroppo».

Si è messo dietro la sua cinepresa Bell & Howell da sedici millimetri. Due dei suoi uomini davano istruzioni. Patty, Bates e io spostavamo le sedie trascinandole. Gli spessi cavi neri dovevano esser srotolati del tutto per raggiungere le prese. Non stavamo commettendo errori. Eravamo estremamente attenti. Niente scherzi. Niente sonno. Niente sguardi indiscreti. E lei stava al proprio posto vicino al muro, a ripiegare il suo cruciverba, e cercava di apparire calma. Dal momento che contiene la parola issopo, il Salmo 51 è il mio preferito. 

L’issopo (come forse saprete) è un’erba purificatrice che profuma di una menta proveniente dallo spazio siderale. «Crea in me, o Dio, un cuore puro». Ho sentito una zaffata di issopo proprio quando quei grossi cavi neri si sono attivati (la luce inizia a puzzare quando ce n’è troppa) e un improvviso bagliore mi ha allineato ai tappeti, sul pavimento. Eravamo tutti sul pavimento e Patty ha urlato «continuate a girare», e così abbiamo fatto (per scongiurare la morte) e ogni volta che Bates mi passava davanti ci baciavamo, come avevamo stabilito di fare durante le attività di gruppo (ce ne sono molte, qui), perché la vita è breve e il desiderio ardente è desiderio ardente. 

Secondo Patty, se non mi trovassi in questo posto, non avrei tempo per uno come Bates. Le ho risposto che sono un tipo pratico e Bates è la mia pratica in questo momento. «Avere tempo per» è esattamente il punto. I giorni qui sono lunghi duecento anni. Gli estranei (Antonioni) entrano alla velocità sbagliata. 

Scommetto che lui lo sapeva. La sua faccia era quella di chi entra in una stanza e non trova il pavimento. Nel frattempo, siamo rotolati fino alla parete e a un segnale di Patty abbiamo fatto retromarcia e siamo rotolati indietro. Meravigliosamente, ho pensato, era come giocare a bowling. Antonioni sembrava addolorato dalle grida di tutti. 

Gridare è la regola qui – la regola dei pazzi –, nasconde i baci e ci rende meno tristi.

Antonioni aprì gli occhi. Lei si allontanò dal muro e gli si avvicinò. «I pazienti hanno paura della luce», gli spiegò, «pensano che sia un mostro». Questo tipo di disinformazione spontanea è tipico della professione medica. In fin dei conti, suppongo che difficilmente avrebbe potuto dire «i pazienti venerano Afrodite, donatrice di vita, ogni volta che ne hanno l’occasione, grazie per aver favorito questa opportunità». Comunque, non ho certezza di quanto intelligente lei sia. Un giorno le ho raccontato dell’evoluzione: che all’inizio le persone non avessero un sé, almeno non come noi abbiamo un sé oggi, c’erano le braccia le teste i torsi e compagnia bella a vagare intorno ai frangenti della riva della vita, le caviglie staccate, gli occhi senza sopracciglia, finché alla fine ciò che unì le varie parti in creature complete fu l’Amore, e lei disse «conosci una parola di sei lettere per “donna dissoluta o sfrenata derivante dal suono degli zoccoli di un cavallo che scende lungo una strada di notte”?». Al che ho risposto «sì, la conosco e posso fare la doccia con Bates stasera, giusto?». 

Pianificare sempre in anticipo, questa sono io, pratica come il purgatorio, come diceva sempre mia madre. «Esulteranno le ossa che hai spezzato». Ma adesso eravamo diciotto persone orribili, in una stanza. Cercavamo di non guardarci mentre ci alzavamo dal pavimento. Antonioni si è dato una scossa come un gatto ordinato e si è ricomposto. Il direttore del manicomio era accanto a lui e mormorava, con un tono di voce sottile, qualcosa tipo «vediamo cosa abbiamo imparato oggi». Sobri cenni di assenso da ogni parte. Avrei voluto ascoltare un commento di Antonioni. I gatti non si spendono ma notano tutto. Ho visto che ha notato Bates. Così, per un istante, i nostri destini si sono sfiorati.Della fresca neve bianca si era depositata sulla scura fanghiglia all’esterno. Patty ha espresso disappunto per il tono e il tenore generale della mattinata. «Un losco spettacolo di merda, amica mia», credo siano state queste le sue parole precise. Eppure, ci prendiamo la fortuna quando accade. Niente migliora la vita comunitaria quanto un’ora di aerobica, come prima attività, la mattina. Le grida sono lievi per tutto il resto della giornata. «Purificami, e sarò puro; lavami, e sarò più bianco della neve». Ed era venerdì, angel cake per cena, docce calde a seguire e chissà quali disposizioni interne. Dal giorno in cui le ho dato la parola che cercava («tittup») mi tratta con particolare cura. «Non startene in lutto», dice, inclinandosi all’indietro su due gambe della sedia. 

ARTICOLO n. 25 / 2023

ARTE O VANDALISMO?

Arte activa volume 1

Quando un’opera d’arte viene aggredita, per qualche tempo i titoli dei giornali e le bacheche dei social si gonfiano di indignazione. Sporcare una cornice, tagliare una tela, scrivere uno slogan su una statua, che si tratti di azioni simboliche o reali, in molte persone scatenano un biasimo pari se non superiore a un attacco alla loro proprietà – e in un certo senso è comprensibile, perché l’arte è un bene comune.

Il caso più recente è quello dell’attivismo ambientale legato a gruppi come Just Stop Oil e Ultima Generazione, che hanno attirato l’attenzione attraverso azioni che consistevano principalmente nell’incollare o sporcare con vernice lavabile i vetri protettivi di alcune importanti opere d’arte. La logica dichiarata dietro queste proteste, che si sono ripetute in vari musei europei, è che l’impegno profuso per preservare le opere d’arte non è commisurato a quello dedicato a evitare eventi che mettono a rischio la sopravvivenza della specie umana che produce e ammira quest’arte. In tempi meno recenti è accaduto per l’abbattimento o la vandalizzazione di statue considerate celebrative verso persone o eventi tutt’altro che positivi. Tra i tanti idoli caduti (o macchiati) c’è la statua di Jefferson Davis a Richmond (USA), presidente degli stati confederati e combattente nella guerra di secessione, la statua di Edward Colston, uno dei benefattori della città di Bristol, ma anche uno schiavista responsabile del commercio di decine di migliaia di persone dell’Africa occidentale. In Italia non sono al corrente di statue abbattute, ma c’è chi ha sporcato più volte la statua del giornalista Indro Montanelli, per rivalsa verso il suo passato fascista e colonialista, mai rinnegato. Chi non si è scandalizzato per questi eventi o li ha valutati positivamente è possibile che non abbia ben accolto la distruzione da parte del governo talebano delle antiche statue dei Buddha di Bamiyan nel 2001.

Se mettiamo da parte una reazione immediata ed emotiva, non è facile spiegare cosa accomuna e cosa differenzia queste azioni. Si tratta di attacchi all’Arte o addirittura di una sua manifestazione? Per facilitare l’analisi è anzitutto necessario fare qualche distinzione. Semplificare il mondo in dicotomie è una tendenza che porta spesso a gravi errori, perché di rado troveremo qualcosa di genuinamente binario in questo vasto e vario mondo; nel caso specifico, etichettare come “violenza” tutte queste azioni per darne un giudizio analogo è un po’ come considerare un omicidio e l’uccisione di una zanzara allo stesso modo, in quanto entrambi atti di violenza. Al netto della grande questione della liceità della violenza in determinati contesti, stiamo parlando di casi molto diversi, perché in nessun modo aggredire simbolicamente un’opera per attirare l’attenzione su una tematica ecologica è equiparabile a distruggerla in quanto giudicata blasfema. Se però il gesto di Ultima Generazione e quello dei talebani non è comparabile, questo non significa che quest’ultimo – che, a scanso di equivoci, condanno – sia un affronto all’Arte.

Partiamo da una banalità: le opere d’arte non sono eterne, perché nulla lo è. Non solo prima o poi saranno tutte distrutte in qualche modo, ma la loro identità è soggetta a un continuo mutamento anche nel (raro) caso in cui il loro supporto materiale resti perfettamente integro, perché a mutare è il contesto in cui sono situate. La Monna Lisa, per fare un esempio, non ha subito alcun danno fisico dall’operazione artistica di Duchamp o di Andy Warhol, ma la sua portata simbolica è inevitabilmente mutata; per il banale scorrere dei secoli, perché le nuove generazioni guardano con occhi nuovi le opere antiche, ma anche per la stratificazione di significato che altre operazioni artistiche (come quella di Duchamp o Warhol) hanno posato su di essa. Le opere d’arte sono delle prassi simboliche intense e operative, che l’uomo si tramanda di popolo in popolo e di generazione in generazione. Non sono mai inerti e agiscono diversamente in base al contesto. Le statue dei Buddha, che per me sono delle inestimabili opere d’arte e la testimonianza di una filosofia millenaria, nel contesto culturale dei talebani sono delle blasfemie.

Se il distinguo con l’operazione di Warhol, Duchamp o Ultima Generazione è semplice, perché sono casi in cui l’opera d’arte ha subito una naturale risemantizzazione senza subire alcun danno fisico – cosa che potremmo anche tradurre: senza eliminare la possibilità dei suoi significati precedenti – nel caso delle statue colonialiste o dei Buddha di Bamiyan la situazione è ben diversa. Ma perché, mi sono chiesto, sono d’accordo con l’abbattimento della statua a Bristol e contrario alla distruzione di quelle a Bamiyan? I motivi sono essenzialmente due. Il primo è legato a un’adesione etica: per motivi che qua non è necessario specificare sono simpatetico verso il messaggio politico dei manifestanti di Bristol e contrario a quello dei talebani. Il secondo è un’istanza estetica: non considero la statua di Edward Colson (o quella di Montanelli, se è per questo) rilevante dal punto di vista artistico, a differenza dei Buddha di Bamiyan. A conferma di questo va detto che se Giuliano de’ Medici fosse stato un orrendo despota schiavista, non per questo avallerei la distruzione della statua di Michelangelo Buonarroti. Un po’ è perché le ferite più lontane nei secoli non fanno più male (distruggereste una statua a Gengis Khan?), ma molto è per via del valore artistico dell’opera, motivo per cui non abbatterei nemmeno il complesso dell’EUR, nonostante la sua ascendenza fascista. Per quanto suoni banale, abbattere delle statue “brutte” è incommensurabile rispetto ad abbatterne di “belle”, quale che sia il loro valore simbolico; spiegare la differenza però non è facile, dato che non esiste alcun criterio oggettivo di bellezza artistica. Ciononostante non penso che ci sia qualcosa di anti-artistico in questi atti, perché tutti si muovono all’interno della normale vita dell’opera d’arte, ovvero una continua e operativa risemantizzazione, la cui durata coincide con l’interesse della nostra specie. Senza una sufficiente motivazione a preservarle, infatti, difficilmente le nostre opere ci sopravvivono.

A questo si affianca il fatto che l’iconoclastia è una prassi che torna spesso all’interno della stessa storia dell’arte, sebbene con oggetti diversi. Il caso più celebre è forse il Futurismo, che sin dal Manifesto decreta: »Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie». Un caso meno noto è quello del Situazionismo, che come riporta Stella Succi in un interessante articolo sul vandalismo nell’arte, si schierò a favore dell’accoltellamento da parte del pittore Nunzio Van Guglielmi della tela dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, conservata alla Pinacoteca di Brera di Milano:

L’artista Asger Jorn interviene a sua difesa, stilando, il 4 luglio 1958, un documento che firma a nome della Sezione Italiana dell’Internazionale Situazionista [sic]: «Noi situazionisti protestiamo contro l’internamento ipocrita in un manicomio di Nunzio Van Guglielmi, perché in giugno a Milano è arrivato a scalfire leggermente un mediocre quadro di Rafaello. Noi constatiamo che il contenuto del manifestino posto da Guglielmi sul quadro di Rafaello (…) esprime il voto di un grande numero di italiane col quale siammo. Vogliamo quindi attirare l’attenzione sul fatto che esso sarà un crimine contro la vera scienza psichiatrica di interpretare, col’aiuto della polizia psichiatrica, un gesto ostile alla chiesa ed al defunto valore culturale dei Musei, come una prova sufficiente di follia. Sottolineiamo il pericolo che presenta una tale precedenza per tutti gli uomini liberi e per tutto il futuro sviluppo culturale ed artistico».

Quale che sia la nostra opinione riguardo ai casi particolari, come ha modo di sottolineare Succi, «che l’abbiano preso o meno in considerazione, gli attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation hanno compiuto un’operazione simile: hanno riportato la Primavera, i Girasoli, la Ragazza con l’orecchino di perla dalle sale cimiteriali dei musei, dalle calamite per il frigorifero, dalle shopper museali alle nostre vite». Questo perché, che si tratti di baffi o di vernice, di collage o tagli, machine learning o dinamite, ogni azione su un’opera d’arte ne muta il significato, e, anche se apparentemente la uccide, la rende vitale. Nel commentare la distruzione dei Buddha da parte dei talebani, Fabrizio Rondolino scrisse su La Stampa del 14 marzo 2001, che: 

«Il diritto di erigere statue, che nessuno finora ha messo in discussione, deve infatti contemplare il diritto di abbattere altre statue. Si tratta anzi di uno stesso diritto, che appartiene al vincitore di turno non importa se politico o religioso proprio in virtù della vittoria conseguita. Forse, parafrasando Brecht, si potrebbe sostenere che è felice quel popolo che non ha bisogno di statue. Ma finché qualcuno vorrà erigerle, qualcun altro potrà abbatterle. La storia, al pari della natura, non è un museo da conservare intatto per turisti distratti, ma un movimento incessante che alterna creazione e distruzione. Non si può conservare tutto. Purtroppo, non sempre possiamo decidere che cosa tenere e che cosa buttare».

Credo che il fulcro sia proprio in quel “poter decidere o meno che cosa tenere e che cosa buttare”. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che la distruzione dei Buddha a Bamiyan non è sbagliata perché “non si deve toccare le opere d’arte”, ma perché la nostra cultura ci ha insegnato – e noi siamo d’accordo – che certe opere d’arte vadano preservate, che non c’è nulla di blasfemo nel buddismo e che i millenni lavano la portata etica delle vestigie storiche. O anche, semplicemente, che erano delle statue bellissime. L’arte è un processo di continua significazione, distruzione e risignificazione, motivo per cui anche distruggere un’opera è farla parlare: bisogna però capire se siamo d’accordo con questa sua nuova voce.

C’è una prassi che esemplifica bene la natura antinomica della questione, ovvero il caso del reimpiego. Questa pratica, che consiste nel riutilizzo di materiali da costruzione esistenti come sculture ed elementi architettonici, era molto comune nell’antica Roma e nell’Europa medievale. In molti casi i materiali reimpiegati venivano incorporati in altre opere d’arte, in modo da conferire loro un nuovo significato e una luce più in linea con la morale dei tempi. Così le antiche colonne e i capitelli romani venivano riutilizzati nelle chiese e nei monasteri medievali, dove venivano adattati alla nuova iconografia religiosa. Ecco il paradosso: queste opere d’arte, che ora giudichiamo inestimabili, sono nate grazie alla distruzione di opere altrettanto inestimabili – sia condannare che avallare questa pratica implica dunque l’inesistenza di opere d’arte.

Per risolvere questo dilemma mi sono rivolto a ChatGPT, un motore per la creazione di testo su base statistica che spesso si dimostra una sorta di enciclopedia vivente dei nostri pregiudizi. La sua risposta, frutto di tira e molla e prompt engineering, è stata interessante: «È importante notare che il riutilizzo di materiali di riuso nell’arte antica e medievale era generalmente una pratica eseguita con l’approvazione di chi deteneva il potere. La distruzione di opere d’arte esistenti senza autorizzazione o autorità non è una forma legittima di espressione artistica e può essere vista come una violazione dei diritti dell’artista e del proprietario dell’opera». Insomma, il vandalismo è tale solo se il consesso sociale lo condanna. Più avanti, ChatGPT mi ha suggerito che nel caso della creazione di una nuova opera d’arte attraverso la distruzione di un’altra il valore della prima dipende da una serie di fattori, tra cui il merito artistico della nuova opera, il significato culturale e storico dell’opera distrutta e il contesto in cui la nuova viene creata. In definitiva, secondo questa esternazione della mente popolare collettiva «il valore della nuova opera sarà determinato dal giudizio collettivo di storici dell’arte, critici e pubblico».Ricorda l’arguta espressione di Dino Formaggio, che nel 1973 scrisse che »l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte». Una definizione meno ingenua e soprattutto più precisa di quel che potrebbe sembrare, perché di fatto è l’unica che non viene in qualche modo smentita da qualche argomento o prassi artistica. Dobbiamo dunque guardare al “vandalismo” verso le opere d’arte come a una pratica più complessa e meno anti-artistica di quel che sembra, in quanto ci informa del modo in cui una determinata società reagisce e parla ai (e con i) simboli del passato. Ogni opera è collettiva, ogni linguaggio vive distruzioni e rinascite. La domanda che dobbiamo porci non è se sia giusto o meno distruggere un’opera d’arte, quanto piuttosto: cosa ci dice questo intervento? Come risemantizza l’opera? Qual è la nostra reazione al nuovo significato?

ARTICOLO n. 24 / 2023

FIGLI CHE SI SCOPRONO NON ETEROSESSUALI

Around The Table. Una serie americana in italiano

I nomi dei personaggi di questa serie sono inventati, anche se avrei tanto voluto chiamare mia figlia Vera, ma ho perso quella discussione sui nomi. Pazienza. Falsi anche alcuni (pochi) dei racconti di famiglia. Ma, credetemi, non sono una bugiarda: pensate che l’enorme balena bianca si chiamasse davvero Moby Dick? O il ragazzino di Ida, Useppe, o la tipa che perde la scarpa Cenerentola? E io mi adeguo.

Eravamo tutti e cinque a tavola: io, mio marito Ryan e i nostri figli Andrea, Martina e Vera. Si chiacchierava del più e del meno e si cercava di convincere Andrea (autistico ventiseienne tendenzialmente asociale) di stare a tavola con noi, con i soliti scarsi risultati. «Ah, a proposito», dice Martina, che stava frequentando il primo anno di università, «sono di genere non binario». Rispondo: «Bene, sono contenta!». 

In effetti, è da quando Martina era piccolina che ha sempre preferito amici maschi, perché le femmine litigano sempre; il monopattino alle bambole, perché dopo un po’ che noia, vestiti di colori neutri piuttosto che il rosa, a parte un periodo di principesse scemato molto velocemente. Le avevo comprato le Barbie, nascondendo al meglio possibile la mia insofferenza nei confronti di corpi sproporzionati, capelli che a toccarli vengono un po’ i brividi e vestiti improbabili. Ci ha giocato per due, tre settimane al massimo. Al pomeriggio, dopo la scuola, andava al parco di fronte a casa (allora abitavamo a Brooklyn, ma poi ci siamo trasferiti a Cambridge, nel Massachusetts) a incontrare Henry, Zac, Anton, Maceo: la sua banda. Tornava sporca e sudata. Stanca e felice. Ha avuto, a dire il vero, un’amica femmina, ma quando la madre telefonava per chiedere se Martina volesse andare da lei a giocare, Martina mi faceva cenni con le mani per farmi dire di no. 

Quando le ho imposto di cercare uno sport, quello che le piaceva di più, perché non è che si può stare in camera davanti al computer tutti i pomeriggi, ha scelto il roller derby, un gioco violento e di contatto, giocato sui pattini a rotelle, con atlete esclusivamente femmine, quasi tutte lesbiche. Lì ha cominciato a frequentare più ragazze, ma non quelle che da piccole giocavano alle bambole. Erano molto neutre per quanto riguarda il genere, e spesso tra loro nascevano amori detti e non detti. Martina era entrata a far parte di quel gruppo con estrema naturalezza. Io e Ryan eravamo convinti che fosse anche lei lesbica, ma un giorno ci ha annunciato, sempre con la naturalezza di cui sopra, di aver conosciuto un ragazzo. In Internet. Il ragazzo era un tipo dell’Alabama, che lei voleva andare a conoscere. Dopo lunghi pianti e ancor più lunghe discussioni, siamo arrivati a un compromesso: se vuole, può venire lui. Che infatti puntualmente è arrivato, lui con degli stivali da cowboy bianchi francamente improponibili e io con un bicchiere di vino (il terzo) pieno fino all’orlo.

Oltre che essere terrorizzata del fatto che sicuramente la mia bambina di diciotto anni fosse in camera sua a far l’amore (l’ho preparata bene? Cosa faccio, busso e le dico di non avere senso di colpa, che anche la mamma e papà ogni tanto lo fanno? Li avrà dei condom? Credo di averle detto che se non vuole fare nulla, per l’amor d’un Dio, deve saper dire di no, ma non sono sicura) ero stupita, e non poco, del fatto che si fosse innamorata di un maschio. Ricordo, nel panico generale, di aver chiesto a Ryan: «Ma scusa, non era lesbica?»

La sera a cena, quando ha annunciato il suo cambio di genere, ero molto contenta di aver scoperto un aspetto importante di lei. Anche per Martina deve essere stata una liberazione: è una conquista importante capire chi si è e condividerlo con gli altri, malgrado non sempre sia una notizia accolta a braccia aperte. Molte persone infatti cercano di sopprimere la propria identità di genere. parte qualche storia con delle ragazze, finora ha sempre preferito avere morosi Mi ha spiegato, perché la maggior parte di quelli della mia generazione è un po’ ignorante sul soggetto, che essere di genere non binario non ha nulla a che fare con la preferenza sessuale: una persona come mia figlia si sente un po’ in mezzo tra il sentirsi donna o uomo, ovvero non riesce a sentirsi a suo agio né quando si dichiara maschio né quando si dichiara femmina. È attratta da maschi o come Martina, di genere non binario (ma nati col pisello, per intenderci).

La sua richiesta è stata che da quel momento, quando parlavamo di Martina, avremmo dovuto usare un pronome neutro: they. È un pronome plurale, è vero, ma per ora sembra essere il più gettonato. Ho fatto molta fatica a ricordarmelo, perché è grammaticalmente sbagliato, ma da qualche anno a questa parte ho fatto passi da gigante: non mi sbaglio quasi mai. 

A Cambridge, dove viviamo, la gente è particolarmente liberal, nel senso che è aperta alle diversità di razza, di classe e di genere. Moltissimi ragazzini delle medie e del liceo si sono dichiarati di genere diverso da quello che è stato dato per scontato alla loro nascita, perché è una città che accetta le diversità con molta disinvoltura: per anni abbiamo avuto una sindaca gay, nera e musulmana, per esempio. I ragazzi qui si sentono compresi e accettati. A scuola non si percepisce discriminazione da parte dei compagni o degli insegnanti. Infatti, molti studenti preferiscono fare coming out a scuola prima di farlo a casa, perché esistono alcune culture che fanno fatica ad accettare questo tipo di discorsi.

Quando anni fa Martina ha annunciato la sua vera identità di genere, non ho potuto fare a meno di pensare che se fossimo in Italia, il suo futuro sarebbe molto più difficile, anche se percepisco un vento di cambiamento. Ho letto di molti genitori che raccontano di figli simili a Martina; i giornali ne parlano sempre di più, intervistano sessuologi e psicologi su questo tema. Mi sembra di capire che alcune cose stanno cambiando. 

Due anni fa stavo ancora lavorando al mio ultimo libro, in cui mi sono posta molte domande su come affrontare da genitori la sessualità dei propri figli senza piangere o senza volersi buttare giù dalla finestra. Avevo appena finito il capitolo in cui descrivevo la rivoluzione di genere come una delle più significative della Storia con la esse maiuscola. Per i maschietti ancora adesso si mette il fiocchetto azzurro (il colore dei principi) per le femminucce quello rosa (il colore delle Barbie). Siamo il risultato di millenni in cui siamo stati guidati dagli uomini, i “protettori” di noi povere femminucce deboli e servili. Se non ci fosse un genere considerato superiore, non ci sarebbero le discrepanze maschiliste che noi donne subiamo senza neanche accorgercene. Nel capitolo cercavo di spiegare come le dichiarazioni sul proprio genere, esprimere quello che si è senza timore, aggiungano un senso alla nostra sacrosanta libertà. L’editor che mi aiutava mi ha chiamato che a Milano erano le tre di notte per dirmi che avrei dovuto cambiare o addirittura togliere quel capitolo, «altrimenti ti leggeranno solo le lesbiche e quelli di estrema sinistra», gruppo, tra l’altro, di cui sarei fiera di avere tra i miei lettori. Diceva: «è tutta una questione di moda, questi ragazzini sono privilegiati e davvero non hanno nient’altro a cui pensare? Un’americanata che in Italia non capiterà mai». Sono stata gentile, ma ben ferma sulla mia posizione: che vantaggio avrebbe un ragazzino ad annunciare che si sente femmina se non è vero? Sono temi difficili da accettare e da condividere con genitori, amici, insegnanti. Altro che moda. C’è dietro a tali dichiarazioni una grossa sofferenza, che parte dal terrore di non essere accettati per come si è. Tzè… la moda… È complesso essere cresciuti in una società storicamente omofoba. Figurati te: una moda… Una delle poche volte in vita mia in cui ho avuto ragione: me lo ricordo perché mi capita raramente.

Gli Stati Uniti sono un Paese notoriamente bigotto, ancora lì a discutere se il diritto di abortire è la strada più sicura per arrivare all’Inferno. È un Paese complesso, pieno di problemi sociali, strutturali; è un Paese violento, fervido sostenitore del diritto di comprarsi tutte le armi che si vuole, difensore spietato della proprietà privata. Ci vivo da trent’anni e posso affermare di aver visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Eppure, benché Cambridge sia particolarmente aperta mentalmente, non è certamente un’eccezione: negli Stati Uniti i diritti per le persone LGBTQ sono diventati leggi. Si chiama TITLE IX quella che proibisce la discriminazione nelle scuole; il TITLE VII (parte del Civil Rights Act, approvato nel 1964) condanna discriminazioni sul lavoro. Si chiama FEDERAL FAIR HOUSING ACT l’atto giuridico in materia di alloggi che vieta discriminazioni per quanto riguarda case o appartamenti in affitto o sul diritto di ottenere un mutuo. Nel 2020 è stato stipulato che non occorre più mostrare documenti medici per certificare il proprio genere sul passaporto americano. Ma soprattutto: è federalmente proibito discriminare persone dello stesso sesso (o genere) che si vogliono sposare o che vogliono adottare o avere dei bambini. Il che significa che, quando uno o una della coppia muore, per esempio, l’altro ha diritto all’eredità. Significa che se John e Steven si sposano, i loro diritti sono esattamente uguali a quelli di Giorgio e Susanna. E queste sono solo alcune delle leggi antidiscriminatorie: non siamo certamente ancora arrivati all’uguaglianza di diritti fra le persone cisessuali e tutti gli altri, ma la strada pare ben spianata per altre leggi. 

L’Italia, invece, è considerato il Paese dell’Europa occidentale peggiore per quanto riguarda i diritti LGBTQ. Non lo dico io, lo afferma ILGA, un’associazione mondiale in difesa dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali e trans. In Italia, se si nasce fuori dagli stereotipi, non è possibile sposarsi, né adottare. La legge ZAN, che tutela crimini o incitamento all’odio, sembra essere sparita dai programmi legislativi. Nel 2007, Romano Prodi propose un disegno di legge per la tutela dei diritti di persone come Martina, ma poi finì tutto in un enorme nulla. 

Ho parlato di leggi antidiscriminatorie, perché malgrado ci siano discriminazioni in entrambi i Paesi, il fatto che esistano obbliga anche la società, volente o nolente, di accettare e accogliere la presenza di persone diverse da loro. In Italia, per ora, facciamo ancora fatica. Mi è stato confermato anche qualche tempo fa, quando in Italia è nata un’ennesima polemica sulla presenza di una cantante trans, Rosa Chemical, a Sanremo. La deputata di Fratelli D’Italia Maddalena Morgante, nel suo discorso intenzionato a stoppare la “promozione di propaganda transgender”, non si vergogna a sostenere che «la rivoluzione fluida era già da tempo sul palco dell’Ariston, ma trasformare Sanremo nell’appuntamento più gender fluid di sempre è del tutto inopportuno. La TV rimane il principale mezzo di informazione e i minori sono la fascia principale di ascoltatori. Il Festival della Canzone rischia di diventare l’ennesimo spot del gender fluid e della sessualità fluida e che da sempre Fratelli d’Italia contrasta». A proposito di tutele delle minoranze, appunto.

Sono palesi le differenze tra la riflessione tradizionalista della signora Morgante e le serate dedicate ai premi per cinema e musica qui, negli Stati Uniti. Forse l’evento più simile al Festival di Sanremo è quello dedicato ai Grammy, cioè alla musica contemporanea con la differenza che questi vengono seguiti in tutto il mondo, mentre sul nostro Festival non troveremo certamente articoli sul New York Times. Il premio per il disco migliore dell’anno è stato vinto da Harry Styles, ex-membro del famosissimo gruppo One Direction. Che, nonostante l’abbigliamento, classificato come “gender fluid fashion”, non ha mai voluto condividere le sue preferenze sessuali. Ha vinto anche l’artista tedesca Kim Petras, la prima trans a vincere nella categoria Best Pop Duo. Oltre a loro, in gara c’erano più di dieci artisti LGBTQ. Ai Golden Globes una persona trans ha vinto l’ambito premio Emma D’Arcy e molti altri sono stati concorrenti. I giornalisti più seguiti su CNN negli Stati Uniti sono gay e non lo nascondono: Anderson Cooper, il più conosciuto, ha avuto un figlio grazie a una gravidanza surrogata, cosa che in Italia viene vista come un atto demoniaco.

Detto questo, spero di non passare per una di quelle persone convinte che gli Stati Uniti siano una specie di paradiso terrestre: lo è per chi è bianco, maschio, ricco, cristiano ed eterosessuale, proprio come Fabio Volo (ma in inglese). Per tutti noi che ci viviamo cercando di stare a galla, è un esperimento per capire se le persone che arrivano da tutto il mondo possano convivere in pace. La strada è ancora molto lunga, ma la speranza è l’ultima a morire.

ARTICOLO n. 23 / 2023

IL TEATRO COME POSSIBILITÀ

Intervista di Isabella De Silvestro

La longevità e l’ossessività sono una risorsa immensa. Lo dice Armando Punzo, che nell’agosto del 1988 varca le soglie del carcere di Volterra per un laboratorio teatrale di duecento ore che si trasformerà nella pratica artistica a cui dedica la vita da più di trent’anni. Fra le mura della galera Punzo trova un luogo dove restare, dopo anni di moto insoddisfacente per l’Italia e l’Europa. «Della mia vita fuori dal carcere non ricordo quasi niente». Sembra ricordare invece ogni parola pronunciata nello stanzino di tre metri per nove dove nasce la Compagnia della Fortezza, un gruppo costituto da detenuti attori che lavorano con lui per dare vita, giorno dopo giorno, a un’idea di teatro che valica tanto la tradizione quanto la pretesa rieducativa e assistenziale: una pratica artistica che fa della ricerca la chiave per mettere in scena l’umano e le sue infinite potenzialità. La sofferenza e la fatica, gli ostacoli dell’arte e della vita pratica, le lacrime versate per qualcosa che davvero non amiamo e quelle per qualcosa che amiamo davvero.

Ho conversato con Armando Punzo un venerdì sera. Lui usciva dal carcere, io uscivo da Un’idea più grande di me, il libro edito da Luca Sossella Editore che raccoglie il lungo scambio tra il regista e Rossella Menna, studiosa di teatro e collaboratrice di Punzo. Ne uscivo affaticata e insieme colpita. La luce che l’esperienza della Compagnia della Fortezza è in grado di emanare viene dall’incontro tra un’idea ambiziosa e un lavorio costante e severo, un confronto senza risparmi con ciò che dell’umano confligge con lo stato delle cose. Del lavoro teatrale di Punzo insieme ai detenuti di Volterra colpisce la serietà e il rigore. Non vi è nessun cedimento al “sociale” come categoria che aggiunge valore per il solo fatto di promettere redenzione dalla propria condizione marginale. Vi è invece uno sguardo preciso su come è bene fare arte: senza prendersi un giorno di vacanza, capendo che, di un artista, la vita è ciò che accade mentre disperatamente cerca un linguaggio per dirla. E se non ci riesce, che almeno lo si veda disperatamente cercarla. La nostra conversazione si apre senza convenevoli. E questo credo venga dall’abitudine a non voler perdersi in chiacchiere. Si parli di qualcosa di serio o non si parli affatto. Ricordo una frase del libro: «Non è che non mi piaccia la vita, è che sento che solo se mi assicuro un livello profondo di relazione può esistere anche quello superficiale».

Isabella De Silvestro: Tra le prime cose evidenti a chiunque entri in carcere per la prima volta c’è il fatto che ad abitarlo è il Sud del mondo. Questo suo essere meridionale porta con sé miseria e vitalità, una certa violenza e un alto grado di onestà e introspezione. Ci sono però altri avamposti del Sud del mondo, altri luoghi dolorosi e vitali. Se si trattava di portare il teatro dove nessuno lo aspettava, la tua compagnia avrebbe potuto prendere forma anche altrove?

Armando Punzo: In linea teorica poteva accadere anche altrove. Resta il fatto che io da altre parti non sono andato. Avevo rifiutato il teatro ufficiale, non mi sentivo attratto dalle strade dritte e in verità nemmeno da quello che era allora il teatro di ricerca. Ho alzato gli occhi un giorno e ho visto il carcere: l’ho scelto interiormente. A me interessava la questione dell’essere prigionieri e il carcere era il luogo dove la prigionia di ognuno di noi, uomini e donne liberi, diveniva evidente, senza maschere. Ho iniziato a fare teatro a partire da quest’idea: le prime letture, prima ancora di Grotowski, mi hanno portato a scoprire un punto di vista su di me e sul mondo come di una persona che aveva degli automatismi di cui non era consapevole, che probabilmente non gli appartenevano e finivano per opprimerlo. Non sapevo di non sapere tante cose. Il carcere, dunque, mi è sempre interessato come metafora, mai come cronaca.

I.D. Il carcere è metafora della prigione che viviamo anche fuori e, contemporaneamente, della marginalità e dell’esclusione. Racconti di aver lasciato Napoli, la tua città natale, senza rimpianti e senza nostalgie; dici spesso che il distacco è una condizione auspicabile. Mi sembra una presa di posizione quasi mistica, da anacoreta del terzo secolo. Il carcere è forse il luogo del distacco per definizione, un luogo ermetico dove il flusso delle città è sospeso e la vita in arresto. Questo distacco, tanto dalle proprie origini quanto dalla frenesia e dalle convenzioni, è necessario all’arte?

A.P. Il distacco è la conseguenza dell’incontro con un linguaggio artistico, nel mio caso il teatro. Questo incontro mi ha permesso di negare la realtà in cui ero calato, creandone una a me più affine. Nasciamo in un luogo che non abbiamo scelto e molti lo abitano come una condanna. Praticare un linguaggio artistico permette di dare forma ad un’altra realtà, entrando in relazione con parti di sé che altrimenti rimarrebbero per sempre celate: è una questione di espansione del sé. Io ho desiderato fortemente prendere distanza dal mio luogo di nascita. Il luogo che ho cercato è il teatro, e mi è capitato di crearlo in una prigione, un luogo che sembra impedire ma allo stesso tempo preserva e protegge. La galera è simile a un monastero, un posto dove la riflessione può raggiungere livelli altissimi. Certo, esiste anche lì la vita ordinaria con le proprie regole, le scocciature e gli impedimenti. Sono cose che affronto e vivo ma a cui non do molto peso. Generalmente le persone pensano che scegliere di lavorare in un luogo marginale debba diventare un tema. È il male di questo periodo storico: l’ossessione per i temi. Il valore del mio teatro rischia di essere ridotto al tema della marginalità. Dal punto di vista del linguaggio artistico, quando il tema è più importante di ciò che fai significa che non hai ottenuto un grande risultato. Mi aveva colpito molto Contro l’impegno di Walter Siti, dove in fondo lui dice questo: c’è un’arte che è testimonianza, e dunque tema, e c’è un’arte che è viaggio di conoscenza, dunque processo. È un aspetto, quello della testimonianza, che non mi piace praticare. Il processo artistico è molto più complesso e mette in discussione l’essere umano più del discorso intellettuale o politico.

I.D. Vorrei parlare di questo processo. Quello che colpisce del lavoro della Compagnia della Fortezza è l’adesione tra idea e pratica: l’una si manifesta nell’altra e viceversa. Sembra esserci un grande lavoro corale sui testi, un rimestare e scavare, leggere e rileggere finché il testo non prende forma e consistenza, una ricerca continua di protagonisti sempre nuovi e in comunione intima con i personaggi che interpretano. Cosa accade nel concreto nello stanzino del carcere dove preparate gli spettacoli? 

A.P. Io arrivo con delle proposte. Si tratta di testi che ho letto e per qualche motivo mi interessano. Ma il percorso lo sviluppo sempre insieme ai miei attori, ho bisogno di capire se una ricerca interessa solo a me o se è qualcosa che effettivamente può risuonare anche in loro. È capitato negli anni che io proponessi qualcosa e lo vedessi morire nei loro occhi in un attimo. Quando ci approcciamo ai testi viviamo le parole come se fossero pensieri fondamentali che sono lì da sempre in attesa di incarnarsi in qualcuno. Ecco, rispetto ai protagonisti, normalmente nel teatro sono attori che si sono fatti un nome, hanno una pratica che li caratterizza e vengono scelti proprio in base a questo loro nome: il loro percorso artistico è in qualche modo scritto. Intorno ai nomi si costruiscono i ruoli. Questa è una modalità che io ho deciso di non praticare. Chi è stato protagonista di un mio spettacolo lo è stato perché quel tema, quelle parole, quel preciso momento della sua vita lo hanno portato a impegnarsi in maniera tale da farlo emergere come protagonista, talvolta anche suo malgrado, in maniera dolorosa. Non è una cosa che si può decidere a tavolino, emerge da quanto di sé un uomo impegna. E non è una conquista per tutta la carriera: un anno o due anni dopo, pur avendo delle capacità magari innegabili, la stessa persona può non essere protagonista perché la necessità, l’urgenza profonda, emerge in un altro. Questo destabilizza lo star system, per così dire. A me interessa far emergere le necessità umane delle persone con le quali lavoro, cosa che va molto oltre la questione di mettere in scena un ruolo. Mi interessa far capire che quando uno ha un’urgenza profonda riesce a superare incredibili difficoltà.

I.D. Nel vostro Pinocchio, il burattino di legno vuole tornare a essere albero. Non bambino, come ci si aspetta, ma il legno da cui è venuto “per augurarsi una foresta di alberi”. Come si concilia il protagonismo che richiede la pratica teatrale con l’idea di valicarsi, andando oltre il sé? 

A.P. Sono due livelli separati. Bisogna suddividere tra un io ordinario e un io superiore.

I.D. E il teatro sarebbe il mezzo tra queste due cose?

A.P. È una possibilità. Ma lo è di fatto, non a parole. Un attore, quando è in scena, non sta usando il suo io ordinario. Anche se non è consapevole di questo processo, chi entra in scena si immerge completamente in ciò che sta facendo proprio per prendere distanza dal suo io ordinario, nel quale auspicabilmente non si sente a suo agio: il teatro è una pratica per accedere a delle potenzialità superiori. Se uno legge la letteratura di formazione degli attori, da Stanislavskij a tutto ciò che viene dopo, si accorge che si tratta di una letteratura fortemente utopica. Viene chiesto a un uomo di lasciare se stesso e di mettersi alla prova attraverso un processo di scoperta. Un attore che sta in scena dà il meglio di sé, offre al pubblico la sua parte più luminosa: se abbiamo lavorato bene abbiamo un uomo al massimo delle sue potenzialità. 

I.D. A proposito di dare il meglio di sé, mi interessa il valore della stanchezza. Parli spesso della fatica come risorsa artistica, come se solo spingendosi oltre il sostenibile si raggiungesse il nucleo delle questioni. Mi chiedo se l’altra stanchezza, quella che viene dal contesto in cui tu operi, e cioè dal rapporto con l’istituzione carceraria e i suoi meccanismi, sia altrettanto vitale o sia piuttosto un brutto gioco a cui fare buon viso. 

A.P. Sicuramente la seconda ti mette alla prova. Il carcere è molto particolare in questo, è un sistema che ti affatica enormemente ma va affrontato e trasformato in una motivazione. In tutte le resistenze e le forze contrarie trovi il motivo per affermare il tuo lavoro che ha un segno completamente diverso rispetto alla vita ordinaria del carcere e merita di essere protetto. La fatica artistica invece è quella di una pratica: un danzatore sa cosa significa logorarsi fisicamente per un lavoro. È come uno scioglilingua, una cosa molto semplice, ripetitiva, ma molto complessa. Quando ti spingi oltre una certa soglia abbatti alcune resistenze naturali. L’uomo tende ad adagiarsi e a risparmiare, come gli uccelli. I pretesti degli uccelli migratori sono straordinari: non vorrebbero partire alla ricerca di una cosa che pure riconoscono come importante e necessaria, fanno una grande fatica ma poi si convincono e partono insieme. E arrivano lontanissimo. 

I.D. Cosa spinge le persone a seguirti in questa fatica? 

A.P. Io credo che ognuno trovi la sua motivazione. Alcune inizialmente possono sembrare futili, banali, ma ciò che importa è che la maggior parte delle persone rimangono perché scoprono che c’è molto di più. 

I.D. Il carcere è un’istituzione poco ambiziosa, forse figlia di una società poco ambiziosa. Sembra già miracoloso riuscire a garantire la presenza di una scuola professionale per i detenuti, ma apparirebbe assurdo pensare a un liceo classico. Assurdo e inutile. Come ciò che hai creato tu. La cultura e il teatro non servono che alla cultura e al teatro, e cioè all’uomo. In un luogo di privazioni e punizioni che valore ha porsi obiettivi più grandi di sé e del contesto nel quale si è immersi?

A.P. Io credo che questa tendenza ad accontentarsi del minimo sia lo specchio di ciò che succede anche fuori, dell’umanità di oggi. E sottolineo di oggi. Tutto è fatto per un tornaconto materiale. Sembrano discorsi sentiti e risentiti eppure non è che si sia risolto un granché. In carcere già sembra tanto riuscire ad affermare che serve una scuola, che serve un teatro. Andare più in là è difficilissimo: ci si propone magari di aumentare l’alfabetizzazione, di fare uno spettacolo bello, ma non si pensa a un futuro di uomini migliori con valori diversi da quelli che ci hanno portato dove siamo. È chiedere troppo.

I.D. Mi ha colpito un passo del tuo libro nel quale ti descrivi come una persona molto fragile nel rapporto con gli altri. Ti meravigliano l’ostilità, la malevolenza. Credi ci sia un valore nel porsi disarmati di fronte agli altri? L’illusione e l’ingenuità possono essere risignificate? 

A.P. A me non piace la parola illusione. Però vedi, ciò che faccio da anni dentro il carcere con gli attori della Compagnia della Fortezza non fa male a nessuno. Lo ripeto: non fa male a nessuno, ne sono certo, non ho alcun dubbio. Non può che fare del bene. Quindi, quando trovi qualcuno che ti viene contro, l’unica cosa che puoi fare è accettare che si tratta di persone che si trovano a un grado diverso di evoluzione. Non è permesso loro di capire. Puoi provare rabbia, pietà, dolore, ma resta il fatto che quelle persone, in quel momento, non arrivano a comprendere quanto ciò che fai possa fare del bene.  

A volte siamo dentro al carcere nel nostro stanzino e io chiedo ai miei attori: a quest’ora, alle cinque e mezza del pomeriggio, quante sono le persone che a Volterra stanno affrontando questo tipo di discorsi, si stanno affaticando per cercare delle soluzioni a questo tema, che sembra qualcosa di inutile? Forse nessuna, siamo solo noi. Forse c’è qualcun altro. E in Toscana? E in Italia? E così via allargando la scala. 

Io sono convinto che, se tanti facessero questa fatica, il mondo sarebbe migliore. E non mi sento stupido a dirlo, non mi sento ingenuo. Ne sono convinto. Mi rendo conto che è molto complesso, ci mancano i fondamenti. Dovremmo partire dalla scuola, o da prima ancora, dalla famiglia. Ma ci vorrebbe qualcosa che aiuti la famiglia se la famiglia è carente. Dovremmo crescere in maniera completamente diversa e non credo che stiamo andando in questa direzione. Se prima la scuola era una questione di cultura, ultimamente quasi per niente. L’idea del lavoro sta fagocitando ciò che è rimasto della scuola come opportunità di conoscenza.

I.D. Sembri leggere gli ultimi cinquant’anni sotto il segno della decadenza.

A.P. Questo è il mio difetto. Io sono nato negli Anni Settanta, e forse mi sbaglio. Nato dal punto di vista filosofico, si intende. In quel clima culturale. Mi spiego: io non penso che prima gli uomini fossero migliori. Però nei Settanta non mi sentivo da solo. Oggi sono più solitario e le altre persone che cercano una strada e una possibilità sono anch’esse sole. Non c’è più un clima generale. Mi sembra di vedere persone molto disperate, a partire dai giovani.

I.D. Durante il tuo spettacolo Mercuzio non vuole morire hai chiesto agli spettatori di riporre in una valigia «una lacrima versata per qualcosa che davvero non ami». Lo trovo bellissimo e non ho idea di cosa voglia dire. 

A.P. Quello spettacolo nacque dalla necessità di riscattare Mercuzio dal suo destino di morte. In Romeo e Giulietta Mercuzio è l’amico poeta di Romeo, il sognatore che parla della vana fantasia e muore quasi subito. Nella mia lettura, la morte di Mercuzio è la scaturigine di tutta la tragedia che segue, come se morto lui non ci fosse più niente da fare. Metaforicamente, se uccidi la tua parte sognante non rimane che sfacelo. La lacrima versata per qualcosa che davvero non ami non è propriamente un rammarico, è la lacrima per una mancanza, è la lacrima che versiamo quanto il mondo