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ARTICOLO n. 35 / 2025

WHERE ARE WE GOING?

Pubblichiamo un estratto da Il detective sonnambulo (Mondadori), l’ultimo romanzo di Vanni Santoni che ringraziamo per la disponibilità.

All’aeroporto Andrés Expedito Florentino Sabella Gálvez di Santiago del Cile trovammo ad aspettarci un orientale, anzi a ben guardare un indio, in completo crema, camicia nera con colletto appuntito anni Settanta, auricolare e RayBan, che reggeva un iPad impostato su una pagina bianca con la scritta 

DISTEL 
SUCKERT

Al So, where are we going? di Tanya, quello strinse le labbra e ci condusse con cortesia a un furgone NCC Mercedes simile a quelli del WEF, ma bianco. Così, l’unica cosa che pareva certa, o almeno in cui potevamo sperare, era che ci avrebbero condotti a un incontro con lui e forse anche con lei, e che questo incontro sarebbe avvenuto in un luogo inusuale, mentre dai finestrini serrati, polarizzati, nel gelo dell’aria condizionata immaginavamo il caldo che poteva esserci fuori via via che lasciavamo l’Andrés Expedito Florentino Sabella Gálvez International Airport, e ovunque all’orizzonte prendeva a distendersi un deserto rosso, ocra, bianco, financo azzurro e viola.
– Please stop! – disse Tanya quando eravamo giusto in mezzo al viola. 
L’autista la guardò male, o almeno così ci sembrò nella triangolazione dal retrovisore (comunque schermata dagli occhiali scuri), ma obbedì.
Tanya aprì la portiera a scorrimento, scese nel viola, e vomitò. Poi, con un po’ di stupore, la vidi raccogliere uno dei fiori che formavano quella infinita spianata fatta di pezze di colore diverse e uniformi. 
La raggiunsi lì fuori: – Stai bene? 
– Pata de guanaco, – disse con un’espressione vaga che non le avevo mai visto, – il fiore della resistenza contro… 
– Tenemos que ir, – disse l’autista, – el maestro ordenó no hacer más de una parada.


L’autista si fermò in mezzo a una spianata vasta ma non sterminata come quelle fiorite di prima; inoltre era priva di vegetazione, salvo un paio di arbusti secchi alla distanza; era tanto uniforme da sembrare fatta di terra battuta, eppure si capiva che era naturale. All’orizzonte, ovunque sui costoni affilati che si dipartivano in ogni direzione, formando strette valli, fino a congiungersi con colline basse ma aguzze come sommità di montagne, una punteggiatura colorata e delirante fatta di milioni, ma che dico milioni, centinaia di milionimiliardi di stracci, di vestitini, di cappotti e sciarpe e gonne e abiti d’ogni genere. In lontananza, sotto una Venere già spuntata nel cielo rossastro, uno sbuffo di polvere annunciava l’arrivo di un veicolo. Il viaggio era stato lungo ed eravamo scesi tutti e tre, sebbene fuori facesse ancora molto caldo. 

Guardai l’autista, che restava imperscrutabile. Poi Tanya, che se ne andò cinque passi più in là, a guardare da vicino un grosso fiore rosso spuntato da un cespuglio spinoso dove erano impigliati diversi di quei vestiti dall’aria economica. 
Il veicolo si avvicinava col suo codone di polvere. Era una di quelle jeep di plastica da deserto, una Citroën Méhari, verde pisello. Arrivò davanti a noi e scese una specie di, boh, come potevamo definirlo, segretario di stilista? Un cileno allampanato, in completo business attillatissimo, capelli all’indietro grigi sulle tempie, occhiali con grossa montatura nera e cartellina da presentatore: 
– Good evening. The artistic director will be here any minute.

Poi tirò giù uno dei lati della zona di carico della Méhari, rivelando un minifrigo con la porta trasparente, dove ristavano, illuminate da un neon azzurrino, vari soft drink in bottigliette di vetro da 25CL. Presi una coca; Tanya l’unica birra, mentre nel cielo fattosi indaco cominciava ad avvicinarsi un elicottero. Stavamo cominciando a scoprire il gusto di Manfredi Contini della Torre per le messe in scena. Guardai Tanya, che sorrise blasé, con un tocco di sbruffoneria. Ma vedevo bene che era tesa quanto lo ero io. 

L’elicottero atterrò, coprendoci di polvere mentre stavamo lì coi drink in mano. Si vedeva solo il pilota, casco, occhialoni e cuffie, perché il finestrino sul lato passeggeri era oscurato. Poi si aprì il portello e… 

… doveva essermi entrata la polvere negli occhi, perché, pur con lo sguardo fisso sul portello, senza rendermene conto mi ero voltato, dato che la prima cosa che vidi, e che ricordo adesso, fu l’espressione perplessa, e delusa, di Tanya. Poi mi voltai di nuovo verso l’elicottero, e vidi Johanna. 

Le pale, che stavano pian piano rallentando, le alzavano i capelli rossissimi, di quel rosso Pantone 1807 (che andava in 1805 e in 188) che mille volte mi ero sognato in quelle settimane, e pure l’andatura era la sua, ma per il resto era diversa, diversissima, dalla Johanna che conoscevo. 

…eh sì, doveva essermi entrata la polvere del deserto cileno negli occhi, ma dall’espressione perplessa di Tanya ero ormai passato a quella sostenuta di Johanna, della Johanna ritrovata che appariva però come un’altra Johanna, una nova Johanna che non ero sicuro mi piacesse, quantomeno per la distanza dalle dozzine, ma che dico dozzine, centinaia di diverse Johanne, tutte mie, che mi ero figurato di vedere al momento del nostro rincontro (oltre che dalle altrettante faccette già note del diamante-Johanna che avevo amato e amavo) mentre le pale dell’elicottero smettevano di girare e la polvere si adagiava a terra e su di noi. 

Non mi piaceva ma era lei e il cuore diceva cose diverse dal cervello e così le ero già addosso: che importava in fondo se ora era diversa, le ero già addosso ma lei fece un movimento come per sfuggirmi. Aveva una parte da recitare, era chiaro, qualcosa da fare o da dire, e però non me ne importava niente, l’avevo ritrovata e adesso volevo che tornasse a essere lei, volevo la mia Johanna, subito, non una Johanna surrogata o trasfigurata o recitante. 
– Ci pensi Johanna, – dissi mentre la prendevo per le spalle, la scuotevo, – sono io, Luther, siamo di nuovo insieme, ci pensi? 

Johanna, che pareva come più adulta, come invecchiata o più precisamente ingrandita di qualche anno, si mantenne sostenuta, ma per poco: conoscevo troppo bene quell’espressione, che era quella di quando stava per incazzarsi, ma in quel turbinio di emozioni che non poteva, io mi dicevo, non stravolgere anche lei, le scappò un sorriso che era il suo, proprio il suo, e poi quella lucetta in fondo all’occhio sinistro… era chiaro che anche lei sapeva quanto fosse assurda la messinscena in cui ci trovavamo, ma prima ancora che potesse aprir bocca arrivò Tanya, la prese per il colletto del tailleur e le disse: 
– Ascolta, balorda, dove sta Manfredi? Sta nell’elicottero? Digli di cacciare fuori la sua faccia da schiaffi. 

Johanna parve quasi spaventata dal piglio di Tanya (e non sapeva che quella matta era pure capace di tirar fuori una lama), o spaesata dalla mia reazione, o delusa dal non esser riuscita a fare o dire quel che voleva o doveva, oppure davvero consapevole dell’assurdità della situazione, o tutto questo assieme, fatto sta che le si bagnarono gli occhi, le vibrò il labbro e allora me la presi con Tanya, la staccai da Johanna. – Non essere violenta! – Macché violenta, Manfredi deve uscire, subito! – Sì ma stàccati! – … scoppiò insomma un parapiglia. 
Sapevate che gli elicotteri hanno una sirena? O almeno, quello l’aveva, e piuttosto assordante. Si alzò, in quell’urlo meccanico, il portello, da esso si dipanò una scalettina metallica – non verticale, proprio con i gradini – e una figura di donna in abito corto, tesa, gambe muscolose, accennò a uscire, ma qualcuno la fermò. Ecco il biondo: mi aspettavo di vederlo apparire in completo bianco, impeccabile come nel manifesto, invece aveva addosso un felpone grigio, il cappuccio tirato su, dei grossi occhiali da sole neri, un po’ come le star quando devono scender di casa gonfie per comprare il latte e vengono paparazzate. Durò un attimo: quello che serviva per fermare la donna dalle gambe muscolose, riportarla dentro l’aereo; poi, mentre noi aspettavamo sotto, si tolse quel che aveva addosso, intravvedemmo l’ultimo gesto, che fu di sistemarsi i capelli con la mano, e uscì, senza occhialoni né felpa, e più che un uomo pareva un pupone, giovanissimo, quasi un ragazzino, con quella T-shirt leggermente floscia e sotto un fisico da attor giovane, un dinamismo cosìesageratamente spontaneo da risultare in fondo innaturale, mentre scendeva la scaletta già guardandoci negli occhi; poi, quando arrivò all’ultimo scalino e mise il piede mocassinato, scamosciato (mocassino viola con fibbia d’oro in foggia di testa di Medusa, un tocco eccessivo, fuori tono rispetto al resto, che ne denunciava l’italianità), a terra, la sirena mutò in una specie di fanfara e dall’elicottero partirono due fumogeni bianchi e sulla loro nuvola una pioggia di coriandoli di lamé bianchi, azzurri, rossi e violetti. 

Manfredi guardò verso la nuvola di fumo e coriandoli, un po’ imbarazzato e un po’ esasperato, e venendo verso di noi, le braccia aperte, un sorriso adesso disarmante, ma anche in qualche modo vulnerabile (o almeno così sembrò a me) disse: – Scusate, adesso mi prenderete per un esaltato, – (e giù un sorriso ancora più disarmante) – si tratta solo di un dispositivo che deve usare Johanna per i suoi video, qua nel deserto di Atacama: qualcuno deve averlo dimenticato acceso dopo le prove. 

Poi, giunto alla distanza in cui ci si può guardare negli occhi (e in un solo giro di sguardi ci fu spazio per uno, truce, per Tanya; per uno, di disappunto, per Johanna; per uno, infine, affabile, profondo, all’apparenza di grande interesse, nei miei confronti), disse: 
– Lasciali pure esprimere, Nanita. 
– Esprimere?! – digrignò i denti Tanya e partì minacciosa verso di lui, mentre quel “Nanita” mi riverberava nel cranio, ma non quanto avrei creduto prima; non come lo scoppio di una flashball, ma più come un’eco dissonante, come il ricordo di un disappunto che già aveva mutato forma…

ARTICOLO n. 34 / 2025

SOBRI MAI

Sono passati ottant’anni da quel 25 aprile 1945 che cambiò drasticamente la storia del nostro paese.

Ottant’anni, la nascita di una Repubblica democratica, di una Costituzione fieramente antifascista, di uno Stato e un Codice che ripudiano e condannano il fascismo e ogni sua apologia: sembra passato molto tempo ma in verità ottant’anni sono davvero pochi.

È, infatti, meno di un secolo fa che eravamo ancora sotto dittatura, quella fascista. Un regime sanguinario, vendicativo, crudele, che ha demolito il paese e ucciso, imprigionato, torturato, confinato migliaia e migliaia di persone.

Un passato molto recente e sanguinario, fatto di patti e alleanze con i nazisti, ronde punitive, squadrismo, fucilazioni in piazza, sospensione di ogni diritto, ideali barbari e primitivi come, solo per citarne alcuni, la teoria della razza, l’antisemitismo, il determinismo biologico, l’identità nazionalista, il militarismo, la violenza come strumento di risoluzione supremo di ogni conflitto, l’omicidio come naturale e quotidiana pratica politica.

Il fascismo, che ci costrinse a quella che è stata la guerra occidentale più sanguinaria dell’epoca moderna, distrusse l’Italia, riducendola a brandelli: la più assoluta povertà e il divario sociale creati dalle scellerate e fanatiche politiche mussoliniane ci avrebbero messo anni per risanarsi anche solo in minima parte. 

Negli anni in cui il regime prese con la forza le redini del paese, costringendoci al conflitto mondiale, abbiamo sperimentato ciò che chiameremmo “barbarie” se a viverlo fosse un qualsiasi altro stato. Non ci fu niente di positivo nel fascismo, non credete alla retorica dell’«ha fatto anche cose buone»: è una giustificazione ricca di revisionismo storico apportata da chi nei valori fascisti crede ancora o in chi ha troppo senso di colpa per ammettere serenamente di aver contribuito alla scalata di potere di un individuo come Mussolini.

Ma nonostante il terrore, la paura infusa come forma di controllo, le fucilazioni, le ronde, la guerra, i rastrellamenti, le purghe, gli stupri targati camicie nere, i rapimenti e il confino, il tessuto sociale italiano non si arrese alla logica prepotente e dittatoriale del regime fascista, tantomeno alla compresenza delle truppe naziste nel nostro territorio. Nacque quindi il movimento noto come Resistenza, il più trasversale che la nostra storia abbia mai visto nascere.

Comunisti, laici, preti, contadini, avvocati, donne, ragazze, anziani e giovanissimi, disertori, monarchici, repubblicani, liberali, socialisti, si unirono sotto l’ideale universale di antifascismo, organizzandosi in brigate motivate dalla prospettiva della liberazione dal nazifascismo.

Presero prima le campagne, gli Appennini, le comunità montane, la linea Gotica (e contribuirono all’avanzata degli alleati verso la linea Gustav, che venne sfondata definitivamente nel 1944) e dai boschi si mossero verso le città.

Gli anni della Resistenza furono intensi, forsennati e dignitosi, fieri e inarrestabili: la popolazione civile si armava e combatteva il nemico che era interno, vicino, spesso parente, spesso insospettabile. Furono anni fondamentali, perché portarono a una collettiva presa di coscienza, ovvero che davanti all’oppressore e al veleno mussoliniano l’unico antidoto era la reazione antifascista.

L’organizzazione in brigate partigiane fu contagiosa, sintomo di quanto forte fosse l’ideale di libertà nella fragile Italia del tempo. 

Il 25 aprile di ottant’anni fa, dopo anni di scontri sanguinosi, morti, fucilazioni, vendette, bombe, spari, con così tanti morti alle spalle, le brigate partigiane e gli alleati entravano nelle città liberandole dal fascismo.

Ed entravano festeggiando.

Il giorno in cui le brigate partigiane invasero le vie di Milano, di Torino, Genova, Bologna, Prato, Trieste non fu un giorno di cordoglio, ma un giorno di rumorosissima festa.

Carovane capitanate da preti che sparavano in aria, baci tra sconosciuti, caroselli di furgoni e camion, musica, lacrime di gioia, atti scomposti – e per questo così puri – di felicità che simboleggiavano la nuova condizione di libertà e liberazione. 

Non furono sobri, i nostri nonni, quando ci salvarono. 

Non furono sommesse quelle celebrazioni, nonostante arrivassero dopo anni di brutali uccisioni e giorni di inasprimento della vendetta fascista e nazista che, consapevole dell’imminente tracollo, intensificò i rastrellamenti per “fare numero” e martoriare il martoriabile prima di darsi vigliaccamente alla fuga. 

Non ci fu cordoglio, quello arrivò dopo, insieme alla doverosa realizzazione del disastro che il fascismo ci aveva lasciato. Ci furono invece piazze invase da bandiere italiane e abbracci.

In quest’ottica, guardando da vicino cosa fu la Liberazione e quali furono le reazioni della nostra società (di tutta la nostra società: il 25 aprile a non festeggiare furono solo i fascisti), le parole di Giorgia Meloni sulla necessità di festeggiamenti sobri dell’ottantesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo in seguito alla morte di Papa Francesco – per la quale sono stati previsti cinque giorni di lutto nazionale: mai successo prima che fossero così tanti per la morte di un pontefice – suonano come le unghie sui famosi specchi.

Non starò qui a ragionare su quanto la fede sia un aspetto soggettivo e che uno stato laico debba necessariamente mantenere una scissione tra celebrazioni religiose e non.

Non starò neanche qui a fare delle ipotesi – seppur molto poco azzardate – su quanto questi cinque giorni di lutto nazionale siano funzionali proprio a coinvolgere anche le celebrazioni del 25 aprile, sollevando il governo neofascista da un bel peso che tocca portare ogni anno. Come ha scritto Xhuliano Dule, stand up comedian e sceneggiatore, «cinque giorni di lutto nazionale: non si è ancora capito se per il Papa o per la sconfitta durante la Seconda Guerra Mondiale»). E non sarò neanche io a ricordare di quanto questo lutto così esteso permetta al presidente Meloni di evitare un ennesimo “premier time” in Senato.

Non sarò neanche io a ricordare come ogni 25 aprile gli esponenti del governo si diano sistematicamente alla macchia (imprevisti, incontri all’estero, inderogabili appuntamenti, sagre a cui non si può assolutamente rinunciare etc etc) forse perché per loro questa ricorrenza è più un lutto che una celebrazione.

Ma mi interessa analizzare la richiesta di sobrietà fatta dal presidente Meloni, perché a mio avviso nasconde dei significati ben più preoccupanti di quelli che possiamo leggere in prima battuta.

Meloni non è sprovveduta, sa benissimo quanto potere abbiano le parole.

La sobrietà a cui il suo governo – nella persona di Musumeci – richiama gli italiani in questo ottantesimo anniversario è strategica.

Meloni sa infatti benissimo quanto la nostra collettività stia perdendo la memoria e quanto, in questo processo apparentemente irreversibile, la pesantezza della ritualità e della solennità abbiano un ruolo centrale.

Decontestualizzare una volta per tutte questo giorno dalla sfera della festa, della celebrazione, della gioia anche caotica che caratterizzò quel primo 25 aprile del 1945, è funzionale a renderlo qualcosa di dogmatico, pesante, lontano nel tempo, triste, cupo, sommesso.

Relegare la Festa della Liberazione a giorno istituzionale è anche utile ad allontanare le nuove generazioni dall’esercizio di empatia che la memoria richiede. 

Come si può empatizzare con qualcosa che empatico non è, come una celebrazione istituzionale che ha i tratti di una marcia funebre più che di un giorno di festa?

E così il richiamo alla sobrietà si inserisce in un più ampio contesto, quello del revisionismo storico a cui questa maggioranza ci vuole abituare ormai da qualche anno.

Se prima hanno provato a svuotare il senso del termine “antifascismo” (ne scrivevo qui poco tempo fa) adesso provano a svuotare le celebrazioni antifasciste dalla propria festosa, gioiosa natura.

Così facendo, tentano di pastrocchiare con la storia, di mischiare le carte in tavola, confondendo chi è anagraficamente più lontano dal quel 1945 e rendendolo distante dal sentimento di orgoglio che andrebbe invece tramandato generazionalmente.

E così, dopo questa ramanzina al sapore di revisionismo, i primi sindaci e le prime organizzazioni hanno abboccato, revocando alcuni concerti, spostando eventi ritenuti troppo frizzanti per una data laica che si sovrappone a un lutto privato e cristiano, cancellando rassegne considerate fuori luogo.

La Liberazione si sta purtroppo trasformando da anni in una parata istituzionale priva del suo primordiale, importantissimo senso. Questa data così importante è stata impomatata in qualcosa di liturgico, svuotata del suo significato rivoluzionario.

Le piazze, gli eventi, le manifestazioni sono state inglobate nel discorso politico e rese un carrozzone respingente, dannoso per il tramandarsi stesso della memoria, contribuendo all’allontanare sempre più persone dalla condivisione dei concetti e ideali antifascisti.

La sobrietà che il governo raccomanda è perfettamente in linea con la volontà di allontanare l’antifascismo dalla dimensione popolare, delle piazze, della collettività, e di relegarlo invece agli aspetti burocratici e pomposi, impolverati, demagogici. 

Di partigiano in quest’ottica non c’è niente.

Per questo, oggi più che mai, negli ottant’anni da quel primo 25 aprile, con un governo che nasce dalle ceneri dell’MSI e che agli ideali fascisti è ancora così legato, dobbiamo celebrare in modo assolutamente non sobrio.

Così facendo non permetteremo al governo di strumentalizzare la morte di Bergoglio per fini così patetici, e permetteremo forse a questa festa di ritrovare il suo vero, originario nucleo: quello che racconta di come una rivoluzione, la rivoluzione partigiana, abbia portato alla nascita di una repubblica democratica cacciando il nazifascismo. 

Ottant’anni fa, in quel giorno di festa, nelle strade invase dai baci, dagli spari in aria, dalla musica, dai balli, dalle urla, dai caroselli e dalle bandiere italiane, venne fatta una promessa, ovvero che lo spettro del fascismo non sarebbe mai dovuto tornare a serpeggiare nella nostra società.

Oggi, davanti allo scenario di un Occidente fascista, è dunque importante riprendere le tradizioni e ricordare alla nostra comunità quanto l’antifascismo abbia lottato affinché noi potessimo festeggiare, liberandoci dalla paura. 

E va ricordato anche alle istituzioni, ai Comuni, ai sindaci che i giovani si conquistano alla memoria non solo con i funerali ma anche e soprattutto con le feste che celebrano chi li ha resi liberi.

La festa del 25 aprile è una festa di vita, quella che la lotta partigiana ci ha regalato.

Siate assolutamente poco sobri oggi: dopotutto non c’è niente che faccia più paura ai fascisti di una società consapevole della gioia che si prova nell’essere liberi.

ARTICOLO n. 33 / 2025

QUELLO CHE CI HA FATTO SECCHI

elettricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando lultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,

come se tutti i fiori cominciassero a parlare.
(Anna Achmatova – Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso. (Dario Valentini)

I Preambolo: Birmingham la mattina

Bene che, stando ad alcuni rudimenti basici di meccanica (e nello specifico ciò che ebbe a riferirci il postino al cancello con lo zaino a tracolla, ovvero per fare sì che un corpo non trasli è necessario ridurre a zero la somma di tutte le sue forze) la vasca da bagno arrugginita evitò di crollare dalla nostra terrazza sul giardino sottostante appartenente alla signora Healey la quale, forte di una prole numerosa e decisamente incline ai giochi all’aperto nelle rare giornate di sole, a naso avrebbe gradito poco. Il sottoscritto a dirigere i lavori dal pianerottolo davanti la cucina, Beavan appena sveglio a tenere in sospensione l’oggetto stringendo le fragili zampette di ghisa sul lato dello scolo e Prescott in opposizione, con i piedi al battiscopa provandoci a scongiurare una tragedia nei fatti già scritta. («Facendo coincidere la rotazione B con il punto A la reazione vincolare non produrrà alcun momento avendo braccio nullo» ci aveva in effetti detto il postino l’istante prima di accendersi una sigaretta con in pugno l’ennesima scadenza da saldare entro la fine del mese e quell’odioso sorrisetto in volto.) Il gatto del dott. Ashton sul balcone adiacente infine Henderson lungo il marciapiede coperto giusto dall’accappatoio e la logora maglietta dei Discharge; appesantito per le mani occupate dalle buste della spesa ma con le zampette – cit. al pari di ogni eroe epico – scattanti e pronte alla tenzone. Un interrogativo comprensibile («ciò per dire che non avrò più una stanza in cui dormire?») seguito dalla preventivabile risposta «sì. Ma da oggi il tuo spazio apparterrà al mondo. Alexander. E dovresti esserne felice» dopodiché la pausa teatrale a sottolineatura della chiosa. «Ché devo organizzarmi in vista del live e sicuro non vorrei perdermelo consequenzialmente alla vostra stronzissima tendenza all’igiene, quindi regolatevi con quell’aggeggio da clown borghesi» mentre veniva riaccesa la cartina e sistemata in tasca la boccetta contenente il liquido al sapore di benzina – un composto di nitrito di amile, etile o isobutile – in grado di restituire effervescenza dentro alle narici fino al cervello. Il gesto del monocolo che scivola nel the per lo sgomento dopodiché il dito medio teso ai lampioni in fase di melodico, consolatorio riscaldamento. 

«Che poi, l’avete comprata con soldi veri oppure…»
«…oppure, commissario?»
No. Niente, niente. Andiamo avanti. 

II Svolgimento: West Midlands mood

E facciamolo postulando quanto segue: se qualcuno, quarant’anni fa, mi avesse tirato fuori dal letto sostenendo che oggi sarei stato costretto a tornare su quei giorni formativi, ecco, gli avrei probabilmente riso in faccia o meglio avrei scrollato le spallucce restituendo il classico charme dell’individuo che è nato – e mediamente maturato – nel Warwickshire di inizio Ottanta prima della coltellata. Avrei pensato a una provocazione declassando l’eventualità a qualcosa in stile oscena fantasia, chance dal valore assimilabile a un rutto nella galassia oppure una scoreggia lasciata partire verso il fondale dell’oceano stante il dato (evidentissimo: a questo punto della trattazione) che quasi ogni cosa a noi è mancata ad eccezione di un solido senso poetico e una tendenza ammirevole all’astrazione aulica. Meriden, il paese che ci ha visto sbocciare vicino a Solihull, o la diocesi di Coventry per le festività religiose ma anche (per le celebrazioni laiche) l’obelisco tirato su alla fine della strada in memoria dei ciclisti deceduti in battaglia; grigiori di antica nobiltà spalmati sopra ogni m² di moquette e stasi proletaria dentro teorie di cassapanche in rovere, almeno fino all’avvento di questa ondata che seppe soffiare via tutto quel pulviscolo residuale dalle nostre vite restituendo spinte impronosticabili al movimento nervoso. Materiale inatteso ma buono per forzarci all’agitazione esasperata che sotto sotto è catarsi; la violenza da palco che è preghiera quasi eremitica e il pogo sui pavimenti più fradici del regno da intendersi non come bieco scontro tra corpi di diciannovenni ipereccitati e furibondi quanto come ritualità iniziatica. Tessera di ingresso per un club del quale ignoravamo ogni regola d’ingaggio ma al quale qualsiasi cosa – se ricordo correttamente – saremo stati pronti a sacrificare prescindendo dal prezzo che prima o poi ci avrebbero chiesto alla cassa. (West Midlands mood, eravamo usi sostenere rincasando integri e non senza una scintillante enfasi, sfilandoci le t-shirt per buttarle nei luoghi meno adatti dell’appartamento.) Chiaro? Chiaro. E adesso, per un istante, marcia indietro non evitabile a dove ci siamo lasciati. Ok?

III

Sezione mediana: Birmingham un tardo pomeriggio

Ovverosia al racconto di come il sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson – restando a quanto riportano le cronache – diventammo i Primi (e Unici) spettatori del Primo (e Unico) live che tenne in zona questo gruppo nel futuro famosissimo in quanto seminale per un genere e un mondo, nonché delle modalità attraverso le quali il sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson ci preparammo all’evento durante un tardo pomeriggio scivolando a turno dentro la vasca da bagno appena sottratta alla discarica comunale di Rowley Regis. Circa i vestiti che ci mettemmo e su come muovemmo sopra al 277 barrato in direzione della sede di ogni trauma originario o potenziale redenzione cosmica. Le sentenze che davanti al portone furono ripetute dal postino («state attenti ad allagare ovunque: si chiama fluidodinamica ed è il mix di spazio, densità, pressione e temperatura ciò che potrebbe sfasciarvi il salotto») poi la conversazione che scegliemmo di avere chiudendoci dietro le spalle il cancelletto con i graffiti sghembi, gli adesivi dello Shifnal Town e qualche gomma da masticare appiccicata di troppo. 

«Ché stiamo trovandoci davanti a situazioni molto differenti. Non più un fenomeno musicale da centro urbano sviluppato quanto – è evidente – qualcosa di totalmente provinciale: l’ho letto sul NME e l’autore è stato chiaro al riguardo» tenendo al riparo da sguardi sospetti la lattina di birra. «Si tratta di zelo evangelico, imprescindibile rifiuto della commerciabilità e ossessione per l’onestà ciò che muove la band» alternando Henderson alle sentenze la propria inflessione da pargoletto di irlandesi, «e guardate c’è anche un nome per questa cosa: oikore o yokelpunk. Coppia di termini che trovo azzeccatissimi e idonei» senza naturalmente spiegarci il motivo.

«Inoltre so che in sala prove tre individui che conosco sono andati a sentirli e hanno iniziato a vederci doppio per lo stimolo al movimento.» (Will Prescott che sopra al 277 barrato annuì a sé stesso, sistemò il pisello e riprese a illuminarci.) «Più demo di esordio pochi mesi fa che penso si intitoli 1982» nell’atto di puntare la dama seduta accanto al conducente cui è severamente vietato parlare. «Ma forse sbaglio e vallo a sapere, e comunque conoscete le etichette Broken Flag eCome Organization? Credo abbiano iniziato con loro» salvo ammutolirsi subito dopo a causa della curva imboccata con eccessiva velocità e lo sbuffetto alcolico in direzione della maniglia di sicurezza.

«Ahi. Pardon.»
«Fa niente.»

«Invece» sentenziai io senza al solito essere considerato, «per quanto mi riguarda ritengo che – se ascoltati a basso volume – loro possano ricordare brani ambientali o roba del tipo Gristle» e addirittura sorrisi allungando i piedi al disegnetto sul seggiolino raffigurante un pene turgido tappezzato da venature realistiche. «Ma d’altronde gli estremi dello spettro, nella musica come nella vita, tendono a collegarsi così niente di strano» nel momento in cui il corpo di William Prescott – ex studente di biologia presso il Mason Science College – iniziò a scivolare in avanti e tremare. Bianco, umido e scomposto ma forte del più marmoreo e invidiabile tra gli spiriti di iniziativa. («Ehi, sei vivo?» poi «sicuro» rimettendosi in tasca la boccia di benzina. «Certo che sto bene ma vi scongiuro, dopo la vomitata ricordatemi di tornare sul parallelismo tra sonoro e mascolinità» allorché da fuori, oltre il finestrino opaco del pesante mezzo pubblico, di pioggia orizzontale e fulmini gialli ormai nemmeno ne sentivamo più l’eco lontana.) 

IV Sezione mediana: Birmingham dopocena

Ché, se ricordo bene – ma potrei scivolare data l’età o questo splendido caminetto che frigge all’ingresso del salone – la prima line up accettabile era composta da Nicholas al basso ed alla voce. Simon alla chitarra e Miles (nel caso realmente si chiamasse Miles: ricontrollare le fonti) alla batteria. Lasso di tempo credibile: dal dicembre 1981 al gennaio 1982 quando Simon optò per abbandonare la baracca un pomeriggio di agosto e già in settembre si manifestò quel genio di Darryl. Formazione che con Graham e Finbarr durò abbastanza a garantire i primi passabili live e i manicomi annessi, anche se più acerba rispetto alle esibizioni che sarebbero arrivate nel giro di poco in compagnia dei più adulti complessi anarco-punk del paese (Amebix, Apostles o Antisect). 

E perciò loro erano solo tre o quattro la notte in cui saltarono sul palco ad Atherstone di fronte al sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson e nessun’altro. Non miracolati da qualche compilation Crass – evento collocabile all’anno successivo – e con Justin B. statuario tra il pubblico invece che sulle travi a funzionare da rialzo per gli strumenti e il mixer. In una epoca definita innocente e crudelissima, di ottuso patriottismo e volontà di chiusura ma noi soli saremo stati salvati da tanta capillare fesseria in quanto baciati dalla Cura Ritmica. Da quei tizi in grado di reiventare il mondo attraverso un sistema sociale più equo e libero a forza di ruggiti, agitazione e velocità che viene dal futuro. Guardatevi attorno, il diktat. Stiamo per esplodere, il messaggio. Teneteci un posto a tavola, il vivo consiglio. 

«Hatred Surge. Ecco il titolo della canzone. La faranno?»
«Sì. La faranno.»
Minima idea.
«Poi certo, stiamo a vedere cosa succederà. No?»
Già. Stiamo a vedere.
Bene. Ulteriori dati funzionali per un’analisi complessiva dello scisma. 

V Sezione mediana: North Warwickshire in tre punti

a¹. Mid-80s: nei miei ricordi tasso di disoccupazione che raggiunge il picco di circa tre milioni e duecentomila unità e ciononostante trionfo dei conservatori sui laburisti con lo scarto in voti più ampio della storia nel contesto di una campagna elettorale teneramente omofoba e razzista. Violenta e incendiaria. Offensiva e degradante, ma non solo. 

b². Mid-80s nei miei ricordi il primo programma TV del mattino sulla BBC – it’s the Breakfast Time – e sbarco sul mercato UK di uno strano oggetto denominato compact disc, ma non solo. 

c³. Mid-80s nei miei ricordi voto nazionale indetto per giugno con aspettative di vittoria per le destre attestabile sui dodici punti percentuale e anche la nostra squadra che scende di categoria e quasi fallisce tuttavia state allegri stanotte, ragazzi: siamo qui per ascoltarvi. Per redimervi e innalzarvi allora torna la memoria al sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson all’interno del locale ad Atherstone straniti e agitati come neofiti anticristi. Molteplici livelli di alienazione e sconvolgimento nei nostri corpi di diciannovenni tra i sottili raggi a filtrare dalle finestre serrate sul vicolo e il tepore emanato dall’impianto di riscaldamento sul soffitto al fine di temperare le nostre bianchissime e delicate pelli. Sulle pareti manifesti di complessi passati senza lasciare altre tracce e – sparsi ovunque – cavi elettrici non in sicurezza desiderosi giusto di ammazzarci. 

La suggestione di un temporale primaverile che detona dall’esterno e ogni singolo rumore, tra una accordatura e l’altra, a mitigarsi per annientarsi al punto tale che tutti gli adoratori sensibili  di quella nuova musica che insieme veniva dall’università e la giungla avrebbe potuto contarle; l’intesa rivedibile tra gli strumentisti dietro le quinte e il sentore salvifico di quel tacito accordo stipulato all’atto dell’ingresso cioè l’epoca della sottomissione sarebbe stata per sempre chiusa e un’altra assieme avremo aperto incentrata sull’equità e sulla persecuzione dei milionari, degli schiavisti e dei padroni. Mai più ci sarebbero stati disequilibri di classe e l’intero universo delle multinazionali sarebbe stato rimesso al proprio ovverosia nel deretano del primo capitalista di passaggio grazie a quella serie mesozoica di accordi, colpi di rullante e grida.

«Mi segui?»
«Sì, ti seguo» nell’istante in cui gli ex Civil Defence, Undead Hatred, Evasion o Sonic Noise si presentarono davanti al sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson. I neonati – e per questo già splendidamente urlanti – conterranei Napalm Death. 

VI Sezione quasi terminale: West Midlands di notte

Però è vero: nel volgere di un lustro o poco più tutto quel carrozzone di suggestioni avrebbe perso in traino e in esuberanza sminuzzandosi in una infinità di sottogeneri meno immediati e coinvolgenti (nonché talvolta addirittura accidentalmente superflui) tuttavia sarebbe stato per il sottoscritto, per Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson impossibile da capire dentro al locale di Atherstone quella notte e il feeling che provammo sembrò qualcosa di eterno fatta per la gloria indistruttibile (aspetto intrigante: fui io lo spettatore maggiormente ammaliato dalla esibizione ma anche il primo a scocciarsene con l’assestarsi dei 90s optando per donare cuore e l’anima alla scena rave. All’happy hardcore e alla gabber, padre nostro di ogni tuta in acetato.) La convinzione – infantile perciò essenziale – che qualsiasi barriera tra esseri umani si sarebbe rivelata per ciò che davvero è – vale a dire una bestemmia – infine il suono. Un muro melodico talmente denso, ripetitivo e asfissiante da condizionare finanche alcune tra le scelte che avremo compiuto nel giro di poco. Una dimensione oscura e caotica, esecuzioni più torbide del torbido e l’idea ovunque di una farneticamente ma imprescindibile veemenza. Peter Beavan a ripetermi davanti la cassa quanto avessi avuto ragione a bordo del 277 barrato circa il fatto che il volume altissimo e bassissimo alla fine tendano a mescolarsi generando pattern sovrapponibili – cosa che però mai ebbi il buongusto di dire – o Prescott a blaterare sul valore della chitarra suonata «in quel modo lì» (cioè accordata due tonalità e mezzo sotto, avremo scoperto.) Un cane dietro al bar a mordere vecchie scarpe per finire con il sottoscritto rintontito vicino ad Henderson che, primordiale e gutturale, nel giro di poco avrebbe preso a spintonare il fonico che, oltre la palese innocenza per il momentaneo calo di rotondità del basso, si sarebbe rivelato un lontano cugino da parte di madre. 

«Ad ogni modo è fantastico, non trovi. Essere qui adesso
«Adesso?»

«Sì, adesso» per la musica roboante e mordace e la vicinanza anche se – in continuità con ogni Bildungsroman che si rispetti – è stata quella notte di quasi quarant’anni fa la prima nella quale le strade del sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson si separarono senza poi sapersi ritrovare e credo sarebbe saggio interrogarsi sulle ragioni più ragionevoli a distanza di millenni dato che bisogna scriverne: come mai? (A seguire, prima degli inevitabili saluti e in assenza di repliche, una contestualizzazione estemporanea ma onesta anche se troppo, troppo misticheggiante. Miei giovani Amoghasiddhi alla ricerca di eterna, cosmica redenzione.) 

VII Sezione terminale: Chamberlain Square ieri

In quanto, mi è stato fatto notare, se nasci dalle nostre parti un live dei Napalm Death mica ti cambia poi troppo l’esistenza poiché quel genere di antagonismo – e scanzonatezza o tendenza bonaria all’agitazione sociale – te la porti dentro dalla nascita e vai a sapere il perché. Ma mica dobbiamo sottovalutare l’importanza di qualcosa che sappia canalizzare questa rabbia, donarle una forma riconoscibile e forse si tratta di personale suggestione la correlazione tra il concerto e quanto ne seguì – una proiezione sciocca e infantile – ma continuo a ritenerla affascinante e come minimo riproponibile nelle vesti di conclusione narrativa. 

Dunque è complicato non ricondurre all’impressionante esplosività dei pezzi che i nostri eseguirono sul palco quella notte – se ricordo bene Instinct Of Survival ed Abbatoir poi So Sad – la scelta inattesa di Peter Beavan di scolarsi la quinta birra e scomparire senza proferire verbo, consapevole del fatto che l’unica mossa in grado di redimerlo sarebbe stata fare ritorno a casa a piedi e scalzo (grazie a Google sto ricalcolando adesso la tratta che conduce da Atherstone fino Birmingham: circa trenta chilometri nel buio più totale via Coleshill Road, davanti l’adorabile chiesa di Baxterley e Merevale) al fine di accettare senza ulteriori dubbi la proposta di impiego nei servizi sociali avanzatagli da quella signorina (attuale consorte: Kelly Beavan) che lavorava al centralino dell’ospedale. La stessa anima santa che dimostrò il buon cuore di prenderselo in cura nel retro del proprio appartamento quando i tifosi del Rushall gli ruppero una panchina in legno tra coccige e gluteo e che lo faceva ridere all’atto di cambiare le garze insanguinate. 

Un movimento terminale sotto il palco, i suoi occhi che da rossastri divengono del più classico tra i verdi britannici e l’inizio della peregrinazione rivelatrice in solitaria con le scarpe gettate nel primo bidone disponibile. 

«Scusatemi ma devo dirvelo…ho capito tutto grazie a quanto sta accadendo qui. Lo stimolo al risveglio. L’antagonismo e la rivolta: tutto».
«Eh?»
«Questi colpi tra grancassa e rullante superiori ai 200 bpm» data la sua indiscussa propensione al calcolo, «con le mani alternate ai piedi. Sedicesimi e quartine rivelatrici» in qualche modo – a posteriori – anticipando l’hyper blast, il traditional blast, l’hammer blast e il bomb blast della batteria metal, «per spingermi al movimento e la decisione seguendo la via tracciata da piatto e grancassa» piccola pausa, «in battere. No? Tutto».
«Tutto?»
«Già. Amico mio: tutto».

Al pari, la trasparenza con cui sarebbe impossibile non associare gli abbozzi di pezzi eseguiti dalla band a ciò che Will Prescott si sentì in dovere di confessarmi davanti agli amplificatori urlando come un maniaco cioè che avrebbe dovuto mollare al più presto il ruolo di commesso nel negozio di elettronica di Moor Pool per dedicarsi a quello che intimamente lo ammaliava dall’atto del concepimento ovverosia la pittura con il corpo e la video arte (Will che non sento da trent’anni ma di cui seguo gli aggiornamenti sul Guardian, lui che dovrebbe in questi giorni trovarsi in Québec a inaugurare una personale di sangue e acqua marina in un’abbazia gotica o roba del genere) fuggendo anch’egli senza avvertire salvo dimostrare il buonsenso di chiamare un taxi e pagarlo con una somma di denaro di cui ancora ignoro la provenienza (le mie tasche? Probabile.) 

«Ma stai tranquillo. È una visione sanissima: la rabbia. La creatività. Il futuro che sarà migliore grazie al feedback e la distorsione.»
«Eh?»
«Questo ridurre all’elementarità ogni elemento, la sensazione di auto-flagellazione che è in realtà redenzione…il minimalismo cacofonico della insoddisfazione: nella musica qui attorno, tutto, no?»
«Tutto?»
«Già. Amico mio: tutto

Per finire con Alex Henderson che sulle note di ciò che sarebbe poi diventato Human Garbage volle cimentarsi con il primo stage diving della sua esistenza planando dalle assi del palco sul piccolo tavolo in plastica per fracassarlo, avvertendo al tempo stesso pure quell’inatteso dolore intercostale che lo avrebbe fatto secco in un pomeriggio autunnale dell’anno successivo mentre se ne stava sul divano della casa dei nonni a Trá an Dóilín in Irlanda con in mano (vai a sapere l’origine della scelta) una carota e alcune pillole per la pressione. 

«Già. Amico mio: tutto» a ridosso del salto. L’ultima notte che ci concedemmo in compagnia l’uno dell’altro – forse fisicamente. Certo a livello emotivo – o forse così ho piacere soltanto io a credere ora che mi appresto a concludere il memoriale e davanti al camino di questo salone con calma e rassegnazione valuto alcune cose prima di separarmi (senza eccessivi rimorsi e ripensamenti, ma con eccellenti armonie di batteria) dal mio personalissimo tutto. No?

«Sì. Tutto.» 
«Ok, allora davvero finiamola qui. Compagni.»

VIII Epilogo: Birmingham la mattina

E fortuna che, stando ad alcuni rudimenti basici di meccanica (e nello specifico ciò che ebbe a riferirci il postino al cancello con lo zaino a tracolla, ovvero per fare sì che un corpo non trasli è necessario ridurre a zero la somma di tutte le sue forze) la vasca da bagno arrugginita evitò di crollare dalla nostra terrazza sul giardino sottostante appartenente alla signora Healey la quale, forte di una prole numerosa e decisamente incline ai giochi all’aperto nelle rare giornate di sole, a naso avrebbe gradito poco. Fortuna che saltammo sul 277 barrato per raggiungere in tempo il live di Atherstone e fortuna che – a quanto sembra – proprio in quel contesto sapemmo aprire gli occhi scegliendo, grazie alla rivoluzione sonora e morale cui avremo assistito, le migliori modalità con cui affrontare i rispettivi futuri cioè scomparendo. 

«Mai sentito niente di simile. Sai?»
«Dici?»
«Già. Dico.»

(E del resto mi è stato assicurato che nei mesi successivi a quella esibizione furono gli stessi N. D. i primi a stupirsi del crescente successo, del consenso diffuso e del primo album che sarebbe stato capace di fissare nuovi standard artistici in termini di estremismo e brevità. L’opportunità di tour più seri per finire con la patetica e offensiva mole di articoli o retrospettive stucchevoli a tema nonché troppo inclini alla mitizzazione.)

«Già».

Oltre i generi e oltre le generazioni – ebbi il fegato di ribadire io una sera durante la stronza presentazione di un altrettanto stronzo magazine musicale – una band che è stata punto fermo di etica e buonsenso prima di sfruttare addirittura il termine continuum cacofonico conscio del fatto che qualcuno, per molto meno, nel passato sia stato bruciato vivo in una pubblica piazza. («Il valore» avrebbe gridato il vecchio Bullen «della libertà delle persone sempre più limitata, anche se non nell’ottica destrorsa di potere dire tutto quello che ci pare» e annuisco afferrando adesso quanto sia banalmente l’interezza di ciò in cui credo e ancora sono, cioè un rancoroso e astioso, cistifellico e vendicativo autore di secondo piano al netto di un cuore – e un sarcasmo abbastanza inutile – grande così).

E per questo, se torno a quella notte, lo faccio con grandi rimpianti e rimorsi specie adesso che con passo cadenzato e qualche eccessivo dolore mi sollevo dalla grande poltrona della sala per dirigermi verso la cucina dove tengo le pillole del sonno. Io che apro il frigorifero, che scarto il fogliettino e ne ingoio il contenuto attendendo speranzoso gli effetti. In silenzio o mettendo su un’ultima volta l’LP nel giradischi poi fissando nella durata d’un fulmineo You Suffer il soffitto a cassettoni che meriterebbe una terminale verniciata. 

«Ci sei?» la voce da lontano e «sì. Ci sono» la risposta che do prima dell’inevitabile «ok, allora vieni con me» e la mano tremolante tesa verso il corridoio scuro. 

The multinational corporation.
Takes its profits from the starving nations.
Another product for you to buy.
You’ll keep paying, until you die.

Tre cari amici che ho perso di vista una volta mi fecero sapere che tutto quello che facciamo in vita altro non è che spostarci da un pezzetto di Terreno Sacro all’altro. Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson che per motivi insoliti se ne sono andati e mi mancano, così come manca il sottoscritto ora che chiudo gli occhi e – in fretta e lentamente – ci provo ad inspirare senza spasmi tra costole e polmoni. A scuotere i capelli al vento delle casse poi, con antica classe, lasciarmi cadere da questo smisurato e solido palco per provare a non risalirci stavolta davvero, davvero più. (Qualcuno di molto sapiente un tempo ha chiamato grindcore quello che ci ha fatto secchi, ma onestamente potrei sbagliarmi e tutto sommato non importa più granché). 

ARTICOLO n. 32 / 2025

JULIE HA UN SEGRETO

In collaborazione con I Wonder pubblichiamo un testo di Elena Stancanelli su Julie ha un segreto, nelle sale cinematografiche dal 24 aprile.

Il cinema si è accorto dello sport. Forse per la stessa ragione per cui si assoldano attori contando i loro follower sui social: lo sport ha tifosi e appassionati che si pensa possano essere trasformati facilmente in pubblico di cinema. Ma il passaggio non è così scontato. Raccontare lo sport è difficile, ogni gara riprodotta ha un coefficiente di interesse minore della gara originale. Nei biopic, come quello sulle sorelle Williams o su Niki Lauda e James Hunt, il pubblico deve accettare che l’adrenalina dello scontro è quasi azzerata dal fatto che conosci già il risultato. Non a caso tra i meglio riusciti ci sono quelli i cui originali non sono così noti, come per esempio Tonya, storia della pattinatrice Tonya Harding.  Il cui interesse, oltretutto, è non tanto nell’epica della gara ma nella disperata vicenda umana della protagonista.

Lo sport va costeggiato, tenuto sullo sfondo, usato per raccontare qualcos’altro. Come in Moneyball di Bennet Miller, il film nel quale Brad Pitt interpreta un allenatore che riesce a mettere insieme una squadra di baseball vincente con pochi soldi, andando a cercare i giocatori non sulla base della loro fama ma perché corrispondono a elementi di un modello matematico. Questo schema, lo sport che regge un altro tema importante, è lo stesso di Julie ha un segreto, opera prima di Leonardo Van Dijl. Lo sport in questione è il tennis. Che, rispetto per esempio al baseball o al calcio o a qualsiasi altro sport di squadra, non può contare neanche sull’emozione della squadra.

Il tennis, lo racconta benissimo David Foster Wallace, è infatti una nevrosi. Perché si gioca da soli, stando lontanissimi dall’avversario con il quale non si ha mai un contatto fisico, e perché è sottoposto a una tale quantità di varianti ambientali che, se affrontate, possono farti uscire di testa. La superficie: tra la terra battuta, l’erba e il cemento ci sono enormi differenze di gioco. O i venti, come spiega sempre Foster Wallace in un racconto intitolato Tennis, trigonometria e tornado. E poiché il tennis è una nevrosi, è nello stesso tempo anche una religione. Roger Federer come esperienza religiosa è infatti il titolo di un altro racconto di Foster Wallace, nel quale si teorizza l’epifania dei cosiddetti “Momenti Federer”, in cui «spalanchi la bocca, strabuzzi gli occhi e ti lasci sfuggire versi che spingono tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene».

Sono i momenti nei quale il tennista svizzero fa cose impossibili, e la pallina prende traiettorie che non si vedono neanche nel film Matrix. Per questa ragione il film di Luca Guadagnino, Challengers, nonostante racconti la storia di tre giovani tennisti, non ha niente a che fare con il tennis. Il tennis non si presta alla baraonda visiva che il regista gli attribuisce oltre al fatto che gli attori, bravissimi, non sanno giocare a tennis. Non abbastanza da essere credibili. Diversamente da quello accade in questo film, interpretato da una giovane promessa del tennis, Tessa Van den Broeck, che se la cava egregiamente anche come attrice. Questo consente al regista di filmare allenamenti e incontri senza dover forzare per consentire a noi di credere che si tratti davvero di una giovane tennista che frequenta un’Accademia prestigiosa e che di questa Accademia è la stella.

Le scene sui campi sono tutte molte belle, di grande precisione formale che, appunto, è opposta alla frenesia del film di Guadagnino. Se esistesse un Edward Hopper del tennis, sarebbe il riferimento visivo ideale. Panchine, angolature, riprese dei campi sono composte come quadri. Ma non sono solo le immagini a essere eleganti e quasi sospese. Il modo in cui la storia viene raccontata, attraverso una continua ellissi del centro, produce nello spettatore una affezione particolare. Come se ci venisse concesso di entrare nell’argomento, di cui si intuisce la scabrosità, lentamente e senza sforzo. La stessa lentezza con cui, scopriamo alla fine, la giovane Julie elabora quello che le è accaduto.

Il film si apre con la rivelazione che una allieva dell’Accademia, un’altra promessa del tennis, si è uccisa. E che il suo coach, lo stesso di Julie, è indagato per qualcosa che non sappiamo e quindi sospeso dalla sue funzioni. Tutto il resto, lo svolgersi della vicenda e della consapevolezza, lo vediamo accadere nella composta emotività della giovane tennista. C’è quindi una vicenda in superficie, come dicevamo accadere spesso nei racconti dello sport, e un’altra che si muove sotterranea, misteriosa. Che quasi “matura” nella durata temporale del film. Intorno a Julie il vivaio di giovani promesse comprende l’inevitabile carico di invidie e gelosie, ma, sottoposto all’urto degli eventi, si rivela anche una fortezza nella quale rifugiarsi. Julie, come chiunque passi attraverso una vicenda che coinvolge fiducia e ambizione, ha una ferita difficile da sanare. Ha bisogno di tempo, elaborazione e una rete che la sorregga. La famiglia, gli amici, il tennis.

Julie ha un segreto è anche il racconto di chi cerca le parole per dirlo. Non è un caso che sia ambientato in una zona del mondo dove le lingue si sovrappongono, dove è necessario conoscerne almeno un paio per destreggiarsi tra le persone. Julie gioca a tennis meglio di chiunque nella sua scuola, ma il linguaggio del campo, quello costruito nella relazione con il suo allenatore, le viene sottratto. Non le rimane che tacere, a lungo, aspettando di ritrovare la strada per comunicare con gli altri. Nella sua solitudine, lontano dalle pressioni di tutti, Julie trova finalmente il modo per rivelare il suo segreto, senza che questo segreto la distrugga.

Julie ha un segreto non somiglia alla grossolana volontà pedagogica del cinema di questi anni, che sceglie un tema e poi si accerta di aver restituito il giusto messaggio, pena l’espulsione dal mondo dei buoni. Ha una sceneggiatura raffinata, rifugge le scene madri, indugia su particolari che sembrano insignificanti, come i momenti nei quali, nel suo silenzio, Julie porta fuori il suo cane bassotto. Ma è proprio in quella sospensione, in quella intelligenza profonda delle cose, che il film rivela la sua anima gentile ma non per questo meno risoluta. E la domanda, che sottende la storia: com’è possibile che abbiamo dimenticato la prossemica dei rapporti tra adulti e adolescenti?

Trova il film nelle sale vicino a te.

ARTICOLO n. 31 / 2025

FERMARE IL PRESENTE E LASCIARLO PASSARE

La fotografia di Joel Meyerowitz

La prima cosa che colpisce di Joel Meyerowitz, in Italia per la retrospettiva A Sense of Wonder, è il suo aspetto: a 87 anni, indossa pantaloni skinny e stivali di pelle nera a punta.

È molto alto, spigolosamente magro.

Sta in piedi con una fermezza che non si può ignorare. Il viso è segnato da rughe profonde, gli occhi vigili. Nel lasciare la sala stampa cammina piano; eppure, nei suoi movimenti c’è una forza trattenuta, qualcosa che ricorda un cowboy – gentile, ma pericoloso: se volesse, potrebbe saltare sul suo cavallo al volo, senza toccare la staffa.

Anziché la pistola, porta una macchina fotografica a tracolla, sempre.

«Da quando avevo ventiquattro anni», puntualizza.

Poi ci guida all’interno della mostra. Curata da Denis Curti e ospitata al Museo di Santa Giulia di Brescia, è costruita come un racconto per immagini: ogni capitolo corrisponde a una fase distinta della carriera, segnando spostamenti, mutazioni, ritorni. 

Le fotografie sono più di novanta e attraversano sei decenni; si muovono tra la congestione delle metropoli e la vastità dei paesaggi naturali, tra l’America del Vietnam e le macerie di Ground Zero, seguendo un’onda visiva in continuo movimento – un’onda che però ha un moto costante: il colore. 

«Per me, il colore è un linguaggio per parlare della società», dice Meyerowitz.

Quindi, racconta come inizia tutto. Un giorno del 1962, uscendo da un set, vede Robert Frank fotografare per strada. Non è una rivelazione. Ciononostante qualcosa in lui prende vita: una necessità fisica, istintiva. Immediatamente lascia il lavoro in pubblicità e inizia a scattare. Senza scuola, senza regole.

Lo spiega come se sia la cosa più naturale del mondo. Ma lo si intuisce subito: quella decisione è radicale, poiché richiede una fiducia cieca in sé stessi, in quello sguardo che ancora oggi continua a notare la meraviglia dove gli altri non la vedono.

Le sue prime fotografie restituiscono un’epoca in cui la strada è ancora un luogo da abitare. Un palcoscenico senza quinte. Mentre la maggior parte scatta in bianco e nero, per Meyerowitz il colore è inevitabile: la città è a colori, così come i corpi, i rifiuti, le insegne, la luce che filtra tra gli edifici, il cielo stesso.

Colore, colore, colore. Ma non solo.

In una delle opere esposte, adulti e bambini sostano davanti all’ingresso di un palazzo a New York. Nessuno interagisce; nessuno si guarda. Nessuno ha fretta. Eppure c’è qualcosa che li unisce, una fiducia che attraversa la scena: si può stare fuori.

Si può stare fermi in mezzo agli altri.

Oggi, una scena simile spesso genera inquietudine. Prendiamo l’Italia: il dibattito sulla sicurezza urbana è dominato da parole ricorrenti – “degrado”, “controllo”, “baby gang”. Secondo alcuni, ogni episodio viene esasperato, trasformando la percezione del pericolo in uno strumento per misure sempre più rigide. Secondo altri, è inevitabile pretendere telecamere, pattuglie, zone rosse, e guardare con sospetto chi resta in giro senza apparenti motivi.

La vita pubblica si restringe. Lo spazio comune si riempie di terrore.

Meyerowitz ha un’opinione chiara sul tema: «Non mi interessa il giudizio. Fotografare significa capire qualcosa in più di sé e di come si sta nel mondo».

Allora, viene spontaneo chiedersi come abbia mantenuto quello sguardo, quel suo amore per la gente, per l’attesa, per gli angoli delle città in cui non si registrano eventi memorabili, ma solo presenze. La vita così com’è.

Appena rischia di diventare prigioniero di un genere, la street photography, Meyerowitz se ne allontana quanto basta. Lo fa senza fratture, senza dichiarazioni esplicite. Negli anni Ottanta, il suo sguardo si allarga, prende fiato, e si rivolge ai grandi paesaggi: Cape Cod, la campagna, la costa, la luce marina. Ma anche lì, dove la figura umana è spesso assente, qualcosa continua a parlarne. La traccia resta.

«Inquadrare», dice davanti a un’immagine del New Jersey del 1978, «riguarda l’apparizione delle cose».

In questa scena, lungo un viale alberato di notte, una drogheria ha l’insegna accesa. L’asfalto riflette il verde di un lampione; qualche auto è parcheggiata, le finestre quasi tutte spente.

Non succede nulla. Malgrado ciò, l’atmosfera è intrisa di storie da raccontare.

«Le immagini ci aiutano a capire il mistero del presente. Come siamo arrivati fino a qui».

E guardando quella strada del New Jersey, un ricordo fisico potrebbe tornare anche a noi: per esempio le serate estive passate fuori, da bambini, senza orologi né telefoni, a giocare attorno alle panchine, a fare le gare sui marciapiedi, il nascondino tra i bidoni. I confini erano chiari, condivisi. Bastava una sola voce che gridava “macchina” per fermare tutto e poi riprendere.

Oggi, anche nei paesi piccoli, è raro vedere un bambino da solo all’aperto. Non succede più. È considerato pericoloso. Si parla di pirati della strada, di rapimenti, di risse con il machete. E così si preferiscono le attività sorvegliate, i cortili chiusi, i parchi recintati; la libertà – quella vera, spontanea, disordinata – si misura in metri quadrati.

Meyerowitz, con queste fotografie misteriose, ci restituisce uno spazio mentale. Uno spazio in cui si può tornare, senza paura. Dove non c’è nostalgia, ma consapevolezza. La stessa che, nel 2001, gli permette di essere l’unico fotografo ad accedere a Ground Zero. Entra pochi giorni dopo l’attacco alle Torri Gemelle e ci va per mesi, con la stessa attitudine degli esordi in strada: osservare, attendere, capire.

Questa volta, però, è diverso. 

«Per prima cosa, bisogna trovare la distanza rispetto a un evento – soprattutto se tragico», dice nell’introdurre la sezione della mostra che rappresenta il cuore distrutto di New York. L’Occidente ridotto a schegge.

Meyerowitz fa una lunga pausa, poi racconta che, mentre si trova lì, circondato dalla morte, nota dei raggi di luce filtrare attraverso il fumo e la polvere. In quel momento accade qualcosa, una sensazione imprevista: nonostante tutto, si sente felice. Grato di essere vivo.

E dunque si chiede: è lecito provare una forma di felicità dove sono scomparse migliaia di persone?

Sì. Lo è. Perché la bellezza, anche minima, anche improvvisa, non è mai una colpa. È una via d’uscita dall’orrore. Così, capisce che il suo compito è trasmettere la meraviglia e consegnarla a chi verrà dopo nella forma migliore possibile. 

Un’esperienza simile può essere accaduta quasi vent’anni dopo, durante il secondo lockdown. Mentre le strade erano vuote e gli ospedali al limite, e le informazioni sulla pandemia scorrevano a ciclo continuo, in alcune case, dove le persone erano in salute, per la prima volta c’era tempo. Tempo vero. E, dentro la pausa forzata, dentro la tragedia globale, di nuovo poteva affiorare quella sensazione imprevista. Una forma di pace. Di benessere personale.

Non a caso, una delle fotografie più intime e inattese di A Sense of Wonder ci giunge proprio dal 2020. Meyerowitz è in cucina con sua moglie, la stringe da dietro; lei tiene le mani sulle sue e accenna un sorriso. In quei mesi di isolamento trascorsi in Toscana, Meyerowitz inizia a fotografarsi ogni giorno. Un gesto regolare, rigoroso, in fondo non tanto diverso dai suoi primi scatti di strada: anche qui c’è uno spazio condiviso, dei corpi che coesistono senza bisogno di dimostrare nulla. Solo la loro presenza. «Tutto ciò che serve per fermare il presente e lasciarlo passare».

ARTICOLO n. 30 / 2025

IL NORD NON ESISTE

Il nord non esiste se non come spuria indicazione temporanea. Una definizione buona per un movimento, più adatta ai nomadi e meno agli stanziali. Una collocazione in ogni caso dentro alla quale diviene possibile darsi una forma, senza troppi rimpianti per il luogo da cui si proviene. Il nord Italia in particolare sta in realtà sempre nel mezzo. Al centro dei commerci, della finanza e di buona parte della cultura così come di molte di quelle cose che il Paese lo fanno funzionare per davvero. Il nord è dunque più che altro una definizione di orizzonte, poi per il resto se si fa si è. 

Anche nel titolo del suo ultimo libro, Nord Nord (Einaudi), Marco Belpoliti rafforza e raddoppia, dichiarando così l’assoluta nebulosità di un luogo percepibile verticalmente come orizzontalmente. Una mappa attraversabile a piedi, un insieme di territori dai confini labilissimi che prima ancora d’intrecciarsi l’uno all’altro si confondono l’uno con l’altro. Il passo di Belpoliti è lento, osserva, medita e poi riprende il cammino. Non cerca la rivelazione, il colpo di tacco e il virtuosismo non rientrano nei suoi interessi. Belpoliti predilige l’intuizione, quello scarto minimo che possa lasciare l’impressione di un distacco dal presente. L’idea è quella di tracciare una linea a mano libera e poi coglierne le incertezze.

Il presente appare oggi un tempo troppo caotico e troppo piatto per essere realmente interpretato. Un tempo inadatto per farci sopra un discorso e per inventarci infine un gioco che diverta per davvero. Il passato invece, quello stretto prima ancora che remoto, l’appena accaduto, diviene il terreno ideale per Belpoliti per dare corpo a un dialogo che ha preso inizio nel predente volume Pianura e che ora prosegue in Nord Nord (due parti di una trilogia ancora incompiuta). Un discorso interiore che diviene pubblico con un indefinito quanto realissimo Tu, un seconda persona singolare disponibile all’ascolto. 

I ricordi per Belpoliti hanno forma di sostanza viva, non pretendono di assolvere a una verità, ma di offrire terreno adatto per fare vivere l’esistente, il contemporaneo. Divengono così una forma di nuovo presente che aleggia sulla testa di chi attraversando strade e di città ha ancora la pazienza di vedere chi ha abitato certi palazzi, chi vi ha lavorato chi vi ha sofferto e chi vi ha trovato rifugio. Il Nord dunque non esiste, ma vive come un ricordo che si rigenera giorno dopo giorno, restando vivido e attuale. Quel doppio, Nord Nord, suggerimento di Ernesto Franco, induce ora a uno scuotimento: svegliarsi dal torpore del presente per mettersi in cammino portando con sé il senso di un luogo e dei suoi abitanti. 

Nord Nord si apre con una casa, una vecchia cascina immersa nella campagna lecchese. Un colpo di fulmine che come spesso avviene si trasforma in una necessità vitale, un rifugio, ma anche un modo per non stare fermi, per non isolarsi a Milano, città più attraversata che abitata, soprattutto nell’ultimo ventennio. Luogo delle così definite bolle da cui è difficile uscire. Una prigione in cui tutte le porte restano sempre aperte e in cui ogni richiesta ha una risposta sempre affermativa. Milano è una sorta di ultracontemporaneo non luogo, più città asiatica che europea. Luogo di una solidarietà civile borghese un tempo concreta e reale che ora si è tramutato nella città simbolo delle diseguaglianze. Qui il disagio è frutto di un eccesso di agio, condanna di ogni curiosità obliqua, negazione di un passato che proprio sull’obliquità e sui margini seppe conquistare un’originalità culturale assoluta.

Belpoliti sfugge da questa dinamica ritrovando in una forma di solitudine la sua forma libertà. Una giusta distanza che si palesa in un recupero e in una rigenerazione che prima ancora che restaurare la cascina la svela. Non una copertura che occluda, ma una messa in mostra di un passato contadino, di una funzionalità che ora si libera divenendo luogo della mente, biblioteca e archivio, magazzino e tana di un intellettuale. Un tentativo estremo, quasi disperato di salvare una struttura: dalla casa alla mente. Un Novecento a cui Belpoliti prima ancora che aggrapparsi proviene, portandolo, magari fuori tempo massimo, in una contemporaneità che non può che nutrirsi di quel passato che ancora oggi è vissuto con rimpianto e nostalgia.

Ripulire il Novecento da quella patina è fondamentale per comprendere il contemporaneo, e a questo esercizio si dedica Belpoliti anche in quel movimento apparentemente contraddittorio di rigenerazione e ristrutturazione che si alterna al ricordo e alla memoria. La cascina è il punto così di partenza, ma anche di arrivo, il tentativo di fare casa di un emigrante, nato a Reggio Emilia, cresciuto a Bologna alla scuola del Settantasette, tra Gianni Celati, Piero Camporesi e Umberto Eco. 

Nord Nord è in fondo l’autobiografia di un movimento lento (lavorare con lentezza si diceva) che portò al centro Milano come città della realizzazione, non della maturità, ma di una consapevolezza giovane ed eccentrica. Scrittori, architetti, designers, fotografi. Belpoliti restituisce quel movimento preciso che non fu legato all’ambizione o al successo che afferivano invece al caso, ma al desiderio e alla sua capacità di farlo compiere. Costruisce una mappa per poi smentirla, da visione di un centro e di una periferia, ma poi raccoglie indizi là dove è possibile ritrovarli nella loro più improbabile casualità. L’affinità non nasce da un inseguimento, ma da una placida ossessione. 

Si avverte qualcosa di bambinesco nel tentativo di Belpoliti di comporre gli elementi di una mappa. Il desiderio di un disegno che possa contenere e contemplare e forse giustificare un tempo che sfugge inesorabilmente. In un certa forma di saggezza a tratti ostentata, in una forma di calma tesa, la voce narrante ricorda a tratti alcuni personaggi di Michelangelo Antonioni a cui tutto capita per bassa tensione, in attesa sempre di capire se sia stato un desiderio o un gesto totalmente privo di significato a produrre un incontro o un accadimento. La casualità si mischia alla curiosità dando forma a storie e a racconti tra il labile e il nebbioso, un po’ per incertezza e un po’ per non per non tradire quella pianura da cui Belpoliti proviene. 

Milano diviene così il centro di un’estesa provincia che contiene un mondo imprevisto, fatto di figure eclettiche, geniali e al tempo stesso ovviamente profondamente provinciali. Milano non è mai una meta o un punto d’arrivo per chi vive a Varese come a Bergamo, a Sondrio come a Brescia, luoghi industriosi il cui orizzonte si staglia direttamente nel mondo e che vedono Milano come un strumento, un porto d’interscambio, ma nulla più. 

La Capitale del nord o forse sarebbe meglio dire del nord nord è invece il filtro, il punto di ristoro per chi proviene dal centro come dal sud, luoghi che a differenza del nord esistono con estrema precisione. Come succede per due siculi come Ferdinando Scianna e Vincenzo Consolo, la cui traiettoria milanese contiene due verità opposte. Quella di una città inclusiva per Scianna, in cui è possibile permanere senza alcuna ostinazione, ma con una rassicurante calma tutta siciliana. E poi quella di una città ostinatamente padana per Vincenzo Consolo, che negli anni trova totalmente irricevibile anche a causa dell’elezione a sindaco del leghista Marco Formentini. 

Il milanese è dunque colui che sa restare siciliano come reggiano, piemontese come napoletano, dando corpo a frammenti che si accomodano per giustapposizione. Il lavoro è ovviamente la centralità del tutto e in un certo tempo fu anche un passe-partout per genialità e innovazione mentre oggi offre solo una forma arcaica di capitalismo a carattere amicale: una bolla dentro alla quale stare senza colpo ferire e soprattutto senza magari farsi troppo ferire. Nord Nord non è ovviamente solo Milano, ma entrambi vivono all’interno di un’assenza e di un vuoto che obbligano al rifugio, come può esserlo una vecchia cascina tra una camminata lenta e uno sguardo curioso.

ARTICOLO n. 29 / 2025

TORINO (NON) È SEMPRE TORINO

La donna della domenica: una signora città

Abbiate pazienza ma devo apporre come premessa a questo mio pezzo un mero dato biografico. Sono nato agli inizi degli anni ‘70 e sono cresciuto a Galliate, un paese a pochi chilometri da Novara, la provincia più lombarda tra le piemontesi. Ma sempre di Piemonte stiamo parlando. Eppure – e questa mia esperienza vi posso giurare è piuttosto condivisa – fino ai miei vent’anni non sono mai stato a Torino, città in cui tra l’altro oggi vivo da quasi venticinque anni.

Mi sono spesso chiesto il perché e ciò che mi ricordo è innanzitutto la paura, da parte dei miei genitori, del terrorismo. Certo, anche a Milano si registravano diversi attentati e lì andavamo spesso, ma quello torinese, visto da fuori, sembrava un fenomeno più violento, più cieco e soprattutto più pervasivo. Ma oltre a ciò un ruolo lo giocava l’aura della città. Una città lugubre, con pochi servizi, poco attrattiva, tutta fabbriche e problemi sociali.

Una nomea diffusasi con il passaparola e poi avvalorata da un romanzo uscito nel 1972, La donna della domenica di Fruttero e Lucentini. Famoso, famosissimo, divenuto emblematico, e che poi di lì a breve, esattamente nel 1975, avrebbe avuto una altrettanto felice e fortunata riduzione cinematografica a firma nientepopodimeno che di Luigi Comencini (con Marcello Mastroianni, Jacqueline Bisset e Jean-Louis Trintignant). Ora una mostra prova a “scompaginare” questo libro puntando sulla dimensione urbana.

Torino è infatti la protagonista assoluta di questo giallo anomalo, colto, divertente e pungente, e che riporta in maniera ironica il ritratto di una città grigia e lugubre, distante oramai dalla Torino contemporanea, una città che ha vissuto una delle riconversioni più coraggiose e più riuscite nell’Italia del Dopoguerra. La mostra celebra il cinquantesimo anniversario dell’uscita dell’omonimo film di Luigi Comencini (e anticipa la celebrazione nel 2026 del centenario della nascita di Carlo Fruttero) e si intitola La donna della domenica: una signora città (dal 26 marzo fino al 9 maggio – Circolo del Design, Torino) e fa parte del progetto Archivi d’Affetto. Realizzata dal Circolo del Design in collaborazione con Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, racconta e reinterpreta la Torino narrata nel celebre romanzo La donna della Domenica di Fruttero e Lucentini. Si tratta di un percorso espositivo realizzato dai curatori dell’intero progetto, Maurizio Cilli e Stefano Mirti, affiancati, per l’occasione, da Domenico Scarpa.

In effetti – come si diceva – La donna della domenica è proprio un giallo urbano in cui la città è protagonista, con i suoi luoghi precisamente riportati, con le sue caratteristiche e con il suo carattere. E appunto con il suo aspetto un po’ dimesso e persino “lugubre” (sono parole ricorrenti degli stessi autori riportate con una malcelata e divertita ironia da Carlotta Fruttero nel suo intervento all’inaugurazione della mostra). I curatori hanno messo in piedi un “gioco” (come ci hanno tenuto a sottolineare nei loro interventi). Un gioco “serio” in cui il libro viene proposto con le sue diverse copertine, con gli articoli di giornali che ne hanno accompagnato l’uscita, ma anche con i foglietti dei notes usati dai due autori che ci fanno entrare nell’informale laboratorio creativo dei due autori. E con una chicca: i tre finali diversi pensati in fase di scrittura. Non mancano, inoltre, alcune rare versioni estere del volume.

Nella seconda sala, il romanzo si dispiega nel suo potere evocativo in relazione a Torino. I protagonisti della vicenda vengono estrapolati e messi a confronto con alcuni fatti di cronaca di quegli anni che potrebbero aver influenzato gli autori. E poi Torino. Una mappa gigante della città con evidenziati i luoghi del romanzo e con foto d’epoca che riconsegnano l’immagine del tempo. Una ricognizione significativa che penetra in profondità nelle spire del romanzo e lo proietta in una chiave storica, e allo stesso tempo in una dimensione metanarrativa in grado di riconsegnarci un immaginario urbano ormai dimenticato.

Lontano, ma estremamente interessante, anche solo per confrontarlo con una visione diversa che soprattutto gli ultimi vent’anni di Torino è riuscita a imporre, come sottolinea bene Paolo Verri, torinese, da sempre impegnato nella promozione culturale della città e inoltre Direttore di Fondazione Mondadori, partner principale dell’evento. La mostra ha la felice intuizione di proporre il romanzo come strumento di rilevazione urbanistica, non soltanto perché fotografa il reale, ma anche perché è in grado di identificare un “clima”, un sentire e alcuni processi sociali e culturali. Nonostante sia presentata come “lugubre”, quella che emerge è una città con un suo carattere. Ma soprattutto emerge l’amore dei due autori per un sistema urbano e sociale unico di cui La donna della domenica si presenta come una sorta di ricognizione etnografica sui generis. E la mostra ha il merito di assecondare questa dimensione, di esplorarla attraverso i taccuini originali di Fruttero e Lucentini, prestati dall’Archivio di Carlo Fruttero conservato da Fondazione Mondadori, i ritagli, le immagini, le mappe. Una ricognizione storica a cui fa da contrappunto una installazione curata dagli studenti di fotografia dello IED – Istituto Europeo di Design di Torino che riporta le riprese video che colgono e interpretano lo spirito di quei luoghi oggi.

Detto questo, ciò che emerge è anche la necessità di rileggere La donna della domenica come un romanzo da riscoprire – come hanno sottolineato soprattutto Domenico Scarpa, curatore di Opere di bottega, il Meridiano dedicato ai due autori, Carlotta Fruttero e Luca Formenton, Presidente della Fondazione Mondadori. Un romanzo moderno e intrigante dal valore letterario decisamente sottovalutato ai suoi tempi e che invece si offre oggi in tutta la sua portata di opera significativa, se non fondamentale, della nostra letteratura.

ARTICOLO n. 28 / 2025

IPNOCRAZIA O DELLA CREDULITÀ

Quando è uscito Ipnocrazia per Edizioni Tlon, alla fine del 2024, è diventato velocemente un piccolo caso editoriale. Nel giro di poche settimane, il libro è stato presentato a Più Libri Più Liberi, citato su blog, discusso in eventi pubblici e newsletter, consigliato da librai e lettori come una tra le uscite più interessanti del momento. «Formidabile nello stile e nelle intuizioni», «Una nuova forma di controllo sociale, basato sulla credulità, in cui il potere per la prima volta non controlla i corpi, ma opera direttamente sulle coscienze», così alcune recensioni. La firma in copertina era quella di Jianwei Xun, un giovane filosofo originario di Hong Kong, formato in Europa, al crocevia tra Baudrillard e Byung-Chul Han.

Le recensioni ne parlavano come di un saggio capace di spiegare il presente attraverso una lente insolita ma efficace: non tanto la disinformazione, quanto la suggestione; non la post-verità, ma una sorta di trance collettiva, resa possibile da narrazioni sempre più pervasive. Letteratitudine News lo presentava così: «Filosofo, studioso dei rapporti tra potere, istituzioni e media Xun […] è considerato l’erede del filosofo coreano Byung-Chul Han e del pensiero di Jean Baudrillard». Anche Il Foglio aveva rilanciato: «Siamo nell’epoca del potere gassoso, in cui il presidente degli Stati Uniti e il CEO di X sono i veri profeti».

Sui social circolavano citazioni, foto del libro, dibattiti attorno al concetto di “ipnocrazia”. In questo scenario, quasi nessuno si è chiesto chi fosse davvero Jianwei Xun. Un sito ufficiale, un paio di interviste scritte, qualche citazione su Wikipedia. Nessuna presenza pubblica, nessun curriculum accademico. Ma il libro c’era, ed era convincente. Il nome suonava plausibile e l’editore è affidabile. Non sembrava esserci motivo di dubitare.

Anche in Francia il libro ha fatto parlare di sé, soprattutto negli ambienti culturali vicini alla filosofia politica e ai media studies. Il primo a rilanciarlo è stato Le Grand Continent, rivista di geopolitica e pensiero europeo, con un estratto pubblicato nel gennaio 2025 intitolato: Trump, Musk: lhypnocratie ou lempire des fantasmes. Da lì a poco il libro ha trovato spazio anche in Philonomist e articoli su Le Figaro e France Culture, dove il termine hypnocratie ha cominciato a circolare come categoria utile a descrivere le derive della comunicazione politica contemporanea. Le Figaro gli ha fatto anche un ritratto e persino il presidente Macron sembra averlo apprezzato.

È poi emerso che Jianwei Xun non esiste. Il libro è un progetto alla Luther Blisset, scritto da Andrea Colamedici con l’ausilio di un’Intelligenza Artificiale, e il nome dell’autore, la sua biografia, il sito web e persino lo stile comunicativo sono parte di un’operazione di filosofia performativa. Come spiega lo stesso Colamedici nella sezione segreta del sito di Xun denominata Il progettoIpnocrazia nasce come test su larga scala per indagare il rapporto tra percezione, verità, autorevolezza e narrazione. Il sito presenta Xun come un autore reale, ma con una comunicazione calibrata per non diventare troppo esposta. Il tono è coerente, la grafica curata, le interviste misurate. Il nome stesso — Jianwei Xun — è pensato per essere plausibile, ma non facilmente rintracciabile. Nessuna foto, nessun video. Xun non è un autore: è un’istanza narrativa. È l’insieme delle condizioni che lo rendono credibile.

Ma perché ci siamo lasciati convincere così facilmente? In Italia pochi hanno sollevato dubbi (alcuni, come me, lo sapevano e hanno retto il gioco). In Francia, dove stava diventando un boom editoriale, anche solo per la legge dei grandi numeri varie persone cominciavano ad accorgersene.

La fusione tra reale e rappresentazione che mette in atto Xun trova un fondamento sociologico in un classico come La realtà come costruzione sociale di Peter L. Berger e Thomas Luckmann. Per i due autori, ciò che definiamo “realtà” non è mai un semplice dato oggettivo, ma il risultato di un costante processo di costruzionecondiviso tra individui, gruppi e istituzioni. Le categorie con cui interpretiamo il mondo — e le narrazioni che ci guidano — vengono legittimate e rese credibili attraverso reti di riconoscimento reciproco. Un libro pubblicato da un editore affidabile, recensito in contesti culturali di prestigio, diventa immediatamente reale e autorevole. Nel caso di Xun, l’effetto di verosimiglianza non è stato solo un prodotto di stile, ma il frutto di un’intera cornice istituzionale che lo ha validato. Così, come sostengono Berger e Luckmann, una narrazione si trasforma in verità quando un numero sufficiente di attori sociali le conferisce valore di realtà — e questo avviene, in fondo, a prescindere dall’effettiva esistenza dell’autore.

Il libro stesso parla di questo meccanismo. Ipnocrazia descrive un regime in cui non conta più che qualcosa sia vero, ma che sia credibile. Dove la realtà si costruisce attraverso il riconoscimento condiviso. Non si tratta di censurare, ma di moltiplicare: narrazioni, immagini, interpretazioni, finché il vero si perde nel rumore. Il successo del libro ha in qualche modo dimostrato la validità della sua tesi. È stato creduto perché abbiamo bisogno di storie che funzionino, più che di verità verificabili.

Paul Ricœur, nella trilogia Temps et récit, mostra come la narrazione sia il dispositivo centrale con cui costruiamo il nostro rapporto con il tempo e con l’identità. Non viviamo il tempo come sequenza cronologica, ma come intreccio narrativo. L’esperienza diventa comprensibile solo quando la raccontiamo. E questo vale anche per l’identità personale: siamo il racconto che facciamo di noi stessi. Di fronte alla complessità e all’ambiguità del mondo, la narrazione è una strategia di compressione del reale. Se qualcosa funziona rispetto ai nostri scopi, tendiamo a considerarla vera.

Anche Jerome Bruner, tra i più influenti teorici della cognitive psychology, sottolinea che la mente umana pensa per storie: invece di organizzare i dati in modo logico, cerchiamo costantemente di dare un senso narrativo a ciò che viviamo. Raccontare, ascoltare, rielaborare storie è la strategia con cui riduciamo la complessità del reale, creando nessi di causa-effetto e identità coerenti. In questo quadro, l’adesione a una trama convincente — per quanto possa non essere verificata a fondo — risulta spesso spontanea. Il cervello umano, letteralmente, funziona meglio quando ha di fronte un racconto ben strutturato.

Un ulteriore elemento che chiarisce la facilità con cui ci lasciamo convincere — anziché dubitare — è legato ai bias cognitivi, i filtri attraverso cui analizziamo il mondo. Basti pensare all’effetto veridicità illusoria (illusory truth effect): più un contenuto ci viene presentato in modo coerente, ripetuto in contesti percepiti come autorevoli, e più tendiamo a considerarlo vero. Oppure il bias di conferma, che ci induce a cercare solo informazioni in linea con le nostre convinzioni, ignorando (spesso inconsciamente) ciò che le contraddice.

La coerenza narrativa, insomma, conta più della coerenza logica. Una prospettiva ancora più radicale arriva dalla filosofa americana Elizabeth Camp, che ha studiato a fondo il ruolo del linguaggio figurato nella nostra comprensione del mondo. Secondo lei, concetti come la metafora non servono a dire il vero in senso stretto, ma a farci vedere le cose da nuove angolazioni. Una metafora, pur non essendo letteralmente vera, può dischiudere significati che prima ci erano invisibili. In questo senso, l’autore fittizio funziona come una metafora epistemica: non importa se esiste davvero, ma cosa ci fa vedere. Xun, come una buona metafora, non si misura sulla verità referenziale, ma sull’effetto cognitivo che produce. La sua stessa esistenza (o meglio: la sua assenza) è una dimostrazione incarnata dell’ipnocrazia. Questa idea risuona con alcune forme di finzionalismo filosofico, secondo cui una teoria o un concetto non devono essere “veri” in senso assoluto, purché ci aiutino a pensare meglio. Se la verità si misura in base alla sua utilità conoscitiva, allora la filosofia può smettere di chiedersi cos’è reale, e iniziare a chiedersi: a cosa serve ciò che consideriamo vero?

Non ci siamo chiesti chi fosse Xun, perché ciò che diceva ci sembrava sufficientemente utile e verosimile. Michel Foucault, nel celebre saggio Che cos’è un autore?, scrive che l’autore non è una persona, ma una funzione. Una costruzione che serve a delimitare, organizzare, legittimare un certo insieme di discorsi. E proprio per questo può essere fittizio, diffuso, persino programmato. È sufficiente che la macchina dell’autorialità giri: che il testo sia leggibile, il nome suoni bene, il contesto editoriale sia solido, e il contenuto sia percepito come “utile”. L’autore è una funzione distribuita, ambientale, che emerge dal sistema di relazioni tra libro, lettori e contesto. Xun è una griglia semantica dentro cui è stato possibile leggere la contemporaneità:filosofia orientale, Intelligenza Artificiale, post-verità, estetica minimale, autorità evocata. Xun non è una maschera dietro cui si nasconde qualcuno, ma una forma attraverso cui qualcosa è stato detto.

E infine c’è la tanto temuta IA. C’è chi si ostina a demonizzarla, chi giura – mentendo – di saperne riconoscere la presenza in un testo, chi sostiene che non potrà mai essere utile per la “vera scrittura”. Ma l’IA non disturba tanto per quello che è, quanto per ciò che mostra, ovvero che la scrittura non è mai stata del tutto nostra. Non siamo i padroni della scrittura quanto parte di essa, dei suoi abitanti. Se usata bene, l’AI assume la voce che le dai. Può amplificare la tua, rafforzarla, oppure crearne una nuova, come nel caso di Xun. Se invece ti limiti a seguire ogni suggerimento della macchina, senza rielaborare o entrare in un rapporto dialettico con essa, il risultato sarà inevitabilmente standardizzato. Patinato, prevedibile, più simile a un template che a un’opera. La creatività, dopotutto, non è mai stata un processo isolato: è un movimento distribuito, un intreccio tra soggetti, strumenti, ambiente, contesto. L’illusione dell’autore romantico, isolato e ispirato, ha resistito finché non abbiamo ricominciato a vedere quanto di fatto ogni opera dell’ingegno sia frutto di un lavoro collettivo, che si tratti delle tragedie di Shakespeare o delle scoperte scientifiche.

Non esiste il genio che crea dal nulla, né un’idea pura nella mente che si traduce fedelmente nella materia. Ogni creazione si modifica mentre accade. Anche nelle opere d’arte concettuali più apparentemente “chiuse”, come potrebbe sembrare la Fontana di Duchamp, l’idea non nasce tutta intera all’improvviso ma ha vissuto altrove: negli appunti, nei tentativi, nelle conversazioni, le ispirazioni, nelle diverse esperienze e riflessioni dell’artista. L’AI rende tutto questo più evidente, perché non è un soggetto, ma una funzione relazionale: genera variazioni, propone biforcazioni, restituisce frammenti e li rimescola. In questo senso, la scrittura assistita è uno spazio di co-creazione distribuita, dove la macchina non decide, ma aiuta o suggerisce. Deleuze e Guattari parlano di pensiero rizomatico: una conoscenza non gerarchica, fatta di connessioni multiple, aperture laterali, percorsi non lineari. Charles Peirce, con il suo concetto di abduzione, ci ricorda che l’innovazione nasce proprio dalle anomalie, dagli scarti, dai dettagli che non tornano — e che ci costringono a immaginare ipotesi nuove.

La creatività si lascia trasportare dalle deviazioni, è un fenomeno del mondo, più che nel mondo. Il pensiero si riflette su cose e persone, si modifica in scambi repentini e inavvertiti come i movimenti saccadici degli occhi con cui costruiamo l’immagine del mondo.

Non serve dunque “riconoscere” l’uso dell’AI nei testi, come se si trattasse di una lettera scarlatta. Se la macchina viene usata con consapevolezza, moltiplica la tua voce. Alcuni lettori di Xun hanno criticato la sua teoria, ma ne hanno amato “la voce”. Altri invece hanno trovato le sue idee illuminanti, altri ancora lo hanno odiato. Che importa chi ha scritto? Una donna, un uomo, un gruppo, una macchina o persino delle lettere spostate dal vento. Difficilmente possiamo rinchiudere la figura autoriale all’interno di un corpo, ma possiamo sempre valutare se ciò che dice è utile per interpretare la complessità di ciò che viviamo.

ARTICOLO n. 27 / 2025

ORESTE SFUGGE ALLE ETICHETTE

a proposito di Domenico gnoli

Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) ha dipinto tanto, vissuto troppo poco, pubblicato un solo libro. È una fiaba, e racconta la storia di un principe che non sapeva sorridere. All’epoca, Gnoli viveva a New York (che avrebbe poi lasciato per tornare a Roma e approdare infine a Mallorca, dove avrebbe vissuto gli anni forse più liberi e intensi della sua breve vita). Scrisse il testo in inglese, e le venti tavole illustrate che accompagnavano la storia vennero esposte alla Bianchini Gallery (la stessa dove, tre anni dopo, Andy Warhol avrebbe venduto a due dollari ciascuna le sue famose tote bag con il disegno della zuppa Campbell). 

Pubblicato nel 1961 da Simon & Schuster (e stampato a Milano da Amilcare Pizzi), Oreste & the art of smiling fu un grande successo di critica e di pubblico. Newsweek lo definì “opera dell’anno”, il libro fu ristampato innumerevoli volte, venduto sia negli Usa che in Italia, ma non uscì mai tradotto in italiano. 

A riportarlo in vita ci ha pensato il Saggiatore. Ogni pagina, scritta o dipinta, di questa fiaba conduce in luoghi sorprendenti. Prima di tutto, per una questione stilistica: quando si nomina Gnoli, subito si pensa subito alle sue tele materiche e sabbiose, porzioni o dettagli di oggetti solitari, angoli di figure immobili. Tavolini disabitati, bottoni slacciati, trapunte immobili o letti disfatti. Ricci scolpiti, colletti immacolati, sofà dimenticati. Non deserti, ma abbandonati, e comunque vuoti. E invece un’opera come Oreste ci ricorda, che Gnoli, oltre che pittore del cosiddetto iperreale, è stato anche illustratore mirabolante e quasi rinascimentale per tematiche, coralità, fantasia di universi. 

Chi ha avuto la fortuna di visitare la sontuosa retrospettiva che la Fondazione Prada gli dedicò un paio di anni fa, non può aver dimenticato la vertigine che si provava quando dal piano terra si saliva al primo. Lì la pittura lasciava il posto all’opera illustrata, ed era come approdare su un altro pianeta, altrettanto misterioso, ironico, ossessivo. Ma diametralmente opposto al primo. Un universo affollato, fatto di teche, leporelli, tavole e schizzi, in cui contrasti e colori sfumavano, in cui il silenzio non esisteva. Tra disegni per riviste, illustrazioni editoriali, bozzetti teatrali, studi di teatrini, di palchi e di corride, era tutto un affastellarsi, un sovrapporsi, rincorrersi, un fiorire. Non esiste alcuna contraddizione in questo: vuoti e pieni, nell’opera di Gnoli, sono parte dello stesso movimento, e si direbbe che solo nel mezzo non ci sia nulla. Come se la vita – e l’arte – per lui fossero possibili soltanto ai due poli estremi, nella liturgie solitarie o nella feste dell’abbondanza.

Per atmosfere e stile, quella di Oreste è una fiaba cinquecentesca (“ariostesca”, la definì a suo tempo Sgarbi in un testo pubblicato su FMR). Degno figlio del teatro, Gnoli presenta i personaggi come in un apertura di una pièce, li descrive e li disegna uno per uno abbarbicati in cima a un albero, poi dice che ci sono due che non sa chi siano: un bassotto chiamato Marcantonio, e un uomo che dorme sotto una quercia. “Sono venuti da altre storie”, scrive, “me ne libererò subito”, ma naturalmente non lo fa, e il bassotto Marcantonio difatti ogni tanto ricompare, fa capolino tra le pagine con ottusa tenerezza. 

Oreste è sovrano di Terramafiusa, un piccolo principato nascosto “tra le montagne dell’Europa centrale”. È cresciuto con sua nonna, la dispotica Palmira, che ne stava distesa su venti materassi e non faceva altro che parlare col suo unico amico, il pappagallo Lucien. I due litigavano talmente tanto e facendo così tanto chiasso che, dopo la sua morte, Oreste ha fatto rinchiudere Lucien e ha dato ordine che a Terramafiusa regnasse il silenzio. Ha inseguito la quiete così tanto che ha impedito perfino agli uccelli di cantare, ed è diventato un giovane solitario e malinconico. Di solito le fiabe raccontano di qualcuno che torna a sorridere. Oreste a sorridere invece deve invece cominciare. Non lo ha mai imparato, è diventato grande senza sapere come si fa. Non sa sorridere e dunque non sa amare, o viceversa. Difficile quale sia l’ordine corretto. Questa, comunque, è la storia di come imparerà sia l’una che l’altra cosa. 

Come tutta la produzione di Gnoli, anche Oreste sfugge alle etichette, è inclassificabile nella più felice accezione che questa definizione può avere. A metà strada tra il fairy tale e il libro d’artista, è a suo modo anche un archivio tassonomico (di sorrisi), un diario segreto travestito da favola. I suoi colori, il seppia, il cilestrino, il paglierino, il bianco, non sono, del resto, colori da bambini, ma colori del sogno, quello sì. Nelle sue pagine abbondano alberi e mongolfiere, materassi e gabbie vuote, studi anatomici e armadi vuoti, frasi crudeli e scorci lunari. Per innamorarsene basterebbero anche i delicati, commoventi, innumerevoli sorrisi. Clericale, infantile, placido, furbetto, voluttuoso, militare, enigmatico, seduttivo, astuto, repubblicano, etrusco, tra i tanti. Gnoli, che era maestro nel ritrarre le figure voltate di schiena, li ha disegnati uno a uno, in cerca di quello di Oreste. E forse anche del suo.

Nel 1961, da New York, scrisse all’amico a Ted Riley: gli racconta che l’editore non gli rispondeva ormai da qualche settimana, e lui era preoccupato per l’invio in stampa il volume, e preoccupato anche di cercare per l’opera editore italiano (avrebbe dovuto essere Bompiani, ma poi, per l’appunto, non se ne fece più nulla): “Forse è stato tutto uno strano sogno”, scrive in chiusura alla sua lettera, “New York, il libro, tu, persino i miei dipinti e disegni; ed è meglio se mi risveglio e torno nella realtà! Forse sono un bancario, o un agente di vendita che ha mangiato (forse bevuto) un po’ troppo e ha sognato tutto, a causa di una cattiva digestione.” Anche qui, non esistono vie di mezzo, da poeta a bancario, per lui, non v’era che un passo. All’epoca, Gnoli aveva ventotto anni. Era sposato con la modella Luisa Ghilardenghi, aveva illustrato la prima edizione inglese del Barone rampante (uscito nel 1958). Ed è impossibile non pensare a Cosimo di Rondò quando ci troviamo di fronte alla presentazione dei personaggi arrampicati su un albero. O quando ci parla della selvatica e amorosa Violante, che “si era tolta le scarpe perché le piaceva la sensazione dell’erba sotto i piedi”. A New York era arrivato tre anni prima. Lavorava già da anni come illustratore ed era uno scenografo affermato a livello internazionale. Ma sia professionalmente che a livello personale, non aveva ancora trovato la sua strada: “Sono nato sapendo che sarei stato pittore, perché mio padre, critico d’arte, mi ha sempre presentato la pittura come l’unica cosa accettabile. Mi dirigeva verso la pittura italiana classica, contro cui reagii ben presto, ma non ho potuto dimenticare il sapore e la pratica del Rinascimento.” Gli anni americani furono per lui un decisivo tornante prima del grande, forse vero nuovo inizio. Gli anni in cui, dopo aver reagito contro quello che non voleva essere, si sarebbe diretto verso quello che voleva diventare.

Nato a Roma il 3 maggio 1933 da una madre francese ceramista e un padre italiano storico dell’arte, Domenico Gnoli aveva trascorso i primi anni tra Roma e Spoleto. A vent’anni si era trasferito a Parigi, dove aveva cominciato a lavorare per il teatro. Quella come scenografo sarebbe ormai stata, a quel punto, una carriera avviata, ma Gnoli detestava il lavoro di gruppo che il teatro ovviamente implicava, e soffriva sempre più le mondanità e i continui viaggi che ancora una volta di quel mestiere facevano parte. Proprio a New York inizierà a dedicarsi a fondo alla pittura. Mischierà tempera e sabbia, sperimenterà, studierà e si lascerà influenzare dall’opera di Carrà e quella di Morandi, entrerà, tra gli altri, in contatto con Cecil Beaton, e il suo modo di vedere lo spingerà a scegliere cadrages sempre più serrati e arditi per le sue tele. Sarà l’inizio di un lungo processo di liberazione che lo porterà via dalla città e dalla sua prima moglie: prima con un temporaneo ritorno a Roma e poi verso le rive assolate di Dejà, Mallorca, in compagnia di quella che diventerà la compagna per il resto della sua vita, la pittrice Yannik Vu. I due si stabiliranno a la Estaca, bianca residenza di ispirazione siciliana affacciata sulla costa di Valldemosa, che l’arciduca Ludovico Salvatore aveva costruito per la sua amante, e che da molti anni è proprietà di Michael Douglas. Proprio da Mallorca, nel 1963, in una lettera alla madre, Gnoli scriverà:

Dipingo come mi pare senza più preoccuparmi della cultura del secolo e delle mie responsabilità verso di essa, e allo stesso modo intendo vivere: libero e fedele solo a quel tanto o poco di vero che mi sento adesso. La vita comincia adesso; finora ho tremato davanti a troppe cose: la scuola, gli amici, la pittura moderna, il socialismo, il matrimonio, la cultura, la maturità, la responsabilità […]. Al mondo esiste il mare, esisto io con il mio talento per dipingere e anche (perché no?) con il mio talento per vivere […] esiste un’umanità che mi commuove e mi diverte ogni giorno, i pesci e allora anche se ci sono tanti problemi irrisolvibili, tante esperienze difficili, soprattutto tante delusioni, allora pazienza… 

Ecco un’altra, decisiva ragione per cui scoprire Oreste fa tanto effetto. Come le migliori fiabe, inventa un modo che ci parla della nostra stessa vita. Di quanto quello che desideriamo definisce quello che siamo, di quanto quello che pensiamo di avere sia in realtà quello che ci manca. Proprio come Oreste, anche Gnoli in un certo senso sembra aver imparato a vivere soltanto da grande, poco prima che fosse troppo tardi. E non è un caso, forse, che proprio in queste pagine spunti discreto l’unico autoritratto che ha lasciato di sé: anche lui, come il bassotto Marcantonio, si è intrufolato nel paesaggio: lo si vede in alto a destra, nella doppia di apertura dedicata alla presentazione dei personaggi. Abita la scena con discrezione, quasi con timidezza, ma è lui, proprio lui, lo sguardo malinconico e arguto, sempre pronto allo stupore, e certo senza poter immaginare il futuro, sembra già dire cercatemi dove volete, tra le trapunte, nei riccioli, nelle pieghe del tweed, ma io sono anche e resterò soprattutto qui, perché non c’è altro luogo in cui potrei andare che in questa terra libera che io stesso ho immaginato e perché non esiste, dopotutto, altra patria che l’infanzia. 

ARTICOLO n. 26 / 2025

NESSUNO IN COMUNE

elettricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando l’ultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,
come se tutti i fiori cominciassero a parlare.
(Anna Achmatova – 
Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso. (Dario Valentini)

Merda. Merda pure questa. Porcheria. Non ce la fanno. Ma come si fa? Che vergogna.

Sei mail, sei comunicati stampa, sei allegati, sei link. A ognuna aveva dedicato circa 10 secondi di lettura e contemporaneamente fra i 30 e i 36 secondi di ascolto dalla cassa Bluetooth collegata al telefono. Sei mail arrivate fra le 18 e le 21 del giorno prima e ora, alle 8.15 di mattino, già nel cestino, il tutto mentre preparava e poi sorseggiava caffelatte e inzuppava quattro biscotti all’arancia rinsecchiti mentre rollava una sigaretta, guardava l’orologio e premeva play, avanti, traccia 5, stop e di nuovo play, avanti, traccia 4, stop, guardava l’orologio. 

Alle 9 era al suo posto di lavoro con la divisa rossa e nera del megastore di elettronica, superata la buriana del Natale toccava sorbirsi i ragazzini con in tasca qualche spicciolo, arrivavano frenetici per acquistare controller e volanti da corsa con pedali per PlayStation, videogiochi come Elden Ring, cavetti, si informavano sui droni, poi c’erano tutti gli altri, quelli che cambiavano un regalo doppio, o meglio indesiderato, o quelli mal funzionanti, in quest’ultimo caso si trattava di over 60 incapaci di collegare una rete wi-fi o un cavo usb. Rispondeva impassibile, con le braccia lungo i fianchi e senza muovere le mani alle domande su quanta memoria avesse un tipo di telefono o un portatile; da quando lavorava in quel capannone luminescente si sentiva intorpidito, anche la tecnologia non gli interessava più, si limitava a leggere e a memorizzare le informazioni dei prodotti e a ripeterle, anche il suo store manager, malgrado avesse avallato la sua assunzione, di tanto in tanto lo chiamava in disparte e gli ripeteva di essere più “empatico” con i clienti. Non era questione di empatia, al limite sarebbe dovuto essere più misericordioso, pensava Boris.

Appena poteva adocchiava gli avvisi delle e-mail illuminare lo schermo del suo telefono: MusicaPress, HardcoreNation, JazzCore, MusicFashion, un continuo, il venerdì, giorno deputato all’uscita degli album, almeno venti proposte di dischi “imperdibili” che finivano per autosoffocarsi l’un l’altro. Tempo addietro aveva tirato giù due conti: se avesse dovuto ascoltare tutta la musica che gli propinavano avrebbe dovuto almeno dedicargli cinque ore al giorno, festivi compresi, e per un solo unico ascolto. Sarebbe stato il lavoro della vita, ma mancava il requisito minimo, lo stipendio, per un po’ c’era stato dentro, un fisso per nutrire e crescere la novità dell’online e pagati fuori i pezzi del cartaceo, all’epoca traino della rivista. Poi il settimanale aveva chiuso, cioè era stato venduto, la redazione ridotta al minimo, erano restate solo le pagine online, niente più carta, fino a svuotarla completamente e vendere perfino gli uffici del palazzo di Milano. Boris non era stato capace di riciclarsi come altri, magari come ufficio stampa o con qualche ruolo negli eventi o meglio ancora cambiando completamente strada. Era rimasto a metà, nutrendo una speranza malconcia e vuota, confidando nella lunga storia del settimanale, in un ritorno che aveva qualcosa di mistico e collaterale, immaginando che le cose potessero solo migliorare, nel frattempo firmava recensioni e interviste per un quotidiano, poche al mese, era già un miracolo che ci fosse una pagina la settimana, un contentino che gli permetteva di pagare qualche bolletta, se andava bene. Nel piccolo appartamento che gli aveva lasciato la madre, i dischi erano in ordine cronologico di uscita disposti su quattro pareti, dal pavimento al soffitto, era il suo capitale di storie e di emozioni che gli anni sbiadivano.

«Capo… Quelle cuffie? Che differenza ci sono con quelle là rosse? Conduzione ossea?», indicò alzando il naso.

Diciassette, forse venti anni, insaccato dentro un giubbino di piume d’oca rosso con un marchio che non riconosceva, jeans azzurri stretti, Nike bianche alte con il baffo blu, il volto squadrato incorniciato da un copricapo da skater in lana verde munito di visiera, le tempie strette su cui si reggeva la montatura degli occhiali a goccia che lo faceva assomigliare a Jeffrey Dahmer, o nella migliore delle ipotesi a Thurston Moore. Indicava cuffie stereofoniche con auricolari ergonomici e tecnologia open-ear. Era il momento di essere “empatici”.

«Principalmente il costo… E la marca ovviamente. Certo la marca garantisce più standard di qualità ma per esperienza personale posso dirti che non è esattamente sempre così… Non sono a conduzione ossea… Ma a conduzione aerea, una novità, non c’è dispersione all’esterno ma non ti isolano, in altre parole puoi ascoltare contemporaneamente anche chi ti sta parlando».

Prese le due scatole in mano, le soppesò velocemente, ripose nello scaffale le più economiche. Prima di indicargli la cassa dove pagare Boris domandò appena impacciato: «Posso chiederti cosa ci ascolti…»

«Tutto».

«Cioè?»

«Podcast, videogiochi, lezioni…»

«Musica?»

«Faccio musica»

«Hai una band?», chiese disorientato ma anche, finalmente, interessato. 

«No, scrivo la mia musica, la canto, la suono…», rispose muovendo il capo dal basso all’alto in una spinta di vanità.

«E hai pubblicato?»

«Solo dei pezzi, sono online… su Instagram, BonnyD, tutto attaccato».

«Cosa fai?»

«Trap».

Boris avrebbe voluto arrestare quel furioso oceano di merce e acquirenti per fargli domande se non fosse arrivata una donna con il lungo cappotto nero e un barboncino bianco che aveva la massima urgenza di un computer “per far studiare mia figlia”. Quando si girò, il tizio era sparito, guardò verso le casse ma c’era troppa gente e quel cazzo di barboncino aveva iniziato a sbraitare. Sentì vibrare il telefono, guardò la notifica, una mail del caporedattore, l’oggetto iniziava con FW, gli stava girando una mail. Sapeva già di cosa si trattava.

Aveva recensito un solo disco, uno solamente quasi estorto dal caporedattore, e ora gliene girava continuamente, pareva che di trap nessuno volesse scrivere. Anzi, si vergognavano a scriverne, come fosse la peste. Perché ai più giovani non fregava niente delle recensioni e quindi nessuno ti notava e l’ego restava a secco, perché i quotidiani li leggevano solo i cinquantenni, e manco troppo. E poi nessuno sapeva come abbozzare quel suono inutile, piatto, l’inclinazione commerciale, i testi che veicolavano e celebravano i valori del capitalismo, macchinoni, soldi, donne, fama, tutto la sordida sciatteria della fascinazione verso lo show-business, eppure la maggior parte dei trapper aveva una biografia radicata nei vissuti dei quartieri periferici di Milano o Roma.

In questo senso a Boris mancavano dei collegamenti storici, pareva che in quegli stessi luoghi dove si erano sviluppate le lotte di classe i ragazzi di oggi fossero stati costretti a bere il succo avvelenato del berlusconismo, l’individualismo utilitaristico o il machismo, senza elaborarne l’intossicazione, senza combattere le diseguaglianze imperanti, solo aprendo un ennesimo campo di battaglia della competizione. Ma non si poteva scrivere che ognuno di quei dischi fosse merda, anche se lo era almeno per le orecchie di un cinquantenne, un po’ perché quei successi commerciali dovevano nascondere comunque delle ragioni, un po’ perché dietro tanti di quei presunti artisti c’erano delle major

Stroncare l’album italiano di una major non era conveniente, l’ufficio stampa se ne sarebbe ricordato e il prossimo album non lo avrebbe proposto alla redazione, facendo perdere una notizia, o magari un’anteprima. I magazine online poi, con una buona recensione potevano sperare che venissero rilanciati sulle pagine degli artisti, pagine con molti più follower dei magazine stessi, garantendo click e possibili pubblicità e quindi allungando i tempi di galleggiamento. D’altronde il mondo s’era rovesciato, bastava osservare le medie rock band, da settecento mille spettatori, costrette a pubblicare un album ogni due anni non per vendere dischi, ma per la possibilità di fare una tournee sempre più striminzita con cui tirare a campare. 

Il resto del pomeriggio fu l’inferno in terra, Boris nella pausa sigaretta passava dallo stanzino per fare un goccetto, buttava giù due sorsi di vodka nascosta dentro allo zaino, poi due mentine. Riusciva a restare totalmente lucido se equilibrava vodka e performance orale con i clienti. Era sufficiente non sembrare troppo accelerati. Come un automa o un pannello elettronico dava informazioni e mandava in cassa.

Da quando non andava a un concerto? Dall’ultima volta che gli avevano ritirato la patente dopo un concerto.

Da quando non trascorreva ore a parlare di gruppi, distorsioni, testi, chitarre, live, davanti a litri di birra? Boh, da quando semplicemente gli amici si erano fatti una famiglia.

Da quando non ascoltava un disco in santa pace, giusto per il piacere di ascoltarlo? Probabilmente da quando aveva perso la routine del sabato, quando si rinchiudeva un paio d’ore nel negozio di dischi. Negozio ormai chiuso.

Eppure scriveva ogni settimana di musica. A che cosa serviva se non veniva letto?

A casa cercò BonnyD, quindicimila follower, nessuno in comune, seguiva settecentocinquanta utenti, nessuno in comune. Ripensò a quel volto, alle sue poche ma decise parole, a com’era vestito, un coglione qualsiasi, da cui però trapelava una traccia di fascino che Boris non sapeva decifrare. Cosa lo colpiva? Quindicimila follower erano tanti, troppi per un ragazzino viziato di provincia. Nel profilo c’era lui, BonnyD, con un mantello leopardato, sullo sfondo una giovanissima che si copriva il volto con unghie lunghissime, affilate e nere. Un profilo grezzo, tendente a risaltare la soggettività e l’agonismo verso il consorzio umano, non era ancora arrivato un social media manager, altre foto sempre con BonnyD in primo piano conciato con abiti diversi, emoticon a iosa, notò che non c’era la musica, nella testa di Boris da uno che dichiarava di essere un musicista si aspettava almeno di vedere una chitarra, un microfono, un mixer o un palco.

Non mostrava mai il corpo BonnyD, le felpe troppo grandi e probabilmente ancora non aveva tatuaggi da sfoggiare. In uno scatto era davanti a un capannone dismesso, seduto sul cofano di un’Audi, non troppo diverso dagli scatti che pubblicava Valmir, il suo collega macedone, Boris riconosceva quel luogo non lontano dalla sua abitazione, la fabbrica di elettrodomestici chiusa da un decennio e dove alcuni suoi compagni di scuola si erano seppelliti per anni. Ma se gli assunti stabiliti da Boris, che i giovani poveri avevano eletto come forma artistica la trap per affermare sé stessi e non una comunità, la trap come immaginario personale che facendo leva sul contesto marginale di provenienza fa approdare l’artista a un riconoscimento sociale e quindi economico, un tipo come BonnyD, proveniente da una provincia impoverita ma dove non si era mai troppo poveri, né troppo emarginati, perché aveva scelto proprio quel linguaggio da cui, appunto quel tipo di provincia, sembrava ancora avulsa? O era Boris a essere un primitivo che non aveva intercettato quel linguaggio universale anche lì? Possibile che non riuscisse a staccarsi da tre o quattro elementi con i capelli lunghi e birre in mano che provavano riff e batteria nelle cantine o nei garage? 

Mise “segui” al profilo. Gli sembrò un tradimento, ebbe l’impressione che gli altri suoi colleghi o ex colleghi lo stessero già giudicando. Era il momento di leggere la mail del suo capo. Invero c’era poco da leggere: Te ne occupi tu?

Sotto scorreva il comunicato stampa della major, promuoveva il nuovo disco di SpettoDrama, nelle prime tre righe, come minaccia, c’erano i numeri. Il suo ultimo singolo, Sparo Bianco, aveva ottenuto in pochi giorni 700.000 streaming, la sua pagina Instagram contava quasi 1 milione di follower. Dopo le origini magrebine, il passato difficile a Quarto Oggiaro da cui si poteva sottendere qualche arresto, solo in ultimo arrivava la musica, una spruzzata di musica tanto per capire che si caldeggiava un disco, prima solo storytelling, il personaggio. Non si diceva granché, venivano toccati i temi ricorrenti come “l’uso di sostanze”, la “ricerca di una felicità in un mondo sempre meno ospitale”, “l’alienazione generazionale”, “autentico e diretto”, “il lirismo autoriale”; l’ufficio stampa in un lodevole sforzo edificava l’apparenza, ripuliva l’artista prevenendo possibili critiche ai testi. Ma quali critiche? Alberto, un conoscente che scriveva per il defunto Suoni Diversi, si era azzardato a cassare come inascoltabile il disco italiano della “nuova scena rap” promosso da una major, subito non aveva più ottenuto ingressi gratuiti poi gli erano stati richiesti sempre meno pezzi. Alberto aveva raccontato che l’ufficio stampa e il manager, senza mezzi termini, avevano chiesto la sua testa, di non farlo più scrivere dei loro clienti. Chissà se si trattava di una fantasia per deviare sull’ingiustizia la storia del suo fallimento. Infatti Alberto aveva rinunciato, insegnava matematica alle scuole medie e scriveva banalità su Facebook. Boris rimase stupito dal post con cui Alberto annunciò il suo ritiro, una lunga e passionale tirata sulle motivazioni, il contesto e la fiducia venuta a mancare, neanche fosse stato Lester Bangs che lasciava Rolling Stone. Trovò Alberto ridicolo, il post di cattivo gusto, non credeva che uno all’apparenza timido e sufficientemente sfigato si credesse tanto posizionato nello sterile giornalismo musicale del Paese. 

Ok, ci penso io, 1.200 battute?

Risposta: Facciamo 2.400. Il doppio, il doppio significava ascoltarlo almeno tre volte ed escogitare qualche buon motivo per scriverne. Riempì un bicchiere di bianco e avviò lo streaming riservato con codice, dalle casse collegate al computer partì subito la voce anonima di SpettoDrama mitigata dalle distorsioni dell’autotune. Non lo irritava ciò che diceva, Boris teneva alla larga i moralismi, Spetto Drama non ce l’aveva con i ricchi, voleva essere ricco e ci stava riuscendo con barreegotrip, rime con cui esaltare il proprio fottuto ego, e poi una quantità di simboli e loghi della modernità collegati in un caotico paesaggio. Boris cercò di isolare alcuni passaggi della seconda traccia, Solo Io:

Ho un Rolex che brilla, lo so che ti acceca,
le lancette girano, ma la strada è diretta.

Stavo giù, ora volo, skyline nella tasca,
oro sul polso, il tempo non mi manca.

Cazzo e stracazzo. La generazione di Boris e quella prima si erano formate anche sul cantautorato impegnato, poteva piacere o meno ma aveva influito sui musicisti e più in generale su tutta la produzione culturale di chi a un certo punto s’era dedicato al rap o al rock alternativo, al reggae o al dub, al trip hop o alla no wave, al noise o al funk. Tutti, secondo Boris. Almeno tiravano fuori dei contenuti pure quando il contenitore faceva schifo. SpettoDrama cosa aveva ascoltato da ragazzino? Cosa gli avevano fatto? Quei suoni, il basso profondo, i testi intermittenti, producevano in Boris una sensazione di perturbamento, forse per la costrizione di non poter spegnere e l’obbligo di tirare fuori qualche frase sensata.

Sin dal principio delle sue collaborazioni aveva applicato una sorta di personale etica delle recensioni: non stroncava i piccoli, meglio non parlarne, che importanza aveva infierire con articoli spietati o peggio sarcastici su chi non si reggeva sulle proprie gambe? Su chi ci stava quantomeno provando? Si stroncavano solo i grandi nomi, quando necessario, quelli che ormai campavano di produzioni importanti e di due dischi buoni che ritornavano in almeno mezza durata dei loro live. Nel modo di intendere le cose di Boris, gli inviavano dischi, gli offrivano da bere e biglietti gratis, certo per lusingarlo affinché scrivesse due righe buone ma anche per il rispetto che si era guadagnato. Ora nemmeno i grandi potevano essere toccati, la faccenda si era squilibrata dall’altra parte, agenzie di booking e manager emanavano troppo potere, gli stessi investivano spiccioli di pubblicità dei loro eventi, banner e pagine, e i loro clienti avevano troppi follower, una forza subdola ma costante che pesava su quotidiani e le poche riviste rimaste. Se ne parlavi, dovevi parlarne bene. Nessuno lo ammetteva ma era diventata la regola.  

In un paio d’ore scrisse quello che poteva, rimanendo più neutro possibile, zero aggettivi qualificativi, riempiendo altri due bicchieri di bianco, riportando tutti i nomi dei feat del disco, alcuni titoli dei pezzi, info biografiche del comunicato stampa e qualche rima non esageratamente patetica per allungare un brodo insipido. Come per discolparsi nel pezzo accennava a una supposta “incomprensione generazionale”. Due ore fastidiose, ventidue euro netti. Se considerava l’ascolto, almeno quattro ore, sempre ventidue euro netti. Ore che tuttavia lo portavano avanti, provava ancora piacere a vedere la sua firma stampata sulla carta, un’ottusa vanità ma che lo faceva resistere ed esistere, un passo alla volta, almeno nel lento andare della sua bolla di lavoratori culturali sottopagati, bolliti e prossimi a scomparire. Era l’unica comunità che gli restava, quei pochi con si sentiva al telefono per lamentarsi per questo o quell’altro. Ormai il discorso girava solo sull’Intelligenza Artificiale. 

L’appartamento a piano terra puzzava di umidità, mentre ripiegava nell’armadio con le mani gelide una delle due divise del negozio di elettronica, asciutta dopo una fredda giornata al sole, pensò di essere ciò che sapeva essere: un vecchio idiota nostalgico. A conti fatti il passato era meglio del futuro, sacrificando il presente. Un reazionario frustrato, completamente scollegato dalle realtà che raccontava, con l’intransigenza bovina che prima o poi l’avrebbe trasformato in un silente elettore di destra. Un pensiero che lo fece immalinconire.

Le settimane a seguire nel negozio regnava una calma apparente, meno clienti ma più lavoro, l’ordine era di riformare l’area degli elettrodomestici per un’operazione di cross-selling, lavatrici e asciugatrici in primis, portarle in fondo al negozio, far risalire invece verso la vetrina televisioni e stazione Apple; rinnovare senza rinnovare un bel niente. Era come scavare buche per poi riempirle, il commesso veniva pagato per lavorare, Boris comunque preferiva l’attività fisica che il servizio ai clienti. E poi, tornato a casa, senza la matassa di parole sperperate durante il giorno, riusciva a scrivere più facilmente. Il giovedì notte in cui stava sistemando un’intervista alquanto banale per un disco shoegaze, niente di che ma conforme ai suoi gusti, si accorse che la recensione di SpettoDrama era stata pubblicata. Manco lo avevano avvisato. Per quel che poteva contare, non ci pensò nemmeno a condividerla sui social, nessuno sarebbe andato a leggerla tantomeno SpettoDrama che neppure doveva sapere dell’esistenza del giornale.

Rivendicandola su Facebook però correva il rischio di qualche commento a cui sarebbe stato obbligato a rispondere, il pericolo era di ritrovarsi, un messaggio dopo l’altro, proteggendo essenzialmente la sua firma, a difendere il disco di SpettoDrama. Quei quattro sfigati come lui che si etichettavano come critici musicali ogni tre giorni accendevano su Facebook baruffe e piccoli scannamenti su temi a cui a nessun essere umano munito di un briciolo di buon senso fregava un cazzo di niente, poteva essere una classifica, l’ospite di un festival, un premio, la dichiarazione del frontman, il ricordo di quella volta che avevano preso una birra con il morto del giorno. Un intrattenimento che lo coinvolgeva sempre meno.

Quando lo vide entrare stava trasportando con il carrellino la nuova Whirlpool 10 kg, prezzo ottocentodieci euro. Lo osservò mentre si guardava attorno disorientato, quando BonnyD individuò Boris incrociò il labirinto dei reparti e giunse davanti a lui. Stesso berretto, stessi occhiali, ma indossava un giaccone da snowboard lungo, bianco, con dei disegni infantili, casa cane albero.

«Sei Boris, giusto? Ho letto quello che hai scritto di SpettoDrama…»

«L’hai letta? Dove?»

«Social».

«Ti è piaciuta?»

«È il migliore…»

Boris ridusse l’inclinazione del carrellino e appoggiò delicatamente la lavatrice, poi restò come sospeso, leggermente ebete. Per la prima volta, nel grande magazzino, gli veniva riconosciuto un ruolo che non fosse il commesso, l’unico che avesse visto al di là della divisa rossa e nera era un ragazzino di cui non aveva nessuna stima. A cui non attribuiva nessun valore ma per cui aveva, sì, un briciolo di curiosità.

«Se mi lasci la mail ti invio il mio EP, esce fra una settimana».

«Etichetta?»

«Io».

BonnyD adoperava gli attrezzi obsoleti dell’ambiente in cui Boris si era forgiato, mai aveva sentito di un trapper che inviava il disco bramando una recensione. BonnyD che di periferie e dissing non doveva sapere un accidente, proveniva dal passato ma cercava disperatamente di entrare nel futuro con gli strumenti che aveva: il suo background, un software di merda, le sue parole loffie e la sua voce. Boris provò una punta di pena per quello sbruffoncello. Però aveva coraggio, voleva distinguersi mentre lui, Boris, che strada aveva intrapreso per distinguersi? 

Scoccò la decisione: sarebbe stata la sua ultima recensione e si sentì meglio.

«Lo ascolto, certo. Se non mi piace lo stronco», disse mentendo mentre rialzava la lavatrice.

ARTICOLO n. 25 / 2025

PENSARE A NIENTE

C’è un documentario su Netflix che s’intitola Don’t Die e racconta un anno della vita di Bryan Johnson, un miliardario americano che dedica l’intera giornata alla cura del corpo, con l’obiettivo minimo di ringiovanire, e quello massimo di vivere per sempre. Per centrare almeno uno dei due obiettivi fa una vita di merda (ça va sans dire). Bryan ingurgita un diluvio di pillole, segue una dieta implacabile, si allena come un atleta professionista. Non solo. Il suo corpo ogni giorno è sottoposto a una routine delirante: infrarossi, trasfusioni di plasma, terapie geniche. Il tutto gestito da un algoritmo. Questo programma ha un nome, Blueprint Project, e un costo di due milioni di dollari l’anno.

Durante il racconto che fa di sé, Bryan parla del suo passato di imprenditore rampante sopraffatto da una tipica sindrome da burnout: la sua vita privata andava in pezzi e l’unica cosa che gli veniva facile era non alzarsi più dal letto. Era giunto alla conclusione che il suo problema fosse il cervello. Adesso invece, da quando cioè ha affidato la cura del corpo a un algoritmo, non deve più pensare a niente e sta enormemente meglio.

«Il cervello è la parte debole dell’essere umano», dice. Una cosa non priva di verità. Un’ovvietà forse. Ma nel pronunciarla, centra uno dei nodi su cui si sta giocando il futuro della specie umana: un futuro (ma diciamo pure un presente) che mira in ogni campo a sottrarre potere alla logica, al pensiero, alla conoscenza, al senno, cose che possono essere delegate alle macchine, a chi detiene il potere computazionale, alla ristretta minoranza che gestisce i big data, un futuro che ci sta progressivamente liberando dalla seccatura di dover pensare. E non è un caso che nel mondo tutto ciò che è legato alla cura del pensiero sia sotto attacco, che la scienza e il lavoro intellettuale siano deprezzati e umiliati, che la rappresentanza politica sia affidata a individui sempre più rozzi e ignoranti. Un processo che non inizia oggi, ma che è già in atto da secoli. Qualche anno fa Gerald Crabtree, un genetista dell’università di Stanford, dimostrò che la specie umana ha raggiunto l’apice della sua evoluzione cerebrale circa duemila anni fa, per poi scivolare verso un inarrestabile declino cognitivo.

Se lo scopo dell’Illuminismo era liberare l’uomo dall’incapacità di valersi del proprio intelletto – «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza» era il motto invocato da Kant – due secoli e mezzo dopo l’umanità sembra proporsi esattamente lo scopo contrario: abbi il coraggio di servirti di un’intelligenza altra. Non mi riferisco soltanto all’avvento dell’AI, cui nei prossimi tempi demanderemo in modo sempre più massiccio compiti e funzioni (benché al momento, malgrado i cupi allarmi, mi paia più utile che nociva), ma di una riscoperta del corpo, inteso come corpo pensante e gaudente, che inibisce la mente dal generare frustrazioni, sofferenze e dolore. Quello che si prospetta è uno scenario non di poco conto, che pone al centro una potente ridefinizione del concetto stesso di felicità.

Se infatti l’uomo del futuro non agirà obbedendo al cervello, ma ai polmoni, al fegato, al cuore (come sostiene Bryan Johnson), potrei provare fin da subito a immaginarne le conseguenze. La psicologia diventerà una disciplina inutile. Il sapere sarà un fardello che non ci riguarderà più, perché a farsene carico saranno i cloud. Non conosceremo tristezza, angoscia, depressione. Saremo idioti e felici, ma di una nuova forma di felicità. Se è vero che per Schopenhauer chi cerca attivamente la felicità va per forza di cose incontro a delusioni e frustrazioni, noi saremo felici, perché non sapendo più neppure cosa sia la felicità, avremo finalmente smesso di cercarla.

Nelle innumerevoli meditazioni che faccio su me stesso, un quesito cui torno spesso è: cos’è che mi rende davvero umano? Il rischio che corro è di cadere sempre nella vecchia trappola cartesiana del dualismo tra res extensa e res cogitans, finendo per far prevalere la seconda sulla prima. Sono umano perché penso. Ma il corpo non è estraneo al mio pensare. Se vogliamo dirla tutta, il corpo, per la parte organica che riguarda il cervello, contiene quel mondo astratto agitato da impulsi elettrici che è il pensare. E le stesse funzioni del corpo influenzano l’oggetto e la qualità delle mie speculazioni.

Se potessi rivolgere una domanda a Bryan Johnson, probabilmente sarebbe: sei proprio sicuro che le esperienze del corpo sono più concrete degli astratti pensieri?

Il corpo dialoga con la realtà oggettiva del mondo attraverso i sensi. Se uno dei sensi viene meno, si interrompe una via di comunicazione tra noi e la realtà. Il corpo è lì, al confine. È la membrana esterna che tocca ciò che ci è estraneo per natura. E perciò è il nostro mezzo principale di conoscenza, è la sonda che raccoglie il materiale per il cervello, il quale poi lo rielabora e gli dà forma.

Immaginiamo di vivere la condizione auspicata da Bryan Johnson, in cui la seconda fase del processo di conoscenza è abolita, in cui ci limitiamo soltanto a fare esperienza del mondo attraverso i sensi, potendo fare a meno della “parte debole dell’essere umano”, ossia della mente. Ho passato la scorsa estate a leggere quel libro sconvolgente sotto molteplici punti di vista che è il De rerum natura. Nel Libro IV, Lucrezio elenca una serie di inganni dei sensi (facciamo attenzione alla parola “inganni”): le stelle nel cielo che ci sembrano ferme anche se vagano nello spazio profondo, il soffitto che vortica quando i bambini finiscono il loro girotondo, il marinaio cui pare che il sole nasca dal mare e nel mare si inabissi, la rifrazione di un remo immerso nell’acqua che lo fa sembrare dritto, i raggiri del sonno e dei sogni. Aggiunge che la nozione di ciò che chiamiamo “verità” è plasmata sui sensi, perché riteniamo che i sensi siano la cosa più affidabile. I sensi invece sono plagiati dall’illusione, sappiamo che perfino i colori sono un’illusione, le tre dimensioni, la percezione dello spazio, il caldo e il freddo… Tutto è illusione. Non c’è niente di vero. A buon diritto si può dire che non esiste neppure la nozione di vero.

Lucrezio però non se la sente di tirare dritto su questa deduzione fino a negare l’universo intero, e finisce per dire che, nonostante tutto, dobbiamo nutrire la massima fiducia nei sensi, perché ciò che è vero per i sensi, è vero in assoluto. Se Lucrezio lancia il sasso e nasconde la mano lo si deve al fatto – dice lui – che se mettiamo in discussione i sensi, crolla l’intera struttura della nostra esistenza. Quindi tocca andarci piano nello scrutare in certi abissi.

È più o meno la cosa che mi disse una volta uno dei tanti psichiatri che ho conosciuto negli anni: “È innegabile che affacciarsi su quel gorgo sia una cosa affascinante. Ma è pericoloso. Molto. Perciò glielo sconsiglio”.

Tanto la mente quanto il corpo quindi sono inaffidabili. Nei giorni in cui sperimentavo dure terapie farmacologiche per combattere i sintomi di una feroce depressione, avevo l’impressione di essere a stretto contatto con la realtà, più di quanto non lo fossi mai stato in vita mia. Ma quella che vedevo era una realtà totalmente priva di significato, era il cadavere della realtà, che i non depressi tendono generalmente a rianimare attraverso la loro briosa fantasia.

Nei momenti di peggiore sconforto, in effetti, si smette di credere a tutto, in primo luogo ai propri sensi. Ciò che chiamo sconforto però è una gigantesca epifania, una visione stereometrica delle falsità con cui ci consoliamo in ogni istante della nostra vita. Quello che mi chiedevo è se il mio sconforto fosse davvero la conseguenza, e non piuttosto la causa che mi portava a osservare quanto fossero falsi i verdetti dei miei sensi. La psicologia dice che lo sconforto derivato dalla troppa consapevolezza è una deviazione. Ma non lo dice solo la psicologia: lo dice la sociologia, lo dicono le scienze politiche, lo dice il senso comune. Tutto dice che se avverto l’assoluta falsità della condizione umana, sono fuori dal consesso civile, ho deviato per la via inammissibile.

Per cancellare tutto ciò dalla mente di un solo individuo non bastano i miliardi e il tempo di cui dispone Bryan Johnson. La sua idea di felicità del resto è dolce fino al candore. La sperimento in parte ogni volta che mi alleno per correre una maratona. È una felicità data dalla distrazione dei pensieri, dalla concentrazione, dall’attenzione che pongo sui meccanismi corporei, respirazione, gesto, appoggio del piede, strategie di decontrazione muscolare, gli stessi principi applicati nella pratica della meditazione. Insomma, una fatica bestiale. Che per giunta ha effetti brevissimi. Perché quello che forse Bryan non ha capito, e con lui quella parte di umanità che ha deciso di delegare sempre più decisioni e azioni, è che pensare a niente è cento volte più sfiancante che pensare a tutto.

ARTICOLO n. 24 / 2025

NOTIZIE DA LEI, E CHE NOTIZIE!

L’amico che negli scorsi giorni mi ha ospitata a Venezia mi ha raccontato, mentre ero lì, di quanto gli fossero piaciuti i libri di Romain Gary, nonché Martin Eden di Jack London, perché li aveva letti in un momento in cui stava vivendo le stesse situazioni e pensando gli stessi pensieri dei protagonisti di quei romanzi; gli ho risposto che qualche mese fa, confrontandomi con un conoscente in merito a Un uomo che dorme di Perec, ho scoperto di averlo letto – soprattutto nel finale – in maniera drasticamente differente rispetto a lui, soltanto perché stavamo attraversando due fasi ben diverse l’una dall’altra delle nostre vite. 

La biografia e l’autobiografia, per me, sono fondamentali: quelle di chi realizza l’opera e quelle di chi la legge, la ascolta, la guarda. «In Italia, la vita d’uno scrittore è annullata dalla sua opera. La persona che ha scritto quelle pagine, che studiamo e amiamo, paradossalmente non ci interessa», scrisse Viola Papetti nel 1992 in una lettera indirizzata a Maria Corti. Ci siamo convinti – non solo in Italia – che l’opera esista in un regno a parte, sia essa opera letteraria o musicale o visiva; che goda in qualche modo di uno statuto indipendente da chi l’ha prodotta – e, allora, per chiudere in fretta e furia questo divario, giù con il pur lecito mantra “il personale è politico” (ma solo se siamo politicamente allineati) o, per aumentarlo a dismisura, tipo accelerazionismo, con le degenerazioni del separare l’opera dall’artista, se si parla di Carl Andre o Roman Polanski, che, per salvare capra e cavoli, finiscono per togliere l’odore all’una e agli altri. Per fortuna, però, io, qui, non voglio parlare di Carl Andre e Roman Polanski, né di Ana Mendieta e Adèle Haenel, ma di Sofia Silva.

Ero a Venezia, ospite di quell’amico, perché il 15 marzo, da Barbati Gallery in campo Santo Stefano, ha inaugurato Notizie da lei, la personale – personalissima – di Silva in cui è l’autobiografia della pittrice a costruire le immagini. Ascoltandola parlare dei suoi quadri, in riferimento ai pigmenti e ai materiali utilizzati, ho sentito la pittrice ripetere più volte il termine “sublimare” e, sicuramente influenzata da questa reiterazione, devo dire che l’artista ha sublimato la sua autobiografia. Perché sì, le biografie e le autobiografie possono indubbiamente essere noiosissime, se non le si sa raccontare, ma se le si sublima con stile, diventano illuminanti.

«Ma sa la letteratura è Morte. A tenerci in vita è solo l’affetto per le persone e le cose. Tutto il resto è niente»; «Tra gli scrittori, gli unici che mi interessano sono quelli che hanno uno stile. Se non ce l’hanno, non m’interessano. È pieno di storie nelle strade. Le vedo ovunque. È pieno di storie nelle stazioni di polizia, nei cortili, nella tua vita. Chiunque ha una storia, sai; centinaia di storie. È raro avere stile»: sono tutte parole di Céline, a dimostrazione che – non solo per me: mi consolo – la vita vissuta e lo stile per sublimarla non soltanto possono, ma devono essere tenuti insieme, salvaguardando le specificità di entrambi.

La casa natale a Padova, il profondo Veneto di vascobrondiana memoria, la vita universitaria a Venezia, l’imponenza della figura paterna, le pensioni tre stelle sull’Adriatico per fare le ferie in famiglia: mi sembrava di averle vissute tutte io, queste cose dipinte da Silva – io che sono nata nell’Oltrepò pavese, che a Venezia ci ho passato al massimo sette giorni di fila e che le pensioni adriatiche non le ho mai viste, perché le vacanze da piccola le trascorrevo in villaggi all inclusive tra Grecia e Turchia.

Le tele di Silva sono abitate da roselline, pesciolini, manine, lineette, figurine diafane: è tutto sussurrato; sono una voce nell’orecchio, mentre sentiamo il fiato sul collo e ci viene la pelle d’oca. Una volta, nel 1955, Giorgio Manganelli – uno che aveva fatto la Resistenza in prima linea – appuntò in un suo diario: «Non sono diventato comunista. Non ci riesco», in anni in cui era impensabile non diventarlo, se si faceva cultura in Italia.

Nemmeno Silva riesce a diventare altro da sé, eppure il suo personale è estremamente politico; solo, è un politico diverso da quello dominante. È una presa di posizione netta, la sua, con le retine fatte a mano dalle donne venete incollate sulla tela e la riproposizione di seni di statue di sante medievali che paiono un generico nude in chat di oggi. Nel rifiuto di ciò che è altro da sé, Silva non abdica al valore collettivo dell’arte, della sua arte (nulla di più collettivo di retine passate di mano in mano, di statue uscite da popolosissime botteghe e di foto riciclate a ogni sessione di sexting donate a una pletora di maschietti), ma sa – come, ancora, Manganelli – che la vera rivolta è la “rivolta individuale”. Lei può, al massimo, riunire tante rivoltose davanti ai suoi quadri e, poi, lasciare che ognuna faccia la sua, di rivoluzione.

Le tele di Silva sono slavate, in perfetto pendant cromatico con i muri del palazzo che ospita la galleria e ai quali l’artista ha consapevolmente scelto di adeguarsi (sembra, forse, un atto di sottomissione, ma idealmente la mostra si chiude con un piccolo quadro su cui è appiccicato un biglietto che recita: “MANGIATI UN PALAZZO”). La pittura di Silva, delicata nelle cromie, è, poi, fatta di memoria, di ricordi, di sguardi all’indietro. «A partire dal 1848 ogni pittore importante ha dovuto contare sulla sua fede nel futuro. La fiducia che il futuro sarebbe stato diverso e migliore nasceva dalla consapevolezza (a volte del tutto lucida, a volte solo oscuramente avvertita) di vivere in un’epoca di profondi cambiamenti sociali», scrisse John Berger su Léger.

Nella memoria, nei ricordi, negli sguardi all’indietro di Silva sono convinta ci sia la più commovente e profonda fede nel futuro che si possa ricercare. Ogni epoca è epoca di cambiamenti sociali – perché in ogni epoca c’è qualcuno che l’ha scritto, lamentandosi giustamente di vivere nel peggiore possibile dei momenti – e Silva, avendo fiducia che il futuro – lontano, non si sa quanto – sarà migliore, per parlare del presente ne elude i motivi (tematici e materici) tipici, cercando di metterne già di alternativi a disposizione di chi verrà, come fanno, appunto, i pittori importanti. Silva dipinge come vola una farfalla: è leggera e silenziosa, eppure tutti ci giriamo a guardare quant’è bella (aborro le metafore, ma questa è uscita da sé).

Al primo piano della galleria, dove si snoda il grosso dell’esposizione, c’è un’opera in cui il pigmento è mischiato a della polvere metallica e dentro a un riquadro azzurro c’è scritta, cioè: dipinta, la data 1943. È l’anno di nascita del padre di Silva, ma poiché l’autobiografia è sublimata – se non la sublimiamo noi, si sublima da sola attraverso junghiane sincronicità – quel 1943 la pittrice l’ha trovato inciso in una chiesa di Asolo, la traccia di un fedele dell’epoca (il 1943 è anche la data di nascita della madre di Jacopo Benassi, che quel numero l’ha graffitato in nero su una parete del Museo Diocesano di Milano all’interno della mostra Attorno a Tintoretto, visitabile fino al 25 maggio). Quando ho visto il 1943 di Silva, con la pancia – senza aver ancora colto razionalmente il collegamento – sono andata all’installazione di Benassi, la quale, oltre alla scritta sul muro, comprende pure una cinghia che tiene legate, appese a parete, una copia di una Deposizione di Caravaggio da lui dipinta, la fotografia del muro su cui era appesa a casa di sua mamma e la fotografia del di lei comodino, pieno di bruciature di sigaretta; la prima immagine è a colori, le altre due in bianco e nero. Anche Silva ha scelto la mescolanza cromatica, con l’azzurro nel campo centrale e una scala di grigi nei bordi.

A posteriori, già tornata a Milano da Venezia, ho capito anche dov’era andata la mia pancia quando ho visto Inter Milan, una delle opere più grandi portate dall’artista da Barbati Gallery e il cui titolo richiama sue vicende familiari, tra avi milanisti e – giustissime, per me – inversioni di rotta in senso nerazzurro. L’estate scorsa, anzi: era maggio, insieme a Sofia visitai la mostra Roberto Sambonet. La teoria della forma alla Triennale di Milano, ed entrambe ci fermammo per un po’ di istanti davanti a un piccolo disegno quadrato raffigurante un bambinetto biondo-rossiccio che, con addosso una maglietta a righe verticali, si slancia, disarticolato, per colpire un pallone che nell’immagine non c’è.

A causa di quest’assenza, sembra piuttosto che la figurina stia marciando con fin troppa convinzione, diventando caricaturale, ed effettivamente il titolo di quel disegno, benché non lo ricordi con esattezza, aveva sicuramente dentro la parola “balilla”. Sul margine basso del foglio, poi, c’è la data, 1934, che è una semi-inversione di 1943. Io a Sofia non l’ho chiesto se quel balilla di Sambonet l’abbia un po’ ispirata o se piuttosto si sia adagiato sul suo subconscio e saranno queste righe a riportarglielo per bene alla mente, ma nella mia autobiografia tutta questa roba è legata.

Non sa solo dipingere, Sofia Silva, ma anche parlare (e scrivere). L’inaugurazione di Notizie da lei – che sarà visitabile fino al 30 aprile – è durata dalle 17 alle 20: sono rimasta in galleria tutte e tre le ore, ascoltando e riascoltando l’artista parlare dei suoi lavori ai visitatori che entravano e uscivano – nessuno si è fermato tutte e tre le ore, oltre a me. Ascoltandola e riascoltandola, ho pensato a quanto sono fortunata a conoscere una delle pochissime pittrici di questa generazione (o di sempre?) capaci di spiegare cos’hanno messo sulla tela, senza aspettarsi che sia il visitatore a praticare una sbilenca maieutica dell’opera, solo perché non sono in grado loro di farlo (e, allora, vai con il liscio della degenerata curatela contemporanea).

Il quadro è un oggetto, ricordava sempre Silva ammonendo un po’ il pubblico idealista-misto-ignorante (ignorante mai quanto me, sia chiaro) davanti al suo 1943, posto pochi centimetri sopra la boiserie grigina, a contatto, così, con qualcosa di fisicissimo, e non disperso nel bianco della parete come qualcosa di metafisico. Chiunque sa parlare del proprio letto o della propria unghia rotta, in quanto oggetti, e così chiunque dovrebbe saper parlare anche dei propri quadri, cosa che moltissimi pittori, però, si sono dimenticati di fare, perché – dicono – se l’opera e l’artista sono due entità separate, è l’opera che parla per sé o, se il personale è politico, per coerenza, loro tacciono oppure sbraitano cose incomprensibili in entrambi i campi, che, poi, sono il medesimo.

Lo scrittore, continuava Papetti nel ‘92, sarebbe, secondo molti, «solo uno strumento della Provvidenza per permettere che il linguaggio abbia organi fonici, mano, sintomi di malattia», e come lo scrittore, anche la pittrice. Per fortuna la Provvidenza, in una nazione fondata su Manzoni, fa sempre il suo mestiere e mi ha fatta nascere nella stessa epoca di Sofia Silva.

ARTICOLO n. 23 / 2025

“ADOLESCENCE”: ANATOMIA DEL RISENTIMENTO

Prima che la luce bluastra degli schermi rimodellasse i confini dell’adolescenza, esisteva già un abisso: quello dell’incomunicabilità tra generazioni. Adolescence parte da questa frattura primordiale per mostrarci come, nell’era digitale, tale abisso si sia trasformato in un baratro frattalico da cui risalire pare non essere un’opzione.

La serie di Thorne e Graham non racconta semplicemente una storia di radicalizzazione online; racconta il non detto, i silenzi che separano i figli dai genitori, gli studenti dagli insegnanti, i ragazzi dal sistema che dovrebbe proteggerli. Al centro di questo vuoto comunicativo si staglia la maschilità contemporanea, alla ricerca di una bussola tra modelli di riferimento in evoluzione e una difficoltà nell’articolare emozioni complesse.

Gli adulti di Adolescence parlano una lingua obsoleta, basata sulla presunzione di conoscere i propri figli, mentre i ragazzi abitano un universo parallelo fatto di codici, meme e teorie che trasformano l’incapacità emotiva in ideologia. In questo deserto comunicativo, le emozioni maschili – frustrazione, desiderio, insicurezza, rabbia – non trovano canali legittimi di espressione, ma vengono redirette verso l’unico spazio che sembra accoglierle: la “manosphere”, con le sue rassicuranti formule matematiche e le sue promesse di controllo in un mondo percepito come ostile.

Nel silenzio inquieto di una camera da letto, tra la carta da parati con gli astronauti e la Playstation, si consuma un moderno rituale iniziatico: l’introduzione alla manosphere. Adolescence cattura questo momento con la spietata continuità di un piano sequenza che non concede respiro. La narrazione, come l’obiettivo della telecamera, non distoglie mai lo sguardo da quello e dagli abissi collaterali che ne originano.

La storia di Jamie Miller, tredicenne al centro di un’indagine sulla morte della compagna Katie, si snoda come un nastro di Möbius nell’inferno domestico contemporaneo. Non sono tanto le circostanze del tragico evento a scuoterci, quanto la lucida quotidianità che lo avvolge: un ragazzo qualunque, una famiglia normale, e quell’80/20 che ossessivamente risuona nelle conversazioni online – il principio di Pareto, trasformato da legge economica a dogma relazionale nella liturgia della frustrazione online.

Quell’80% delle donne che, secondo il nuovo vangelo digitale, compete solo per il 20% degli uomini “alfa”, è più di una semplice distorsione statistica: è l’algoritmo del risentimento, la formula matematica del rancore. Jamie non l’ha inventata, l’ha semplicemente assorbita, goccia dopo goccia, scroll dopo scroll, fino a farne una lente attraverso cui decodificare l’universo femminile e le relazioni.

La seduzione di questa formula risiede nella sua apparente scientificità, nella sua capacità di trasformare l’indecifrabile complessità delle relazioni umane in un’equazione rassicurante. L’essere prevedibile fa stare al sicuro. Il principio di Pareto, nato per descrivere la distribuzione della ricchezza nell’Italia del XIX secolo, migra così dal territorio dell’economia a quello dell’identità, offrendo una narrazione seducente a chi cerca risposta all’antico enigma del rifiuto e dell’esclusione.

Ciò che la serie mappa con precisione clinica è il percorso di questa migrazione concettuale: come una teoria economica diventi antropologia, una statistica mutata in teologia. Nei forum che Jamie frequenta, l’80/20 non è oggetto di dibattito ma articolo di fede, non è mai ipotesi ma dogma. È la descrizione di una predestinazione.

La brillantezza della scrittura sta nel mostrare l’effetto cumulativo dell’esposizione a questo dogma. Jamie non è mai mostro, e non c’è volontà di dipingerlo così. È un convertito che manifesta la propria devozione. Le sue parole durante il colloquio con la psicologa non sono espressione di creatività malvagia, ma recitazione di un catechismo appreso, ripetuto, interiorizzato fino a diventare natura.

E come ogni algoritmo che si rispetti, anche quello del risentimento si autoalimenta. Ogni rifiuto, ogni sguardo distolto, ogni conversazione interrotta diventa non un’esperienza personale da elaborare, ma un dato che conferma la regola, un’ulteriore iterazione che rafforza il modello predittivo. L’80/20 diventa così una profezia che si autoavvera: chi lo interiorizza inizia a muoversi nel mondo con l’aspettativa del rifiuto, generando comportamenti che, paradossalmente, aumentano la probabilità di essere rifiutati.

La serie, nel suo implacabile piano sequenza, riflette l’inesorabilità di questa progressione: dalla curiosità all’ossessione, dall’ossessione alla rabbia, dalla rabbia al potenziale atto violento. Un movimento continuo, senza stacchi, senza pause, senza via d’uscita – e, in ultimo – senza redenzione.

Nel terzo episodio, l’incontro tra Jamie e la psicologa si trasforma in una devastante epifania: ciò che ascoltiamo non è la voce di un tredicenne, ma l’eco cacofonica di mille forum anonimi, l’incarnazione sanguigna di una comment section sotto a milioni di post sui social dai modi e toni che conosciamo fin troppo bene.

Ma è nel momento di vulnerabilità più acuta che il colloquio rivela una verità impossibile da ignorare. Quando Jamie, in un sussurro quasi inudibile, domanda alla psicologa: “Ma io ti piaccio?”, assistiamo alla perfetta cristallizzazione della paradossale dualità della manosphere: la coesistenza di impulsi distruttivi e un disperato bisogno di validazione. Questa domanda, apparentemente infantile, contiene l’intero dramma dell’adolescenza e della gioventù maschile: il desiderio di connessione autentica che, non trovando risposta, si trasforma in risentimento.

La risposta della psicologa, che rimane misurata e professionale per tutto il colloquio, viene percepita come un altro rifiuto, un’ulteriore conferma della teoria dell’80/20. L’incapacità di Jamie di distinguere tra una relazione terapeutica e una personale diventa specchio della confusione tra intimità e dominio che la manosphere promuove. In quel breve scambio, vediamo l’algoritmo del risentimento eseguire in tempo reale la sua implacabile routine: trasformare la vulnerabilità in aggressività, il bisogno in pretesa, il rifiuto in giustificazione.

Le sue parole – frammenti di teorie incel, brandelli di “pillole rosse”, l’ossessiva menzione della “debolezza” femminile – sono i reperti archeologici di un’identità costruita sui fondali oscuri del web, amplificata tra i pari. La psicologa non incontra il vero Jamie; incontra un collage vivente di Reddit, 4chan e forum incel, un palinsesto di rabbia collettiva.

Ciò che Adolescence cattura, con la precisione di un entomologo, è la metamorfosi di un linguaggio: come la grammatica dell’odio digitale si traduca in sintassi carnale, come l’astrazione matematica di un principio teorico diventi potenziale catalizzatore di violenza reale.

Jack Thorne, tessendo la sua narrazione, non ci offre la facile catarsi della comprensione. Non c’è un perché ultimo, nessuna eziologia consolatoria del male. C’è solo il processo, mappato con la fredda lucidità di chi sa che non basta denunciare l’algoritmo se non si comprende la vulnerabilità che lo alimenta.

Quando Jamie parla di Katie, riferendosi a lei come “debole” e ripetendo che “tutti la chiamavano sgualdrina”, non sta semplicemente riportando; sta applicando il lessico appreso, sta categorizzando secondo i parametri che ha imparato a memoria, l’esecuzione di un codice comportamentale scaricato dalla rete. La violenza verbale aleggia nell’aria con l’inquietante potenzialità di un teorema in attesa di dimostrazione.

La vera tragedia che si consuma sullo schermo non è tanto l’omicidio, quanto l’incomprensione abissale tra generazioni. I genitori di Jamie, come gli adulti che li circondano, contemplano con orrore l’alieno che hanno cresciuto, incapaci di decifrare il codice che ne ha riscritto l’identità, con un dolore che pretende di essere visto e si prende di diritto tutto il racconto dell’ultima puntata.

“Lo abbiamo creato noi”, si dispera la madre, ignara che la vera genesi è avvenuta altrove, in quell’utero digitale dove il 69% dei ragazzi britannici tra gli 11 e i 14 anni viene esposto a contenuti problematici che plasmano la loro visione del mondo.

L’impotenza degli adulti – genitori, insegnanti, persino la giustizia – diventa così il vero orrore della serie: non ci sono mostruosità o devianze, solo istituzioni obsolete di fronte a una mutazione antropologica che avviene in tempo reale, sotto i nostri occhi, oltre la nostra comprensione.

Le statistiche recitate con freddezza burocratica dall’Office for National Statistics – il raddoppio delle ragazze sotto i 16 anni uccise con coltelli in un solo anno – proiettano, alla luce di Adolescence, l’ombra inquietante di fenomeni che trascendono i casi isolati: un’onda silenziosa che si propaga dalle camerette agli spazi pubblici, dalle community virtuali alle relazioni reali.

Non è una coincidenza che la serie sia girata senza stacchi, in un flusso ininterrotto che mima l’inesorabilità dei processi, anche algoritmici. Questa scelta formale incarna la vera natura del pericolo: non c’è montaggio, non c’è postproduzione, non c’è la consolazione del taglio che separa la causa dall’effetto. C’è solo il continuum spietato di una trasformazione che, una volta avviata, procede inesorabile verso un orizzonte di possibilità sempre più oscure.

Ciò che Jamie assorbe online non rimane confinato allo schermo, ma infiltra la sua percezione del mondo, la sua interpretazione delle relazioni e dei suoi stessi sentimenti. La radicalizzazione digitale opera come un lento avvelenamento: impercettibile nelle sue fasi iniziali, devastante nei suoi effetti cumulativi. In questo amalgama sociale, le insicurezze adolescenziali si trasformano in rabbia codificata, l’inadeguatezza in risentimento strutturato, la vulnerabilità in ideologia difensiva. Un ciclo che si autoalimenta nell’economia della frustrazione, lasciando chi guarda a confrontarsi con l’inquietante domanda: fino a che punto può spingersi questa spirale quando nessuno interviene per spezzarla?

Adolescence non ci offre redenzione, né facili soluzioni. Ci lascia, invece, con una domanda che brucia come un marchio: cosa accade quando non ci occupiamo di qualcosa? Quando l’incomunicabilità di chi sei e cosa desideri diventa una cosmologia, un sistema di valori, una lente per interpretare e interagire con l’altro?

Gli spazi online non sono mere piattaforme virtuali; sono laboratori sociali dove si forgiano nuove concezioni dell’identità in un’epoca di atomizzazione e frammentazione comunitaria. In questo senso, le ideologie che vi proliferano non sono semplici distorsioni di realtà, ma risposte – per quanto disfunzionali – a vuoti istituzionali reali, a crisi di senso concrete e a bisogni emotivi insoddisfatti.

La storia di Jamie è lo specchio del tempo: non necessariamente la narrazione di un colpevole, ma il ritratto di un adolescente qualunque la cui identità viene plasmata nell’intersezione tra vulnerabilità individuale e fallimento collettivo.E l’ambiguità che la serie magistralmente mantiene ci costringe a chiederci: quanto delle nostre narrative sul “mostro” servano principalmente a distanziarci dal problema? Ma anche: e se l’incomunicabilità tra generazioni fosse essa stessa una forma di abbandono strutturale?

Adolescence non è semplicemente un’altra serie sulla violenza giovanile: è un bisturi che disseziona con precisione chirurgica un fenomeno sociale. E in un’epoca in cui questa dinamica si traduce in statistiche sempre più allarmanti – dal raddoppio degli omicidi di ragazze adolescenti all’ascesa di contenuti problematici online – indagarne le radici diventa qualcosa che ci riguarda, senza distinzioni.

La serie di Thorne e Graham rifiuta di patologizzare questo fenomeno, di relegarlo al territorio rassicurante dell’anomalia psichiatrica. Jamie non è un mostro emerso dal nulla, ma il prodotto di un’alchimia sociale ben precisa: l’incontro tra vulnerabilità e ideologia tossica, tra isolamento emotivo e comunità digitali che trasformano il disorientamento in dottrina. Una cartografia complessa le cui radici germogliano nel terreno dell’incapacità emotiva, in quel vuoto comunicativo che trasforma sentimenti legittimi – insicurezza, paura del rifiuto, desiderio di connessione – in risentimento codificato. I dogmi della manosphere diventano così una stampella concettuale, un modo per dare forma matematica a un dolore che non trova altre formule per esprimersi.

Ciò che distingue profondamente questa serie è che sono gli uomini stessi a guidare la conversazione. Thorne e Graham, insieme all’intero apparato creativo dietro Adolescence, assumono coraggiosamente la responsabilità di guardare negli abissi di questa dinamica sociale. Per troppo tempo, la responsabilità di affrontare la violenza e i suoi effetti è ricaduta sulle donne, un fardello paradossale che ha trasformato le survivor in educatrici forzate. Ecco perché abbiamo bisogno di più narrazioni come questa: la società offre agli adolescenti strumenti limitati per elaborare emozioni complesse e poi si stupisce quando questi cercano di lenire il dolore con ciò che viene loro offerto. Adolescence inverte questa logica, mostrandoci come la radicalizzazione non sia un mistero incomprensibile ma un processo tracciabile, un percorso fatto di micro-decisioni, di piccole abdicazioni, di semplificazioni seduttive.

Se continuiamo a trattare ogni episodio di violenza maschile come un evento isolato, come atti incomprensibili di persone altre da noi, finché continueremo a delegare l’educazione emotiva dei ragazzi agli algoritmi e ai forum anonimi, continueremo a perpetuare il mito dell’incomprensibilità, quando in realtà la violenza ha una genealogia che possiamo comprendere, tracciare e interrompere.

ARTICOLO n. 22 / 2025

IL SENSO DI OPUS

Dal 27 marzo al cinema Opus. Venera la tua stella, scritto e diretto da Mark Anthony Green e distribuito nelle sale italiane da I Wonder che ringraziamo per la disponibilità e il supporto.

«I’ll see you in another life, when we’re both cats» dice Tom Cruise a Penelope Cruz prima di lanciarsi dal tetto di un grattacielo; siamo abituati a vedere l’attore saltare tra i palazzi dai vari Mission: Impossible, stavolta invece non sappiamo se morirà o se se ciò che stiamo vedendo sia parte di un sogno. 

È il 2001 e il film è Vanilla Sky, complicato e a tratti confusionario intreccio di realtà e simulazione: un incidente ha mostruosamente deturpato il viso del protagonista, ricco newyorkese che ha deciso di farsi ibernare per intraprendere un’esperienza di sogno lucido. La vita fisica e la vita onirica di Tom Cruise compongono due parti della trama, all’interno della quale gli elementi di verità restano sospesi in un interrogativo. Ciò che abbiamo visto esiste davvero? Lo schema è molto simile a quello di un altro film del periodo, Matrix, nomen omen, matrice del filone baudrillardiano we live in a simulation, un tempo qui era tutto simulacri, simulazioni e Truman Show, dove il cielo è un cartonato simile allo sfondo del desktop.

Del resto, tra la fine del ventesimo Secolo e l’inizio del nuovo millennio esce anche Glamorama, romanzo di Bret Easton Ellis da cui ha preso ispirazione Zoolander, in anticipo di una trentina d’anni sul tema della manipolazione delle immagini. Il gruppo di modelli terroristi si serve di una sorta di intelligenza artificiale primordiale per creare foto finte con cui ricattare e pilotare la realtà. Il millennium bug, l’esplosione della tecnologia, il terrorismo, oltre che il terrore di non riuscire più a distinguere ciò che succede nella vita in carne e ossa da ciò che invece prende luogo in un codice alfanumerico dentro un computer. È così che l’arte sublima la paura di un inizio oltre il quale non si sapeva bene cosa ci sarebbe stato.

Facciamo un salto di vent’anni in avanti. Due decenni in cui il nostro rapporto con la tecnologia spaventosamente avanzata che mescolava le carte tra finzione e realtà non solo si è rinforzato in modo esponenziale, ma è diventato parte del modo in cui esperiamo il mondo quotidianamente. E così, dopo il timore di essere tutti un po’ una Alice nel Paese delle Meraviglie, addormentati sotto a un albero a sognare i palmipedoni, abbiamo aggiunto l’impellenza di isolarci, staccarci dalla globalità del presente e ritornare in piccole comunità, lontane da qualsiasi connessione con cavetti USB attaccati alla nuca o melme amniotiche dentro cui galleggiare mentre la coscienza se ne va a spasso per i fatti suoi. Circoscrivere la narrazione, oggi, è una necessità, riappropriarci del world prima che fosse wide web è una pulsione. È ciò che avviene in Opus– Venera la tua stella, il film d’esordio di Mark Anthony Green in uscita con A24, baluardo del cinema indipendente contemporaneo. 

MidsommarLeave the World BehindThe MenuKinds of Kindness, Glass Onion: questi sono solo alcuni dei titoli recenti in cui la trama esiste e procede in funzione di due elementi, ossia la perdita del contatto con il mondo iperconnesso e lo scontro con una comunità che si è isolata creando le sue regole, o in altre parole, una setta, un gruppo segreto, un assassino misterioso. Slegarsi dalla comunicazione costante a cui siamo esposti per colpa della tecnologia, staccarsi dal Matrix, così come creare una visione parallela del reale, è un tema centrale della contemporaneità. Siamo spaventati dalle bolle di consenso che fagocitano il senso comune, sappiamo che il mondo come lo conosciamo, fatto di regole e convenzioni, può essere ribaltato da un gruppo di pazzi vestiti da vichinghi che assaltano le sedi del potere e che un miliardario invasato può fare il saluto romano a reti unificate spacciandolo per meme, ci districhiamo tra i tunnel oscuri delle community sui social, le famose minoranze rumorose che sembrano dettare l’agenda non solo politica ma anche etica ed estetica del presente, viviamo l’incubo di poter essere risucchiati dal vortice entropico di un gruppo Telegram tra gli avatar di estranei che oltrepassano volentieri qualsiasi barriera del rispetto reciproco in favore di un tribalismo digitale che punta ad autoregolarsi.

In questo clima di omologazione confinata, ha luogo la storia di Ariel Ecton, interpretata da Ayo Edebiri: giovane giornalista musicale in cerca di una storia da raccontare che la distanzi dalla medietà della sua esistenza, vittima di un gioco perverso orchestrato da qualcuno che, con il suo carisma, riesce a plasmare con facilità un gruppo ristretto di persone tutte animate dallo stesso credo; una setta, o una community.

Il protagonista di questa storia finalmente degna di essere raccontata è una vecchia gloria del pop anni Novanta, Alfred Moretti. Nei suoi panni c’è John Malkovich, attore che con il culto della personalità ha già dimestichezza – ricordiamo il pirandelliano Being John Malkovich di Spike Jonze e Charlie Kaufman, risalente proprio al fine millennio di cui sopra. Moretti, divo dell’elettronica in silenzio da anni, ha organizzato un esclusivo ritiro stampa per ascoltare in anteprima il suo nuovo attesissimo disco, esperienza non troppo distante dai vari release party fatti solo per consentire all’elite degli accreditati di poter dare un frammento dell’esperienza ai comuni mortali con le loro storie Instagram.

Comincia così la pratica dell’isolamento, niente telefoni, adepti vestiti tutti uguali che gestiscono la comune da santone con giusta dose di sincretismo tra il new age e il massonico, impossibilità di comunicare con il mondo, regole molto rigide e pratiche sospette, come la vestizione a festa degli invitati che include anche una rasatura completa del pube. Ariel, che a differenza dei suoi colleghi giornalisti più grandi di lei, nei panni di visitatrice esterna anche alle dinamiche di idolatria del divo, ci va con i piedi di piombo, capisce in fretta che si tratta di un proverbiale trappolone. 

L’esperienza del rapimento mistico e sensuale, per para-citare un altro santone della musica sperimentale – senza però la tendenza al sequestro di persona –, in cui Moretti sfoggia tutto il suo charme seduttivo filtrato dalla musica martellante e industriale, è un crescendo di vendetta nei confronti di chi ha scritto male di lui attraverso varie forme di tortura e violenza in nome di un credo: «All things are not equal».

Il cantante-guru predica e coltiva il culto della superiorità attraverso una metafora naturale, quella delle perle e delle ostriche, contenuto raro ed eccezionale all’interno di una massa informe di molluschi vuoti. Chi, più di lui, idolo delle masse, gigante della composizione, figura schiva e ipnotica, amata e venerata dalla moltitudine confusa del popolo, può rappresentare il valore del singolo che schiaccia la collettività nella gerarchia del merito? La superiorità del genio, all’interno del sistema chiuso in cui piomba Ariel come un’Alice che attraversa lo specchio e che ci rimane intrappolata, senza legami con il mondo esterno se non la forza della sua lucidità nel respingere la seduzione del potere, può decidere tutto, proprio perché superiore. E dunque, può decretare anche chi vive e chi muore.

Il senso di Opus, dunque, oltre che nella rappresentazione ironica di un divismo grottesco che trasuda servilismo e accondiscendenza totale verso la celebrità in quanto tale, potrebbe essere trovato proprio nel tentativo di dare una forma al sentimento di inquietudine che anima il presente, uno dei tanti perlomeno. Una comunità ristretta che si dà la forza di convincersi di ciò che, secondo i propri principi, è giusto e sbagliato e che si alimenta proprio nella sua chiusura: il paradosso della globalizzazione e della nostra visione attuale del mondo, tanto orizzontale quanto atomizzata, che sia una filter bubble, una camera d’eco, o un luogo immaginario in cui le persone trattano un cantante pop come se fosse un dio in grado di decretare chi merita la vita e chi no. Abbiamo attraversato l’angoscia della simulazione, la paura di perdersi a metà tra i due mondi, reale e immaginario; ora sappiamo che, una volta data per assodata questa duplicità, al suo interno si possono creare infinite alterità. Come quella di Opus, di Moretti, dei suoi rituali, in cui viene coltivata l’idea – spaventosamente reale e attuale – che non siamo tutti uguali. 

ARTICOLO n. 21 / 2025

ROBA DA DJINN

Pubblichiamo il testo di Violetta Bellocchio contenuto all’interno del catalogo Il Giardino di Fabrizio Albertini (Witty Books). Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità

Le conseguenze del desiderio avverato, naturalmente, sono cazzi di chi ha espresso il desiderio. Su questo un bravo djinn impara a sorvolare e sorridere. Pleasure doing business with youÈ un vero piacere fare affari con voi. Zero effetti collaterali, zero contraccolpi psichici. 

Il djinn – o djinni, variante al singolare, da cui il nome “Jeannie” per la protagonista di Strega per amore – il djinn ormai arriva in scena con il bang crash boom del suo effetto, no, nemmeno, arriva accompagnato da una spiegazione, con un personaggio minore esausto che dovrebbe fare da megafono alla trama, secondo le linee che l’autore vorrebbe tirare: “scordati Aladino, scordati Strega per amore, stiamo parlando di djinn, queste creature sono demoni, sono inarrestabili, sono inumani, sono” – 

Non lo so. Lo siamo? Cos’è quest’ansia di pareggiare presunti scompensi storici, di far tornare i conti togliendo di mezzo il genio della lampada eh-eh-eh allegro e incurante dei macelli che si lascia dietro, eh eh eh, e sterzando sulla revisione a tinte forti per delineare la nostra natura inumana e priva di freni? Pre-umana? Da dove viene questa brama di raccontare storie che dovrebbero essere finte ma lo stesso adeguate al folklore corretto per l’interpretazione di una leggenda? Teniamoci il djinn vecchio stile. Metà Novecento, diciamo. La nostra leggerezza giocosa. La nostra fatale joie de vivre per cui, sì, uno che cazzo può dirci. Facciamo avverare una manciata di desideri a caso. Non ti abbiamo dato esattamente quello che volevi? Uh-oh. Allora impara a scandire meglio. Allora chiedilo meglio, no. 

Diciamo che io sono una djinn di Natale. 

Il sangue migliora la cosa. Tagliati un dito, accidentalmente, spilla sangue sul pavimento butta sangue sulla tastiera, e chi si manifesta se non la donna che dice, ti darò tutto quello che chiedi e non ti informerò delle conseguenze. 

Di base, diciamo che io mi manifesto per esaudire i desideri di qualcuno all’oscuro di tutto quanto – no cristo che vuole adesso sto coglione – ah ma sei tu carissima! Cosa vuoi adesso: contratti, capelli morbidi e cotonati al naturale, sessantacinque pagine di affilato minimalismo in quattro giorni (notti escluse), bellezza fisica, pelle di diamante? Say no more, fam. Te ne do quanto ne vuoi. Di solito una volta terminata la transazione il djinn ha cura di allontanarsi dalla scena a passi spediti e con le mani sopra la testa, andare avanti: a volte io resto nei paraggi. Supervisiono, e mi godo la trasformazione immediata, lo sguardo del tizio che si volta e gira su se stesso per continuare a guardare la torcia umana a cui ho appena esaudito il primo il secondo il terzo desiderio. Fino a quando la situazione degenera, la gente comincia davvero ad appiccicarsi all’evocante, insiste per offrire da bere, parlare, cosa vuoi; ops!, cambiare posto, premere auricolari, ostentare non sento. Te ne vuoi andare. Okay, meno. Traghettiamo l’evocante a porte chiuse per un po’. L’evocante, nel pieno del lavoro, è una bellezza demoniaca (del resto ha chiamato una djinn). 

Comunque.

Capisci che è passato un djinn quando esistono tracce su nastro di un avvenimento enorme, che sembra totalmente organico, ma qualcosa ti dice che non lo è. Il brivido lungo la schiena ti dice che non è stato tutto tutto spontaneo e senza cuciture come appare. Hai una sensazione. È solo una sensazione. Ma adesso ci stai pensando

Il rapper Lil Jon, ciarliero e festante come un dio pagano, quindi preso benissimo, scende dalla scalinata più lunga in memoria della storia umana gridando YEAH e poi intonando un medley dei suoi più grandi successi (due) per confermare che lo stato della Georgia offre i propri delegati alla vice-presidente Kamala Harris. Quindi in un colpo solo, ne è testimone un filmato di repertorio della durata di due minuti e otto secondi, Lil Jon sta facendo ballare migliaia di persone a una convention di partito, e tutto il mondo intero si sta scrollando di dosso il cringe, ma proprio il cringe come categoria, non esiste imbarazzo non esiste più la paura di sembrare fuori tono fuori moda fuori registro rispetto all’approvazione di una giuria dei tuoi pari, esiste solo la felicità fisica di cantare Get Low e il dragone del cringe è stato decapitato, tra tutte le persone possibili, da un nativo della Georgia di nome Jonathan H. Smith, in arte Lil Jon, un tempo non lontano giudicato la peggior cosa mai successa alla musica da quando esiste la musica. 

Signori, questa è roba da djinn. 

Il rapper Kendrick Lamar decide che un singolo brano contro il nemico personale Drake non è sufficiente ad appagare la sua sete di vendetta, millenaria, e sa di poter contare su una notevole dose di carogna oltre che sul consolidato serbatoio del talento musicale, quindi non soltanto Kendrick prende e produce tre-quattro spietati brani contro Drake in rapida successione, ma ha il genio di produrne uno ballabile. Il mondo intero passa una caldissima estate con le braccia in aria a cantare e dimenarsi mentre sta suonando a massimo volume un pezzo dove Kendrick Lamar sta dando a Drake del pedofilo senza uno straccio di prova. E poi Kendrick ingrana la retro-marcia e gira un video musicale per il brano, ributtandolo in testa alle classifiche per un anno. Che sarà mai questa se non roba da djinn. 

Di tanto in tanto vado per conto mio. Una-due volte l’anno, tieniti. Perché da soli non facciamo avverare nulla, ma il corto-circuito ci sta che ci scappi uguale. 2019/2020, scrivo cinquanta pagine di un romanzo thriller su come si potrebbe motivare una folla di poveri cristi qualsiasi in maniera che siano loro a sferrare l’assalto a un palazzo del potere, mi fermo a quando le protagoniste stanno cercando di capire come manomettere l’impianto elettrico del palazzo, avanti veloce e meno di un anno più tardi sto guardando un colpo di stato in streaming. (E ci muore calpestata unex tossica della Georgia, una ragazzetta venuta apposta dalla Georgia per linsurrezione!) Delle due, l’una: ho previsto una strage oppure ho intercettato un mezzo pensiero di Steve Bannon, e gli avrò accidentalmente fatto da tramite. Whoops. My bad, fam

In compenso, su quest’altra, qualcuno dei nostri si dev’essere spaccato. Estate 2020 e qualcuno voleva togliersi dalle palle l’allora digital campaign manager di Donald Trump, tale Brad Parscale: voilà, ecco il video di Brad arrestato dalla polizia a casa sua, poliziotti che prima lo convincono a uscire mentre lui sta in mutande con una birra in mano a lamentarsi della moglie rompiscatole e poi, slam, lo sbattono sull’asfalto e lo arrestano, dal nulla. Il video diventa virale – ovviamente – ed è l’unico caso di body cam footage registrato dalla polizia che il mondo intero è contento di guardare e riguardare tutto tutto più volte. Pausa, riavvolgi, lo vediamo un’altra volta che mi fa tanto ridere? 

Contro-esempio: un tizio decide che vuole fare il Senatore, vuole diventare il nuovo senatore dell’Arizona, non versa il tributo, non chiede il desiderio: il tizio ci crede tantissimo ma siccome si chiama Blake Masters ed è convinto di sapere tutto per diritto di nascita (e sta anche pregando il dio sbagliato, il Cristo del Bitcoin), allora Blake fa l’errore vecchio come il mondo e gioca al risparmio: perciò realizza uno spot elettorale dove si vede lui da solo, nel deserto, che impugna una pistola sussurrando its German, “è tedesca”, e confidando alla telecamera quanto gli piacciano i silenziatori, mentre nell’inquadratura a favore di camera ci sono soltanto lui e un’automobile parcheggiata – per cui ti chiedi cosa diavolo ci potrà stare dentro quel bagagliaio a parte il proverbiale fracco di teste mozze non identificate. Lì io ti giuro che ho fatto un fermo-immagine del tizio da solo nel deserto con la pistola e ho scritto, se stai girando un video e nel tuo materiale compare uninquadratura simile, devi essere molto sicuro che non sia un omaggio a Man Bites Dog, e ho premuto il tasto “invia”. Potrei averci incrinato un rapporto umano con questa uscita, ma i rapporti umani vanno e vengono, e ogni tanto mi torna in mente che sono immortale. A cosa serve la vita eterna se non puoi toglierti lo sfizio di bruciare una casa.

A proposito

Forse non tutti sanno che lo spazio piatto sopra l’armadio della camera d’albergo è il cimitero dei regali non richiesti portati con mano tremante agli ospiti famosi dell’albergo nel corso degli anni. C’è di tutto là sopra: cataste di manoscritti inediti, ma anche oggetti preziosi, targhe commemorative, maglioni tessuti a mano con devozione, quadri, sculture e mosaici di artisti locali. (Le imprese di pulizie raramente controllano là sopra.) Non sarebbero “cianfrusaglie” o “detriti” perché qualcuno si stava adoperando per trovargli un posto: purtroppo quel posto è la discarica dei DVD che nessuno ti aveva chiesto di produrre, immagina di ricevere, grazie. 

Ora, tutto quel vortice di creatività, manoscritti, dipinti e sculture? Non guardare noi! Non ce li ho messi io: era solo qualcuno che voleva far avverare i propri desideri senza prima aver versato il necessario tributo alla creatura inumana stabilita secondo il protocollo. Peccato perdonabile, ma anche roba da dilettanti allo sbaraglio, bancarelle sagre toro meccanico giostra delle tazzine, mica da consumati professionisti capacissimi di evocare una djinn. 

Ad ogni modo. Non è che ti interessa diventare un dio? Perché se ti interessa diventare un dio nei ritagli di tempo, una soluzione ci sarebbe. Facile facile. Zero effetti collaterali, zero contraccolpi psichici. Dentro e fuori in cinque minuti e via. Esprimi un desiderio. 

ARTICOLO n. 20 / 2025

MISTY-EYED

elettricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando l’ultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,
come se tutti i fiori cominciassero a parlare.

(Anna Achmatova – Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso. (Dario Valentini)

By heart, attraverso il cuore, dicono, a memoria, come se la memoria non fosse nella testa, una funzione misteriosa dell’ippocampo, un’attitudine della corteccia cerebrale, come se fosse invece una volontà del cuore, un talento covato nel petto.

Imparare a memoria per salvarci dal vuoto, dal silenzio, per salvarci dal deserto, dallo spazio tutto uguale, dalle forme dai colori che ricopiano se stessi, dal tempo circolare. 

Imparare a memoria per avere qualcosa da portarci appresso quando tutto viene a mancare, quando le pagine da leggere sono finite e persino le notizie del giornale, quando le radio sono tutte spente per ascoltare una canzone.

Imparare a memoria per dar da fare all’ippocampo, impinguare la corteccia cerebrale, per non lasciare tregua al cuore, per allenarsi i muscoli del petto, esercitare il talento di non dimenticare. 

Imparare a memoria io ho cominciato a farlo quando ci siamo trasferiti qui, a Occidente, sulla costa più a ovest del mondo. Ho dovuto farlo, certe cose non si possono tradurre. By heart, per esempio, come avrei potuto dirlo? Certo, mi chiedevo: che c’entra il cuore?, ma poi non mi restava che memorizzarlo, senza farmi troppe domande. Provavo a vedere, a visualizzare le parole che qui a Occidente amano far corrispondere a delle immagini e non il contrario. Me le ripetevo nella testa on my way home, mi ripetevo fino a casa una cantilena di pensieri nuovi, una filastrocca di idee sconosciute, canticchiando, crooning¹ come una very Bobby Soxer² le parole che qui a Occidente devono suonare bene, lasciarti l’eco nelle orecchie per ore e ore. 

Imparare a memoria mio nonno lo faceva con le cose che gli piacevano molto, le storie del deserto di suo nonno che non ha mai conosciuto, la musica lirica e quella country-western di Vernon Dalhart e James Charles Rodgers, le poesie di Bruce Kiskaddon, James William Whilt, Arthur Chapman, i cowboy poets della fine dell’Ottocento.

Là fuori, dove la stretta di mano è un po’ più forte, là fuori dove il sorriso dimora un po’ più a lungo, 
È lì che inizia l’Occidente;
Là fuori, dove il sole è un po’ più luminoso, dove le nevi che cadono sono un po’ più bianche, 
È lì che inizia l’Occidente.
Là fuori, dove soffia una brezza più fresca, dove c’è risata in ogni ruscello che scorre, dove c’è più raccolta e meno semina, 
dove il mondo è in divenire, dove soffrono meno cuori disperati, dove c’è più canto e meno sospiri, 
dove c’è più dare e meno comprare, e un uomo fa amicizia senza nemmeno provarci,
È lì che inizia l’Occidente.³ 

Ripeteva a memoria, mio nonno Arthur che lo chiamavano Chap come Arthur Chapman il cowboy poet, oppure Kit come Kit Hodghins lo sceriffo de Il Piccolo Sceriffo, un fumetto western di cui mio nonno possedeva i centosettantatré numeri della prima serie, i centoventisei della seconda, i cinquantaquattro della serie oro e cinquantaquattro della quarta serie, i quarantotto della quinta, i centocinquantadue della sesta, i cinquantaquattro della serie bianca e i centoquattro dell’ottava serie per un totale di settecentosessantacinque numeri che gli avevamo portato noi, dall’Italia, quando mia madre ha deciso che avremmo avuto un futuro migliore nell’Occidente da dove se ne era andata appena maggiorenne. Mio nonno non si era opposto, non capiva cosa le mancasse là in quell’Ovest lussureggiante, ma le aveva detto che era ok, che poteva andare dove più le piaceva; mia nonna le aveva invece tolto la parola. Per anni, infatti, mia madre ha avuto solo il ricordo della voce di sua madre, diceva che riusciva a immaginarla, a sentirla nitidamente, che certi suoni si imparano a memoria. Aveva imparato by heart la voce di sua madre. 

Quando siamo tornati in Occidente, però, mia nonna era morta da qualche giorno, mia madre piangeva, diceva che la sua voce le era mancata più di tutto, guardava le sue foto, ripeteva che al suono perduto della sua voce non c’era rimedio.

Io non ci pensavo nemmeno, ad andarmene, da lì a qualche anno sarei diventata maggiorenne, avrei potuto come mia madre partire, tornarmene in Italia per esempio, ma questo avrebbe voluto dire non poter più vedere mio nonno, che era l’oro del mio Occidente. Lo vedevo tutti i giorni, ci passavo tutte le ore libere che avevo, mi insegnava le parole intraducibili, mi raccontava le sue storie, quelle dell’Ovest selvaggio che lui amava tanto. Mi insegnava a vivere a Occidente. 

Go West, young man4, diceva ogni volta che mi vedeva indecisa, perduta troppo a lungo in un pensiero: go West, young man e io ridevo, mi lasciavo chiamare man, imparavo che un tavolo non era maschio e una sedia femmina, scoprivo che le parole erano elastiche, che significavano una cosa ma anche il suo contrario, che erano allo stesso tempo sostantivo verbo e aggettivo. Che potevi combinarle tra loro e ottenere una immagine nuova, che un nome che suonava bene valeva più di mille parole. Go West, young man, e mi parlava di Desert Center, di un albero chiamato l’albero di Gioshua, mi raccontava quello che sapeva di Arthur I, suo nonno.

Mio nonno e il nonno di mio nonno erano nati entrambi il 15 gennaio, mio nonno nel 1933 e il nonno di mio nonno nel 1873, entrambi a Desert Center, nella contea di Riverside, California meridionale, nel deserto del Colorado, a metà strada tra le città di Indio e Blythe, allo svincolo della Interstate 10 e della strada statale 177 (Desert Center – Strada del Riso). In prossimità di Desert Center ci sono il deserto Chuckwalla Mountains, Corn Springs, Eagle Mountain e Chiriaco Peak. Il centro abitato conta oggi centoventicinque abitanti, il Cap è 92239, la comunità si trova all’interno prefisso 760. 

A Desert Center c’è poco, direi più precisamente che non c’è proprio niente. È un deserto, qualche cactus, uno Yucca Brevifolia detto l’albero di Gioshua, a un centinaio di chilometri, poche altre piante resistenti al caldo e al vento, qualche rotolacampo. 

Non so se il nonno di mio nonno amasse il deserto ma mio nonno sì, lo amava, me lo raccontava come un capolavoro, uno scrigno di storie, quelle dell’ovest selvaggio di Aquila della Notte, dei Conestoga che superarono le Montagne Rocciose, attraversando lentissimamente il vuoto delle praterie, “siamo a duecentocinquanta miglia dal più vicino ufficio postale, a cento miglia dal legname, a venti miglia dall’acqua e a venti centimetri dall’inferno”, diceva, quando gli sembrava che le cose si mettessero male. 

Amava il deserto, ne leggeva le storie, ascoltava i banjo suonare, le voci gorgogliare in acuti frignucolanti, ripetere sillabe e vocali, allungare protrarre le i iouhulehihiiiiiiiii lehihiiiiiiiii lehihiiiiiiiii che rimarcavano l’eco nello spazio vuoto del deserto. Il deserto mio nonno lo amava ma badava bene a non farsi risucchiare, a non ritrovarsi svuotato, imparava a memoria, ripeteva.

Nessun nome sullo stipite della porta,
Nessuna iniziale incisa nel muro,
Nessun calendario appeso alla finestra,
Solo silenzio e mistero — that’s all.5

Nessuno sa come sia morto il nonno di mio nonno, se sia stato mai sepolto da qualche parte o se il suo corpo l’abbia prosciugato il deserto, nutrendosene. Arthur I, il nonno di mio nonno, lo chiamavano Misty, che vuol dire nebbia o annebbiato perché pare che avesse lo sguardo sempre offuscato, gli occhi come pieni di lacrime, Arthur you Misty-eyed, dicevano, come se guardasse attraverso la nebbia o un latente dispiacere, come se i suoi occhi tradissero il dolore di non essere mai stato amato. 

Di suo nonno Misty mio nonno me ne parlava spesso, ma una volta è stato strano, sono uscita da casa di mio nonno e c’era la nebbia, una nebbia densa, a Huntington Beach la nebbia c’è molto di rado.

C’era la nebbia anche la mattina dopo, che ascoltavo il brano Glen Porter di Glen Porter dall’album Blessed By A Young Death andando a scuola, sono uscita di casa e sono entrata nella nebbia, una nebbia di goccioline non così piccole, gocce di umidità quasi distinguibili, separabili, visibili una ad una, sono uscita dal mio letto, uscita di casa e entrata nella nebbia che era una estensione del sonno, del torpore dei muscoli, della percezione farraginosa del mondo, un prolungamento della dimensione sfocata del sogno.

Glen Porter di Glen Porter dall’album Blessed By A Young Death mi è capitato a caso, un suggerimento dell’applicazione, ha scelto l’algoritmo partendo da Sixtoo, Buck 65 e Keola che avevo ascoltato i giorni precedenti. Ascoltavo e camminavo nella nebbia che la luce non ci passava attraverso, l’imperforabile nebbia fitta delle sette del mattino, la attraversavo come una particella di materia attraversa un buco nero, senza cognizione volontà direzione, come se non potessi che attraversare la nebbia fitta delle sette del mattino di Huntington Beach, muovendomi a caso, brancolando sulla linea perfetta di un destino che forse era il mio. 

Glen Porter di Glen Porter dall’album Blessed By A Young Death era un suono appannato, mi faceva entrare la nebbia nelle orecchie, nei canali dell’udito, era denso, spaesato, suonava spento, suonava come un sogno, sfocato e farraginoso e sbriciolato, sparpagliato nell’umidità condensata della nebbia intorno a me. 

La sua musica galoppava nelle goccioline della nebbia, era la nebbia a cantare, a suonare, a frignare, a manifestarsi nelle gocce separate, una a una separabili, visibili ad occhio nudo.

Volevo sapere di più, chi era questo Glen Porter? Da dove gli veniva questa musica triste, downtempo, trip-hop forse, fitta di nebulosa, di particelle separate eppure imperforabili, da quale punto del suo corpo? Era un ricordo? Una memoria di dolore trattenuto negli occhi. Gli nasceva nella testa, nei vuoti dell’ippocampo, del petto? Questa musica sgretolabile, che prolungava il sonno e il sogno e il passo inconsapevole dei miei piedi alle sette del mattino, che mi faceva una sagoma di nebbia, fatta di nebbia come tutto era fatto di nebbia intorno a me, come tutto è fatto di deserto nel deserto, di materia grigia nella corteccia cerebrale, di vuoto nei crateri della memoria.

Ho cercato Glen Porter su internet, diceva: Glen Porter, all’anagrafe Ryan Stephenson, ha scelto di farsi chiamare come suo nonno, Glen con una sola n invece che due, è nato il 15 gennaio 1983 ad Anaheim, California — centocinquantanove miglia a ovest da Desert Center dove erano nati suo nonno Glenn, mio nonno e il nonno di mio nonno. 

Viveva anche lui a Huntington Beach da molti anni, suonava il pianoforte, la tromba il trombone, la chitarra acustica l’elettrica la classica, suonava viole violini violoncelli bassi batterie e poi ci aggiungeva elementi elettronici, ci collegava tutti i tipi di pedali, overdrive, distorsore, delay, riverbero, compressore, wah-wah, era un vero polistrumentista. La sua musica era una composizione di lamenti e rincorse, di affanni e sospiri, era un galoppo lento, era un rotolacampo, un cespuglio che rotolava sulla superficie della steppa immensa e vuota della Baja California, una salsola a rotolare sulle strade desolate di Huntington Beach prima che Huntington Beach fosse la città che è oggi, centonovantamila abitanti, quattordici chilometri di spiagge, clima generalmente soleggiato, caldo, mitigato da venti a venticinque chilometri all’ora, l’acqua dell’oceano a una temperatura di quindici gradi Celsius in primavera e in autunno, venticinque in estate, quattordici in inverno. Al mattino, ma molto di rado, la nebbia. 

Glen Porter suonava come se mountain men e California gold rushers e cowboys e rangers e sheriffs e bandits e outlaws e gunfighters e i Navajo e gli Yavapai e i Kikapoo e i Comanches e i Cheyenne si fossero dati la caccia non sotto il sole incandescente ma nella luce rifratta dalle particelle di una immaginifica nebbia nel deserto. Era come se avesse composto le colonne sonore di sparatorie uccisioni massacri combattimenti guerre rincorse, giorni e giorni di caccia all’uomo non nel deserto ma nella nebbia del deserto, a occhi stretti brancolando nella nebbia fitta densa ricolma del deserto, una nebbia fatta di goccioline grosse separate visibili una a una, gocce del sudore sudato per secoli nel caldo asfissiante del deserto, del sangue versato dei morti di fame e di guerra, delle vacche i cavalli i pionieri gli indigeni dei coloni dei nativi, di tutti i morti di fame e di guerra per cent’anni nel deserto, del loro pianto. 

Glen Porter li faceva combattere rincorrersi cacciare morire in una nebbia fitta immaginifica che riempiva tutto, li faceva crollare tump sulla sabbia, spararsi bang dritto al cuore, gli faceva fermare zdac pallottole con i denti, tranciarsi zash la carne con affilate lance, penetrarsi swoosh le ossa con le frecce, li faceva scappare cloppete al galoppo sulle distese immense di sabbia, nella nebbia, nell’acqua nel sudore nel sangue spremuti dal deserto, nel pianto strizzato dalla sabbia.

Glen Porter sparpagliava la nebbia, l’acqua il sudore il sangue il pianto risalivano a galla, riempivano il deserto, smorzavano ogni suono, addensando ricolmando, saturando ogni tump bang zdac swoosh zash cloppete, li sentivi appena, come se venissero dal fondo di un cratere nel deserto. Volevo saperne di più, volevo conoscere quel deserto umido, entrare nel deserto caldo e nebbioso di Glen Porter, farmi abbagliare non dal sole dalla sabbia ma dalla nebbia, farmi stordire non dall’alta pressione ma da quello stato condensato, morire di sete non per la mancanza di acqua dolce in superficie ma per la mancanza di visione, la cecità grigia della nebbia che ti allontana dalle cose, che ti fa girare in tondo, che non ti permette di allungare la mano verso l’oggetto cercato, desiderato, l’acqua, la bocca secca, la gola prosciugata dalla mancanza dell’acqua che è lì ma non puoi vederla; volevo conoscere, entrare nel deserto nebuloso e stinto di Glen Porter dove la visione è negata non dalla poltiglia luminosa di luce ma dalla rifrazione della luce sui microcristalli di ghiaccio sospesi nell’aria, sparpagliati nell’aria, la luce che si schianta sulle gocce non così piccole di umidità, sull’aria cristallizzata. Su internet ho letto:

«Sono sempre stato un fan della musica drammatica da quando ho memoria. Non parlo molto; la musica che ho composto per questo album è nata in un periodo difficile per me e credo che sia il mio tentativo di trasmettere cose per cui non riuscivo a trovare le parole. È semplicemente ciò che esce quando mi siedo e inizio a suonare. Ascolto tutti i tipi di musica. Non credo che un tipo specifico mi influenzi più di altri. Ovviamente, le mie radici sono nell’hip-hop, ma ascolto qualsiasi cosa mi faccia provare qualcosa. Se non lo provo, non serve a niente per me. Per quanto riguarda il suono folk/country, non riesco a spiegarlo. La gente lo sottolinea da un po’ di tempo e non so mai cosa dire. Non sono un grande fan del country, ma sono un grande fan del folk» e altre poche domande fatte da un tizio di una rivista di musica, come per esempio:

«- Modello o ispirazione? – Robert Anton Wilson, leggilo e capirai perché.
– Canzone che avresti voluto scrivere tu? – While My Guitar Gently Weeps dei Beatles.
– La cosa preferita da fare non legata alla musica? – La masturbazione, per ovvi motivi.
– Il posto preferito al mondo? – Qualsiasi posto che sembri casa».6

Ho capito che non avrei trovato molto, Glen Porter era uno che parlava poco. Ho messo su i suoi sei dischiin ordine cronologico, ho alzato al massimo il volume delle mie casse, ho chiuso gli occhi: Glen Porter mi ha subito spinto nel suo deserto bagnato, sono entrata nella nebbia nella sabbia, ho visto le dune di cristalli di ghiaccio del deserto umido e rifratto di Glen Porter, ho galoppato di un trotto lento sulle dune di cristalli di ghiaccio. Ho sentito la nebbia inumidirmi i capelli, la densità del deserto premermi addosso, schiacciarmi il vuoto nel petto. 

Poi, al centro del deserto, ho visto la sagoma di un uomo, mi sono avvicinata, brancolando nella nebbia, nella sabbia nebulizzata, e ho visto il nonno di mio nonno, Arthur I nato nel 1873, il 15 gennaio, nel pieno dell’inverno, a Desert Center, nel pieno del deserto. 

Era un uomo non molto alto, magro, con una faccia nervosa, le guance muscolari, come se le avesse allenate per anni masticando tabacco, sputando la polvere alzata dalle vacche portate al pascolo, stringendo i denti quando impugnava la sua calibro .44. Portava un cappello a tesa larga in feltro di castoro, la corona alta, le stringhe in crine di cavallo, chiaro. La camicia era in chambray bianco, con il giogo stilizzato sul petto e dei fiori rossi ricamati, al collo una bolo tie di cuoio nero con le punte in argento come l’ornamento che fungeva da chiusura, una spilla con una pietra azzurra al centro. Indossava i buckskin – la giacca e i pantaloni con le frange – scamosciati, di una morbida pelle di cervo, ai piedi degli stivali con tacco angolato, alto più di un pollice, la punta arrotondata, il gambale alto, marrone, in pelle di alce, con una decorazione rossa e blu che richiamava le penne di una freccia. Nessuna fondina gli pendeva a destra o sinistra, era vero, mio nonno me lo aveva detto, la Pacificatrice8 la tenevano infilata nella cintura, per fare prima.

Lo guardavo, era seduto su uno sgabello in mezzo alla nebbia alla sabbia, dietro di lui si stagliava la sagoma di un grosso albero. Suonava la chitarra, poi ha smesso, ha accennato un sorriso, ha detto:

«Io sono Arthur I ma tutti mi chiamavano Misty, laggiù nel deserto. Misty-eyed, più precisamente. 

Lo hai capito, no? Sono il nonno di tuo nonno, nato a Desert Center nel pieno dell’inverno anche se nel deserto l’inverno non esiste. Esiste il freddo, però, esiste una sensazione di freddo, di ossa umide, di carne che marcisce. Esiste la nebbia, una visione annebbiata, quando non vedi che deserto e il deserto non ti lascia tregua e puoi galoppare, cavalcare il tuo cavallo senza sapere dove stai andando e galoppare fino a che il tuo cavallo ormai baked9 stramazza sulla sabbia, puoi camminare, brancolare senza sapere in che direzione stai andando a morire.

Io sono morto sotto uno Yucca Brevifolia, un Joshua Tree che avrà avuto cento anni, in tutto il deserto sono andato a morire sotto un albero bastardo. Mi hanno sparato davanti al saloon, quei figli di puttana, bevevo il mio whisky, sono arrivati, tutti hanno visto che non ho cercato rogne, ma loro avevano già deciso, dovevano farmi fuori, mandarmi al boot-yard10 perché mi ero innamorato di una donna che non avrei dovuto nemmeno guardare, invece noi ci amavamo, ci amavamo ci capivamo, lei mi capiva, non mi giudicava un pazzo, lei non mi faceva sentire uno strano, per lei io ero uno normale e mi amava, io non avevo mai amato nessuna, avevo trentacinque anni e a quell’età ormai sei vecchio nel Far West, ma io lei la amavo, la amavo e volevo avere un ranch tutto mio, e crescere insieme vacche, e bufali anche, e vendere le pelli e il latte e avere una famiglia, che poi io un figlio l’ho fatto, con lei, ma non lo sapevo, è nato quando io me ne ero già andato al Creatore, un figlio maschio che poi era il padre di tuo nonno.

Insomma, io bevevo il mio coffin varnish11 nel saloon dove passavo di rado, loro sono arrivati, ho pensato che la cosa si mettesse male, c’era puzza d’inferno attorno a me, mi hanno detto di uscire fuori per parlare da uomo a uomo. Sono uscito e altro che scontro leale, mi hanno sparato in tre ma io ho sfilato la mia black-eyed Susan8 e li ho fatti secchi, tutti e tre, tre contro uno non è una cosa facile quando il deserto è così bastardo da incollarti le palpebre agli occhi, da annebbiarti ridurti a uno straccio umido e marcio, il deserto di luglio, era quasi luglio, il giorno prima del primo giorno di luglio, il deserto a luglio è il buco dell’inferno, e in quella melma di sudore e sabbia, nella lava del sole che ti squaglia la faccia, non è facile schivare le pallottole, il deserto il whisky l’amore ti rammolliscono, ti fanno molle, senza nervi. Io ecco, gli ho fatto fare il Grande Salto nelle braccia della vecchia Signora, ma prima che quei sacchi di merda cadessero al suolo con il tonfo tipico dei sacchi di merda, mi è arrivata una pallottola in petto, nel petto capisci, dove sta il cuore, nello spazio vuoto dove si tengono le cose che si imparano a memoria.

Io ho sempre imparato a memoria tutto quello che ho potuto, perché nel deserto le cose o le sai by heart o chissà dove vanno a finire, perché il deserto è una grossa nebbia calda che ti lava la memoria. Non sono mai stato un tipo problematico, nelle badland nessuno parlava male di me, che potevano dire? Mi facevo i fatti miei, non andavo in giro a cercare beef12 con nessuno, a sedurre le donne, non parlavo mai, o comunque parlavo molto poco. Mi chiamavano Misty perché non mi fidavo, guardavo tutto con diffidenza, sai quando stringi gli occhi che vuoi mettere a fuoco, ecco, così». 

«Hey you, Misty-eyed, dicevano che avessi gli occhi come pieni di pianto. Non lo so, so che nel deserto il pianto vale come l’oro. So che me ne stavo per conto mio, non avevo amici, amanti, amori, mogli, figli, io lavoravo, guardavo le vacche, le portavo da una parte all’altra del deserto, ero un semplice cow-poke13, rispettavo le mie duties, facevo quello che andava fatto e poi ho incontrato lei, che è stata l’inizio della fine, che mi ha dato un figlio, che poi a sua volta ha avuto un figlio che è tuo nonno, Arthur II.

Il mio corpo non l’hanno mai ritrovato, quando mi hanno sparato nel petto ho preso il mio cavallo e sono scappato, altri figli di puttana stavano arrivando per venire a farmi fuori, allora sono scappato, grondavo sangue, il mio cavallo era una spugna di sangue quando sono caduto, ho continuato a camminare, brancolando, annaspando, fino allo Yucca BrevifoliaJoshua Tree bastardo, l’unico albero in tutto il fottuto deserto. Il mio corpo se lo sono mangiato i coyote pezzo per pezzo, di me non ne è rimasto niente, nemmeno i miei stivali, la mia donna non ha mai saputo dove fossi andato a morire, mio figlio chi fosse suo padre, tuo nonno chi fosse suo nonno. Ma tu adesso sai, tu devi andarglielo a dire, ad Arthur II, Chap, lo chiamano Chap, no? Devi dirgli che suo nonno non era un figlio di puttana, era un cowboy, un cowboy solitario che lo chiamavano Misty, che suo nonno Misty-eyed si è trascinato per tutte le ore rimanenti del giorno e della notte prima e ancora per tutte quelle del giorno che sono morto, il primo di luglio l’ultimo della mia vita da cowboy di Desert Center; devi dirgli che brancolando, annaspando nella sabbia del deserto, ho scoperto che nel deserto c’è la nebbia, una nebbia fitta densa, che si muove lenta, cristalli di sabbia che ti entrano nel corpo in tutti gli orifizi, ti entrano dentro ti riempiono ti saturano il petto e che persino saturo di nebbia di sabbia di deserto, persino mentre morivo, io non ho dimenticato. Ho tenuto a mente, a cuore, nel petto, le cose poche cose che ho amato. Tu glielo devi dire». 

Io ho detto al nonno di mio nonno: 
«Va bene, glielo dico. Ma perché sei apparso proprio adesso?»

Misty ha detto: 

«Perché la musica che ascolti, non lo senti? Non senti che dentro c’è il deserto, c’è la nebbia, c’è un pianto che gorgoglia sotto le palpebre degli occhi. Sai quella storia che quando muori puoi tornare in un altro corpo? Se hai ancora qualcosa da dire. Be’, io sono entrato in questo corpo, in questo Ryan Stephenson o Glen Porter come si fa chiamare. Mi sono reincarnato, Glen Porter l’ho scelto quando era ancora nella pancia di sua madre che cantava, cantava sempre quella donna, per nove mesi gli ha cantato ogni tipo di canzone. È un bravo ragazzo, un misty-eyed».

Ho detto a Misty: 

«E Glen Porter lo sa, che è la tua reincarnazione?»
E il nonno di mio nonno mi ha detto: 
«Perché, tu lo sai, di chi sei la reincarnazione?»
Ha smesso di parlare e ha ripreso a suonare la sua chitarra, a cantare:
Oh, non seppellirmi nella prateria solitaria
Dove i coyote selvaggi ululeranno su di me
Dove i serpenti a sonagli sibilano e il vento soffia libero
Oh, non seppellirmi nella prateria solitaria.14

Allora la mia testa ha preso a girare, sentivo la chitarra del nonno di mio nonno suonare, rimbombare nella stanza, Glen Porter che era la reincarnazione del nonno di mio nonno suonava nella stanza, suonava il suono dei rotolacampo che non fanno rumore, della nebbia che non fa rumore, del deserto, che rumore fa il deserto? Ho detto al nonno di mio nonno:

«La tua chitarra piange, dolcemente piange, io guardo il pavimento, vedo che ha bisogno di essere spazzato, guardo le particelle di polvere sul pavimento e sento il bisogno del pavimento di essere spazzato, toccato dalle setole della scopa dall’oscillazione delle setole della scopa, il suono della scopa che oscilla avantidietro avantidietro sulle mattonelle, le setole lisciano squasciano il pavimento, ripetono l’andata il ritorno sulle mattonelle il suono prima si apre poi si chiude, le setole sfregano la polpa delle mattonelle, sssssssffffffrrrrrrr sssssssfffffffrrrrrrregano il pavimento, le setole le sss le le setole sfreeeeegaaaaaano sfreeeeegaaaaaano sfreeeeegaaaaaano le mattonelle a ritmo, il tempo è un due quarti moderato, nessuna fretta, è il pavimento che chiede di essere ssssssspazzato sssssssfregato dalle sssssssetole della ssssssscopa è il pavimento che chiede di essere ssssssscopato, scopato come l’acqua con il bagnasciuga, l’acqua che sciaborda l’acqua che fa avantidietro avantidietro a ritmo sulla sabbia compatta, le setole a ritmo sulle mattonelle, come il vento sulle dune di sabbia compatta, la sabbia il vento se la scopa. È il pavimento che ne ha bisogno, lo vedo sento che ne ha bisogno che lo chiede, di essere spazzato sfregato scopato toccato suonato». 

«La tua chitarra piangedolcemente piange, non so perché nessuno ti abbia detto come svelare il tuo amore, non so come ti abbiano controllato, ti hanno comprato e venduto, come hanno fatto, certo avrai commesso i tuoi errori ma stavi di sicuro imparando, imparavi ad amare, suonavi la chitarra, la tua chitarra è un pianto gentile, la ascolto e guardo il mondo e noto che sta girando, la rotazione fa un rumore di vento e di brezza, di turbini di sabbia, di cavallo al galoppo, di gonna che gira e si gonfia, di braccia che tengono la donna che indossa la gonna e la fanno girare, la gonna è larga è ampia è bianca, la gonna della donna che amavi, Arthur I Misty-eyed nonno di mio nonno, la gonna la donna che gira e gira e balla il giorno che vi siete sposati in segreto, di nascosto dal deserto, che all’altare le hai detto: ti amerò come il vento ama la criniera del mio cavallo come ne ama il galoppo, come il turbine ama la sabbia, come l’aria ama la tua gonna che si gonfia quando ti prendo tra le braccia e ti faccio girare e la tua gonna larga ampia bianca si gonfia, si dilata si riempie d’aria si trasforma in una nuvola chiara, ti amerò come la nuvola ama la volta celeste, come il petto ama ricordare come la memoria ama il vuoto che la tiene».

Gli ho detto: 

«Io sto seduta qui e non faccio che invecchiare mentre la tua chitarra piange, dolcemente piange15 mugola geme languisce guaisce lacrima, la tua chitarra è un pianto soave, è il deserto che piange, la nebbia è il pianto del deserto e tu l’hai visto, tu hai visto il deserto piangere, Misty-eyed».

Avrei voluto dirlo, a mio nonno, Arthur II detto Chap, raccontargli di suo nonno, di averlo ritrovato nel deserto nebbioso di Glen Porter, dirgli che non era un figlio di puttana ma uno che aveva amato una volta soltanto, che il deserto se l’era ingoiato, evaporandolo, masticandone pure gli stivali. 

Avrei voluto ma non ne ho avuto il tempo, mio nonno Chap Arthur II è morto il giorno dopo, il primo luglio 2018, si dondolava sulla sedia a dondolo sotto al portico della sua casa di legno, a Huntington Beach, California, si dondolava in una eccezionale nebbia di luglio. Ascoltava Ramblin’ Man di Hank Williams,

E quando me ne sarò andato
E starai davanti alla mia tomba
Di’ solo che Dio ha chiamato casa
Il tuo vagabondo

quando è morto, dondolandosi con Hank Williams se n’è andato, senza soffrire niente. 

Ho pensato che gli sarà piaciuto, andarsene in quella nebbia fitta che non si vedeva che nebbia, come nel deserto non si vede che deserto, dove il dolore il pianto si seccano, si prosciugano o rimangono impigliati negli occhi, dove devi imparare a memoria il calore il sapore il rumore del pianto per non dimenticarlo. 

In quella eccezionale nebbia di luglio, il primo giorno di luglio 2018, a trentacinque anni, con una overdose di Fentanyl, anche Glen Porter se n’è andato, senza soffrire niente, senza vedere che fuori c’era la nebbia.


¹ crooning, canticchiare in modo romantico: un crooner è un cantante che si esibisce con uno stile fluido e intimo, particolarmente amato dalla sottocultura giovanile nota come Bobby Soxers. Lo stile del crooning ha raggiunto il suo apice tra gli anni ’40 e ’60.

² Bobby Soxers, sottocultura di giovani donne americane degli anni ’40. I loro interessi includevano la musica popolare, in particolare quella del cantante Frank Sinatra, e l’indossare abiti larghi e i bobby-socks, calzini da donna bianchi, indossati bobbed, piegati intorno alla caviglia.

³ Out Where the West Begins, Arthur Chapman, 1917

Aaron Burr, politico americano

The Cabin Of Mistery, James William Whilt, 1922

dalla rivista TEXTURA, Ten questions with Glen Porter and Take, luglio 2007 

Blessed By A Young Death 2008, Falling Down 2009, The Devil Is A Dancer, The Piper Is A Madman 2012, Waveleghts2013, The Open Road and The Smell of Blood 2014, Mr. Vampire & The Deadly Walkers 2017

8  la Pacificatrice, Black-eyed Susan, vari nomi per la calibro .44/.45 Colt o Remington

9  baked, “cotto” nel senso di stremato, un cavallo spinto ad un galoppo troppo forte o troppo prolungato

10 boot-yard, “il giardino degli stivali”, slang per cimitero (i morti ammazzati venivano sepolti con gli stivali ai piedi)

11 coffin varnish, “vernice per bare”, slang per il whisky di cattiva qualità 

12 beef, “rogne”, litigare con qualcuno 

13  cow-poke, “spingi vacche”, uno dei nomi dati ai cowboy

14 Oh bury me not on the lone prairie /Where the wild coyotes will howl over me /Where the rattlesnakes hiss and the wind blows free /Oh bury me not on the lone prairie.  Bury me not o Cowboy’s Lament, da una poesia di Edward Hubbell Chapin, 1839

15  le frasi in corsivo nel paragrafo sono parte del testo di While My Guitar Gently Weeps, The Beatles, 1968

ARTICOLO n. 19 / 2025

LA MACCHINA DI ROBBINS

in memoria di tom robbins

Ancora ricordo il piacere, quasi fisico, che mi procurava leggere e rileggere, da ragazzo, Cowgirl: Il nuovo sesso di Tom Robbins. Quell’estasi che, forse, solo da giovani si riesce ancora a provare per un romanzo. In questo caso un romanzo scanzonato, esplosivo, surreale, pop, di un autore americano di culto degli anni ’70. Un autore fondamentale della controcultura americana, seppure distante dalle correnti e dai gruppi letterari. Da giovane girovaga per gli Stai Uniti in autostop come un beatnik (con tanto di tappa obbligata al Greenwich Village). Ma beat non lo sarà mai. 

Nessun possibile legame con i vari William Burroughs, Grefory Corso, Allen Ginsberg e Jack Kerouac. In seguito (intanto è stato arruolato e viene spedito in Corea del Sud) si avvicina al mondo hippie, con tanto di viaggi psichedelici nella mitica West Coast. Ma anche in questo caso non si registra nessuna sua affiliazione a gruppi o comuni. Anzi la cronaca lo vuole appartato e poco propenso anche a esposizioni pubbliche.

Tanto estroverso nei suoi scritti quanto ritirato nella vita privata, Tom Robbins muore il 9 febbraio all’età di 92 anni. Nel 1976 diventa famoso con Cowgirl, che avrà anche una travagliata riduzione cinematografica diretta da Gus Van Sant (e chi se no!) con protagonista una splendida Uma Thurman nei panni di Sissy Hankshaw. A Cowgirl fa seguito Natura morta con picchio (1980): un altro successo. Ma soprattutto un manifesto ironico dei temi della controcultura, tra spinte riconducibili all’esecrato individualismo borghese e, di contro, all’attivismo politico (fino al terrorismo), l’ecologismo e il misticismo dalle venature orientaleggianti, occhieggiando anche certa estetica psichedelica.

E scriverà ancora… dai libri per bambini ai romanzi brevi e lunghi… ricordo ancora Coscine di pollo (Dalai) del 1990 e Tibetan Peach Pie, una biografia, ovviamente “a modo suo” (in Italia è uscita per Tlon). Se sicuramente non lo ritroviamo nel movimento beat, tantomeno lo possiamo ricondurre al fenomeno della letteratura postmoderna americana anche se condivide con Kurt Vonnegut, John Barth e Donald Barthelme lo spirito umoristico e l’approccio pop, così come ricorda Ishmael Reed, soprattutto per i contorsionismi narrativi.

Da quando è giunta la notizia della sua scomparsa sto provando a capire quale può essere l’immagine che raccoglie il suo spirito vitale e critico, la sua vena surreale usata come machete per colpire il sistema. Dove si racchiude il suo spirito di alfiere della controcultura. E allora mi sovviene la macchina di Cowgirl. L’incedibile macchina del tempo descritta in Cowgirl: «Lei non ci crederà, ma è solo un mucchio di ciarpame, coperchi di bidoni, della spazzatura e vecchie padelle, lattine di lardo e paraurti d’auto, il tutto legato insieme e appeso nel bel mezzo della grotta del Siwash. Di tanto in tanto quel trabiccolo si muove perché un pipistrello va a sbatterci contro, o un sasso si stacca e ci casca sopra, o una corrente d’aria lo investe, oppure senza una ragione apparente e così una sua parte va a urtare contro un’altra. E allora emette un bong o un ping. (…) Ed è così che funziona, battendo liberamente, follemente, ai più strani livelli».

Questo “mucchio di ciarpame” è la macchina di Robbins, il sorprendente, surreale meccanismo a orologeria descritto in Cowgirl: Il nuovo sesso. È la macchina creata e custodita da uno strano personaggio, il Cinese, una sorta di guru libidinoso che vive come un eremita sui monti. Più precisamente in una grotta che, appunto, ospita anche il suo famoso orologio. Il Cinese è fuoriuscito dalla Tribù dell’Orologio che conserva un altro meccanismo a orologeria che è in pratica una clessidra ad acqua riempita di carpe. La tribù aspetta pazientemente che un evento catastrofico elimini il tempo per poter godere di una nuova fase di pura gioia. Senza tempo. Il Cinese invece si limita a segnare il tempo, ma segnarlo prevedendo la fallibilità, il caso, la non linearità. Lontana, eppure imparentata con le macchine celibi di Marcel Duchamp o quelle poeticamente inutili di Jean Tinguely e di Bruno Munari, la macchina di Robbins sfida, con fare beffardo, le convenzioni della Modernità. Sì, perché se la Modernità nasce dall’incrollabile fede nella scienza e nella matematica (in quella computabilità che oggi regna sovrana) determinatasi con l’Illuminismo, allora Robbins ci descrive un possibile altrove.

Naïf, utopico, persino puerile, eppure così carico di energia, proprio come i movimenti di controcultura di cui è intriso il suo libro. La macchina di Robbins prevede un tempo che non è calcolabile con algoritmi, che si discosta totalmente dal discorso sulla tecnica che prima Marx ed Engels e poi Heidegger (ma anche Oswald Spengler, Ernst Jünger, Walter Benjamin, Georg Simmel fino a Lewis Mumford) hanno provato a decifrare ed evidenziare.

Una fede incrollabile nella matematica e nelle scienze politecniche che già fa capolino nell’Uomo senza qualità di Robert Musil (la vocazione ingegneristica e matematica del protagonista come ricerca di un posto nel mondo), nella Montagna incantata di Thomas Mann, nella Colonia penale di Franz Kafka (ma in tutto Kafka troviamo questa “macchina”, questo dispositivo logico e matematico, che si chiami potere o burocrazia, che opprime l’essere umano) e che si riassume in quella “mente euclidea” ben descritta ne I fratelli Karamazov di Fiodor Dostoevskij: «Posto che Dio esista, e che abbia realmente creato la terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e l’intelletto umano è stato creato idoneo a conoscere soltanto uno spazio a tre dimensioni».

Ecco, la macchina di Robbins si dispone sfacciatamente in un altrove rispetto alla “mente euclidea”, rifugge il calcolo e la precisione, la burocrazia. Sente il pericolo di un sistema di controllo che non risiede più in un potere autoritario ma si concretizza in una rete a maglie strette dove la norma è lo scandire del tempo, è il calcolo del denaro sonante, è il dominio di sistemi statistici e probabilistici che tendono a invadere sfere sempre più private e intime. L’ultima utopia possibile passa così attraverso una giovane autostoppista bisessuale dai pollici prodigiosamente giganti, un gruppo di cowgirl e, per l’appunto, un orologio decisamente improbabile.

Pur tra i cascami vagamente new age degli anni ’60 e ’70 si intravede una critica possibile al dispositivo tecnico-scientifico di potere. Uno sguardo sulla sua consunzione e sulla sua disumanità. Da qualche parte tra le comuni hippie si fa largo uno sguardo nuovo e si alimentano nuove narrazioni che ci ricordano che la macchina per antonomasia è quella umana, una macchina diversa, una «soffice macchina», come predicava William Burroughs, lui sì un vero guru psichedelico della controcultura. Ci mancherà allora Robbins e il suo affabulare concitato, il suo improbabile realismo surrealista… e soprattutto la sua macchina utopica.

ARTICOLO n. 18 / 2025

THESE BOOTS ARE MADE FOR WALKING?

Qualche settimana fa, per motivi di lavoro, ho rivisto Barbie, il film di Greta Gerwig uscito in Italia nell’estate dello scorso anno. Guardandolo in uno spazio intimo, secondo i miei tempi (da neurodivergente, faccio fatica a stare al cinema, circondata da persone che bisbigliano e mi distraggono) ho potuto cogliere molti elementi a cui, complice una prima superficiale visione, avevo dato poca importanza. Uno di questi ha a che fare con le scarpe. I pensieri di morte che improvvisamente rompono l’idillio nel regno di Barbieland si manifestano una mattina quando, appena sveglia, Barbie Stereotipo appoggia i piedi a terra e si rende conto con orrore che hanno perso la loro, celeberrima, forma arcuata, perfetta per gli stiletti che è solita indossare. Barbie Stramba le rivela che per rimettere le cose a posto deve compiere un viaggio nel mondo delle persone umane. Insomma, la scelta è tra due opzioni: tornare a indossare gli amati tacchi e far finta di nulla oppure optare per le famosissime e sgraziate ciabatte estive, e partire all’avventura. Per almeno tre volte, Barbie Stereotipo cerca di afferrare le splendide décolleté rosa, salvo poi capire che non vi era alcuna possibilità di scelta.  

Esattamente come per la nostra protagonista, per molte donne le scarpe sono molto più di semplici accessori. Nel nostro viaggio intorno ai miti del femminile, quindi, non potevamo che occuparci del mito per eccellenza, quello che si manifesta attraverso le scarpe e i loro significati simbolici. L’intricato rapporto tra femminilità e tacchi alti è raccontato benissimo nella serie tv Sex and the City, in cui la protagonista Carrie Bradshaw e le sue amiche si ritrovano in molte scene prima a sognare, poi a comprare e infine a indossare tanti modelli differenti, tutti haute couture, sempre caratterizzati da materiali preziosi e altezze vertiginose. La serie racconta delle vicende di quattro amiche intente a far decollare la propria vita sentimentale e professionale nella Manhattan di fine millennio. Entrambe le parti della loro vita – quella più intima e quella più pubblica – sembrano sorreggersi su quei power heels che portano ai piedi. Come ricorda la scrittrice Summer Brennan in Tacco alto, si tratta di un tipo di scarpa che «incarna l’idea della metamorfosi». Le donne che le indossano, infatti, si trasformano: la loro andatura cambia inevitabilmente, appaiono più alte, il corpo assume una posizione protesa in avanti, il loro radicamento a terra avviene attraverso una parte acuminata – lo stiletto – che deve il suo nome a un’arma da taglio, precisamente a un pugnale particolarmente piccolo e maneggevole. Insomma, le scarpe femminili non sono mai solo un accessorio ordinario.

Probabilmente non lo diremmo, osservando l’andatura incerta di una donna che ondeggia sui tacchi, ma le scarpe nascono, migliaia di secoli fa, per facilitare gli spostamenti. I primi umani le fabbricarono in modo rudimentale, attraverso pelle di animale o fibre vegetali, allo scopo di rendere meno doloroso il movimento. Quelle rialzate, più simili a come le conosciamo oggi, furono invece realizzate per proteggere i piedi di chi frequentava i bagni pubblici, con i loro pavimenti caldi, pieni di acqua stagnante. Con il tempo si diffusero in tutto il Mediterraneo con il nome di qabâqib, ed è nella penisola iberica che i saraceni le videro e iniziarono a produrle usando strati di sughero per la suola. Le chapínes spagnole giunsero poi in Inghilterra e in Francia, dove, in tempi recenti, furono trasformate in modelli più simili a quelli presenti nei nostri armadi.

C’è un aspetto che accomuna il sessantaquattrenne ingegnere britannico Mark Bryan e lo scrittore italiano Stefano Ferri: entrambi hanno, da tempo, sdoganato l’uso di capi d’abbigliamento tradizionalmente associati al femminile, come gonne e tacchi alti, utilizzandoli abitualmente sia al lavoro che nel tempo libero. Come denunciano sui loro canali social, spesso le persone li deridono definendoli in maniera dispregiativa “femminucce”, oppure mettendone in discussione l’eterosessualità (dimostrando pertanto di non aver chiaro il concetto di orientamento sessuale). Rimarrebbero stupiti, forse, se si raccontasse loro che le moderne scarpe con il tacco nascono proprio come accessorio maschile. I talon hauts, che troviamo a Parigi nel XVII secolo, di ispirazione mediorientale, furono l’accessorio preferito del sovrano Luigi XIV, che grazie a questo espediente poteva accentuare la muscolatura dei polpacci e segnalare così la propria appartenenza a un rango sociale superiore. Come il suo successore Luigi XV, erano gli unici, insieme alla loro corte, a poter indossare scarpe foderate di seta rossa, che rappresentava simbolicamente il sangue dei vinti. «I tacchi» – sottolinea pertanto Brennan – «fecero il loro debutto in Occidente come simbolo di un potere militare virile, persino violento, e della sua espansione economica a livello intercontinentale».

Rimane da chiedersi, allora, cosa permanga di questo retaggio nei moderni tacchi che affollano i guardaroba delle donne di tutto il mondo.

Concordo con Summer Brennan quando, nel volume già citato, sottolinea come la storia dei tacchi sia una storia di contraddizioni. Il moderno stiletto è una rivisitazione nata dalla mente dello stilista Roger Vivier negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando, con un artificio, riuscì a produrre tacchi di oltre sette centimetri, ben diversi quindi dai kitten heels che andavano di moda all’epoca.

Il trucco era semplice ma ingegnoso: introdurre nel rialzo posteriore una sottilissima anima di acciaio che impediva al tacco di collassare su stesso a causa del peso di chi li indossava. Tuttavia, come fa notare Brennan, è curioso osservare che «mentre le donne iniziavano via via a occupare più spazio nel mondo del lavoro e nella sfera pubblica (…) le scarpe giudicate adatte a quel tipo di vita divennero più traballanti».

Nel 1977 viene pubblicato The Woman’s Dress for Success, una sorta di manuale in cui John T. Molloy forniva suggerimenti di stile alle donne in carriera. Per essere prese sul serio dai colleghi e dai clienti in ufficio, ricordava alle lettrici, è necessario non indossare mai i pantaloni, optare per un power dress – una sorta di tailleur strutturato ed elegante che richiama la stessa sobrietà tipica del completo maschile – e scegliere sempre delle sofisticate décolleté.Anziché adeguare il nuovo ambiente di lavoro alle donne, quindi, gli uomini sembrano di gran lunga preferire la risemantizzazione dei confini entro cui tollerarne la presenza.

Per molto tempo si è discusso intorno ai tacchi: sono buoni o cattivi? Andrebbero aboliti o, al contrario, promossi? Sessualizzano o conferiscono potere a chi li indossa? Il dibattito non è una novità: qualcosa di analogo è accaduto nei confronti di ciò che Naomi Wolf definiva il mito della bellezza, un ideale a cui le donne apparentemente aderiscono liberamente ma che agisce da dispositivo di controllo.

Il pericolo implicito resta lo sguardo (e il potere) maschile, che si riflette nella vita delle donne. Nel romanzo La donna che rubava i mariti, Margaret Atwood scriveva che «anche far finta di non essere asservita alle fantasie maschili, è una fantasia maschile (…) sei una donna con dentro un uomo che guarda una donna. Sei il voyeur di te stessa». Il male gaze, teorizzato in ambito cinematografico da Laura Mulvey, si manifesta fuori dai confini della letteratura e dell’audiovisivo proprio nell’immagine contraddittoria che conferisce a quegli oggetti che sono caricati simbolicamente di significati altri, come appunto le scarpe.

Il potere che l’altezza sembra garantire, quindi, fa da contraltare al dolore che necessariamente deriva dalla postura assunta con i tacchi. È difficile pensare che un accessorio tanto scomodo, che conferisce un’andatura traballante e incerta, possa costituire un simbolo di riscatto. Ancora una volta siamo davanti alla sua natura duplice e contraddittoria:se nell’Estremo Oriente la fasciatura dei piedi era appannaggio delle bambine più ricche, cioè di coloro che non avevano bisogno di camminare e faticare per vivere, in Occidente per tanto tempo i tacchi sono stati associati alle sex worker, che rappresentavano per alcuni la massima libertà sessuale e per altri l’estremo assoggettamento alla volontà maschile. Nelle fiabe, una scarpetta libera Cenerentola dalla schiavitù della matrigna mentre un paio di calzature rosse, raccontate da Andersen, puniscono Karen per la sua vanità, obbligandola a danzare senza sosta. 

Tutti questi esempi dovrebbero portarci a prestare un’attenzione diversa, o come dice Brennan «a non sovrapporre la metafora della cosa alla cosa in sé». Le scarpe, al pari degli altri miti che hanno contribuito a definire un certo ideale di femminilità, si stratificano e assumono significati diversi nel tempo e nello spazio. Quello che resta una costante è la misoginia e il sessismo che, più o meno apertamente, si respira ancora, pressoché ovunque. Ne La mistica della femminilità, Betty Friedan osservava come il binarismo di genere e il continuo richiamo a una presunta naturalità per giustificare il comportamento di uomini e donne abbia permesso agli uni di sottomettere le altre. Il problema resta, in definitiva, la cultura patriarcale che usiamo, a volte inconsciamente, per definire e fossilizzare i miti. Seguendo il richiamo del poeta e scrittore Giorgio Maria Cornelio ne I fossili di rivolta, mai come oggi abbiamo bisogno di trasgredire il mito, riabilitandolo in una danza liberatoria. Sui tacchi o a piedi scalzi, poco importa.

ARTICOLO n. 17 / 2025

LEGGENDO “HORCYNUS ORCA”

Pubblichiamo un estratto dallo scritto di Giorgio Vasta per la nuova edizione di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo pubblicata da Rizzoli con la storica introduzione di Walter Pedullà e la postfazione di Siriana Sgavicchia. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Mentre leggo Horcynus Orca mi torna in mente una pagina di Il gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson. Descrivendo gli incredibili reperti conservati presso il Museum of Jurassic Technology di Culver City, Los Angeles, Lawrence Weschler concentra la sua attenzione su una teca di vetro nella quale, in cima a un sottile sostegno, è visibile il nocciolo di un frutto; su un lato del nocciolo, come chiarisce una didascalia, è intagliato «un paesaggio fiammingo con un uomo barbuto che indossa la berretta, una lunga tunica di foggia classica e scarpe dalle spesse suole; l’uomo è seduto con una viola tra le ginocchia e ne tempera una delle corde»; sullo sfondo del paesaggio ci sono un leone e un orso, un elefante che sulla groppa regge una scimmia, e poi un verro, un cane, un asino e parecchi altri animali ancora; sull’altro lato del nocciolo è cesellata «una Crocifissione insolitamente cupa, con un soldato a cavallo e Longino che trafigge con la lancia il costato di Gesù».

Per rendere indubitabile il carattere fantastico della collezione ospitata nel museo, Weschler indica anche le misure del nocciolo: 13 millimetri di lunghezza e 11 di larghezza; poco dopo racconta di un’ulteriore esposizione presente nelle sale del museo: trenta sculture in miniatura, rifinite attraverso tecnologie micrometriche nei dettagli più impercettibili, collocate all’interno o sul perimetro esterno delle crune di altrettanti aghi da cucito – tra i soggetti raffigurati Weschler menziona Napoleone, Cappuccetto Rosso, Giovanni Paolo II, «Gesù Cristo crocifisso su una croce d’oro». 

Ogni parola di Horcynus Orca è un nocciolo, ogni parola è una cruna. Materia e lacuna. Horcynus Orca è un romanzo intagliato nella materia e nelle lacune. C’è l’abnorme nel minuscolo, ciò che è smisurato sta in una particola di vuoto. In ogni singola parola di Horcynus Orca Stefano D’Arrigo ha intagliato l’intero romanzo.

Tutto se ne sta inscritto in una sostanza – ogni singola parola – che non è propriamente un nulla, bensì qualcosa di casuale e magnificamente infimo: un nonnulla; le parole sono come la cicirella che risale a galla quando l’orca affiora: «quei nonnulla di pesci, minutaglia bianca ancora con gli occhi chiusi, miria e miria di pescicelli corazzati dall’enimma della loro nascita». In Horcynus Orca le parole sono quell’arcano di vita che esiste sempre in legame, se non in compenetrazione, con un arcano di morte: «i pescicelli della vita pullulanti nella piaga incarognita, dentro il fianco cavernoso della Morte». 

Leggendo Horcynus Orca si legge il nocciolo, si leggono le crune, i nonnulla. Osservando le cosiddette bozze aquilone – non da una prospettiva filologica bensì grafico-pittorica – si ha la sensazione che D’Arrigo scriva reagendo a tutto ciò che nella pagina si fa percepire come vuoto. C’è un vuoto, strutturalmente visibile, tra le parole, e c’è un vuoto anche all’interno di ogni parola e ci sono ancora altri vuoti – crune, fori, spiragli – nelle lettere che costituiscono le parole. 

D’Arrigo scrive nei vuoti e contro i vuoti e per i vuoti. La sua immaginazione non fa che reclutare ancora una nuova immagine, e poi un’altra e un’altra – miria e miria; la frase si mette a spiralare in direzioni diverse: D’Arrigo scrive tra, infra – lo scill’e cariddi è ovunque – e scrive sopra e sotto la scrittura: scrive dentro: inscrive. La punta della penna – lo stiletto dell’immaginazione – scalfisce i noccioli e precipita nelle crune; la scrittura graffia, crepita, ronza; fruga le pieghe.

D’Arrigo scrive nelle rughe di quel nocciolo che è la lingua – e scrive piegandola, deformandola e riformandola. La scrittura monta, sormonta e sprofonda – si inabissa. Il romanzo prende forma per esasperazioni della forma. Concresce, si azzera, gemma, si cancella. Il romanzo è un gesto, un movimento insieme preterintenzionale e coerente: rabdomantico; letteralmente, in Horcynus Orca la scrittura si muove in cerca dell’acqua: la cerca, la trova, la inventa, ne fa un assedio.

La scrittura di D’Arrigo inventa l’acqua per rendere percepibile che viaggiare per acqua non ha lo scopo di mantenere salda la rotta bensì di fare naufragio. Leggere Horcynus Orca vuol dire anche trascorrere del tempo nel naufragio. Lungo la traiettoria delle frasi si avverte lo sgomento di non riuscire più a individuare dov’è il nord, dov’è il sud, dove sono finiti l’est e l’ovest; ma c’è anche l’euforia suscitata dall’occasione di non sapere più, finalmente, dove ci si trova. Se buona parte della nostra esperienza letteraria si fonda su un presupposto topografico – la nitidezza della trama permette al lettore di sapere sempre dove si trova: in quale spazio e in quale tempo e in quale logica –, al cospetto di Horcynus Orca arriva un momento in cui lo sguardo di chi legge, dibattendosi nell’esondare delle frasi, intravede pinne a falcetto e code di bestia, senza poter avere idea non solo di quali siano lo spazio e il tempo e la logica che governano la scrittura, ma, prima ancora, di quale senso abbiano queste domande.

ARTICOLO n. 16 / 2025

UN INCONTRO CON VINCENT LINDON

Ci sono delle occasioni, che capitano e basta, non puoi dire di no anche se hai paura, anche se non ti senti pronta, anche se…

Il mio incontro con Vincent Lindon è una di quelle. Ora mentre scrivo mi rendo conto che non puoi che coglierle, piccole o grandi che siano, non lo sai finché non inizi. 

Quest’occasione inizia da un messaggio, lo ricevo quasi un mese fa, mentre sto rientrando a casa, in un primo pomeriggio grigio, a piedi, in una zona che non conosco bene. 

Lo ricevo e immediatamente mi perdo. Io non ho senso dell’orientamento e non uso Google Maps, quindi chiedo indicazioni a un signore, con i baffi, sembrano due cose inutili ma sia non usare app che i baffi del signore che mi spiega dove devo andare, mentre la mia testa è solo su quel messaggio, sono due cose che fortemente si legano a Vincent Lindon.

Fino a quel momento il mio non essere tecnologica mi era stato solo d’intralcio, ma come si dice, “un giorno questo dolore ti sarà utile”, quel giorno stava per arrivare e quel non essere affatto tecnologica sarebbe stato fondamentale per creare un rapporto che sembrava impossibile con Vincent Lindon. I baffi, se conoscete la filmografia di Lindon, il riferimento è chiaro, quasi un segno, per chi come me nei segni un po’ ci crede.

Ma facciamo un passo indietro, a quel messaggio, che era un invito, “Vuoi incontrare Vincent Lindon in occasione dell’uscita di Noi e loro e parlare con lui? Non un’intervista ma un incontro…”.

Non un’intervista, ma un incontro. Questo era un punto fondamentale e ancora non sapevo quanto. 

Per me era fondamentale, perché non sono una giornalista ma come avrei capito sarebbe stato fondamentale proprio per quell’occasione.

Io ho da tanto tempo un legame con Vincent Lindon, lui ovviamente non lo sa o almeno non lo sapeva ancora. Ho visto tutti i suoi film, non dico tutti per iperbole ma in senso letterale, ho visto anche L’étudiante per intenderci. Il suo controcampo durante il monologo in Crisi mi mette sempre in pace con il mondo e i suoi film con Stephan Brizé sono tra i miei preferiti, Titane mi ha scosso enormemente soprattutto per il finale di Lindon, Fred è il primo film francese che ho visto in vita mia, ma tutte queste cose non mi serviranno. Apparentemente.

Dico di sì, certo che lo incontro, d’istinto, non mi pongo domande, solo un grandissimo sì. Poi come sempre accade quando le cose sono lontane non fanno paura ma poi la data si avvicina e inizio a chiedermi se ho fatto la scelta giusta, se sono all’altezza e se non sarà troppo emozionante. 

La verità è che Vincent Lindon mi fa pensare fortemente a mio padre, non si assomigliano. Mio padre assomigliava ad Alain Delon, però se devo pensare a qualcuno che ha quei tratti scostanti, quel modo di parlare e quella maniera di unire tic ed eleganza, mi viene in mente mio padre, Stefano de Mandato. 

Allontano il pensiero, mi concentro sul nuovo film Noi e loro, lo vedo prima con il link che mi manda l’ufficio stampa. È un film incredibile, inaspettato, c’è una scena che mi colpisce moltissimo, lui beve da solo al bar, ormai disperato, ma di una disperazione sorda e io rivedo mio padre. 

Non è la scena che fa piangere ma è la scena in cui piango io.

Rivedo il film al cinema, la sera dell’anteprima, la sera prima dell’incontro, c’è anche Lindon in sala che lo introduce, lo guardo ma non ascolto, non posso ascoltare altrimenti domattina non vado. 

Sul grande schermo il film mi piace ancora di più, ripiango sulla stessa scena e mi viene una lista di domande, perfette, sulla sceneggiatura (in fondo io sono sceneggiatrice, è il modo migliore per approcciarmi), sul modo di interpretare i personaggi, l’arco di trasformazione, i gesti… sono pronta. 

Vado a dormire, tranquilla, serena, concentrata.

Cappotto blu, rossetto, taccuino in borsa con le domande e mi butto sotto i portici. Fa freddo ma non piove, sono in anticipo ma salgo nella sala del Baglioni dove ci sono già l’ufficio stampa e l’interprete che mi aiuterà con il francese, che mi ricorda il personaggio di un libro di Fred Vargas, mi tranquillizza, mi piace, io il francese lo capisco bene ma non mi sento di parlarlo, mi blocca.

Un caffè, un bicchiere d’acqua, addio rossetto e il taccuino aperto, abbiamo venti minuti che sono tanti e pochi allo stesso tempo, ma Vincent Lindon non è ancora arrivato, mi manca un po’ il fiato ma sono ancora concentrata: non sono una giornalista, sarà una chiacchierata informale, un dialogo.

Mi distraggo un momento a guardare il tavolo e i giornali sopra con la rassegna stampa, sento tossire, mi giro. È lui. Ci diamo la mano. Mi guarda appena, si siede, vede i giornali, li osserva, chiede conferma all’interprete su un titolo.

Si arrabbia, il titolo lo irrita molto, allude all’incanto della recitazione in maniera un po’ smielata, è il virgolettato a irritarlo, lui non l’ha mai detto. Ripete più volte in italiano la parola magia con fastidio. Mi guarda.

«Voi giornalisti fate così… chiedete e poi non rispondiamo noi ma l’idea che avete di noi, la vostra fantasia su di noi… lei per che giornale scrive?», mi trema la voce «io non sono una giornalista… sono un’autrice, una sceneggiatrice, non è un’intervista». Mi sento un po’ ridicola, mi traduco la frase nella testa e appare un Magritte Ceci n’est pas une interviste

Lui sembra sorpreso ma per nulla convinto, come se fosse una trappola, sbuffa come sbuffano i francesi, come sbuffava ogni tanto Stefano de Mandato, “sì, certo, non ce l’ho con lei… cominciamo, on y va!”.

Sono in crisi, non so come uscirne e gli faccio una domanda sui personaggi, una domanda di quelle che mi sono scritta, una domanda banale.

Si vede che non apprezza la domanda ma è molto educato e risponde in maniera distaccata, la domanda era del tipo “Lei come affronta i personaggi, come lavora sulla costruzione del ruolo…”, la risposta è perentoria, “io non lo so, è un lavoro che spiegare non ha senso, succede e basta. Meglio che posso, ma è lavoro, io voglio che sia un buon lavoro, ma parlarne a chi serve?”.

Mi arriva velocissimo un pensiero, cosa sto facendo? Perché gli faccio queste domande? Perché spreco così un incontro? Perché non sfrutto quest’occasione ma la perdo?

Lo guardo, per la prima volta, ha gli occhiali in mano, una camicia bianca, gli occhi uguali e diversi dai suoi personaggi, mi gioco il tutto per tutto, ora o mai più, «ha ragione, è proprio così, se lo spiega non ha senso. Non m’interessa altra risposta. Io vedo lei e il suo corpo nei film, ogni volta diverso eppure uguale. Anche il corpo con una sua storia».

Penso che ho detto una cosa senza senso, ma succede qualcosa nei suoi occhi, che non stanno mai fermi, in quel momento si fermano, mi guarda, fisso, sorride «Brava! È corpo, è l’istinto, è tutto animale, io devo sapere solo il nome, il lavoro, dove abita e cosa mangia il personaggio e poi c’è il corpo e la chimica, l’organico, l’animale. Io ho un corpo specifico, entra sul set e voilà il personaggio prende forma, nessuna psicologia, nessuna. Sta lì e vive». Si indica la pancia, si tocca i capelli, muove le mani.

Penso a lui che balla in quella danza che si trasforma in lotta in Titane capisco perfettamente cosa intende.

Mi perdo nei pensieri, rivedendo il personaggio e la persona davanti a me, capisco le contraddizioni e mi arriva il carisma e l’insicurezza.

«Che cosa scriverà, non un’intervista, allora cosa farà?».

Non so cosa rispondere per non deluderlo e allora penso che l’unica chiave sia la verità. «Una conversazione, un incontro… Non so cosa scriverò ma so che è qualcosa che succederà dopo, che ora c’è l’incontro», lui ripete la parola, non convinto «Incontro?». L’interprete traduce e lui risponde con la parola perfetta, inaspettata, «non un incontro allora è un… rendez vous».

Sorrido, «Oui, un rendez vous». 

Un appuntamento.

«Allora sei tu che devi raccontare, non io, tu… Come ti chiami?».

«Allegra».

Si rilassa, si siede più comodo, prende un foglietto e scrive il mio nome, come per non dimenticarselo, «Allegra, devi fare così, tu devi raccontare questo appuntamento, non come una scrittrice, oppure sì però come se lo raccontassi al tuo migliore amico, dobbiamo fare così. Nessuna narrazione è neutra».

Vincent Lindon ha appena parlato alla prima persona plurale, mi viene in mente Noi e loro, mi viene in mente Pierre, il suo personaggio, che dice al figlio che prima non esisteva altro noi che loro tre, non lo dico a Vincent, a lui dico solo che farò così e chiudo il taccuino. Non ci sono più domande, c’è il rendez vous

E cominciamo a parlare, lui capisce l’italiano, io capisco il francese. L’interprete capisce e quasi non interviene. Mi piace sempre di più.

Lui mi racconta del documentario che è uscito una settimana fa per Arté, in cui puoi non si è nascosto, si è preso il rischio, «con i film, con le donne, con la vita bisogna prendersi il rischio», il rischio di mostrarsi «nei giorni sì e nei giorni no, quando vinci un premio e quando non vuoi alzarti dal letto», «non mi sono nascosto», «e guarda» – mi mostra il suo telefono – «ho ricevuto messaggi da colleghi che mi dicevano che sono pazzo a raccontare come sono e di giovani che mi dicevano che li salvava vedere che sono così».

«Io non ho i social, a me piace stare con la gente, al bar, fare la spesa, chiedere indicazioni per strada…».

Ecco le indicazioni, Google Maps, il nostro legame. Ci siamo, siamo al rendez vous

«Je m’en foute dei social… Io non voglio quello, lo odio quel modo di essere, no di non essere». Ride, rido anch’io. 

Penso che dice una parolaccia con eleganza e gli dico senza pensarci che mi fa pensare a mio padre, che è morto poco più di un anno fa, dico proprio così morto, non mancato, fuori luogo sicuramente, ma in un rendez vous tutto è concesso e per un attimo mi sembra commosso, in qualche modo sollevato che io dica cose “fuori luogo”.

Ci interrompono, è finito il tempo, lui fa un cenno di aspettare e di rimanere seduta, siamo ancora in ballo, il rendez vousnon è finito, «se non possiamo essere liberi stiamo vivendo la vita sbagliata… Io lavoro senza pormi questioni psicologiche, tanti attori anche bravi lavorano sulla psicologia dei personaggi, io no. Zero. Conosci Bjorg?».

Annuisco stupita. «Se gli chiede come fa lui a fare quello che fa ti risponde che lo fa, ma che lo fa diverso da Mc Enroe, uguale per Maradona e Platini, o Belmondo e Volontè, Gassmann e Mastroianni, Beatles e Rolling Stone… È così… Tutti diversi ma tutto giusto, se funziona». Ride.

Rido anch’io, penso al modo in cui lo fa lui e mi viene una domanda, rischiosa, ma mi butto.

«E quando un film è finito? È finito?».

«Oui… No… Non lo so, a volte sono molto triste, a volte sono molto felice, quando finisce, a volte mi dimentico un personaggio e a volte invece mi resta o io resto a lui. Se ci penso impazzisco, non ci penso mai. Le cose succedono, passano, sono occasioni, non vanno sprecate ma non vanno rimpiante. Tu comprend? Capisci?».

Io capisco meglio di quello che lui può immaginare, mi interrompe, «c’è una cosa che è importante, una frase che ti devo dire, la devi scrivere, non per gli altri, per te».

So che il tempo è finito ma lui non si ferma, «devo dirti una cosa che per me è ultra importante, è una frase di Camus, del discorso al Nobel…». Prende il telefono e mette il viva voce, si sente il suono del telefono che squilla, non risponde nessuno, sbuffa, mi guarda. «È sempre così, se è urgente, non rispondono, c’est la regle, è la regola». 

Riprova sempre in viva voce, risponde una voce assonnata, «scusami, devi farmi un favore, vai a prendere il libro, pagina 25 e capolinea 2…». Dall’altra parte, gli chiedono di aspettare, sono istanti lunghissimi, lui è in ascolto, sussurra guardandomi, «questa è troppo importante segnala…». Dall’altro lato del telefono la voce (scoprirò mentre parla che è Stefan Crepon, il coprotagonista di Noi e loro, uno dei due figli, quello “buono”) legge la frase con una grande verità e stanchezza nella voce, Vincent lo saluta e lo ringrazia con trasporto.

«Voilà… È questo, quella frase, sono io, siamo noi».

Poi lui mi chiede se è abbastanza, se sono contenta, mi esce la più assurda e inopportuna delle frasi, «ci possiamo abbracciare?».

Con grande forza lui mi abbraccia, ripenso all’abbraccio finale di Noi e loro, persona e personaggio, le rendez vous, tutto finisce ma in fondo resta.

Non so come salutarlo e mi esce quel francese che mi blocca, una frase alla Stefano De Mandato, rischiosa, «Bonne chance pour la vie».

Fa una pausa, sorride, gli piace, «Oui, anche a te, bonne chance pour la vie, à nous, a noi. Ciao!», con quel misto di francese e italiano. E quel noi

Mi allontano, scendo le scale e incontro Stefan Crepon, mi sorride e gli faccio i complimenti, immagino che lui non sappia che l’ho sentito in viva voce leggere Camus e sorrido, ha un bello sguardo, poi mi giro e Vincent è sulle scale, mi fa un sorriso e un cenno di saluto. Il rendez vous è finito. 

Sono di nuovo sotto i portici, è passata poco più di un’ora, strana, penso a quella scena del film che mi aveva fatto piangere e stavolta sorrido, ora piove ma je m’en foute.

«E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri, si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte ed essere diverso dagli altri solo confessando la sua somiglianza con tutti», Albert Camus.

ARTICOLO n. 15 / 2025

TORNADO FORZA CINQUE

eletricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando l’ultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,
come se tutti i fiori cominciassero a parlare.

(Anna Achmatova – Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso.  (Dario Valentini)

Ovvio che sia sposato. 

Rimango fino a tardi a giocare a biliardo sul retro del Cold Blood dopo che la band ha suonato. Potrebbe sembrare che stia parlando di una sera specifica, ma non è così: abbiamo cominciato mesi fa, dopo il concerto dei Clementines, una band di Bristol la cui originalità si è manifestata esclusivamente attraverso orrendi maglioni da sci anni Ottanta, e poi l’abbiamo fatto di nuovo, ancora e ancora. Lui beve IPA, ovviamente, e io pure, per mostrargli che non faccio scherzi. Sento la pancia gonfiarsi sotto i jeans attillati, ma apro una birra ogni volta in cui ne apre una lui. Collego il mio account di Spotify al juke box e metto su l’ultimo disco dei Last Shadow Puppets tutto di fila, perché non ammetto interruzioni e canzoni brutte in riproduzione casuale. 

Sua moglie, una bionda tatuata con le labbra rifatte, viene al locale e si siede sul bancone accavallando le gambe; lui si appoggia di fianco a lei e si toglie lo sporco da sotto le unghie con uno stuzzicadenti. Ridono sempre mentre io giro tra i tavoli, assistendo i gruppi con il soundcheck, passando birre, mix improbabili di cocaina, erba, pasticche di ogni colore e dimensione, barrette di cioccolata, Redbull, e spingendo le influencer più zoccole tra le braccia di bassisti dinoccolati che altrimenti non scoperebbero neanche pagando. Intanto, il mio capo e sua moglie ridono tra loro di non so cosa. Lei fa l’estetista e viene a bere un gin tonic alla fine del turno al salone di bellezza. Mi saluta sempre, come dicono i conoscenti dei serial killer insospettabili o dei padri di famiglia omicidi. Io invece lo dico per ricordarmi che la moglie del mio capo: 

  1. Non sospetta di nulla 
  2. È pure carina con me 
  3. E se fossi una persona normale, mi sentirei una merda. 

Ma la sera mi piego sul tavolo da biliardo comunque e alzo lo sguardo su di lui per cogliere un’ombra di desiderio. 

Noi due, al contrario, non ridiamo mai insieme. Devo dargli credito: credo che la ami. Ogni volta, dopo, mentre si tira su i pantaloni, ha le labbra all’ingiù, come se si sentisse in colpa.

Ma come mi sento io? 

Me lo chiedo solo quando lo saluto, infilo le cuffie e mi avvio verso la fermata dell’autobus. Il Cold Blood è in centro, ma in chiusura è sempre molto tardi e fuori non c’è quasi nessuno. Da quando ho cominciato a trattenermi con il capo, ogni volta in cui esco dal locale sento quest’aria fredda sulle guance che mi ricorda sempre, senza eccezione, del ritiro per la gestione del lutto in Oklahoma dove mi avevano spedito i miei a undici anni. Una notte come al solito non riuscivo a dormire ed ero rimasta a fissare le stelle chiarissime che si vedevano con una limpidezza disarmante dalla piccola finestra sopra il mio letto. Erano così vivide che mi avevano fatto quasi paura, e l’unica soluzione logica alla mia insonnia e inquietudine mi era sembrata uscire da sola, a piedi nudi, solo per trovarmi davanti a quello che sembrava un misto tra un lupo e una volpe fermo in mezzo al prato, appena fuori dalla baita dove dormivano tutti gli altri pre-adolescenti che come me erano lì per superare traumi insormontabili attraverso la preghiera e attività creative di dubbia utilità. 

Avrei poi imparato che si trattava di un coyote. Mi fissava e io ero paralizzata, la pianta dei piedi incollata all’erba perché non sapevo cosa fosse né che dovessi fare, se scappare o fingere di non avere paura. Aveva questi occhi arancioni che luccicavano nel buio ed era secco-secco, le orecchie puntate verso l’alto. Avrebbe potuto aggredirmi e farmi a pezzi, e allora i miei avrebbero avuto due figlie morte invece che una.

Non era un cane; percepivo qualcosa di selvatico, più delle volpi che rubavano gli avanzi dai cassoni della spazzatura a Nottingham. Davanti a questo animale mi ero sentita come quando nei sogni ti sembra di cadere, non sai cosa fare o cosa ti aspetta, sai solo che stai precipitando e tutto ciò che ti resta è attendere di schiantarti. Ecco, io avevo aspettato che il coyote mi azzannasse, ma eravamo entrambi rimasti immobili a studiarci finché un refolo di vento mi aveva colpito il viso. Il coyote aveva annusato qualcosa nell’aria, mi aveva lanciato un’ultima occhiata ed era trotterellato via, nel bosco. Più tardi, mentre i miei compagni erano impegnati a dipingere con le dita, recitare frasi del Vangelo e intrecciare coroncine di erbe aromatiche, mi ero chiesta se era quello ciò che aveva provato mia sorella prima di morire: la sensazione di precipitare.

Il vento che si aggira tra le strade di Nottingham, a migliaia di chilometri da quella baita in Oklahoma, mi colpisce allo stesso modo ogni notte e mi riporta davanti a quel coyote. Quando ci penso mi ripeto le domande e i consigli dei preti e degli psicologi del ritiro, applicandole alla mia situazione odierna da quasi-trentenne che si scopa il suo capo sposato, ma non riesco bene a identificare un sentimento specifico o quantomeno predominante. Devo semplificare i fatti come se fossero istruzioni per ricordarmi che è normale avere sentimenti: per esempio, sento che il capo mi piace. È alto e ha questi eccellenti occhi nocciola, grandi, tondi, con un anello verde intorno alla pupilla, e i capelli biondi tagliati alla Eminem, ed è il proprietario del locale indie più alternativo della città. Però si porta dietro un sentimento spiacevole: è sposato, e sua moglie è bella e ride sempre. Mi saluta con un sorriso che mi sembra genuino sotto il silicone. 

Dal canto mio, a quasi trent’anni non ho mai avuto un vero fidanzato, e i miei sono avvolti in una coltre di nebbia e dolore da troppo tempo perché possa ricordare che faccia abbiano quando le cose vanno bene.  

Ci sono tanti fattori da considerare per analizzare il mio stato mentale. 

Come mi fa sentire tutto questo?

  1. Colpevole?
  2. Arrabbiata?
  3. Triste?
  4. Altro?

Per aiutarmi a identificare qualcosa ho cominciato a mettere insieme una playlist su Spotify chiamata post-sesso-con-il-proprietario-del-locale-dove-lavoro. Comincia con Talking Shit About a Pretty Sunset dei Modest Mouse e finisce con How to Disappear Completely dei Radiohead, che sono forse tra i pezzi più significativamente deprimenti nella storia della musica.

Qualche sera dopo sto aiutando con il soundcheck dei River Banks, che si sono improvvisamente armati di un sintetizzatore perché chiaramente in fissa con il secondo album dei Glass Animals. Fino a ieri l’altro il cantante, Jacob Reaver detto appunto River, si era presentato sul palco con un tripudio di pettinature alla Elvis, giacche di pelle troppo strette e jeans skinny che gli accentuavano il pacco — in altre parole, voleva essere Alex Turner. Invece ora mi guarda attraverso questo paio di occhiali dalla montatura spessa che sicuramente indossa per scena. Sta facendo una transizione dall’Alex Turner post-esplosione degli Arctic Monkeys negli Stati Uniti, al tipino teneramente intellettuale dei Glass Animals. 

            «Quand’è l’ultima volta che avete sostituito il microfono?», mi chiede Jacob, allungando ogni parola come se tutto il mondo pendesse dalle sue labbra. Voglio spaccargli la faccia ogni volta in cui suonano qui, ma il capo dice che ci vede del potenziale, nei River Banks. E con potenziale intende: tutte le ventitreenni in fissa con gli Arctic Monkeys vogliono scoparsi Jacob, e per ogni ventitreenne con la minigonna e un disturbo alimentare ci sono almeno sei uomini che la seguono più che volentieri nel locale. 

            «Perché?» chiedo a Jacob, che non mi guarda nemmeno mentre sorseggia un sidro e consulta la lista dei pezzi da suonare stasera annotata ordinatamente su una Moleskine. «Questo microfono non ti sembra consono alla tua voce soave?».

            Quando percepisce il sarcasmo alza lo sguardo dalla Moleskine. «Vabbè, dài», risponde. «Basta dirlo, che mi ami».

            «Ciucciatelo, ‘sto microfono».

            Jacob ride. «Dài, April. Puzza dell’alito di ogni singolo cantante che ha mai messo piedi qui dentro. Mi ritrovo in bocca il DNA di ogni singolo stronzo».

            «Compreso il tuo, purtroppo, e ti assicuro che nessuno qui intorno vuole il tuo DNA in bocca» ribatto. «Hai bisogno d’altro?».

            Lui mette giù la Moleskine. «Un bacio portafortuna prima dell’esibizione?»

            Indico il suo batterista, una specie di Ed Sheeran gonfiato a pressione che si porta dietro cento chili di sovrappeso. È chinato ad accordare i tamburi, e la t-shirt troppo stretta gli si alza fino a mostrarci la riga del culo. «Chiedi a lui».

            «Colpo basso», risponde Jacob. Alle sue spalle vedo il capo che esce dal suo ufficio con una sigaretta dietro l’orecchio. Mi lancia un’occhiata, indica la porta. Improvvisamente ho voglia di fumare.

Taglio corto con Jacob. «In bocca al lupo» gli dico, che in teoria dovrebbe essere una metafora per augurare buona fortuna, ma sappiamo entrambi che detto da me ha un senso molto letterale. 

Insomma sto giusto per mettere mano alle sigarette e seguire il capo che è già fuori a fumare, quando sua moglie entra nel locale e invece che saltare sul bancone e accavallare le gambe come al solito marcia diretta verso di me e mi afferra le guance come se fossi un cavallo e volesse guardarmi i denti. 

            «Stupida, stupida troia», mi dice, con questa voce cantilenante, da bambina, come se stesse recitando una filastrocca. Il che mi fa ancora più paura che se fosse entrata urlando e spaccando tutto. Sento addosso lo sguardo di Jacob, del gruppo, della barista. 

«Magari non collegare al juke box il tuo account Spotify con le tue playlist da troia, se vuoi fare le cose di nascosto», dice, continuando a canticchiare con un’inquietante voce dolcissima, come una squilibrata, come se stesse parlando con una bambina. 

Del capo non c’è traccia, e sua moglie mi stringe così forte che sento l’interno delle guance toccarsi e il sapore di sangue in bocca, ma riesco a divincolarmi. 

Avrei dovuto aspettarmelo. Nessuno mi viene in aiuto, ma lei mi lascia e mi domando se debba mollarle uno schiaffone. Non mi sono mai picchiata con nessuno e lei ha tutta l’aria di una che potrebbe cavarmi gli occhi con quelle orrende unghie finte squadrate. Detto questo, la mia stupida bocca del cazzo non riesce a trattenersi. 

«Gesù», dico. «Chi l’avrebbe mai detto che le unghie di plastica appiccicate con la colla potessero graffiare così», le dico, massaggiandomi le guance. 

Lei fa per avventarsi di nuovo su di me, ma il capo finalmente entra nel locale e la afferra per togliermela di dosso. Non sembra sorpreso, tutt’altro. La allontana pacatamente e si piazza davanti a lei, dandomi le spalle. «Tu ti devi calmare», le dice, poi si volta verso di me. «April. Stasera te la prendi libera».

 «Bravo, mandala via», fa la moglie. 

Non so che dire. Il capo mi fissa con quegli occhi nocciola con gli anelli verdi intorno alle pupille e non vedo assolutamente niente dello sguardo tutto triste e pieno di senso di colpa che ha di solito dopo aver scopato. Mi guarda, anzi, come guarderebbe il finestrino della macchina lasciato aperto per sbaglio in una notte di pioggia. 

Lancio un’occhiata a Jacob, che scuote la testa come se lo avessi deluso personalmente. Vaffanculo, penso, e cerco di non dirlo ad alta voce. 

«April», ripete il capo; sua moglie si agita, lui la trattiene. «Non abbiamo più bisogno di te stasera».

«Stasera?!», grida lei. 

Lui sospira. «Vai», mi dice. 

Allora vado. 

Quando esco c’è ancora luce fuori. Nella loro casa appena fuori dal centro, i miei stanno probabilmente per mettersi a tavola: riso e pollo, potrei scommetterci. Al massimo una salsa di curry comprata alla Tesco e una London Pride in mezzo al tavolo. Tutto meglio dei pancake surgelati da ficcare nel tostapane e i due limoni rinsecchiti nel frigo del mio appartamento. 

Mi avvio alla fermata per andare dai miei e penso di metter su una playlist — non post-sesso-con-il-proprietario-del-locale-dove-lavoro, ovviamente, ma non ne ho pronta una intitolata ops, sua moglie ci ha beccati. Non so come dovrei sentirmi in un’occasione di questo tipo, quindi non metto proprio niente, e mentre cammino mi chiedo se mi mancherà, se magari ho fatto l’errore di innamorarmi, qualsiasi cosa voglia dire. Come mi sento, se sto bene, le solite domande. Come sta la bambina che era stata catapultata in un ritiro per la gestione del lutto in Oklahoma? 

Sto che con il capo c’era un semplice scambio di fluidi corporei e non è che lui mi ascoltasse, mi facesse ridere, o fosse interessato a un qualsiasi aspetto della mia persona che non fosse direttamente collegato al mio ruolo di manager del locale. Non mi parlava di sua moglie e mentre mi siedo sull’autobus mi rendo conto che non so niente di lui tranne che:

  1. È il più grande fan degli Stone Roses che conosco 
  2. Beve IPA
  3. Fuma Lucky Strike 
  4. Il suo snack preferito al pub sono i pretzel al formaggio
  5. Quando viene socchiude un occhio solo, come se avesse un tic. 

Poi comunque penso che gli scambi di fluidi sono sempre stati il mio unico modo per ritrovarmi, e forse è normale sentirmi un po’ così quando uno scambio di fluidi che accade a cadenza regolare finisce. Considerato soprattutto che potrei perdere il lavoro migliore che abbia mai avuto, nonostante tutti gli stronzi saccenti egomaniaci con cui devo avere a che fare, come Jacob Reaver detto River dei River Banks, o i Clementines e i loro maglioni da sci anni Ottanta. 

            Quando scendo alla fermata mi chiedo persino come mi sento ad aver potenzialmente sfasciato il matrimonio del mio capo e aver contribuito ad arrecare danni probabilmente permanenti all’autostima della moglie. 

            «Nulla», dico ad alta voce, scuotendo la testa per scacciare via quelle domande fastidiose e inquisitorie. Non sento nulla. Non è colpa mia, mi dico, se non è riuscita a tenerselo stretto.

            E ci credo davvero mentre dai cassonetti spunta questa volpe spelacchiata con in bocca un topo, come se vedere canini in momenti particolarmente significativi della vita fosse la mia maledizione. La volpe ha le orecchie abbassate, ma trotterella con il topo morto che le ballonzola in bocca, e mi passa accanto come se fossi invisibile. 

            Rimango ferma per un attimo, ma quando mi volto per vedere dov’è finita, la volpe è già sparita sotto una macchina parcheggiata per godersi il pasto, allegramente indifferente a tutti i miei drammi e quelli di chiunque avrebbe incontrato sulla sua strada. 

Come previsto: pollo, riso, e una bottiglia di London Pride che si aspettavano di dividersi in due e che invece ci divideremo in tre.

            Mio padre sta guardando il telegiornale. Negli ultimi anni, Nigel Farage è diventato il suo guru, e non si perde una parola di tutta la spazzatura che gli esce di bocca. Vorrei riuscire a litigarci, dirgli che Nigel Farage è un demone e finirà all’inferno a succhiare il cazzo al diavolo. Ma dopo mia sorella, l’entusiasmo di mio padre per il Brexit è stata la sua salvezza: grida e lancia tovaglioli contro il televisore quando parla il sindaco di Londra o Jeremy Corbyn, oppure si alza in piedi per applaudire quando Farage dice qualcosa di orribile sugli immigrati. Quando non è impegnato in disquisizioni politiche o non è al circolo coi suoi amici del partito, sembra uno sconosciuto entrato in casa per sbaglio e ci guarda come se avesse sempre bisogno di indicazioni per trovare il bagno. 

            Mia madre è più come me: va in automatico. Continua a preparare le sue tortine con la frutta secca al brandy quando arriva novembre, e a marzo riempie la casa di ovetti di cioccolato Cadbury. Cucina riso per cena, sandwich di tonno a pranzo, prende un pollo arrosto alla rosticceria dietro casa e lo affoga nella mostarda. Ma almeno ha smesso di apparecchiare anche per mia sorella. 

Ha smesso l’anno scorso, per dire la verità. Solo quindici anni dopo. 

            «Non hanno più la crema al caramello da Sainsbury», sta dicendo a mio padre. «Come lo vuoi il caffè d’ora in poi? Vaniglia francese o nocciola?».

Lui scrolla le spalle. «Mi va bene normale», dice. 

Quando sono entrata dovevo avere la mia solita faccia stirata, con la bocca sottile e gli occhi aperti a malapena, perché nessuno mi ha chiesto il motivo per cui fossi lì o se fosse successo qualcosa. Mia madre si è alzata e mi ha riempito un piatto di riso e pollo, ed ora eccomi qui, ad ascoltare Farage che sproloquia di immigrati e mia madre che sproloquia di crema al caramello. 

«Buono il pollo», cerco di chiacchierare, perché non so come dire che probabilmente oggi sono stata licenziata. 

«Grazie, tesoro», fa mia madre, versandosi un bicchiere di London Pride. «Il pollo di Tesco è molto meglio di quello di Sainsbury».

Mia madre era una sous-chef in un ristorante in centro a Nottingham prima di passare le sue giornate a parlare di polli di Tesco e creme per il caffè di Sainsbury. Ovvero prima di mia sorella.

Annuisco e mi ficco in bocca un altro pezzo di pollo. Nigel Farage sbraita ancora dal televisore. Il silenzio di casa dei miei è così insopportabile, da quindici anni a questa parte. Immagino di riempirlo: al lavoro mi hanno mandata via oggi. 

Perché? 

La conversazione finirebbe lì. Semplicemente, non ce la faccio. Continuo a masticare in silenzio pensando che devo aver fatto qualcosa di davvero sbagliato nella vita se a quasi trent’anni decido di passare il mio inaspettato giorno libero a casa dei miei, ma mentre sto cercando di riordinare i pensieri ripetendomi le istruzioni imparate al ritiro per la gestione del lutto, mi squilla il telefono. È il capo. 

Tiro indietro la sedia — non ci penso nemmeno a parlargli seduta davanti ai miei. Mia madre e mio padre non protestano quando esco dalla stanza e sento le mani già umide e sudate intorno al cellulare. 

«April?», fa quando sono in corridoio, in piedi davanti al muro dove un tempo i miei tenevano una foto in cui io e mia sorella eravamo sedute su un muretto a Margate. Avevamo i piedi penzolanti e le facce tutte sporche di gelato. Dopo aver mangiato eravamo andate su una giostra, e io avevo vomitato sulle scarpe di mia sorella. Adesso attaccato al muro non c’è niente. 

«April, ascolta». Esita. Sento che aspira, poi la sirena di un’ambulanza. È fuori a fumare. «La situazione è questa».

            «Ho capito», lo interrompo. 

            «No. Aspetta». Abbassa la voce. «Noi non dobbiamo vederci più».

            Classico. «Okay».

            «Quindi ho pensato…». Si schiarisce la voce. «Hai presente il mio amico Tyler, l’americano?».

            «Il proprietario dell’Hydro?».

            «Lui».

            «Non è a Londra? Che c’entra con me?».

            “Aspetta. Sì, è a Londra, ha questo locale a Soho, ma sta investendo su…». Si interrompe di nuovo. Ho come l’impressione che sua moglie sia piazzata lì davanti a fissarlo mentre parla con me. «Insomma, ha comprato questo locale storico l’anno scorso. Ha cominciato a rinnovarlo, ma vuole una voce nuova, giovane, più europea per selezionare le band e gestire le serate».

            Europea?

            «Okay».

            «L’ho chiamato. Ti prende volentieri».

            Fisso la parte di muro vuota dove stava la fotografia con mia sorella. Non so cosa dire. Più di tutto, come al solito, non so come sentirmi. 

            «Mi mandi a Londra?».

            «No», risponde. Si schiarisce la voce. «April. Ascoltami bene. Questa è un’ottima opportunità per te, capisci?».

            «Okay», ripeto. Sta arrivando l’inculata. Lui (o meglio, sua moglie) sta per spedirmi in un buco di merda in Galles o roba del genere. Già mi vedo in una cittadina invasa di pecore, dove piove sempre e suonano solo gruppi di musica celtica ultracinquantenni. Sto già pensando di rispondergli che se sento un’altra cover di Whiskey in the Jar mi impicco.

«Sarà un’avventura», continua. «Ti mando a Oklahoma City».

Cerco di non mettermi a urlare. Ogni volta che succede qualcosa, qualche stronzo mi manda in Oklahoma. Come se fosse un purgatorio in terra. Il luogo dove espiare i tuoi peccati o gestire ogni dolore. Ehi, se puoi sopravvivere in questo posto dimenticato da Dio, puoi superare qualsiasi cosa. 

«Oklahoma City. In Oklahoma», ripete. 

«So dov’è Oklahoma City», rispondo. 

Quello che ricordo dell’Oklahoma: 

  1. Boschi e parcheggi ugualmente vasti. 
  2. Cappelli da cowboy. 
  3. Armadilli schiacciati sulla strada. 
  4. Io che intreccio corone di rosmarino e dipingo con le dita circondata da altri bambini e preadolescenti che recitano una preghiera sull’onniscienza di Dio. 
  5. Il coyote che mi fissa. 

«Ci sono già stata», rispondo, e mi rendo conto di non averglielo mai detto. 

«Ottimo», fa, senza chiedere se mi sia piaciuta, o perché mai una ragazza di Nottingham sia finita in Oklahoma. «Che dici?».

            Per una manciata di secondi non so cosa rispondere; sento solo i rumori della strada che gracchiano dal telefono e Farage che sbraita ancora dal televisore. Lancio un’occhiata alla cucina; mia madre si alza per servire un’altra porzione di pollo e riso a mio padre. 

            «Okay», rispondo, scrollando le spalle come se potesse vedermi. 

            «Sul serio? Posso dare il tuo numero a Tyler e dirgli che ci stai?».

            Mi sembra quasi di vedere sua moglie che gli ordina di tagliare corto cercando di non farsi sentire, le lunghe unghie finte che creano archi nell’aria mentre gli intima di buttare giù: il grosso è fatto, ho detto sì, e non c’è bisogno di convenevoli. 

            «Okay», ripeto. «Vado in Oklahoma».

            «Grande», mi dice, sollevato, come se gli avessi appena risolto un bel rompicapo acconsentendo a rimuovere la mia fastidiosa presenza dalla sua vita coniugale. «Grazie davvero».

            «Grazie a te», rispondo, perché non so che altro dire. 

«Buona serata», dice un attimo prima di buttare giù senza aspettare la mia risposta. È l’ultima volta in cui sento la sua voce. 

In Oklahoma mia sorella non c’è nemmeno mai stata. Io sì, e me lo ricordo non appena il taxi che mi viene a prendere dall’aeroporto di Oklahoma City taglia in mezzo ai campi grigi e sconfinati interrotti solo da benzinai ed enormi croci. Sono gli stessi di più di quindici anni fa. 

            Il tassista prova a fare conversazione, ma io metto su la mia playlist — post sesso con il mio capo. Mi prometto che sia l’ultima volta in cui la ascolto. 

L’ultima volta in cui sono stata in questo paese avevo dodici anni e non capivo niente. Non è cambiato molto. 

America: o la ami o la odi. Ecco le cose che odio: 

  1. Camminare per quaranta minuti per arrivare al The Rattery, il locale dove lavoro, perché i mezzi pubblici non esistono;
  2. I parcheggi sconfinati e i centri commerciali suburbani tutti uguali che sembrano costruiti a colpi di calcestruzzo e Philadelphia;
  3. Il fatto di aver visto almeno tre pistole pendere dalle cinture di uomini che ordinavano al fast food o facevano benzina. 

Cose che non odio: 

  1. Il manager esecutivo del The Rattery. Eric: ventisei anni, un metro e novantacinque di barretta proteica ficcata in un paio di jeans scuri e una semplice t-shirt bianca, come se fosse uscito da un film di James Dean. Stivali da cowboy scuri tutti graffiati, tatuaggi che gli fioriscono sulla pelle chiara, una canna rollata infilata dietro l’orecchio. 
  2. A proposito: in Oklahoma è legale comprare l’erba se te la prescrive il dottore. 

«Mi è stata prescritta per i problemi alle ginocchia», mi dice Eric la prima volta in cui ci incontriamo per parlare del mio ruolo come manager creativo del The Rattery. È spaparanzato con uno stivale da cowboy sulla scrivania nel nostro ufficio sul retro, e sta rollando una canna. «Non ti spuntano un metro e novantacinque dal nulla a quindici anni senza qualche conseguenza sulle giunture», continua. 

            Vorrei dirgli che se vuole può sforzare le mie, di giunture, ma mi trattengo perché l’ultima volta in cui ho fatto sesso col mio capo è stata la ragione per cui adesso sono qui. Davanti a Eric. Seduta alla mia scrivania. 

            «Almeno puoi fumare quando vuoi senza problemi», commento. 

            «Esatto. Non tutti i mali vengono per nuocere. Per esempio, tu sei stata buttata fuori dal tuo paese perché scopavi la gente sbagliata. E io mi sono trovato con una collega con un accento megasexy».

            Spalanco la bocca. Non riesco a credere che l’abbia detto. 

            Lui fa un sorriso sbilenco, tutto di lato, come se riuscisse a muovere solo la parte sinistra della bocca. «Dài, Mata Hari, nessuno ti manda in un buco di culo in mezzo agli Stati Uniti senza un vero motivo. Ma non preoccuparti. Qui nessuno ti giudica. Ci vogliamo tutti bene, qui», mi dice. «In ogni caso. La storia è la stessa: devi selezionare i gruppi, occuparti del calendario, contattare i manager e gli agenti, preparare i contratti, promuovere le serate, e in sostanza fare quello che facevi al Cold Blood». Vorrei riuscire a smettere di guardarlo mentre chiude la canna con una generosa leccata alla cartina, e poi se la infila dietro l’orecchio. «Bene, Mata Hari. Il nostro obiettivo primario questo trimestre è arrivare ai Kings of Leon».

            Quando lo dice sento la bocca secca. Non ho mai lavorato con un gruppo così grosso. «Sul serio?».

Il primo istinto è dirgli che i Kings of Leon sono forse la band che odio di più al mondo, e che detesto la voce del cantante con una passione ardente. Quando qualche cliente fetente metteva Sex on Fire nel juke box del Cold Blood me ne andavo sempre fuori a fumare. 

Decido di rimanere neutrale. Devo imparare le regole della manager creativa ideale: 

  1. Non insultare i gusti musicali del capo
  2. Non scoparti il capo

«Lo so, lo so», risponde Eric, prima che dica tutto questo. «Sono enormi. Li vorrei per l’inaugurazione della nuova stagione, per perdere un pochino della reputazione troppo country che il The Rattery si è fatto con il tempo».

I Kings of Leon, penso, erano “enormi” qualche anno fa, e quando i fan affezionati li mettono al juke box, qualche stronzo (me) alza inevitabilmente gli occhi al cielo. Non capisco molto di emozioni e sentimenti, ma se so una cosa per certo è che provo verso tutta la produzione dei Kings of Leon quello che prova l’intera popolazione mondiale per Mr. Brightside dei Killers. Ma Eric non sembra dello stesso parere. 

«Sono appena usciti con il nuovo disco e sarebbero perfetti, perché sono famosi ma hanno radici in Oklahoma», spiega Eric. «Suonavano qui spesso, agli inizi. Io non li ho mai visti. Ero troppo giovane, non potevo ancora entrare nei locali».

Mi trattengo di nuovo prima di dirgli che se avesse un minimo di sale in zucca, il primo gruppo dell’Oklahoma che dovremmo trascinare sul palco per il rebranding del locale sono i Flaming Lips. Andrei a cercare Wayne Coyne in ogni buco di bar a Tulsa e lo prenderei per quel mazzo di riccioli che si ritrova finché non mi direbbe di sì. 

            Mentre fantastico su questa possibilità, Eric sembra notare qualcosa nella mia espressione, perché inclina la testa come un cane che sente un rumore che non capisce. «Cosa?», fa. «Non ti sembra una buona idea?».

            Alzo le spalle, ma un sorriso mi si allunga sul viso. «Non sono una grande fan dei Kings of Leon».

            Lui si mette a ridere — una risata ampia e profonda che mostra i suoi inspiegabilmente bianchi e perfetti denti bianchi da americano. «Okay, be’, facciamo così, Mata Hari. Una per te, una per me. Puntiamo ai Kings of Leon per la prima sera della stagione, e la prossima volta a un gruppo storico dell’Oklahoma che vuoi tu».

            Annuisco cercando di non arrossire. Mata Hari. Che adulatore. Purtroppo sono suscettibile alle parole smielate dette con l’accento del sud, e perdono qualsiasi cosa alla bellezza. Solo che lui continua a fissarmi come se dovessi rispondere. 

            «Cosa?» chiedo. 

            «Un gruppo storico dell’Oklahoma», ripete. 

            Oh. Mi sta interrogando. 

            «I Flaming Lips», rispondo subito. «Vorrei i Flaming Lips».

            Lui sorride di nuovo tutto a sinistra. La mia risposta sembra convincerlo. «Sapevo che avremmo fatto grandi cose insieme». Apre un cassetto e tira fuori un grosso raccoglitore. «Qui ci sono tutti i contatti di agenti, manager, giornalisti, influencer, qualsiasi indirizzo email e numero di telefono che possa servirti». Sbatte la manona sulla copertina. «Vammi ad acciuffare i Kings of Leon, e poi conquistiamo i Flaming Lips. Nelle prossime settimane, cerca di chiamare una manciata di gruppi per suonare durante la prima stagione. Ora fatti un giro per il locale, vedi che gente c’è. Dopo la serata, se vuoi, facciamo un giro sul mio pick-up e ci fumiamo questa canna. Benvenuta in Oklahoma». Mi fa l’occhiolino, che immagino sia la mia battuta d’uscita. E vorrei non essere così patetica, ma riesco a malapena ad alzarmi per l’ansia, una roba che non provo da quando alle medie la preside mi faceva chiamare per dirmi che i miei erano venuti a prendere perché mia sorella doveva andare all’ospedale.

Mi piacerebbe sembrargli Mata Hari, ma quando mi alzo in piedi mi tremano le ginocchia e spero di non lasciare una chiazza di sudore sulla sedia davanti alla sua scrivania. 

Primo giorno di lavoro e sono già nei guai. 

Il The Rattery è grande, ma è completamente foderato di legno chiaro e sembra più una stalla che un misto tra un bar e una sala concerti. Alla parete sono appese targhe e fotografie autografate di cantanti country che non conosco o che forse avrei preferito non conoscere: Qui è dove Garth Brooks ha fatto i primi passi della sua carriera, dice una targa dorata dall’aspetto solenne. Un Kid Rock strafatto mi sorride da una foto autografata in cui schiaffa la mano sul culo di Sheryl Crow. Mio Dio.

«Non male, eh? Il peggio del peggio», fa una voce alle mie spalle. Appartiene a un tizio sui quaranta che sembra un misto tra Kid Rock e Rob Zombie, con i capelli biondo sporco lasciati lunghi sulle spalle, una maglietta del film Halloween di Carpenter, e una manciata di denti piccoli e affilati con cui fatico a immaginare che riesca a masticare, considerato che gliene mancano parecchi. Non mi sorprenderei se fosse il nostro primo cliente della serata, pronto per la sua lattina di birra chiara (il giovedì a quanto pare c’è una promozione: tre Bud Light per sette dollari), ma in mano tiene una felpa arancione che dice SICUREZZA e capisco subito che questo misto di Kid Rock e Rob Zombie è nientemeno che un collega. 

            «April», gli dico, porgendogli la mano. «Sono la nuova manager».

            «L’inglese», risponde, e mi chiedo se stia calcando l’accento del sud. «Benvenuta. Sono il capo della sicurezza e l’organizzatore della serata quiz il martedì. Mi chiamo Alex. Alex Turner, non Trebek», aggiunge, e aspetta la mia reazione. 

            Ovviamente non capisco la battuta. Trebek? E questo tizio davvero mi vuol far credere che si chiama Alex Turner?

            «Ti chiami Alex Turner?», chiedo allora, pensando a Jacob Reaver detto River dei River Banks e tutti i miei connazionali e clienti del Cold Blood che se potessero ergerebbero un monumento in marmo del cantante degli Arctic Monkeys in mezzo a Trafalgar Square. «Stai scherzando?». 

            Lui alza le sopracciglia. «No. È il mio nome. Non Trebek». Scuote la testa, come se fossi la prima persona al mondo a non aver capito la sua battuta indiscutibilmente brillante. «Non sai chi è Alex Trebek?».

È il mio turno di scuotere la testa. 

«Io organizzo la serata quiz. E Alex Trebek era il conduttore di Jeopardy», risponde. 

«Uh-uh», dico. «Non ho presente».

Lui mi guarda. Io lo guardo. Nessuno dei due apre bocca.  

«Be’», conclude, e fa per andarsene. «Auguri».

Rimango lì ferma davanti alla stupida targa di Garth Brooks e la foto di Kid Rock con Sheryl Crow e penso di dire qualcosa per non farmi detestare più di quanto non abbia già fatto. 

«Ti chiami Alex Turner», gli dico. «Come il cantante degli Arctic Monkeys».

Lui si volta per un attimo. «Uh-uh», dice, imitando il mio accento. «Non ho presente». 

Che cazzo. 

Ondate di ragazzini. 

Anche al Cold Blood venivano diciottenni mascherati da venticinquenni, e le ragazze tra i ventidue e i ventitré erano sicuramente le prede più ambite dai trentenni in jeans skinny e giacca di pelle col capello lunghino a mo’ di Julian Casablancas. Ma gli avventori del The Rattery sembrano anche più piccoli, forse perché non si nascondono dietro la pretesa del look alternativo. I nuovi giovani americani non sembrano interessati a sembrare diversi. Le ragazze sono rigorosamente bionde, con la pelle che brilla sotto gli strati di illuminante, e indossano jeans larghi, spesse scarpe da ginnastica e top elaborati che mettono in mostra piercing all’ombelico e tatuaggi più o meno già visti: simboli dell’infinito, rondini e stelline. I ragazzi hanno lo stesso look, fatta eccezione per le t-shirt e le felpe dell’università o degli Oklahoma City Thunders e i cappellini da baseball calati in testa. Tutti hanno in bocca una di quelle orrende sigarette elettroniche che, invece di dare al locale il classico puzzo di tabacco stantio come Dio comanda, riempiono l’aria di nuvole al mentolo e schimicate ai frutti di bosco. 

In questo contesto, io me ne sto seduta al bancone ad approfittare dell’offerta tre Bud Light per sette dollari, fingendo di non essere una di quelle inglesi che sanno bere cinque IPA di fila senza vomitare. C’è una sola IPA disponibile al The Rattery, e la barista, una ventitreenne con la maglietta di Taylor Swift e un rossetto color fragola, mi spiega che è roba pesante. 

«Si chiama F5», dice, mostrandomi la lattina verde su cui è disegnato un tornado. Poi, probabilmente perché sono qui da sola e con i miei jeans skinny neri, gli stivaletti a punta e la mia camicia extralarge leopardata a maniche corte sembro probabilmente una lesbica dei primi anni duemila finita qui per caso, la barista cerca di fare amicizia e mi spiega un po’ di roba sui tornado, sul fatto che in Oklahoma ci siano tra i peggiori di tutto il paese; e continua a parlare, mi dice del film Twister, che è stato girato proprio qui intorno, e poi mi racconta che questa IPA locale si chiama F5 perché un tornado Forza 5 fa i danni peggiori. 

«La lattina è verde perché il cielo diventa verde poco prima di un tornado», aggiunge mentre apre uno di quei seltzer alcolici alla frutta per una ragazza con la t-shirt della University of Oklahoma. Ascolto cercando di non fissare la pista da ballo, dove una trentina di giovani si sono buttati in una danza orripilante, che a quanto pare, mi dice la barista, si chiama two-step. Non l’ho mai vista prima dal vivo, forse solo in un film western che sarebbe potuto piacere a mio padre o una commedia romantica dei primi duemila in cui Reese Witherspoon o qualsiasi altra bionda torna nella città natale del sud per innamorarsi di un rude cowboy dal cuore d’oro che la conquista senza molte parole, ma con mosse di danza ineccepibili. Dal juke box arriva una canzone di country contemporaneo che non ho mai sentito prima, una roba disgustosa con l’autotune che non ha niente a vedere con la spensierata nostalgia di Johnny Cash o Willie Nelson.

Alex Turner, non Trebek, è in piedi ai margini della pista e si guarda intorno masticando uno stuzzicadenti con la voracità di chi vorrebbe passare l’intera serata fuori a fumare. A quanto pare, la politica per consumare tabacco è di uscire, ma le nuvole chimiche delle sigarette elettroniche sono perfettamente accettabili anche dentro. Alex non mi ha ancora rivolto un’occhiata dopo il nostro magico incontro di completa incomprensione culturale, e sto giusto cominciando a chiedermi cosa cazzo sia venuta a fare in un posto del genere e come possa trasformare questo locale in un tempio del rock indipendente, quando sento un urlo e un trambusto generale alle mie spalle, proprio dalle parti del juke box. Alex Turner, non Trebek se ne accorge prima di me e parte in automatico, diretto verso la fonte del dramma — e io non posso fare a meno che seguirlo, interrompendo la barista e i suoi tornado con la scusa di far parte dello staff e dover quindi risolvere l’emergenza.       

Mi porto dietro la mia Bud Light che sa di piscio per godermi la scena di una ragazza magrolina con una nuvola di capelli neri mentre prende a calci il juke box che ancora si ostina a trasmettere la canzone inascoltabile di cui scopro il titolo, Honey Bee di Blake Shelton — da mettere in una playlist intitolata, roba da non ascoltare mai. 

Alex Turner, non Trebek si precipita ad afferrare la ragazza facendosi strada tra gli amici di lei, che ridono e la incoraggiano. Le dice qualcosa che non afferro, quindi mi avvicino ancora. Gli occhi della ragazza sono grandi e gialli e le pupille sono gonfie come palloncini. 

«E dài», protesta lei, «seriamente mettete roba così al The Rattery?».

Non potrei essere più d’accordo. 

«Tesoro, non ha importanza che ti piaccia o no», ribatte Alex. «Se ci spacchi il juke box non ascoltiamo niente di niente».

«Meglio di questa merda qua», risponde lei, e molla un altro calcio. 

I suoi amici, tutti rigorosamente maschi, ridono. 

Alex fa un passo in avanti. «Se lo fai un’altra volta mi trovo costretto ad accompagnarti fuori».

La ragazza lancia un’occhiata ai suoi amici, prende un sorso del suo seltzer alcolico e poi accartoccia la lattina. Non è acconciata diversamente dalle altre tipe che si dimenano sulla pista, con un top bianco attillato e un paio di jeans larghi, ma ha un corpo sottile e fibroso e lo sguardo di chi non si farà proprio buttare fuori da nessuno. «È tutta la sera che sento solo musica country o Taylor Swift. Non riesco nemmeno a trovare la mia band nella lista».

«Okay», fa Alex. «Scegli una canzone e aspetta il tuo turno come tutti gli altri».

«Ma non c’è la canzone che voglio!».

«Chandra, lascia perdere», interviene un suo amico, un bel tipino col viso pulito che probabilmente se la scopa o se la vuole scopare. Le mette un braccio intorno alla vita. «Lo sai che il The Rattery è diventato squallido».

«Ma non lo era!», insiste lei, e per enfatizzare la sua frustrazione comincia a dare grosse pacche sullo schermo del juke box. «E i The Chakras sono il miglior gruppo di tutta Oklahoma City! Come potete non —».

«Mai sentiti», risponde Alex, poi le afferra il braccio. «Tesoro, stasera hai bevuto abbastanza. Devi andare».

Solo allora mi avvicino al punto che Chandra e i suoi amici si voltano con l’espressione di chi vorrebbe proprio sapere cosa cazzo voglio. E in realtà non lo so nemmeno io, ma la manager che risolveva ogni singola richiesta assurda dei gruppi al Cold Blood salta improvvisamente fuori dalla ragazza inglese confusa in mezzo a questa massa di campagnoli. 

«Okay, okay», comincio. «Ti capisco. Questa roba fa schifo pure a me», dico, anche se la canzone di Blake Shelton è finita da un pezzo per sfumare in una altrettanto smielata. La ragazza mi guarda strizzando gli occhi, come se volesse interpretare il mio accento o almeno capire cosa voglio da lei. Le porgo la mano. «Sono April, la nuova manager del The Rattery. Mi hanno chiamato per aiutare a ritrovare la grinta rock ‘n’ roll di un tempo».

Chandra lancia un’occhiata trionfante ad Alex e lui tende la mascella mentre le lascia il braccio. 

1Ce n’è bisogno», mi dice Chandra, e per un secondo sembra farsi più tranquilla. 

«Quindi hai un gruppo?», le chiedo. «Che genere fate?».

I suoi occhi tornano a farsi grandi e lucenti e sono sicura che sia fatta di qualcosa, ma non sono sicura cosa. Data la mia esperienza con le band al Cold Blood, direi coca. 

«Sì, sono la cantante dei The Chakras», indica il tipino col viso pulito, che deve far parte del gruppo. «Siamo un gruppo queer, alternativo, poliamoroso, un po’ elettronico, un po’ rock ‘n’ roll, con punte sperimentali e derive spirituali», risponde, qualsiasi cosa voglia dire, e mi sembra che si sia preparata questa formula e abbia imparato a recitarla ogni volta che qualcuno le fa questa domanda. In mezzo al suo petto, sopra la scollatura del top, scorgo un tatuaggio con simbolo del chakra nella mano. Il nome del gruppo non è granché, ma lei sembra esattamente il tipo di cantante che avrei invitato al Cold Blood. Ha il piercing alla lingua e l’aria di una che ha visto cose, forse non sempre belle. Come me.

«Bene, Chandra. La prossima settimana faccio un po’ di selezioni per i gruppi che vorrei suonassero questa stagione. Che ne dici di lasciar stare il nostro juke box ma presentarvi da me?». 

Lei alza un sopracciglio e un angolo della bocca, e il suo amico col viso pulito le stringe un polso, tutto eccitato. Sento addosso lo sguardo di Alex che mi studia. Do il meglio di me, quando devo calmare un cantante petulante dall’ego tanto gonfio quanto fragile. 

«Chi l’avrebbe mai detto che avrei ricevuto un invito a un’audizione per aver preso a calci un juke box», mi dice Chandra con tono di sfida. 

Non attacca. «Già», rispondo, tirando fuori il cellulare per prendere il suo numero. «Sei una vera rockstar».

Un uomo, lo so per esperienza, non avrebbe percepito il sarcasmo. Lei sì. Pianta gli occhi nei miei e io le sparo lo stesso sorriso di sfida che mi ha appena indirizzato lei. «Quindi, rockstar, comportati bene e forse ti troverai proprio lì». Indico il palco vuoto oltre la pista da ballo. «Sennò nulla».

Chandra apre bocca, ma esita per un attimo. «D’accordo», ammette alla fine. «Ho un disturbo dell’attenzione. A volte mi prende così».

«Sì, e chi te l’ha diagnosticato? Il tuo spacciatore?», interviene Alex. 

Io alzo una mano per farlo stare zitto prima che Chandra si irriti di nuovo. «Dammi il tuo numero, rockstar».

Chandra ignora Alex, come se fosse completamente invisibile, e con voce flautata mi detta ogni cifra del suo numero come un segreto. Quando ha finito, però, si volta verso di lui. «Così è come si trattano i clienti», gli dice, con un sorrisone. «Io sono la cantante di un gruppo rock che sta per far saltare in aria Oklahoma City, e tu sei solo un miserabile buttafuori coi capelli unti e i denti marci che guadagna otto dollari l’ora».

Faccio un lungo sospiro e chiudo gli occhi. Quando li riapro, Alex sta accompagnando Chandra e i suoi amici fuori dal locale. Lei sghignazza come una maniaca mentre Alex mi lancia uno sguardo e scuote la testa, deluso come se gli avessi detto che la sua battuta su Alex Trebek non fa ridere proprio per niente. 

A fine serata, Eric mi sta aspettando in piedi appoggiato al suo pick-up scuro, la canna in mano e il sorriso piegato sui dentoni bianchi e perfetti. È una notte placida, e una brezza leggera asciuga tutto il sudore provocato dall’umidità del The Rattery. «Pronta, Mata Hari?».

Non aspetta che risponda e si volta per abbassare il lato più corto del retro del pick-up. Ha addosso la stessa t-shirt bianca di prima, che mostra i suoi muscoli tendersi quando lascia che la lastra d’acciaio scivoli giù. «Ti farei sedere di fianco a me, ma non posso permetterti di arrivare in Oklahoma senza costringerti a fare una girata sul retro di un pick-up». Si volta e mi fa uno dei suoi occhiolini da cowboy americano che sa benissimo cosa (mi) sta facendo. «Monta in sella», dice, e mi porge la mano per aiutarmi a salire. Io eseguo, poi chiude il letto del pick-up. «Quando parto, chiudi gli occhi e ricordati: non c’è niente che possa andare troppo male se ti siedi sul retro di un pick-up in corsa, accarezzata dal vento tutto matto dell’Oklahoma». 

Mi fa ridere.

            Oh mio Dio, penso. Ho appena riso. A bocca aperta, con l’aria che mi sfuggiva dalla gola, un’espressione di gioia che non sono riuscita a fermare. Con il capo non lo facevo mai. 

            «Sei proprio un incantatore», gli dico, e lui finge di spararmi con due pistole fatte con il pollice e l’indice di entrambe le mani. 

«Divertiti», mi dice, e monta in macchina. 

Mette in moto e sento la potenza del pick-up sotto di me, la città che comincia a sfilarmi intorno coi suoi mattoncini rossi e gli edifici alti ma non troppo perché con tutti questi tornado non si sa mai. Guardo il The Rattery con la sua insegna d’oro e il cartellone bianco che dovrebbe elencare i gruppi delle prossime serate — è vuoto, ma ancora per poco. Li lascio alle spalle col vento che mi frusta i capelli sudati sul viso, rivolta verso questo nuovo mondo che mi esplode intorno per scacciare quello vecchio: 

1. Il capo e sua moglie che raccolgono i cocci del loro matrimonio

2. Jacob Reaver che si lamenta del microfono

3. I miei che mangiano pollo e riso

4. Le volpi con i topi morti in bocca

Mi lascio tutto questo alle spalle, non mi sono mai sentita così e per una volta non ho playlist adatte: sono nuova, intera, in ginocchio sul retro del pick-up di un americano biondo che continua a farmi sorridere. 

Eric accosta in un punto imprecisato appena fuori da Oklahoma City, in campagna. Spegne il motore e scende di macchina, gli stivali da cowboy che scricchiolano sullo sterrato. Siamo solo io e lui, le luci della città ormai lontane. La stradina polverosa somiglia a quella appena fuori dalla baita dove dormivo al ritiro per la gestione del lutto, e cerco di tenere gli occhi bassi per non guardarmi intorno e ricordare della dodicenne confusa e sola che ero. 

Magari dovrei pure aver paura. Ho visto troppi documentari su omicidi e serial killer americani per non sentire un formicolio di ansia addosso. Ma Eric si arrampica sul retro del pick-up e si siede di fianco a me, e forse quest’ansia che provo non è del tutto spiacevole.  

            «Allora?», chiede, e si sfila la canna da dietro l’orecchio. Nel silenzio totale sento il suo respiro e il calore del suo corpo accanto al mio. Accende la canna, ma me la passa per lasciarmi fare il primo tiro. 

            Neanche a dirlo, è l’erba migliore che abbia mai fumato. Dritta dal negozio, confezionata dopo essere stata coltivata amorevolmente nei campi californiani.  

            «Allora che?», chiedo, mentre l’erba mi scioglie i pensieri. Non voglio dargli l’impressione di pendere dalle sue labbra, perché Eric sa bene quello che sta facendo e sa pure che lo so anch’io. E la verità è che non so come comportarmi quando a qualcuno sembro piacere davvero. Non che sia mai successo. 

            Lui ride. «Allora che? È la tua prima volta sul retro di un pick-up. Non ti sorprende proprio niente, eh, Mata Hari?».

            Alzo lo sguardo su di lui. Riesco a vedere il suo sorriso tutto spostato di lato anche nel buio. «Sono felice», rispondo, ridendo, e anche se lo sto solo prendendo in giro, quelle parole hanno un sapore strano nella mia bocca. «È questo che vuoi sentirti dire?».

            Lui prende un lungo tiro e trattiene il fumo nei polmoni, strizzando gli occhi. Poi lascia andare. «Eddài. Lo so che sei la ragazza inglese troppo figa per noi poveri contadini, ma lasciati sorprendere». Alza un dito verso il cielo. «Scommetto che le stelle non si vedono così a Nottingham», e ha ragione.

            Quando guardo in alto, mi ricordo della notte in cui non riuscivo a dormire sulla mia brandina nella baita durante il ritiro, quando la limpidezza delle stelle mi aveva disturbato, come se potessero restituire lo sguardo e vedermi, aprirmi ed esaminare tutto il subbuglio che avevo dentro dopo mia sorella.

            Ora è lo stesso. Le stelle chiare e luminose mi inquietano. Non so cosa c’è, lassù.

            «Che c’è?», chiede Eric. 

            Alzo le spalle. «In realtà non è la mia prima volta in Oklahoma», rispondo, e non riesco a credere che glielo sto dicendo. Non l’ho mai detto a nessuno in tutta la mia vita. 

            È la canna, mi dico; è l’erba che mi scioglie e mi confonde. 

            «Davvero? Non ci credo, Mata Hari. Tutte queste manfrine, e viene fuori che hai già fatto un giro sul tuo primo pick-up con un altro stronzo».

            Rido. «No, no. Ero piccola». 

            Lui si fa più vicino. Sa di fumo, dell’odore di chiuso del nostro ufficio, del legno bagnato di birra del The Rattery. 

            «E che ci faceva una bambina inglese nelle campagne dell’Oklahoma?», chiede.

            Glielo dico. Ma non gli racconto della malattia, di tutte le notti in ospedale a Nottingham, dei sintomi più dolorosi o dei miei genitori. Non ho ancora trovato le parole giuste per parlare di tutto questo neanche con me stessa. Quindi gli racconto del mio ricordo più vivido in Oklahoma: la notte del coyote. 

            «E mi guardava con gli occhi di chi ha davvero fame», gli dico alla fine, tra una boccata di canna e l’altra. «Di chi ha bisogno. E ho pensato a lei, a mia sorella. Mi sono chiesta se quando era malata avesse mai avuto la forza di sentirsi così. Sul ciglio del burrone».

            Appoggio la mano sotto di me. Il letto del pick-up è freddo, seminato di polvere e pezzettini di legno. Eric guarda in alto, verso le stelle, appoggiando la testa contro il bordo del pick-up. 

«Forse non mi ha attaccata perché ha riconosciuto in me la stessa… boh, paura», continuo. «La stessa fame e lo stesso vuoto».

Non so perché gli sto dicendo tutto questo, ma forse in fondo sì, e quando ho finito, Eric non si scompone. «Mio nonno è stato spazzato via dal tornado forza cinque del 2013», dice, come se mi stesse raccontando di aver fatto benzina. «È sopravvissuto, ma non è mai stato lo stesso». Poi si volta verso di me e fa il sorriso tutto di lato. La sua faccia mentre me lo dice è come una di quelle canzoni allegre che parlano di cose tristi. Tipo Train in Vain (Stand By Me) dei Clash. Quelle canzoni sono le mie preferite. «È la vita, Mata Hari», aggiunge, e giuro che vorrei chiedergli di più: che significa che suo nonno non è mai stato più lo stesso, se sta bene fisicamente o mentalmente, e se Eric ha una madre o un padre o una nonna o qualcun altro che invece è rimasto. 

Ma non importa, perché lascio la canna sul letto del pick-up, metto una mano intorno al collo di Eric e lo bacio così forte che lo sento annaspare, quasi come se per la prima volta fossi stata io a coglierlo di sorpresa. 

Quando vede Chandra che sale sul palco in pompa magna con addosso un vestitino verde trasparente da cui spuntano i piercing ai capezzoli (e, a dirla tutta, anche le areole piccole e perfette), Alex mi lancia la stessa occhiata rassegnata che mi ha riservato la sera in cui l’ha accompagnata fuori dal The Rattery. Il locale è chiuso per le selezioni dei gruppi, e Chandra con i suoi The Chakras sono i primi a suonare davanti a me, seduta a un tavolaccio di plastica che Eric ha tirato fuori dallo sgabuzzino. Mi sentirei tremendamente importante, se solo non fossi così imbarazzata davanti al look di Chandra. Lo sguardo di ogni maschio presente, che include una trentina di musicisti e i membri della sicurezza, sembra calamitare sui suoi capezzoli. Lei non sembra affatto a disagio. Anzi. 

            La parte di me che mi piace di meno è quella che prova una specie di invidia. Non sono mai stata la tipa che si scandalizza né quella che richiede attenzione, perché l’attenzione di solito mi fiocca addosso senza che neanche provi a ottenerla.

Non stasera. 

            «Luce e amore», comincia Chandra con voce suadente. Ha gli occhi semichiusi, forse un effetto di un’altra droga o una mossa da palcoscenico, e continua a mordersi convulsamente le labbra, scoprendo i canini come se fosse una bestia pronta ad attaccare. I membri del gruppo — tutti uomini, fatta eccezione per una tastierista bianca, altissima e magrissima con i rasta, sembrano esattamente i tipi che farebbero parte di un gruppo chiamato The Chakras: hanno l’aria di chi vive di droghe psichedeliche, orge di gruppo, malattie veneree e meditazione. 

            Alex, in piedi vicino alla porta, mastica il suo stuzzicadenti con l’aria di chi ha ascoltato i Metallica per tutti gli anni Ottanta e non si è ancora mosso di lì. Oggi ha addosso una maglietta dei Megadeth e i capelli non sembrano essere ancora stati lavati dal weekend appena passato. O magari, lavati o meno, hanno ormai raggiunto questo stato di untuosità permanente. 

            I The Chakras suonano un paio di pezzi, un misto tra il sound dei Modest Mouse degli inizi e gli Animal Collective dei primi 2010, e Chandra ha una bella voce profonda alla Florence Welch. Sono tutti bravi, compreso il tipino col viso pulito che si è portato dietro una Stratocaster scalcinata che ha tutta l’aria di essere un pezzo vintage, ma Chandra è ovviamente la vera star. Si muove sul palco e intorno ai suoi musicisti con l’aria di una che non solo si lascia scivolare l’attenzione morbosa addosso — la pretende. E, noto, bacia con la lingua sia il chitarrista che il bassista, e si struscia addosso alla tastierista stangona con un dolce rollio dei fianchi. 

            Ogni tanto, tra le pause strumentali, Chandra tira fuori la sua sigaretta elettronica e ne prende una lunga boccata che poi rilascia in una nuvola densa da cui risorge come Charlize Theron nella pubblicità di un profumo, con la sicurezza di chi è già alla notte della loro prima esibizione al The Rattery. Ci avevo visto giusto. I musicisti intorno a noi sono rapiti. L’unico che non sembra convinto è Alex Turner, non Trebek, che getta via il moncone di stuzzicadenti rimasto e se ne mette subito in bocca un altro. 

            Sono brava, penso. L’ho vista subito, Chandra, mentre tirava calci al juke box. Le altre band che ho invitato sono nomi che ho visto in giro sui social media o che ho trovato nel raccoglitore che mi ha dato Eric, ma i The Chakras sono una scoperta. Li avrei invitati al Cold Blood di sicuro, senza ammettere nessuna protesta del capo. Il quale avrebbe comunque lanciato un’occhiata a Chandra e avrebbe detto sì. 

            Quando il gruppo finisce e il secondo comincia a prepararsi sul palco, Chandra volteggia dritta verso di me. «Allora, baby?», mi fa. «Non male, eh?».

            Io sorrido, pronta ad attuare la mia strategia, come facevo con Jacob Reaver detto River dei River Banks e con tutti i cantanti egomaniaci che passavano dal Cold Blood: fargliela annusare. «Sì, non male, dài». Fingo di non trovare le parole, e i tratti del viso di Chandra sembrano liquefarsi per un secondo. «Okay, rockstar. Fammi andare a fumare una sigaretta e ti dico che ne penso, d’accordo?».

            Il sorriso di Chandra è scomparso, e lei continua a contrarre la mascella scoprendo i canini come faceva sul palco. Mi alzo dal tavolino sbilenco mentre i tecnici assistono il secondo gruppo, cinque maschietti bianchi in pantaloni stretti e giacche di pelle che potrebbero venire scambiati per una manciata qualsiasi di membri dei Kasabian, Franz Ferdinand, o Cage the Elephant. L’indie rock sa essere così prevedibile, a volte. È chiaro che i The Chakras sono i più interessanti; lo so io come lo sanno tutte le altre band, e come soprattutto sa Chandra. 

            «Stai scherzando, spero», mi trattiene Chandra prima che esca dal locale. 

            Io mi volto con un sorrisone dipinto in faccia. «In che senso?».

            «Se non ci selezionate siete dei deficienti», risponde. Non ha più gli occhi semichiusi come sul palco — si morde le labbra finché non vedo una macchiolina di sangue fiorirle su quello inferiore. Non so esattamente che droghe si faccia questa, ma le voglio provare tutte.  

            Non rispondo e le faccio l’occhiolino, poi mi volto e mi dirigo verso Alex. 

            «Hai una sigaretta?», gli chiedo, e lui mi segue fuori subito, non tanto perché gli stia simpatica, quanto per avere finalmente una scusa per fumare. 

            Ci lasciamo l’umidità del locale alle spalle per tuffarci in quella di Oklahoma City. Oggi non c’è neanche un refolo di vento tra i palazzi, e i capelli mi si appiccicano al collo. 

            «Stai giocando con la tipa sbagliata», fa Alex, passandomi una Newport. 

            «Mmm?». Il fumo mi avvampa nei polmoni. 

            «L’hai vista l’altra sera. L’hai vista oggi. Chandra è matta in culo».

            «Se fosse un uomo non lo diresti». 

            Lui scuote la testa. «No, invece direi esattamente lo stesso. L’ho già fatta la roba che si fa lei. Hai notato questi?». Si indica i denti, e non so se dirgli sì o no. Se gli dicessi sì ci rimarrebbe male, ma un no significherebbe mentirgli. Lui capisce immediatamente quello che sto pensando. «Esatto, li hai notati. Non perdi metà denti a quarant’anni perché mangi troppe caramelle e non vai dal dentista».

Mi schiarisco la voce, sentendo il fumo che mi sfrigola nei polmoni.

«Sei la manager. Sai tu cosa fare. Non voglio dirti come fare il tuo lavoro, ma…». Alza le spalle. «Chandra ha una reputazione da queste parti. Ha due bambini con due padri diversi, di cui uno è in galera. Fino all’anno scorso lavorava allo strip club sulla statale, e un giorno uno dei tizi che si scopava ha afferrato uno dei suoi figli, neonato, e l’ha strapazzato. Così». Finge di scuotere qualcosa nell’aria. «Adesso quel povero bimbo è strabico. E lei continua a farsi e scoparsi gli spacciatori. O chiunque passi sulla sua strada».

Ci avevo visto giusto anche su questo: Chandra ha visto cose brutte. Sicuramente più brutte delle mie. Quando Alex mi dice tutto questo penso a mia sorella, al terrore di vedere un bambino perdere tutta la gioia. 

Il dolore è, come al solito, una catena di eventi e ricordi che sotterro ogni giorno attraverso la musica e il mio lavoro: rivedo la mia solitudine di fianco a mio padre che grida contro la TV e mia madre che affoga i polli nella mostarda, il sorriso della moglie del capo trasformato nell’espressione più incattivita e terrificante che abbia mai visto, e poi io, impacchettata su un aereo, spedita dall’altra parte del mondo. Tutto quello che so adesso di Chandra mi fa venire voglia solo di entrare, chiederle di suonare, e dirle che stavo solo scherzando, certo che li vogliamo.

«Okay, be’», rispondo, e spengo la sigaretta sotto la suola della scarpa. «In tutto questo, l’unico stronzo a cui non offrirei un contratto è il tipo che le ha shakerato il bimbo come un margarita. Chandra mi sembra solo una poveraccia. E il suo gruppo spacca».

Alex scuote la testa. «Va bene, va bene. Dammi pure dello stronzo sessista. Non è perché è una donna», dice. «È perché è una tossicodipendente disperata. Fidati. Non ti puoi fidare dei disperati». Poi apre bene la bocca per mostrarmi i pochi denti rimasti e le gengive annerite. «Se non lo fossi stato anche io, adesso non sarei ‘un miserabile buttafuori con i capelli unti e i denti marci che guadagna otto dollari l’ora’. Sarei il cantante di un gruppo metal e cagherei in testa a quei froci dei Greta Van Fleet». 

Quando si volta per andarsene non posso fare a meno che sentirmi di nuovo in colpa. 

Che schifo. Da quando sono in Oklahoma, non ho fatto altro che sentire. 

Quando rientro, Chandra è seduta al mio posto al tavolo sbilenco che mi ha dato Eric. Mi avvicino e mi schiarisco la voce. 

            «Devo alzarmi?», chiede, con la solita aria di sfida.

            «Prego», le dico. 

            Lei lo fa di malavoglia. «Quindi», comincia, ma io la interrompo. 

«Chandra, ascolta, il tuo gruppo mi piace. Siete interessanti e tu ti muovi bene sul palco. Ma —».

            «Ma cosa?», m’interrompe. Ha gli occhi ancora più vitrei di prima. Deve aver fatto un rinforzino mentre ero a fumare. «Cosa ne sa una trentenne inglese che ascolta ancora i Gorillaz?».

            Ouch. Questa brucia. 

            «Che hanno di male i Gorillaz?», chiedo, più offesa dal fatto che sia così ovvio che li ascolti. 

Non fa in tempo a rispondere, perché Eric entra nel locale e per un attimo mi distraggo.  L’altra sera ci siamo baciati sul retro del suo pick-up finché non si è fatto giorno, e poi ancora e ancora le notti successive, ma quando ha provato a infilarmi la mano nelle mutandine, mi sono irrigidita. 

Lo so che non ha una moglie, e so anche che il capo del Cold Blood era diverso. Non ci provava nemmeno, a farmi ridere. Eppure. 

Ora Eric indossa una delle sue t-shirt bianche e i jeans scuri e gli stivali e come al solito quando lo vedo mi sento precipitare a terra.

Chandra si volta, segue il mio sguardo, ed Eric mi saluta col suo sorriso enorme e sbilenco fatto di dentoni perfetti da bimbo. 

«Ehi, straniera», mi dice, avvicinandosi al tavolo, e mi sfiora la mano con le dita. «Mi sembra che le selezioni stiano andando alla grande».

Il fatto che mi abbia anche solo toccato la mano davanti a tutti mi fa formicolare. Come se non se ne vergognasse e non ci fosse niente di segreto. 

«Sei tu il capo?», gli chiede Chandra. La sua voce è tornata quella suadente da esibizione. Non aspetta che Eric risponda. «Abbiamo appena fatto l’audizione e abbiamo spaccato».

Lui mi lancia un’occhiata, e io gli sorrido. «Bene, mi fa piacere», le dice. 

Chandra tira indietro la testa, e la nuvola di capelli neri lisci le ricade sulle spalle. «Peccato per te che te la sei persa». 

Lui si gratta la nuca, arrossendo leggermente, poi tira fuori la canna da dietro l’orecchio. Mi sembra a disagio per la prima volta da quando l’ho conosciuto. «Be’», dice, balbettando leggermente. «Mi affido a April», e senza voltarsi se ne va a grandi passi verso l’ufficio. 

A ogni suo passo che si allontana, il mio cuore sembra tornare a battere regolarmente. Sento il sudore che cola sulla pancia e abbasso lo sguardo sulla lista di band che si esibiranno, cercando di concentrarmi su quello che devo fare. 

Ma Chandra torna a rivolgersi a me. «Carino lui. Ottima mossa, baby», mi dice. 

Per un attimo vorrei non starmene seduta al tavolo mentre lei mi guarda dall’alto. Mi sento piccola, racchiusa nel mio imbarazzo. Apro la bocca per ribattere, ma lei fa prima. 

«Tranquilla, ci vedo lungo per queste cose», dice. «Siete fatti l’uno per l’altra».

Mi devo ricomporre, tornare a parlare di musica e non di Eric. «Okay, be’. Come ti dicevo, stiamo cercando di fare le cose in grande. Vogliamo riportare il The Rattery alla gloria rock ‘n’ roll di un tempo. Sai, quando non c’era solo questa roba country con l’autotune e le canzoni di Taylor Swift».

            «È esattamente quello che voglio io», risponde, annuendo, e tira una lunga boccata di sigaretta elettronica. 

            «Ma come ti ho detto, stiamo puntando in alto».

            «Tipo?».

            Io mi avvicino. «Il mio capo vuole i Kings of Leon».

            Lei apre la bocca in un grosso sorriso. «Stai scherzando? Hai detto che lui», fa un gesto che dovrebbe indicare Eric, ormai andato da un pezzo. «Lui vuole i Kings of Leon?». Annuisco, e a quel punto è lei ad avvicinarsi. «Ti piace, eh?».

            Cerco di non andare a fuoco. Non ho idea di cosa rispondere. 

«Okay, allora», continua. «Da donna a donna». Si china per guardarmi bene negli occhi, e quando lo fa almeno due o tre tizi tra tecnici e musicisti si voltano a guardarle il culo. «Se ce li fate aprire, ti porto almeno uno dei Kings of Leon per un concerto acustico segreto. E tu fai una bella figura col tuo principe azzurro».

Ignoro il commento su Eric. «Sei seria?».

            Lei sorride. «Come un attacco di cuore».

            «E come pensi di fare?». 

            «Ogni uomo passato dall’Oklahoma farebbe di tutto per le spogliarelliste dello strip club sulla statale», mi dice. «Non sottovalutare il potere di due donne che si uniscono per prendersi quello che vogliono».

            Le porgo la mano. Lei finge di sputare sulla sua, al che la imito per stringerla. 

«Non lo farei mai, rock star», rispondo, e lei sorride con quegli occhioni tondi pieni di metanfetamine.  

            E così becco i The Chakras, e pure i Kings of Leon. 

La sera delle selezioni Eric mi dice che ha una sorpresa per me. Io ho deciso di non dirgli niente dei Kings of Leon finché non sono sicura al cento per cento che ci stiano, quindi faccio finta di niente mentre apre due PBR e me ne passa una. Siamo di nuovo nel suo pick-up, e stavolta sono seduta di fianco a lui, con una canzone di Tyler Childers che irrompe dallo stereo.

«Dove mi stai portando?», gli chiedo. 

Lui prende un sorso di birra. «Aspetta e vedrai», dice, e come al solito la destinazione è un classico buco in campagna, in mezzo al nulla, dove potrebbe succedere di tutto. Il silenzio tra gli alberi di ginepro e di cedro, interrotto solo dal fischio del vento che ci ricorda della minaccia incombente dei tornado, è esattamente lo stesso di quando ero qui l’ultima volta. Ogni sera, piano piano, l’Oklahoma si schiude, i ricordi che sembrano sciogliersi. Da adulta le cose sono diverse: ci sono metanfetamine, spogliarelliste, nonni travolti da tornadi, padri in galera, bambini strabici e pistole. Ma ci sono anche biondi di un metro e novantacinque che scendono di macchina per aprirmi lo sportello e farmi scendere, e una roba del genere mi fa sopportare persino i Kings of Leon. 

Quando scendiamo, siamo in una radura. Eric afferra un piccolo oggetto che somiglia a un megafono e si posa un dito sulle labbra per dirmi di fare piano, poi ci sediamo uno accanto all’altra nel letto del pick-up. Mi stringe la mano e aziona il megafono che amplifica un suono registrato: un cane che abbaia e poi ulula — un urlo acuto, disperato, forse una richiesta d’aiuto. 

Mi volto verso Eric e il suo sorriso sbilenco. «Volevo portarti i coyote», sussurra. «Ora dobbiamo solo aspettare».

Così aspettiamo. Rimaniamo così, racchiusi nel buio, in un silenzio tondo e plastico dopo le ore passate a farci assordare al The Rattery. Intorno a noi c’è solo il vento, ogni tanto la chiamata artificiale dei coyote dal suo microfono. 

A un certo punto vedo i primi occhi gialli. Sono piccoli e brillano nell’oscurità per un attimo, come due lucciole. Li vede anche Eric. Aziona di nuovo la chiamata, ma l’animale se ne va subito, come se avesse capito che lo stiamo ingannando. Non ne vale la pena. 

«I nativi americani chiamano i coyote “i cani delle canzoni”, perché ululano più dei lupi e delle volpi. Sembra che cantino», mi spiega Eric. «Di solito non si fanno fregare dai richiami artificiali. Hanno orecchio. Li sanno riconoscere».

Un altro paio di occhi gialli compare nel buio, in lontananza. Si muovono lentamente, come se il coyote esitasse, un passo alla volta, alla ricerca del nostro richiamo. 

«Se vuoi ci avviciniamo», fa Eric, piano. 

Penso al coyote spelacchiato che si era avvicinato a me quando ero bambina, il modo in cui mi aveva guardato come se volesse dirmi qualcosa. Ero così stupida e confusa da aver davvero pensato che fosse mia sorella. Me ne ero convinta anche nei giorni successivi, quando i preti e gli psicologi volevano farmi pregare o parlare mentre io volevo solo riuscire a esistere senza di lei. Avevo pensato che volesse dirmi: guardati, lì a lamentarti di non riuscire a superare la mia morte, mentre io sono qui fuori al freddo a cercare semplicemente di mangiare. Ogni notte. Ogni giorno. Alla ricerca di quel poco di carne cruda che mi consenta di sopravvivere. Tesa nel pericolo costante di essere catturata da un cacciatore o finire sotto una macchina. Ma tu lamentati. 

Gli occhi gialli si spengono e riaccendono a seconda del modo in cui l’animale muove la testa e il riflesso della luna li colpisce. Ogni volta in cui scompaiono, mi auguro sempre che tornino. Eric scivola contro di me, il suo corpo grosso e caldo che si avvolge attorno al mio come quello di una conchiglia intorno a un paguro nudo. 

Forse siamo pari, adesso, penso. Mia sorella è venuta da me quella notte, e ora io sono tornata da lei. E sì, lo so che in Oklahoma mia sorella manco c’è mai stata davvero, che è stato tutto nella mia testa di dodicenne confusa, che agli animali non importa un fico secco dei nostri stupidi tormenti da umani e che se mi sono svegliata una notte in cui c’era un coyote in mezzo al campo è stata solo una coincidenza, così come è stata una coincidenza finire di nuovo qui in Oklahoma. Devo ricordarmi che è successo sempre tutto per motivi molto terra terra:

1. Mia sorella si è ammalata perché così è la vita. 

2. Quella sera il coyote aveva fame e io ero una ragazzina sola. 

3. Mi sono scopata la moglie del capo e lui aveva un amico che aveva bisogno di me proprio qui. 

Mi ripeto: mia sorella in Oklahoma non c’è mai stata, eppure la sento vicina adesso come l’ho sentita quella notte al ritiro. June, penso. Mia sorella June. 

«June», dico, piano, pronunciando il suo nome ad alta voce per la prima volta da quando è morta mentre fisso gli occhi gialli del coyote che si guarda intorno per cercarci. June. Mia sorella June. «June June June».

«Mm?», fa Eric. 

«Mia sorella», sussurro. «Si chiamava June».

Lui non ribatte. Mi mette il braccio intorno alle spalle. «Vuoi vederlo più da vicino?».

Forse Eric ha ragione e dovremmo avvicinarci. Lasciare che mi trovi, che mi veda con Eric, perché sappia che non sono più sola. Ma so anche che questo è solo un coyote alla ricerca di un richiamo che non verrà più.

«No», rispondo. «Non voglio spaventarlo».

Eric rimane zitto, e dopo un po’ il coyote sembra arrendersi. Trotterella verso il limite del bosco, oltre la radura, ma prima di scomparire del tutto si ferma e un ululato irrompe nel silenzio. Il cane delle canzoni compone un ultimo pezzo per salutarmi. 

La sera dopo aver visto i coyote metto insieme una playlist, la prima dopo post-sesso-col-proprietario-del-locale-dove-lavoro. Scelgo canzoni che ho sentito negli anni e che ogni volta passavo perché erano troppo luride di parole d’amore: Stuck on The Puzzle di Alex Turner, Tender dei Blur, On Melancholy Hill dei Gorillaz, e ovviamente una manciata di ballate smielate degli Arctic Monkeys. Ci ficco qualcosa dei The Kinks perché non voglio fare lo stereotipo della millennial indie rock, e perché a tutti piacciono i loro pezzi assolati da ballare senza pensare ad altro che a quanto profumi la pelle della persona di cui siamo innamorati.  

            Scelgo una ballatona romantica di Noel Gallagher con gli High-flying Birds, poi qualche pezzo più sexy dei Queens of the Stone Age, Mini Mansions, The Kills, e tutte queste canzoni mi fanno pensare che la prossima volta in cui vedo Eric lo voglio finalmente spogliare. 

            Lo so che è il mio capo. Lo so che non dovrei, che l’ultima volta sono finita nei guai. Questa, però, magari non è stata una coincidenza. Forse con Eric andrà meglio, e la mia playlist non sarà un modo per scavare alla ricerca di una me stessa nascosta, ma un modo per condividere tutta quella robaccia nascosta con qualcuno. 

Mentre seleziono le canzoni, il cielo dalla finestra del mio appartamento si tinge di un tenue colore viola; le nuvole si abbassano e si avvolgono intorno agli edifici di mattoncini rossi come sciarpe. Mi alzo per farmi un caffè, fumo una sigaretta alla finestra e guardo fuori, dove ’aria sembra quasi addensarsi. Quando il cielo ti sembra verde, mi ha detto Eric, confermando quello che mi ha raccontato la barista del The Rattery durante la mia prima sera in Oklahoma, vuol dire che c’è un tornado in arrivo. 

In America c’è qualcosa di pericoloso: le pistole appese alle cinture, i coyote nel buio, il cielo che si fa verde e la pressione dell’aria che cambia. Ma per ora l’alba è ancora viola, e non ho più voglia di avere paura.

 Continuo ad aggiungere canzoni alla nuova playlist finché non è mattina, e quando ho le pupille secche e i muscoli del viso troppo stanchi per leggere il titolo di un’altra canzone, mi domando come chiamarla. Niente di complicato, niente di lungo per spiegare una situazione difficile. Scrivo: Eric. Non mi vergogno né provo a soffocare nulla, nasconderlo o fingere che queste canzoni non mi piacciano. Ci ficco Do You Realize?? dei Flaming Lips, e mi chiedo persino se metterci un pezzo dei Kings of Leon. Ma decido che sono andata abbastanza contro la mia natura mettendo insieme un’accozzaglia di canzoni d’amore.  

Quando finisco mi domando se mandarla a Eric, condividerla con lui da lontano perché così non devo vedere il suo viso sciogliersi in una reazione. Decido di aspettare, come con la notizia dei Kings of Leon; scegliere il momento giusto in cui sono sicura di non deludere né lui né me stessa. E non appena scattano le nove, chiamo il numero che mi ha dato Chandra. 

Squilla sette volte, e mi arrendo. Riprovo mezz’ora dopo e poi ancora e ancora, fino a mezzogiorno, quando risponde una voce roca con un accento alla Elvis. 

«Johnnie», dice, senza salutare. Chi cazzo è Johnnie? «Non accetto chiamate prima di mezzogiorno».

«Uh. Okay, grazie per aver risposto alla mia chiamata», esito. 

«Kate?», chiede. Mi domando se sia ancora ubriaco dalla sera prima. «Sei a Londra?».

«Mm. No. Mi chiamo April, sono la nuova manager creativa del The Rattery».

«Okay», dice senza entusiasmo. «Il locale country a Bricktown?».

«Sì. Be’, stiamo… ci stiamo rinnovando. Vogliamo tornare con la grinta rock ‘n’ roll dei primi anni duemila. Abbiamo avuto gli Strokes, gli Eagles of Death Metal, e —».

«Tu non hai avuto proprio nessuno», mi interrompe. «Tyler è a Londra a fare i cazzi suoi. Come minimo sei una barista che ha messo incinta e poi ti ha spedita in Oklahoma per farti stare zitta. Quando suonavano quei gruppi probabilmente eri appena nata. Te lo ricordi l’undici settembre? No, aspetta, rispondo io. No».

Rimango interdetta. Nessuno mi ha mai parlato così a lavoro. «D’accordo», rispondo, cercando di non gridargli di andare a morire ammazzato. So benissimo come gestire i palloni gonfiati. «Le voci più giovani sono quelle di cui posti come il The Rattery hanno bisogno».

Lui rimane in silenzio per un attimo. Poi schiarisco la voce e penso di dargli la botta finale. “Comunque, Chandra mi ha dato il suo numero».

«Chandra?», ripete. 

«Sì», rispondo. «Dello strip club sulla statale di Oklahoma City».

Lui si mette a ridere. «Sì. Ho presente». Poi tira un lungo sospiro. «Vuoi i Kings of Leon, no?».

«Sì, grazie».

«Chandra. Buona quella», dice. «Apprezzo il tentativo. Sul serio. Sembri una che ci tiene. Quanti anni hai, April?».

«Quasi trenta», rispondo. 

 «April di trent’anni. Appena arrivata in Oklahoma?».

«Sì».

«E sei la nuova manager del The Rattery, inglese, vuoi riportare il locale alla gloria rock ‘n’ roll di un tempo e ti sei messa d’accordo con Chandra. Torna tutto?».

«Sì».

Fa un altro sospiro. «Okay».

«Okay, nel senso che mi fa sapere…?».

«No. Okay. Ti mando i Kings of Leon. Due. Nathan e Matthew. Te li mando giù a visitare la nonna in Oklahoma o roba del genere, e vi fanno un concerto acustico segreto per l’apertura. Cosa ne pensi?». 

            Sto per farmela addosso. Mi alzo. «Sta scherzando». Voglio finire la conversazione più in fretta possibile per precipitarmi da Eric ora. Dirgli tutto e saltargli al collo e mettere su la mia playlist e finalmente spogliarlo. 

La telefonata si chiude, Johnnie mi manderà la quota per email, eccetera eccetera. 

Ci siamo, penso. Stasera mi presento al locale con la mia playlist tutta per Eric e gli racconto di Johnnie. Volo nella doccia dove rimuovere ogni pelo in eccesso e strofinare la pelle fino a sentirmi nuova e viva e finalmente pronta. 

Quando Alex mi vede entrare ha metà stuzzicadenti in bocca e mi saluta con un cenno della mano. I ragazzini sono già in pista, tutti in fila a fare il loro stupido ballo su una canzone country uguale a tutte le altre. Fanno rimbalzare i talloni delle scarpe da ginnastica contro il legno della pista, battono le mani in aria e sorridono. E per quanto stucchevole sia lo spettacolo, per una volta non ho nulla da dire. 

La barista con il rossetto color fragola mi sorride mentre mi avvicino al bancone. 

«Il solito?», chiede, allungando la mano verso una lattina di Bud Light.  

«No», rispondo. «Provo volentieri la F5 di qui mi parlavi».

Lei mi sorride e ne apre una. «Sei ufficialmente una vera dura da queste parti», e sorrido

anch’io. 

            Prendo il primo sorso mentre supero il juke box, dove sono raccolti il tipino tenero che suona nei The Chakras con gli altri amici (amanti?) di Chandra. Lei non c’è, ma immagino che non sia lontana. 

Il tipino tenero mi saluta con un sorriso. «Ehi», mi dice, e mi lancia un’occhiata che ho già visto molte volte: in un solo movimento degli occhi mi prende tutta, la minigonna di latex, le calze a rete, gli stivaletti a punta e il top nero con la catena al collo. Semplice ma sexy ma chic. Eric non mi ha mai vista così. 

«Grazie per averci presi», mi grida dietro.  

            Rispondo con un sorriso, ma sono troppo eccitata per fermarmi, così corro in ufficio, certo che corro, perché non dovrei? Perché dovrei ricordarmi proprio adesso 

  1. Della playlist post-sesso-con-il-proprietario-del-locale-dove-lavoro, 
  2. Del modo in cui mi sentivo in chiusura, quando uscivo da sola e camminavo lentamente verso la fermata del bus per andare a dormire nel mio letto singolo, nel mio appartamento con un limone rinsecchito e un pacco di pancake surgelati in frigo, chiusa nelle mie canzoni tristi, How to Disappear Completely dei Radiohead, la prima della playlist
  3. Di quando ero ai margini anche delle uniche relazioni che avevo, col capo e coi miei, 

mentre ora quando entro al The Rattery mi vedono e sorridono e ringraziano e mi passano birre e mi fanno cenni di saluto, ed è a questo che penso mentre sto per aprire la porta dell’ufficio, quella lastra di compensato che separa la me di Nottingham dalla me nuova, la me che continua a sprofondare da quella che sembra provare per una volta una spolverata di felicità.

            Quando apro la porta e lo spettacolo più banale mi si para davanti — Chandra seduta sulla scrivania di Eric a gambe larghe, lui in piedi, le caviglie di lei incrociate intorno alla schiena di lui — non è a questo che penso, al fatto che in questo ufficio ci dovrò lavorare, che non posso scappare di nuovo, che Chandra è di casa più di me; non penso al fatto che Eric mi ha donato una briciola di felicità e poi se l’è ripresa strappandomela dalle mani. 

Penso alla moglie del capo che entra al Cold Blood e mi afferra la bocca e con voce cantilenante mi chiama troia. Penso che non riuscirei neanche se volessi.

Chandra mi vede, sorride. «Oh, baby», fa. «Unisciti. In un mondo ideale ci amiamo tutti». 

E so che una persona normale dovrebbe scappare via sbattendo la porta, invece rimango lì in piedi, coi piedi incollati al pavimento, in attesa forse di una spiegazione che non ho mai ricevuto e non riceverò neanche stavolta; Eric si volta verso di me e quando vedo quello che ha negli occhi — lo stesso senso di colpa, la stessa tristezza, la stessa bocca all’ingiù che aveva il capo dopo i nostri incontri — mi sento come la bambina di dodici anni confusa di fronte al coyote: sono sul ciglio del burrone. 

«April», dice Eric, che tutt’a un tratto è solo un biondo qualunque, biondo come il mio capo, e magro e bello e prevedibile come un membro a caso di quei gruppi indie che ho seguito e ascoltato fino allo sfinimento, dai saccenti egomaniaci come Jacob Reaver detto River dei River Banks a ogni singolo stronzo dei Franz Ferdinand Kasabian Cage the Elephant Arctic Monkeys The Strokes Glass Animals, uno dopo l’altro, fino a quello schifo dei Kings of Leon. 

«Ascolta», prova a dire come per convincermi che non c’è niente di sbagliato in ciò che ho davanti, che semmai sono io a essere rimasta indietro, a non aver capito, a non far parte di questo mondo di metanfetamine, sigarette elettroniche, e relazioni aperte. «Chandra è poliamorosa», mi spiega. «Quello che provo per te non —».

«Io no», lo interrompo, e finalmente trovo il coraggio di voltarmi per andarmene senza aver ricevuto una spiegazione. 

Mi abbandono sul marciapiede fuori dal The Rattery. L’aria è densa, umida, la playlist per Eric ancora aperta sul mio telefono bagnato di sudore. 

            La porta dietro di me cigola e Alex Turner, non Trebek, si siede accanto a me per offrirmi una sigaretta. Non mi dice «te l’avevo detto», e probabilmente non sa neanche quello che è successo, anche se il suo silenzio mi dice che forse lo sa. 

            Sento il fumo di tabacco ruvido scendermi in gola e nei polmoni, e brucia al punto da farmi venire le lacrime agli occhi. 

            «Scusa», gli dico, quando finalmente mi metto a piangere. «Scusa», ripeto, e lo dico altre due, tre volte mentre lui mi ripete che non importa, che non c’è niente di cui scusarsi. 

Ma non è Alex Turner, non Trebek con cui mi sto scusando, e forse nemmeno con me stessa per essermi data finalmente la straziante e miracolosa opportunità di trovarmi qui a piangere sdraiata sul marciapiede, con una playlist di canzoni d’amore e un contratto con la band che odio di più al mondo, così lontana dai miei genitori serrati nel loro dolore e dalla moglie del capo che probabilmente sta facendo esattamente quello che sto facendo io nel chiarore dell’alba di Nottingham invece della sera di Oklahoma City. 

E anche se ora sono qui a piangere come una bambina invece che una trentenne, so che a un certo punto mi alzerò e tornerò a selezionare gruppi, chiamare agenti scontrosi che si chiamano Johnnie, scegliere canzoni e mettere insieme nuove playlist, spostarmi da sola da un paese all’altro e ricordarmi di June, mentre i gruppi continuano a suonare nei locali, i coyote a ululare nei campi, e il vento a soffiare incessante in un cielo nero che comincia ormai a farsi verde finché domani non lo sarà più. 

ARTICOLO n. 14 / 2025

LA TUTA DENTRO

a proposito di "noi e loro"

Uno dei tre personaggi maschili del film di Delphine e Muriel Coulin – Noi e loro (Jouer avec le feu), tratto dal romanzo di Laurent Petitmangin, Quel che serve di notte (Mondadori) – si chiama Fus. 

Il suo vero nome è Felix ma tutti lo chiamano Fus. La madre lo chiamava così perché Fus deriva da Fußball, ovvero calcio, in tedesco. La famiglia Hohenberg vive a Villerupt, Lorena, cittadina a cinquanta chilometri da Metz e a quindici dal confine lussemburghese. Insomma, il cuore dell’Europa, come si usa dire in questi casi, visto che la regione francese è confinante con Lussemburgo, Germania, Belgio. 

La madre è già morta all’inizio del film, la madre pare morta da sempre, quasi che la sua fine contenesse tutto il dolore possibile, indelebile, anche quello trattenuto in un abbraccio di gioia fra i tre sopravvissuti della famiglia. 

Ecco che allora il soprannome assegnato dalla madre al primo figlio – un vero e proprio lascito – appare ancora più significativo. Fus, ventitré anni, è figlio di Pierre, ruolo interpretato da un convincente Vincent Lindon, vincitore della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. 

Pierre lavora come addetto alla manutenzione ferroviaria. Lavora spesso di notte, avanza lungo i binari con una fiaccola accesa. A sessant’anni, in un’altra epoca, sarebbe già in pensione e riporrebbe la pettorina statale marchiata SNCF, che certifica, comunque, ancora oggi, un forte senso di appartenenza tra gli operai. 

Inciso, che non interessa a nessuno, o quasi: se fosse stato un film italiano con un personaggio italiano – chiamiamolo Piero – nella stessa mansione di Pierre, il personaggio italiano avrebbe avuto, rispetto al francese, almeno cinque anni in più di lavoro prima di arrivare alla pensione, e avrebbe indossato una pettorina anonima, perfetta per occultare un subappalto del subappalto. Ma torniamo al film.

Pierre è stato, in gioventù, un militante socialista, e non ha cambiato idea politica, ma il lutto lo ha chiuso all’interno della famiglia, quasi che il distacco dall’impegno sia stato giustificato da una cura maggiore verso i due figli, per supplire all’assenza materna.

Il figlio minore di Pierre, a differenza di Fus, non ha alcun soprannome. Si chiama Louis, ha vent’anni e sta cercando di essere ammesso alla Sorbona, eventualità che comporterebbe il trasferimento nella capitale. Fus, invece, non studia né lavora. Segue, a fatica, corsi metalmeccanici. Passa le giornate in compagnia degli amici o a dormire dopo una nottata trascorsa fuori; quando si alza, si aggira per la casa in tuta; durante il weekend frequenta la curva calcistica e gioca in una squadra di dilettanti. A ventitré anni, diventare un professionista è quasi impossibile ma Fus continua a giocare, forse per assolvere al lascito materno, al proprio soprannome. E poi il calcio, così come la curva, è un buon modo per scaricare l’aggressività. 

Una rabbia tuttavia ben camuffata in famiglia, tant’è che il padre, almeno in apparenza, nemmeno si accorge delle frequentazioni di Fus, membro di un gruppo di estrema destra.

Il film oscilla tra l’impegno civile e il dramma familiare, presenta nuove occasioni per porci alcune domande. È possibile continuare ad amare un figlio qualora sia affascinato dall’estrema destra? Diventerebbe un corpo estraneo oppure cambierebbe il nostro approccio verso la politica? Fino a quale punto può arrivare il perdono a seguito di un atto violento? Perché la destra e l’estrema destra piacciono? Perché la destra e l’estrema destra sembra che abbiano consenso più dei voti reali? Perché molti giovani credono che la destra e l’estrema destra non siano asservite all’ideologia neoliberale tanto quanto gli odiati progressisti o, appunto, i liberali complici, collusi con la destra e l’estrema destra? 

La famiglia di Pierre Hohenberg non abita in una periferia metropolitana degradata, bensì nella zona residenziale di una cittadina di novemila abitanti. È una modesta, graziosa casetta a due piani ubicata in fondo a una via chiusa; è decadente quanto basta, ha un po’ di giardino utile per passarvi i pomeriggi nella bella stagione, tra l’altalena che conferma il passare del tempo e la porta da bambini, usata da Fus per giocare a pallone assieme al padre e al fratello. 

Queste condizioni sono bastate a Louis per crescere con una speranza nel futuro, un futuro, forse, migliore, raggiunto attraverso lo studio, l’università. Certo, qui, sarebbe stato utile soffermarsi anche su Louis e non soltanto sul deragliamento ideologico esistenziale di Fus. Cosa combinerà, Louis, dopo una laurea in lettere? Farà il volontario in qualche festival letterario mentre il gruppo di potere che gestisce il festival si spartisce soldi e benefici indotti, correlati alla loro funzione? Seguirà uno stage in una casa editrice? Farà il commesso in una libreria di catena? Diventerà un insegnante? Troverà un lavoro qualsiasi, un lavoro che Fus ha rifiutato?

Le condizioni ideali per Louis – cittadina, casetta, giardino – hanno condotto Fus a diventare un fascista, disilluso e rancoroso verso qualsiasi forma di aggregazione sociale che non sia il gruppo di amici fascisti; Fus alterna questo suo rancore a piccoli frammenti di affetto verso il padre e il fratello. Eppure, se Fus vive in quella graziosa casetta, se il padre ha ancora abbastanza soldi per mantenere due figli con il suo lavoro da operaio, è merito anche di quel sistema detestato da Fus; se Fus guida una moto, se ha i soldi per riempire il serbatoio e tracannare birra, lo deve a ciò che resta del sistema novecentesco che ha garantito al padre un lavoro duro, con turni notturni, ma retribuito il giusto.

Un lavoro che, tuttavia, non permette al padre di mantenere Louis all’università, a Parigi. Infatti, di fronte alle regole senza regole del mercato, ecco che la rete di amicizie di Fus consente di trovare un piccolissimo monolocale a un prezzo di poco inferiore rispetto a quanto richiesto dal mercato. Insomma, per vivere in un buco, al settimo piano, senza ascensore, pagando parecchio, ma un po’ meno rispetto a quanto richiesto dal mercato, c’è da ringraziare la rete dei fascisti amici di Fus. È un mondo che si chiude in piccole patrie: l’estrema destra europea, la Francia, la Lorena – «100% Lorena (…) io ci credo», dice Fus –, la curva, la palestra ubicata in un’area industriale dismessa, il gruppo di fascisti. 
«Sono veri, sono puliti», dice Fus al padre, a proposito degli amici.

«Sono i suoi amici, Fus non è così», dice Louis, al padre, cercando di difendere il fratello maggiore, minimizzando la situazione. Ma la situazione è ormai fuori controllo, poiché anche un pomeriggio di gioia, come andare a vedere la partita tutti e tre insieme nella curva dello stadio Saint Symphorien, è intossicata dalla presenza della politica, del gruppo.

A volte vorrei essere un fascista. È confortante credere di risolvere i problemi sapendo che la colpa è di qualcun altro, e questo qualcun altro è sempre in condizioni peggiori delle tue, e per quanto questo qualcun altro viva in condizioni peggiori, è una minaccia, la minaccia, l’unica minaccia. Ah, questo qualcun altro, se non esistesse, bisognerebbe inventarlo. 

Come potrebbe, un fascista, sopportare i propri fallimenti, le proprie mancanze, la propria decadenza senza questo qualcun altro? Chissà cosa pensa, Fus, per esempio, del fatto che i leader politici di destra ed estrema destra si pongano al di sopra della legge, e si lamentino recitando il ruolo delle vittime qualora una parte dello Stato – la magistratura – intenda applicare la legge; allora i leader politici di destra ed estrema destra urlano sdegnati, sostengono di essere in contatto diretto con il popolo, l’unica legge alla quale dicono di obbedire è quella del popolo, o meglio, di una piccola parte di elettorato, che tuttavia, per convenienza, scambiano per il popolo intero. Chissà cosa pensa Fus, per esempio, della libertà dal pensare, ovvero la libertà dal sapere, la libertà dalla scienza, e se non sente imbarazzo per queste sue libertà: non è una questione di titolo di studio, ma curiosità esistenziale.

Chissà cosa pensa, Fus, per esempio, della speculazione immobiliare che ti asservisce per trent’anni; e cosa pensa del cambiamento climatico, della siccità, delle inondazioni, e cosa pensa del traffico internazionale di droga che entra nell’economia, del commercio internazionale di frutta e verdura gestito dalle mafie italiane, e cosa pensa della sanità pubblica sulla quale comunque conterà in un passaggio del film. 

Non a caso, a volte, i personaggi del film, Fus in particolare, sono ritratti in primo piano, e intorno è tutto sfocato. Il paesaggio non esiste. La società non esiste, se non come sottofondo sul quale innestare il proprio smarrimento, o nel caso di Fus, lo smarrimento e la rabbia.

Eh, sì, a volte vorrei essere non soltanto un fascista, ma un ultras fascista ultracinquantenne. Godrei di impunità quasi assoluta. Se incendio un autobus, blocco un’autostrada, partecipo a una sassaiola, spaccio in curva, mi danno un DASPO.

Fuori dal recinto ideologico calcistico fascista, come minimo, la pena prevista, è dieci anni di carcere. 

La normalizzazione dell’estrema destra; la distinzione, falsa, tra destra ed estrema destra, quando è evidente che sono la stessa cosa; il flirt con i liberali europei; il camuffamento tramite le parole – non fascista, ma sovranista, populista, patriota, conservatore, ultraconservatore, euroscettico – prosegue da così tanti anni che parlarne adesso pare superfluo e insignificante, forse perché è troppo tardi. Certo, esistono alcune differenze tra quelle definizioni, ma sono le stesse differenze che possiamo riscontrare nel guardare il modello di un’auto progettato mezzo secolo fa. La serie 10 non è più la serie 1, ma è anche la serie 1, conserva qualcosa di quell’archetipo; infatti, anno dopo anno, decennio dopo decennio, l’azienda produttrice, a ogni nuova serie dello stesso modello, ha apportato piccole novità e mantenuto qualcosa della serie precedente, in modo da gratificare il consumatore e al tempo stesso tranquillizzarlo: novità & tradizione.

A dispetto di un’ideologia secolare nata durante e subito dopo la Prima Guerra Mondiale, il fascismo è il modello di prova, il primo esemplare; e in quanto tale appare ancora come il luogo della giovinezza. Ma sono ragazzi, dicono le signore davanti ai banchetti dell’estrema destra, in Europa. Già, i ragazzi posizionati con i loro volantini nei giorni di mercato. Voudriez-vous un café, madame? Oh, grazie, come possono essere davvero cattivi se mi offrono il caffè?

Anni e anni passati a normalizzare l’indifendibile mentre, a sinistra, si inaspriva il solito dibattito interno autodistruttivo, accolto con motteggi, sarcasmi, sberleffi reciproci provenienti proprio dalla stessa parte politica. Un magma di distinguo: sì, ma, però, invece. Un fluire ininterrotto di notizie condivise, riferite, analizzate, commentate, triturate, digerite, e ogni parola, in questi anni, è sembrata utile a smontare qualsiasi forma di resistenza alla destra e all’estrema destra; e ogni emoticon irresponsabile, ogni faccina infame e ogni cuoricino tiepido hanno indebolito l’opposizione alla destra e all’estrema destra e rafforzato la destra e l’estrema destra, oltre che a confondere, annichilire, frastornare.

È rassicurante chi promette, mentendo, un idilliaco ritorno al passato: tradizioni, radici, identità, costumi, valori. Eppure nessuno vuole risolvere i problemi della gente, tantomeno la gente stessa. Ah, la gente. I volti di questi leader politici così vicini alla gente? Le mani di questi leader politici così vicini alla gente? Questi leader politici hanno orrore della gente, hanno schifo della gente, gente che peraltro, talvolta, non sempre, purtroppo, ha schifo e vergogna di se stessa e quindi li vota pochissimo, poiché, in gran parte, la gente, il giorno delle elezioni, non vota. 

Questi leader politici di destra ed estrema destra provocano disgusto soltanto a guardarli in faccia, agghindati e agghindate come radical chic da loro tanto odiati. E ancor di più, provocano nausea nel sentirli parlare, e così, più parlano e meno persone vanno a votare. Questi leader politici di destra ed estrema destra criticano il sistema, ma come piace loro girare in auto, scarrozzati dagli autisti pagati dalle istituzioni che vorrebbero abbattere, a parole. In questo, sono distantissimi dall’uomo che sarebbe stato felice di vivere in un’Europa simile: Jörg Haider. 

Almeno, rispetto a loro, Haider è morto come un uomo qualsiasi, un uomo di cinquantotto anni che, in una notte d’ottobre, tra venerdì e sabato, tornava in auto, da solo, come un quadro aziendale o un agente di commercio, guidando a oltre 140 chilometri orari, una velocità doppia rispetto al limite in quel tratto di strada; guidava con un tasso alcolico superiore rispetto a quello consentito. Haider si è schiantato a bordo della berlina nera, lungo un tratto di strada percorso tante altre volte: è morto al sicuro, nella sua Carinzia

Nessuno, tra i politici contemporanei italiani, in particolare tra quelli di destra ed estrema destra – con tutto il loro codazzo di autisti, guardie del corpo, poliziotti – potrebbe morire come Haider: solo, nella notte. Quando questi politici italiani di destra ed estrema destra moriranno allo stesso modo di Haider e di migliaia di altre persone – senza autista, senza scorta – allora potranno sostenere di capire la gente. 

Tradizioni, radici, identità, costumi, valori: il solito ritornello ripetuto o ascoltato indossando prima una tuta Adidas e poi una tuta Puma, entrambe prodotte nel sudest asiatico. 

Ecco in cosa consiste la libertà dell’Occidente. 

Segare i pali della porta da bambini con gli attrezzi inutilizzati, per un lavoro mai iniziato. La violenza è un lavoro svolto gratis. Fus soppianta il suo vero nome, Felix, forse perché Felix era un nome impegnativo, troppe aspettative di felicità all’interno di Felix. 

Essere rabbiosi e infelici è più comodo e rassicurante.

Fus, rinchiuso all’interno del mondo, dell’Europa, della Francia, della Lorena: rinchiuso all’interno della curva calcistica, rinchiuso all’interno del campo di calcio in cui gioca per una squadra di dilettanti, e quindi rinchiuso nello spogliatoio, e dopo lo spogliatoio, rinchiuso al bar con gli amici fascisti, nel comune di Villerupt, e rinchiuso nella graziosa e dignitosa casetta a due piani, con il piccolo giardino, e rinchiuso dentro la camera assieme ai cimeli del passato, le coppe vinte come miglior giocatore di qualche torneo giovanile, in un distantissimo decennio. 

In questo restringimento quotidiano attraversato da violenza, l’approdo è una cella o una bara. «Resta solo la violenza», dice Pierre, amareggiato, impotente, incapace di agire, sconfitto tanto quanto il figlio, il cui cambiamento più significativo è, appunto, aver cambiato la tuta Adidas con la tuta Puma. In realtà, a parte il cambio di tuta, un’alternativa a una cella o a una bara esiste, ed è quella vissuta dalla maggioranza: continuare ad attraversare il mondo senza vedere nulla, o meglio, fingendo così bene di non vedere nulla a tal punto da non vedere nulla.

ARTICOLO n. 13 / 2025

IL GIGANTE CIECO

George Eliot e Donald Trump

New York. – Sembra impossibile, ma una grande scrittrice inglese dell’Ottocento era riuscita a descrivere perfettamente Donald Trump. George Eliot (pseudonimo di Mary Anne Evans, 1819-1880), nell’epigrafe del ventunesimo capitolo del suo ultimo romanzo, Daniel Deronda, scrisse: «La Sapienza costruisce lentamente ciò che l’Ignoranza tira giù in un’ora. […] Sapienza è potere, ma è un potere frenato dagli scrupoli, essendo cosciente di ciò che deve essere e ciò che può essere; mentre l’Ignoranza è un gigante cieco, il quale, se lasciato agire quando viene slegato, si divertirebbe ad afferrare i pilastri che tengono su i materiali, lavorati a lungo, del bene umano, e a rendere tutti i luoghi di gioia bui quanto una Babilonia sepolta».

Deronda fu pubblicato nel 1876, e nei 149 anni trascorsi da allora, nonostante i vari Hitler, Mussolini, Stalin e via dicendo che hanno creato il buio nelle loro varie Babilonie, nessun altro leader politico ha corrisposto meglio di Trump alla descrizione del “gigante cieco” fatta dalla Eliot. Quei tre dittatori del primo Novecento, per quanto mostruosi, non possono essere tacciati di ignoranza: di narcisismo e megalomania sì, paranoia anche, e compirono atti molto più atroci di quanto l’attuale residente della Casa Bianca americana non abbia potuto fare, almeno finora, ma non erano proprio ignoranti o noncuranti delle proprie azioni. Sapevano ciò che facevano. Trump invece è proprio il Gigante cieco e slegato, in carne e ossa, libero ormai di fare praticamente qualsiasi cosa che gli passa per la mente o, ancora peggio, che altri più lucidi e sottili, e forse anche più fondamentalmente cattivi di lui, riescono a piantare nella testa di un leader poco istruito e ora in declino mentale.

Ciò che invece fa ancora più paura dei comportamenti del nostro Gigante e del suo luogotenente ormai in controllo di tutte le informazioni su mezzo mondo sono i senatori e deputati repubblicani che sono diventati mansueti e obbedienti come mai prima. Non siamo più ai tempi del presidente Nixon, repubblicano anche lui, quando membri del suo partito andarono a dirgli che doveva dimettersi perché le prove contro di lui per l’episodio di Watergate erano troppo ovvie e convincenti. No: noi ci troviamo in un’epoca in cui i membri repubblicani del Congresso guardano, forse allibiti ma silenziosi, quando il loro duce fa uscire dai carceri più di milleseicento persone condannate per violenze contro lo Stato stesso. Per fare un confronto storico con i senatori e deputati repubblicani di oggi bisogna risalire al parlamento italiano dopo la Secessione dell’Aventino nel 1924, al Reichstag di Hitler dopo l’incendio del 1933, o addirittura all’epoca di Augusto, quando faceva comodo alla maggioranza dei senatori lasciare le decisioni all’imperatore e godere i simboli e i benefici del potere. Altro che George Eliot un secolo e mezzo fa! Già diciassette, diciotto secoli prima Plutarco, Tacito e Svetonio sapevano tutto della mentalità dei leccapiedi. E poiché qualche mese fa la Corte suprema americana ha praticamente posto le azioni di un presidente sopra le leggi che riguardano gli altri cittadini del Paese, il nostro Gigante cieco può agire come gli pare – può diventare il Nerone dei nostri tempi, seppure in versione senile. Ave Donald!

Ah – avevo quasi dimenticato. Nel libro Fare un film Federico Fellini aveva, con visione profetica, descritto il nostro dittatore in erba, in un suo scritto sul fascismo: «Le eterne premesse del fascismo mi pare di ravvisarle […] nel rifiuto di affermare se stessi o il proprio gruppo non con la forza che viene dall’effettiva capacità dell’esperienza, dal confronto della cultura, ma con la millanteria, le affermazioni fini a se stesse, lo spiegamento di qualità mimate invece che vere […] Non si può combattere il fascismo senza identificarlo con la nostra parte stupida, meschina, velleitaria, una parte che non ha partito politico, della quale dovremmo vergognarci, e che a respingerla non basta dire: io milito in un partito antifascista. Perché quella parte sta dentro ciascuno di noi, e ad essa già una volta il “fascismo“ ha dato voce, autorità, credito».

Fellini, morto nel 1993, poteva usare il termine “una volta” riferendosi alla mentalità che aveva predominato nell’Italia della sua gioventù, ma noi in America adesso, un secolo più tardi, non abbiamo il diritto di servircene. “Una volta” per noi è oggi.

Tra i molti libri di Harvey Sachs ci sono Musica e regimeToscanini: la coscienza della musica e Schoenberg: perché ne abbiamo bisogno.

ARTICOLO n. 12 / 2025

DALL’EDIPO AL FRATERNO

"intermezzo" di Sally rooney

Qualche volta i padri devono essere uccisi, altre volte muoiono e basta. Del resto, senza la morte dei padri, ingombranti e autoritari, o potenti solo nell’immaginario edipico, non ci sono società né storie. È proprio con la morte di un padre che inizia l’ultimo romanzo di Sally Rooney, Intermezzo. Una morte anticipata, ma non per questo gentile. Una morte dolorosa, un cancro, ma senza tragedia, come solo la morte di chi, nell’ordine naturale delle cose, è destinato a morire per primo può esserlo. Un padre dai contorni sfumati, conservato in pochi ricordi, quasi forcluso, certamente non edipico, ricordato appena in poche pagine. Così come dev’essere, perché questa storia non è una storia di padri, ma è una storia di fratelli.

La morte di un padre edipico, del resto, sarebbe stata troppo ingombrante. Una morte anticipata, invece, permette a Sally Rooney di esplorare non tanto le conseguenze psichiche della morte di un padre sui figli, ma l’intreccio complesso del legame fraterno: tutto quello che nel mondo interno di Peter e Ivan mantiene, spezza, mette in discussione o ricostruisce tale legame. Eppure, cos’è un fratello? Due fratelli, anche biologici, non hanno mai davvero gli stessi genitori. In primo luogo, perché nessuno è la stessa persona che era qualche minuto prima, ma soprattutto perché ognuno costruisce dentro di sé nient’altro che un’immagine del proprio padre, della propria madre e di tutte le altre figure significative che incontra nel corso della propria vita. È l’immagine, la sua rappresentazione, e non il genitore di carne, a orientare il nostro muoverci nel mondo. Un genitore non è arrogante o depresso, è un genitore che abbiamo vissuto come arrogante o depresso. La nascita di un fratello in una famiglia complessifica ancora di più la costruzione delle immagini interne e apre scenari pulsionali nuovi: nasce il vissuto depressivo, nel fratello maggiore, per la perdita della supremazia, concorrono l’odio, la rivalità o l’alleanza, il rancore o il debito di riconoscenza, e spesso la lotta spietata e di posizione per mantenere l’amore esclusivo dei genitori.

Ma ogni guerra finisce e ognuno si prende il ruolo che gli sta bene addosso, vincitore o sconfitto. Ivan, giocatore di scacchi, forse sconfitto nel gioco familiare, trova l’affetto tra le braccia di una donna molto più grande di lui, chiedendosi se è così che ci sente «quando si ottiene quello che si vuole, desiderare e allo stesso tempo avere, desiderando ancora, ma appagati». Ivan è il fratello minore che parla come uno che il piacere e il desiderio non li ha conosciuti mai, troppo impegnato a spodestare Peter, avvocato di successo, dalla posizione esclusiva di essere il fallo della madre, oppure usarlo come doppio narcisistico sul quale deflettere l’odio verso i genitori. Ma non c’è crescita o individuazione in questa guerra di posizione: il compito di vita del bambino è quello di elaborare il proprio odio e rappresentarsi come terzo, diverso dai genitori, diverso dai fratelli.

In altre parole, un bambino che cresce ha solo un compito evolutivo fondamentale: diventare chi è, soggettivarsi. C’è un simbolismo delicato e tenero in Intermezzo. Alexei, il cane di famiglia, racchiude in sé molto bene il processo di soggettivazione. Alexei, il piccolo whippet, è il nodo da sbrogliare: e adesso che è morto nostro padre, come si fa? Chi se lo prende? Chi sei tu, chi sono io, chi siamo insieme e come ci comportiamo uno verso l’altro? Come facciamo a redistribuire le nostre responsabilità? La morte del padre è una crisi che spezza la coazione a ripetere: fino a oggi, nella costellazione familiare, avevamo queste posizioni e ci muovevamo in questo modo. Come i pezzi degli scacchi, alfiere, cavallo, torre o pedone, seguivamo delle regole non dette. Ora che nostro padre non c’è più a chi tocca muovere per primo? Che mossa farai? Del resto, l’intermezzo non è che una mossa inaspettata. L’Intermezzo è, quindi, proprio la morte del padre. Cosa viene dopo? Una cena, goffa e maldestra, un tentativo di riavvicinamento, un dinego del cambiamento al fine di ripristinare l’equilibrio (tossico e precario, ma comunque equilibrio) che c’era prima.

È una mossa deludente: Peter giudica severamente la relazione del fratello con Margaret, una donna matura, troppo più grande di lui. Eppure, allo stesso tempo, Peter frequenta Naomi, molto, forse troppo, più giovane di lui. Peter giudica il fratello perché, in realtà, sta giudicando sé stesso? Credo che sia una proiezione fin troppo banale. Piuttosto, pensiamo alla scelta del partner: non ci si innamora mai per caso e la scelta del proprio oggetto d’amore ha molto a che fare con il complesso fraterno.

Il complesso fraterno, inteso come l’incontro tra i mondi interni dei fratelli in relazione tra loro, i giochi di alleanze, nelle loro dinamiche consce e inconsce, è determinante per la scelta d’amore oggettuale. In altre parole, non sono solo le relazioni con i genitori e le dinamiche del complesso edipico a determinare di chi ci innamoriamo e vogliamo accanto: anche il complesso fraterno gioca un ruolo fondamentale. Ivan, nella scelta di una donna più grande, cerca la via verso un oggetto d’amore perduto, il fratello maggiore. Peter, allo stesso modo, nella scelta di Naomi, che ha proprio la stessa età di Ivan, cerca il fratello minore. L’inconscio ripara dalla consapevolezza di dinamiche dolorose e propone equilibri sottili. Peter, nel rimprovero, ha bisogno di continuare a incastrare Ivan nel ruolo di fratello minore, non ancora adulto, incapace di prendersi le proprie responsabilità. Se con la morte di un padre i ruoli vacillano, trema l’ordine, e resta un trono da occupare o lasciare vuoto.

La vita è sempre un tentativo di ripristinare un equilibrio. Se Peter ha bisogno di cristallizzare il ruolo del fratello, Ivan fa lo stesso. È lui a cercare un’apertura verso Peter, un fratello che conosce come emotivamente indisponibile; eppure, cerca una guida da parte sua, perché è questo che si chiede ai fratelli maggiori. È il paradosso delle relazioni intersoggettive: cerchiamo negli altri quello di cui abbiamo bisogno e non quello che possono darci. Ivan e Peter si cuciono addosso vestiti che non sono di misura. Intermezzo resta, in ogni caso, una storia di uomini, scritta da una donna, ma una storia di uomini. La prima, forse, di Sally Rooney. La comprensione del femminile resta oscura: il dolore cronico di Sylvia che le impedisce una vita sessuale lascia troppi interrogativi. Del resto, questo è quello che ci raccontano Peter e Ivan: un’esperienza femminile vista dagli occhi di un uomo resta, chissà per quale ragione, così confusa. Il femminile è il grande assente del romanzo. Le donne non sembrano altro che funzioni simboliche nella vita dei fratelli, che li aiutano ad allontanarsi, a ritrovarsi, a guardarsi dentro e fuori, a cristallizzare i conflitti o a scioglierli. Tanta, forse troppa, pedagogia emozionale erogata gratuitamente da Margaret e da Sylvia.

C’è un’eccezione, credo, ed è la madre dei due fratelli. È l’unico personaggio femminile dotato di un contorno tutto proprio: un’entità a sé e non una funzione nella vita dei suoi figli. Nel suo disinteresse per le sorti di Alexei, il cane di famiglia – povera bestia, sì – la madre di Peter e Ivan fa il gesto più potente del romanzo. La madre, alla morte del marito, incarna la legge paterna e ne assolve la funzione: del cane, del vostro irrisolto, di chi si prenderà cura di chi e come, non è affare mio. È una madre che, con fermezza, assolve alla funzione paterna di limite e confine: questa è cosa vostra e non posso farmene carico. È una storia di fratelli e sono i fratelli a doverla sbrogliare.

ARTICOLO n. 11 / 2025

CROSS ROAD BLUES

elettricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando l’ultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,
come se tutti i fiori cominciassero a parlare.
(Anna Achmatova – Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso.  (Dario Valentini)

I

Esattamente vent’anni fa, nel gennaio del 2005 era uscito Le variazioni Reinach, libro che mi aveva portato qualche considerazione nel mondo letterario. Niente di che, ma aveva incrinato una specie di congiura del silenzio che aveva accompagnato il mio lavoro precedente. Mi sembrava doveroso farlo seguire da qualcosa di imprevedibile, inaspettato e sconvolgente. Nell’estate di quell’anno New Orleans e la Louisiana erano state sconvolte dall’apparizione dell’uragano Katrina. La distruzione, gli allagamenti, la diaspora di una popolazione impreparata mi sembravano eventi biblici, ovvero quanto andavo cercando per il mio libro di là da venire. Ne parlai con il mio editore ma la sua risposta fu purtroppo negativa: chi mai poteva essere interessato a una città distrutta. Disse proprio così, lasciandomi interdetto.

Io avevo proprio l’animo del distruttore; i miei libri tendevano alla distruzione di ogni impianto narrativo; era quella la mia pozzanghera: sguazzare nella melma delle rovine e rimodellare quel che sembrava meritevole di sopravvivere. Così avevo fatto con le Variazioni e così avrei voluto fare con il prossimo libro. Accadde che nel gennaio del 2006 vincessi il premio Bagutta, ex-aequo con quell’essere straordinario che è Eugenio Borgna – e la cosa mi fece ancor più piacere. Fu così che decisi di investire il premio in denaro in un viaggio a New Orleans dove avrei fatto ancora in tempo a osservare la devastazione e a farmene in qualche modo testimone.

Non conoscevo la città ma ero abbastanza informato del suo periodo d’oro, diciamo quello dai primi del ‘900 agli anni Venti. L’età del jazz, del blues del Delta, insomma in quel che di selvatico e diabolico s’era infiltrato grazie alla gente di colore nella musica occidentale, essenzialmente francese, il ragtime o quella delle bande da parata, che si andavano trasformando nella polifonia dei complessi jazz, o nella musica per chitarra di origine canaria e cubana che s’era ibridata con i canti di schiavitù, con le malinconie. Con i blues, per intenderci.

L’idea era quella di scrivere della sopravvivenza dei miti della musica in quella devastazione recentissima. A me sembrava una buona idea nonostante il parere dell’editore. Del resto, poco importava. Se riuscivo a scrivere un libro buono, ovvero devastante, ne avrei trovato qualcun altro disposto a pubblicarmi. Sarei andato in cerca di miti musicali o forse altre tracce letterarie, Faulkner o Capote. Le parate del Mardi Gras, o le vicende di quelle strane navi sottomarine che durante la “War between the States” (così, mi aveva riferito un amico di Miami, gli americani chiamavano la guerra di Secessione) erano state varate e subito andate a fondo affogando i piloti nel lago di Pontchartain, quello che aveva nell’agosto precedente rotto gli argini e procurato l’inondazione della citta.

Ora che ne scrivo, a vent’anni di distanza, riaffiorano poco alla volta i motivi d’interesse, gli stimoli a compiere quel viaggio. Alcuni standard del primo jazz come il brano di King Oliver, West End Blues, che altro non era che una malinconia dedicata al tram che dal centro di New Orleans portava alle spiagge del lago, al West End, appunto. O la leggenda del primo grande cornettista, maestro di Oliver, Buddy Bolden, il barbiere che suonava così forte da poter essere sentito da entrambe le sponde del Mississippi, roba di qualche miglio, tra l’una e l’altra. E che era finito matto nell’ospedale psichiatrico perché in un accesso di follia aveva tagliato la gola a un cliente capitato per sua disgrazia sulla poltrona della sua barberia. O ai primi passi di Louis Armstrong, cresciuto da una coppia di ebrei che gli avevano regalato la prima cornetta ignari del bene che avevano fatto al mondo. 

O il fotografo delle prostitute di Storyville, Ernest Joseph Bellocq, da cui Michael Ondaatje aveva potuto ricevere testimonianze dirette mentre lavorava a quel suo piccolo capolavoro che è Coming Through Slaugther, il cui titolo originale – Emergendo dalle macerie – spiegava perfettamente quali erano le mie intenzioni a proposito di quel viaggio. Non crediate che Ondaatje da giovane (aveva 29 anni quando pubblicò questo libro) fosse quel noioso scrittore del Paziente inglese. Allora aveva ancora voglia di destrutturare quel che voleva narrare. I suoi libri giovanili erano bellissimi così come erano bellissime le prostitute fotografate da Bellocq e raccontate da Ondaatje. Ricordo che narrava di una di loro, apprezzatissima, nonostante avesse una gamba di legno; oppure di un’altra specializzata nel Ballo dell’ostrica che consisteva nel farsi scivolare dalla fronte lungo il corpo nudo sino al dorso del piede il mollusco appena scollato dalla valva, e poi ricalciarlo in aria dove la ballerina avrebbe dovuto riprenderlo con la fronte per ripetere l’esibizione.

Conoscevo la città per gli standard degli anni ’20. Per i titoli, come Basin Street Blues, o per le storie che raccontavano come Canal Street Blues. Soprattutto quest’ultima m’inteneriva. Con il suo tempo da marching band sembrava apparentemente lieta, spensierata. E invece i suoi blues, le sue malinconie erano appena velate da quel suo tempo rapido. E finiva poi improvvisamente, senza lasciare spazio ad altri dispiaceri, ad altre lacrime silenziose. Conoscevo la città per Congo Square, la piazza a nord del quartiere francese dove nell’Ottocento avveniva la vendita degli schiavi.  

Dunque un mondo folle, con ascendenze francesi, africane, anglosassoni e caraibiche, con permanenze di riti voodoo, di cristianesimo, di religioni animiste o un connubio inestricabile di tutto questo. Volevo andarci, proprio allora, dopo Katrina, per capire se la catastrofe dell’uragano avesse liberato qualcuna di queste componenti; se il fango avesse portato via con sé quel che le nascondeva e avesse fatto emergere quel che unificava. Il libro sarebbe venuto fuori da questo scavo, che aveva come filo conduttore la musica che era nata a New Orleans e nello smisurato delta del Mississippi sino a risalire il grande fiume, alla ricerca della nascita del blues così come la scoperta della città era dedicata alla nascita del jazz. New Orleans come luogo dove nascono le cose.

II

E così eccomi qui, in quest’atmosfera cupa: le strade ancora velate dal passaggio del fango, le case di legno distrutte o imbevute di acqua sporca, le saracinesche dei negozi sventrate; i proprietari seduti sul marciapiedi ancora a domandarsi che fare e come farlo. L’atmosfera era da sogno, o forse da incubo: rumori ovattati, luminosità diffusa come in un perenne crepuscolo. Pochi turisti spaesati, pompieri e spazzini che manifestavano invece una certa fretta, portati di qua e di là dalle necessità della città da ricostruire. Sulle facciate dei palazzi ancora si vedeva il segno dell’acqua sporca che aveva invaso il piano terra. Insomma ancora l’atmosfera delle città invase dal fango e che lentamente tornavano alla vita.

Ai margini del quartiere francese, dalla parte di Canal Street in una di quelle prime passeggiate di ambientamento mi sono imbattuto in una strada senza uscita che sembrava essere stata risparmiata dalla devastazione. Da un lato un ristorante-bistrot che avrebbe potuto trovarsi nella rive gauche degli anni ‘70 di Parigi e dall’altro due o tre negozietti di chincaglierie. Il primo vendeva strumenti musicali usati, CD ed LP di jazz. La vetrina era invitante, ingombra di cornette Conn e Vincent Bach e tromboni a coulisse, esposte su un fondo di copertine di dischi e spartiti. Entrai. Una ragazza creola che si trovava dietro il bancone era intenta a lucidare una cornetta. Salutai ma non rispose. Cominciai a curiosare tra gli espositori dei CD e finalmente disse due parole: «They are coming through the hurricane, from the flood».

Mi colpì quell’assonanza con il libro di Ondaatje. Mi osservai le mani ed effettivamente erano impolverate, come se quei dischi provenissero dal fango del Pontchartrain. Però trovai subito qualcosa che m’interessava. Era una raccolta di brani di Robert Johnson, il mitico bluesman del Mississippi che aveva incontrato il diavolo a un incrocio e gli aveva venduto l’anima in cambio di una strabiliante capacità di suonare la chitarra. Si diceva che fosse sparito dalla sua casa sul Mississippi e ritornato due anni dopo con questa capacità funambolica donatagli dal diavolo. Ogni chitarrista dal blues al rock lo considera inarrivabile anche per questa leggenda veramente diabolica. Comprai il CD e un lettore portatile. Pagai cash e la creola non alzò mai lo sguardo verso di me. Ovviamente non mi diede nessuno scontrino, ma in realtà non m’importava molto d’aver contribuito a far evadere le tasse locali.

Quando tornai in albergo misi il CD nel lettore. La prima traccia doveva essere la mitica Cross Road Blues, quella dell’incontro con il diavolo, e invece era un testo parlato, inciso probabilmente con una matrice di cera da un grammofono, gracchiante, quasi incomprensibile. Le poche parole che riuscii a decifrare erano pronunciate da una voce maschile stridula che sembrava provenire dall’oltretomba. «Come to the crossroad… Follow me… Learn to me to be the best one, the only one; I’ll give you my lesson… Go to the crossroad…» dopo di che invece che partire la famigerata Cross Road la voce ricominciava e così per tutte le tracce del CD. Pensai che ci fosse un problema – anche se non mi dispiaceva che l’anima di Johnson era ormai stata restituita al vero padrone e che quel CD ne fosse una specie di testimonianza. Tornai nella botteguccia dove lo avevo comprato. Chiesi spiegazioni alla taciturna commessa. Lei sempre in silenzio inserì il CD nel lettore ma, con mia sorpresa, dagli altoparlanti usciva il suono della chitarra di Johnson. La traccia uno era quella di Cross Road. Proseguivano poi gli altri brani, così com’era scritto nel fascicolo del CD.

Del discorsetto introduttivo, che si ripeteva all’infinito, mellifluo e insinuante, non c’era traccia. Tornai in albergo e di nuovo misi il CD nel mio lettore. La voce tentatrice riappariva ogni volta come se soltanto nel mio lettore fosse possibile sentirla, come se quella richiesta fosse indirizzata soltanto a me. Nella migliore delle ipotesi era un errore di stampa, un file impazzito che aveva contagiato il mio dischetto, nella peggiore non sapevo cosa pensare, ma non pensavo niente di buono. Guardai tra i credits della copertina. Il CD era stato stampato a Greenwood, Mississippi, la cittadina dove Johnson era morto nel 1938, dunque meno di settant’anni prima. Evidente che il viaggio aveva cambiato meta.

Fu in quel momento che mi venne l’idea. Dovevo prendere un battello e risalire il Mississippi. Lo scopo del mio viaggio era mutato. Andare in cerca di un vecchio patto con il diavolo e non degli esiti di una recente inondazione catastrofica. Comunque, ne ero certo, andavo riportando alla luce qualcosa. Che strano, pensai, arrivo in questa città con un’idea anche forte e subito la sostituisco con un’altra forse anche banale: un viaggio su un battello a ruota, per risalire il fiume. 

Salii a bordo di uno sgangherato battello a vapore. Avevo trovato posto in cabina di seconda classe piuttosto rumorosa. Ma avevo un oblò sul lato di babordo della nave, e osservavo la sponda sinistra del Mississippi mentre abbandonavo la periferia ancora devastata della città. Ricordavo uno strano romanzo di Herman Melville, The Confidence Man, che si svolgeva a bordo di un battello simile e raccontava degli strani incontri di un truffatore da strapazzo. Qualcuno che era facile incontrare in quella barca semideserta che mi portava verso altri luoghi.

La sera assistetti al mitico spettacolo descritto da Ondaatje. Una ballerina dalla pelle brunita che indossava soltanto un perizoma di paillette eseguiva, abbastanza maldestramente, la danza dell’ostrica, ma il pianista che l’accompagnava era abbastanza esperto di ragtime per rendere l’esibizione attraente e la ballerina ce la metteva tutta per essere sensuale e mi osservava con una certa concupiscenza come se, finito lo spettacolo, avesse deciso di proseguire la serata al mio tavolo. E così accadde. Mi raggiunse sempre mezza nuda e si sedette accanto a me. Ordinò un Kentucky e mi chiese dove fossi diretto. Le risposi e aggiunsi: «On the path of Robert Johnson, the blues man».

«Ah, could be dangerous. I know the story. The devil at the crossroad. But, anyway, everyone has his personal crossroad. Maybe yours is here». Bevve d’un fiato il suo bourbon e si alzò. Mi salutò sussurrando: «My crossroad is n° 28».

Più tardi, in camera, mi resi conto che il viaggio sul fiume sarebbe durato una settimana o giù di lì. Troppo per la mia curiosità sul diavolo di Johnson e troppo anche per resistere alle lusinghe della ballerina dell’ostrica e al suo invitante crocicchio 28 che era a poche cabine dalla mia. Così al mattino scesi alla prima fermata e presi la ferrovia che in meno di un giorno mi avrebbe portato a Greenwood, Mississippi.

III

Il viaggio in treno durò un lampo. Il panorama era malinconico e depressivo: meglio non guardarlo. Querce, sicomori e altri alberi d’incerta identificazione. Salendo sul treno avevo pensato che Johnson era morto nel 1938 e forse nel 2006 avrei trovato un novantenne che si ricordava del chitarrista e della strana diceria che girava attorno al suo virtuosismo. Addirittura un patto con il diavolo. Ma era proprio terra devastata, la povertà e le malattie acceleravano la morte da quelle parti. Quando scesi alla stazione le mie paure trovarono conferma. La gente che incontravo era vecchia non per gli anni vissuti ma per la miseria subita. A qualcuno che sembrava meno vecchio dei suoi anni chiesi della sede della Delta Records. Rispose: «Ah Devil’s Records». 

«No», ribadii «Delta Records» e lui insistette: «It’s the same». Roba da spaventare i ragazzini di quel non luogo – due o tre strade che incrociavano la main street, e una passeggiata sul lungo fiume. 

Di fronte al drug store era parcheggiata una vetusta Impala che a detta del guidatore fungeva da taxi della zona. Mi ci infilai svegliandolo dal suo torpore e gli chiesi di portarmi alla fabbrica dei dischi. Mi portò in periferia e quando si fermò davanti a una specie di capanna di legno gli chiesi di aspettare fuori. La sede della Delta Records non si distingueva dalle altre baracche lungo la via se non per una piccola insegna che ripeteva il logo dell’azienda: Una piramide con due corna ai lati del vertice. Come a dire, il diavolo ci domina. Salii i tre gradini del portico, aprii la porta con la zanzariera, bussai a quella di legno ed entrai senza aspettare che qualcuno si degnasse di rispondere. Nel corridoio d’ingresso incrociai una ragazza di colore dalle gambe sproporzionatamente esili e lunghe che mi salutò con entusiasmo. Era chiaro che non entrava mai nessuno lì dentro. Mi chiese cosa desideravo e in breve le spiegai la faccenda del CD. Mi rispose sorridendo.

«It’s a mistake. It happens, sometime. You received the Call». Le chiesi cosa voleva dire quella “Chiamata”. «The Boss – e con l’indice indicò in alto – called. That’s all. The Crossroad is at Copiah County. Not far from here». Non lontano da qui, diceva. La ragazza faceva tutto semplice con quel suo sorriso smagliante. Ma io mi trovavo a decine di migliaia di chilometri da casa, avevo ricevuto la chiamata del diavolo e adesso stavo andando a incontrarlo a un crocevia che neppure sapevo quale fosse. Sapevo solo che era “not far from here”. Ci avrei sbattuto il muso. Sicuro che mi sarebbe accaduto. Risalii in macchina – il guidatore s’era di nuovo assopito posando la testa sul volante e gli intimai di portarmi a Copiah County dove arrivammo in un’oretta di viaggio lungo strade campestri. Ora si trattava di trovare l’incrocio dove Johnson avrebbe avuto, secondo la diceria popolare, l’incontro con il diavolo.

Il tassista (ma era esagerato chiamarlo tassista, sembrava piuttosto Luster di The Sound and the Fury che portava Benji a spasso in calesse nel finale del libro) mi chiese dove dovevamo andare. Risposi che non lo sapevo, ma che cercavo il crocicchio di Robert Johnson. Lui sospirò e mi disse: «Every crossroad is the Johnson’s one. Just every damned crossroad. But we have to wait for the dark». Così dicendo ingranò la marcia e mi portò in una sala da caffè dove avremmo potuto aspettare la notte alzando il gomito. Alla fine, dopo il tramonto, sul nostro tavolo di formica si contavano otto boccali di birra e un paio di piatti di tortilla. D’un tratto il mio traghettatore guardò fuori dalla finestra e disse: «It’s time to go». Si alzò e uscì dalla sala. Io lo seguii come un barboncino ammaestrato.

IV

Vagammo per una mezz’oretta o forse più nella periferia di Copiah County ma devo ammettere che tutta Copiah County sembra periferia di un centro che non esiste e di notte quest’impressione desolata si fa più consistente. La macchina rallentò tre o quattro volte in coincidenza di incroci che sembrano adatti allo scopo che avevo confidato alla mia guida fino a quando si fermò in prossimità del più desolato e devastato crocicchio del Mississippi. «This must be the one» disse e si fermò a una ventina di metri. Spense le luci della macchina e disse che mi avrebbe aspettato al buio. «But not for the eternity. Just few minutes». Annuii e scesi dirigendomi all’incrocio.

Attesi immobile qualche minuto assaporando tutta la paura di cui ero capace. Poi, oltre gli alberi che si affacciavano all’incrocio notai qualcosa muoversi. Una macchia scura nello scuro della notte. «Dark on darkness», avrebbe detto il mio autista. L’ombra si avvicinò uscendo dal bosco e sistemandosi al centro del crocicchio, come se volesse impedirmi di prendere qualunque direzione salvo quella da cui ero venuto. Ma una forza irrazionale m’impediva di voltarmi e rimanevo quasi ipnotizzato dagli occhi azzurri e luminosissimi di quella figura scura che era lì per me. Assolutamente per me. Alzò un braccio verso di me, puntò l’indice alla mia figura e prese a parlare con un’intonazione e una lingua che mi sembrava di riconoscere: 

Buona la sera questa
mio amico benvenue, dans mon pais.
Oh la nuit, oh la nuit, oh la nuit
How many times, o no, non è questa,
Quando, when I’m arrived here,
looking for a lost sheep,
lost in the wood, come la piccola piccola
Cappuccetto Rosso, che voi siete, ancorché
comme cette petite enfant devant a la maison 
de sa grandmere, knocking on the door. 
Open, please, maybe some wolf follows me.
And I, like that lovely grandmere 
J’ambrasse vous dans cette crossroad. 
Like many many times I did.
With many many people.

Poi si avvicinò, mi afferrò la mano sinistra, mi strinse il polso e cercò di portarmi con sé. Sentii un bruciore insopportabile al polso e in quel momento riuscii a divincolarmi e a scappare lontano dal crocicchio. Il diavolo non mi seguì. Nel frattempo la macchina era sparita. Corsi a rotta di collo per non so quanto tempo. Alla fine, con il fiato rotto, mi fermai.

V

Mi svegliai con l’affanno in un lago di sudore e in preda a un’angoscia senza fondo. Il polso sinistro era bruciacchiato come se qualcuno con la mano incandescente avesse cercato di trattenermi. Cercai di tornare in me ripetendomi che era solo un sogno. Quando ne ebbi la forza la prima cosa che feci fu disdire il volo per New Orleans. Tornai a letto, senza riuscire a dormire per il terrore che il sogno potesse ripresentarsi. Il polso ustionato mi bruciava e la mente era in subbuglio. Durò così per diversi giorni. Poi, qualche tempo dopo, risistemando la mia collezione di CD, mi capitò tra le mani uno che aveva questa scritta in copertina: The complete recordings of Robert Johnson. Non ricordavo di averlo comprato, se non nel sogno. Non capivo come fosse finito lì e non ho avuto il coraggio di ascoltarlo, né allora, né mai. Ma non ho neppure avuto il coraggio di distruggerlo o buttarlo. Da allora giace seminascosto dentro un’anta della mia libreria di rovere in attesa di riapparire. So che il diavolo fa così.

ARTICOLO n. 10 / 2025

FACCI UN SORRISO. “THE SUBSTANCE”

In occasione del ritorno in sala di The Substance di Coralie Fargeat, prosegue la collaborazione tra The Italian Review e I Wonder Pictures che lo distribuisce nelle sale.

Ho un’immagine in testa. Agli ultimi Grammy awards Bianca Censori, moglie del rapper Ye (fu Kanye West) si è presentata, sotto la sua onnipresente e soffocante ala, quasi completamente nuda, coperta solo da un velo di raso trasparente. 

Seno e vulva esposti, Censori è rimasta immobile davanti a un muro di fotografi che urlavano il suo nome, chiedendole di posare, di girarsi, di sorridere a favor di camera.

Lei però non ha mai sorriso.

Non sembrava nemmeno troppo felice di essere lì. Anzi, era distante, come se non fosse presente a sé. Come se stesse guardando il vuoto, e non il muro di flash del photocall.

In compenso suo marito era molto orgoglioso di sfoggiare il corpo di sua moglie a tutto il mondo: tronfio, petto in fuori, completamente vestito di nero e con sguardo compiaciuto, mostrava l’oggetto che da mesi si porta dietro come se fosse una bizzarra borsetta di design.

Solo che l’oggetto in questo caso è umano, e ha un nome, un corpo e una precisa identità.

Guardando quelle immagini, che molte persone reputano allarmanti per la possibile violenza psicologica e coercizione a cui sarebbe sottoposta Censori da Ye (personalmente sono molto e purtroppo concorde con questa visione), mi trovo inavvertitamente a pensare a un film che ho visto pochi giorni fa, ovvero The Substance.

La pellicola diretta da Coralie Fargeat parla infatti in modo incessante, distopico, morboso e orrorifico di corpo femminile e sessualizzazione.

Elisabeth Sparkle (nome omen: il suo cognome si può tradurre come “scintilla”) è una celebrità nei suoi 50 anni. Volto e corpo famoso da decenni, tiene lezioni di aerobica in body succinti e pose provocanti nel programma del mattino.

La sua fama però è legata indissolubilmente al passare del tempo: più Sparkle invecchia e meno la produzione ne è felice. 

Nonostante sia un volto storico del canale, nonostante sia impeccabile, sorridente, con un corpo tonico e allenato, questo infatti non basta a decretare la salvezza della sua carriera: nello showbiz – e non solo – le donne hanno una data di scadenza, che coincide con la loro età adulta.

Il produttore televisivo, un ripugnante (e per questo bravissimo) Dennis Quaid, silura Elisabeth nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, aprendo i casting per un’insegnante di aerobica nel morning show.

Sparkle non si dà pace. Non può credere che di punto in bianco la sua figura, la sua presenza, così tanto osannata e apprezzata dai piani alti dell’emittente televisiva, sia diventata un peso dal quale liberarsi. Si osserva completamente nuda allo specchio per interi, lunghissimi fotogrammi, analizzando ogni parte del suo volto, cercando nelle smorfie riflesse dalla superficie riflettente qualche segno di miglioramento, di non cedimento, di immortalità.

Svuotata da quello che a tutti gli effetti vive come il tradimento del proprio corpo, Sparkle viene in contatto con una droga, spacciata al mercato nero, che può sdoppiarla in due versioni: una è la lei del presente, l’altra è la sua versione giovanissima, sensuale, canonicissima e performante.

Nel momento in cui Elisabeth assume la droga e crolla in una sorta di coma che dura per una settimana (le due versioni del suo corpo hanno un’unica mente e devono alternarsi nella fase di riposo a turni settimanali), al suo posto – è proprio il caso di dire – emerge Sue. 

Giovane, magra, soda, ammiccante, spregiudicata, Sue si reca negli studi del morning show e si candida per il posto di insegnante d’aerobica lasciato vuoto da Elisabeth.

Il produttore non ha bisogno di sapere neanche chi sia, da dove venga, quali siano i suoi progetti futuri o desideri, e la conferma immediatamente per la posizione, confezionandole addosso un programma ancor più sessualizzante, in cui Sue mima atti sessuali e ammicca a favor di camera, in cui si spoglia del body da aerobica rimanendo in un costume succinto, in cui recita per una pantomima in cui i volti perdono importanza davanti alle inquadrature dei culi, delle tette e dell’inguine. 

Sue diventa un prodotto, spogliato quasi del tutto della parola (ripete solo ritmicamente dei “dài”/“andiamo”/“più veloce”). Il suo corpo diventa il centro assoluto della scena, in cui lei e perfino i suoi desideri scompaiono, inghiottiti da una duplice necessità di conferme e rassicurazioni.

Sue è la parte di Elisabeth che si crede invincibile, quella che crede di avere ancora molto da dare allo show business, quella che crede di avere un posto perché essenziale e insostituibile.

La verità è molto diversa.

Nessun corpo femminile è essenziale in un mondo patriarcale e capitalista. Tutti sono prodotti e il prodotto per eccellenza che il corpo delle donne deve sempre avere per poter avere rilevanza è la giovinezza.

Dennis Quaid, nei panni del produttore televisivo, lo spiega molto bene: il corpo femminile manipolato dagli uomini di potere è un oggetto nelle mani meno rassicuranti che ci siano.

Il corpo di Sue viene venduto per soddisfare l’ego degli imprenditori del canale, della produzione che punta a nutrire lo sguardo maschile oltre la cinepresa, a convincere quello femminile che l’unica rappresentazione valida per essere donna e di successo sia quella di spogliarsi, venendo a patti perfino con la morte (vedi: La morte ti fa bella, che per molti temi, anche se con linguaggi lontanissimi, mi ricorda The Substance), venendo a patti perfino con i propri desideri e le proprie libertà.

Sue (interpretata meravigliosamente dalla multi-talentuosa Margaret Qualley) si accorgerà solo alla fine della sua breve visibilità di quanto questa fosse fragile e meschinamente piegata alle logiche del mercato sessista.

La violenza del finale di The Substance riassume perfettamente quanto i corpi delle donne siano spesso e ancora strumenti usa e getta nella macchina dello showbiz. 

Sono i prodotti più venduti di sempre, quelli che amplificano lo share e moltiplicano la viralità delle notizie; sono quelli che rendono ricchi chi li sfrutta e facoltosi chi ne possiede molti. Se fate una rapida ricerca su Google, potrete vedere come le classifiche sugli uomini più potenti del mondo si valutino in base a due elementi soltanto: i soldi e le donne che hanno avuto.

In un mondo dove i corpi femminili sono gli oggetti più vendibili e venduti, dove fino a poco tempo fa sembrava figo avere in tv una donna in ginocchio chiusa in una teca di plexiglas, dove per molto tempo le reti televisive – e i “grandi uomini” che c’erano dietro – ci hanno fatto credere che l’unico modo per essere famose fosse aspirare a fare le ragazze Cin Cin, il confine tra volere e dovere è spesso davvero molto labile.

Vogliamo davvero quella fama a tutti i costi o è solo una proiezione?

Davvero saremmo disposte a tutto pur di avere la nostra stella su Hollywood Boulevard? 

E soprattutto: chi ha dettato le regole di quel gioco? Chi ha deciso che i corpi validi fossero solo quelli considerati conformi, giovani, abili, sessualizzabili?

Chi ci ha fatto credere che potesse esistere una sola regola?

La risposta è piuttosto facile: da sempre lo show business è dominato dagli uomini. Produttori, proprietari, investitori, direttori, registi.

Sono pochi anni – e solo in determinati settori – che la situazione si sta stabilizzando e che si comincia a parlare seriamente di male gaze, tropi sul femminile e sessualizzazione dei corpi delle donne.

Ma nonostante questa consapevolezza, ancora siamo ossessionati dalla freschezza del corpo-moneta, ovvero quello delle donne giovani. 

Dalle paparazzate alle influencer con tanto di zoom sulla cellulite fino alle allusioni infinite su quali ritocchini avrebbero fatto le celebrities, la lente di ingrandimento di un pubblico finemente assoggettato e indottrinato dalle logiche di mercato è ancora e prepotentemente puntata sui corpi delle donne, pronta a decretare quando questi siano da buttare e quando invece da scopare, ammirare, adorare e odiare e invidiare al tempo stesso. Vuoi somigliare alla tua isola? Queste creme te lo permetteranno. Non vuoi finire vecchia e banale come la starlette decaduta? Vieni che ti vendiamo questi prodotti miracolosi per fingere di non stare invecchiando.

E questo dualismo, odio e amore, schifo e desiderio, è un meccanismo da cui non possiamo uscire facilmente, da cui non sappiamo uscire facilmente.

È il paradosso Sue/Elisabeth: sanno di essere prodotti, ma chi sarebbero se non lo fossero? Sarebbero davvero viste? Riconosciute nella loro bravura? Individuate come esseri complessi e completi?

Chi sarebbero Sue ed Elisabeth se al posto del produttore e i viscidi dirigenti di rete avessero trovato un altro ambiente? Chi sarebbero diventate se avessero trovato un mondo disposto a vederle come soggetti anziché oggetti meravigliosi da sfoggiare per fare share e vendere?

I corpi-accessorio, come dicevo all’inizio, sono ancora una questione su cui ragionare: accessori di uomini violenti che ci usano per far parlare di sé; accessori di chi deve fare soldi tramite la nostra immagine e poi ci sputa quando non siamo più conformi alle regole di un gioco che non abbiamo mai scelto ma al quale ci troviamo a partecipare; accessori di persone che un giorno ti amano e poi sono disgustate dal tuo invecchiare, dalla tua faccia che cade, dal tuo corpo che cambia e se prima ti adoravano adesso ti prendono per il culo senza alcuna pietà sui social media, con post in cui ti sezioneranno, pezzo per pezzo, come fossero chirurghi o macellai che devono tirare fuori il filetto perfetto da un trancio di carne morta; accessori di sguardi maschili che non riusciamo a spostare e rivoluzionare, nonostante la direzione progressista (seppur adesso molto precaria) della cultura.

Il corpo femminile nel film di Fargeat si autodistrugge, rende mostruoso, mutila, ferisce, si mangia da solo.

Sue/Elisabeth, sul palco del suo gran finale, grida al pubblico terrorizzato di essere pronta, di essere finalmente come hanno sempre voluto, di aver fatto di tutto per essere come gli sguardi silenziosi di un sistema patriarcale hanno sempre desiderato.

Eppure questi spettatori e i produttori urlano, scappano, vomitano, si dileguando disgustati e impauriti da quell’immagine che hanno contribuito a creare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, decennio dopo decennio.

Il corpo femminile è ancora un territorio di battaglia.

E quindi mentre guardo Bianca Censori che sembra distante anni luce mentre posa nuda davanti ai flash di chi vuole un pezzo del suo corpo da vendere alle riviste, tenuta stretta dall’uomo che pensa di possederla come se fosse la sua borsetta, rifletto su The Substance e mi rendo conto che forse, per tutto questo tempo, abbiamo sprecato infinite energie a cercare il mostro nei corpi sbagliati.

Per il mondo dello showbusiness meravigliosamente narrato in The Substance, i veri mostri erano coloro che decidevano e decidono che forma darci, come modellarci e raccontarci, come divorarci e poi sputarci fuori senza pietà.

In quelle foto dal red carpet dei Grammy’s, la creatura ripugnante è in piedi, tutta tronfia e vestita da capo a piedi, di fianco a Bianca Censori, che guarda fissa in camera sperando di finire in fretta.

Chissà quando impareremo ad avere schifo per le giuste aberrazioni.

Trova la sala più vicina in cui vedere e rivedere The Substance.

ARTICOLO n. 9 / 2025

PROGETTARE LA DISERZIONE DELLE PIATTAFORME

Nuove relazioni per il lavoro culturale

Dopo la parata di oligarchi tech statunitensi (o broligarchi o tecno-bro, un tempo noti come media mogul, ecc.) alla cerimonia di insediamento di Trump, tra gli utenti “progressisti”, liberali, o antifascisti, o semplicemente tra i consumatori di social media infastiditi è riesplosa la rabbia e la frustrazione verso le piattaforme di proprietà di Musk e Meta. Una rabbia e una frustrazione che stanno montando sempre di più, a ondate periodiche, da qualche anno. 

Nella mia bolla “social” si succedono annunci di utenti che salutano tutti e chiudono il loro profilo su X o su Facebook, altri che chiedono di iscriversi alla propria newsletter (l’ho fatto anche io) o che ri-aprono un blog o sostengono che dovremmo tutti tornare ai blog. Poi ci sono i giornali online come Valigia Blu, che ha annunciato che entro un anno chiuderà i suoi account Meta e X. Altri, come Libération in Francia, hanno annunciato che lasceranno X. Prima di loro, il Guardian era già uscito da X a novembre del 2024, NPR (radio pubblica USA) lo aveva fatto nel 2023, La Vanguardia, il giornale più letto in Catalogna, era uscito subito dopo il Guardian. Non solo giornali, ma anche università e altre istituzioni pubbliche hanno annunciato di uscire da X, il più “odiato”, ma anche da Facebook.

La buona notizia è che sta succedendo qualcosa che fino a pochi anni fa era impensabile: si può uscire da queste piattaforme senza che il mondo crolli. Non è inevitabile doverci stare. Fino a pochi anni fa davamo per scontato che fosse “necessario” stare su queste piattaforme, sia come individui, che come istituzioni. Anche quando poi è diventato evidente che starci significava doversi sobbarcare un alto carico di lavoro cognitivo per filtrare le informazioni rilevanti dalla paccottiglia, dal rumore di fondo, dalla pubblicità, dai debordanti ego personali, dai messaggi aggressivi e sessisti. Con il tempo, “stare dentro” questi ecosistemi è diventato sempre più faticoso per tutti, ma, come per il capitalismo, siamo portati a credere che “non c’è alternativa”.

La percezione collettiva di una mancanza di alternative ai social media ha depresso non solo noi utenti come singoli, ma anche tutte le istituzioni culturali, grandi e piccole, che ci stanno dentro.

In questo articolo proverò a ripercorrere la storia di questa crescente disaffezione per i social media, prendendo come caso di analisi la parabola social delle riviste culturali online, e proverò a immaginare possibili vie di fuga alternative, anche se non risolutive.

L’”età dell’oro” delle riviste culturali online è ormai alle nostre spalle, se mai è esistita. In termini di sostenibilità economica del lavoro culturale, non è mai esistita un’età dell’oro delle riviste online, ma in termini di bacino di lettori possiamo parlare di un breve ciclo di anni in cui le riviste hanno davvero beneficiato dalla loro visibilità sui social media e dalla condivisione dei loro contenuti da parte degli utenti. Non solo le riviste culturali, ma il giornalismo in genere, tra il 2010 e il 2020 ha progressivamente affidato la distribuzione dei propri contenuti alle piattaforme social, nella speranza che queste generassero prima un ritorno di lettori sotto forma di click e poi, forse, chissà, anche un ritorno economico basato su quegli stessi click e altre metriche esoteriche come il dwell time, ovvero il tempo di permanenza su una pagina.

Ma dal 2015-‘16 in poi, quando cioè ormai tutti – singoli utenti e istituzioni culturali – avevano stabilmente traslocato sui social media, la fragile bilancia tra i costi e i benefici dello stare sui social media ha cominciato inesorabilmente a pendere dalla parte dei costi e dei sacrifici. I social media hanno costruito la propria base di utenti seguendo la stessa logica dei pusher: prima ti regalo la roba gratis e di buona qualità, poi quando sei agganciato e dipendente, te la faccio pagare e riduco la qualità. Una volta che le riviste culturali e i giornali online in genere hanno dismesso i propri blog e ridotto gli investimenti sui propri siti, chiuso le proprie newsletter e in molti casi interrotto le versioni su carta, la dipendenza dalle piattaforme commerciali per la distribuzione e visibilità dei contenuti è diventata massima. A quel punto, le piattaforme di Meta hanno iniziato una costante serie di modifiche ai propri algoritmi con l’obiettivo di rendere sempre meno visibili i contenuti non sponsorizzati e i link a siti web esterni al proprio ecosistema tecnologico, per trattenere gli utenti il più possibile dentro i propri confini e poterli posizionare davanti a uno dei loro post sponsorizzati. Risultato: ci siamo trovati tutti incastrati e isolati dentro l’ecosistema dei social media, con i ponti verso l’esterno bombardati. I grandi gruppi editoriali, già alla fame, hanno iniziato a pagare per promuovere i propri contenuti, per non perdere i flussi di lettori abituati ormai a scoprire notizie sui social media. Chi però non poteva permettersi budget per la promozione dei contenuti ha iniziato a sperimentare un calo vistoso del flusso di lettori proveniente dai social media. Questo calo si è andato intensificando negli anni, fino a ridursi a un rivolo, quasi un torrentello stagionale, costantemente a rischio estinzione. Meta e X hanno raggiunto i loro obiettivi economici, ma lo hanno fatto sulla pelle di tanti piccoli editori. 

A questo punto, il processo di sussunzione (direbbero i marxisti) o di assorbimento del lavoro culturale all’interno dell’ecosistema di Meta può dirsi concluso. Così come durante la prima fase della rivoluzione industriale i lavoratori dei piccoli laboratori artigiani sono stati via via risucchiati dentro la macchina della fabbrica, allo stesso modo i lavoratori culturali che avevano blog o che lavoravano per qualche giornale sono stati risucchiati dentro la fabbrica dei social media, diventando produttori di contenuti per questi ecosistemi, alla mercé delle logiche algoritmiche e proprietarie di queste aziende. I blogger sono diventati influencer, perché il pubblico aveva abbandonato i blog per i social media. I giornali hanno ridotto le loro redazioni, e i giornalisti sono diventati anche loro influencer, o meglio, content creator indipendenti.

Questa è la storia, molto in breve, dell’ascesa dei social media. Se abbiamo un po’ di memoria storica, comprendiamo che la crisi di queste settimane, cioè la rabbia di cui parlavo all’inizio di questo articolo, è solo l’ultimo stadio di una crisi iniziata già molti anni fa.

Le piattaforme di Meta erano già un disastro ben prima che Zuckerberg si convertisse per opportunismo all’ideologia MAGA. Twitter era tossico e pieno di pubblicità anche prima dell’acquisto da parte di Musk. Per anni abbiamo vissuto nell’illusione che questi nuovi media fossero migliori e più progressisti dei precedenti. Questa miopia è stata prodotta dagli ingegnosi modi in cui movimenti sociali e politici progressisti come gli Indignados, Occupy, i giovani delle primavere arabe, i #15M, i #Metoo e i #Blacklivesmatter hanno usato i social media, sorprendendo per qualche anno i politici reazionari. Abbiamo fatto l’errore di attribuire alle tecnologie un’ideologia progressista che non avevano, quando invece erano stati i movimenti sociali progressisti a sfruttare a loro vantaggio tecnologie neoliberali. Ma la Silicon Valley e i suoi maggiori azionisti e imprenditori non sono mai stati liberali. Lo sono stati per opportunismo durante l’amministrazione Obama e Biden, ma intimamente sono tutti cresciuti nel brodo culturale dell’anarco-capitalismo incarnato iconicamente da Elon Musk.  

Non possiamo svegliarci nel 2025 come delle verginelle cieche e strillare al “fascista” o rivendicare un improvviso ritorno all’età dell’oro dei blog. 

Ci sono voluti anni per arrivare a questo stadio avanzato di sussunzione del lavoro culturale da parte delle piattaforme, e ci vorranno anni per invertire anche solo parzialmente la rotta. 

Non si torna facilmente indietro riaprendo un blog. Perché dopo l’iniziale entusiasmo per la rinascita di un “vecchio” medium, ci troveremo di nuovo arenati nel deserto, senza uno straccio di pubblico che faccia la fatica di percorrere la strada necessaria per trovare il nostro blog.

Gli editori hanno fatto l’errore di credere che fosse inevitabile stare sui social, e ora ne pagano le conseguenze.

Però. Qualcosa si muove. La migrazione verso Bluesky (attualmente 30 milioni di utenti) o Mastodon o più semplicemente la riduzione nell’uso delle piattaforme Meta dimostra che è possibile fare a meno di loro. C’è vita al di fuori di questi ecosistemi. Se questa convinzione prende sempre più piede, il potere simbolico del capitalismo della sorveglianza e di piattaforma inizia mostrare qualche pallida crepa, da cui in futuro potrebbero staccarsi pezzi. Ma nel breve periodo, come reagire di fronte a questo disastro? Come sopravvivere, da editori di riviste culturali online, in questo ecosistema in rovina?

Non credo esistano soluzioni definitive, ma strade che vale la pena iniziare a percorrere, il più presto possibile, per aumentare le probabilità di sopravvivenza future.

Dopo anni di rincorsa ai luoghi dove le audience e i lettori si erano spostati, bisogna faticosamente ricostruire una casa, dove invitare le persone, i lettori, a tornare. Invece di rincorrere il lettore occasionale sui social, bisogna riaddestrarlo a “uscire di casa” virtualmente per fare visita alla rivista. Questo significa non solo avere un sito web o un blog accogliente, ma anche e soprattutto far leva su una serie di strumenti online e offline per spostare i lettori verso le riviste, e non più le riviste verso i lettori. Naturalmente questi processi saranno lunghi e faticosi, come un attraversamento di un deserto, e difficilmente diventeranno mainstream.

La rivista Valigia Blu, nel suo annuncio pubblico, è stata molto pragmatica: lascerà Facebook entro un anno, mentre non è ancora certa di lasciare Instagram. Altri hanno deciso invece di smettere di pubblicare contenuti, ma di non cancellare i propri account. Sono forme “dolci” di distacco e disimpegno: si inizia con il diminuire progressivamente la dipendenza da queste piattaforme, senza però abbandonarle del tutto. Ogni rivista, ogni editore, sceglierà le strade più adatte alla propria scala, a seconda di quanto il proprio traffico web dipende ancora da una di queste piattaforme, per non prosciugare del tutto quel rivolo che ancora scorre. Mentre si liberano risorse temporali, emotive e psichiche non aggiornando più queste piattaforme o entrandoci sempre più di rado, si investe quel tempo liberato nella ricostruzione della propria casa al di fuori di Meta o X.

Questa ricostruzione può prendere molteplici vie, anche sovrapposte tra loro. Una delle vie maestre per la ricostruzione della propria casa è la fortificazione (per chi già l’aveva) della propria newsletter, un vecchio strumento tornato di moda, se fatto con cura e creatività. La newsletter è un prodotto editoriale che offre molte possibilità creative e raggiunge direttamente le persone nelle proprie caselle di posta. Ci vogliono anni per far crescere la base degli indirizzi e-mail, e chi ha cominciato anni fa è oggi avvantaggiato. Nel mondo delle riviste culturali esistono molti esempi virtuosi, come Medusa, e nel lungo periodo la newsletter può anche contribuire parzialmente alla sostenibilità economica del lavoro culturale. Ora, il panorama delle newsletter è già molto saturo, direte, ma sono poche quelle fatte bene. Io continuo a credere che una newsletter curata e creativa piano piano troverà sempre la sua nicchia di pubblico e nel lungo periodo può generare più traffico verso il proprio sito web di quanto ne generino i social media oggi.

Ovviamente si può provare ad aprire profili sui social media “alternativi” emergenti, come Mastodon o Bluesky. Il primo è una cooperativa federata, indipendente e con uno standard etico molto alto. Ma è ancora molto poco popolata. La seconda è una specie di S.r.l. fondata dall’ex proprietario di Twitter, al momento senza pubblicità e non ancora infangata dal rumore di fondo tipico di X (ma potrebbe diventarlo). Con pazienza, anche queste piattaforme potranno far crescere marginalmente il traffico verso i contenuti culturali.

Molte altre riviste, come Lucy della Cultura, hanno iniziato invece a produrre podcast, alcuni anche molto popolari. È una strada possibile. Ma produrre podcast di qualità costa molto e rende, per il momento, molto poco. In più, si lascia la dipendenza da Facebook per abbracciare la dipendenza da Spotify, che monetizza con le stesse logiche di Meta, senza compensare i podcaster. Solo le grandi imprese editoriali, e qualche manipolo di volontari molto accaniti e creativi, riescono per il momento a sfruttare adeguatamente questa opportunità.

Ma non è sostituendo una tecnologia con un’altra, che risolveremo le cose. Una rivista culturale è una comunità di attivisti e di lettori, non è solo un’impresa commerciale. E sta in piedi solo se questa comunità si riconosce nella rivista. E allora serve costruire nel tempo un’infrastruttura di relazioni radicate nel mondo fisico, tramite incontri periodici, gruppi di lettura, festival, giornate di festa comuni, pranzi per strada per auto-finanziarsi, accanto a campagne di crowdfunding perennemente attive.

Guardate l’esempio di Radio Popolare a Milano. È nata nel 1976, dà lavoro a circa 30 persone. Ognuno di voi, se l’avete mai ascoltata, avrà giudizi contrastanti sui loro contenuti e sulla loro linea editoriale. I più vecchi diranno che era molto meglio 20 anni fa, o 10 anni fa, o 30 anni fa. Altri diranno che non è più come prima, bla bla bla. Ognuno di loro ha le sue ragioni. La radio ha attraversato tante diverse stagioni. Ha cambiato sede e pelle più volte. Ma è ancora lì. In piedi, con una sede di cui è proprietaria, un auditorium dove continua a fare concerti e un bacino di ascoltatori affezionati che continua a pagare un “canone” volontario simile a quello del servizio pubblico. E lo fa in un’industria, quella della radiofonia locale, in crisi da anni, sia perché la pubblicità locale è sempre più aspirata da Google e Meta, sia perché i contributi statali sono sempre meno.

Eppure è viva ed è un esempio di lavoro culturale (faticosamente) sostenibile, che si è ibridato con il digitale senza legarsi alle piattaforme. Non è per forza l’unico modello possibile e sicuramente nemmeno il più innovativo, ma la lezione di Radio Popolare è che qualsiasi impresa (qui nel senso di avventura epica) culturale resiste e sopravvive solo se alla base c’è un pubblico deciso a sostenerla. Sono i lettori il capitale sociale delle imprese culturali. In ogni rivista ci vorrebbero delle persone deputate al rapporto quotidiano con i lettori, così come a Radio Popolare c’è qualcuno che sta alla porta ad accogliere gli ascoltatori che hanno voglia di passare a visitare la radio, o che rispondono al telefono.

Le riviste vivono se smettono di essere l’orticello privato di qualche aspirante intellettuale e se si presentano come un’infrastruttura di base, come i parchi e le farmacie, dove i lettori possono trovare pace e “medicine” per la loro fame di sapere. Nessuna delle soluzioni elencate fin qui sarà sufficiente per recidere in maniera sostenibile il cordone con le piattaforme digitali, probabilmente per molti editori e riviste è già troppo tardi. Ma tutte insieme, queste soluzioni sono una strategia che riuscirà a salvare qualcuno. Prima si inizierà a sperimentare la diserzione del lavoro culturale dalle piattaforme, e prima prenderà forma un pubblico di lettori allenato a fare a meno dei social media.

Se più voci iniziano a gridare tutte insieme che non è inevitabile stare su Meta o X, che è uno spreco di tempo e risorse, altre si uniranno via via e piano piano la narrazione dell’utilità di questi strumenti inizierà a scricchiolare. Potrebbero volerci degli anni, e potremmo attraversare diverse fasi: sicuramente la transizione sarà lenta: le persone non abbandoneranno questi spazi da un giorno all’altro, ma li troveranno sempre più noiosi, entrandoci sempre meno, trovandoci sempre meno cose interessanti, fino alla saturazione. Forse queste piattaforme andranno addirittura in rovina, ma altre che devono ancora nascere o esistono già, come TikTok, prenderanno il loro posto nel mainstream.

È possibile, ma non inevitabile. Nel frattempo, chi avrà costruito una casa accogliente sarà pronto per offrire ai fuoriusciti e ai disertori un pasto caldo e un pugno di parole per cui valga la pena fermarsi a leggere.

ARTICOLO n. 8 / 2025

TOMÀS SARACENO

il nostro modo di essere animali

Già dalla soglia, la sala bianca della galleria d’arte Pinksummer introduce un ordine altro rispetto a quello del centro di Genova: fuori ci sono il vento, i rumori scomposti, le strade strette; dentro, una quiete rarefatta, dove ogni elemento sembra in attesa. 

Dei poliedri sospesi (Cloud Cities: Species of Spaces and other pieces, 2023), dai toni ocra e bruno, richiamano alveari, frammenti di una natura familiare. La loro geometria austera lascia comunque aperti margini di fantasia; potrebbero essere nidi, spazi abitabili per piccole creature.

Sotto di loro, ombre solidificate (In the Shadows, 2023): profili di metallo nero che si fanno animali — cani e gatti — silenziosi, all’erta, mentre uccelli appena accennati tracciano traiettorie incompiute, proiezioni di un volo che non avverrà. C’è una tensione tra il dentro e il fuori, tra l’ordine e la possibilità, che percorre tutta la mostra.

Anima∞le, questo il titolo, porta la firma di Tomás Saraceno, artista argentino nato nel 1973 e berlinese d’adozione. La sua ricerca dissolve confini: umano e non-umano si intrecciano in una rete che è al contempo fragile e necessaria, dove ogni elemento naturale esiste come relazione, mai come assoluto. Nell’arte di Saraceno, l’equilibrio, se c’è, è dinamico, invisibile.

Tra le sue opere più celebri, alcune esposte anche da Pinksummer, spiccano le “ragnatele ibride”. Teche dal fondale nero, dove ragni diversi hanno tessuto architetture di seta che sono incontri, mai progetti. È un processo lento, inesorabile: un ragno tesse il suo disegno, un altro lo modifica, e così le geometrie si frantumano e si ricompongono. Ogni filo si somma a quelli precedenti, in una crescita inaspettata che non prevede un unico autore; l’opera non è del ragno né dell’artista, ma di ciò che accade tra loro. Le ragnatele, quindi, diventano ponti, connessioni tra specie, e forse è proprio questa l’intuizione più profonda che suscita la mostra: non possiamo mai davvero comprendere ciò che accade; possiamo solo osservare, accettare il mistero. Le teche, con il loro rigore formale impeccabile, racchiudono un processo che è puro abbandono, una resa totale all’imprevisto.

E mentre osservo le ragnatele ibride di Saraceno, la mente si sposta altrove, verso la storia di un amico e della sua casa di campagna. È un luogo che ha ereditato dai nonni, una casa che lo ha visto crescere, accoglierlo nei fine settimana, nei vuoti delle vacanze estive. La immagino, la casa, circondata da campi e alberi: è lì che lui si ritira, quando il mondo lo sopraffà, quando sente che la routine cittadina si gonfia fino a esplodere. Dice che immerso in quella natura può respirare davvero, pensare, vivere meglio. Vivere, sì, nel senso più semplice, più nudo del termine; vivere senza orpelli, senza eccessi.

E mentre penso al mio amico e alla sua casa di campagna, il mio sguardo torna alle opere di Saraceno, a due “alveari” della serie Cloud Cities, installati nel cortile di Palazzo Ducale, due alveari che aspettano l’arrivo di ragni, uccelli e insetti. Collocarli all’aperto non è un gesto simbolico, ma una proposta reale, concreta: la proprietà si trasforma in una condizione condivisa, in una coesistenza.

Se un uccello vi costruisce un nido, se un ragno vi tesse la sua tela, la scultura non appartiene più solo a chi l’ha acquistata, ma gli animali ne diventano co-proprietari. E allora il collezionista, di fronte a questo nuovo patto, deve accettare una responsabilità: rispettare i tempi e gli spazi di chi ha scelto di abitare e, di conseguenza, lasciare l’opera dove si trova.

In questa prospettiva, possedere non significa più controllare. Significa accogliere. Prendersi cura. La scultura smette così di essere un oggetto prezioso, uno status symbol, per diventare una piccola casa; e, in senso più ampio, la mostra smette di essere un oggetto di contemplazione per diventare esperienza, dove non c’è un centro e né un perimetro, bensì un sistema complesso, organico, che si evolve. 

E mentre osservo questo sistema, capace di accogliere creature del bosco e della città, mi trovo a riflettere su una parola, “animale”. Jacques Derrida ci avverte: questa parola non è semplice, non è neutra. È una trappola linguistica, un termine che non si limita a descrivere, ma ordina. L’animale, spiega Derrida in L’animale che dunque sono, non è mai singolo, ma collettivo: un “animot”, un amalgama di suoni che fonde le diversità non umane sotto un’unica ombra. E in quell’ombra, per contrasto, emerge la figura dell’uomo, colui che stabilisce il proprio dominio.

Però questa trappola non è soltanto linguistica; è politica. Giorgio Agamben, in L’aperto. L’uomo e l’animale, ci guida a comprendere come questa divisione abbia permesso di creare un’umanità normativa, una categoria che esclude ciò che non si conforma. L’animale, così come l’umano che sfugge ai canoni, viene relegato in una zona indistinta, un limbo dove non esistono diritto né riconoscimento.

E allora, si domanda Felice Cimatti, cosa rimane dell’uomo se togliamo l’animale? Nella sua Filosofia dell’animalità, l’autore rovescia la prospettiva: non è l’uomo a trascendere l’animalità, ma è l’animalità a fondare l’uomo. Questa animalità, lungi dall’essere una mancanza, è una ricchezza, una pulsazione costante che ci accompagna, ci modella, ci definisce. È la nostra essenza: corpo, desiderio, relazione. Negare l’animale significa, in fondo, negare noi stessi.

E così, mentre rifletto su ciò che il termine “animale” contiene dentro di sé, la mente mi riporta al mio amico e alla sua casa di campagna. Lo vedo entrare in cucina in una mattina qualsiasi, con quel gesto familiare, e aprire la dispensa. Lì si ferma. Resta immobile, la mano ancora sulla maniglia, lo sguardo fisso sul sacchetto della farina, strappato. I grani sparsi disegnano linee sottili sul ripiano. Nota il sacchetto di zucchero, anche quello aperto, violato. E qualcosa dentro di lui si contrae. Non è solo fastidio, è un peso indefinibile, un disagio che cresce, che sembra avere vita propria.

Dev’essere stato un animale, pensa. Un topo, forse. O peggio, un ratto: uno grosso, con i denti lunghi, affilati, pronti a mordere, a divorare ogni cosa. Nella sua mente si forma un’immagine vivida: occhi piccoli, lucidi, che lo osservano dal buio; un corpo grigio che si infila negli angoli, scivolando silenzioso, invisibile. Così, d’istinto, si pulisce le mani, le dita, come se quei pensieri lasciassero una traccia tangibile sulla pelle. E mentre lo fa, il pensiero si insinua più a fondo. Cosa succederebbe, si chiede, se per sbaglio dovesse mangiare qualcosa che quell’animale ha toccato, ha rosicchiato?

Lo sa benissimo: si vede già a letto, febbricitante, il corpo che trema, i dolori che percorrono le ossa. O magari afflitto da qualcosa di più grave, qualcosa che si diffonde, un’infezione rarissima, mortale. Il disordine dei sacchetti strappati lo inchioda. Non riesce a fare nulla, perché sa, sente, che quell’animale non è solo nella dispensa. È ovunque. È nella casa, nei muri, nei corridoi. È dentro di lui, dentro i suoi pensieri, e lo insegue, lo perseguita. E, d’ora in avanti, non lo lascerà mai in pace.

E mentre penso alle paranoie del mio amico, lo sguardo si posa su tele color avorio, sospese a un’altezza insolita, quasi a sfiorare il pavimento della galleria d’arte (Wayra, 2023). Non occupano lo spazio con autorità, ma si offrono a un’interazione inattesa. Dentro quelle tele ci sono odori, materiali, un linguaggio che non parla a noi, ma ai cani, e che li invita ad avvicinarsi, ad annusare, a esplorare senza esitazione. Osservo da vicino: alcuni hanno raschiato la superficie con le zampe, lasciando piccoli segni, graffi appena visibili; altri, incuriositi, si sono spinti oltre, lasciando tracce di saliva, sbavature lucide che hanno infranto la sacralità della tela.

L’interazione è diretta, priva di esitazione o reverenza. I cani non osservano l’opera con distanza; la vivono. Rispondono a qualcosa che li chiama, che li coinvolge. E in questo semplice gesto, Saraceno svela una posizione di tipo politico: l’arte contemporanea non è solo da guardare, ma da toccare, alterare, persino sporcare. È un campo di forze che può sfuggire all’intenzionalità dell’artista e diventare qualcos’altro.

E mentre guardo i segni lasciati dai cani sulla tela, la mente torna al mio amico. Lo vedo mentre si mette in azione. Recupera tutto ciò che può aiutarlo: polveri, granuli, esche avvelenate; fa ricerche online, chiede in paese. Riempie ogni bordo della dispensa, ogni ripiano, ogni fessura, con una precisione pitagorica. E guarda le sue mani che spargono il veleno, che mettono trappole ovunque, trappole che poi controlla ossessivamente, giorno e notte, ma che ogni volta trova vuote, immacolate, eccetto per qualche pallina scura. Gli escrementi, sì, quelli ci sono. Com’è possibile, si chiede. Come può quell’animale sfuggire sempre, essere così astuto, così veloce? La frustrazione si insinua lentamente, fino a trasformarsi in dubbio – dubbio di sé, della sua capacità di controllare la casa, del proprio equilibrio mentale.

Decide allora di spingersi oltre. Compra una telecamera, una di quelle che si usano per catturare immagini di animali notturni. La posiziona con cura, e ogni mattina, con ansia, guarda i video. Ma non trova nulla. Nessun movimento, nessuna apparizione, nessuna traccia. Eppure sa che l’animale è lì. Lo sente, lo percepisce. E allora il dubbio si fa più profondo. È tutto nella sua testa? Quell’animale esiste davvero, o è solo un pensiero che si è radicato, una paura che cresce al buio e non lo lascia più andare? 

E mentre penso al mio amico, che al telefono dice che adesso la casa di campagna gli sembra più vuota, più estranea, lo sguardo si posa sulla silhouette di un gatto in metallo nero, adagiata a terra. La gallerista si avvicina e con un gesto delicato la ribalta. E allora capisco: l’ombra del gatto, capovolta, non è più la sua, è quella di un topo, e a me viene da ridere perché penso a cosa direbbe il mio amico.

ARTICOLO n. 7 / 2025

SAD GIRL

il mito della tristezza femminile

In una fredda mattina del febbraio 1989, il pescatore Pete Martell si imbatte in un cadavere, avvolto in un telo di plastica, che galleggia a faccia in giù nei pressi della riva. È probabile che la scena vi risulti familiare: non si tratta di un caso di cronaca, infatti, ma dei primi fotogrammi di una serie tv entrata nella storia, Twin Peaks.Dentro quel telo c’è il corpo, esanime, di Laura Palmer. Diciassettenne, bellissima, di buona famiglia, diligente e impegnata nel volontariato, per tutta la comunità Laura è un esempio da seguire. Tuttavia, puntata dopo puntata, emerge un’altra verità. La giovane non è affatto l’emblema della spensieratezza adolescenziale, ma una ragazza triste, dipendente da sostanze, che nasconde una storia drammatica. Forse in pochi sanno che il racconto di David Lynch e Mike Frost si ispira a una vicenda reale, quella di Hazel Irene Drew, una ventenne che, nel 1908, fu ritrovata morta in un laghetto a Sand Lake. Anche lei bionda, con gli occhi azzurri e il volto da brava ragazza, anche lei con una storia personale ben più complessa e oscura di quella che amici e familiari cercavano di raccontare.

L’interesse dei creatori della serie tv verso fatti di cronaca che coinvolgono ragazze con lineamenti angelici e animi tormentati accomuna moltissime persone. Secondo la scrittrice Sara Marzullo, è possibile parlare di una “sindrome di Laura Palmer”, una sorta di attrazione morbosa nei confronti di giovani che sono ragazze perbene, per citare il romanzo d’esordio di Olga Campofreda, solo apparentemente. Assomigliano, in effetti, più a giovani perdute «che nascondono segreti per cui devono scomparire, disposte a pagare il prezzo per custodirli per sempre». Il nostro viaggio intorno ai miti che caratterizzano la femminilità ci conduce a esplorare qualcosa che ha a che fare con la postura emotiva che sembra caratterizzare un intero genere: quella tristezza cupa ma sensuale che diventa tratto identitario. Il cinema, la musica e la letteratura si sono fatti portavoce di questo modello, tanto da trasformarlo in un immaginario comune che ha ispirato la vita di molte ragazze durante tutta l’adolescenza.

Giovane nei primi anni Duemila, ho sperimentato sulla mia pelle il fascino di questo modello, per questo mi riconosco nella descrizione con cui Sara Marzullo identifica la personalità della sad girl: «Prima di tutto si definisce ragazza, dunque associa deliberatamente lo stato malinconico al genere di appartenenza (…) infine legittima la tristezza come qualcosa che ne contraddistingue l’esperienza femminile e la distingue dal resto della società».

In un’intervista rilasciata al tabloid inglese Daily Star, la cantante Lana Del Rey ha raccontato di aver pensato più volte di farla finita, di eclissarsi per sempre, schiacciata da una sensazione di fallimento personale e professionale. Resa celebre da hit come Born to DieSummertime Sadness e Ultraviolence – canzoni che fin dal titolo riflettono il suo punto di vista emotivo, malinconico ed erotico – la performer statunitense sembra essere la rappresentazione perfetta di quell’ideale estetico indagato da Marzullo, che si impone grazie a siti come Tumblr una quindicina di anni fa, ma che, a ben vedere, era presente anche prima.

Come molte ragazze cresciute in quegli anni, anche per me l’adesione al prototipo di “sad girl” è stato un simbolo di riscatto, un elemento su cui fondare un’identità che sembrava scegliere volontariamente di stare ai margini, lontana dalle coetanee, con cui mi sembrava di non condividere niente al di fuori dei cromosomi, o delle persone adulte che avevo intorno, totalmente disinteressate ai problemi di un’adolescente. Tuttavia ha rappresentato anche un modello, calato dall’alto, a cui conformarsi. Un tentativo di ammaestramento in cui è facile imbattersi e difficile allontanarsi, se non a costo di una trasformazione.

Ne Il mostruoso femminile, Jude Ellison Sady Doyle sottolinea come ogni ideale femminile cristallizzato in libri, serie tv o film costituisca il riflesso della cultura patriarcale che lo genera. Lo scopo è sempre educativo: esorta le donne a prendervi parte o, al contrario, ad allontanarsene per evitare il biasimo sociale. Così, se la dead blonde è la vittima sacrificale perfetta, presente non a caso in tutti gli horror, la final girl è l’eroina che vi si contrappone, «un’eccezione alla norma femminile, e alla maggior parte di noi, che per definizione non è eccezionale».

La sad girl sembra intrecciare entrambi i modelli: come la final girl differisce dagli altri personaggi femminili per estetica e sensibilità. Tuttavia, come la dead blonde, non potrà mai superare la giovinezza, condannata prematuramente al sacrificio di sé sull’altare dell’emotività.

L’unicità di cui la sad girl si fa portatrice è funzionale alle esigenze patriarcali e capitaliste, più che alle proprie. Uno dei principali meccanismi che impedisce al genere femminile di costruire alleanze è infatti la condizione di isolamento in cui le loro vite si inabissano. L’isolamento conferisce unicità (“non sei come le altre”) e nello stesso tempo insegna a ciascuna a dubitare delle donne che incontra – sorelle, colleghe o semplici conoscenti, non importa. Allo stesso tempo il mercato propina prodotti, sotto forma di pellicole, canzoni e libri, che apparentemente ne legittimano le sensazioni e le emozioni ma si rivelano inutili per scavare dentro di sé. Quello che viene rimosso, dalla vita dalle ragazze tristi, è il conflitto, uno strumento che, secondo la scrittrice Sarah Schulman, è indispensabile non solo alla crescita personale ma anche a quella sociale e politica.

La rimozione del conflitto passa attraverso la riduzione di tutte le altre caratteristiche che definiscono la personalità di una giovane donna in formazione, che finiscono così sullo sfondo. Se considerate, infatti, impedirebbero di riconoscersi in modo totalizzante in una sola categoria: l’identità si diluirebbe in tanti piccoli elementi, invece che confluire nell’unica emozione ammessa, la tristezza, e nel sentimento di isolamento e superiorità a essa collegato. Non è una caso che proprio la dimensione emotivo-sentimentale sia l’unica degna di nota. Ricorda Marzullo: «Le emozioni non costituiscono una prova inconfutabile di realtà, e pertanto sono tendenzialmente etichettate come una cosa da donne, da cui il mondo vero, serio, razionale delle decisioni deve assolutamente affrancarsi». L’universo esperienziale delle sad girl è uno specchio che riflette le emozioni altrui per amplificare le proprie, senza mai permettere un cambio di prospettiva, un’analisi più approfondita del disagio esistenziale che si avverte.

L’ideale estetico e identitario della ragazza triste – inoffensivo, privato e vulnerabile – si presta al gioco di potere tipico dei sistemi patriarcali: genera infatti spazi di condivisione al femminile che si rivelano asettici, fornisce una comprensione reciproca superficiale e ripudia il conflitto. Scrive Marzullo che «l’esperienza della ragazza è universale, in virtù del suo essere personale, cioè in virtù della intercambiabilità delle nostre vite personali». È per questo che l’unico antidoto a questo modello – che non si è affatto dissolto con la fine di Tumblr ma è semplicemente migrato su altre piattaforme, cambiando forme senza alterarne la sostanza – è rappresentato dallo sguardo collettivo, quello che i femminismi hanno costruito in decenni di teorie e pratiche. Prendere coscienza della pervasività dello sguardo maschile è alla base di questo riscatto che passa anche attraverso una nuova consapevolezza: il riconoscimento che la tristezza non è mai stata un’identità ma solo un’emozione. E come tale, acquista senso in un quadro più ampio, a cui si può accedere solo sacrificando il modello ricevuto. I femminismi, come tutte la pratiche trasformative, ci insegnano a non avere paura di immergerci nella profondità di noi stesse, a disfarci di un’identità posticcia per diventare ciò che si è.

ARTICOLO n. 6 / 2025

NON VISTO, NON DETTO

In occasione del Giorno della Memoria, ritorna in sala da domenica 26 gennaio a mercoledì 29 gennaio – distribuito da I Wonder Pictures – il film vincitore di due premi Oscar tra cui la statuetta come Miglior film internazionale, “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer. Trova il cinema più vicino a te qui

Nei cinque minuti finali de La zona di interesse di Jonathan Glazer, Rudolf Höß si trova a Berlino, nella sede della WVHA, l’organismo dal quale ha da poco ricevuto il compito di organizzare la Ungarn-Aktion (che in seguito, in suo onore, sarà ribattezzata Aktion Höß), ovvero la deportazione di circa 800.000 ebrei ungheresi nei campi tedeschi. È sera, i corridoi sono vuoti, e sembra che non ci sia nessun altro, nel palazzo, al di fuori di lui: esce dal suo ufficio, lo chiude a chiave e cammina deciso verso le scale. Sta andando a casa, ma non si tratta della casa in cui lo abbiamo spiato, insieme alla sua famiglia, per quasi tutto il film: quella villetta è lontana, è in territorio polacco. Lui però ha da poco scoperto che l’Aktion Höß, oltre a rappresentare un significativo avanzamento di carriera, gli permetterà di tornare proprio lì, ad Auschwitz, che è il posto dove la sua famiglia sta bene e vuole continuare ad abitare.

Così, cammina deciso: ha quarantatré anni, per tre di questi ha amministrato il Lager più grande di tutto il sistema-campi e, adesso, raccoglie i frutti del suo lavoro. Prende le scale ma, dopo qualche gradino, ha un’incertezza, forse un mancamento: rallenta, si ferma, sputa; ha dei conati di vomito che gli spettatori, subito, prendono per una forma di rimorso, forse di pentimento: dopo anni passati a organizzare l’orrore, davanti alla più grande occasione della sua vita Höß ha un tracollo, un momento di debolezza. È tutto il film che ci aspettiamo un segno di umanità da parte sua, ed eccolo, finalmente. Per un attimo Höß si riprende, scende un’altra rampa, si ferma di nuovo e di nuovo ha dei conati, più forti dei precedenti. Tutta la scena (non ci avevo fatto subito caso) è disturbata da un rumore bianco il cui volume sale man mano che Höß scende le scale, e che diventa dominante dopo quest’ultimo momento.

Accade a questo punto qualcosa di indicibile: Höß sembra sentire questo rumore, si guarda intorno, si chiede forse da dove provenga. È in campo lungo, sperduto dentro corridoi vuoti e freddi, ha voglia di vomitare e c’è un suono che lo sovrasta e lui lo sa. La scena, a questo punto, cambia repentinamente: adesso, al centro dello schermo, che si è fatto nero, c’è una macchiolina di luce, che ha la forma dei lampadari sotto cui Höß sta forse per vomitare. Due donne aprono una porta – la macchiolina era lo spioncino: siamo dunque altrove, lontano da quei corridoi e da quei lampadari –, parlano in polacco, anche loro sovrastate dal rumore bianco che ha preoccupato, in un altro tempo e in un altro spazio, Rudolf Höß: lo spazio altro in cui si trovano è Auschwitz, la porta che hanno appena aperto è quella della camera a gas del campo I; il tempo altro in cui agiscono è oggi: sono inservienti del museo, hanno scope, palette, tute da lavoro. Il rumore che fa la scopa sul pavimento della camera e, poco dopo, il suono delle aspirapolveri azionate da altre donne che stanno pulendo le baracche dove sono raccolti i capelli, le scarpe, le protesi, gli effetti personali delle vittime assomigliano sinistramente al rumore bianco che ha spaventato Höß.

È l’unica volta in cui Glazer entra dentro il Lager: il film è finito, e anche le persone e i fatti di cui ha parlato non ci sono più. Per quasi due ore ha filmato tutto fuorché ciò che ci fa vedere ora, vale a dire l’interno del campo: ma è un interno asettico, postumo, vuoto di vittime – simbolicamente potentissimo ma diverso rispetto all’interno a cui, mentre i figli di Höß si tuffavano in piscina o la moglie Hedwig curava le azalee e il cavolo rapa, chi ha guardato il film ha pensato costantemente.

Per qualche motivo, questo finale clamoroso mi fa pensare, ogni volta che lo guardo, all’inizio di un altro film – l’altra grande opera sui campi che questi nostri anni ci hanno regalato e che è apparentemente l’opposto della Zona d’interesseIl figlio di Saul dell’ungherese László Nemes. In Saul, se si escludono le scene finali, siamo infatti sempre dentro al campo. Eppure, anche qui, il campo non si vede quasi mai. La camera è sempre vicinissima al corpo e al volto di Saul Auslander: chi guarda Il figlio di Saul guarda soprattutto lui – ciò che gli sta intorno è sempre fuori fuoco. Il film inizia con Saul che si avvicina alla camera: il suo volto, bellissimo e straziato, è magro, giallo, suggellato da un herpes labiale che non si riesce a non guardare. Indossa un vecchio cappotto con una X rossa spennellata sulla schiena: è il segno che è un Sonderkommando, e che dunque non va sterminato. Mentre si guarda intorno e si scambia cenni con dei colleghi vediamo, dietro di lui e fuori fuoco, vecchi, bambini e donne che procedono in fila disordinata. Vengono condotti in un luogo chiuso: il soffitto è basso, ai muri ci sono dei ganci di ferro dove i vecchi e le donne, aiutati anche da Saul, appendono i loro abiti.

C’è silenzio, o quasi: qualcuno sussurra, i tedeschi danno ordini, i prigionieri sono stanchi e increduli, ma tranquilli. Chi ha un po’ di dimestichezza con la struttura dei campi e con la dinamica della gestione degli arrivi a questo punto dovrebbe aver capito dove ci troviamo e cosa sta per succedere: Nemes, in ogni caso, non lo dice e lascia tutto ai margini di una visione al cui centro c’è, ostinatamente, il volto di Saul. Si apre una porta e i prigionieri, nudi, vi entrano in massa. Noi rimaniamo da questa parte con Saul e, insieme a lui, ascoltiamo il suono terribile delle urla che, presto, cominciano a provenire dall’interno, e con esse ascoltiamo le preghiere, e i colpi sulla porta sprangata. Questo momento dura pochi secondi, Saul e gli altri Sonderkommando stanno in fila fuori, in silenzio, e guardano nel vuoto. Anche loro ascoltano, forse, o forse no. Come accade nel film di Glazer, sono i suoni a dire che cosa sta accadendo: ma mentre in Glazer, all’apparenza, si racconta altro – la vita borghese di una famiglia tedesca che, per così dire, ha un Lager nel giardino –, in Nemes le porte di questo giardino ci vengono aperte, solo che tutto è nascosto, schermato dal corpo e dal volto di Saul. È così nella camera a gas, sarà così più tardi quando, seguendo Saul, arriveremo in un bosco poco fuori dal campo, in una notte di esecuzioni sul margine di una fossa comune.

Detto altrimenti: La zona di interesse, e paradossalmente ancora di più Il figlio di Saul, funzionano, vale a dire che esprimono il loro massimo potenziale, soltanto se chi li guarda conosce già la storia che raccontano, le dinamiche intrinseche della vita dei campi e i loro segreti. Per esempio: c’è una scena, in Glazer, in cui si mostra Höß che si sta rivestendo dopo aver consumato un rapporto sessuale con una donna che non è la moglie Hedwig. Di questa donna e di questo rapporto non viene detto nulla, tanto che la scena, in sé, sembra superflua: ma lei è Eleanore Hodys, internata ad Auschwitz perché comunista, che divenne l’amante – o meglio: la schiava sessuale – del comandante. A Norimberga Hodys, che era sopravvissuta, avrebbe in seguito testimoniato di essere stata messa incinta da Höß e che per questo lui avrebbe pianificato di ucciderla. Tutti i comandanti dei campi avevano delle schiave o degli schiavi sessuali (i Piepel): molte di queste relazioni erano note, ma non in via ufficiale. La gravidanza di una detenuta avrebbe creato non pochi grattacapi a Höß: pare che ci fosse questa relazione clandestina alla base del suo trasferimento temporaneo a Berlino, che tanti patemi creò a Hedwig.

Ecco, Glazer sceglie di non dire nulla di tutta questa vicenda, ma solo di mettere in scena un uomo e una donna che hanno appena avuto un rapporto; allo stesso modo, Nemes vuole uno spettatore che conosca già il significato di una X rossa sul cappotto. Esagero: i due più grandi film sull’Olocausto di questi ultimi anni l’Olocausto non lo mostrano, perlomeno non in modo tradizionale. Giocano semmai sulla consapevolezza dello spettatore, lo sfidano creando scene in cui si vede solo una parte dei fatti, lo invitano a fare congetture su chi sia quel personaggio o che cosa significhi quel simbolo. Chiedono insomma una partecipazione attiva che spazza via in un solo colpo l’aspetto didattico, pedagogico, che da sempre è sotteso a questo genere di film. Glazer non dice che Auschwitz è il male, ma fa un’opera che può essere goduta appieno solo da chi sa già che Auschwitz è il male, e condivide la posizione etica dell’autore. Di più: fa un’opera che può essere assorbita appieno solo da coloro che sanno, sull’argomento, tutto ciò che sa l’autore.

Tutto ciò può sembrare un problema marginale. Invece, credo, è il rovello di tutti coloro che si cimentano con un’opera d’arte che ha a che fare con la Storia. Che cosa racconto di un avvenimento a cui tutti hanno libero accesso, che tutti possono conoscere e approfondire o che è addirittura così noto che tutti lo hanno studiato a scuola? Quali aspetti devo selezionare? Che cosa posso dare per scontato? E ancora: ha senso, oggi, dopo ottant’anni e migliaia di libri e di film e di testimonianze, raccontare l’Olocausto come veniva raccontato ancora vent’anni fa? Che cosa posso dire io, di nuovo e di diverso, affinché la mia opera acquisti senso e valga la fruizione?

Di fronte a tali questioni, nelle sue Lezioni di Łódź, ora pubblicate anche in italiano dentro al volume Il tenero narratore(Bompiani, 2024), Olga Tokarczuk ha parlato del concetto di eccentricità: «Si tratta» ha detto «di una particolare posizione che assumiamo nel percepire il mondo: un’uscita dal centro, al di fuori della comune e canonica sperimentazione della realtà, generalmente accolta. È la ricerca consapevole di una prospettiva mai universalizzata prima, che con la sua novità mostra ciò che non è stato colto, ciò che è stato omesso». Chi non è eccentrico a sufficienza, continua Tokarczuk, semplicemente non è bravo a sufficienza: non è in grado di fornire una prospettiva altra, laterale, su ciò che sta raccontando.

Ora, come si può fornire questa prospettiva altra, laterale, sull’Olocausto, fermo restando che se ne voglia parlare da un punto di vista storicamente attendibile ed eticamente sano? 

Mi sembra che La zona di interesse e Il figlio di Saul, pur nella loro diversità, diano una risposta simile: lavorando sulla forma – naturalmente senza dare i contenuti per scontati, ma fidandosi del fatto che il fruitore sia in grado di riempire i buchi che l’opera volutamente lascia (la Hodys, i vecchi le donne i bambini gasati immediatamente dopo il loro arrivo al campo). La bellezza di questi due film non sta nella storia che raccontano, anche se entrambi si fondano su punti di vista originali; sta piuttosto nel modo eccentrico in cui sono realizzati, lasciando dietro un velo tutto ciò che altri hanno già mostrato, e portando in primo piano ciò che è marginale, altro.

Detto altrimenti: non si guarda La zona di interesse o Il figlio di Saul perché sono film sull’Olocausto. Li si guarda perché il modo in cui sono realizzati dice sull’Olocausto qualcosa che non era ancora stata detta. Il volto tumefatto di Saul, così come il fatto che una camera lo talloni a un metro di distanza e ci mostri ogni sua imperfezione e ogni dolore, è più importante delle modalità con cui venivano fatte le esecuzioni, o della messa in scena dei compiti di un membro dei Sonderkommando. Il suono di un’aspirapolvere, nella Zona, è più decisivo delle discussioni sulle stazioni di smistamento dei treni dall’Ungheria, perché i treni ungheresi stanno anche sui libri di storia, mentre le aspirapolveri che attraversano il tempo e lo spazio e giudicano un genocida e si fanno memoria dello sterminio ci sono soltanto nel film di Glazer.

A questo proposito, c’è una coda, nel viaggio nel tempo e nello spazio che Höß forse compie alla fine della Zona di interesse. Ormai il rumore bianco non c’è più: si è trasformato nel rumore delle aspirapolveri in funzione oggi, nel museo di Auschwitz. Höß lo ascolta con noi, ma non è detto che ne comprenda il valore umano e simbolico. Anzi. Dopo un attimo di titubanza, smette di guardarsi attorno e sembra tornare nel suo tempo e nel suo spazio – è di nuovo soltanto il 1944 e c’è di nuovo soltanto Berlino. Ricomincia a scendere le scale, ma il piano di sotto non è più illuminato: la luce a tempo si è spenta, ma Höß sembra aver riacquistato la sicumera che aveva poco fa, calza il berretto e così, in divisa completa, continua a scendere spavaldo nel buio, verso quello che tutti ci auguriamo sia un inferno.

In collaborazione con I Wonder Pictures e I Wonderfull. Guarda il trailer del film qui.

ARTICOLO n. 5 / 2025

TRE INFANZIE

In occasione del Giorno della Memoria, ritorna in sala da domenica 26 gennaio a mercoledì 29 gennaio – distribuito da I Wonder Pictures – il film vincitore di due premi Oscar tra cui la statuetta come Miglior film internazionale, “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer. Trova il cinema più vicino a te qui

Tra i tanti suoni, rumori, voci che si intrecciano e si sovrappongono ne La zona d’interesse, fino a essere non solo un indispensabile tappeto sonoro ma un tema fondamentale del film, vi sono i pianti dei bambini. È così fin dalla prima sequenza, quando la famiglia Höss è riunita per un bagno nel fiume Sola, e si sente il pianto di Annegret, l’ultima nata di Rudolf e Hedwig Hensel, il 20 settembre 1943. Le sue urla di neonata progressivamente si confondono con quelle dei bambini ebrei che arrivano ad Auschwitz, vengono fatti scendere dal treno e, salvo poche eccezioni, sono inviati subito alla camera a gas. Noi sappiamo che il pianto che viene dalla casa della famiglia Höss è sempre quello di Annegret, così come sappiamo che quello che sentiamo provenire dall’interno del campo appartiene, giorno dopo giorno, a bambini sempre diversi e sempre segnati dallo stesso destino.

Lo sappiamo ma siamo costretti a fermarci per pensarlo, perché siamo abituati a considerare, come è giusto, che tutta l’infanzia è innocente e uguale. Che i bambini e le bambine cresciuti sotto il nazismo siano anch’essi vittime mi sembra ovvio, eppure alcune distinzioni vanno fatte. Vittime sono anche gli altri quattro figli dei coniugi Höss: Klaus, che nasce nel 1930, Heidetraut nel 1932, Inge Brigitt, che tutti chiamano Brigitte l’anno dopo, e Hans-Jürgen che viene alla luce nel 1937. Ma la loro è un’infanzia protagonista e visibile, che ha un presente e un futuro, a differenza del milione e mezzo di loro coetanei ebrei, che rimangono invisibili, uccisi nei ghetti, nello “sterminio delle pallottole”, nei campi di sterminio e le cui voci diventano via via sempre più fioche fino a spegnersi percorrendo la strada per Auschwitz, da qualsiasi luogo provengano.

Da questo punto di vista, il muro che si erge tra la villa della famiglia Höss e il Lager non divide solo due spazi, due condizioni, due gerarchie ma anche due destini. Brigitte, nata il 18 agosto 1933, ha sempre abitato vicino a un campo di concentramento: dagli uno ai cinque anni a Dachau, dai cinque ai sette a Sachsenhausen, infine ad Auschwitz dai sette agli undici. È nata quindici giorni dopo Enrica Spizzichino, figlia di Pacifico ed Elena Di Cave, deportata ad Auschwitz con i genitori e i due fratelli – Franca nata nel 1936 e Mario nel 1942 – dopo essere stata arrestata nella retata del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943. I tre bambini sono uccisi, insieme alla madre, all’arrivo nel Lager nazista, il 23 ottobre, quando Annegret Höss ha appena compiuto un anno. Hans-Jürgen ha invece sei mesi in più di Sergio De Simone che, arrestato a Trieste insieme alle cuginette Andra e Tatiana Bucci, arriva ad Auschwitz all’inizio di aprile 1944 e da lì sei mesi dopo verrà inviato con altri diciannove bambini a Neuengamme, dove saranno tutti sottoposti a terribili esperimenti medici e poi, alla fine della guerra, uccisi nello scantinato della scuola Bullenhuser Damn di Amburgo.

A differenza dell’invenzione de Il bambino con il pigiama a righe, quei bambini non si incontrarono mai né gli uni videro gli altri. Hans-Jürgen è l’unico che, ne La zona d’interesse, ha un momento di consapevolezza infantile della violenza che lo circonda quando, sentendo delle urla, si affaccia solo un attimo alla finestra e immediatamente si ritrae e tira le tende. Quando sente esclamare: «Annegalo nel fiume», allora Hans-Jürgen inventa un gioco nella sua mente e dice a un compagno immaginario: «Non devi farlo mai più».

Forse Glazer vuole dirci che l’innocenza non può essere preservata del tutto, neanche da Höss, che pure trascina Heidetraut e Hans-Jürgen via dal fiume pieno della cenere dei crematori. La madre e le governanti li lavano a lungo, strofinano i loro corpi perché la loro purezza rimanga intatta e non sia in alcun modo contaminata. I genitori costruiscono un cupo giardino dei giochi, dove un’infanzia inconsapevole vive però serena e allegra, malgrado gli spari, malgrado le urla, malgrado il fumo, malgrado la puzza che solo la madre di Hedwig sembra sentire. È un continuo cortocircuito del mondo infantile: i giochi con i soldatini che Hans-Jürgen inventa ai piedi del fratello Klaus, vestito da giovane nazista; le favole che il padre racconta alla piccola Heidetraut, soprattutto Hänsel e Gretel(ma la strega è Höss o l’ebreo?); i rumori che sempre Hans-Jürgen, divertito, ripete dal suo letto nell’oscurità pur essendo suoni terribili; il gioco apparentemente normale ma in fondo sadico di Klaus che rinchiude il fratello più piccolo nella serra, ricordando un passaggio del film Il nastro bianco di Michael Haneke nel quale il regista racconta le origini del nazismo. È anche un altro gioco che non si vede nel film ma che risulta dalla testimonianza di Janina Szczurek una sarta polacca che lavora al servizio del comandante del campo. Ha raccontato che con i vestiti degli internati ne confezionava altri per la famiglia Höss, e ha ricordato come un giorno i bambini le chiesero di cucirvi sopra dei triangoli neri o gialli come quelli dei prigionieri.

Tra quella visibile della famiglia Höss e quella invisibile delle centinaia di migliaia di bambini ebrei uccisi nelle camere a gas di Auschwitz, vi è però una terza infanzia, incarnata da Aleksandra Kołodziejczyk, che nel 1943 ha sedici anni ma che da quando ne ha quattordici partecipa, con il nome di battaglia di “Olena”, alla Resistenza polacca. È nata a Brzeszcze, una città a meno di sei miglia dal sito del campo di Auschwitz II-Birkenau; suo padre nel 1940 è stato deportato a Dachau ma è tornato pesando solo 32 chili. Il racconto della ferocia nazista e della fame patita la convincono ad agire. La vediamo nel film lasciare mele per i prigionieri, attraverso immagini realizzate con una telecamera termica che restituisce una sorta di visibilità a metà, di aiuto sotterraneo e non dichiarato. Secondo il regista, lei rappresenta l’unica luce del racconto, incarna la forza del bene. Anche qui una diversa forma di cortocircuito non manca. Se l’adolescente Aleksandra rappresenta comunque la purezza e l’innocenza dell’infanzia, unica possibilità di salvezza per il mondo dopo la Shoah, nondimeno rischia di assumere sottotraccia il significato di un’assoluzione per i polacchi che, come noto, non intendono ancora oggi fare i conti con le loro responsabilità nello sterminio degli ebrei fino a trasformare in reato le opinioni critiche.

In una foto non datata ma scattata tra il 1940 e il 1943, si vedono Klaus, Brigitte e Heidetraut, felici e sorridenti, mentre insieme, uno dietro l’altro, scendono da uno scivolo. Sono in costume da bagno e sono nel grande spazio verde che circonda la loro villa al confine con il campo. La fotografia restituisce un mondo di spensieratezza infantile, di cui ognuno di noi conserva almeno un’immagine. Ne La zona di interesse, la madre di Hedwig parla di quel luogo come “il giardino del paradiso”, lei che veniva soprannominata “l’’angelo di Auschwitz”. Era sempre felice quando andava a farle visita lo zio Heine, cioè Heinrich Himmler, che Rudolf fotografava con i bambini sulle ginocchia. Anche per questo, più puntualmente, Rainer, il nipote di Höss, ha parlato di quel muro che divideva la casa del comandante dal Lager di Auschwitz come della “porta verso l’inferno”.

In collaborazione con I Wonder Pictures e I Wonderfull. Guarda il trailer del film qui.

ARTICOLO n. 4 / 2025

PARLIAMO DI STREAMING CULTURE

un dialogo con Elisa Teneggi

Enkk non lo sa bene, com’è che sia finito a essere tra i primi cinquanta profili Twitch più seguiti in Italia. Enrico Mensa, classe ’91, suo alter-ego nella vita reale, può dirci qualcosa di più. «La mia vita da streamer è iniziata – come spesso accade – un po’ a casaccio. Twitch ha cominciato a popolarsi più di dieci anni fa, all’inizio era una situazione più fluida di adesso e le cose “succedevano”. A me è successo che una volta mi sono fatto notare tra il pubblico di una live dello streamer Paolocannone [oggi @paoloidolo, al secolo Paolo Marcucci, ndr] come “uno bravo a smanettare con il computer”. Questa frase si legge “patito di informatica”, e infatti ancora oggi faccio il ricercatore universitario in questo campo. Comunque, sta di fatto che divento una occasionale spalla, ovvero il secondo delle live, oltre che co-autore di alcuni format di Paolo. Così comincio a conoscere l’ambiente e un altro po’ di streamer. Se, pensandoci ora, dovessi individuare il mio momento di svolta come streamer, direi sicuramente il momento in cui ho incontrato Homyatol, altro collega. Stava cominciando il lockdown per il Covid e siamo diventati una coppia di fatto dell’intrattenimento. Svolgevo il ruolo di spalla nelle sue dirette: eravamo in live tutti i giorni con numeri mai visti per quattro-cinque anni fa. Lì è cominciato tutto. Ma c’è un problema sostanziale: se sei una brava spalla, se vedi che il pubblico ti apprezza, a un certo punto vorrai anche avere uno spazio tutto tuo. Un tuo canale con i tuoi tempi, i tuoi contenuti e la tua community. Infatti alla fine anche io mi sono messo in proprio».

Enkk è uno streamer, ovvero un content creator per un genere particolare di piattaforme, che permettono di generare contenuti solo se trasmessi in diretta. Come per un comune programma televisivo, gli utenti della piattaforma possono seguire la trasmissione, detta anche live stream, e possono farlo attivamente o passivamente. Chi è passivo guarda e rimugina, chi è attivo, invece, anima un’apposita chat legata alla trasmissione, creando una community istantanea e virtualmente irripetibile.

Fondato nel 2011 da Emmet Shear e Justin Kan come punto di ritrovo per la comunità legata ai videogiochi, Twitch è diventato in poco più di una decade il riferimento mondiale per la galassia degli streamer cresciuta su YouTube, inglobando anche chi, con i videogiochi, non aveva a che fare. A dimostrazione del suo successo, dal 2014 è controllato da Amazon, che acquistò la piattaforma per 970 milioni di dollari. Sbirciando i numeri, non è difficile comprenderne il motivo: solo negli Stati Uniti (secondo dati recenti di Statista, 2023) il numero di utenti attivi sarebbe 33,2 milioni. Nel mondo, invece, sono 5,71 miliardi le ore passate su Twitch, e solo nel Q3 (terzo quadrimestre) del 2022. In totale, nel 2022 sono stati passati su Twitch 1.35 trilioni di minuti, più del doppio del totale dei minuti trascorsi su YouTube Gaming Live e Facebook Gaming. Secondo Business of Apps, tutto ciò si concretizzerebbe in 2.8 miliardi di dollari di entrate per la piattaforma (dati aggiornati al 2022), il cui business model si fonda sugli abbonamenti (in gergo subs, forma breve dell’inglese subscriptions) che gli utenti attivano verso specifici streamer e i loro “canali” per sbloccare contenuti aggiuntivi: una parte di quanto pagato rimane allo streamer, un’altra parte è trattenuta dalla piattaforma come percentuale. Per esempio, su ogni abbonamento la percentuale trattenuta è del 50% (a cui lo streamer dovrà poi sottrarre gli oneri fiscali derivati dalla necessità di fatturare a partita iva), mentre, se un utente dovesse effettuare una donazione allo streamer, Twitch non tratterrebbe alcuna percentuale.

Poste le fondamenta per la chiacchierata, torniamo da Enkk, o meglio, da Enrico, per risolvere il dubbio che ormai, forse, vi sarà spuntato: ma perché un ricercatore universitario dovrebbe mettersi a fare lo streamer su una piattaforma nata nel mondo dei videogiochi? Innanzitutto, cerchiamo di capire che cosa “succede”, effettivamente, su Twitch.

«Nella mia visione ci sono due tipi principali di streamer: variety streamer, o streamer che si legano a un videogioco specifico». Per quest’ultimo, un esempio dal panorama italiano è Cristiano Spadaccini, in arte @ZanoXVII, che ha costruito il suo seguito – la sua “community” – attorno ai game play del celebre emulatore a tema calcistico FIFA. E, quando si parla di game play, si parla di ore di gioco trasmesse in diretta come contenuto della live. Si può dunque supporre che l’audience sia composta di un segmento specifico della galassia online: in questo caso, utenti Twitch appassionati di calcio e/o di FIFA. Enkk, invece, si situa nell’alveo dei variety streamer.

«Essere legati a un videogioco ha i suoi vantaggi dal punto di vista di “progettazione” delle live: il tuo contenuto ce l’hai già e devi solo iniziare a trasmettere. Naturalmente c’è lo svantaggio di essere in balia del successo del gioco a cui si è legati. Essere un variety streamer, invece, impone delle sfide diverse. Per fare “varietà” devi sempre trovare qualcosa da fare di diverso, ogni live. Bisogna mettere maggiormente in gioco la propria personalità, il che non vuol dire crearsi un personaggio: una diretta, almeno una delle mie, può durare anche 8 o 10 ore, ed è impossibile fingere stando davanti a una telecamera per quel tempo. In tutto questo, certo, anche un variety streamer ha bisogno della sua nicchia. Io mi presento come canale di edutaniment [crasi tra le parole inglesi education ed entertainment, istruzione e intrattenimento, ndr]: in altre parole, cerco non solo di intrattenere il pubblico, ma anche di spiegare qualcosa dell’ambito di cui mi occupo. Che, nello specifico, è il rapporto tra Intelligenza Artificiale e linguaggio naturale. Poi trasmetto solo nel weekend, con live più lunghe della media. Sembra di tirarsi la zappa sui piedi da soli, invece intercetto tutta una fetta di pubblico che nel fine settimana ama rilassarsi e non andare a cercare per forza “lo sballo”. Che forse è un po’ come me. Vedi, le community sono come i gatti: scelgono a chi affezionarsi, e si lavano da sole. Che è un modo bizzarro per dire che se non ti piace l’offerta di un canale, te ne vai senza far drammi».

Mensa usa una parola, “dramma”, tristemente noto nelle community online. A volte, infatti, le chat pubbliche o private diventano il luogo perfetto per sviluppare l’odio online e foraggiare gli hater, leoni da tastiera di tutte le età le cui parole possono avere conseguenze anche molto pesanti. «Lo streaming si trova in un contesto del tutto particolare: gli streamer sono tendenzialmente professionisti che vanno in live per svariate ore a settimana, e non ci sono studi scientifici che possano mostrare se questo stile di vita può avere delle ricadute sulla loro salute fisica e mentale. È normale che non ci siano, perché è un fenomeno giovane, che peraltro è esploso con la pandemia, quindi si parla di storia recente. C’è anche un altro lato della questione, ovvero che, un po’ come gli sportivi professionisti, anche uno streamer prima o poi si ritira in panchina. Non perché ci siano stigmi sull’età, semplicemente non ti piace più, dopo un po’ esaurisci le energie per mantenere quel tipo di routine. Oppure ti devi evolvere, e far evolvere la tua community insieme a te. Uno che ce l’ha fatta bene è Jacopo D’Alesio, Jakidale, che è uno Youtuber passato dai gameplay di Clash of Clans [ gioco per smartphone, ndr] a  intervistare personaggi del calibro di Tim Cook. Ma la cosa ancora più importante è che questa crescita avvenga spontaneamente, organicamente. Alla fine, essere un creator è un po’ come manifestare la propria seconda personalità».

Anche a Mensa succede: Enkk è l’istrione che ha bisogno di sentirsi al centro del palco, Enrico il ragazzo che va a bere la birra con gli amici e che riesce – nella maggior parte dei casi – a tenere il lavoro fuori dai momenti di svago. Che, nel suo caso, significa anche non parlare di Twitch. «Streammare è sicuramente una fonte di guadagno importante per me, ma il guadagno non è la ragione per cui sono un creator. Come persona mi sento arricchito da entrambi gli aspetti della mia esperienza, anche perché l’uno tiene a bada la “fama” che si genera nell’altro e viceversa. E sfatiamo un mito: non è vero che “chiunque ce la può fare” su Twitch. Questa roba da sogno americano non funziona. A farcela sono in pochissimi, e per guadagnare cifre importanti bisogna avere tantissima cura della propria figura pubblica e del proprio lavoro. E anche un po’ di fortuna. Spesso chi ha meno a che fare con l’online vede gli streamer come sfaticati, persone senza qualità che sono diventati famosi senza essere nessuno. È una dinamica normale, purtroppo. Soprattutto quando la società non sta benissimo, tendiamo a puntare il dito contro chi sta meglio di noi. Anche la politica spesso si pone verso l’online con atteggiamento giudicante, pensiamo al tristissimo episodio dell’incidente in auto avvenuto durante la diretta di un gruppo di streamer a bordo di una Lamborghini. Per fare la voce grossa si fa sempre il solito errore: si dà la colpa al mezzo, e non a chi l’usato malamente. Cioè sia Twitch, sia la Lamborghini».

Dunque, ripetiamolo: le community di Twitch sono come i gatti. Abbiate rispetto dei vostri utenti, e nessuno si farà male. A proposito: ma ora in università Enrico Mensa è assalito dai fan? «Qualche studente è anche un follower. Ne sono felice, anche se i due ambienti rimangono giustamente separati.. Nel tempo ho ricevuto tanti feedback che mi rendono orgoglioso di quello che faccio: da persone che si sono appassionate all’informatica e ora lavorano in quel campo, altri che hanno ritrovato lo stimolo giusto per proseguire i loro studi e altri ancora che hanno scoperto di doversi far circoncidere. Ma questa è un’altra storia, e rimando ai contenuti creati con il Dottor Giuseppe La Pera per maggiori approfondimenti. Anche questo lo trovate tutto nelle mie live».

ARTICOLO n. 3 / 2025

DECRESCITA TENNISTICA

Dormire in auto, quando arrivi a un certo punto, quale che sia stato il tuo ruolo sociale, è una possibilità. E in fondo, avere almeno un’auto, al posto di una panchina o di un marciapiede, è già qualcosa. La scena più convincente di Challengers, il film di Luca Guadagnino, è quella in cui il personaggio di nome Patrick Zweig – tennista in disarmo ma con ancora qualcosa da offrire – dorme in auto, nel parcheggio del club nel quale deve giocare il primo turno di un torneo del circuito Challenger. Il circuito Challenger prevede tornei professionistici che potremmo definire la serie B del tennis. Zweig dorme in auto perché non ha abbastanza soldi per una stanza nel motel accanto al club. Il film, per me, inizia e finisce lì, in quella breve sequenza. Non ho troppa voglia di parlare del film, tale è la distanza tra la mia visione del mondo – chissà cosa sarebbe stato un film di Frederick Wiseman o Chantal Akerman ambientato nel circuito tennistico dei Challenger – e quella patinata e fashion di Guadagnino. Ma, certo, da scrittore, non posso fare a meno di notare alcune forzature del soggetto e della sceneggiatura scritta da Justin Kuritzkes. Per esempio, l’amico-avversario di Patrick Zweig, Art Donaldson, gioca quel torneo Challenger poiché ha bisogno di fiducia dopo un infortunio, in vista dell’imminente US Open, l’ultimo torneo del Grande Slam che manca al suo palmares, l’ultimo torneo che sente di poter vincere, spinto soprattutto dalla moglie-allenatrice-manager, Tashi Duncan. 

Ora, nella realtà, nessuno tra i partecipanti di un qualsiasi torneo Challenger, pochi giorni prima dello US Open, giocherebbe un Challenger – nel film il torneo di New Rochelle – pensando di allenarsi per vincere il torneo di New York. Nemmeno uno che tre titoli slam – Australian Open, Roland Garros e US Open – li ha vinti davvero, come Stan Wawrinka, cui è sfuggito solo Wimbledon, per completare il Career Grand Slam. Wawrinka sa che non vincerà mai più uno slam e nemmeno ci andrà vicino: anche in questa consapevolezza consiste il suo talento esistenziale ancor prima che tennistico. Wawrinka ha vinto tre titoli del Grande Slam nell’epoca di Federer, Nadal, Djokovic e, in parte, Murray. Nelle tre finali vinte, Wawrinka ha superato una volta Nadal e due volte Djokovic. Ma da alcuni anni continua a giocare, accettando sconfitte dolorose, come in un quasi Challenger, la finale del torneo di Umago, Croazia, un ATP 250 sfuggitogli per pochi punti, nel 2023. Durante la premiazione, Wawrinka ha iniziato a piangere, scusandosi di quelle lacrime. Non piangeva soltanto per la sconfitta. Piangeva perché, a trentotto anni, amava ancora il tennis, e nel 2025, a quarant’anni, è ancora lì, sebbene non abbia alcuna chance di vincere uno Slam e forse nemmeno un torneo minore.

La stagione tennistica 2025 è appena iniziata. Le prime settimane di tennis ad alto livello sono a Melbourne, per gli Australian Open. Il vincitore guadagna 3.500.000 euro. Chi perde al primo turno del torneo guadagna 79.300 euro. Ma chi non ha una buona classifica, per arrivare a giocare il primo turno, partecipa alle qualificazioni, un torneo nel torneo. Chi perde le qualificazioni degli Australian Open ritorna a casa, o può scegliere di giocare, dal 13 al 19 gennaio 2025, il Challenger di Bangkok. Certo, i guadagni, precipitano. Chi perde al primo turno del Challenger di Bangkok guadagna 1.045$. Chi vince il torneo incassa 14.200$. Insomma, sotto l’aspetto economico è meglio essere eliminati al primo turno degli Australian Open, una singola volta, che vincere per cinque anni di fila il Challenger di Bangkok.

Sarà questo il motivo che ha spinto il talentuoso ma discontinuo tennista kazako, Aleksandr Bublik, a dire: magari a trentasei anni giocherò il Challenger di Bangkok, ma spero di non arrivarci.

Ignoro se l’organizzazione paghi il viaggio e l’hotel ai giocatori, o almeno, a tutti i giocatori. 

In alcuni Challenger è previsto, in altri no.

Dal 27 gennaio al 2 febbraio 2025 si gioca un Challenger in Germania, a Coblenza. 

Chi perde al primo turno guadagna 1.515$. Chi vince il torneo guadagna 20.630$.

È probabile che l’organizzazione tedesca paghi il viaggio e il pernottamento. Siccome a volte non accade, un tennista con pochi soldi a disposizione dovrebbe partire in treno, magari con un treno notturno così da risparmiare una notte in albergo. O viaggiare in autobus, incastrando gli spostamenti con lo stesso scopo.

E tuttavia, anche per accedere a un torneo del circuito inferiore, se un giocatore non ha una classifica sufficiente, è necessario passare attraverso le qualificazioni, ovvero giocare due o tre partite prima di entrare nel tabellone principale e affrontare il primo turno di un Challenger. 

Ebbene, molto spesso, chi perde la prima partita delle qualificazioni di un Challenger guadagna una somma a malapena sufficiente per un paio di notti in un bed and breakfast. Non solo, ma se conteggiamo il fatto che abbia dovuto pagare il viaggio, ecco che un tennista professionista, ipotizziamo, il numero trecento della classifica mondiale, perde soldi. 

Secondo alcuni è un fallimento essere il numero trecento, eppure è incredibile pensare che su otto miliardi di abitanti, questa persona sia in quella posizione, e vi sia arrivata dopo un lungo allenamento incominciato da bambino.

Raggiungere la trecentesima posizione, per quanto possa essere considerato un fallimento, è una cosa seria e certificata dai risultati ATP, conseguiti prendendo a pallate l’avversario che sta dall’altra parte della rete, o subendo la stessa sorte.

Nel tennis, per fortuna, parla il campo. 

Essere il numero trecento al mondo non è sostenibile sotto l’aspetto economico.

Essere il numero duecento della classifica? Cambia poco, anzi, potrebbe essere peggio. 

Una decina d’anni fa, il tennista britannico Joshua Jake Goodall, nato nel 1985, ha smesso di giocare pochi giorni prima di compiere trent’anni, dopo undici da professionista. A un certo punto ha giocato in Coppa Davis per la Gran Bretagna ed è stato il numero due britannico, dietro ad Andy Murray. Durante la sua carriera ha raggiunto la posizione numero 189 in classifica e giocato per lo più tornei Challenger. In undici anni di carriera ha vinto 428.956$. Arrivato a trent’anni, è stato sincero, ammettendo di smettere non per problemi fisici o per assenza di motivazioni: era soltanto una questione economica.

Si dirà, è normale, Goodall ha giocato tornei Challenger.

L’anno seguente il ritiro di Goodall, il tennista russo Dmitrj Tursonov, oggi allenatore, stazionava attorno alla trentesima posizione della classifica mondiale e di lì a poco sarebbe arrivato al numero venti. Sette tornei vinti – di livello medio – e tanti ottimi piazzamenti, eppure, nonostante i guadagni molto più significativi rispetto a Goodall, Tursonov lamentava quanto fosse difficile sostenere la propria attività sotto l’aspetto economico.

A differenza di un calciatore, un tennista stipendia l’allenatore, il preparatore atletico, il fisioterapista; se aggiungiamo i viaggi e gli alberghi pagati allo staff, ecco che perfino un giocatore della classifica di Tursonov, in mancanza di sponsorizzazioni significative, può faticare.

Ma se arrivare nelle prime posizioni della classifica è complicato, rimanerci è ancora più difficile. Non è solo una questione di talento tecnico e mentale: occorre che il giocatore si trasformi in un marchio. Jannik Sinner, oltre a raggiungere risultati sportivi straordinari, è stato abile nel creare un’aura positiva attorno a sé, tale da attirare aziende interessate al pacchetto Sinner in quanto giocatore e, al contempo, marchio.

Abile, tanto più se pensiamo che le aziende non abbandoneranno il tennista italiano, nemmeno davanti a un’eventuale – e ingiusta – squalifica a causa di una ridicola contaminazione doping. 

Del resto, Sinner è, a sua volta, un’azienda: due allenatori, un preparatore atletico, un fisioterapista, un osteopata, un mental coach, due manager. Un team di lavoro senz’altro efficiente e costoso, ma molto importante per conseguire risultati eccezionali qualora il lavoro in team sia associato al talento del giocatore. Insomma, pagare per migliorare il gioco, la preparazione atletica, la tenuta mentale, l’alimentazione, i contratti pubblicitari; tutto vero, certo: ma pagare, anche, per non sentirsi solo.

Una decina d’anni fa – l’ultimo aggiornamento del mio file è datato 29 novembre 2017 – avevo iniziato a prendere appunti e a scrivere uno dei vari libri poi interrotti. Si intitolava Il re del Challenger, era la storia di un tennista trentottenne – senza più allenatore, preparatore atletico, fisioterapista –  con un passato quasi glorioso ma in grande crisi economica-esistenziale a seguito di una vita dissoluta. Dopo il divorzio, il tennista, ridottosi a giocare tornei Challenger, aveva ricevuto proposte da un’organizzazione criminale per perdere un match contro il numero 500 del mondo, un ragazzo di diciassette anni, in ascesa. Il protagonista non aveva mai sentito nominare lo sfidante; del resto, non aveva neppure mai giocato contro altri avversari del circuito Challenger, e questo lo inquietava, poiché se a un livello più alto sapeva cosa aspettarsi, a un livello inferiore ciò che si muoveva al di là della rete era un’incognita.

Il protagonista, perdendo l’incontro, avrebbe guadagnato il triplo rispetto alla cifra assicurata dalla vittoria nel torneo. Nel frattempo, la tentazione gli si era presentata in modi sempre più raffinati: vincere il primo set ma perdere gli altri due, così che le scommesse live, alla fine del primo set, sulla vittoria finale del diciassettenne, sarebbero state molto ben pagate; e poi richieste di perdere uno specifico game, e poi richieste di perdere i primi due punti del settimo game del secondo set, e insomma, la sensazione che ogni suo gesto fosse governato da un meccanismo oscuro, di cui conosceva soltanto la voce telefonica corruttrice, trasformatasi in voce interiore: perfino durante il cambio di campo, seduto sulla sedia a sorseggiare acqua fresca, il protagonista si sentiva manovrato, dentro un grande allestimento. Be’, è evidente che una solitudine di questo tipo, così profonda, sia molto meno accattivante del triangolo amoroso di Guadagnino. 

Tra l’altro, il tennista in disgrazia era impoverito e indebitato, indebitato e colpevole secondo il doppio significato della parola tedesca – Schuld/Schulden – che unisce debito e colpa: colpevole per il solo fatto di essere indebitato. Il protagonista, se scoperto dai vertici del tennis professionistico, sarebbe stato squalificato in ogni caso, poiché non aveva subito avvisato l’ATP del tentativo di accordo illecito.

Nel testo intitolato L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano, contenuto all’interno di Tennis, tv, trigonometria, tornado, dedicato al tennista statunitense Michael Joyce, David Foster Wallace sottolineava che, giunto a un certo punto – 22 anni – e a un certo livello – buono ma non eccelso – Michael Joyce non avesse comunque più scelta, poteva soltanto continuare, e questo era, al contempo, una fortuna e una sfortuna.

Foster Wallace aveva scritto quel testo nel 1995, e nonostante negli anni Novanta fossero già ben presenti i segnali di quanto viviamo, la situazione, all’epoca, era, in fondo, quasi rassicurante.

Infatti, nel tennis e non soltanto, ci troviamo in un contesto per cui pochi, pochissimi, guadagnano davvero tanto, al contrario di una massa di persone che fatica. 

Sinner, per esempio, tra ottobre 2024 e novembre 2024, giocando due tornei, ha guadagnato quasi undici milioni di dollari: sei milioni al 6 Kings Slam, esibizione in Arabia Saudita, e quasi cinque milioni con la vittoria alle ATP Finals di Torino. 

Nessun moralismo e populismo da parte mia, ma la sproporzione tra chi è in vetta e chi è cento, duecento posti più in basso è davvero abissale. 

Ed è davvero abissale anche la distanza tra coloro che sono ai vertici della classifica adesso, e chi era ai vertici vent’anni fa. Il tennista statunitense Andy Roddick, numero uno nel 2003, ha sottolineato, dopo la vittoria di Sinner al 6 Kings Slam, che il tennista italiano ha vinto, in tre giorni, il 25% di quanto Roddick ha guadagnato in tutta la carriera.

Sabotare il circuito da dentro è possibile, ma dopo un po’ il sistema stesso ti espelle e se non ti espelle ti neutralizza, ti compatisce rendendoti innocuo. 

Un tennista che da anni cerca di sabotare il circuito è il francese Benoît Paire. A volte il suo atteggiamento in campo è irritante, e se non fosse ormai noto il suo approccio rilassato, quasi autolesionistico, verrebbe da chiedersi: ma gioca per perdere?

Nel 2021, a trentadue anni, dopo aver perso al primo turno del torneo di Acapulco, si era dichiarato felice: incassava diecimila dollari e si godeva il Messico, ancora per qualche giorno. Desiderava soltanto uscire dalla bolla tennistica il più in fretta possibile. Giusto per rientrarne pochi giorni dopo, a Miami, in un altro torneo, e perdere al primo turno. Certo, continuando a perdere al primo turno, finisci nel circuito Challenger, a Coblenza, non a Miami.

Ma il re del sabotaggio, o meglio, della decrescita tennistica è un altro tennista francese.

Johan Tatlot è nato nel 1996. Da juniores è arrivato alla numero cinque della classifica mondiale. Da juniores ha battuto un paio di volte Matteo Berrettini e, soprattutto, Daniil Medvedev.

Tuttavia, da professionista non è riuscito a raggiungere la duecentesima posizione in classifica. 

Stanco di giocare i Challenger, tantomeno voleva scendere ancora di livello, nel circuito ITF, la categoria più bassa del tennis professionistico, la categoria che un tempo si chiamava Futures. Dal 2021, Tatlot ha fatto una scelta drastica: gioca soltanto in Francia in tornei appartenenti al circuito CNGT, Circuit National des Grands Tournois.

Nonostante la definizione da grandeur francese, i CNGT sono tornei regionali e interregionali. 

Di solito, gli iscritti sono sedici. In media, chi perde al primo turno guadagna circa 150 euro, chi vince il torneo 1500. Tatlot è diventato uno specialista di queste competizioni. A volte gioca soltanto durante il weekend, ma in estate può capitare di giocare un paio di tornei alla settimana, incassando di conseguenza. È un’atmosfera a metà tra un evento parrocchiale all’oratorio e una fiera di provincia organizzata dalla pro loco. Oltre ai soldi, uno sponsor locale offre un cesto colmo di prodotti alimentari. 

Nel circuito CNGT vai a giocare in comuni di quattromila abitanti, della Nuova Aquitania, o in una cittadina sulle Bocche del Rodano, o sulle Alpi dell’Alta Provenza, a 1600 metri d’altezza, o in Bretagna, ad agosto, sotto grandi nuvole bianche che fanno pensare alla propria vita come a qualcosa di più grande del tennis.

I campi, al coperto, sono in capannoni anonimi. Le piccole tribune montate per l’occasione accolgono una cinquantina di persone. A volte, tra una partita e l’altra, un gruppo di ragazzi suona cover, e una presentatrice ricorda l’offerta della concessionaria Renault che espone le proprie auto all’ingresso. A differenza dei tornei principali, che non prevedono più giudici di linea ma l’occhio di falco – ovvero il sistema elettronico di chiamata – qui, inutile sottolinearlo, ci sono ancora gli esseri umani.

Certo, con tutti i benefici o gli inconvenienti che ogni essere umano implica. 

E a proposito di esseri umani, c’è da chiedersi fino a quando Tatlot riuscirà a resistere in questi tornei che, in fondo, sono un’estensione necessaria, al ribasso, degli IFT, dei Challenger, e dei tornei principali. C’è da chiedersi fino a quando Tatlot salirà su un treno regionale senza provare rimpianto per un’altra vita. Forse, quando Tatlot smetterà di giocare i CNGT – ma visto il fisico e la tecnica potrebbe giocare a quel livello fino a quarantacinque anni – farà il maestro di tennis o l’allenatore. Oppure aprirà un bar, e con i gomiti appoggiati al bancone racconterà storielle del tipo, sai, quando ero ragazzo, da numero cinque del mondo, ho lanciato la pallina per battere, e la pallina era lì in aria, e il sole, a un certo punto, e niente.

ARTICOLO n. 2 / 2025

IL CORPO DI UNA DONNA

intervista di isabella de Silvestro

La morte ha il suo modo di affilare la vita. L’ha capito Maddie Mortimer nel suo romanzo d’esordio: un testo sperimentale dove il corpo di una donna malata prende parola e occupa la pagina, uscendo dai margini di quello che ci aspettiamo dalla letteratura e dallo stesso corpo femminile. 

Mappe dei nostri corpi spettacolari (Il Saggiatore, 2024) è, in fondo, un dramma familiare, ma anche un romanzo formalmente ambizioso. Nel libro ci sono tre fili narrativi che non solo sono in costante comunicazione, ma competono attivamente l’uno contro l’altro per raccontare la storia. Gli eventi che accadono nel passato e nel presente della protagonista disegnano la mappa del suo corpo, un paesaggio surreale con il quale il lettore si allena ad avere familiarità, non senza un iniziale sforzo. La prima persona divora la terza, i frammenti di anatomia si confondono con quelli di filosofia della religione, di poesia, di danza, di pittura. La parola smette di essere puro significato e rivendica la sua dimensione estetica, il suo esistere sulla pagina. Le lettere gocciolano, si gonfiano, si specchiano, si piegano.

«Non dimenticherò nulla, te lo prometto. Neanche la cosa più piccola», dice la giovane Iris alla madre malata. Abbiamo parlato di madri, corpi, poesia e identità.

Isabella De Silvestro: Lo stile narrativo di Mappe dei nostri corpi spettacolari è sperimentale. Questo approccio non convenzionale alla scrittura è stato pianificato fin dall’inizio o ha preso forma spontaneamente nel corso della stesura?

Maddie Mortimer: È stata una decisione immediata. È iniziato tutto con dei frammenti sperimentali tra la prosa e la poesia che prendevano forma dentro a un corpo di donna. In termini allegorici questi frammenti componevano nella mia testa un paesaggio surreale che gradualmente si rivelava. A quel punto mi sono chiesta cosa implicasse farci muovere dei personaggi alle prese con una forza distruttiva, ovvero la malattia. Il libro è iniziato così, in modo astratto e remoto. Più scrivevo e più sentivo di avvicinarmi a qualcosa di più concreto, tradizionale e personale. Quando ho finito di scrivere mi sono trovata molto vicina a me, ma ho la sensazione di essere partita da lontano. 

Ho usato la lingua per dare vita al cancro come a un personaggio e, per fare ciò, dovevo rendere l’idea di una metastasi di parole. Volevo che il lettore sentisse il libro anche come oggetto, che dovesse confrontarsi con il segno sulla pagina, il colore, la forma, la dimensione, le parole che si sciolgono o strabordano. 

I.D.S. Che relazione ha con la poesia?
M.M. La poesia è il mio primo amore. Questo libro avrebbe potuto essere una poesia, se solo avessi saputo esprimere le stesse cose in una manciata di versi. Mi sono allenata a scrivere leggendo e scrivendo poesie, fin da ragazzina. Amo anche la musica, cerco di infondere un ritmo a ciò che scrivo. Credo che il motivo per cui la poesia e la musica sono così essenziali è perché vengono da movimenti più istintivi rispetto alla prosa. I suoni e il ritmo delle parole ti guidano.

I.D.S. Gli eventi raccontati nel romanzo hanno affinità con la sua storia personale. Cosa ne pensa dell’autofiction?
M.M. Credo che un romanzo ti dia la possibilità di raggiungere luoghi che non potresti raggiungere se scegliessi il memoir. La fiction permette di camuffare la verità. Sono sempre stata spaventata dalla prima persona singolare, mi agita il pensiero di portare la mia vita in letteratura. Però il personale mi interessa. Ho cercato quindi di mettere insieme il contenuto personale e la forma epica e astratta. Mi piace l’idea di muovermi tra le forme, sperimentare. Amo pensare alla letteratura come qualcosa che ha valore in sé, non come il prodotto di un’identità. Siamo troppo ossessionati dall’identità.

I.D.S. La malattia può diventare un’identità? È un rischio da tenere in considerazione?
M.M. Assolutamente sì. Questo libro è un tentativo di indagare quanto i corpi ci definiscano e soprattutto quanto sia facile lasciare che gli eventi negativi diventino la lente attraverso la quale ognuno guarda alla propria vita. Non volevo scrivere un romanzo su una vittima. 

Ho trovato i diari di mia madre dopo la sua morte e probabilmente non sarei riuscita a scrivere questa storia se da adolescente non avessi letto quei diari quasi come se si trattasse di letteratura. Mia madre si interrogava molto sulla causa del tumore, tentando di distaccarsi da questa cosa che le stava accadendo. È da quella sua concezione della malattia che ho iniziato a percepire il cancro quasi come un personaggio a sé. Il libro tratta di affrontarsi e lasciarsi andare allo stesso tempo. Abbiamo bisogno di definire dei limiti tra noi e la malattia, ma dobbiamo anche imparare ad assimilare. È un equilibrio delicato. 

I.D.S. I traumi e il dolore si ereditano? Si tramandano di generazione in generazione, in particolare fra donne?
M.M. Senza dubbio. C’è moltissimo dolore ereditato, ci sono stereotipi e aspettative su cosa significhi essere donne. Dalle madri riceviamo moltissimo, anche nostro malgrado. Lia ha avuto l’esperienza di una madre distante e vuole cambiare il paradigma con sua figlia, standole molto vicino. A volte ereditiamo il bisogno di differenziarci fortemente dai nostri genitori, sterzando in senso opposto: anche questo è egoismo. Ho voluto dare vita a questi personaggi manchevoli e fragili per poterli amare. Amo Anne, il personaggio meno amabile. È così repressa, così incapace di esprimere ciò che sente. Ma sono questi i personaggi migliori no? I più difficili da amare…

I.D.S. Scrivere questo libro ha cambiato la sua relazione con la morte?
M.M. È difficile dirlo. Ho preso confidenza con la mia mortalità. La protagonista, Lia, sta morendo. Dunque ho dovuto entrare nel cervello di qualcuno a cui era stato appena detto che sarebbe morto nel giro di due anni. In questo senso sì, scrivere mi ha aiutata a familiarizzare con la mia fine. 

I.D.S. Per la madre Lia, la figlia Iris di dodici anni è «la persona più saggia al mondo». Si è sentita anche lei una ragazzina saggia?
M.M. Mi sentivo saggissima, come Madre Teresa e Ghandi [ride, ndr]. Non me lo ha mai chiesto nessuno, ma è una domanda divertente. Leggere e scrivere fanno questo, no? Se da bambino sei un lettore vorace tendi a diventare un grande osservatore.

I.D.S. Ha sempre saputo di voler fare la scrittrice?
M.M. Da che ne ho memoria. Da bambina ho scritto vari romanzi ma non ne ho finito nessuno. Uno di questi in realtà l’ho riletto di recente e l’ho trovato molto bello. Risale a quando avevo dieci anni, parlava di un bambino bugiardo compulsivo che deve affrontare le sue bugie antropomorfe. Alla fine si perdona, perdona le sue bugie per averlo reso un bugiardo. Come chi perdona la sua malattia di averlo reso malato. Non è molto distante da Mappe dei nostri corpi spettacolari, e mi ha quasi inquietata. Forse è vero che per tutta la vita scriviamo lo stesso libro. Abbiamo da dire in fondo una sola cosa e cerchiamo il modo migliore per dirla, attraverso diversi tentativi. 

I.D.S. Una madre può essere gelosa della figlia. Può accadere anche il contrario?
M.M. Molte persone passano la loro infanzia a invidiare i genitori: vedono una versione di sé più vecchia e più autonoma, padrona di se stessa. Madre e figlia nel libro hanno un rapporto quasi di sorellanza. Anche una vicinanza come quella è problematica, confonde le cose perché finge di cancellare confini che invece sono ineliminabili. 

I.D.S. Era interessata a indagare le differenze tra il corpo femminile e quello maschile?
M.M. Definirei il mio romanzo femminista, ma femminista in senso letterale: la metà del tempo il lettore è dentro a un corpo di donna. Ma ci sono anche personaggi maschili, e ho provato a indossare i loro abiti perché prendessero vita. Quando scrivevo di Harry provavo a immaginare di dover camminare con un pene in mezzo alle gambe.  È interessante come scrivere sia anche un esercizio fisico, quasi come recitare. C’è un pezzo di me in ogni personaggio. È questa la parte appagante di scrivere: che dai vita ai frammenti di te, puoi diffonderti, essere chiunque, da qualsiasi parte. 

I.D.S. Nel libro c’è molta religione. Si considera una persona spirituale?
M.M. Le persone hanno paura della parola “spiritualità”, ma io mi rendo conto di essere ossessionata dalla religione. Non professo nessuna fede in particolare ma mi ha sempre incuriosita il cristianesimo. Ho letto molta teologia. Alcune tra le mie autrici preferite, come Mariyinne Robinson e Anne Carson, si occupano anche di filosofia della religione. Per un periodo mi hanno ossessionata le mistiche francesi. Un pensiero mistico-spirituale che ho, se così si può dire, quando approccio la scrittura, è che la storia che voglio raccontare già esista da qualche parte nella sua interezza. Esiste come un’idea platonica e il mio esercizio è di raggiungerla. Mi aiuta pensarmi come un vascello alla scoperta di qualcosa che ha una sua concretezza ed è fuori da me, qualcosa di predeterminato, che prescinde dalla mia scelta.

ARTICOLO n. 1 / 2025

ANCORA FRANKENTHALER

Con la sua arte ha spostato un po’ più in là confini e possibilità della pittura astratta. Regina dell’espressionismo astratto e artefice del passaggio al color field painting (grandi tele coperte interamente di colore, poco importano segno, forma e materia), Helen Frankenthaler è stata per un lungo momento nostra contemporanea, attraversando con la sua arte più di mezzo Novecento e alcuni anni di questo millennio, per lasciare un corpus di opere mozzafiato parzialmente esposte in questi mesi in Italia in due mostre entrambe interessanti, organizzate in collaborazione con la Helen Frankenthaler Foundation e ospitate da Gagosian a Roma (fino al 23 novembre) e a Palazzo Strozzi a Firenze (fino al 26 gennaio).

Le due mostre non sono le prime di Frankenthaler in Italia (anche se quella di Firenze è la più completa retrospettiva del suo lavoro mai realizzata da noi), paese presente anche in uno dei dipinti esposti (Alassio, è un olio su tela realizzato durante il soggiorno dell’artista ad Alassio nel 1960 – prima di allora Frankenthaler era stata a Roma, Napoli, Firenze, Venezia e Milano). A Palazzo Strozzi sono esposti ventisette dipinti tra grandi tele e opere su carta, e tre sculture, tutte opere realizzate tra il 1953 e il 2002, insieme a lavori di artisti amati, amici, contemporanei: Jackson Pollock, Mark Rothko, Robert Motherwell, Morris Louis, Kennet Noland, David Smith, Anthony Caro, Anne Truitt. Da Gagosian sono presenti dieci opere su carta, realizzate tra il 1990 e il 2002 (nell’ultimo decennio di attività artistica, la pittura su carta diventa per Frankenthaler il principale mezzo espressivo). Le due mostre si completano e in nessun momento si ripetono. Dell’opera di Frankenthaler mostrano l’ampiezza, la profondità, la vastità. Se vogliamo anche l’immensità. I suoi lavori hanno talvolta titoli come Moveable Blue o Open Wall, azzurro mobile o parete aperta: evocano il movimento e l’atto creativo, un tentativo di sottrarre l’opera compiuta alla sua natura statica, di farla essere contemporaneamente ultimata e in divenire, quando già esiste ma è sul punto di diventare qualcosa di altro. Come recita una poesia anche sin troppo citata di William Butler Yeats, che per certi versi è una efficace sintesi dell’espressionismo astratto, o della vita in generale: Things fall apart; the centre cannot hold. Le cose crollano; il centro non può reggere.

Passare qualche minuto, anche diversi minuti, decine di minuti, o un tempo indefinito, davanti a un’opera di Helen Frankenthaler è un’esperienza interessante. Per certi versi è come meditare, o come guidare dentro un paesaggio apparentemente sconfinato. Dentro ci si perde o ci si ritrova. Oppure entrambe le cose. Le opere cambiano colore, forma, dimensioni della tela o del foglio di carta, senza perdere una componente comune che ha più a che fare con la sfera spirituale che con quella materiale. “La tecnica è l’arte”, mi dice un’amica artista al bar mentre sfoglio il catalogo della mostra di Palazzo Strozzi (Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, a cura di Douglas Dreishpoon, traduzione di Karen Tomatis, Marsilio Arte). Mi dice di cercare Frankenthaler nella tecnica. Poi mi fa domande a cui non sempre so rispondere. Quand’è che ha iniziato a dipingere su tele così grandi? Ci interroghiamo entrambe sulla grandezza delle tele, le confrontiamo a quelle dei suoi contemporanei. La mia amica dice che è più interessante la tecnica delle opere di Frankenthaler della sua spiritualità. Ha ragione, ma anche la grandezza di una tela è una questione spirituale. Ragiono su come l’artista interagisca con gli strumenti e l’opera, su quanto una pennellata sia un gesto concreto e anche spirituale, su come ogni cosa fintanto che esiste è spirituale. Poi mi metto a studiare.

Studiare opere e vita di Helen Frankenthaler richiede tempo e disciplina. Su di lei esista una discreta bibliografia, a cui si aggiungono interviste facilmente trovabili su YouTube o altrove, saggi critici, foto in bianco e nero e soprattutto a colori che ben restituiscono la grandezza di alcuni suoi lavori. In una foto leggendaria scattata da Gordon Parks a New York nel 1956, che è anche la copertina della bella biografia scritta da Alexander Nemerov (Fierce Pose. Helen Frankenthaler and 1950s New York, Penguin), Frankenthaler è seduta in mezzo a tele e colori che sono talmente dappertutto da fare sembrare anche lei una macchia rosa in mezzo alle altre macchie. Una macchia con occhi, naso, bocca, gambe piegate da una parte, un cerchietto in testa. È una di una serie di foto scattate da Parks nello studio di Frankenthaler per la rivista Life. La tecnica usata per i dipinti che l’accerchiano si chiama “soak stain”, che tradotto alla lettera è “imbibizione a macchia”, ovvero l’assorbimento di un liquido da parte di un corpo o di una sostanza, senza che si verifichi alcuna reazione chimica, semplicemente creando una macchia.

L’ha inventata lei, cercando un modo tutto suo di sperimentare con il colore come faceva in quegli anni Jackson Pollock, ed esplorando lungo una linea di ricerca iniziata quando, bambina, faceva gocciolare lo smalto della madre nel lavandino per osservare il colore espandersi e poi fermarsi in macchie sulla porcellana. L’effetto sulla tela è quello dell’acquerello, ma è ottenuto con la pittura a olio, a cui adulta aggiungeva altra vernice diluita con trementina e sparsa sulla tela con grandi pennelli da ferramenta, spatole, cucchiai, spugne, pennellini di zibellino, guanti di camoscio, anche la sua mano, come si diverte a elencare in un’intervista video.

In un’altra intervista dice che un’immagine è sempre una bugia perché riproduce le cose non come sono realmente ma su una superficie piatta con quattro angoli e quattro margini. Quello che Frankenthaler fa nei suoi lavori è superare quei margini, restare dentro senza rinunciare a prospettiva e profondità. Della vita e formazione di Frankenthaler va detto che ha avuto bravi maestri. Tra questi va nominato Erich Fromm, suo professore al Bennington College. Fromm le ha insegnato il potere etico della libertà, e del seguire l’istinto. Vale la pena citarlo: «Che sia la percezione fresca e spontanea di un paesaggio, o il balenare di una verità come risultato di un ragionamento, o un piacere sensuale che va al di fuori dei canoni, o lo sgorgare dell’amore per un’altra persona – in questi momenti sappiamo tutti cosa sia un gesto spontaneo e riusciamo a intravedere come sarebbe la vita umana se queste esperienze non fossero così rare e poco assecondate».

C’è poi la questione del femminile, questione che ha e non ha a che fare con la libertà, e che a mio avviso è rilevante nell’arte solo se si guarda alla storia dell’arte nel suo insieme, ai numeri e non alle singole opere.Frankenthaler l’ha risolta così: «Mi chiedo se i miei quadri siano più “lirici” (che parola impegnativa!) perché sono una donna. Guardare i miei quadri tenendo conto del fatto che a dipingerli è stata una donna è superficiale, una questione secondaria, come guardare i Kline e dire che sono bohémien. La realizzazione di un dipinto serio è difficile e complicata per tutti i pittori seri. Bisogna comunque essere se stessi». Vero.

C’è una foto di Joan Didion in cui è appoggiata a una ringhiera di legno su una terrazza affacciata sull’Oceano Pacifico. La casa è a Trancas, Malibu, la foto è del 1976, è del fotografo americano John Bryson. Mi è venuta in mente guardando un grande dipinto di Frankenthaler quasi tutto azzurro esposto a Firenze. Il dipinto si chiama Ocean Drive West #1. La foto di Didion mi è venuta in mente per via dell’oceano, che qui è l’Atlantico. Nell’estate del 1974 Frankenthaler prese in affitto una casa a Shippan Point, un quartiere residenziale di Stamford, in Connecticut, affacciato sul Long Island Sound. Lì realizzò undici tele. La serie si chiama Sea Change, è stata esposta per intero qualche anno da Gagosian, e include questo Ocean Drive West #1. «Disegna su tutta la superficie, colorala solo in parte e trasformala in una specie di mare», ha detto o scritto Frankenthaler. Nel dipinto Helen Frankenthaler non è da nessuna parte, non ci sono occhi, naso, bocca, gambe piegate da una parte, cerchietto in testa. C’è l’azzurro. Molto azzurro. Poi ci sono piccole linee orizzontali in altre tonalità di azzurro e altri colori. Non sono nette, ma sono linee, e sono colori. Ancora Frankenthaler: «Una linea è una linea, ma è anche un colore». Ancora Frankenthaler: «Com’è bella l’idea in sé di dipingere». Ancora Frankenthaler.

ARTICOLO n. 96 / 2024

L’ANNO DEL PENSIERO BORGHESE

Non è stato un anno facile.

Non parlo per me: quella che voglio fare in questo ormai usuale appuntamento di Capodanno è una riflessione ampia, cercando di renderla collettiva.

Almeno per quella collettività che sento più vicina e che attraverso quotidianamente come donna, come volontaria e come divulgatrice.

Non è stato un anno facile, dicevo.

Il 2024 è stato segnato da due parole: dissenso e scollamento.

La prima definizione è spesso abusata in senso borghese, anche da parte di intellettuali e riferimenti politici e culturali del centro-sinistra. Secondo questo adattamento liberale e rassicurante, il dissenso sarebbe una forma di disaccordo espressa con toni e modi educati, preferibilmente con linguaggio forbito e non scurrile, rigorosamente nelle giuste sedi (le loro, di solito). La rabbia, il dislivello di potere, la frustrazione derivante dalla discriminazione sistemica, dall’inedia dei rappresentanti politici, dal paternalismo dei riferimenti culturali, dalla paura del futuro, sono elementi che non sono compresi e accolti in questa forma degradata del concetto di dissenso: a palazzo l’educazione viene prima di ogni altra cosa. 

Il secondo termine, che è quello che più mi preme analizzare, è, come dicevo, scollamento.

Lo scollamento delle élite (culturali, editoriali, imprenditoriali, politiche) dal paese reale. Nello specifico: dalle richieste del paese reale. Non più adatte a leggere il contemporaneo, probabilmente addormentate in stipendi a cinque zeri, o con le pance troppo piene dalle cene nei salotti-bene, hanno perso la capacità di rappresentare o quantomeno ascoltare le questioni della società civile.

In questo anno appena trascorso, lo scollamento si è fatto talmente evidente da diventare scisma. Da un lato, i soliti incravattati che cianciano svogliati di argomenti che non conoscono – un esempio su tutti, i maschi in tv che parlano di aborto: mi auguro che questa piaga finisca nel 2025 –, dall’altro il tumulto di chi quei temi li vive sulla propria pelle ogni giorno. Nel mezzo, il perbenismo che separa e rende incomunicabili i due estremi.

Lo scollamento tra chi dovrebbe essere capace di leggere il presente e il contemporaneo reale è stato così netto ed evidente da aver costellato il 2024 di momenti colmi d’imbarazzo, tanta era l’inadeguatezza del circolo intellettualpolitico di comprendere il mondo (spesso anche quello a loro più vicino).

E mentre il fronte transfemminista – che nel suo associazionismo, nel suo mutualismo dal basso, nel suo continuo teorizzare e mettere in pratica, mettersi in discussione e non arrendersi alle limitazioni e discriminazioni imposte da una politica deumanizzante rimane a mio avviso la forma più adatta a leggere e cambiare il presente – incalzava la politica e il mondo intellettuale con richieste e rivendicazioni specialmente sui temi della violenza maschile contro le donne, l’altro lato faceva spallucce e pregava di agitarsi, certo, ma in modo composto e non troppo rumoroso. 

Questo scisma – scaturito da un malcelato perbenismo e dalla paura di perdere le poltrone – si è fatto particolarmente evidente in questi mesi, diventando una vera e propria faglia ogniqualvolta si parlasse di violenza di genere. Già, perché la violenza maschile contro le donne è stato uno dei temi più discussi anche di questo stanco 2024.

L’attenzione delle generazioni Z e Millennial sulle dinamiche di potere sessiste è infatti in continua crescita. Dal 2016, anno del MeToo, fino alla pandemia del 2020, in cui le case divennero i luoghi dai quali proteggere moltissime, troppe donne, l’attenzione e preparazione collettiva su questi temi si è fatta impressionante.

Un livello tale di autoformazione (già, perché nelle scuole e nelle famiglie di certi argomenti non si parla: in Europa siamo, su questo, fanalino di coda; se vogliamo proteggerci e decostruirci dobbiamo ancora farlo in autonomia, declinando alla singola inclinazione personale la formazione su determinate materie) sulla questione di genere non si vedeva dagli anni ’70. E anzi, azzardo: con l’avvento dei social, di piattaforme di informazione intersezionali e di reti nazionali transfemministe sempre più ramificate e solide, credo si siano raggiunte zone e fasce di popolazione fino a qualche decennio fa irraggiungibili.

E non solo. Movimenti globali come il MeToo ma anche il corrispettivo spagnolo che ha investito Podemos solo qualche mese fa hanno reso le voci e le preoccupazioni di intere categorie un rumore costante che è ormai impossibile da ignorare.

Eppure, incredibilmente, in Italia siamo riusciti nell’impossibile.

Anche nel 2024 abbiamo ignorato, sottovalutato, snobbato e sminuito la coralità delle voci arrabbiate dalla staticità di questo paese su temi urgenti da talmente tanto tempo da essere ormai diventati anacronistici.

Mentre gennaio si apriva con il femminicidio di Ester Palmieri, Valditara proponeva un programma di educazione sentimentale (?) autogestito (??) facoltativo (…) per le scuole superiori di secondo grado. In un paese ancora ricolmo di rabbia per i femminicidi del 2023, è stato come ricevere uno sputo in un occhio. L’ennesima dimostrazione di quanto questo paese sottovaluti l’importanza della prevenzione e della formazione in ambito scolastico, a partire dalla scuola dell’obbligo. Ma nessuno ne ha parlato con consapevolezza, al di fuori degli ambienti femministi. Il circuito intellettuale non pervenuto, la sinistra nemmeno.

Sempre a gennaio cresceva una tensione palpabile, destinata a non arrestarsi per tutto il corso dell’anno. Questa escalation di rabbia – legittima – veniva veicolata e cavalcata dai quotidiani e dai programmi di infotainment, che hanno iniziato a seguire con morbosità i casi di femminicidio di Cecchettin e Tramontano. 

Morbosità che ci porterà a dover subire, durante tutto il 2024, un bombardamento mediatico assolutamente non professionale sulle parole di Impagnatiello (che finisce pure per scrivere una lettera manipolatoria, irrispettosa ed egomaniaca che verrà letta in diretta a La Zanzara) e quelle di Turetta, di cui verrà mandato in onda perfino il video dell’interrogatorio.

Mentre le parole dei femminicida occupavano le prime pagine dei quotidiani e i caroselli social dei profili d’informazione, Vanessa Ballan e altre 100 donne venivano uccise dai compagni e dagli ex. Ma queste notizie sono passate in secondo piano perché eravamo e siamo ancora troppo impegnati ad ascoltare le a quanto pare così preziose e interessanti parole di Impagnatiello e Turetta. Delle donne sembra evidente che ci interessi meno degli uomini che le hanno uccise.

Da febbraio, la Lega e Salvini hanno iniziato una campagna xenofoba mirata alla ricerca di consensi sfruttando le vicende di violenza sessuale commesse da stranieri. Facendo leva sul razzismo insito nella nostra cultura colonialista e nazionalista, gli appelli – patetici – del leader del Carroccio sono serviti a plasmare parte del suo elettorato e ad aprire la strada a una propaganda becera e falsa sul tema della violenza maschile contro le donne.

Non solo quelli della Lega torneranno a chiedere a gran voce misure punitive quali la castrazione chimica per gli stupratori (di nuovo: questo dimostra quanto siano ignoranti sul tema), ma forniranno uno spunto di riflessione al loro esponente nonché Ministro Giuseppe Valditara, che arriverà a dire che gli stupri nel nostro paese siano nella stragrande maggioranza dei casi commessi da stranieri.

Non pago di aver tirato questa colossale bufala ripresa e difesa anche da Meloni (i dati ministeriali e ISTAT smentiscono infatti questa dichiarazione propagandista approssimativa e superficiale; in più il Ministro e il Presidente non tengono di conto del sommerso dei casi di violenza mai denunciati, dimostrandosi così di nuovo inadeguati nel trattare un argomento che richiede non solo preparazione, ma anche della doverosa serietà), Valditara, nello stesso discorso, riuscirà a dichiarare che il patriarcato non esista. Anzi, che non esista più dal 1975, anno della riforma del diritto di famiglia.

Il Ministro pronuncerà queste parole in collegamento video, a Montecitorio, davanti a Gino Cecchettin, durante la presentazione nazionale della Fondazione Giulia, intitolata a sua figlia e che si occupa proprio del contrasto alle forme patriarcali di violenza maschile contro le donne.

In questo panorama desolante e palesemente sessista portato avanti dagli esponenti del Governo – non riconoscere il problema vuol dire non avere cura o grande interesse per la qualità della vita e sopravvivenza delle donne – la risposta intellettuale e politica della sinistra è stata tiepida quanto sciapa.

Già durante Sanremo vi fu un primo accenno di tentennamento da parte della sponda intellettuale: in seguito al problematico discorso che avrebbe dovuto sensibilizzare sul tema del consenso scritto da Matteo Bussola e recitato dagli attori di Mare Fuori sul palco dell’Ariston, parte della bolla editoriale finì per schierarsi dalla parte del collega. Il testo, deresponsabilizzante verso le istituzioni, sbilanciato, impreparato e supponente, non citava mai le parole sessismo, misoginia, possesso, violenza maschile, patriarcato. Declinava al singolo – e alla singola, giusto per ribadire il Leitmotiv cerchiobottista “anche le donne sono violente” – la responsabilità della riforma del lessico sentimentale e anche della salvezza dalle situazioni di pericolo (che bello ribadire così velatamente che se ti menano alla fine è un po’ colpa tua). 

Già in questa occasione gran parte della classe intellettuale si dimostrò poco preparata nel comprendere la gravità di un discorso approssimativo di quel tipo sul palco più guardato d’Italia, e non furono poche le accuse di isteria ed esagerazione nei confronti delle associazioni e delle voci transfemministe che dissentivano dalle infelici scelte lessicali di Bussola.

Si intuivano già una certa frizione e disgusto verso modi e temi che fino a pochi mesi prima si erano accolti e cavalcati senza indugio. Ma quel periodo idilliaco sembrava già ampiamente terminato: un autore era stato toccato dalle critiche legittime da parte di chi di questi temi si occupa quotidianamente con preparazione e serietà, e questo poteva diventare un precedente pericoloso. Le femministe mica si incazzeranno pure con la classe intellettuale? Non avranno mica l’ardire di rivoltarsi contro il mondo della cultura che per qualche mese – giusto il tempo della durata di un qualsiasi trend topic – ha dato loro attenzione?

Questa frizione è diventata scisma irrimediabile a novembre, quando il caso Caffo ha investito le pagine dei giornali, le televisioni e soprattutto i social media. Invitato a Più libri più liberi, fiera dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin, durante un processo che lo vedeva prima imputato e poi condannato in primo grado per violenza domestica e lesioni gravi, Caffo è diventato il simbolo della incapacità della classe intellettuale di essere oggettiva e coerente.

Molti intellettuali hanno difeso a spada tratta la decisione della fiera di invitare il filosofo a un evento per lui in quel momento assolutamente inopportuno, visto a chi era titolato. E come da perfetta prassi reazionaria, le voci di dissenso verso questa partecipazione sono state tacciate di violenza, di cattiveria, di istintualità barbara. 

Per difendere un collega (e amico: siamo qui nella sfera di quello che Fulvio Abbate ha denominato “amichettismo”) molti scrittori e scrittrici nonché editori sono venuti meno a un principio su cui per anni si era fatto informazione e divulgazione (e fatturato), e nel ricevere delle dure quanto doverose critiche si sono difesi con la peggiore arma possibile: il piagnisteo classista.

I social sono stati derubricati a luogo inadatto al pensiero, al ragionamento, alla cultura. La pratica del dissenso e la richiesta di spiegazioni sono diventate in questa contro-narrazione delle forme di violenza. Le richieste di coerenza sono state dipinte come il solito “fascismo degli antifascisti”. La teoria transfemminista ridotta al mero luogo comune di roba da bambine frustrate che usano slogan per sentirsi grandi. Da un lato gli intellettuali, dall’altro chi non è in grado a detta di molti di comportarsi in modo educato.

Tra le mille levate di scudi della classe intellettuale che ho letto in queste settimane, quella più gettonata recitava: «Queste critiche faranno solo da assist alla destra». Anche qui, mi duole vedere quanto non sia chiaro un concetto semplice, ovvero che chi ha agito in questo modo screditante, sessista, classista e incoerente ha proprio avuto gli stessi comportamenti delle destre. E forse non è nemmeno troppo chiaro a queste voci di quanto la destra faccia tesoro proprio di questi comportamenti incoerenti e garantismi ad personam, di questo doppio standard acritico e giustificante verso “i nostri” che commettono abomini, di questo scollamento tra idee e pratica che diventa infantile, pericoloso, contraddittorio. 

L’inadeguatezza della classe intellettuale nell’essere davvero coerente e nel saper leggere il contemporaneo ha dato ancora più armi alla destra, che ne esce rafforzata, tacciando da un lato le femministe come isteriche e la sinistra dei salotti come ignava e in definitiva molto più simile a loro di quanto questi immaginino. Nello screditare le ragioni del movimento transfemminista davanti a casi come quello di Caffo a PLPL ne ha vinto soltanto chi crede che il dibattito sulla violenza maschile contro le donne sia una solfa ideologica senza fondamento, e questo è un fatto imperdonabile. Come è imperdonabile l’ammutinamento culturale e partitico verso i temi del femminismo e le battaglie che questo movimento cerca di portare nella politica.

Mentre in Francia (e nel resto d’Europa e del mondo) non si faceva altro che parlare del coraggio di Gisèle Pelicot e della banalità del male che vive negli uomini comuni che hanno partecipato a quei dieci anni di stupri senza mai un tentennamento, senza mai un ripensamento o un dubbio sulla loro condotta, in Italia ci si azzuffava contro le femministe che di nuovo protestavano davanti a un’occasione di inopportunità come quella di invitare Tony Effe a un evento pagato con i fondi pubblici. Si è urlato alla censura, in un modo scomposto e reazionario.

Mentre le prime fasi del processo di Mazan si svolgevano a fine estate in Francia, qui in Italia avevamo un enorme problema con i ritardi dell’applicazione del codice rosso da parte di questure e tribunali. I casi di Angelica Schiatti, Federica d’Orazio e di Elisa Aiello sono tra questi, ma anche quello di Casaviolenza, donna che rimane anonima per sua scelta e che denuncia pubblicamente i ritardi del tribunale nel trattare la sua vicenda di abusi domestici. E in tutto questo stallo alla messicana tra procure, tribunali, applicazioni di misure cautelari, donne parcheggiate per anni in case rifugio, altre costrette a rimanere chiuse in casa per paura di essere ammazzate, sul Corriere della Sera viene intervistato Caffo – sempre lui – e gli viene chiesto quanto sia dura per lui essere imputato di violenza e di quanto sia dura la sua, di vita. Non quella della donna che ha, da verdetto del tribunale, picchiato e screditato per anni. L’articolo viene rilanciato e apprezzato da molte intellettuali vicine agli ambienti progressisti.

In Francia, le intellettuali si uniscono intorno a Pelicot e le fanno scudo e contemporaneamente fanno pressione a Macron per riformulare una legge sul consenso che tuteli le vittime di violenza sessuale in modo più specifico e porti il Codice penale francese in linea con le direttive europee di contrasto alla violenza maschile contro le donne. Le attiviste francesi, la classe intellettuale, la sinistra parlamentare e la società civile si muovono in modo coeso e riescono a far breccia con le richieste giuridiche espresse dalla convenzione di Istanbul. Il processo ai fatti di Mazan diventa un punto di partenza e di coesione. Le proteste che hanno invaso le strade del sud della Francia e il sostegno collettivo non sono mai state tacciate di isteria e infantilismo. 

Mentre Gisèle Pelicot ricordava che la vergogna deve cambiare lato quando si parla di violenza di genere, in Italia ci si barricava dietro a un muro di garantismo borghese, che ricordava i tempi del processo a Izzo, Ghira e Guido per il massacro del Circeo. “Fino a prova contraria” è stata la frase più ripetuta per settimane, insieme a “non sono questi i modi per fare cultura”.

Tra giornalisti di sinistra (in un disperato tentativo di cercare un po’ di visibilità: l’Italia è una Repubblica fondata sull’io-io-io) che davano alle femministe delle trumpiane fascistoidi e direttori editoriali che urlavano alle femministe di essere delle Erinni, tra garantisti dell’ultima ora e paternalismi alla “ragazze mie lasciate che vi insegni come si sta al mondo”, la classe intellettuale ha dimostrato di essere assolutamente inadatta a leggere il presente e le sue urgenze, proprio come il centrosinistra al quale spesso si assimila e dal quale si fa sovente coccolare.

Ma tutto questo ha un costo, e questo costo a me personalmente spaventa moltissimo.

Non comprendere la rabbia, non comprendere le urgenze, la frustrazione, la fame, la necessità di intere categorie e ben due generazioni può avere effetti disastrosi.

Non solo per la cultura, che rischia di diventare ancora più polverosa ed elitaria di quanto già non sia, ma anche per la politica, che allontanerà sempre di più i giovani e le categorie marginalizzate dal dibattito e dai programmi politici.

Il rischio di tutti questi discorsi sul metodo è che ci si dimentichi il merito. 

E in questa dimenticanza si sviluppa il terreno perfetto dove coltivare la rabbia.

La questione di genere è solo uno dei tantissimi temi affrontati male e con superficialità da un certo mondo politico-culturale del centrosinistra. Lo snobismo ormai neanche troppo latente che caratterizza la nuova alta borghesia di sinistra tratta con sufficienza ogni tematica civile e sociale che non si piega alle logiche della democristianità ed esige invece risposte pronte e ascolto diretto dopo secoli di marginalizzazione.

Sono davvero poche le voci che si sono schierate in controtendenza in questo 2024 (mi preme ricordare Sciandivasci, Terranova, Kan, Paganelli, Signorelli, Sfregola e Coin tra queste) ma al di fuori di questa bolla c’è un intero paese che si muove e agita alla ricerca di azioni e risposte. Lo dimostrano le piazze piene, i collettivi più vitali che mai, le nuove forme di informazione (le redazioni di Scomodo e Generazione su tutte), le associazioni e le ONG che non arretrano di un millimetro e procedono nella loro resistenza attiva a un sistema che non tutela intere fette di popolazione. Lo dimostrano anche la poca voglia che hanno le nuove generazioni di prendere ormai sul serio i bacchettoni dei salotti perbene, la valanga di meme satirici verso la classe politica e intellettuale (come Madonnafreeeda), lo strafottente desiderio di far arrabbiare questi nuovi democristiani perché tanto ormai la frattura è scomposta ed esposta, tanto vale farli fessi più che interlocutori.

Mi chiedo dunque a cosa siano serviti in queste settimane tutti quei retorici articoli di giornale che parlavano dei modi adeguati, gli spazi giusti, i pericoli del digitale e della polarizzazione. Me lo chiedo perché credo sia davvero naïf non comprendere quanto ormai si debba spesso per necessità essere polarizzanti se manco gli intellettuali “di sinistra” capiscono più il concetto di opportunità e tutela delle vittime di violenza di genere.

Mi chiedo davvero come si possa pensare di dare lezioni d’etichetta davanti a un paese in tracollo senza prendersi quantomeno un sonoro vaffanculo di rimando.

Mi domando in quale bizzarra dimensione parallela si sia finiti per doverci sorbire le preoccupazioni sulle derive del digitale da parte di chi fa soldi tramite l’autopromozione su internet (tutti i giornali, tutti i partiti, quasi tutti i giornalisti, ogni casa editrice, assolutamente ogni scrittore, ndr).

Mi chiedo fino a che punto si debba tirare ancora la corda prima di capire che forse l’unico pregio della sinistra italiana era quello di saper leggere le necessità della classe operaia e delle cosiddette minoranze. E ora questo pregio è un lontanissimo ricordo.

Mi chiedo anche però quanta paura abbiano tutti coloro che hanno criticato i movimenti dal basso in questi ultimi 12 mesi. Paura di non essere più in grado di parlare ai giovani, paura di non saper più comprendere il presente, paura di non saper più immaginare un futuro diverso, paura di perdere i riflettori su di sé.

Sono molto curiosa di vedere come questa frattura e questo scisma a sinistra influenzeranno il 2025.

Sono però molto fiera di quello che vedo intorno a me.

Nuove forme di associazionismo, anche culturale, stanno nascendo. 

Nuove forme di pensare la politica e gli spazi pubblici.

Nuove forme per esprimere il dissenso e nuovi modi – corali, collettivi – di stringerci intorno a chi si batte per le giuste cause, in qualsiasi modalità queste battaglie avvengano. 

In un anno tragico per quanto riguarda la gestione della violenza maschile contro le donne, mi porto dietro il ricordo di questo sentimento. È come sentire elettricità nell’aria, come se qualcosa stesse per accadere. Non dico la rivoluzione, no. Dopotutto non siamo il paese delle rivoluzioni. Ma credo che in questo 2024 si sia tracciata una linea netta e sono sicura che i nuovi intellettuali, le nuove forme di giornalismo ed editoria, le voci dell’attivismo e dell’associazionismo non siano assolutamente più disposte a fare un passo indietro o sottostare a forme di bon ton vecchie quanto mortificanti.

Ecco, questo è il senso del motto – derubricato a slogan dalle élite di centrodestra e centrosinistra – “non una di meno”. Forse ci voleva la caduta della classe intellettuale per capirlo davvero appieno. Ma che non piangano, lì al centrosinistra: dal suolo di solito si può solo risalire.

ARTICOLO n. 95 / 2024

LA TRAPPOLA DELLA FAMIGLIA

Qualche giorno fa sono stata in un centro estetico aperto da poco nel mio quartiere per fare una semplice manicure. Ancora prima di chiedermi il nome o rivolgermi le consuete frasi di cortesia usate un po’ per rompere il ghiaccio, un po’ per evitare che si generi il classico silenzio imbarazzante tipico di questi frangenti, l’estetista mi ha sorpreso con un paio di domande inaspettate: «Sei sposata? Hai figli?». Credo abbia percepito il mio disappunto dalla risposta sbrigativa che le ho dato – «no, per entrambe le cose» – ma anche per il malcelato tentativo di riportare la conversazione su tematiche ben più neutrali («il salone è molto bello! Quando lo hai inaugurato?»).

Le incursioni nella vita privata delle donne non costituiscono di certo una novità. Una ricerca effettuata nel 2023 da una piattaforma che si occupa di fornire assistenza e orientamento lavorativo che ha coinvolto un campione di circa mille donne, ha sottolineato come a più della metà siano state posti quesiti discriminatori inerenti partner, figli o desideri di maternità.

Nel lungo percorso che ci porta ad esplorare i miti che hanno contribuito a sedimentare un certo ideale di femminilità, è necessario soffermarsi sul concetto di famiglia per capire l’impatto che tale istituzione ha avuto nella vita delle donne.

Se passiamo in rassegna pubblicità, film o serie tv, vecchie e nuove, è probabile che le donne presenti sullo schermo siano rappresentate almeno una volta in azioni di cura dentro ambienti familiari. Come sottolinea la divulgatrice Karen Ricci sia all’interno del suo libro che nell’omonima pagina Instagram Cara, sei maschilista!, «si dà sempre per scontato che l’unica strada che abbiamo a disposizione per condurre una vita soddisfacente e felice sia in coppia, con lui». Anche se non possiedono un preciso intento educativo, i prodotti social o gli audiovisivi che consumiamo ci informano della strada che la società vorrebbe farci assumere, indipendentemente dalle nostre predisposizioni personali. Così, se per gli uomini “metter su famiglia” è una tappa, non obbligata, che sopraggiunge quando si è ormai adulti, alle ragazze il mito del “principe azzurro” e del vissero tutti felici e contenti costituisce una sorta di mantra che le spinge a ricercare, più di ogni altra cosa, l’amore romantico.

Il filosofo Geoffroy De Lagasnerie sottolinea come, nella nostra società, i sentimenti siano collocati gerarchicamente e, spesso, costruiti per opposizione. L’amore, che si ritiene necessario per formare una famiglia, si colloca al vertice ed è quello verso cui investiamo maggiormente le nostre energie, a discapito di altre relazioni come per esempio l’amicizia.

Sottolinea, in un passo di 3. Un’aspirazione al fuori, come sia «difficile identificare quale di queste forme sociali si definisce contro l’altra (…); tuttavia, è evidente che tra le due sussista una forma di antagonismo, che l’autore coglie anche su un piano personale ogni volta che racconta ai conoscenti di aver trascorso le tipiche festività familiari – come il Natale – con Didier Eribon ed Éduard Louis, anziché in un rapporto a due, unica forma d’amore ammessa dalla nostra società. Nonostante molte persone avvertano come asfissiante la necessità di passare le feste “in famiglia”, nessuno prova ad agire diversamente, sfuggendo al giogo imposto. «Potremmo chiederci – prosegue il filosofo – se non sia la vita famigliare a essere fondata sul lutto delle relazioni di amicizia e delle esperienze che queste rendono possibili».

L’attivista Brigitte Vasallo ha cercato di rendere evidente il potere che si annida nell’istituzione della famiglia. In Per una rivoluzione degli affetti scrive a riguardo: «La monogamia è un sistema di pensiero che organizza le relazioni in gruppi identitari, gerarchici, avversi, attraverso strutture binarie con poli reciprocamente escludenti. L’esclusività sessuale (…) non è la causa del sistema: è la sua conseguenza».

In altre parole, la monogamia non è radicata nella nostra biologia ma viene posta come prerequisito sociale, affinché l’intero sistema regga. Liat Yakir è una biologa che ha dedicato alla questione della fedeltà molte pagine all’interno del suo libro Una travolgente storia d’amore. La studiosa sottolinea come, da un punto di vista chimico, il nostro cervello tenda a ricercare la novità perché ciò consente il rilascio di alcune sostanze, come la dopamina, che favoriscono l’eccitazione. Superate le fasi iniziali dell’innamoramento, in cui tutto è stupefacente perché spesso lo proviamo per la prima volta, il cervello inizia a produrre maggiori quantità di altri ormoni, come l’ossitocina, responsabile del consolidamento del legame che si stabilizza sacrificando parte di quell’incertezza e instabilità tipica dei primi periodi di frequentazione. Il legame, insomma, si fa serio riconoscibile anche dall’esterno.


In una relazione d’amore, le componenti di esclusività e gerarchia sono le porte di accesso al potere che, come ricorda ancora De Lagasnerie, circola con più facilità «nelle forme stabilite di legame». Se in generale il potere nuoce alla vita di ogni persona, è indubbio che abbia effetti ancora più pervasivi e letali su quella delle donne. Il doppio standard – che porta ad applicare, nei conforti del medesimo comportamento, giudizi o aspettative differenti a seconda che venga agito da un uomo o una donna – è ancora presente, soprattutto davanti ad azioni come il tradimento. Così, se molte persone sono disposte a scomodare la scienza per deresponsabilizzare gli uomini, biologicamente cablati per massimizzare le proprie capacità riproduttive, è facile imbattersi in discorsi che ricordano La lettera scarlatta se la “colpevole” è una donna, a cui non si riserva alcuna attenuante di natura organica.

Moltissime persone sentono il bisogno di instaurare relazioni significative, tuttavia è necessario chiedersi se il modo in cui la società presenta le varie forme in cui esse si manifestano risponda alle loro esigenze. Il filosofo francese non ha dubbi: il potere che filtra all’interno dell’istituzione della famiglia genera ruoli stereotipati che finiscono per ingabbiare chi li abita. Per le donne, in particolare, l’adesione al ruolo implica l’accettazione di un mandato riproduttivo che genera una forma di oppressione radicale.

Essa non può essere contrastata solo auspicando il superamento del capitalismo – principale responsabile dell’istituzione della famiglia nucleare. Scrive a riguardo Susan Sontag in Sulle donne: «La liberazione delle donne comporta una rivoluzione culturale volta a contrastare atteggiamenti e mentalità che altrimenti rischierebbero di sopravvivere alla ridefinizione dei rapporti economici». Insomma, inutile cambiare la società o l’impalcatura economica che la sorregge se prima non agiamo una decostruzione circa i modi con cui ci hanno insegnato a intendere le relazioni.

Uscire dalla “forma di vita” socialmente imposta può essere doloroso perché tutte le altre appaiono dequalificate, soprattutto da un punto di vista politico. Nella maggior parte dei casi mancano parole per descriverle. Se pronuncio la parola “amore” è facile farsi un’idea di che sentimento sto descrivendo, molto più difficile se parlo di amicizia. A che tipo di legame sto facendo riferimento, in questo caso? Quello superficiale con i miei colleghi, quello fraterno con il mio amico delle elementari? Le alternative, però, esistono.

Per costruire nuove relazioni, è necessario partire dal desiderio. Nella cornice dell’amore romantico, esso costituisce il punto di innesco per la nascita di un sentimento che Vasallo definisce «emozione drammatica». Se, nell’innamoramento, le donne replicano la passività che la società impone loro anche sessualmente, gli uomini al contrario applicano il vocabolario della guerra. Innamorarsi significa pertanto prendere parte a un gioco con regole precise, in cui uno conquista e l’altra cede, fino all’atto finale in cui le parti decidono di vincolarsi reciprocamente attraverso il riconoscimento e la stabilizzazione del legame.

Liberare il desiderio dagli stereotipi implica ripensare le alternative a questo gioco. Impostare la relazione in modo diverso può voler significare uscire dalla cornice imposta dal concetto di esclusività sessuale – che è ciò che prova a suggerire Brigitte Vasallo – oppure trasformare il legame rompendo il concetto di coppia, come nel tentativo di De Lagasnerie, Eribon e Louis. Nessuna di queste proposte viene presentata dagli autori come quella definitiva, quella perfetta; tutti, però, ci invitano a fare una cosa: uscire dal tracciato imposto socialmente per tentare di agire un atto eretico, capace di sfidare «le leggi del riconoscimento sociale».

ARTICOLO n. 94 / 2024

NEVE A NATALE

Premessa. 

Forse perché non ci sono racconti natalizi che non siano sommersi dalla neve, né canti di Natale che non la evochino con toni struggenti, fin da bambina e per molti anni sono stata tenacemente persuasa che la neve a Natale fosse un diritto che mi era stato sottratto. Un dicembre dopo l’altro, il clima temperato della piccola città dove vivevo, così vicina al mare, la privava dell’atmosfera tipicamente natalizia che solo un’abbondante nevicata avrebbe potuto infonderle, riscattandola dalla sua quasi totale assenza di bellezza: carichi di neve, i rami degli alberi privi di foglie avrebbero perduto il loro aspetto spettrale, e i tetti imbiancati avrebbero conferito un’aria di serena dignità agli edifici più squallidi.

Ma soprattutto il silenzioso fioccare della neve avrebbe creato quell’atmosfera di mistico incanto che segretamente desideravo, e neutralizzato le chiassose celebrazioni profane, quasi irridenti, della mia famiglia, che erano per me una dolorosa ferita. 

Così, ostinatamente, negli anni, un dicembre dopo l’altro, ho continuato ad aspettare la neve, e a sentirmi profondamente infelice quando, la mattina della Vigilia, scoprivo attraverso i vetri della mia finestra le consuete sfumature grigio-brune dei nostri inverni troppo miti.

1.

Se ne discusse a lungo, poi si decise che non si poteva assolutamente rifiutare. Ricordo bene le circostanze: la fine di uno dei nostri abituali pranzi sgangherati, con gente che andava e veniva, finché intorno al tavolo (un vecchio tavolo rotondo, cui l’aggiunta successiva di svariate prolunghe aveva conferito una forma semi-ovale) rimanemmo soltanto in quattro: mio padre, mia madre, io – sette anni – e il maggiore dei miei fratelli, la cui opinione in merito era considerata dirimente, in quanto nipote prediletto della Zia. Dalle finestre penetrava nella stanza una luminescenza compatta e grigiastra.

Si disse che la Zia avrebbe avuto su di me un’influenza positiva, che bisognava senz’altro darle ragione sul fatto che il mio esagerato attaccamento alla mamma aveva già avuto conseguenze nefaste: sensibilità morbosa, insicurezza patologica e un’assoluta mancanza di autonomia. 

D’altronde, non si poteva opporre alcun argomento valido alla proposta della Zia. Il Natale nella nostra famiglia era notoriamente privo di sacralità. La celebrazione della Vigilia consisteva in una cena scomposta e rumorosa (che spesso si concludeva con discussioni accanite su temi rigorosamente profani), cui seguiva un frettoloso scambio di regali dal valore puramente simbolico. Il pranzo del 25 non esisteva addirittura. Ci si svegliava a scaglioni, non prima delle dieci, e ciascuno di noi attingeva per proprio conto ai resti della cena. 

Questi furono più o meno i ragionamenti, tutti si trovarono d’accordo e si convenne che il 23 dicembre, appena uscita da scuola, sarei partita per Roma con un treno, in compagnia di uno dei miei fratelli che mi avrebbe lasciata in consegna alla Zia e sarebbe poi subito tornato indietro. Non so più con quali argomentazioni mi venne infine assicurato che avrei tratto grande vantaggio da quella vacanza. Ricordo invece il tono cauto nel quale mi vennero esposte, e l’effetto di angoscioso allarme che quel tono produsse in me. Ciò nonostante, sono quasi certa di essere riuscita a trattenere le lacrime. Rammento lo sconcerto sui visi di mio padre, di mia madre e di mio fratello, quando, a voce bassa, riuscii a formulare la domanda che trattenevo fin dall’inizio di quel fatale dibattito: «A Roma ci sarà la neve?».

2.

La Zia fuma una sigaretta dietro l’altra, letteralmente: spesso usa il mozzicone di quella che ha appena finito per accendersene una nuova. La stanza è bella, alta e luminosa, arredata con mobili antichi, scelti con un gusto raffinato e sicuro che perfino io sono in grado di apprezzare. Presto però si riempie di fumo. Se mi viene voglia di tossire, mi allontano cautamente e faccio il minimo rumore possibile. Altrimenti la Zia alza gli occhi dal suo quadernone, mi osserva con sospettoso fastidio, e poi mi chiede in tono sarcastico se non sono un po’ troppo delicata di polmoni. Lei odia le moine. Chiama moina qualunque espressione, gesto o parola che non abbia lo stigma di un’assoluta e decisa franchezza, prossima alla brutalità. Io invece sono spaventata dai suoi modi perentori; perfino il suo accento romano, molto più spiccato di quello del babbo, mi incute terrore. Non ho paura che mi picchi, intendiamoci. Ho paura del suo giudizio e del tono sprezzante con il quale potrebbe esprimerlo. Tanto più che, per quanto io sia sinceramente intenzionata a rispettare il Regolamento, so che ogni mossa potrebbe costituire un’infrazione, perché non mi riesce proprio di capire in che cosa il Regolamento consista. Sono su un campo minato. Muoversi il meno possibile, parlare il minimo indispensabile. Ma allora la Zia dopo un po’ alza lo sguardo dal quadernone, mi osserva un momento, e poi mi sorride in un modo che mi sembra inquietante, malgrado i suoi occhi grandi, allungati e chiari esprimano una certa indulgente dolcezza. «Ti annoi?», mi chiede, «Ti faccio paura? Ti manca la mamma?». Con la testa faccio segno di no, sincera per un terzo soltanto: sono troppo spaventata per annoiarmi, e la mamma mi manca al punto che il solo sentirla evocare mi fa venire voglia di piangere. Con grande sforzo, resisto. Piangere, lo so, sarebbe l’errore fatale, il passo falso che mi precipiterebbe all’Inferno. 

3.

Non ho mai visto niente di paragonabile a quest’enorme piazza. È immensa e sontuosa, circondata da palazzi fastosi, ci sono tre fontane, un’antica chiesa e un obelisco. Ma soprattutto decine di bancarelle sfavillanti di luci che si accendono a intermittenza sono affiancate le une alle altre lungo tutto il perimetro. Fra le fontane si aggirano tre o quattro uomini sommariamente travestiti da Babbo Natale, proponendo fotografie con i bambini che passano trascinati dalle mamme. A quello che ci interpella (una foto con la nipotina, signora?) la Zia lancia un’ingiuria romanesca che risuona lancinante e feroce.  

Mi strattona brutalmente, benché non ce ne sia bisogno: ho saputo che Babbo Natale non esiste ancora prima di prendere coscienza di esistere io stessa, e comunque è fuori questione che io osi esprimere in presenza della Zia un desiderio futile come quello di fare una foto. D’altronde, per non correre rischi, non esprimo alcun desiderio, neanche dopo le ruvide e impazienti sollecitazioni della Zia. È lei stessa a scegliere per me, pezzo per pezzo, un presepe artigianale con case di cartone dipinto, statuette di gesso, una grande capanna di sughero, alberi, uccelli e altri animali, il tutto al costo di 19,300 lire. 

4.

Siamo in un quartiere di palazzoni moderni precocemente invecchiati. Alle finestre le serrande sono quasi tutte abbassate, ma in molti casi sono rotte e pendono di sbieco rispetto alla linea dei davanzali, e allora si intravedono sale da pranzo avvolte in un alone bianco, famiglie riunite intorno a tavole apparecchiate. L’asfalto della strada è disseminato di buche, più o meno grandi, più o meno profonde. I lampioni emettono una luce giallastra. Le vetrine sono quasi tutte buie, tanto che, passandoci davanti, posso vedere il mio riflesso accanto a quello della Zia, incappucciata in un foulard dai colori gitani. 

Le poche luminarie natalizie hanno un aspetto malinconico, perfino il ritmo del loro accendersi e spegnersi sembra più lento, come se fossero stanche di quell’inutile occhieggiare. Le automobili ci ignorano e passa del tempo prima che riusciamo ad attraversare, grazie alle vigorose imprecazioni della Zia. Poi ci dirigiamo verso la Trattoria, indicata obliquamente da un’insegna al neon lastricata da cadaveri di mosche morte da tempo. Entrando, siamo avviluppate dal caldo insalubre dei caloriferi. La Zia chiama per nome la cuoca e titolare, dandole del tu, e lei, una donna alta e massiccia, con un largo grembiale, le risponde con lo stesso tono familiare. Ma mi accorgo bene che il suo sorriso e i suoi occhi esprimono sentimenti ambivalenti: compiacimento, timidezza, gratitudine e un’ombra di timore, lontano parente della paura che mi attanaglia.

Al tavolo ci aspettano tre amici della Zia, due uomini e una donna. Senonché gli uomini hanno qualcosa di femmineo, e la donna esibisce un’accentuata rusticità. Pare impegnata a dimostrare fino a che punto sia immune da ogni civetteria. Vengo presentata brevemente. Ottemperando a un misterioso precetto, tutti mi trattano come un’adulta, rivolgendomi qualche domanda alla quale oso appena rispondere, troppo timorosa di non essere in grado di adeguarmi. Per il resto della cena vengo quasi del tutto ignorata. La Zia mi sembra la sola che abbia un comportamento naturale, benché esorbitante. Parla molto e a voce molto alta. Le sue affermazioni suonano come sentenze inappellabili. Gli altri paiono impegnati in una paradossale partita a scacchi, nella quale l’obiettivo di tutti consista nel perdere, anziché nel vincere. Un passo indietro, due di lato, un piccolo salto in avanti, scacco matto, vince la Zia. Guardo l’alberello della vetrina, circondato di bottiglie impolverate, di flaconi di vetro opaco, di grosse forme di pecorino, e altri oggetti consumabili e non, vivi e morti. È un alberello artificiale, issato su un piedistallo di metallo plastificato, guarnito di una decina di palle rutilanti e attraversato da pochi fili spelacchiati color argento. In cima all’albero c’è un puntale dorato che lo fa pendere leggermente da un lato. 

È il 24 Dicembre, penso. A casa mia genitori e fratelli stanno mangiando senza assaporare nulla, impegnati in qualche discussione non procrastinabile. Sotto l’albero preparato in fretta, impacchettati verosimilmente con la carta del Natale passato, ci sono i regali, che tutti scarteranno fra poco, ringraziando con sorrisi distratti.

5. 

La sento la voce della Zia. Ma è come se venisse da un posto molto lontano, o molto profondo. Non posso rispondere, anche se vorrei. Devo fare attenzione a dove metto i piedi. Il terreno sul quale sto camminando è pieno di insidie. Sabbie mobili, voragini. Anche l’aspetto innocuo di questa piccola spaccatura potrebbe preludere a una caduta vertiginosa in abissi senza fine. Forse viene proprio da questi abissi la voce della Zia. Cammino. Urto mobili, travolgo oggetti, rovescio un tavolino, ma continuo a camminare, non posso proprio fermarmi. Dietro di me sento l’ansimare di una belva: una tigre, un leone, un leopardo? Non oso voltarmi per accertarmene, e poi che differenza potrebbe fare? Non ho modo di mettermi in salvo, si tratta di scegliere: lasciarsi divorare dalla belva o rischiare di precipitare…

Il giorno dopo ho la febbre. Non una grande febbre, poche linee sopra la temperatura normale, ma la Zia mi tiene a letto per precauzione, o forse perché la mia presenza non le arrechi fastidio. Tutta la mattina è stata china sul quadernone, scriveva in gran fretta, come fosse anche lei inseguita da una belva, ma senza voragini e trabocchetti a impedirle la fuga. Andava via spedita, e io non esistevo, e mi piaceva immensamente non esistere. 

Più tardi la sento parlare al telefono. All’inizio ascolto distrattamente, attenta soprattutto al suono della sua voce, che sale, scende, si impenna. Mi sembra prodigioso questo suo modo di parlare, come se nessuno dei concetti, nessuna delle convinzioni che pure esprime con estrema forza avessero bisogno di scaturire dalla riflessione. È tutto lì, già pronto, come un’immensa biblioteca istantaneamente consultabile, dove anzi ogni cosa ti viene incontro da sé, prima ancora che tu sappia di averne bisogno. 

Dopo un po’ la sento pronunciare il nome del babbo e allora sì, mi metto in ascolto. Dice che lui le aveva assicurato che era una fase superata, che certo non si aspettava una cosa così, che non può starmi dietro tutta la notte per evitare che mi faccia male… Magari mi arrampico su una sedia, mi butto dalla finestra, convinta di essere un’aquila reale, oppure do fuoco alla casa, che ne sai?… Dice che non può permettersi di sperperare le sue notti… Se non dorme lavora, e se non lavora deve dormire per essere in grado di lavorare il giorno dopo. Poi dice anche che mi credeva più vivace, più interessante, che le sembro avviata a diventare una sorta di gentile vegetale… Educata, sì, lo sono, anche troppo, il genere di educazione piccolo-borghese che ricevo in casa, non da parte tua, s’intende… A questo punto la sento accendersi una sigaretta, aspirare, assentire con una sorta di acuto mugolio e infine dire non lo so… Domani, stasera, il prima possibile… 

6. 

Chissà se in famiglia sono contenti che io sia tornata prima del previsto. Sembrano normali, come sempre; cioè non indifferenti, ma svagati, distratti. Forse alcuni dei miei fratelli non hanno neanche fatto caso alla mia assenza. Io la mia allegria so di doverla nascondere, almeno per un po’. Ma non mi riesce bene. La mamma dice che ho gli occhi che brillano e che è inutile che io mi finga contrita, lei non ci casca. Con il babbo dovrò stare più attenta, ci teneva a questa cosa: che la Zia mi avesse presa in simpatia, che volesse considerarmi quasi una figlia. A quel che capisco, sarebbe stata una specie di promozione. 

Fortunatamente, quando viene a darmi la buonanotte, non ho bisogno di fingermi dispiaciuta o delusa, perché lui dà per scontato che io lo sia e si preoccupa solo di consolarmi, di minimizzare. Non è che io non le piaccia, mi dice. «Anzi, ti trova interessante, ma hai questo problema, che sembrava superato – ti ricordi? – Erano mesi che non succedeva più. E lei in questo momento non si può permettere di non dormire. A me invece queste tue scorribande notturne non hanno mai dato troppo fastidio. Forse perché comunque spesso soffro di insonnia e quando ti incontro in corridoio di notte mi piace scambiare con te qualche parola… Perché a volte mi rispondi, sai? E anche se sul momento sembra che tu dica solo cose buffe, che non hanno senso, poi, ripensandoci, un senso si trova, anzi, è come una chiave magica che apre una porta misteriosa, attraverso la quale si entra in luoghi sconosciuti, che altrimenti rimarrebbero inaccessibili. Peccato che con la Zia tu non abbia parlato».

7.

La mattina del 27 dicembre mi sveglio contenta, quando tutti stanno ancora dormendo, oppure ascoltano la radio, o guardano il soffitto pensando ai fatti loro. Fuori piove, un vero temporale: ogni tanto si vede un lampo e poi, dopo un istante, si sente il tuono, forte da far tremare la casa. Mi alzo e comincio a scartare il mio presepe, pezzo per pezzo. Ieri sera in giardino sono riuscita a trovare un bel po’ di muschio, ho raccolto anche del ghiaino dal vialetto e fra la spazzatura ho ripescato diverse carte natalizie per creare un fondo. Le stendo sul tavolo della sala da pranzo – non quello intorno al quale mangiamo, un altro quadrato, più piccolo, che si trova contro il muro, sotto una finestra. Creo i rilievi, dispongo le case, la capanna, gli alberi, i personaggi e tutti gli animali. Sistemo bene il muschio, alternandolo alla ghiaia. È bello, ma manca ancora l’essenziale. Vado in cucina, mi arrampico sul tavolo, apro il pensile in formica e prendo un pacco di farina. E finalmente, sulla scena natalizia, nevica. Nevica sulle case, sulla capanna, sugli alberi, sui giocatori di carte, sul venditore di caldarroste, sui pastori, sui doni per il Bambino Gesù, sui contadini, sulle pecore con i loro agnelli e sui quattro allegri mangiatori di pastasciutta che, incuranti del freddo e della neve, siedono intorno a una tavola generosamente imbandita. Un raggio di sole, inaspettato, si fa strada fra le nuvole nere e viene a colpire il mio presepe, come una consacrazione.

ARTICOLO n. 93 / 2024

LE OCCASIONI DELL’AMORE

La sequenza d’inizio dell’ultimo film di Stéphane Brizé ricorda l’apertura di La femme d’à côté del 1981, il penultimo film di François Truffaut, dove un’ambulanza a sirene spiegate percorre velocemente una strada di campagna nei dintorni di Grenoble. Il film inizia dalla sua fine, la tragedia è compiuta e la coppia di amanti giace l’uno a fianco all’altra senza vita. Una voce fuori campo introduce così gli spettatori in un lungo flashback. Nel caso di Hors-saison di Stephan Brizé, in Italia con il titolo, per una volta non troppo trasfigurante, de Le occasioni dell’amore, e distribuito nelle sale da IWonder dal 23 dicembre, si tratta invece di un’automobile che percorre una strada isolata. Qui non è presente alcuna voce fuori campo, al suo posto una musica, o meglio un umanissimo fischiettio tanto nostalgico quanto giocoso e leggero. Il panorama appare desolante e malinconico al limite del tragico, ma al tempo stesso il suo carattere selvaggio rivela una giornata invernale quieta, in cui la Bretagna si rivela nella pioggia e nelle sue infinite gradazioni di grigio (il vero colore nazionale della Francia secondo François Mitterrand).

Le analogie tra i due film si esauriscono dunque quasi subito, ma l’origine resta solida. Si tratta infatti per entrambe le pellicole di una storia d’amore in cui il sentimento amoroso prevale fortissimamente sulla storia passata, che pur essendosi consumata negli anni impedisce ai due amanti di lasciarsi per davvero, anzi trova i due protagonisti impreparati e sorpresi.

Hors-saison segue la trilogia del lavoro (La Loi du marché del 2015, En guerre del 2018, Un autre monde del 2021) che avuto come assoluto protagonista Vincent Lindon. Stephan Brizé muta così l’ottica con cui indaga la contemporaneità entrando totalmente nella vita privata dei suoi protagonisti. Gli effetti delle leggi del mercato e della modernità non appaiono più solo all’interno di dinamiche misurabili o esterne imposte da logiche economiche e di forza maggiore, ma anche e soprattutto in quegli spazi intimi sempre poco spiegabili, ma che determinano alla fine quasi tutto nell’esistenza degli umani.

In un’epoca in cui immediatezza e distanza si alternano in modo frenetico e non di rado rapsodico, per non dire assurdo, Brizé mostra come i sentimenti si trovino a gareggiare ridicolmente all’interno di dinamiche performative prive di alcun senso, ma inevitabilmente capaci di soggiogare e ingannare dando forma a ingarbugliate situazioni di assenza e di perdita di sé.

Guillaume Canet interpreta Matthieu, un personaggio non troppo distante da se stesso, ovvero un attore parigino di successo. Matthieu è in uno stato di crisi evidente. Uscito in maniera fallimentare da una prova teatrale per lui cruciale, ma che non ha avuto il coraggio di affrontare fino in fondo – al punto da abbandonare all’ultimo teatro e compagnia disertando la prima – Mathieu si trova in Bretagna in cerca di pace e di cure, nello specifico all’interno di un lussuoso hotel clinica per cure talassoterapiche. 

Matthieu è stretto tra la paura del proprio incombente fallimento e dal disamore per il successo ingombrante e nevrotico – per non dire ostile – della moglie giornalista, che rimasta a Parigi non è certo troppo disponibile ad accettare le insicurezze e le fragilità di un consorte che si rivela un po’ infantile e vacuo. 

Mathieu vaga totalmente perso sulla spiaggia deserta così come nell’asettico e medicale hotel di lusso, si offre per selfie di rito e tenta sport alternativi poco incoraggianti, ma come in un noir classico arriva un messaggio dalla reception che sarà la svolta del suo soggiorno in Bretagna. 

Mathieu ritrova così Alice, l’italiana conosciuta più di dieci anni prima a Parigi. Un amore passato e in parte rimosso in un dolore per lui represso, per lei lancinante, con non pochi strascichi. Si ritrovano sull’orlo di un equilibrio fragilissimo fatto di sano ordine e puntuale organizzazione. Tutto è stabilito secondo i giusti valori affettivi e relazionali dovuti: un marito per lei e una moglie per lui, una figlia per lei e un figlio per lui, tranquillità per lei e l’agognato successo come attore per lui. Un equilibrio che rivela un’inquietudine e un dolore non dichiarato.

Tutto sembra però far presumere a nulla più che un amabile ritrovarsi, magari segnato giusto un poco dalla malinconia di una giovinezza passata e di qualche desiderio lasciato cadere per strada. E così sembra andare tra una colazione e un pranzo fino a quando non intervengono le prime crepe, e la gentilezza mansueta e affettata viene sostituita da una tensione crescente e da un eros che si mischia all’odio e al rancore. Una felicità inaspettata che si scioglie così in una tristezza forse irrecuperabile.

Il grande amore esplode tra le mani dei due protagonisti che a quel punto come archeologi devono ricomporre pezzo a pezzo il senso della loro storia, numerando fatti e situazioni, catalogando i ricordi sotto il segno di una nuova seppur improbabile possibilità. Entrambi provano ad attraversare il flusso dei desideri cercando di capire cosa resta di loro due e soprattutto se davvero quello tra loro fu il grande amore della loro vita.

Stephan Brizé affronta un tema classico e replicabile all’infinito, e lo fa con la delicatezza propria di un cinema che sa ancora affidarsi alle immagini prima ancora che agli isterici movimenti di camera o peggio a una colonna sonora assordante e inutilmente ridondante. Anzi in Hors-saison tutto è mosso in levare. Tanto più la situazione si complica tanto più Brizé allontana la camera, arretra e lascia allo spettatore la possibilità di un campo largo in modo da non giudicare subito e solo i suoi protagonisti, ma di verificarne innanzitutto il contesto. 

Il film evita lo sguardo morale, tipico per esempio dei film di Éric Rohmer e che oggi sarebbe impossibile – in questo società – riproporre ex novo (anche se l’ambientazione potrebbe essere in parte letta come un piccolo omaggio al grande regista di Tulle), e sfugge così sia al genere romantico che al genere noir, inglobandone però gli ingredienti più caratterizzanti nella sua storia. Il rischio e l’imprevisto fanno infatti parte dei sentimenti e del loro movimento inquieto quanto vitale, a patto di non sfondare mai quella parete esile, ma portante, che separa la passione e la felicità; così come anche il dolore, che inevitabilmente ne fa parte, dalla volgarità di una violenza sempre priva di ogni forma di eros e di amore. 

Mathieu e Alice si fronteggiano, nudi nelle proprie esistenze, uno di fronte all’altro. A ogni improvviso e ingenuo entusiasmo e risata segue spesso e subito un dolore acuto e imprevisto che si traduce in accuse, rimpianti e repentine fughe. Al punto che anche restare – come Mathieu decide di fare – ha solo il valore dell’ennesima fuga. Che fare allora? Come muoversi? E come restare fermi? La felicità nelle sue varie declinazioni, gioia, risa o baldoria resta un oggetto vibrante e caotico che va allora moderato, anche rispetto al proprio tempo e ai propri restanti giorni. Un tempo, quello futuro che aspetta Alice e Mathieu, e nuove scelte e nuovi compromessi. Come anche quello passato, che li ha visti bruciare insieme gli anni migliori senza avvertenze, senza requie né misura. Gli anni migliori vanno sempre e solo bruciati, anche a costo della banalità, anche a costo della mediocrità.

La clemenza solidale e affettuosa di Stéphane Brizé verso i suoi protagonisti esplicita un tema che lega a doppio filo Hors-saison con tutta la sua precedente produzione: la fragilità, la libertà di scelta e anche un rifiuto dell’eroismo in cambio di una dignità che tolga dall’orizzonte impavidi eroi o tragici personaggi da epica muscolare. Stéphane Brizé ha cura e passione non solo banalmente per le persone, ma per quelle individualità anche eclettiche che hanno la capacità di comporre un popolo ancora possibile.

Così come nel caso della trilogia del lavoro, anche qui i due protagonisti Mathieu e Alice compiono un lungo e duro attraversamento di quelle che erano le loro ambizioni e le loro inevitabili distorsioni, in parte congenite e in parte imposte da un contesto che a loro ha chiesto una performance e un ruolo che non coincideva con la loro forma e con la loro capacità di occupare spazio nel mondo. 

Quello che resta è una forma di comunione e di presenza, un riconoscersi reciproco dentro al quale anche gli errori vengono condonati o passano comunque in secondo piano. Resta potentemente un’idea di vita mai persa, mai gettata alle ortiche, ma che orgogliosamente ha seguito il movimento di quelle onde che ora li inseguono lungo la sterminata spiaggia di Saint-Pierre-Quiberon. 

Hors-saison è un film piccolo dai movimenti minimi, che offre però grazie all’infinito e icastico paesaggio invernale bretone – cosparso da un perenne grigio metallico – l’evidenza di un tempo imperturbabile, dentro al quale l’umanità si scioglie in un abbraccio fragile e necessario, esile, magari anche irrisolto. Ma ogni volta unico e splendente, diverso e bellissimo.

ARTICOLO n. 92 / 2024

CONTRO I REGALI DI NATALE

Nell’inverno che seguì alla mia nascita Zia comprò uno stock di golfini rosa, uno per taglia d’età. Sei-12 mesi, 12-18 mesi, 18-24 mesi e poi 2-3 anni, 4-5 anni, 10 anni, 14 anni, adulta. Dal 1990 in poi, ogni Natale, mi regalò la taglia che spettava secondo cartellino. Da quando compii 18 anni a quando lei morì, nel mio trentaduesimo anno di vita, mi regalò il medesimo golfino rosa taglia M. Quando aiutai il figlio a vuotare l’armadio di Zia dopo il funerale, trovai un’altra decina di golfini rosa, poiché Zia si aspettava di campare di più. Nell’anno del Signore 1990, Zia sapeva che per i successivi trenta o quaranta anni di vita Corso Vercelli non l’avrebbe vista aprire il borsellino sotto i fiocchi di neve per comprare a me o a chiunque altro un regalo di Natale. Questa consapevolezza fu libertà.

Raccontare di Zia non è aneddoto bensì parabola: ogni Natale ciascuno di noi riceve il medesimo regalo dalla medesima persona, adattato all’età. Muta l’involucro simulacrale, ma non la reificazione della nostra personalità per come interpretata dal donatore. Cambiano i budget non i bias. Il taccuino rilegato a mano del 2021 è il vaso per ikebana del 2024. La lampada di Kazuhide Takahama del 2021 è la camicia su misura cucita a mano dal morituro sarto di un padre costituente del 2024. Il set di confetture del 2021 è il siero notte di Kielh’s del 2024. E sì, la tessera FAI del 2021 è la cena da Enrico Bartolini del 2024. I regali ricordano che si è sempre quella roba là.

Mi dichiaro ufficialmente stufa di essere quella roba là. Da qui l’idea di proporre a The Italian Review un grincioso articolo che spinga il lettore a essere stufo con me.

Tra i capitoli più affascinanti delle discipline demo-etno-antropologiche, l’economia del dono. Il kula, studiato da Bronisław Malinowski negli anni Venti, è un rituale delle isole Trobriand in cui si compiono chilometri e chilometri in canoa per scambiarsi collane se si va verso Nord e bracciali se si va verso Sud. Questi doni sono una forma di baratto poiché non rimangono proprietà di un individuo, ma circolano, e il loro obiettivo è veicolare tramite la bellezza, e la fatica del tragitto per mare, un rapporto di fiducia. Che meraviglia. Ecco, da questa parte del mondo quando si scarta un regalo di Natale tutti, persino i bambini, provano diffidenza. Quei mona dei genitori sicuramente avranno comprato un Furby bianco, non pezzato. Il rossetto Rouge Coco di certo avrà una tonalità bright winter, figurati se lui ricorda che lei è summer soft. Gesummaria, s’avverte la consistenza di un libro sotto questa carta da pacchi, sarà L’eleganza del riccio, di certo non Simenon.

C’è poi un regalo altrettanto temibile: il pensiero. Altrimenti detto, pensierino. Un ricatto. Il pensiero è fatto con il cuore, e quindi non può essere buttato. Il pensiero è un biglietto o un disegno o qualcosa di piccolino fatto a mano che materializza l’amorevolezza del donatore. La casa d’infanzia ha un cassetto o una mensola pieni di pensieri. Nel 2023 ho buttato un cesto di pensieri nel bidone dell’inorganico senza nemmeno scindere i materiali per fare raccolta differenziata perché staccando la carta dai lacci di stoffa mi sembrava di squartare bamboline vudù. 

Per sfuggire a tutto questo, un metodo c’è. Il primo dicembre ho inviato a parenti e amici un messaggio in cui scrivo di non voler ricevere in dono né oggetti né esperienze né tantomeno pensieri. Ho chiesto ricevute di donazioni, anche misere. Si badi bene: donazioni a cause che io sostengo, non loro. Non l’ho fatto per bontà ma per rabbia sociale, e per rompere i coglioni a suddetti parenti e amici.

Le cause che stanno a cuore a me sono prevalentemente di ordine sociale e sanitario, i miei parenti hanno gioco facile tra Associazione Luca Coscioni, Lega del Filo d’Oro, associazioni che si occupano delle persone senza fissa dimora, di cure palliative eccetera. Ma se la pratica della donazione in regalo a Natale, già diffusa, divenisse veramente capillare, se ne vedrebbero delle belle. Donare come dono a un’altra persona significherebbe studiare cosa sta a cuore al proprio nipote, genitore, amico e talvolta magari comporterebbe effettuare una donazione a qualcosa in cui non si crede. Potrebbe persino rivelarsi moralmente difficile, provocatorio, in questo modo introducendo nuovi interrogativi e un dialogo inedito nel sistema familiare. Si incentiverebbe peraltro l’interesse per gli immani problemi sociali italiani, visto che le generazioni più giovani sembrano maggiormente coinvolte da problematiche estere o globali. 

Gli adolescenti potrebbero iniziare così la propria rivoluzione nel salotto della nonna, rifiutando di regalare cremine, donando e chiedendo donazioni a cause di cui poi ci si troverebbe a discutere. Si creerebbe più katastrophè che nelle piazze, raggiungendo un pubblico – l’acerrima metaforica nonna – che nelle piazze compra il sedano.

Ci ritroveremo a donare per la ricerca scientifica, culturale, per recuperi e ristrutturazioni, per piante, animali, per religioni o partiti cui magari non crediamo, per circoli che detestiamo, per bambini che non conosciamo ma che sono anche nostri, o per club che non hanno assolutamente bisogno di una donazione ma che fanno la felicità del nostro caro. Sarebbe un gioco e una sfida oltre che un bel regalo.

Sto scrivendo questo testo ormai da un’ora e mi domando di cosa fossi in balìa quando proposi al caporedattore un articolo sui regali di Natale, ché in realtà basta un bambino felice per giustificare l’ottusità con cui una famiglia si scambia forsennatamente cadeaux.

Vorrei andare al bar a bere un prosecco, ma non posso poiché abito nel centro storico di Padova e dal 22 novembre al 6 gennaio Padova è vittima di videomapping.

Sugli edifici storici più mirabili della città sono proiettate luci blu e immagini luminose di ghirigori e cornicette che rendono illeggibili le architetture, fanno scendere il termometro di ulteriori tre gradi (che calore natalizio dovrebbe emanare una luce cerulea?) e diseducano turisti e cittadini. L’Assessore alle Attività Produttive e Commercio ha rilasciato una dichiarazione riportata sul sito del Comune che recita: «Anche quest’anno realizziamo un grande investimento per animare la città e impreziosire le nostre piazze e le nostre vie di luci». Da quest’anno, apprendo dall’Instagram di Luca Zaia, pure Vicenza è vittima di videomapping. Come posso andare in Piazza se poi guardo il Palazzo del Capitanio, blu a strisce, e mi ricordo che sono sola, che la bruttezza la vedo io, di certo non i tre tizi di Sarmeola di Rubano che scattano foto, che era meglio rimanere analfabeta, “analfabeta funzionale” come puntualizza un titolo di Repubblica di oggi. Se invece di dedicare la mia vita all’arte mi fossi laureata in fisiopatologia della riproduzione degli animali domestici ora non starei soffrendo. Capite che non posso andare in piazza a bere il prosecco.

Pertanto regalo un po’ di auguri, ispirati alla mia esperienza di vita del 2024. A tutti coloro che hanno istituzionalizzato un anziano in RSA pur potendo tenerlo a casa tramite sacrifici grandi o piccoli, auguro che le RSA chiudano. A tutti coloro che per vergogna sociale evitano di mandare il figlio in psicoterapia, auguro di devolvere metà del proprio stipendio in ripetizioni private. Agli uffici comunali che chiedono al privato cittadino di pagare di tasca propria l’abbattimento delle barriere architettoniche su suolo pubblico, auguro tanti ciclisti su tante buche. A chi fotografa le luci blu sui palazzi di Padova, auguro di entrare nella Cappella degli Scrovegni e di guardare in alto. E a chiunque mi abbia messo i bastoni tra le ruote, auguro un regalo fatto da me; no, non una donazione. Vi regalerò la roba. Roba mia, vientene con me!

ARTICOLO n. 91 / 2024

LA GUERRA DELL’INFORMAZIONE

un dialogo con Antonio Sgobba

«La guerra dell’informazione è un conflitto politico globale, in cui sono in gioco le nostre stesse menti. Gli Stati cercano di catturare la nostra attenzione, di coinvolgerci o istigarci al disimpegno, di influenzare il nostro comportamento sfruttando le falle del nostro ragionamento e della nostra psicologia. Hanno profuso notevoli sforzi scientifici, tecnologici e militari in una corsa agli armamenti informativi che prosegue ancora oggi e sembra non conoscere limiti». La definizione è dello storico francese David Colon, docente di Storia della comunicazione, media e propaganda del Sciences Po Centre d’Histoire di Parigi, autore del saggio La guerra dell’informazione: Gli Stati alla conquista delle nostre menti (pubblicato nella Piccola Biblioteca Einaudi nella traduzione di Chiara Stangalino). Il libro è del 2023, l’edizione italiana è uscita qualche mese fa. Nel frattempo, Trump.

Antonio Sgobba: La vittoria di Trump è un nuovo capitolo della storia della guerra dell’informazione? 

David Colon: Dal punto di vista del Cremlino, questa nuova vittoria di Trump è senza dubbio una vittoria nella guerra dell’informazione che Putin sta conducendo contro tutti i governi che sostengono l’Ucraina e gli ucraini. In più questa elezione è una nuova tappa nella strategia a lungo termine sia dei regimi autoritari sia di alcuni interessi industriali e politici americani, con l’obiettivo di indebolire la democrazia, svuotandola gradualmente della sua sostanza, in questo caso minando la fiducia degli americani nelle proprie istituzioni. 

A.S. Come siamo arrivati a questo punto?

D.C. Non c’è dubbio che le reti di disinformazione del Cremlino e il sostegno che ha portato loro Elon Musk attraverso il suo social media X e i suoi comitati d’azione politica (PACs) abbiano svolto un ruolo importante nelle elezioni. In particolare nei tre stati chiave che hanno fatto la differenza: Pennsylvania, Wisconsin, Michigan. La scala delle operazioni di manipolazione dell’informazione è stata moltiplicata dall’uso degli strumenti di intelligenza artificiale e dal fatto che l’ascesa dei social media ha reso questo il principale mezzo di accesso all’informazione per una maggioranza di americani. Ormai le campagne elettorali americane non si svolgono più sui media tradizionali, ma sui social.

A.S. Lei scrive: «È giunto il momento di uno stato di emergenza informativa, ossia l’adozione di misure eccezionali per difendere le nostre libertà». Che cosa significa concretamente? Quali sono le misure eccezionali necessaria?

D.C. Da una trentina d’anni, i regimi autoritari percepiscono il dominio occidentale nell’informazione mondiale come una minaccia per la loro sopravvivenza: temono la proliferazione, nella loro società, del virus della democrazia, trasmesso dai media occidentali e la forza di attrazione del nostro regime di libertà. Di conseguenza hanno lavorato sia per proteggere le menti dei loro cittadini dalle interferenze delle informazioni straniere che per interferire con le menti dei cittadini occidentali, sia attraverso i loro media internazionali statali che attraverso i nostri media e le reti sociali americane. Il loro obiettivo a lungo termine è quello di indebolire la coesione delle società democratiche, amplificando le divisioni, diffondendo la sfiducia e seminando dubbi e confusione. Quando dico che è tempo di uno stato di emergenza informativa, è perché la guerra dell’informazione condotta dai regimi autoritari rappresenta una minaccia vitale per le democrazie. La risposta da dare è innanzitutto la mobilitazione dell’insieme della società al servizio della protezione delle democrazie, poi l’adozione di una strategia nazionale e internazionale per lottare contro le manipolazioni dell’informazione da parte dei regimi autoritari, e infine l’attuazione a tutte le scale di soluzioni concrete per affrontare il pericolo rappresentato dall’inquinamento dei nostri ambienti informativi da contenuti di disinformazione. 

A.S. Cito ancora dal suo saggio: «L’insegnamento del pensiero critico non serve a nulla se prima non ci sforziamo di preservare la qualità dell’informazione disponibile». Vuol dire che investire nell’istruzione non serve a niente?

D.C. È una questione di priorità. Dobbiamo innanzitutto rafforzare quella che l’Ocse in un suo rapporto ha definito “l’integrità dell’informazione”, ovvero: «il risultato di un ambiente informativo che favorisce l’accesso a fonti di informazione accurate, affidabili, documentate e plurali, per permettere agli individui di essere esposti a una varietà di idee, fare scelte informate ed esercitare al meglio i propri diritti».  Ciò significa investire in un giornalismo di qualità, basato su un approccio etico e deontologico, indipendentemente dalla proprietà dei media o dal loro orientamento politico. Reporters Sans Frontières (RSF) ha lanciato la Journalism Trust Initiative, che applica indicatori di affidabilità basati su uno standard internazionale come l’ISO. Oggi è urgente sensibilizzare le grandi imprese al fatto che il ricorso alla pubblicità basata sull’acquisto automatico di spazio online spesso le porta a finanziare, senza saperlo, siti di disinformazione – come viene regolarmente denunciato da Newsguard. Il solo fatto di orientare prioritariamente i bilanci pubblicitari verso media certificati o ben valutati da Newsguard sarebbe sufficiente a indebolire l’economia fiorente della disinformazione online. L’educazione ai media, al digitale e alla disinformazione è essenziale, ma non può né deve essere la nostra unica risposta a questioni che sono per lo più sistemiche.

A.S. Nella sua ricostruzione alla guerra fredda segue oggi la guerra dell’informazione. E oggi la guerra dell’informazione è una continuazione della guerra militare con altri mezzi. Ma quindi qual è la differenza tra la guerra dell’informazione di oggi e la propaganda che abbiamo conosciuto nel ventesimo secolo?

D.C. La differenza principale sta nella scala e nel carattere globale della propaganda, dall’avvento dei canali di informazione via satellite, dell’internet e dei social media. Le menti dei cittadini sono diventate la posta in gioco principale nei conflitti, anche militari, mentre l’informazione non è più semplicemente una fonte di potere, ma un potere in sé. Lo si vede oggi in Medio Oriente come in Ucraina: la sfida principale per i belligeranti è la battaglia dell’opinione pubblica mondiale. Il Cremlino sta cercando di vincere la guerra indebolendo il sostegno dell’opinione pubblica europea nei confronti dell’Ucraina e promuovendo le campagne elettorali di partiti vicini alle sue opinioni. Oggi, per il Cremlino è più redditizio investire nella creazione di una rete di influencer che investire nella costruzione di carri armati.  

A.S. Lei chiede un massiccio investimento nel giornalismo di servizio pubblico. Perché?

D.C. I media di servizio pubblico si prestano meno che gli altri alle ingerenze informative dei regimi autoritari. Questi ultimi, infatti, sfruttano spesso la leva della proprietà dei media o quella della pubblicità per diffondere le loro storie. Il modello economico dei media tradizionali e dei social media è spesso strumentalizzato dai propagandisti russi o cinesi. Ivan Agayants, che durante la Guerra Fredda dirigeva il dipartimento del KGB specializzato nella disinformazione, si divertiva con la facilità con cui manipolava la stampa occidentale, avida di fonti ufficiali e di informazioni sensazionali:  «Se non avessero la libertà di stampa, diceva, dovremmo inventarla per loro». 

A.S. Eppure i media del servizio pubblico vengono spesso criticati, c’è chi li considera uno spreco di soldi pubblici.

D.C. In molti paesi, gli attacchi al servizio pubblico spesso provengono dai proprietari di media privati, che li vedono come una forma di concorrenza sleale. Rupert Murdoch, per esempio, ha condotto una guerra senza quartiere contro la BBC per decenni. Questo non significa, naturalmente, che i media pubblici siano necessariamente esenti da rimproveri, ma non bisogna perdere di vista il fatto che essi sono un anello essenziale dell’integrità dell’informazione. 

Inoltre, a causa dei tagli ai bilanci dei media pubblici internazionali, diversi paesi, tra cui la Francia, hanno visto indebolire la loro influenza nel mondo, proprio quando la Cina, La Russia o l’Iran investono somme considerevoli nei loro media statali per espandere la loro influenza globale. Il budget dei media russi, per esempio, dovrebbe aumentare del 13,5% nel 2025. Dovremmo fare lo stesso se non vogliamo perdere mercati economici nel mondo domani. 

A.S. Lei fa parte del comitato scientifico del Propaganda monitor di Reporter senza frontiere. Qual è l’obiettivo di questa iniziativa?

D.C. Il «Propaganda monitor» di RSF è un progetto di indagine sulla geopolitica della propaganda, che si basa sulla constatazione che la valorizzazione del giornalismo affidabile è l’antidoto alla disinformazione e che l’identificazione degli attori della propaganda è una condizione sine qua non per contrastarla. Quest’anno il Propaganda Monitor si concentra sulla propaganda russa, con un particolare interesse per RT, un organo di propaganda controllato dal governo russo che svolge un ruolo chiave nella manipolazione delle informazioni da parte del Cremlino in tutto il mondo. Questo è già stato espresso in sei indagini, una delle quali dedicata a Vittorio Rangeloni, il giramondo italiano diventato propagandista della rete African Initiative. Il Propaganda monitor comprende anche una sezione dedicata alle soluzioni proposte da RSF per combattere la propaganda e garantire l’integrità dello spazio informativo. L’impegno deciso di RSF nella lotta contro la disinformazione attesta il ruolo che può e deve svolgere la società civile nella protezione del nostro spazio democratico. La lotta contro le manipolazioni è un problema di tutti.

ARTICOLO n. 90 / 2024

GIAN MARIA VOLONTÉ ERA UNA COSA SEMPLICE

trent'anni senza

Se ne andava trenta anni fa, in una camera d’albergo a Florina, un paese greco al confine con l’Albania e la Macedonia del Nord mentre stava girando Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos. Un film sull’esilio e sulla guerra nel mentre del disfacimento tragico di quella che fu la Jugoslavia. La notte prima di morire Gian Maria Volonté aveva trascorso la serata festeggiando con la troupe, stando in compagnia e cantando Bella Ciao insieme agli altri. Per una sera si era concesso una festa, un’allegria lontana dalla sua immagine pubblica e dal suo umore spesso scostante, lontano da quella tristezza inquieta e liquida che traspariva dal suo volto anche nelle poche interviste che concedeva con estrema cautela. Era il 1994, dicembre, l’Italia in dieci anni era passata dalla folla dei funerali di Enrico Berlinguer a Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio. La Repubblica uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, quella dei partiti, quella dell’arco costituzionale antifascista, dei rimpasti, del pentapartito, degli accordi di programma e delle convergenze parallele era esplosa sotto i colpi dell’inchiesta di Mani Pulite.

Un mondo nuovo e a senso unico prendeva forma in un ludibrio costante della vecchia politica e delle sue regole ridotta a lacci e lacciuoli. Il paese era inebriato e attraversato da una gelida passione giustizialista al tempo stesso priva di alcuna morale ed etica. Il sogno era il medesimo miracolo di quaranta anni prima, ma sempre a costo zero. Si andava incontro a un mondo senza muri, così si diceva, per chi voleva crederci.

Un mondo che non convinceva per nulla Gian Maria Volonté, già da tempo in fuga dalla facilità di pensiero e dalle sue volgarità. Lo si rivede in alcune sequenze mai montate de Lo sguardo di Ulisse mentre fugge dai cecchini, lui Ivo Levi responsabile e custode della cineteca di Sarajevo insieme al regista interpretato da Harvey Keitel. Si vede la loro corsa e la tragica caduta. La fine di un secolo agli sgoccioli ormai consumato e privo di risorse, più che la caduta del muro e dei regimi comunisti (che pure avvenne) si avverte prima ancora la perdita della memoria e la capacità di farne buon uso. Quel conflitto freddo che si risolse con la violenza balcanica fin nel cuore dell’Europa e che ancora oggi è ben lungi dall’esaurirsi, mostrò insieme al desiderio di libertà e democrazia anche il prezzo di una scelta che si sarebbe rivelata inevitabilmente una scelta obbligata per quanto giusta. Una scelta suggerita per non dire imposta dal mondo che si vantava e si vanta ancora della propria libertà in promozione permanente. 

Diffidente dalle cose troppo appariscenti e scintillanti, dalle sicurezze convinte, Volonté prediligeva l’avventura minima e taciturna delle strade secondarie, viottoli dissestati come alternative possibili. Animato da una curiosità resistente e inadatta alle consuetudini delle verità spacciate come assolute, non era a suo agio né ai riti politici né tanto meno a quelli culturali. Come ricorda Marco Bellocchio nel bel documentario di Francesco Zippel presentato quest’anno al Festival del cinema di Venezia, Volonté. L’uomo dai mille volti, Volonté era in grado d’imporre una verità assoluta partendo dalla sua presenza sullo schermo, dalla sua voce, una verità scintillante e inappellabile, ma al tempo stesso un’idea di gioco attoriale intima feroce quanto bambinesca, come ricorda Fabrizio Gifuni. Un riferimento assoluto per qualunque interprete, ma anche un vivere contraddittorio figlio di un tempo di passaggio che vide la coda di quasi ogni utopia.

Un’inquietudine del vivere che oggi viene quasi sempre associata con banalità cinica a disadattati, falliti, tristi, malinconici. A quelle persone che durante il ventennio vennero definite disfattiste, termine che oggi potrebbe finire in bocca a tre quarti della classe politico-motivazionale mondiale. Fino a qualche anno fa ciò assumeva un senso derisorio mentre oggi, non certo in senso migliorativo, ha assunto un tono logico-medicale. La cura non come cura, ma come soluzione. C’è una categoria per ogni disadattato, una patologia per chi la sera ha preferito non uscire a festeggiare, non fare gruppo, non organizzare balli e cene. 

Per chi se ne sta in disparte la vita non è mai stata facile, ma oggi si aggiunge l’indice levato di chi accusa o peggio di chi propone una soluzione, la scelta giusta (e ovviamente sempre obbligata) da compiere perché c’è una sola strada giusta in mezzo a tutte le altre sbagliate.

In una puntata del 1983 di quell’indimenticabile contenitore televisivo che fu sulla Rete 2 della Rai, Gianni Minà intervista Gian Maria Volonté fresco vincitore del Prix d’interprétation masculine a Cannes per La morte di Mario Ricci del regista svizzero Claude Goretta. In quell’occasione Minà chiede all’attore: «Una volta non sarebbe andato Volonté a prendere un premio, dieci anni fa». La risposta è esemplare: «Ma io sono andato quando ci sono potuto andare, in altre circostanze no perché non potevo, dipende». Essere da un’altra parte quando tutto il mondo vorrebbe stare in quel posto, essere da un’altra parte in un esatto e preciso momento non è una scelta per forza sempre di resistenza o di opposizione a un luogo o a delle persone, ma più semplicemente è una forma di piacere altro, una curiosità che andrebbe indagata come tale e non ridotta e trasformata in una modalità conflittuale.

Certo Gian Maria Volonté non era solo questo, era anche romanamente un gran paraculo come ricorda Carla Gravina, sua compagna per un lungo periodo, raccontando delle sue fughe a Parigi che furono tutt’altro che legate a sbandierate motivazioni sessantottine. E proprio questo non toglie nulla, ma aggiunge e perfeziona il disegno di un’inquietudine curiosa e irresistibile di una figura che resta (fortunatamente) invalicabile non solo per la sua assoluta qualità di artista, ma anche per la complessità culturale di cui ogni suo elemento e tratto è intrisa. Un modo d’essere che dice molto di un secolo a cui Volonté appartenne interamente senza sconti alcuni. Dentro al quale le sue leggerezze e le sue inevitabili debolezze definiscono un’umanità frastagliata e spigolosa, priva di ogni gusto per un’organizzazione plastica e confortevole, il corpo per Volonté per gli uomini di quella generazione fu strumentale ai propri pensieri e alle proprie curiosità e non il fine di un’esistenza da musealizzare. Un modo di stare nel mondo senza riparo alcuno, nella vita pubblica quanto in quella privata.

Tutto ciò è qualcosa di molto difficile oggi da comprendere, là dove le categorie prevalgono ben più delle ideologie: schemi mentali forse necessari per un tempo rapido e per un’umanità sempre più in ritardo, così compressa tra destinazioni e obiettivi, liste e necessità di appagamento continuo.

Esporre se stessi richiede infatti una certa forma di cura e non di coraggio, richiede quella voglia insensata di correre nudi in mezzo a un prato perché è bello, punto, non per altro. Sprecare e rischiare, perdere tempo e apparire ridicoli. Ma cosa distingue quindi Gian Maria Volonté da una forma di narcisismo maschile oggi così diffuso? Sostanzialmente il fatto di essere Gian Maria Volonté, non nella sua accezione banale di celebrità o di figura storica, ma di appartenenza e totale aderenza al suo tempo. In questo si vuole intendere precisamente la grazia del movimento, la capacità di solidarizzare con l’altro e il diverso non solo e non principalmente in maniera conscia ed esplicita. Attraversare insieme all’altro la strada, entrare in un bar, girare il cucchiaio nella tazzina, obbligare il bottone della camicia nella sua asola, sospirare fumando sotto il cornicione di un palazzo in un giorno di pioggia. Movimenti intimi compiuti anche in pubblico ma non sotto l’occhio registrante e catalogatori di lenti che impongono un’apparenza continua. Una schiavitù che ormai come una forma di auto censura ci obbliga a una performance obbligata, non nostra, che ci riduce – oltre a lasciarci estenuati e nevrotici – a mediocri conformisti o in alternativa a vanesi saltimbanchi privi di ogni arte, ma solo colmi di ridicolo. La trahison des images, o ceci n’est pas une pipe.

L’incrinatura iniziale si avverte a partire dagli anni Ottanta, che possono essere identificati da una serie di fattori, dal liberismo dei complementari Ronald Reagan e Margaret Thatcher, l’hollywoodiano e la piccolo borghese, fino all’apparire della tv a colori che insieme a una disponibilità economica più facile e diffusa degli anni precedenti genera una pressione sociale che riduce anno dopo anno ogni individuo a strenuo spettatore di se stesso e non più semplice protagonista del proprio sé. Al punto che è quasi impossibile capire se Donald Trump e Giorgia Meloni (al netto dell’irrilevanza dell’Italia rispetto al Regno Unito) siano la versione 2.0 di Reagan&Tatcher o la loro parodia o, peggio ancora, la loro triste nemesi, con il cavalcante populismo di cui si fanno interpreti.

Non c’è alcuna differenza evidente tra Yves Montand che interpreta un piccolo imprenditore meccanico (in Vincent, François, Paul… et les autres di Claude Sautet) da chi imprenditore meccanico lo era davvero negli anni Settanta. Non c’è differenza nei modi spicci, nel portare i vestiti, nel mangiare frettolosamente, nelle mani che avevano per i maschi di allora un’origine comune un po’ selvaggia, un po’ rude e figlia di molta lotta. Ma al tempo stesso nulla distingue un medico o un architetto del tempo dai modi nevrotici e affettati di Michel Piccoli (in L’invitée di Vittorio De Seta) e non si tratta solo di una straordinaria capacità interpretativa, ma anche e soprattutto di un’aderenza storica a quel tempo che oggi si è in qualche modo rarefatta in una fluidità tanto evidente quanto fortemente inconcludente (e faticosissima). Perché il medesimo gioco lo si può replicare con Enrico Berlinguer a cui per esempio Elio Germano assomiglia poco o per nulla, rispetto ai visi e ai corpi di chi per esempio si accalcava a San Giovanni durante il funerale di Berlinguer come si vede nel bel documentario Prima della fine. Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer di Samuele Rossi.

Del resto chi oggi potrebbe intuire, vedendone il passaggio su un marciapiede, le professioni delle persone? O anche solo la loro classe o ruolo sociale? Non è una questione di eleganza o di cultura, lo è anche, ma principalmente è una questione di una postura e di stare in un tempo estraneo che coinvolge chiunque, oggi. Si tratta di naturalezza dei movimenti, di aderenza emotiva alla terra come al cielo. 

Oggi tendiamo a vivere come ospiti non graditi, e questo tracima non solo nelle ansie e nelle tragedie del cambiamento climatico, ma nel nostro stesso modo di essere umani. Qualcosa, prima ancora che questi temi si schematizzassero (spesso ridicolmente) ha provato a dirlo una parte del cinema italiano degli anni Ottanta che fu parte in causa della medesima mutazione, ma che fu anche capace di produrre una denuncia utilizzando in chiave diversa e nuova dal cinema degli anni precedenti troppo ancorato a modalità ideologiche che ormai funzionavano poco per il tempo a cui si stava andando incontro. 

Perché se Mario Monicelli aveva ragione su tutto nel dibattere con Nanni Moretti davanti ad Alberto Arbasino a Match (sempre sulla vivacissima Rete 2 Rai di quegli anni), di certo Un borghese piccolo piccolo era tutto meno che un film ben riuscito. 

E allora da Nanni Moretti a Massimo Troisi, da Carlo Verdone a Francesco Nuti si provò con coraggio e spregiudicatezza a raccogliere tutta l’allegria dei Settanta, quella leggerezza utopica che qualcosa aveva smosso e non poco nella società italiana, per utilizzarla – con la sensibilità artistica propria di ognuno – come chiave per rivelare l’inganno a cui si stava andando incontro. Non si trattava di dinamiche politiche o economiche (quelle erano le conseguenze) e ancor meno si trattava di complotti e di grandi vecchi, di CIA e di Kissinger, c’erano anche quelli, come sempre, ma anche loro non erano che la triste conseguenza di un flusso inesorabile che stava portando tutti in alto mare. 

Non si possono non cogliere nelle sequenze di Bianca come di Palombella rossa, di Scusate il ritardo come di Le vie del Signore sono finite, di Un sacco bello come di Compagni di scuola, di Tutta colpa del paradisocome di Willy Signori e vengo da lontano un dolore intimo e struggente che affiora dal carattere stilistico di ognuno di questi registi e attori. Un dolore che fino ad allora venne considerato indicibile in quanto banale (forse per l’appunto disfattista, benché figlio di tutt’altra militanza) o vacuo e che invece loro seppero trasformare in una denuncia di non appartenenza a un mondo nel momento stesso in cui lo si va a rappresentare. Una capacità agrodolce di dare forma a se stessi anche nell’inevitabilità di essere parti integranti e si direbbe di successo di quel mondo a cui comunque seppero opporsi, riuscendo cosi di appartenere al proprio tempo senza tradirlo, ma denunciandone l’orribile movimento, l’inquietante degrado in corso. 

Gian Maria Volonté fu un osso duro, ma la sua lezione come quella di altri come lui prese forma prima di trasformarsi in icona iconica. Le sue prove d’attore lasciano a bocca aperta, non offrono margine alcuno alla riduzione e tanto meno alla mistificazione. È la differenza che corre fortissima tra il non fare le cose per rifiuto e il farne altre invece per infinito piacere. La differenza tra fuggire e rivelare se stessi prima di tutto proprio a se stessi. Era la bellezza seminale di Volonté che fu anche la sua grandezza artistica. Volonté in fondo era una cosa molto semplice, era un uomo bello e anche felice, poi certo c’era il mondo – faticosissimo – in cui stare, ma in cui lui voleva stare strenuamente e senza alcuna mediazione, sempre e solo a modo suo.

ARTICOLO n. 89 / 2024

L’ODISSEA IN CARCERE

Un dialogo con Valeria Verdolini

«Figlio, dai mali presto uscirai» è la sottolineatura di p.561, nel capitolo dell’Odissea che si intitola “La preparazione della strage”. Odisseo vuole uccidere i «pretendenti in cuore» e medita nel dormiveglia il da farsi. Pagina 560 però, non ha nessuna sottolineatura. Perché ciò che accade a Odisseo è solo un pezzo della storia che racconta Autoritratti, il libro/opera di Tommaso Spazzini Villa, (edito da Quodlibet, che include le postfazioni di Matteo Nucci e Saverio Verini) nato da un progetto di arte partecipata.

Nel 2018 Spazzini Villa ha coinvolto 316 detenuti di diverse carceri italiane, lasciando a ciascuno di loro una pagina dell’Odissea, chiedendo di sottolineare, solo se desiderato, alcune parole all’interno del testo presente sulla pagina. Nell’introduzione al lavoro si legge: «Le loro scelte hanno messo in luce brevi frasi di senso compiuto, che danno voce all’inconscio e al vissuto di ognuno attraverso le parole di Omero. Le pagine vuote rispettano il silenzio di chi non ha sottolineato nulla, perché non ha voluto, perché non ha trovato le parole. Sono autoritratti anonimi fatti di sottolineature e silenzi, in uno scambio di sguardi incrociati tra il testo e il lettore».

Tommaso Spazzini Villa è un artista contemporaneo, due volte finalista del Talent Prize (2015 e 2023). Nelle sue opere esplora soprattutto due tematiche: l’idea di natura e l’idea delle verità intangibili. Ci incontriamo online, ma lo spazio della telecamera è sufficiente per catturare alcuni frammenti del suo studio: un quadro di sfondo, vari livelli di libri, una luce in una bottiglia, una scritta sul muro, mobile. Alle sue spalle si staglia sulla parete: “LE LACRIME”.

A un certo punto la parola torna e gli chiedo le ragioni della scelta. In origine, l’ordine delle lettere generava la parola “MACELLERIA”, ma anagrammandola sono comparse “LE LACRIM(A)E”. Stupito, mi racconta come gli sembri incredibile che dentro la “Macelleria” ci siano “le lacrime”. C’è sempre una parola che si muove, uno slittamento di senso negli scambi con lui. Anche il suo sguardo è mobile, curioso, sorridente. Fatica a vestire i panni dell’intervistato. Incalza con domande, come se quello spazio di racconto agisse sempre per sottrazione, perché richiede spesso al mondo di riempirlo. Quando gli chiedo da dove voglia partire, se dall’opera o dai suoi protagonisti, cede il passo: «Mi faccio guidare da te, mi piace. Mi dispiacerebbe imporre io una direzione». Eppure un inizio c’è, «tutto nasce da Albinati (Edoardo n.d.r.) perché se siamo qui è perché un amico ha detto ad Albinati di venire a vedere una mostra in cui avevo fatto un primo video di questo progetto e da lì lui mi ha presentato i pezzi che sono andati a comporre poi questo volume» e una direzione, pure: Autoritratti vuole illuminare attraverso le parole uno spazio d’ombra. 

Valeria Verdolini: Possiamo decidere da che filo prendere questo lavoro, a proposito di Penelope e le sue tessiture. Volendo cercare un principio, la prima questione è: perché decidi di portare lOdissea in carcere?

Tommaso Spazzini Villa: In un modo assolutamente casuale, siccome tutta la vita succede casualmente. Ho partecipato a un TedX qualche anno fa, e nella stessa sessione parlava anche Cosima Buccoliero, che al tempo era vice-direttrice del carcere di Bollate. Il suo talk verteva sul modello Bollate e più in generale sull’esperienza del penitenziario milanese. Io avevo iniziato a fare questo lavoro di sottolineare all’interno di testi e far emergere delle frasi in autonomia, solo io. Durante il TEDX avevo distribuito alle 1500 persone del pubblico una pagina a testa, facendoli partecipare. Quando poi Buccoliero ha parlato del modello Bollate e dei laboratori con i detenuti, e di quanto queste attività avessero un valore positivo sulla recidiva, al termine dell’evento le ho chiesto se potevo proporre all’istituzione di prendere un libro – l’Odissea – e fare questo stesso lavoro all’interno di un carcere. Lei è stata gentilissima e disponibilissima, e il laboratorio si è fatto.

Parallelamente, un’altra edizione dell’Odissea che però non è ancora stata pubblicata è stata sottolineata da dei ragazzi nei licei. Si tratta dello stesso testo, con la stessa traduzione, la stessa edizione, eppure diversissimo: vedere nella stessa pagina 137 cosa ha sottolineato una persona reclusa e un ragazzo libero – che ha evidentemente una prospettiva sulla vita molto diversa – ha fatto emergere un meta-testo archetipico, poiché contiene così tanti moti del nostro del nostro animo. Il progetto è diventato poi una mostra a Roma, Albinati mi ha messo in contatto con Matteo Nucci e ci è venuta l’idea di pubblicare il volume. Così ora abbiamo questo libro di “autoritratti” di detenuti.

V.V. Un lettore che legge questa Odissea composta di autoritratti, che cosa riesce a vedere di quello spazio altro? Che cosa mette in luce questo lavoro sulle parole dello spazio del carcere che tu hai scelto di raccontare? 

T.S.V. La specificità dello sguardo del penitenziario emerge soprattutto con la lettura comparata delle due Odissee, sottolineate da detenuti e ragazzi. Nelle parole scelte dal carcere emerge il dolore. Si tratta spesso di un dolore taciuto. Affiora il nostos, cioè la nostalgia, la lontananza proprio e in questo sentimento il rispecchiamento con Odisseo è fortissimo. Ci sono diverse frasi in cui i sottolineatori parlano alle mogli, alle compagne, ai compagni a casa e parlano della loro distanza da casa. Ce n’è una che dice: «Mi hai donato figli bellissimi e io così misero». Forse sono questi aspetti che colpiscono. Una persona media, esterna al mondo del carcere, di solito non pensa al carcere come un insieme di uomini e donne, ma tende a immaginare generici delinquenti. Così facendo, di fatto li disumanizza. Se ragiono così, non mi interessa niente di chi sono. Cosa fanno? Soffrono? Non soffrono? Nel pensiero comune sono solo persone da tenere chiuse lì dentro. Ecco, questo lavoro inequivocabilmente restituisce quella dimensione vitale poiché dona loro uno spazio di parola diretto. Non lo puoi leggere senza cambiare idea. Nella trama delle sottolineature è evidente che sono persone, sono vite, e so benissimo che è orrendo anche solo verbalizzare questo ragionamento. Però, parlando frequentemente di carcere, sento forte quello scarto che le persone vogliono fare, il loro desiderio di dire «io non ho voglia di umanizzare quella gente, mi sta bene che siano dei capri espiatori che stiano lì dentro». Ecco, creare questo contrasto mi interessa molto.

V.V. Nel libro ci sono queste pagine con le aggiunte scritte a mano. A parte ovviamente portare calore attraverso le diverse grafie, come funzionano nel progetto? 

T.S.V. Sulla carta le aggiunte non erano inizialmente consentite perché proprio il lavoro era «fai con quello che ti capita». Si trattava di ragionare su una pagina specifica, con quel dato quantitativo di parole. Perciò, per esempio, da esecutori possiamo stare a piangere sul fatto che «avrei tanto preferito che ci fosse amore non c’è» e se stiamo a pensare che non c’è amore non si trova nient’altro da dire. Se invece ci apriamo a quelle parole possiamo trovare delle meraviglie incredibili. Però poi, quando ho trovato quelle aggiunte sulla pagina, a dispetto delle indicazioni iniziali, le ho volute mantenere comunque perché quei gesti erano così sinceri e spontanei da essere belli, andavano conservati. 

V.V. Scorrendo il volume ci sono tre ambiti semantici più ricorrenti nelle sottolineature. Una serie di pagine evidenziano le parole del tempo “prima”, cioè di quello che manca in carcere. Sono le parole che descrivono il mare, la natura: sono le assenze e in qualche modo affiorano nelle parole che vengono scelte. Un secondo blocco riguarda il tempo presente, la vita detentiva, come per esempio quella pagina con «lacrime, lacrime e lacrime» in cui la persona sottolinea anche scrivendo sotto un commento. E poi c’è un terzo blocco, ossia la grande incertezza del futuro. C’è una corrispondenza tra questi tre movimenti dei tuoi autori e il movimento dell’Odissea

T.S.V. Il mare è un topos incredibile. Il mare, assieme alla natura, alla luce, alle stelle. Una corrispondenza c’è sicuramente perché se facciamo un passo indietro sulla storia dell’Odissea (dove io sono la persona meno con le carte in regola per poterne parlare) si tratta di un’opera che ha radici in una cultura orale, con gli aedi che raccontavano e viaggiavano ripetendo a persone che l’avevano sentita già tante volte la stessa storia dello stesso eroe. In quella formula è evidente il senso di questo racconto così ampio, ossia il bisogno di offrire alle persone uno spazio di rispecchiamento dei propri patimenti, di qualsiasi tipo essi siano, che si riverberano da sempre nella storia di quest’uomo, di questo eroe. Quel racconto ha sempre avuto il potere di sciogliere qualcosa nel lettore, attraverso la sua capacità di rappresentare la loro stessa sofferenza. Perché tutti noi, quando soffriamo, pensiamo di essere gli unici a soffrire. Cioè la nostra sofferenza è “l’unica sofferenza”. E invece io credo che la funzione della letteratura con radici millenarie sia proprio la sua capacità di prenderti per mano e di dire “Guarda, anche a un eroe succede questo. A miliardi di persone è successa la stessa cosa. Questa è la via per tornare a casa. Questo è quello che lui ha affrontato. Questo lo puoi fare anche tu se vogliamo prendere questa storia”. Ma ce ne sono infinite altre. Sicuramente questi tre temi che tu trovi sono qui dentro, ma anche molti di più, perché per esempio rispetto all’Odissea sottolineata dai ragazzi è incredibile come cambiano le cose [mi mostra due pagine 219 a confronto, ndr.].

La pagina sottolineata in nero è stata fatta da un detenuto ed è «Mi hai donato figli bellissimi e io così misero». Quella in arancione è di uno studente e diventa: «Scusa madre per ogni giorno». Questo confronto fa vedere quanto anche la stessa pagina possa contenere due moti d’animo totalmente opposti: uno è un genitore che parla all’altro genitore dei propri figli e l’altro è un ragazzo, Telemaco, che parla a Penelope. Tutto questo è lì dentro. Mi piace pensare all’Odissea come un bacino enorme di cose dentro le quali ognuno di noi si rispecchia e legge parti di sé. Quello che leggo io è diverso da quello che leggi tu. Questo si sposta poi anche a un meta-livello, per cui anche gli autoritratti, la lettura stessa degli autoritratti è comunque diversa in base alla sensibilità del lettore. A me fa sempre molta impressione perché quando parlo con le persone mi dicono quale ritratto preferiscono e per ognuno è diverso. È incredibile questa cosa. C’è quella famosa frase un po’ retorica, «non siamo noi a leggere i libri, ma sono i libri che leggono noi», che però ha un’indicazione molto, molto vera. E in un certo senso questo progetto lo mette in luce, anche se molti sono stati ragionamenti ex post. Non è che io ho fatto questo progetto per verificare tutte queste ipotesi. Io l’ho fatto così, andando veramente a caso e poi ragionando, parlando, vedendo. Abbiamo cominciato a leggerci diversi strati di lettura e di fruizione.

V.V. Nel testo fai parlare tutti, ma non c’è un tuo commento all’opera. L’unica cosa che in qualche modo ci suggerisce forse una tua chiave personale è l’esergo di Pessoa. In cui c’è «la letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta». Come mai questa sottrazione e che cosa ci dice con l’esergo, forse è l’unica tua voce nel testo?

T.S.V. Questa sottrazione è stata fonte di grandi patemi da parte mia. Considera che ho riprodotto questo progetto su sei volumi diversi, con gruppi di persone molto diverse: da sconosciuti sui mezzi pubblici a gente dei gruppi di lettura, persone a caso su Instagram, internet, blog, passanti, studenti, detenuti. Alla fine di tutto questo mi sono esattamente fatto la domanda che tu hai appena fatto a me: “Ma tu?”. Per darmi una risposta ho preso una Lettera 22 Olivetti e per un anno e mezzo, sostanzialmente tutti i giorni, in modo metodico, ho preso la Divina Commedia, ho battuto ogni giorno una pagina a macchina. Sono undici terzine, 33 versi. Ho prodotto una copia della Divina Commedia a macchina, ogni giorno una pagina, e nell’arco di quella giornata, su quella pagina, sottolineavo io qualcosa. Il giorno dopo, altre undici terzine, fino a farla tutta. Tutto l’Inferno, tutto il Purgatorio e tutto il Paradiso. Si tratta di un mega autoritratto spalmato su 580 giorni o qualcosa del genere, e non più attraverso le parole di Omero, ma con le parole di Dante e attraverso il viaggio di Dante nelle tre cantiche. E con quello mi sono detto: adesso l’ho fatto, l’ho fatto anche io.

V.V. C’è anche un punto di contatto perché nel canto di Ulisse in qualche modo i due libri si parlano in modo molto chiaro. Sicuramente, Dante l’aveva letto, Omero. A proposito del “mettere in luce” e lasciare in ombra, tu operi una seconda sottrazione. Manca il racconto di tutto quello che è accaduto: cioè di quelle giornate in cui tu entri in carcere e incontri i detenuti.

T.S.V. È stata una scelta voluta, per lasciare più spazio a quella dimensione di cui parlavamo prima, cioè alla loro voce, per sottrarsi a un atteggiamento un po’ pruriginoso e voyeuristico che chi sta fuori dal carcere ha nei confronti del carcere. Ho chiesto a tutti di rimanere anonimi, ho cercato di asciugare il progetto all’essenziale. Il carcere è il carcere, e se qualcuno ha voglia di sapere che cos’è il carcere ci sono strumenti e studi per conoscerlo e capirlo. Io volevo che questo lavoro non diventasse un’indagine socio-antropologica. Volevo che emergesse la potenza delle parole attraverso le parole di Omero. Non dico quali sono le carceri in cui si è svolto o le pene degli autori, basta sapere che le persone che hanno scelto le parole sono persone in una condizione di restrizione della libertà. Un elemento che è emerso molto nell’incontro con loro nei laboratori è la loro sorpresa: mi dicevano “se mi avessi dato una pagina bianca non avrei mai scritto questa frase”.

E qui c’è il punto focale di questo progetto: il cuore del lavoro è proprio l’incontro con il testo, che peraltro è un 361esimo del testo, molto scollegato dal tutto. Le pagine sono state distribuite a caso. Molto spesso la gente non conosce la storia nei dettagli: se pensiamo all’incontro con i Lestrigoni, il punto non è chi sono, cosa fanno, ma cosa dice il testo e come risuonano le parole scritte. A volte mi chiedevano: “Devo leggere proprio tutta la pagina?”. E io dicevo “come vuoi, assolutamente come ti viene, con l’unica regola di scegliere, tra tutte le frasi presenti, quella più vera, quella che per te è proprio vera. Non quella bella. Non quella intelligente. Non quella colta, tantomeno quella che pensi che gli altri vorrebbero per te. Qualsiasi cosa sia, se non c’è niente, lascia vuoto. Non c’è nessun Über dovere a cui bisogna sottostare, solo la possibilità di esprimere qualcosa che forse in questo incastro totalmente casuale della pagina che ti è capitata viene fuori se non c’è nessun problema”.

Poi parlando delle frasi che erano venute fuori c’era sempre la sorpresa: “Ma com’è possibile che io che ho figli abbia ricevuto proprio la pagina con i figli?” Oppure: “E non ho ucciso nessuno”. C’è qualcuno che non ha ucciso nessuno? Un’altra cosa che mi ha colpito molto è accaduta durante un laboratorio. Una signora si è alzata. Aveva la sua pagina in mano e ha detto: “Sai, alla fine è come se questa pagina ti spiegasse la vita, perché quando non hai ancora iniziato a sottolineare niente è come quando sei bambino e tutte le scelte davanti, poi fai una scelta, poi ne fai un’altra, poi sei obbligato a farne un’altra e se fai delle scelte di merda come le ho fatte io, ti blocchi, come io che sono bloccata qua dentro”.

Questo è un altro punto che non avevo assolutamente considerato prima di farlo fare a così tante persone. Si crea una sorta di verità nello sguardo della pagina, cioè c’è qualcosa che poi si rivela di te attraverso le parole scelte e l’azione della scelta: quanta ansia hai a cercare le parole, quanto tempo ci metti, la rifrazione di questo lavoro rispetto a chi lo fa. Nonostante il tutto si sia svolto in una casualità veramente totale, c’era chi doveva cercare in una bella pagina intera piena di parole, ma anche chi ha trovato il senso in quei finali di capitolo con sette righe E mi sentivo male ogni volta che capitavano pagine con quattro righe. Eppure ci sono delle persone che in quelle quattro righe hanno fatto delle cose straordinarie, chi invece con una bella pagina intera ha poi scelto di non fare niente. Questa è anche una piccola metafora della vita: non è tanto quello che ti capita ma l’atteggiamento che hai rispetto alle cose. Bastano due parole per restituire un ritratto di una potenza incredibile, non serve molto di più.

V.V. Ho ripercorso la tua attività artistica e tu parli spesso di questa centralità della natura nelle tue opere. Mi ha colpito perché se c’è un luogo in cui la natura è quasi totalmente assente, quello è lo spazio penitenziario. Anzi, una delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa quando si osservano gli spazi penitenziari è proprio capire se nei cortili dei passeggi si vedono dei frammenti di elementi naturali: il ciuffo di una pianta, un angolo di un ramo di un albero. Come stanno insieme questi due mondi quasi antitetici? 

T.S.V. Guarda, stanno insieme per un sottilissimo filo rosso che è lo sguardo. Oltre alla natura, un elemento che c’è, che continua a tornare nella mia ricerca artistica è ciò che non si dà immediatamente a vedere. Non so se hai visto quei lavori [il progetto dell’artista dal titolo “Ombre”, n.d.r.] in cui sono delle foglie secche e che proiettano un’ombra e sulla foglia non c’è nessuna manipolazione da parte mia, ma è solo prendere una foglia e vedere se in una certa angolazione proietta un’ombra antropomorfa. Ecco, posso dirti che questo lavoro degli autoritratti è l’equivalente del lavoro delle foglie, perché mette altrettanto in luce una cosa che c’è. Perché quelle frasi sono lì, ma non si vedono finché qualcuno non le sceglie. Quelle ombre ci sono, ma fino a che qualcuno non mette una luce non si vedono. Non è tanto la natura il filo che le lega, quanto lo sguardo. Lo sguardo capace di mettere in luce ciò che non è immediatamente visibile.

V.V. Mentre parli risuona quella famosa frase di Calamandrei: “Bisogna vedere, bisogna avere visto”, che aveva pronunciato nella seduta costituzionale di stesura dell’articolo 27 a proposito del carcere e dell’umanità della pena. Ma soprattutto, è la stessa frase che ha usato anche l’allora Presidente del Consiglio Draghi quando uscì dalla visita a Santa Maria Capua Vetere dopo la pubblicazione dei video delle violenze e degli abusi in divisa. 

T.S.V. Eh sì, questo sguardo può avere chiaramente molti oggetti e molte intenzioni. Ma se l’intenzione è comune, ciò che emerge è sempre valido. In altre parole, se quello sguardo fa emergere una realtà orrenda di violenza taciuta, di soprusi, è fantastico questo aspetto rivelatore. Se quello sguardo fa emergere la poesia che è nelle cose, è altrettanto splendido. Si tratta di un esercizio quotidiano: sintonizzarmi su quello sguardo che non è per niente garantito. Non è che io mi sveglio e ho quegli occhiali per leggere il mondo, è proprio un movimento interno di cercare di non vedere le cose nella loro realtà immediata, superficiale, ma vedere e per poi dire di avere visto un po’  oltre. Un po’ verticale.

V.V. Molti dicono che quando si attraversano le porte del carcere l’esperienza stessa di attraversarlo, di stare in un posto non libero, ha la capacità di chiarire tanti pezzi delle persone che lo attraversano. Questo non vale solo per le persone che entrano in detenzione ma anche per coloro che partecipano a un laboratorio o per una visita. Il carcere ha quasi una capacità propria di rendere le cose più chiare, più leggibili. Lo ritrovo molto in quello che tu dici. In qualche modo diventa più leggibile anche l’Odissea nelle parole delle persone che l’hanno sottolineato. Ci sono altri libri che vorresti far rileggere dallo sguardo altro? 

T.S.V. Ho fatto una cazzata enorme. Ho ripetuto lo stesso progetto in Inghilterra nelle carceri inglesi usando il “loro”Ulisse, ossia quello di Joyce. Tutto quello che abbiamo detto è vero per l’Odissea, ma non è valido per ogni libro. Se tu scegli un testo così refrattario come l’Ulisse di Joyce, quella stessa cosa, quella capacità di risuonare, non succede. Ora mi hanno proposto di ripeterlo in America, e di farlo su una traduzione inglese dell’Odissea e di farlo anche nelle università, sto studiando le diverse traduzioni e ne ho individuate tre: due in versi e una in prosa. Perché uno dei problemi che ho riscontrato non avendo come idea a monte di pubblicare il libro è stata ricostruire la pubblicazione “corretta” a partire da quella che avevo già fatto sottolineare.

Per il lavoro avevo infatti scelto la traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, al contempo la più facile e più filologicamente corretta. Un’edizione non così semplice da replicare. Perciò, quando è stato il momento di pubblicarla si è trattato di ripubblicare paro-paro quell’edizione, perché se anche l’impaginazione non è la stessa, salta tutto. E poi molti, come hai visto, vanno nelle note. Anche tutto l’apparato di note era da ripubblicare. Einaudi è stata molto generosa nel concedere i diritti di utilizzo e permettermi di mantenere il lavoro fatto su quella bella e rara traduzione.

V.V. Quali parole ti porti dal carcere, se dovessi farmi le sottolineature di questo progetto, un ritratto di questa esperienza? 

T.S.V. Forse “disumanizzante”. Ogni tanto penso e spero che arrivi presto il momento in cui penseremo a questo tipo di detenzione come oggi pensiamo a ciò che è stata la schiavitù. Ma come cazzo potevamo pensare che fosse possibile possedere un uomo? Come potevamo affermare rispetto a una persona “Questo è il mio schiavo”? Vorrei che si potesse arrivare al punto in cui si potrà affermare con questa stessa estraneità “veramente noi tenevamo le persone chiuse 23 ore al giorno per 15 anni in una cella da sette con due metri?”. Lo stesso stupore e lo stesso straniamento che poteva aver provato Basaglia nei suoi attraversamenti manicomiali: “Veramente noi tenevamo della gente legata ai letti in quella maniera?”. La parola che più di tutto mi risuona pensando al carcere è “disumanità”, “disumanizzante”, “alienante”. E poi, che il carcere ci riguarda, riguarda tutti noi. È tragico che la gente pensi che il carcere è solo per “i delinquenti” e che loro, a differenza di questi, sono delle brave persone. Come dire “non mi riguarda”: invece il carcere ti riguarda, perché se il carcere non rieduca e la recidiva è al 70%, prima o poi qualcosa del carcere rischi di incrociarlo. Come si dice in inglese shit happens, ci puoi finire dentro pure te.

V.V. C’è un’espressione che mi piace tanto del carcere come “la pena del tempo perso”. Le pene lunghissime, come gli ergastoli, cambiano la prospettiva perché non esiste più un tempo altro rispetto alla detenzione, allora anche quel tempo deve diventare un tempo di senso. Dall’altra parte l’altra questione che paradossalmente la funzione rieducativa trova spazio e senso solo per coloro che hanno delle pene molto lunghe.

T.S.V. Questo rapporto tra il tempo perso e il tempo con prospettiva invece mi ha fatto un effetto enorme, perché poi è lì che si concentra tutto. Se stai dentro e vivi il dentro, o se stai dentro pensando al fuori, in che modo il fuori mantiene un senso per te, senza impazzire nel frattempo? Pensa solo ai rumori del carcere. Mentre parlavamo, mi sono reso conto di un aspetto sul quale forse non avevo mai ragionato se non qui con te che in qualche modo restituisce un ulteriore livello di riflessione sul progetto. Ossia che l’idea di scegliere il carcere è all’interno dello stesso movimento di sottolineare le parole e far emergere una realtà che non si vede. Come le frasi degli autoritratti, chi sta in carcere non si vede. Se si parla di carcere si parla astrattamente del sovraffollamento, dei problemi, invisibilizzando così, allo stesso tempo, le persone, le storie. Però loro sono le parole sottolineate. Con questo lavoro l’idea era di fare emergere loro, di fare emergere chi è dentro, di far emergere la voce di chi è dentro, di illuminarli.

V.V. In qualche modo anche le scelte stilistiche del lavoro, il libro scarno, se non per i due testi di accompagnamento, nessuna descrizione, nessuna aggiunta, sembra quasi funzionale a non confondere, a non affievolire la potenza delle parole. 

T.S.V. E lasciare che questa cosa salga. Il libro finisce con questa sottolineatura: «Senza più spavento il futuro aspetto». L’ultima pagina, anziché chiudere, apre.

ARTICOLO n. 88 / 2024

BYUNG-CHUL HAN, UNO DI NOI

O di come la sua indagine filosofica sia conforme a ciò che analizza

Parto dichiarandomi; sono un’appassionata lettrice di Byung-Chul Han.

Lavoro nella cultura, mi occupo di cinema e scrivo. Ho studiato arte e sono sempre stata attratta dalla filosofia, anche se il mio interesse non è mai sfociato in qualcosa di professionalizzante, se così si può dire. Ho sostenuto qualche esame all’università, ma il mio approccio è sempre stato per lo più da autodidatta seguendo di volta in volta percorsi di approfondimento filosofico molto personali.

Per come sono fatta ho sempre avuto bisogno di supporto teorico per comprendere il mondo e ciò che mi accade. Le teorie femministe per esempio, così come quelle filosofiche in generale, mi hanno sempre aiutata a interpretare gli eventi, e così, senza alcuna pretesa accademica, mi sono avvicinata ai testi di Byung-Chul Han, come tanti altri, credo, attratta dal discreto successo che hanno riscosso in Italia grazie anche alle splendide edizioni di Nottetempo ed Einaudi, curate e insieme estremamente pop.

Ecco: questi volumetti snelli, agili e dall’altissima leggibilità, sono capaci di tessere con garbo e decisione le fila di una tematica, già ben espressa nei titoli, e di condurre il lettore al punto senza distrazioni né deviazioni, dando l’opportunità alla donna della strada, come me, di concentrarsi in breve tempo su riflessioni teoriche che non siano mediate dall’arte o dall’informazione.

Piccoli compendi sul vivere contemporaneo, che corro a comprare ogni volta che ne esce uno nuovo, percependoli come quasi indispensabili per uscire nel mondo e comprenderne i meccanismi sociali. E a ogni nuovo volume mi stupisco di quanto Han sia capace di colpire il bersaglio affrontando temi che, consciamente o meno, abbiamo tutti preso in considerazione senza però riuscire a metterli a fuoco e su cui, nell’incessante incedere della vita quotidianità, abbiamo finito per inciampare.

Molti, anche in Italia, si sono interrogati sul successo della filosofia di Han e sull’originalità di questo pensatore così sui generis, capace di distinguersi dai colleghi per la chiarezza espositiva e l’approccio diretto ai suoi temi. Una delle possibili ragioni di questa limpidezza stilistica risiede, come sottolineato già da molti, forse nel punto d’incontro tra due culture di cui è portatore: da un lato, l’essenzialità della tradizione orientale, mondo in cui è cresciuto e che privilegia espressioni asciutte e prive di eccessi, dall’altro, la precisione della tradizione occidentale tedesca, dove Han ha studiato, insegna e risiede fin dall’età di vent’anni. Questo connubio tra culture così affascinanti dà origine a una straordinaria chiarezza e a una profondità di analisi che si esprimono in testi privi di deviazioni e sbavature. 

I suoi scritti sembrano congegnati per essere sottolineati parola per parola, mettendo in difficoltà una come me, che ama evidenziare e rimarcare con segni a matita solo i concetti chiave dei libri, perché ogni sua frase sembra indispensabile; nei suoi testi, infatti, nessuna lunga e verbosa spiegazione o pesanti genealogie teoriche tanto comuni nei testi di ricerca, portano fuori fuoco o fanno abbassare il livello d’attenzione. E le citazioni di altri sistemi teoretici o pensieri di colleghi sono pochissime e utili solo a essere contraddette o derubricate come inesatte. Così, Han procede senza inciampi con l’incedere pacato e coraggioso di chi, come il saggio, possiede la verità e la sa condividere con la limpidezza dell’illuminato.

Schivo, lontano dai riflettori e dal ritmo incessante della divulgazione accademica, la sua figura sembra perfettamente in linea con la forza teoretica che rappresenta – un mix esplosivo per chi, come me, è in costante ricerca di comprensione dei meccanismi della postmodernità.

Byung-Chul Han sembra dunque possa fornire attraverso ciò che scrive, come lo scrive e la sua stessa essenza, un orizzonte filosofico per l’uomo contemporaneo.

In questo senso, quello che più risulta apprezzabile e godibile è la semplicità d’esposizione che riscontra chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il linguaggio filosofico.

Davvero, niente mi appaga più di poter riflettere sulle questioni del nuovo millennio anche mentre sono in sala d’attesa dal dentista o sto aspettando che mio figlio esca da Psicomotricità. 

E questo Han, come un manuale pronto all’uso, mi permette di farlo.

Poco importa se, addentrandomi sempre più nel suo linguaggio, a volte mi sono sentita intimorita dalla sua assertività, dalla sua sicurezza teutonica appunto, quasi incrollabile, e da un sistema di pensiero che, strutturato com’è, non ammette pareri alternativi. Poco importa, perché ciò che dice appare sempre così estremamente sensato e corretto, così ben formulato ed estremamente fondato su studi fatti in modo così estremamente accurato. 

Quasi più intimorita che di fronte a un vecchio filosofo di formazione novecentesca e dall’impostazione patriarcale che inventa mondi complessissimi e linguisticamente respingenti al limite dell’incomprensibile. In questi mondi autoreferenziali e spesso dogmatici, anche quando non sembra, è però necessario “metterci del proprio” per trovare il senso, fare uno sforzo di sintesi che richiede di appellarsi al proprio sapere filosofico e al proprio senso immaginativo.

Al contrario, in Han non si avverte la necessità di alcuna conoscenza filosofica di base, né è richiesto uno sforzo di decodifica. La sua modalità di scrittura solleva il lettore dall’impegno di un’interpretazione personale; ogni concetto è talmente nitido e sensato da non lasciare margini, né di incomprensione, né di disaccordo.

Così, durante una delle cene del venerdì sera, tra noi soggetti di prestazione (come direbbe lui) intenti a confrontarci e a riconoscere il nostro non-essere-più-in-grado-di-non-poter-fare questa sua razionalità assoluta, questa sorta di “infallibilità” ci ha portato a riflettere sulla natura del pensiero e sulla figura di Han, forse molto più simile a quella di un sociologo che di un filosofo.

Lungi dal creare teorie alternative o mondi possibili, Han offre infatti semplicemente una lucidissima, razionale e ben supportata presa di coscienza di ciò che stiamo vivendo – niente più e niente meno. 

Che naturalmente è già molto.

Ecco però che se non è propriamente derubricabile come sociologia, la sua è però una teoria priva di immaginazione, priva di visioni per il futuro che non esce mai dal seminato, non si perde in nessun bosco di senso, non si serve di invenzioni o narrazioni, ma risulta trasparente esattamente come la società che analizza non senza una certa amarezza.  Che è molto probabilmente anche il motivo per cui è così apprezzato da noi donne e uomini stanchi, il cui eros è in agonia mentre siamo attorniati da non-cose.

Han non ci chiede quindi di immaginare o di sognare, ma ci invita semplicemente a prendere coscienza, a fare i conti con una realtà dei suoi scritti cristallina, nuda, perfettamente aderente alla società che racconta.

E pur nello sconforto che il contenuto dei suoi testi provoca, il fatto che lui stesso, il suo potenziale filosofico siano così aderenti al vivere di uomini e donne della società senza dolore come noi, che con tanta lucidità descrive, disincanta e disillude (se ancora ce ne fosse bisogno) ma risulta vagamente consolatorio.

ARTICOLO n. 87 / 2024

MARVIN: UNA COLLETTIVITÀ IBRIDA

conversazione collettiva

MONTAG: La nostra domanda di rito è sempre questa: vi riconoscete nella definizione di “collettivo”? Per introdurla vogliamo partire da alcune vostre dichiarazioni. Dal vostro sito: «Crediamo nella creazione di un ambiente collettivo come valore aggiunto all’atto di scrivere». E poi, dall’ultima call, quella in cui avete lanciato l’idea di una residenza per redigere l’ottavo numero della rivista: «Questo esperimento è uno sviluppo ulteriore della nostra originaria idea di rivista come spazio per esplorare la collettività». A queste citazioni vogliamo aggiungerne un’altra, che è un po’ il vostro motto, e vorremmo chiedervi se è in contrasto con le altre o se invece ne è la chiave di lettura: «Siamo una redazione occasionale».

MARVIN (Martina): Non ci definiamo propriamente un collettivo, anche perché siamo nati come rivista e la struttura della redazione descrive abbastanza bene quello che cerchiamo di fare. Ciò che stiamo proponendo negli ultimi anni è piuttosto creare uno spazio in cui dare origine a delle collettività, da una parte promuovendole, avallandole, dall’altra dando spazio a quelle che noi chiamiamo “redazioni occasionali”, ovvero quei momenti in cui, durante la composizione della rivista, selezioniamo autori e autrici e creiamo un gruppo di lavoro, un collettivo.

MARVIN (Beatrice): L’approccio al concetto di collettività si può pensare un po’ come un caleidoscopio, in cui i frammenti di volta in volta si riuniscono in figure e simmetrie per poi scomporsi e crearne di nuove. Non è qualcosa di fisso, ma è molto più fluido. L’idea è di creare di volta in volta dei gruppi di lavoro che partano dai testi, li elaborino, li discutano in un editing reciproco e dinamico, generando così uno scambio e infine approdando a un risultato che è una rivista completamente diversa, o comunque nuova, rispetto a quella che era all’origine della call. E quindi: creare sempre significati nuovi con persone che di volta in volta si incontrano, per poi separarsi, ma senza perdersi, attivando un circuito di interazioni che restano costanti nel tempo. Sta succedendo con molti degli autori con cui abbiamo lavorato.

MARVIN (Flavio): È vero, quasi tutte le persone che sono entrate nell’orbita di Marvin ci sono rimaste, in un modo o nell’altro. Ci sentiamo di aver creato qualcosa di buono quando vediamo che queste connessioni acquistano senso (che potrebbe anche voler dire semplicemente che la gente sta bene per una sera). E in più c’è il discorso sulla scrittura, che di norma è un’attività solitaria, ma che può anche essere altro, una comunità. Si recupera l’idea della scrittura come trasmissione di contenuti, di conoscenze, uno scambio di opinioni.

MONTAG: In effetti questo vostro modo di intendere la collettività ibrida anche i ruoli, perché scrittori e scrittrici diventano editor per racconti altrui e voi stessi cambiate posizione, tra redazione della rivista, autori, editor.

MARVIN (Martina): Un elemento obbligatorio per partecipare alla rivista è accettare implicitamente, mandando i racconti, che se verrai selezionato o selezionata, non sarai soltanto autore, ma anche redattore. È un elemento che noi inizialmente abbiamo inserito perché ci divertiva l’idea che ognuno avesse entrambi i ruoli.

Dopo poco ci siamo resi conto che gli autori apprezzano moltissimo il fatto di essere messi sullo stesso piano. Comunque, avere il proprio racconto letto da altre persone non è facilissimo. Nell’editoria tradizionale o anche nelle riviste ci sono degli editor fissi, e l’editor è la persona che si incarica di scegliere il racconto e lavorarci su. Noi, invece, volevamo scombinare la gerarchia per creare un momento in cui fosse possibile anche abbassare le difese.

MARVIN (Flavio): In ogni edizione ci troviamo in un posto diverso di questo triangolo che avete disegnato. A seconda di come va capiamo quanto dobbiamo o vogliamo intervenire, quanto sia necessario che facciamo qualcosa. Naturalmente dipende anche dall’alchimia che si crea tra autori e autrici. Il nostro supporto c’è sempre, però alcune volte è maggiore, alcune volte minore, a seconda dei casi.

MARVIN (Beatrice): Penso all’occasione che ha fatto conoscere Marvin e Montag, quando ci siamo trovati a pubblicare un racconto nello stesso numero. Ecco, quello per me è l’esempio perfetto: mi trovavo a cavallo tra tutti questi ruoli e mi è servito moltissimo per crescere sul fronte della scrittura, perché mi trovavo in una posizione inedita e allo stesso tempo paritaria. Ricevi un consiglio da una persona che, esattamente come te, sta cercando di sviluppare la propria voce, lo stile, e si sta esercitando a comprendere le dinamiche di una storia. Poi subentrano una serie di scambi con persone con cui continui a sentirti, di cui poi segui la crescita, le pubblicazioni, insomma il percorso. Si creano dei legami perché la posizione in cui ti trovi è quella di una persona che si sta aprendo, il momento di condivisione di una storia scritta da te è un momento in cui ti senti profondamente esposta, ed è proprio da questa consapevolezza che deriva la cura che avrai per gli altri: l’approccio che adotterai potrà senz’altro essere critico, ma mai aggressivo o violento.

MARVIN (Flavio): Il fatto stesso di lavorare da editor sui testi degli altri ti aiuta a prendere coscienza anche del tuo modo di scrivere. Non solo per quanto riguarda quello specifico racconto, ma anche per ciò che scriverai dopo. Ti permette di sviluppare un approccio diverso, anche perché non è detto che chi scrive sia un editor – anzi, nella maggior parte dei casi non è così. Però acquisire delle conoscenze di editing è importante anche per capire cosa vuoi scrivere e, soprattutto, come vuoi scriverlo.

MONTAG: Ci piace questa visione della rivista che diventa quasi un sistema solare, attorno cui orbitano una serie di astri. Magari alcune sono meteore che passano e poi non si incontrano più. Però poi ci stanno anche dei pianeti che rimangono fissi attorno alla rivista. E proprio questa cosa dell’orbitare attorno, dello stare insieme, del fare sistema, del costruirsi insieme, la vorremmo utilizzare da ponte per poi arrivare a parlare di lavoro, che è una cosa bruttissima, però precedendolo con una cosa bella. Grazie a questo vostro modo di fare rivista fate anche amicizia. Questo su un livello di politica dell’agire collettivo è fondamentale come termine da inserire nel discorso letterario e creativo. In che maniera sentite che struttura la vostra visione della rivista nel futuro, nei vostri progetti, nelle cose che vorreste fare.

MARVIN (Martina): Noi ci consideriamo amici a prescindere dalla rivista e penso che probabilmente lo siamo diventati grazie a Marvin. Io, Flavio e Laura siamo stati i primi a iniziare questo progetto, eravamo persone con una certa affinità che però si conoscevano relativamente poco, quindi definirci amici era troppo, ma poi lo siamo diventati.

Poi è entrata Bea e noi avevamo già creato questo ambiente in cui la complicità, l’amicizia o in generale la fiducia nell’opinione dell’altro erano centrali. Ci sono opinioni diverse tra di noi, anche abbastanza polarizzate, ma il fatto che abbiamo totale fiducia gli uni negli altri e diamo estremo valore all’opinione altrui ci permette di far sì che questi conflitti siano in qualche maniera costruttivi, e ne usciamo tutti in un modo o nell’altro cresciuti. 

MARVIN (Beatrice): Parliamo di qualcosa che non ha uno scopo di lucro, non ci porta guadagni che non servano ad alimentare in modo circolare il progetto, qualcosa in cui però investiamo volentieri le nostre energie. Ma non siamo masochisti, sappiamo di farlo perché ci piace riunirci, stare insieme, ci diverte quello che andiamo a creare e questa è la base. L’amicizia. Perché la cosa fondamentale comunque è trovarsi bene con le persone e stare bene nel fare certe cose. Questo determina anche le evoluzioni che la rivista ha subìto. All’inizio si trattava solo di pubblicare racconti, ma c’è stato un periodo in cui è stata anche un blog culturale che in seguito abbiamo messo da parte. Semplicemente ci muoviamo in base a ciò che ci accende e ci appassiona. Quando qualcosa smette di essere stimolante la rivista cambia pelle. Marvin sarà adesso anche un’associazione, e creerà momenti di aggregazione, come letture collettive al parco, presentazioni, partecipazioni ai festival: alla base c’è sempre il fatto che per noi è entusiasmante stare insieme, anche con le persone che hanno orbitato attorno a noi e che continueranno a farlo.

MARVIN (Flavio): Abbiamo delle sensibilità diverse rispetto ai racconti, è vero: c’è chi è più attento allo stile, chi alla costruzione del racconto, chi ai personaggi, e questo ci permette di essere completi, insieme. Sul discorso dell’amicizia, va detto che ci sono stati momenti di stanchezza della rivista, in cui ci siamo domandati: se Marvin cambiasse forma o addirittura chiudesse noi resteremmo comunque amici? La risposta è stata sempre sì.

MARVIN (Martina): Sarebbe bruttissimo altrimenti, orribile, orribile. Ai miei compleanni ci sarebbero pochissime persone.

MONTAG: Ve l’abbiamo chiesto proprio perché anche noi è su questo principio che abbiamo creato il collettivo e abbiamo parlato molto di quale spazio ci sia per questo tema nel mondo letterario, editoriale, nelle riviste, nelle agenzie.

MARVIN (Martina): Come dicevamo, Marvin ti mette spesso in una condizione di esposizione personale molto profonda, quindi forse è anche naturale che i rapporti non riescano a rimanere superficiali. Questo discorso vale anche, e forse in maniera particolare, nel caso della residenza che abbiamo tenuto per l’ultimo numero che verrà pubblicato a settembre. Ovviamente non so se gli autori siano diventati amici fra loro, però sono abbastanza sicura che un legame si sia creato. 

MONTAG: Oltrepassiamo il ponte dell’amicizia e parliamo invece di lavoro. Come si pone Marvin rispetto al contesto delle riviste italiano in questo momento e cosa può dare al mondo editoriale? Sia nel micro, per esempio nel fare alleanza, conoscere altre persone che fanno riviste, nell’ambiente romano o in generale in quello italiano, ma anche nel macro, per esempio rispetto a contesti e realtà molto più grandi della vostra. Insomma, come vedete il mondo delle riviste oggi?

MARVIN (Flavio): Rispetto alla scena romana delle riviste, che è quella che viviamo di più, percepiamo una fase di disillusione. Quel movimento che si era creato qualche anno fa si è un po’ disgregato per una serie di motivi e perché comunque le riviste, nel momento in cui non mutano forma, chiudono. A complicare la situazione c’è un ambiente editoriale che, quando vuole, sa essere un posto molto cinico, in cui snobbare libri e scrittura fa più fico che parlarne, una tendenza che non crea l’ambiente giusto per la nascita di nuove idee. Direi quindi che Marvin è stato, prima di tutto, un modo sano di vivere l’editoria e in secondo luogo, naturalmente, un mezzo per conoscerla meglio. Con il tempo abbiamo capito anche quale fosse il nostro posto all’interno di questo mondo, realizzando per esempio che l’essenza di Marvin erano i racconti.

MARVIN (Martina): Penso che Marvin segua traiettorie diverse rispetto a quelle di riviste dalle spalle più grandi. Oltre ad avere un sistema di supporto economico imparagonabile al nostro, abbiamo altri obiettivi e rispondiamo ad altre necessità, che non sono obbligatoriamente in contrasto ma solo diverse. Quando abbiamo deciso di abbandonare il blog culturale perché non ci divertiva più e ci siamo concentrati sulla realizzazione di una residenza, su cui fantasticavamo già dal 2020, ci siamo in qualche modo riappropriati di un percorso. Siamo nati in un periodo di fervore meraviglioso: nel pieno della pandemia tutto quello che era online aveva un vigore molto diverso. E appena usciti dalla pandemia, c’è stato il momento in cui tutti volevano stare insieme. Noi abbiamo vissuto quella wave, ce la siamo presa tutta. Adesso ci rendiamo conto che quel tipo di entusiasmo sta svanendo, come è fisiologico per questo tipo di realtà.

MONTAG: Infatti il discorso è proprio ragionare su quale rapporto può esserci in un sistema dove sembra ci siano solo gli estremi, o la piccola realtà o la grandissima realtà con fondi importanti alle spalle.

MARVIN (Martina): Penso che a volte anelare a diventare la grande realtà sia anche uno dei motivi per cui certi spazi chiudono, perché non si riesce a essere né carne né pesce. Credo che noi lo abbiamo evitato nel momento in cui ci siamo guardati in faccia e ci siamo chiesti: ma quello che stiamo facendo ci sta piacendo davvero? O lo stiamo facendo perché vogliamo diventare qualcos’altro?

MARVIN (Flavio): Aggiungo un punto: le riviste indipendenti hanno una libertà che altre realtà più grandi non si possono permettere di avere, nella selezione dei contenuti e soprattutto nei racconti. Il fatto che noi possiamo pubblicare qualsiasi autore o autrice, basta che ci piaccia, è una forma di indipendenza molto grossa che non vogliamo perdere. Diventando più grandi si entra inevitabilmente all’interno di altre dinamiche.

MONTAG: Tutti quanti avete menzionato varie volte la scelta di aver abbandonato la parte del blog. Vorremmo chiedervi come si vive all’interno di una rivista l’idea di cambiare o anche rinunciare a una strada. Per esempio, Marvin nasce dall’idea di scrivere racconti a partire da tre elementi diversi per ciascun numero e quell’idea è rimasta fino a oggi.

MARVIN (Martina): È una domanda che ci poniamo spesso, perché l’espediente dei tre elementi (un personaggio, un luogo, una frase) è uno stimolo ma anche un limite. E la risposta che ci siamo dati è che crediamo veramente che questi limiti possano essere utili dal punto di vista creativo, un confine dentro il quale giocare. Ed è bello rendersi conto che all’interno del numero, tra i vari racconti, c’è una coerenza.

MARVIN (Beatrice): La chiave delle metamorfosi di Marvin dipende proprio dal “finché ci diverte va bene”. Finché questa cosa continua a farci dire ok, ci piace farlo, ok, così funziona, noi proseguiamo. Ma diamo molto ascolto anche ai feedback, proprio per la questione della collettività, del fatto che ci teniamo a creare una comunità reale, e, se ci rendiamo conto che questa scelta inizia a perdere di efficacia, allora possiamo ripensarci. L’unica cosa irrinunciabile è questa: lo scambio costante di persone intorno all’atto dello scrivere. La questione dei tre elementi (finora) ha sempre funzionato, sia sul fronte della creatività sia nel favorire una coerenza maggiore (all’interno del numero e della redazione), perché ciascuno si confronta sul modo in cui ha scelto di usare la parola: ci sono nomi che a volte vengono interpretati come verbi (penso al personaggio “modella” del numero in cui eravamo insieme, qualcuno l’ha usato come professione, qualcuno come azione), luoghi che diventano totalmente metaforici e così via. E la cosa più interessante è scoprire quali meccanismi sono scattati nella testa degli altri, i modi diversi in cui gli elementi sono risuonati e si sono combinati in ciascuno.

MONTAG: Invece, qual è il vostro rapporto con gli altri media? A parte il fatto che siete nati online e che siete attivi sui social, avete creato rubriche come “Marvin guarda” sui film, ma soprattutto a ogni numero associate una playlist e ogni racconto all’interno del numero fa da spunto per delle illustrazioni di artisti visivi.

MARVIN (Martina): Quello che vorremmo fare in futuro è spostarci sempre più dall’online e dai social per incontrarci di persona. Sappiamo che è un obiettivo molto ambizioso e non vogliamo neanche risultare escludenti, perché noi viviamo a Roma, quindi in un grande centro pieno di risorse. Ma sappiamo benissimo cosa significa vivere in centri minori dove l’offerta culturale è meno variegata. Quindi ovviamente non abbandoneremo gli incontri online, ma se potessimo offrire a tutti un biglietto per conoscerci dal vivo lo faremmo.

MARVIN (Beatrice): Per quanto riguarda gli altri media, penso che li abbiamo incontrati in maniera tangente, all’epoca del blog, trattavamo in maniera più estesa anche il cinema o organizzavamo cineforum e dibattiti. La parte musicale è invece stabile, perché la playlist (di Johannesburg) è sempre presente nella rivista, anche in quella cartacea. Marvin è un prodotto che vuole essere ibrido, ibrido anche nel prendere persone diverse e metterle in contatto. E queste persone spesso provengono da media diversi: nel prossimo numero uno degli autori è in primo luogo sceneggiatore. Questa è una cosa bellissima. In questo modo possiamo intercettare sia chi ha pubblicato con moltissime riviste, e che quindi è parte integrante della bolla, sia chi ha pubblicato un racconto per la prima volta. Per questo motivo, nell’ultima call, abbiamo voluto tutti i racconti in anonimo, proprio perché non volevamo farci influenzare dal nome. Inoltre Marvin è una rivista illustrata: dalla copertina ai singoli racconti, ogni parte è corredata da immagini che sono frutto dell’ingegno di illustratrici e illustratori selezionati e invitati a collaborare per potenziale affinità con la storia.

MARVIN (Flavio): Potremmo metterla così: la nostra visione dei media è orizzontale e non gerarchica, nel senso che abbiamo sempre messo letteratura, cinema, musica sullo stesso piano.

MONTAG: In chiusura, cosa bolle in pentola? Cosa c’è all’orizzonte per Marvin?

MARVIN (Beatrice): Innanzitutto il nuovo numero, sempre frutto della collaborazione con Bahut, lo studio grafico che ci segue da già due edizioni e che ha dato a Marvin la forma che vedete oggi. E in generale, partecipazioni a eventi dove sentiamo che la sensibilità è simile alla nostra.

MARVIN (Martina): In qualche modo, portare le “redazioni occasionali” all’interno di nuovi ambienti accoglienti. Aggiungerei che siamo diventati un’associazione, che ci siamo resi conto essere la forma che definisce meglio il percorso di cui parlavamo. E sicuramente replicare la residenza di scrittura, che abbiamo inaugurato quest’anno e ci ha dato nuova linfa vitale.   

MONTAG: In realtà vogliamo farvi un’ultimissima domanda: ci suggerite tre o quattro libri che ci vorreste consigliare in quanto Marvin?

MARVIN (redazione): Be’, potremmo dirvi Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams, perché la nostra rivista prende il nome proprio da lì, dal robot depresso Marvin. Poi Gli interessi in comune di Vanni Santoni, perché racconta di gruppi di persone che condividono delle passioni, e perché è uno dei primi libri che abbiamo portato al nostro club di lettura. Ma anche Il cornetto acustico di Leonora Carrington; c’è forse bisogno di spiegare il perché? E infine, naturalmente, il romanzo d’esordio dei Montag.

ARTICOLO n. 86 / 2024

DEBORAH LEVY, ABITARE IL MOVIMENTO

«Le case sono proprio dei corpi», scrive Deborah Levy, «noi siamo attaccati ai muri, ai tetti e agli oggetti esattamente come al nostro fegato, allo scheletro, alla carne e al flusso sanguigno». In questa analogia anatomica si rivela la matrice della sua Autobiografia in movimento, un’opera che trasforma il conflitto tra radicamento e nomadismo in un’indagine sulla condizione femminile contemporanea. Dal Sudafrica dell’apartheid agli appartamenti di Londra e Parigi, fino alle dimore provvisorie e quelle solo immaginate, Levy costruisce una cartografia del desiderio dove ogni stanza diventa metafora di una possibile libertà. È un viaggio che solleva una domanda spesso trascurata: che cosa significa, per una donna artista del XXI secolo, trovare il proprio posto nel mondo?

Negli ultimi dieci anni Levy ha costruito, libro dopo libro, una delle più significative riflessioni contemporanee sulla scrittura femminile e sul concetto di appartenenza. La sua “autobiografia vivente”, come lei stessa l’ha definita e come è nel titolo originale inglese, si compone di tre volumi che, pur mantenendo ciascuno una propria autonomia tematica, tracciano un percorso di emancipazione tanto personale quanto universale, il cui sottile e quasi impercettibile fil rouge è proprio la casa.

Il primo volume, Cose che non voglio sapere, si apre sulle scale mobili di una stazione londinese, dove l’autrice sta piangendo in un momento di smarrimento. Da lì la memoria si muove a ritroso fino al Sudafrica della segregazione razziale, attraversando un’infanzia segnata dall’attivismo politico del padre e dalla necessità dell’esilio. Lo spazio dell’appartenenza diventa già un tema sotterraneo: è la casa che abbandona, quella che trova in Inghilterra, quella che non potrà mai più essere la stessa. In questo primo movimento autobiografico, Levy intreccia la dimensione politica dell’esilio con quella intima dello sradicamento: le scale mobili della stazione – un non-luogo in perpetuo movimento – diventano emblema di una condizione esistenziale sospesa tra la nostalgia di un’appartenenza perduta e l’impossibilità di un vero ritorno. Il Sudafrica dell’infanzia emerge dai ricordi non come un paradiso perduto, ma come il primo teatro di una dislocazione necessaria, dove l’idea stessa di “casa” inizia a perdere i suoi contorni rassicuranti.

Questa prima dislocazione segna l’inizio di una consapevolezza: l’identità si forgia proprio negli spazi di transizione, nelle terre di mezzo, nei luoghi che non possono essere chiamati casa se non temporaneamente.

Il costo della vita trasforma la frattura matrimoniale in una riflessione sul prezzo – emotivo, economico, sociale – della libertà femminile. È qui che Levy esplora più apertamente il paradosso dell’abbandono: lasciare la casa che più di tutte, e suo malgrado, è stata casa. La dissoluzione di vent’anni di vita domestica diventa occasione per interrogare il significato stesso dell’abitare. Nel vuoto lasciato dalle certezze coniugali, l’autrice scopre che ricostruire una vita indipendente significa anche reimparare a occupare lo spazio, a muoversi in esso secondo ritmi propri. Non più moglie e scrittrice ma solo scrittrice, non più custode di uno spazio condiviso ma esploratrice di territori sconosciuti: così il trauma della separazione si trasforma in un’opportunità di ridefinizione radicale del proprio posto nel mondo. È in questo momento che il capanno nel giardino di un’amica diventa la sua stanza tutta per sé, per scrivere: uno spazio prestato che paradossalmente si rivela più “proprio” della casa coniugale appena lasciata. Un rifugio dove la necessità di proteggere il proprio lavoro creativo si materializza nelle pareti di legno, nel silenzio, nella temporaneità stessa del prestito. 

È però con Bene immobile che il tema della casa emerge in tutta la sua complessità simbolica. Cerca una casa in cui poter vivere, lavorare e creare un mondo al suo ritmo, ma persino nella sua immaginazione questa casa è «sfocata, indefinita, irreale, irrealistica o priva di realismo». Il desiderio di questa casa è però intenso, così da trasformare la ricerca di un “bene immobile” in un’indagine sul significato stesso dell’appartenere. 

Nel labirinto dell’identità contemporanea, pochi concetti risultano infatti tanto sfuggenti quanto immanenti come quello di “casa”. Un luogo che non è mai solo spazio fisico, ma territorio dell’immaginazione dove si intersecano desiderio, appartenenza e libertà creativa.  

In questo capitolo Levy espande ulteriormente gli spazi geografici e mentali: da Mumbai a Parigi, da Berlino a Hydra, fino a tornare sempre a Londra. In questo nomadismo, Levy costruisce una riflessione profonda sul significato di “casa” per una donna artista. Attraverso il dialogo con Virginia Woolf e Simone de Beauvoir, l’abitare si fa atto politico: uno spazio dove si intersecano questioni di genere, classe e potere creativo. La stanza tutta per sé woolfiana viene così ripensata non più come luogo statico ma come territorio mobile di autodeterminazione.

È proprio questa dimensione creativa che emerge nel suo rapporto con gli oggetti che abitano la casa, elevati a ulteriore chiave di lettura dell’intera trilogia. «I libri sono la mia proprietà», scrive Levy, «e non è una proprietà privata. Non ci sono cani feroci o guardie al cancello, né cartelli che vietano di tuffarsi, baciare, fallire, provare rabbia o paura, intenerirsi o piangere, innamorarsi della persona sbagliata, impazzire, diventare famosi o giocare sull’erba». La biblioteca personale diventa così il primo, autentico spazio di libertà, un territorio che trascende i confini tra pubblico e privato, tra possesso e condivisione.

Gli oggetti in Levy non sono mai semplici arredi ma testimoni di un modo di abitare il mondo. Sono presenze che mediano tra il desiderio di stabilità e la necessità del movimento, tra l’aspirazione al radicamento e l’inevitabilità del cambiamento.

La dimensione del desiderio, che innerva l’intera trilogia, prende forma come atti di rivendicazione: lo sguardo nelle vetrine delle agenzie immobiliari, il banano (che la figlia chiama “il terzo figlio”) trasportato in metropolitana come un improbabile giardino portatile, le tre mensole in bagno trasformate in una serra improvvisata. Sono gesti che raccontano non tanto la precarietà dell’abitare contemporaneo, quanto la capacità di trasformare ogni spazio in territorio di possibilità.

Immaginare una casa grande significa anche prendere le misure degli spazi e dei vuoti. Sapere che non ci sarà nessuno che l’abiterà se non un fantasma. Allora, un esercizio di immaginazione diventa una brutale presa di coscienza della propria realtà. 

Levy cita proprio Mark Fisher quando scrive che «la casa è là dove ci sono i tuoi spettri», e ne fa l’intuizione cardine della sua riflessione: siamo presenze che abitano i luoghi anche quando li abbiamo abbandonati, fantasmi che continuano a popolare gli spazi attraversati. L’abitare diventa così un atto di continua negoziazione non solo tra presente e passato, ma tra tutte le versioni di noi stessi che abbiamo disseminato nel mondo.

Nella tensione tra realtà e immaginazione, Levy ribalta l’idea tradizionale dello spazio domestico. Se la casa è sempre stata vista come il luogo che protegge dalla dispersione del sogno, che àncora alla concretezza del quotidiano, per l’autrice questa funzione si rovescia: «Il più prezioso effetto benefico della casa? Fornire riparo dalla reverié, proteggere il sognatore». La casa diventa così non il rifugio dalla fantasticheria, ma il luogo che la custodisce, che protegge non dal sogno ma per il sogno. Levy cerca le mura che possano custodire non l’ordinario ma lo straordinario, non la routine ma la sua interruzione.

«Il buco nel muro era un portale», scrive poi Levy verso la fine, «non verso un altro mondo, ma verso questo, in cui cercavo senza sosta una casa, come se fosse un amore sfuggente». È questa forse la chiave di lettura dell’intera opera: non la ricerca di un posto definitivo, ma l’esplorazione di quella tensione vitale tra radicamento e movimento che definisce l’esistenza contemporanea. La casa che non può essere un approdo ma una perpetua oscillazione tra il desiderio di appartenenza e la necessità di libertà.

Attraverso questi tre volumi, Levy ha costruito un manifesto sulla possibilità di abitare il movimento stesso. La sua scrittura, come il banano sul bus o i libri senza confini, ci suggerisce che forse l’unico vero “bene immobile” è proprio questa capacità di fare della precarietà una forma di residenza, del nomadismo una forma di appartenenza. Una lezione che trascende la questione di genere per parlare a chiunque si trovi a negoziare il proprio posto in un mondo sempre più fluido e incerto.

ARTICOLO n. 85 / 2024

PURA FELICITÀ. IL CANARINO

Pubblichiamo un racconto dalla raccolta di Katherine Mansfield Pura felicità (Feltrinelli, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini). Ringraziamo l’editore per la disponibilità

…Vede quel grosso chiodo a destra della porta d’ingresso? Ancora oggi posso a malapena guardarlo, eppure non sopporto l’idea di toglierlo. Mi piace pensare che resterà lì, anche quando non ci sarò più. 

A volte sento chi verrà dopo di me dire: “Lì dev’esserci stata appesa una gabbia”. E questo mi conforta; mi sembra che così non sarà del tutto dimenticato.

…Non immagina come cantava splendidamente. Non era come il canto degli altri canarini. E non è la mia immaginazione. Spesso, dalla finestra, vedevo la gente fermarsi davanti al cancello e ascoltarlo, o appoggiarsi alla staccionata, accanto al filadelfo, e starsene lì a lungo, come rapita. 

Suppongo che possa sembrarle assurdo – non lo sarebbe se l’avesse sentito – ma avevo davvero l’impressione che cantasse canzoni intere, con un inizio e una fine.

Per esempio, il pomeriggio, quando finivo le faccende di casa, mi cambiavo la camicetta e portavo il cucito qui in veranda, lui – “op, op, op!” – salterellava da un trespolo al­l’altro e picchiettava contro le sbarre della gabbia come a voler attirare la mia attenzione, beveva un sorso d’acqua, proprio come farebbe un cantante professionista, e prorompeva in un canto così squisito che dovevo posare l’ago per ascoltarlo. Non riesco a descriverlo; magari potessi. Ma era sempre lo stesso, ogni pomeriggio, e a me sembrava di capire ogni singola nota.

…Lo amavo. Come lo amavo! Forse non è così importante cosa si ama a questo mondo. Ma qualcosa si deve amare. Certo, c’erano sempre la mia casetta e il mio giardino, ma per qualche ragione non erano abbastanza. I fiori sono incredibilmente ricettivi, ma non entrano in empatia con noi. Allora amai Venere, la stella della sera. Le sembra sciocco?

Me ne andavo in cortile, dopo il tramonto, e aspettavo finché non iniziava a brillare in cima allo scuro eucalipto. E sussurravo: “Eccoti qui, tesoro mio”. E per quel primo breve istante sembrava che brillasse solo per me. Era come se lo capisse… come fosse un desiderio, ma non era un desiderio. O come un rimpianto – sì, più come un rimpianto. Ma rimpianto di cosa? Ho molto di cui essere grata.

…Ma quando lui entrò nella mia vita dimenticai la stella della sera; non ne avevo più bisogno. Ma fu strano. Quando quel cinese che vendeva uccelli si presentò alla mia porta e me lo mostrò nella sua gabbietta, e lui invece di agitare le ali come i poveri cardellini, fece un debole, piccolo “cip,” mi ritrovai a dire, proprio come facevo con la stella in cima al­ l’eucalipto: “Eccoti qui, tesoro mio”. Da quel momento in poi fu mio.

…Ancora oggi mi stupisco se ripenso al modo in cui condividevamo le nostre vite. Quando scendevo giù, al mattino, e toglievo il panno dalla gabbia, mi salutava con una piccola nota sonnolenta. Sapevo che voleva dire: “Padrona! Padrona!”. Poi lo appendevo al chiodo, fuori, mentre preparavo la colazione ai miei tre giovanotti, e non lo riportavo dentro finché non avevamo di nuovo la casa tutta per noi. Poi, una volta finito il bucato, c’era un vero e proprio spettacolino. Stendevo il giornale su un angolo del tavolo, e appena ci appoggiavo sopra la gabbia lui sbatteva le ali disperatamente, come se non sapesse cosa stava per accadere. “Sei il solito piccolo attore,” lo rimproveravo. Raschiavo il fondo della gabbia, lo cospargevo di sabbia pulita, riempivo le vaschette dei semi e del­l’acqua e infilavo tra le sbarre una foglia di centocchio e mezzo peperoncino.

E sono assolutamente certa che lui capiva e apprezzava ogni passaggio di questa recita. Perché vede, per natura era incredibilmente pulito. Sui suoi trespoli non c’era l’ombra di una macchia. E avreste dovuto vedere come si godeva il bagno per capire che vera piccola passione aveva per la pulizia. La vaschetta per il bagno era l’ultima cosa che mettevo nella gabbia. E lui ci saltava subito dentro. 

Prima sbatteva un’ala, poi l’altra, poi tuffava la testina e si bagnava le piume del petto. Le gocce schizzavano per tutta la cucina, ma non voleva saperne di uscire. Allora io gli dicevo: “Ora basta, ti stai solo mettendo in mostra”. Alla fine saltava fuori e, stando su una zampetta sola, cominciava ad asciugarsi col becco.

Per finire, una scrollatina, un colpetto, un cinguettio, poi sollevava gola – oh, riesco a malapena a sopportare il ricordo. A quel­ l’ora pulivo sempre i coltelli, e mi sembrava che anche i coltelli cantassero, mentre li strofinavo sul­ l’asse per lucidarli.

…Perché vede, una era compagnia… ecco cos’era. Una compagnia perfetta. Se ha mai vissuto da sola saprà quanto è preziosa. Certo, c’erano i miei tre giovanotti, che venivano a cena tutte le sere, e qualche volta si trattenevano in sala da pranzo a leggere il giornale.

Ma non potevo aspettarmi da loro che fossero interessati alle piccole cose di cui era fatta la mia giornata. Perché avrebbero dovuto? Non ero niente per loro. Difatti, una sera li sentii mentre parlavano di me sulle scale e mi chiamavano la “spaventapasseri”. Non importa. Non ha importanza, davvero. Posso capirli. Sono giovani. Perché dovrei prendermela? Ma ricordo di essermi sentita particolarmente grata, quella sera, per il fatto di non essere completamente sola. 

Glielo raccontai, dopo che se n’erano andati. Dissi: “Sai come chiamano la tua Padrona?”. E lui piegò la testina di lato e mi guardò coi suoi occhietti vispi finché non mi scappò da ridere. Sembrava divertito.

…Ha mai avuto degli uccelli? Se non ne ha mai avuti probabilmente tutto questo le suonerà esagerato. La gente pensa che gli uccelli siano senza cuore, fredde creaturine, non come i cani e i gatti. La lavandaia tutti i lunedì mi domandava perché non prendevo “un bel fox terrier”. “Un canarino non dà nessun conforto, signorina.” Falso. Terribilmente falso. 

Ricordo una notte. Avevo fatto un sogno orribile – i sogni possono essere spaventosamente crudeli – anche dopo essermi svegliata non riuscivo a scrollarmelo di dosso. Così mi misi la vestaglia e scesi giù in cucina per bere un bicchier d’acqua. Era una notte d’inverno e pioveva forte.

Forse ero ancora mezza addormentata, ma attraverso la finestra della cucina, che non aveva gli scuri, mi parve che il buio mi fissasse, che mi spiasse. D’improvviso, sentii che era insopportabile non avere nessuno a cui poter dire: “Ho fatto un sogno orribile”… Oppure: “Proteggimi dal buio”. Per un istante mi coprii perfino il viso con le mani. E in quel momento sentii un piccolo “Cip! Cip!”.

La gabbia era sul tavolo, e il panno era scivolato in modo da far entrare uno spiraglio di luce. “Cip! Cip!” fece di nuovo quel caro piccolo tesoro, dolcemente, come per dire: “Sono qui, padrona! Sono qui!”. Fu così meravigliosamente confortante che per poco non mi misi a piangere.

…E ora non c’è più. Non avrò mai più un altro uccello, nessun animale di nessun tipo. Come potrei? Quando lo trovai, riverso sul dorso, con l’occhio vitreo e gli artigli serrati, quando mi resi conto che non avrei mai più ascoltato cantare il mio tesoro, mi parve che qualcosa dentro di me morisse. Il mio cuore era vuoto, come la sua gabbia. Lo supererò. Certo. Devo. Tutto col tempo si supera. E la gente dice sempre che ho un’indole allegra. Hanno ragione. Ringraziando Dio, ce l’ho.

…Eppure, senza voler essere morbosa e senza indulgere in – in ricordi e così via, devo confessare che mi sembra ci sia un che di triste nella vita. È difficile dire che cosa. Non mi riferisco al dolore che tutti conosciamo, come la malattia, la povertà e la morte. No, è qualcosa di diverso.

È lì, nel profondo, nel profondo, fa parte di noi, come il nostro stesso respiro. Per quanto lavori duramente e mi stanchi, appena mi fermo so che è qui, in attesa. Spesso mi chiedo se anche

gli altri provino la stessa cosa. Non si può mai sapere. 

Ma non è incredibile che dietro quel suo piccolo dolce canto gioioso fosse proprio questo che sentivo – la tristezza… Oh, che altro?

ARTICOLO n. 84 / 2024

LA SCRITTURA SURREALE DI VAIVA GRAINYTÉ

bip degli scanner che leggono i codici a barre continuano a suonare, monotoni, fino a che tutto il pubblico si è seduto in sala. Le luci si spengono e nel frattempo una delle interpreti sul palcoscenico comincia a cantare, con tono dolce. «Dorme tranquilla la panna, gli yogurt non chiudono occhio»: è una ninna nanna, dedicata ai prodotti, ai magazzinieri, ai registratori di cassa, mentre il negozio chiude e viene inserito l’allarme per la notte. Comincia così, Have a Good Day!, «opera per dieci cassiere, suoni del supermercato e pianoforte», in cui attraverso brani ironici e surreali scopriamo la vita interiore delle lavoratrici di un supermercato, tempio contemporaneo sempre uguale a se stesso, che nasconde una concitazione di cui spesso, evidentemente, non ci accorgiamo.

Lo spettacolo è frutto di una collaborazione nata tra tre artiste lituane, la scrittrice Vaiva Grainyté, la compositrice Lina Lapelyté e la regista Rugile Barzdziukaité, ed è stato inizialmente presentato nel 2013. Un lavoro di grande successo, capace di vincere diversi premi, trasmesso dalla Bbc e dalla radio nazionale lituana e portato in tournée ovunque, e da poco tornato in scena in Italia, alla Biennale Teatro (durante l’ultima edizione diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte, prima della nomina a direttore artistico dell’attore Willem Dafoe).

Spicca, per la sua originalità e leggerezza, la scrittura di Vaiva Grainyté, alla sua prima esperienza in un lavoro di questo genere, creato collettivamente. Il libretto di Have a Good Day! è stato tradotto in dieci lingue. «Lo spettacolo è nato dal desiderio di lavorare insieme» racconta l’autrice lituana, «e ci è sembrato che l’opera contemporanea fosse il genere perfetto per noi per una collaborazione, in cui potessimo incontrarci». 

Le dieci cassiere, con età e personalità molto diverse, raccontano dei loro acquisti e di quello che non possono permettersi, pensano al rinnovo del contratto, si preparano per andare a trovare i figli all’estero, immaginano la vita con un lavoro diverso, migliore, anche se poi «vado a dormire e non sogno niente». «Ogni personaggio deriva dall’osservazione, a partire dalle persone che ho incontrato, oppure dalla mia esperienza», spiega Grainyté. «Io tendo a prestare attenzione ai dettagli, a osservare come le persone parlano e si comportano: così ho una specie di archivio di personaggi e storie nella mia testa. C’è un personaggio, ad esempio, la critica d’arte, che riflette sul fatto di lasciare il paese, magari per fare il dottorato, oppure continuare a lavorare come cassiera. Riflette anche sulla politica culturale, sul fatto che la cultura non viene supportata abbastanza: è un personaggio molto vicino al mio alter ego, perché ho studiato storia e critica teatrale e quando ho finito i miei studi ho avuto anch’io questa sorta di crisi su cosa fare dopo, è una connessione autobiografica». In qualche caso, è stato l’incontro con le attrici durante la audizioni a suggerire personaggi e storie, poiché «il processo creativo si è svolto tutto insieme, ispirato anche dalle persone con cui abbiamo collaborato». 

I gesti e i suoni che si ripetono, l’atmosfera claustrofobica, l’interazione non sempre facile con colleghi e clienti, che si risolve sempre in quell’augurio forzato di una buona giornata, ben esprimono l’alienazione che vive quotidianamente chi fa questo tipo di lavori. Ricorda, per molti aspetti, la ricerca sul rapporto tra corpo e lavoro portata avanti dalla danzatrice e performer Anna-Marija Adomaityté, anche lei lituana, che con workpiece ha creato una coreografia intensissima basata sui movimenti ripetitivi di un addetto al banco di un fast food (portata al festival di Santarcangelo nel 2023).

Ma è chiaro che, se in fondo stiamo parlando degli effetti che il sistema capitalista ha sugli aspetti più intimi e ordinari delle nostre vite, si tratta di qualcosa che non è più locale, ma riguarda tutti, dappertutto. «Credo che il successo di Have a Good Day! derivi dal fatto che non parla solo di cassiere che si lamentano dei loro lunghi turni o dei loro bassi stipendi, ma riguarda la loro esperienza umana», riflette Vaiva Grainyté. «Tutti posso riconoscersi in un personaggio. È sorprendente scoprire che un lavoro che ha più di dieci anni sia ancora rilevante. Questo spettacolo è stato in tour in molti posti, dagli Stati Uniti all’Asia, e in tutta Europa: persone di culture molto differenti sono riuscite a trovare un modo per relazionarsi a questo lavoro, quindi credo che comunichi qualcosa di molto universale».

A colpire, nel percorso di Vaiva Grainyté, è l’enorme versatilità, fin dall’inizio, con la scrittura sempre al centro. Con i racconti, le pagine di diario e le poesie, scritte fin da giovanissima, che assumono diverse forme, come negli esperimenti musicali dei Regina Band, in cui l’autrice recita i suoi testi e suona la tastiera in un gruppo di free jazz. 

La prima pubblicazione risale al 2012. «Sono stata in Cina per un anno per studiare il cinema cinese e nel frattempo tenevo un diario», elaborando i piccoli saggi di non fiction che hanno dato forma a Beijing Diaries, in cui racconta con il suo sguardo sempre ironico e un po’ stralunato l’incontro con la medicina tradizionale mentre stava male, oppure un viaggio in Mongolia in solitaria, «ed è così che la mia carriera di scrittrice è iniziata».

L’ultimo libro, uscito nel 2022, è Roses and Potatoes, un romanzo collage in lituano e in inglese, che vuole decostruire gli stereotipi sulla felicità. Nel mezzo ci sono stati due lavori scritti per la radio, Witches Don’t Eat Gummies e Axis Deviation, un libro di poesie, l’adattamento per marionette dell’Ubu roi di Jarry, la band concettuale The Cuckoos, formata da due coppie di gemelli, che si è esibita all’interno di un museo con testi che dibattono su pezzi originali e copie. 

«Lavoro in solitudine, quando scrivo prosa, saggi o poesie», racconta Grainyté. «Quando scrivi poesie non sei tu a decidere, ma sono loro che arrivano, semplicemente. Può suonare forse un po’ romantico, ma è così». Per i lavori collettivi, invece, il processo è differente. «Sono progetti che nascono da inviti o da idee che mettiamo giù insieme», spiega, «penso molto alle persone con cui mi piacerebbe lavorare, anche senza avere un testo preciso in mente. Discutere le proprie idee con altre persone ti mette molto alla prova e ti prende molte energie, ma è sempre molto emozionante. Ogni tanto mi accorgo però che mi manca lavorare da sola e stare solo con me stessa. Ma a volte quando scrivo da sola mi mancano le collaborazioni. Credo sia un’ottima cosa per me poter variare tra questi due canali, è qualcosa che mi fa sentire privilegiata». 

Quanto al suo stile così peculiare, al contempo ironico e profondo, straniante e capace di arrivare a tutti, trova ispirazione lontano dalla letteratura, grazie a uno sguardo allenato a indagare il mondo dell’arte. «Credo di essere stata davvero influenzata dalla pittura e dal cinema surrealista» riflette Vaiva Grainyté. «Mi piace moltissimo Max Ernst, per esempio. C’è una sua citazione molto famosa che parla di un «incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio»: parla dell’interazione tra oggetti molto diversi in uno stesso spazio e credo che questo tipo di paradosso sia molto comune alla mia poesia e alla mia scrittura in generale. Quindi può trattarsi di una situazione molto comune, quotidiana, in cui c’è però qualcosa di strano, di bizzarro, di paradossale. Credo che tutto ciò venga dal mio grande interesse verso il surrealismo». 

Vaiva Grainyté ha anche vinto un Leone d’Oro, assegnato al padiglione lituano per la miglior partecipazione nazionale alla Biennale Arte nel 2019, per l’opera performance Sun & Sea, realizzata ancora insieme a Lina Lapelyté e Rugile Barzdziukaité. 

Il lavoro, che non ha mai smesso di girare i festival dopo l’esordio a Venezia, presenta alcune persone, viste dall’alto, in una spiaggia, in costume e asciugamano. Cominciano a cantare e a raccontare, in uno stile molto vicino a quello di Have a Good Day!, affrontando questa volta, in modo molto singolare, il cambiamento climatico. 

«Una volta in tour con Have a Good Day! abbiamo pensato che forse era tempo di lavorare a qualcosa di nuovo», ricorda la scrittrice. «Avevamo questa immagine, delle persone in costume osservate dal punto di vista del sole, ma non sapevamo ancora cosa avrebbero cantato. Abbiamo raccolto idee per un paio d’anni, partendo da questi corpi mezzi nudi, pensando alla loro fragilità, alla mortalità, a quella della terra, e dunque alla crisi climatica. Ma è un tema così grande, come si fa a parlarne, a scriverne?». 

«È importantissimo occuparsene», continua l’autrice, «ma volevamo evitare una retorica minacciosa, le immagini di morte, le notizie sui mari pieni di plastica. Stavo leggendo molto riguardo al cambiamento climatico, mi faceva molta ansia e non sapevo cosa fare. Ma a poco a poco ho capito che poteva funzionare, come in Have a Good Day!, l’idea di fare un ingrandimento su alcune micro storie, raccontarle da una prospettiva personale, per prendere i temi ecologisti e renderli più vicini, più concreti». C’è un personaggio, the Complaining Lady, che si sorprende quando va a camminare in un bosco e trova dei funghi a dicembre, totalmente fuori stagione. C’è il maniaco del lavoro, che è esausto e sorride fingendo che vada tutto bene. E anche qui, alcuni brani sono stati ispirati direttamente dagli attori coinvolti, perché le audizioni si sono svolte prima che il libretto nascesse. «In quel periodo stavo leggendo della barriera corallina che muore e degli esperimenti di alcuni scienziati che per ricreare i coralli stavano usando delle stampanti 3D», ricorda Vaiva Grainyté. «Abbiamo incontrato due sorelle gemelle, venute alle audizioni, e quando le ho viste ho pensato: “Ma forse una di loro è stampata!”, e così, per la combinazione casuale di articoli scientifici e immaginazione, improvvisamente sapevamo di cosa avrebbe parlato la canzone che avrebbero cantato loro due».

Nel frattempo, Vaiva Grainyté continua a sviluppare nuove idee, esplorando ambiti sempre diversi. Per l’autunno sarà pronto un nuovo progetto per la radio, una storia d’amore queer realizzata tramite interviste, un lavoro che sarà presentato in Lituania. E poi, entro la fine dell’anno, l’autrice sarà in Francia per un periodo di residenza, ospitata dalla Fondazione Camargo, all’interno di un parco nazionale in Provenza, per continuare le sue riflessioni sul clima che cambia. «Ancora non so esattamente su cosa lavorerò», racconta la scrittrice, «ma avrò l’opportunità di stare a contatto con alcuni scienziati e conoscere le loro ricerche, con l’idea di trasformarle in forma poetica. In questo momento non voglio avere un progetto preciso, ma avere il tempo per pensare con calma a cosa succederà, ai prossimi passi. Questi anni sono stati molto intensi».

ARTICOLO n. 83 / 2024

NOLITE TE BASTARDES CARBORUNDORUM

A una settimana di distanza dal risultato delle elezioni statunitensi che hanno visto trionfare per la seconda volta Trump, il doveroso e logico timore che i prossimi quattro anni possano essere una tragedia per molte, moltissime persone appartenenti alle categorie marginalizzate non si placa.

Se all’alba dei risultati elettorali lo sgomento e la disperazione la facevano da padroni a tutte quelle reazioni affidate da migliaia e migliaia di persone ai social media, dopo sette giorni il dolore si è trasformato in azione e perfino i nostri feed europei – X e Tik Tok soprattutto – si sono riempiti di una vera e propria catena di video di chiamata alle armi da parte delle donne e delle persone della comunità LGBTQ+ nordamericana.

Facendo un passo indietro per capire come si sia arrivati a una situazione sicuramente nuova e potenzialmente frizzante, la mia mente si sofferma innanzitutto sulle promesse di Trump.

Se per quanto riguarda la politica estera, sia lui che Harris hanno sempre avuto idee piuttosto genocidiarie (dove “piuttosto” è un eufemismo), in politica interna il tycoon ha saputo avvicinare molto elettorato democratico con la promessa di una diminuzione delle tasse, un aumento del lavoro, sgravi fiscali, una propaganda mirata a targhetizzare le minoranze e una bella infarinata di complottismo come dessert (dalla negazione della crisi climatica ai deliri sulla comunità LGBTQ+, dai gatti mangiati a Springfield alle falsità sui migranti). I risultati di questa campagna che mira a rassicurare l’elettorato (affamato, impaurito, arrabbiato) si vedono chiaramente nelle proporzioni dei votanti per Trump: il 63% degli uomini bianchi, il 49% delle donne bianche, il 47% degli uomini latino-americani. Le donne nere, quelle di origine sudamericana e quelle appartenenti ad altri gruppi etnici hanno ampiamente dato fiducia a terze parti o ai democratici.

E questo perché, a differenza di moltissime donne bianche Gen X (questa la fascia femminile che più ha votato per Trump), hanno molto più chiaro cosa ne sarà dei diritti delle persone con utero nei prossimi 4 anni. 

E se le donne bianche e borghesi di mezza età non si pongono troppo il problema poiché si godono ancora per poco il privilegio di classe, etnia e quello di essere vicine alla menopausa e quindi non più corpi utili per la funzione riproduttiva, le giovani donne di tutto il blocco statunitense, soprattutto quello degli stati repubblicani, si sono unite in un coro digitale senza precedenti.

Utilizzando i social come cassa di risonanza e strumento per creare una vera e propria catena. Prima le donne e poi le persone alleate si sono unite in una serie di reti che, da quanto sono partecipate, sono arrivate anche oltreoceano. 

Nei giorni immediatamente successivi all’elezione di Trump, la rete si è riempita di consigli pratici da attuare in velocità ovvero prima che il presidente entri alla Casa Bianca a gennaio.

Ci sono centinaia di migliaia di video che consigliano di comprare Plan B – ovvero la pillola del giorno dopo – e farne scorta in modo da poterla garantire alle persone della propria comunità che non possono comprarla. Lo stesso consiglio vale per la Ru486, ovvero la pillola a base di mifepristone che permette di ricorrere all’aborto farmacologico. Negli Stati che mantengono intatti i principi di autodeterminazione previsti dalla Roe v Wade, questa si può acquistare con prescrizione medica direttamente in farmacia. Entrambi i farmaci hanno una validità di oltre quattro anni.

Tra i consigli più importanti sempre riguardanti la salute riproduttiva c’è quello di ricorrere prima di gennaio a contraccezione ormonale a lunga durata come IUD e dispositivo sottocutaneo, che hanno la durata di circa quattro anni o più, in base al modello. Molte persone consigliano anche di farsi legare le tube, e di non portare avanti gravidanze nei prossimi anni poiché il rischio di sepsi e di morte della gestante potrebbe essere elevato in quanto in alcuni Stati non è garantito neanche l’aborto terapeutico.

Considerando i pericoli anche legali a cui vanno incontro le persone che vogliono interrompere una gravidanza, molti profili social consigliano di cancellare le app di tracciamento del ciclo mestruale in quanto le compagnie che le gestiscono, in caso di indagine e su richiesta dei singoli Stati, potrebbero dover rilasciare i dati privati delle utenti. E, in questo senso, ogni anomalia del ciclo mestruale potrebbe diventare un motivo di dubbio o ulteriore indagine.

So che d’impatto tutto questo sembra un capitolo de Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, ma la distopia in cui è ambientata la storia di June Osborne/Difred non è distante dalla realtà, soprattutto ora che il Project 25 potrebbe essere supportato da uno dei presidenti degli Stati Uniti più conservatori – e imprevedibili – della storia.

Il Project 25, un programma in più punti e di oltre mille pagine che dovrebbe garantire una transizione repubblicana di tutti gli Stati, è stato studiato dalla Heritage Foundation, un’organizzazione iper-conservatrice che mira a ridefinire i ruoli istituzionali all’interno del governo federale. Seppure Trump ne abbia preso le distanze, la linea politica che ha adottato in passato nei confronti delle politiche relative alla salute riproduttiva e ai diritti delle famiglie omogenitoriali e delle persone trans è molto vicina al documento redatto tra le altre cose da alcuni dei suoi fedelissimi che hanno collaborato con lui nello scorso mandato.

Il delirio conservatore e reazionario alla base del Project 25 è quello più caro al pensiero repubblicano e si fonda su principi biblici antiscientifici e discriminatori.

Per questo, vista la vicinanza di Trump a suddette idee distorte e soprattutto in seguito all’abolizione della Roe v Wade, chiunque abbia un utero o non rispecchi in pieno i valori “tradizionali” ha iniziato a farsi due domande.

Se le categorie marginalizzate dunque si stanno organizzando, gli uomini bianchi repubblicani – soprattutto gli uomini bianchi repubblicani appartenenti alla GenZ – si stanno riversando sui social commentando ogni post, reel, video, storia femminile di organizzazione e logica preoccupazione con la frase “your body, my choice” ovvero “corpo tuo, scelta mia”. La frase è stata resa virale all’alba della vittoria di Trump dal fenomeno del web e neonazista Nick Fuentes.

Fuentes, che con questa frase minaccia un intero genere di violenza sessuale, coercizione riproduttiva e misoginia, ha attivato un effetto a catena nei giovani maschi statunitensi che si sono mossi in gruppo targhetizzando tutti i video delle donne sopracitate. L’effetto è stato quello di una vera e propria onda di minacce di stupro e di morte verso il genere femminile condito di insulti razzisti o transfobici, misogini e abilisti.

Ma è proprio dopo questo evento che il fenomeno neofemminista statunitense ha preso una nuovissima e inaspettata piega. Internet si è infatti riempito di video di risposta. Una risposta, come dire, peculiare e sicuramente per me, da questo lato dell’Atlantico, inattesa.

Sono decine e decine i video di giovani donne che, ripetendo la frase di Fuentes, imbracciano un fucile o caricano una semiautomatica guardando dritte nella fotocamera dello smartphone. Alcune ripetono la frase maneggiando asce o armi da taglio, altre praticando arti marziali o autodifesa.

Sono invece centinaia i video femminili – sarcastici – sull’acqua tofana, ovvero il veleno inventato dall’omonima Giulia Tofana che, leggenda vuole, fosse usato dalle donne palermitane del diciassettesimo secolo per uccidere i mariti dai quali, per legge, non potevano separarsi e dai quali subivano ogni tipo di sopruso. 

Fanno molto sorridere le risposte piccate di giovani uomini bianchi che si lamentano spaventati del fatto di non potersi più fidare di bere da bicchieri offerti da donne o condivisi con loro. Fa molto sorridere perché se per loro la minaccia di un possibile avvelenamento o di essere drogati è estremamente remota, il genere femminile vive con questa paura quotidianamente. 

Non solo: sono previste nelle prossime settimane due manifestazioni generali di sciopero delle donne su modello svedese, unite a movimenti di boicottaggio della piattaforma di Musk, di Amazon e dei grandi colossi capitalisti, proprio in vista del Black Friday.

Ma non finisce qui: oltre alla corsa agli armamenti e alla mitologia, la risposta più impattante a questa fiumana di minacce di stupro è stata il doxxing. Il doxxing è la pratica di rendere pubblici indirizzi e dati personali delle persone via web. Solitamente usata nella condivisione non consensuale di materiale intimo, di questa pratica, in questo preciso momento storico, se ne è riappropriato velocemente il genere femminile, esponendo al proprio pubblico social gli indirizzi, i luoghi di lavoro, i nomi degli uomini che avevano minacciato le creator di stupro e morte.

Tra screenshot inviati alle famiglie dei molestatori, tra mail consegnate a università e luoghi di lavoro degli abusanti, il caso più eclatante riguarda proprio Nick Fuentes, il cui indirizzo di casa è stato doxxato sul web e lo spavaldo neonazista è sparito dalla circolazione digitale da qualche giorno, dopo aver blurrato la propria abitazione su Google Maps.

Il fenomeno in cui si inserisce questa risposta forte e coesa, che arriva dopo anni di battaglie come MeToo e Black Lives Matter (che non hanno avuto l’eco che avrebbero dovuto avere) ha un nome, e sotto il suo hashtag i contenuti sono ormai centinaia di migliaia. FAFO, acronimo che sta per Fuck Around and Find Out, ovvero: se fai una cazzata, aspettati le conseguenze. 

Perciò, davanti a comportamenti che sono sempre rimasti impuniti – dai governi, dalle piattaforme, dalla società, dagli altri uomini, dai media, dalla collettività, dai giudici, dalle famiglie e dalle scuole di ogni grado – l’unico strumento rimasto alle donne e alle categorie marginalizzate per ottenere una parvenza di sicurezza e tranquillità a quanto pare è rispondere a tono.

Se i maschietti conservatori e i boomer europei miagolano già inneggiando alla cancel culture, ho come l’impressione che a questa nuova, forte generazione femminista importi meno di zero delle lamentele democristiane di categorie di persone che non hanno mai protetto dalla violenza o fatto qualcosa per arginare il fenomeno.

Ho l’impressione che proprio lo scontento che arriva da anni in cui la svolta progressista sembrava vicina dopo i due movimenti citati qualche riga fa, unito a un gigantesco menefreghismo istituzionale di tutto l’Occidente, abbia lasciato ben poca scelta a chi subisce violenza. Ovvero: organizzarsi da soli, fare mutualismo dal basso e rispondere alla violenza senza abbassare più il capo.

Sono particolarmente impressionata dalla veracità e assoluta determinazione di questa risposta alla chiusura conservatrice che arriverà con la nuova presidenza Trump. Ne sono impressionata perché da noi, che non viviamo tempi molto dissimili, la risposta è stata molto diversa.

Siamo ancora nella fase in cui, crisalidi, condanniamo le risposte maleducate alle minacce e agli insulti misogini. Siamo ancora nella fase in cui d’aborto non ci si preoccupa molto, perché forse pensiamo che la legge 194 ci protegga, quando invece è ormai quasi del tutto inapplicata. Siamo nella fase in cui l’interesse è sempre altrove, perché tanto pensiamo che qualcuno alla fine ci salvi il culo – o l’utero, o il matrimonio ugualitario, o l’omogenitorialità, o la possibilità di manifestare o l’accessibilità al lavoro – eppure mi sembra ormai molto chiaro che non andrà così.

I movimenti frammentati, la sterile critica che vuole il digitale come superficiale, le piazze poco partecipate, le attiviste e i movimenti dal basso che si occupano di aborto e mutualismo lasciati soli, gli intellettuali spariti in una nuvola di fumo. In Italia abbiamo più paura del giudizio dei compagni che dell’estrema destra e questo ha frenato la nascita di una nuova ondata di femminismo esplosiva come quella statunitense.

Non so cosa succederà nei prossimi quattro anni di presidenza Trump. Una cosa però so per certo: la brutta figura a livello mondiale che ha fatto a poche ore dall’elezione e i riflettori di tutto l’Occidente puntati sulle politiche discriminatorie e violente del Project 25 saranno un deterrente non da poco alle derive reazionarie che ci si aspetterebbe.

So per certo anche un’altra cosa. Negli Stati Uniti il femminismo di quella che a tutti gli effetti sembra essere una nuova ondata è trainato dalle giovani donne nere e dalle persone trans. Le giovani donne bianche, che hanno saputo decolonizzare il proprio sguardo, sono scese al loro fianco, creando un fronte coeso che dimostra di aver imparato la lezione più importante della distopia ideata da Margaret Atwood e che sta diventando realtà per gran parte del mondo Occidentale. Questo nuovo movimento lo ha imparato bene: Nolite te bastardes carborundorum, non lasciare che i bastardi ti annientino. Chissà quando anche noi, nella vecchia Europa, glielo impediremo.

ARTICOLO n. 82 / 2024

QUELLI CHE CAMMINANO PER STRADA

intorno a "paradiso" di Stefano dal bianco

C’è intorno a Paradiso di Stefano Dal Bianco una sorta di distanza e di silenzio. Se ne comincia la lettura per presto dar conferma di un ingresso avvenuto. Entriamo in un luogo che l’autore non teme, titolando il volume, di identificare con paradiso, senza articolo (non l’incontestabilità del determinativo, non la languida vaghezza dell’indeterminativo), quasi si potesse fermarlo nella permanenza di un bene.

Siamo dunque in un luogo, e si tratta di un luogo che si lascia individuare toponomasticamente: c’è Orgia, c’è l’alta valle di Merse. Siamo sulle colline senesi, siamo dove il poeta ha riconosciuto dei confini entro cui dimorare e deambulare, entro cui esercitare i sensi – il suo la vista, quello del cane che lo accompagna l’olfatto. Nessuno è chiamato a manifestarsi se non questa coppia compresa fra l’altezza del cielo e la prossimità della terra. Benché si muovano entrambi, esploranti e complici, è come se fossero entrambi accarezzati dal fantasma dell’immobilità. Avverti i passi che rallentano, lo sguardo confitto, la tensione perlustrativa che vibra «…in questa mattinata quasi astratta / dove nessun pensiero giunge a compimento / si fa strada l’idea di un nostro posto, qui, / un dolore calato dal cielo di piombo / che ci atterra e ci libera nel tutto».

È come se fosse il vibrare «di vita immobile» a disegnare la mappa dettagliatissima di bipede e quadrupede. L’avvicendarsi del giorno e della notte, il cangiare della qualità della luce e delle stagioni, del vegetabile e del tempo atmosferico riempiono i righi musicali insieme alla erogazione degli odori: tutto è compreso dentro una scena che si sottrae alla tentazione allegorica e che tuttavia desta un affanno gioioso, sempre sul punto di dire, sempre sul punto di essere detto.

Nei quindici versi che portano in esergo «Acero di Arquà / che quest’anno compie quarant’anni» si dice per l’appunto di questo acero che si muove, che par sorrida, e che il suo provare «qualcosa di nostro» è un tentativo «di essere nel vento / un accordo di foglie / un fremito di luci nella luce». A una contemplazione così ravvicinata, il poeta accerta l’evidenza di una serenità senza secondi fini (per usare un’espressione destinata a ritornare) che dunque non è né impettita dichiarazione di autorevolezza, né ipotesi di salvezza: èsemplicemente, non esibisce significati, fa «quello che deve fare», è «nel suo chiuso riso, / paradiso». 

Dal Bianco fa un moderato uso della punteggiatura, di virgole soprattutto, ma qui la cesura è forte, è un respiro, una pausa, prima di lasciar scivolare sull’acero quarantenne l’attributo cruciale. Paradiso è una condizione, dunque, una serenità che si consuma e si disperde in riso, nel puro «riso dell’universo» di dantesca memoria. 

Che questo “riso” stia nella prima sezione del libro, Appuntamento al buio, ci consente di continuare a leggere senza mai confondere il paesaggio naturale con un fondale. 

Dovessimo registrare l’azione del racconto che formicola in Paradiso – racconto filtrato da una cautela narrativa più discreta che minimale – la sentiremmo come avventura, l’avventura di un poeta che si cala, persino con un cenno di sfida sperimentale (i versi dettati a un cellulare), nella residualità della natura richiamandone, senza attrito drammatico, l’assiduità, il suo irresistibile, antichissimo dispiegarsi.

All’evidenza quasi invisibile dei sentieri fa riscontro la deambulazione assetata del vedere: il vagare di Paradiso non è quello preromantico presago di mete, ma neppure quello della Wanderung romantica così perduta nel mero transito, nella vanificazione di ogni forma di ritorno.

Qui si sta. Qui si coltivano serenamente una deliberata assenza, un affrancamento dall’umano, «perché non c’è niente di umano nell’umanità». Al paesaggio che diventa memoria nell’ultimo Andrea Zanzotto, presentissimo nella formazione di Dal Bianco, si oppone, ma forse non fa che succederne un altro non perente, non plastificato, non preda di vitalbe, lasciato tuttavia distendersi in concava e vitale «sovraimpressione».   

L’esercizio della solitudine non si consuma nel vuoto: al contrario, chi parla in questi versi non fa che avvertire la pienezza incompiuta dell’accadere, un accadere dal quale discendono ascolto e voce, che, se vengon meno, «tanto vale allora mutamente / uscir di bosco e andare fra la gente». 

Che cosa sia l’avventura del poeta lo dice il passo che avanza fra le ragioni di un giovane frassino, la «perplessa maestà dei castagni», la storia di una foglia che cade, i «fiordalisi sul sentiero», il verde leggero dell’erba nuova, il tappeto delle foglie secche, una coppia di daini, una volpe grigia arresa alla morte. 

Non si tratta di una restituzione della o alla natura: quelli citati sono dettagli che il luogo distribuisce acciocché l’avventura si compia, e per compiersi è bene che appaia un compagno, Tito il cane. I vaganti sono due, e ciascuno ha obiettivi suoi – condivisibili ma non reciprocamente assimilabili.

Per entrambi la geografia è decisiva: la geografia degli odori e degli eccessi di memoria, la geografia «di luci e ombre» e la soverchiante «fragranza del mondo». Uomo e animale dividono il pericolo e la grazia, il lancio del sasso nella corrente e la scoperta del mondo rasoterra; vanno esplorando l’aria ferma e i miraggi della paura.

Ci si chiede dove sia questo luogo, chi lo ha voluto così. Non è dagli uomini abbandonato: tanto che gli ulivi son potati, i prati falciati, il fango inciso dalle ruote. Si suppone che oltre l’uomo e il cane ci sia gente dei borghi che si chiude «silenziosamente in casa», contadini, lavoratori, e se non ci sono son passati, hanno lasciato tracce; e di tracce è fatto il permanere, tanto che il poeta lo dice esplicitamente: ci si può stancare del paesaggio, e allora «basta posare gli occhi sull’asfalto / che tanta parte ha nella geografia del luogo / e nella storia che restituisce». Ci son le crepe della gelata del duemiladieci, le toppe lasciate dagli operai dell’acquedotto, i lavori del gas: non si tratta di «paesaggio alternativo» ma di tracce, per l’appunto, che possono portare «a casa di qualcuno», all’eco «di un pensiero che era stato / e di uno che verrà». E tracce sono anche quelle lasciate dai grandi ungulati sulla terra argillosa della Merse («bassorilievi / che il sole ha avuto il tempo di fissare»), e che all’acqua conducono come esortazione a proseguire. 

Se è paradiso, è questo: il luogo in cui per segni minimi, per voci, per voli, per nuvole e notturni arpeggi di luce si suppone timida ma audace una certezza dell’essere e dell’essere lì, proprio lì.

Se non ci fosse Tito che ha bisogno di te «per essere felice / ma se ne infischia della tua felicità», questa avventura cederebbe la scena tutta intera a una natura insensibile all’accadere, all’imprevisto, insomma al sospetto che una storia esista. E invece ecco il «paradiso di riflessi» che in primavera attrae Tito, ecco lo sguardo che chiede un altro sasso lanciato, il ruolo «tanto difficile da sopportare» al quale inchioda il suo compagno. Sì, perché Tito «non è costretto a dominare niente / mentre il suo amico si fa serio / dall’alto della sua incostante umanità». Mitologicamente uomo e cane si sentono dèi, l’uno con il naso rasoterra «perché tutto / profuma di qualcosa», l’altro con il naso per aria «perché il profumo è altrove, / perché niente mi basta sulla terra».

Questo «niente mi basta sulla terra» mi sembra perno cruciale della poesia di Dal Bianco, il rovello, grave e sorridente insieme, che inventa, dal luogo traendo le coordinate, un paradiso come lui l’ha pensato, come, totus in illis, il viandante l’ha trovato. Senza stabilire alcuna forma di discendenza diretta, si pensa al Zanzotto dialettale, quando, in Idioma, evoca una Maria Carpela degna – sia pur dopo aver cacciato all’inferno «tuta, tuta quanta ‘la realtà’» – di un paradiso suo, «gnentaltro che ’l paradiso / come che ti tu l’à pensà». 

Può ben darsi che niente gli basti sulla terra, ma il poeta sa di cosa sono fatti i colori fra i quali almeno «è quello che fa per noi», presume l’«ultrasuono d’angelo» che accende la mente di Tito, la paura di una vipera che ha sbarrato il passo, la luce del tramonto «senza secondi fini», la «luce azzurra delle nubi» e via citando dal catalogo del vedere, e del sapere, del dirsi uomo con un cane.

Umanità torna più volte a segnalare un limite, una condizione, certamente un’assenza: chi sia stato messo al bando (se mai ci furono peccato e condanna) o chi sia stato chiamato a dimorare (se mai ci fu premio o fuga) non è dato sapere. Il paradiso di cui parla Dal Bianco è compreso nel raggio di uno schivo ma forse anche esitante auspicio che i confini del mondo coincidano con il profilo del Monte Amiata, e che siano i crepuscoli, o meglio che sia il valore della luce (anzi delle luci: non sono esclusi azzurrità di nubi, lucciole, lampioni), a consegnare l’azione e l’inazione alla «voce del mondo». Siamo di fronte a un’esclusione consapevole, come se l’umanità (e così pure la terra) rischiasse di creare confusione. In questo luogo non ci sono né arcadie né appartenenze, c’è il semplice emergere di un teatro naturale.

Il compagno di Tito è un uomo orazianamente contemplativo, Tito è cane che perlustra e scopre diversivi», talora si sottrae, sparisce ma riappare, ma soprattutto è misura del tempo («non mi va di aspettare Tito / più di una vita») e di quanto nel tempo, ferinamente, si muove. Tito, che pur porta sul muso un sorriso, ha avuto in dotazione la certezza animale del nemico: «che cosa vede nella notte un cane che non sia / sacrosanta illusione che vi sia / un nemico nascosto e invisibile nel bosco».

Si dà conto di spazi talora percorsi almeno in parte in auto: si avverte la presa di fiato di un avvio, «Come ormai tante altre volte stamattina». Il disegno ritmico distende una visione che si vuole innestata nel tempo: questa mattina ripete altre mattine, uomo e cane attraversano in auto «uno sterrato pianeggiante»; lo fanno perché poi si va a piedi «in un grande prato verde seminato a foraggio». Sul prato ci sono apparizioni di volatili (un airone, una garzetta, un fagiano, due ghiandaie) che alzandosi in volo da un fosso attizzano la vergine curiosità di Tito su «gli abitanti dell’acqua», creature nuove, non incontrate ancora. Nella sequenza di versi distesi, descrittivi, si situa, netto, al centro della poesia, l’endecasillabo piano «ha scoperto finalmente Tito» ovvero il verso eroico, lo schiocco dell’avventura. Raganelle e pesci entrano nel suo privato catalogo di viventi. Ma il fosso divide il prato da un altro prato, e di là ecco il calare delle nubi, il vento che fischia, nulla si vede più, né più si sente «l’animale di dentro»: la scena si spoglia, si spoglia di presenze insieme all’animale «che scappava in lontananza / in fondo a ogni prato / portandosi con sé una parte di noi». Nell’intervallo fra dentro e fuori sembra venir meno la certezza che il trasferimento del mattino aveva promesso. Come ormai tante altre volte stamattina ci si dispone a vivere e, consumata l’esperienza della scoperta e dunque di un’acquisizione, ci si dispone a perdere. Non ci sono strappi, neppure traumi, semmai l’aderenza a sconfessare, dentro l’abituale, l’abitudine.

C’è nella poesia di Stefano Dal Bianco un’attitudine geometrica che dà misure e le confonde, un’ondulazione prosodica non meno collinare del paesaggio con il quale progressivamente si prende confidenza.

Mi piace che i suoi versi calchino la terra, che non smettano di tornare alla terra sia attraverso la pertinenza della contemplazione sia attraverso l’esperienza del cane Tito, un’esperienza che talora diventa pensiero, un pensiero «contagioso», «grande abbastanza da comprenderti / come farebbe un prato / di una tana di talpe». Sono, quelli di Paradiso, versi che si lasciano contenere da uno spazio in cui leggiamo continuità, insistenza, ammaliata vigilanza, nonché latebra (quella «tana di talpe»), ma anche quella sorta di rumore che fanno «quelli che camminano per strada», «nell’aderire al suolo / dove ogni storia che trova un inizio / a ogni passo rinnova la sua fine in sé / in sé soltanto».

Il tempo si consuma e si rinfranca, e pure si annulla, eppure i confini dai quali l’umanità sembra esclusa lasciano palpitare un sentore del mondo che non si smemora, che, anzi, è l’avventura vegetale e animale di cui Tito e il suo compagno conoscono le quotidiane stazioni.

Credo che Paradiso sia opera della cui importanza dovremo prendere atto come di uno scarto, di un segnale, di una soglia. Da qui in avanti, e non solo ora mentre tentiamo di rincorrere il generoso sgomento che ci ha lasciato.

ARTICOLO n. 81 / 2024

DENTRO LO STESSO SOGNO

Un dialogo a cura di Salvatore Toscano

Pubblichiamo un estratto dal volume Dentro lo stesso sogno. Conversazioni (a cura di Salvatore Toscano, Wojtek, 2024) in libreria in questi giorni. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Salvatore Toscano: Sapreste individuare il momento esatto in cui avete pensato che sareste diventati scrittori? Quando avete capito che nel vostro destino c’era la letteratura? 

Mircea Cărtărescu: Non ho mai avuto un momento del genere, non ho voluto diventare uno scrittore e persino oggi la parola scrittore mi provoca un particolare disagio. La scrittura non è il mio mestiere. Non è nemmeno la mia arte, attiene piuttosto a una sorta di istinto, come quello della sopravvivenza o della riproduzione. Scrivo così come la chiocciola secerne il proprio guscio, o come l’occhio produce lacrime. Mi sento fatto per questo e mi sento inesistente al di fuori di questa attività che devo svolgere, proprio come devo respirare, poiché altrimenti non potrei vivere. Ho scritto versi e prosa attorno ai quindici anni, ma solo dai venti ho scritto in maniera intensa, sistematica, nel campo di forze di una vera ispirazione. Nemmeno allora ho mai pensato di pubblicare. Sognavo, in realtà, di restare un autore puro, che scrive solo per se stesso, poiché persino la semplice pubblicazione di un testo mi sembrava un compromesso. Leggevo poesie e racconti in cenacoli studenteschi, e quei testi sono stati notati da critici letterari e da editori di quel tempo, così ho debuttato con la poesia a ventiquattro anni. Da allora ho tratto dalla mia attività di scrittura, che è in realtà un continuum, una trentina di volumi, ma ancora oggi non mi sento né uno scrittore, né un poeta, né un critico, bensì semplicemente un uomo che scrive, e che continuerebbe a farlo anche se nessuno sapesse più leggere. E persino se restassi solo nell’intero universo. La scrittura non è per me una forma d’arte, ma piuttosto il senso stesso della mia vita. Non scrivo per raccontare agli altri storie, ma per potermi rifugiare nella mia stessa narrazione, come la chiocciola nel suo guscio. 

Antonio Moresco: Una volta sbloccato, dai quindici ai diciannove anni ho letto molto e ho anche scritto molto, tutte cose che ho poi distrutto a vent’anni: poesie, diari, romanzi, racconti, testi teatrali… Intanto però continuava la mia difficoltà ad apprendere ogni altra cosa che non fosse la lingua italiana, gli scrittori e i poeti, e a scuola venivo ripetutamente bocciato e umiliato, i miei compagni andavano avanti e io restavo indietro, eterno ripetente. Però almeno avevo trovato un filo nella mia vita, dei fratelli e delle sorelle, delle persone che ardevano e la cui luce arrivava fino a me attraverso lo spazio e il tempo. Poi mi sono gettato in altre imprese e follie e, per dieci anni, non ho più letto e scritto niente, ho tradito e rinnegato quella parte di me, che mi sembrava una debolezza da cui dovevo separarmi. Ho vissuto randagio in diverse città d’Italia e sono sprofondato nella vita senza cinture di sicurezza, sono andato allo sbaraglio, ho conosciuto persone e mondi che altrimenti non avrei mai conosciuto. Sulla mia carta di identità c’era scritto: operaio. Ero l’ultimo della fila in mezzo agli ultimi della fila e tale pensavo che sarei rimasto per sempre. Ho lavorato nelle fabbriche, nelle discariche, in officine sottoterra, ho fatto il bracciante, il facchino, sono stato processato più volte e incarcerato. Mi ero abbandonato a illusioni secolari e poi avevo sperimentato quella che il mio amato Leopardi chiama “la strage delle illusioni”. A trent’anni, ritornato a Milano in condizioni fisiche e psichiche difficili, in un monolocale di periferia vicino a un imbocco autostradale, di notte, chiuso nel gabinetto per non svegliare mia moglie e mia figlia che stavano dormendo nell’unica stanza, seduto sulla tazza del water con il quaderno sulle ginocchia, sono nato veramente e finalmente come scrittore e ho cominciato a scrivere ciò che avrebbe visto la luce soltanto quindici anni dopo. Da quel momento la letteratura (chiamiamola così, anche se è una parola insiemistica che non vuole dire niente e che non mi piace) è stata per me l’unica strada nel buio, che non mi potevo permettere di tradire e rinnegare una seconda volta nella mia vita. Perciò sono d’accordo con quello che dice Mircea. Neanch’io mi sento uno scrittore, mi sento qualcosa d’altro che non saprei definire, qualcosa di più e di meno di uno scrittore. Io sono uno con le spalle al muro, per me scrivere, inventare, prefigurare era e continua a essere una questione di vita e di morte, non una professione, un mestiere, una carriera.

S.T. Nel linguaggio religioso si parla del problema della teodicea, cioè della presenza del male nel mondo: che rapporto c’è tra le vostre opere e il male? È ancora viva in voi l’illusione adolescenziale di poter salvare o redimere l’umanità attraverso l’arte? 

M.C. Non ho mai pensato di salvare l’umanità attraverso la mia scrittura, ma semplicemente di scrivere bene. Mi sembra che sia sufficiente. In questo modo salvo almeno me stesso. Per quanto riguarda la presenza del male nel mondo, essa è naturale. Il mondo è un’opera d’arte, come un romanzo. Non è possibile immaginare un romanzo esclusivamente con personaggi positivi. Sarebbe un idillio ridicolo e noioso. Gli esseri umani a tavola hanno bisogno di spezie, di pepe e di peperoncino, e nella vita hanno bisogno di lottare, di soffrire, di sperimentare vittorie e sconfitte, di confrontarsi con le proprie debolezze e i propri difetti, come pure con quelli altrui. Senza la presenza del male non avremmo la sensazione che la vita abbia un senso. Non abbiamo bisogno del paradiso, ma della vita in terra, con il nostro essere fatto di carne, ossa e intelletto. Il male è lì per combatterlo con tutte le nostre forze, per mostrare in tal modo che siamo esseri umani. Salvo che non lo sconfiggeremo mai definitivamente, poiché è radicato profondamente in noi. Non credo che la bellezza salverà il mondo, credo però che il vero, il bene e il bello debbano risplendere da qualunque nostro scritto, per dargli senso e finalità. Tutto ciò che è fatto con amore è sacro, per questo ogni libro dovrebbe avere la drammaticità umana dei Vangeli. Per coloro che scrivono letteratura, ciò significa scrivere bene, senza compromessi, senza pensare “ai frutti delle azioni”, come è detto nella Bhagavadgītā: fama, danaro, premi, recensioni entusiastiche e altri riconoscimenti illusori. Ribaltando la frase di Wittgenstein, “Tutto ciò che può essere detto, può essere detto in modo oscuro, complicato, simbolico, profetico. Su ciò che può essere detto con chiarezza, occorre tacere”. Potrebbe essere questo il motto degli autori che io prediligo.

A.M. C’è, a mio parere, una doppia tentazione per lo scrittore, un doppio piano inclinato e un doppio vicolo cieco: o di usare la letteratura come una cattedra moralistica diventando l’edificante cantore del bene, o di usarla come una cattedra immoralistica diventando l’altrettanto edificante cantore del male. Lo scrittore deve guardare in faccia la Medusa senza farsi pietrificare dal suo sguardo. Ma se uno scrittore non ha il coraggio di andare vicino al male, che scrittore è? Io credo di andarci vicino, certe volte anche molto o troppo vicino, perché il male di cui è pervaso il mondo deve essere fronteggiato, come hanno sempre fatto – ciascuno a suo modo – gli scrittori e i poeti che amo: Dante, Shakespeare, Cervantes, Swift, Kleist, Leopardi, Dickinson, Balzac, Dickens, Melville, Dostoevskij, Kafka… Se io mi illudo di poter salvare e redimere l’umanità attraverso l’arte? No, però continuo lo stesso a non darmi per vinto, a sognare, a fantasticare, a delirare, a combattere, anche se non ho speranza.

ARTICOLO n. 80 / 2024

ISABELLA DUCROT: I MOTIVI DI UN INCONTRO

Anni fa, al filatoio di Caraglio, vidi una piccola mostra su Escher. Non ne ricordo molto oggi, se non che una didascalia, Motivo per un tappeto, era stata tradotta in inglese “Reason for a carpet”. Uno svarione memorabile e a suo modo istruttivo. Motivo viene dal latino movere: che la fantasia usata per un tappeto sia in qualche modo anche un movente, una spinta verso qualcosa, è un’idea che da allora non mi ha più abbandonato, e non poteva non tornarmi in mente quando ho incontrato Isabella Ducrot.

motivi – teorici o figurativi che si voglia – per interessarsi a lei di sicuro non mancano, e difatti Monica Stambrini le ha dedicato il suo ultimo film, Tenga duro, signorina!, da qualche giorno in sala. Un film che, proprio come la protagonista che racconta, è pieno di energia e di meraviglia, e non ha tempo né voglia di commuovere, perché troppo occupato a raccontare l’entusiasmo del fare. Stambrini e Ducrot si sono conosciute anni fa quando, per raccogliere fondi per produrre un film porno, la regista organizzò un’asta a Roma con i lavori inediti di vari artisti. 

Ducrot allora tirò fuori dal cassetto dei disegni erotici che, a sentir lei, non voleva nessuno. Furono venduti tutti (uno se lo aggiudicò Bernardo Bertolucci) e da quell’incontro le due non si persero più di vista. Il titolo del film, preso in prestito da una pièce di Queneau, è perfetto per questa “vecchia signora di Napoli” (così Ducrot stessa si definisce) che da novantatré anni attraversa la vita con grazia e devozione, e che ha impiegato molto tempo a diventare se stessa.

«Appartengo a un’altra epoca, sono nata prima dello scotch tape», dice lei, sorridendo, senza nessuna nostalgia, e difatti in lei niente – né le sue opere, gli aggettivi che sceglie parlando, gli abiti che indossa, i gesti con cui si muove – fa pensare al passato.

Ducrot ha cominciato a dipingere a cinquant’anni. Ha esordito negli anni Ottanta alla Galleria Giulia di Roma, esposto alla Biennale di Venezia, in numerose collettive da Israele al Giappone. Ha realizzato su commissione pubblica, nei primi anni 2000, due grandi e magnifici mosaici della stazione della metro Vanvitelli di Napoli. Solo da qualche anno, però, il mondo dell’arte sembra essersi davvero accorto di lei. La signorina ha tenuto duro, per l’appunto, e il film, che simbolicamente si apre con lei che resta involontariamente chiusa fuori dal suo studio, racconta un tratto decisivo di un lungo percorso, lo stupore e la felicità che accompagnano questa recente ascesa. Ascoltiamo Sadie Coles da Londra che racconta come si è innamorata delle sue opere ad Art Basel, Gisela Capitain rievocare il suo incontro con Ducrot (fondativo per tutto quello che sarebbe arrivato, visto che è grazie a lei che il suo nome ha iniziato a rimbalzare tra le gallerie più influenti del nord Europa). 

Vediamo la galleria T293 e la Petzel dedicarle solo shows rispettivamente a Roma e a New York. Sempre a Roma, fino a febbraio il museo delle civiltà ospita Tessere è umano, mostra in cui le sue opere dialogano con la collezione tessile del museo, e il Madre di Napoli sta preparando una esposizione monografica su di lei, in programma per il 2026.

Ci sono artisti venerati già dagli esordi, artisti che vengono scoperti solo a posteriori, dopo la loro scomparsa. Ma cosaaccade quando il tuo momento arriva quando hai novant’anni? Cosa insegna, che storia racconta? «Non me lo aspettavo, ma non mi meravigliavo che accadesse», commenta candidamente lei, in una delle sue frasi solo apparentemente semplici, che a guardarle bene tengono insieme tutto.

Nel suo studio in Piazza del Collegio Romano, la prima cosa di cui parliamo è la traduzione. Campionessa indiscussa di understatement, Isabella Ducrot dice spesso di essersi a lungo sentita impreparata, fuori posto, di essere un’assoluta parvenue del mondo dell’arte, di non aver seguito nessuna formazione. Se deve, a ritroso, scovare un suo punto di forza, è la continuità con cui ha inseguito piccole scintille, fili che negli anni non ha mai smesso di seguire: «Ho vissuto sempre procedendo a tentoni, un po’ a caso, ma a modo mio anche coltivando ossessioni. Venivo da una famiglia molto religiosa, e il racconto di questi Settanta [i primi traduttori della Bibbia] che da Gerusalemme furono ad Alessandria d’Egitto chiamati dal re per tradurre dall’ebraico al greco il vecchio Testamento, mi ha sempre affascinato. Ognuno lavora per conto suo, ma poi scoprono che hanno usato tutti le stesse parole». Una storia a suo modo esemplare, dice, «ed è proprio questo il dramma degli ebrei: essere grandissimi narratori». Poi si interrompe e, come ogni tanto fa, formula una domanda che sembra rivolta non tanto agli altri ma a se stessa. «Che poi perché mi interessasse così tanto questa leggenda, non saprei: forse perché in fondo anche il mio è un po’ un lavoro di traduzione: dalle stoffe alla carta, dallo scritto verso l’immagine. Non l’avevo mai visto così, prima di oggi». Citando Il compito del traduttore di Walter Benjamin, dice: «In italiano la parola compito ha una valenza un po’ compilativa, in tedesco invece ha un significato più profondo: il compito non è un dovere da sbrigare, come i compiti di scuola. È una cosa più profonda, che ha che fare con il destino». E al destino, quando la si ascolta, si finisce a pensare spesso.

La vita di Isabella Ducrot, all’anagrafe Antonia Mosca, è iniziata decine di volte. Dopo la guerra, quando suo padre la fece tornare a vivere in un palazzo seicentesco, di cui, a seguito dei bombardamenti, era rimasto in piedi soltanto un angolo. «Vivere per più di dieci anni in quel modo, tra maniglie dorate e rovine che cadevano a pezzi, è stata forse la più grande lezione ricevuta dalla mia famiglia». Un’altra vita è iniziata quando, dopo sette anni di cure segrete e vergogne sociali, le dissero che era guarita dalla tubercolosi. Un’altra poco dopo, quando aveva trent’anni e lasciò Napoli per trasferirsi a Roma. Era l’inizio degli anni Sessanta: «Fu una boccata d’aria fresca, a Roma grazie a dio non conoscevo nessuno, mentre a Napoli, vuoi o non vuoi, mi imbattevo sempre in qualcuno che si chiedeva perché mai una bella ragazza di quell’età non si fosse ancora sistemata».

Non aveva particolari talenti o ambizioni, era una ragazza squattrinata e molto distratta. Trovò un posto da segretaria all’IBM: «Delle amiche ricche e sciocche un giorno, per farmi uno scherzo, staccarono tutti i quadri della sala d’attesa in cui lavoravo e li portarono via. Non me ne accorsi mica, il giorno dopo il portiere dell’IBM corse da me allarmato: signorina, c’è stato un furto… Caddi dalle nuvole, come sempre… Andavo avanti così, infilando avventure innocenti ed equivoche al tempo stesso». A un certo punto entrò in contatto con la «sinistra radicale e atea» di Nuovi Argomenti: «Erano perlopiù intellettuali con la barca a vela e i milioni in banca. Mi fidanzai con il figlio di uno dei fondatori, ma a quei tempi ero ancora molto religiosa, e ogni settimana gli toccava aspettarmi fuori dalla chiesa mentre andavo a confessarmi, così non durò molto…».

Di lì a poco incontrò l’uomo con cui avrebbe diviso la vita, Vicky Ducrot, che ai tempi lavorava per la KLM e nel 1974 avrebbe fondato i Viaggi dell’elefante, storico tour operator specializzato in soggiorni esotici di lusso. Scomparso due anni fa, Ducrot era un americano di origine palermitane, discendente di una importante famiglia di industriali, produttori di mobili e lussuosi arredi navali. 

Con lui, oltre che ai viaggi in tutto il mondo (cinquanta soltanto in India, e del resto basta guardare le sue opere o scorrere la sua collezione di stoffe per sentire l’Oriente dappertutto), arrivarono i figli, le terrazze in città e le ville in campagna, le collezioni di stoffe e quelle di rose, la vita mondana e quella familiare, gli agi e le sicurezze che le erano mancate in gioventù. Antonia Mosca diventò insomma la signora Ducrot. Un’altra magari si sarebbe fermata lì, ma lei non lo fece, anzi, forse soltanto allora cominciò il cammino che l’avrebbe portata a diventare l’artista che è oggi.

A disegnare aveva iniziato timidamente già ai tempi dell’IBM: «Durante la pausa per il pranzo mi capitava di scrivere, scarabocchiare bozzetti per abiti o tessuti. Li feci vedere a Vicky quando lo conobbi. E gli feci leggere qualche racconto che avevo scritto. Ma lui era un legittimista, e mi diceva, più o meno indirettamente: non hai fatto l’accademia, non hai studiato Lettere, meglio lasciar perdere». Lei però non gli diede retta. Mise su uno studio tutto per sé e cominciò a dipingere: non fiori o acquerelli di tramonti, come ci si sarebbe magari aspettati da una signora bene, ma amplessi («Ci sarebbe da fare un bel saggetto psicanalitico», osserva lei stessa nel film: «Come mai, quando ho iniziato, ho disegnato amplessi?»)

Alla miseria provata da bambina, pian piano, si sostituì un altro sentimento: l’invisibilità. «Per diverso tempo, credo di essere stata considerata poco più di una signora con l’hobby della scrittura e della pittura. Poi sono arrivate le prime mostre, mi vennero commissionati lavori anche importanti, ma il sentimento di essere una parvenue mi è rimasto addosso per anni, e in ogni caso non era per così dire previsto che si facesse sul serio. Quando, più di recente, sono cominciati ad arrivare dei veri riconoscimenti, a molti ovviamente non è andata giù». 

Racconta tutto questo senza smettere di sorridere, guardando un punto imprecisato davanti a sé. Scandendo bene ogni parola, conoscendone la gravità e l’amarezza, ma al tempo stesso divertendosi, specchiando negli altri la propria inadeguatezza e lasciando che gli altri facciano altrettanto. «Sembrano fragili, ma non lo sono», dice nel film mentre maneggia delle opere che sta preparando per una mostra. Ed è difficile non pensare che, in fondo, stia anche parlando di sé.

In un breve video girato per The World of Interiors qualche mese fa vediamo Isabella Ducrot in casa, mentre racconta a Marella Caracciolo come lei e Vicky l’hanno arredata nel corso degli anni. Si passano in rassegna dipinti barocchi, sculture americane, poltrone moderniste, mobili di Alvar Aalto, stampe esotiche e quadri astrali di Saddam Hussein. A un certo punto, dispiega sul tavolo una sciarpa tibetana color indaco (ora in mostra al Museo delle civiltà di Roma, e cuore di uno dei suoi libri, Stoffe.) La maneggia con cura, si capisce che per quella sciarpa prova una devozione sincera e inscalfibile, la stessa che si riserva a certe antiche memorie: «Questo manufatto è l’esemplare più vicino alla somiglianza quasi imbarazzante tra il tessuto e la parola umana, contiene una incarnazione del mistero della parola acciuffato dal tessitore mentre tesse». 

È così esemplare quella sciarpa, dice, così rappresentativa dei fili che ha inseguito in tutti questi anni che potrebbe lasciarla sola «a rispondere al nome di collezione». Ma l’incontro tra tessuto e parola, oltre che punto di arrivo, per lei è stato anche un inizio. «Da qui cominciò tutto, in fondo» mi dice porgendomi un libriccino bianco intitolato La matassa primordiale, pubblicato da Nottetempo. Che, scoprirò la sera stessa leggendolo, ha il passo di una fiaba e le intuizioni di un piccolo trattato. «Conoscevo di vista Ginevra Bompiani, ma mi costava chiederle di leggere». Ma poi lo fece, Bompiani richiamò poco dopo entusiasta, Patrizia Cavalli scrisse un’introduzione in versi. E anni dopo quel testo, nella sua versione inglese, finì nelle mani di Gisela Capitain, che grazie alla sua galleria (con sedi a Basilea e a Napoli) portò le sue opere in piena luce.

Oggi, Isabella Ducrot trascorre le sue giornate perlopiù tra lo studio al piano terra e l’appartamento all’ultimo piano di palazzo Doria Pamphilj. In casa la assiste una governante, in studio due assistenti, Nora e Veronica, che da oltre vent’anni lavorano al suo fianco. Invisibile, adesso, sceglie di esserlo: viaggia di rado, non partecipa agli opening o alle fiere, dice che le fa una enorme fatica essere al centro della scena. «“La vita inizia a sessant’anni», ripete in compenso a chiunque la interroghi sull’argomento, e giura di non essersi mai sentita tanto libera. Dopo che è rimasta vedova si è fatta confezionare un vestito in taffetà celeste, che indossa come un amuleto, e dice di provare, arrivata a questo punto, «a terrible pain and a fantastic happiness». Allo stesso tempo, senza rimedio, senza distinzione. «Mi domando come mi sia successo di diventare una persona che pretende di fare arte», si chiede ancora adesso: non tanto, si direbbe, incuriosita da se stessa, ma dalla natura umana, da quei “motivi” che spostano il mondo e le vite della gente, e che il maldestro traduttore di Caraglio nella mia testa ha trasformato per sempre in fantasie.

«People like framed things», dice nel film, mentre ragiona ad alta voce con una gallerista sul modo migliore per presentare al pubblico alcuni suoi dipinti. Sta parlando di cornici, ovviamente, ma potrebbe benissimo parlare di tutti quelli che, in tutti questi anni, per i motivi più diversi avrebbero voluto inquadrarla, assegnarle una casella e tenerla lì dentro, e non ci sono riusciti. Una tra tutti, come nel più classico dei racconti, sua suocera, dama inflessibile delle squisite Officine Ducrot, che perse le staffe quando, dal raffinatissimo George’s di via Marche, la vide ordinare due primi. «Ma tu non hai proprio capito come si sta al mondo, mi disse indignata. Ma io volevo proprio due piatti di spaghetti. Che cosa c’era di male? Proprio non riuscivo a capirlo. Mi sono alzata e sono andata via. Vicky mi seguì». Ma questo è solo un dettaglio, naturalmente: se ne sarebbe andata comunque. Non era proprio il caso di restare al suo posto, perché il suo posto, a quei tempi, lo stava ancora cercando.

ARTICOLO n. 79 / 2024

UNA GIGANTESCA ZUCCA DI HALLOWEEN

Pubblichiamo un estratto da Godfall (Atlantide) il romanzo di Van Jensen da oggi in libreria per la traduzione di Alessandra Osti. Ringraziamo l’editore per la disponibilità

Alla luce della luna, la pozza di sangue brillava nera. David si accovacciò e scrutò il terreno e la boscaglia attraverso uno squarcio di circa un metro. Sembrava profonda, tanto da poterci finire dentro e venirne sputato fuori in Cina o in Australia. Nel punto più lontano possibile dal Nebraska, dovunque fosse. «Sceriffo. Dov’è andata secondo te?».

David si appoggiò su un ginocchio, che si era irrigidito non appena arrivato il freddo, un ricordo del menisco rotto durante una partita di football alle superiori, una decina di anni prima. La sua corporatura muscolosa era evidente anche sotto al pesante giaccone marrone, sulla cui schiena era stampato in giallo, “Dipartimento dello Sceriffo”. David superava il metro e ottanta, e lo Stetson nero che aveva in testa lo faceva sembrare ancora più alto. Indossava dei blue jeans, come sempre. Il vento lo sferzava, spilli contro la faccia.

Era la sua solita maledetta sfortuna, che a qualcuno fosse venuto in mente di fare una cosa come quella in una notte così gelida. Accese la torcia, e con la luce la pozza di sangue sembrò prendere vita. Lì accanto, Gentry Luwendyke teneva le braccia incrociate sulla giacca di montone. Quando espirava, da sotto ai baffi ispidi usciva una nuvola di vapore, subito spazzata via dal vento di febbraio. Con la torcia David tracciò degli archi lenti. A una decina di metri, la luce cadde su una striscia rossa. «Sembra andare da questa parte», disse.

Proseguì da una chiazza di sangue all’altra, che diventavano sempre più piccole e che formavano una linea quasi retta verso la fila buia degli alberi a ovest del campo. L’erba e la salvia della prateria erano ricoperte di brina e scricchiolavano come pezzi di vetro sotto ai loro stivali. Quando raggiunsero il bosco di cedri e di eleagni, la traccia si era ridotta a singole gocce.

Nello stomaco di David stava montando la rabbia, che bruciava fino a che ne avvertì il calore sotto al giaccone; sudava, nonostante il freddo. Era stato qualcuno a farlo. Qualcuno l’avrebbe pagata. Strinse la torcia. No. Non adesso, si disse. Poteva arrabbiarsi più tardi. Adesso doveva concentrarsi su quello che doveva fare. Dove era andata? «Qua».

David la vide per primo, stesa su un fianco in una radura. Sembrava morta, poi il petto le si sollevò e si riabbassò, mentre dalle narici le usciva un filo spettrale di vapore. Lui si chinò, attento a non calpestare il sangue che scorreva per terra. Poi appoggiò la torcia sull’erba, per illuminarla, e si levò i guanti.

«Figli di puttana», sibilò Gentry.

«Una fucilata. L’ha colpita qui», disse David, facendo scorrere le mani lungo il pelo morbido dell’addome della mucca. Il colpo le era entrato nelle viscere. Dio solo sapeva quale organo avesse raggiunto; se ne stava andando in fretta.

«Figli di puttana», ripeté Gentry, più forte. All’improvviso la vitella sbuffò ed ebbe uno spasmo. Scalciò per trovare un appoggio. David cadde all’indietro e si scostò mentre lei si sollevava sulle zampe, riuscendo quasi a raddrizzarsi. Poi barcollò e ricadde. Si riavvicinarono.

«Non deve soffrire più», disse Gentry.

«No, non deve», concordò David.

«Lo faccio io. È la mia mucca». Gli occhi di Gentry erano puntati sulla Glock nove millimetri nella fondina sul fianco destro di David, che aprì la custodia di cuoio e tirò fuori l’arma, maledettamente fredda nella mano.

«No. Nessuno può usare la mia pistola. Sono le regole». Si avvicinò alla testa della mucca. Respirava forte, dal naso e dalla bocca le usciva una schiuma di muco e sangue. I suoi occhi di ossidiana lo supplicavano, non riusciva a capire il dolore che era dentro di lei, il caos del mondo, l’orrore della vita e quello ancora più grande di qualsiasi cosa che sarebbe venuta dopo. David non aveva risposte. Le appoggiò la canna sulla tempia e fece fuoco.

Il pick-up procedeva sullo sterrato pieno di solchi. Sotto la luce della luna, David avrebbe potuto benissimo non accendere i fari. Le strade correvano dritte in direzione est-ovest, nord-sud, una griglia tracciata nella campagna. Aveva trascorso quasi tutti i suoi trent’anni di vita lì, e ne conosceva tutti gli smottamenti, le curve, sapeva quali fossero senza uscita. E da quando era stato eletto sceriffo tre anni prima, sapeva anche troppo bene ciò che accadeva all’interno delle fattorie in fondo a ognuno di quei sentieri.

Mentre guidava, ripensò a ciò che era successo. Gentry aveva sentito dei colpi di fucile. Era uscito e aveva visto nel pascolo un pick-up con un faro sul tetto. Poi aveva trovato il sangue. Era sicuro che qualcuno l’avesse fatto apposta, magari un vicino spinto da qualche vecchio rancore. Che ci fossero persone a Little Springs che detestavano Gentry Luwendyke era fuori questione. Che qualcuna di queste potesse sparare nella pancia a una mucca era improbabile.

Era più facile che qualcuno con una cassa di Pabst o di Old Milwaukee buttata sul pavimento del pick-up, fosse entrato nel pascolo, cercando con il faro, sperando di beccare un daino o un cervo. L’aveva fatto anche David quando era giovane e stupido.

Dopo un po’ di birre, da lontano, una mucca sembra un daino. In città, di pick-up con un faro ce n’erano sei. Quattro appartenevano a persone che non avrebbero potuto fare stronzate del genere. Il quinto era dei Johnson, e magari il loro figlio sarebbe stato capace di fare una cosa così, ma erano tutti a far visita ai nonni nell’Ozark. Ne restava uno, e David sapeva dove trovarlo.

Si spostò sull’autostrada a due corsie, che correva in direzione est e ovest parallelamente al Platte River. Davanti a lui, le luci della città scintillavano. Ai piedi dei silos torreggianti, un cartellone verde dichiarava. “Little Springs, abit. 731”. Ogni dieci anni, dopo il censimento, c’era un nuovo cartellone con la popolazione che diminuiva sempre di più.

Girò su Main Street, un tratto di asfalto crepato largo abbastanza da contenere sei corsie, tanto da poterci far stare i carri tirati dai cavalli che nel secolo precedente entravano in città ogni fine settimana portando gli agricoltori e i loro raccolti. Su entrambi i lati, le vetrine dei negozi sulle desolate facciate di mattoni erano coperte da compensato. All’estremità più lontana svettava la torre idrica.

Anni prima, il consiglio comunale aveva deciso di ridipingerla a ogni stagione, tanto per portare un po’ di allegria. Il tentativo però era stato abbandonato poco dopo, e la torre adesso sembrava una gigantesca e malevola zucca di Halloween.

Un bar era ancora aperto, e la sua insegna al neon era accesa: Vic’s. David scrutò i veicoli parcheggiati lì davanti. Eccolo. Un Dodge blu con delle ruote enormi, e una barra sull’abitacolo su cui era attaccato un faro. Parcheggiò lì accanto e sbirciò dal finestrino. 

C’erano lattine di birra accartocciate per terra. Un fucile sistemato sul lunotto posteriore. Provò la portiera. Aperta. Frugò sotto all’unico sedile e tirò fuori una scatola di cartucce. Ne mancavano un po’. Ne prese una, se la infilò in tasca ed entrò nel locale.

Il Vic’s consisteva in un unico ambiente. Il bar era a destra. A sinistra c’erano alcuni separé. Due biliardi. Le pubblicità al neon di birre e le plafoniere con lampadine diverse gettavano una cacofonia di luci colorate tra le nuvole di fumo di sigaretta. La solita gente. 

Tute da lavoro e jeans, per la maggior parte persone piuttosto robuste, con la pelle secca e screpolata, per la nicotina o il vento perenne, o per entrambe le cose. Al centro del bar, un uomo massiccio con i capelli biondi cortissimi alzò lo sguardo all’ingresso di David e si girò verso di lui. «Guarda, guarda! Una birra per il nostro sceriffo!». «Ehi, cugino», replicò David, mettendosi accanto a lui al bancone.

Prima che David potesse impedirglielo Vic, il barista, gli spinse accanto una bottiglia di Bud Light e un bicchierino di whisky. «Sono in servizio». «Giusto», asserì Jason, con il suo solito sorriso da stronzo. «Beh, qui non ci stanno problemi, e va bene così».

All’altro lato di Jason c’era Spady, con i capelli neri che gli spuntavano da sotto un cappello da baseball dei Nebraska Huskers, e la barba ispida di un paio di giorni che gli segnava la faccia livida. 

Spady non era un loro parente, ma era cresciuto insieme a loro come se lo fosse stato. Stava fumando una Marlboro che teneva nella mano sinistra, poi la posò su un portacenere prima di usare la stessa mano per bere dalla sua bottiglia di Bud. La manica destra della camicia era cucita al gomito, dove finiva il braccio. 

Aveva lavorato alle ferrovie dai tempi delle superiori fino all’incidente, e adesso gli restava soltanto l’indennizzo per la disabilità. «Roba grossa?», domandò Spady. David si rese conto che la sua mano tremava ancora da quando aveva sparato. Sorrise e scosse la testa. «Niente di che».

ARTICOLO n. 78 / 2024

E POI È ARRIVATA LA REALTÀ

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo romanzo di Violetta Bellocchio, Electra (Il Saggiatore) da oggi in libreria. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità

Sono una di voi. Una come tanti. Sono al lavoro. Presento domanda per centinaia di incarichi, residenze, borse di studio.

Riordino il curriculum: si allunga l’attesa. Prendono qualcun altro. Non importa. Vado a guardare cosa cercano gli agenti, per amore dei vecchi tempi, solo per scoprire che oggi viene chiesto a noi di specificare quale sia la nostra piattaforma – il nostro pubblico, il nostro palcoscenico – e quale genere di campagna promozionale ci staremmo immaginando per un prodotto che siamo lontani dal consegnare. Ah, fate un podcast.

Ma che carini. Quanti ascolti per episodio? Diteci subito (età, sesso, posizione utenti). Mando centinaia di messaggi sperando che uno o due vengano aperti nell’arco di un mese. La posta elettronica potrebbe venir cancellata in blocco. Dato il volume della corrispondenza… La moda consiglia di avvisare in anticipo: il silenzio equivale al «no». Non siete adatti al ruolo. Forse siete dei cani, in effetti, ma non vi azzardate a chiedere un chiarimento (cosa non darei per una lettera di rifiuto copia e incolla. Sono bellissime).

Badate bene, andava tutto così quando ancora avevo una faccia. Il silenzio lo dovevano affrontare quelli che lavoravano per me. Essere un volto noto significa bruciarsi dalle tre alle otto ore al giorno nel vano tentativo di far cambiare idea su di te agli sconosciuti. Lo vedi? Non sono un mostro. Non sono la ragione portante dello schifo che fa la tua vita.

Forse potresti aggiustare la mira. Sorridi, ci metti il tocco personale. Li guardi negli occhi. L’onere della gentilezza casca sulle tue spalle (piccolo aneddoto: non mi pagavano mai). L’ultimo manager che ho avuto riusciva a piangermi al telefono, siamo sommersi, quando non stava lì a ridacchiare per disperazione oppure partiva con moglie e figli per una vacanza fuori stagione a Istanbul. E che cazzo ci fai in aereo, gli avevo detto, invece di dire quello che volevo dire: tu credi che la Morte smetterà di inseguirti se prendi l’aereo? 

Ogni posto di lavoro era sotto organico a un punto tale che il linguaggio stesso andava in frantumi. Se non scattava un’operazione di marketing articolata su più livelli attorno ai fatti del tuo corpo per dodici mesi dodici, niente rompeva il muro dell’indifferenza. Tu annegavi.

Si violavano i contratti, scadevano le opzioni. Nelle parole di un manager con cui non ho firmato: litighi per piazzare un artista, hai una porta in meno dove bussare per qualcun altro la settimana prossima. Eppure. Per un limitato numero di stagioni posavo per servizi fotografici, venivo intervistata a tu per tu. Perché? Avevo due o tre caratteristiche di quel personaggio – donna, giovane, la fama la incuriosisce, vuole sembrare bella, bella da pigliarsi la vendetta – e correvo dietro alla promessa implicita dell’annullamento che sarebbe derivato dal trasformarmi in un pezzo di carta.

Fingevo di essere consenziente – fingevo di essere disponibile alla messa in commercio del mio volto e del mio nome, pensavo di stare tirando la prima pietra, pensavo a un attacco preventivo di quelli che faceva Colin Farrell all’inizio della sua carriera – mentre in realtà mi stavo prestando a qualsiasi opportunità promozionale, non importa quanto déclassé, perché sapevo che nel minuto in cui si sarebbero smorzate le chiacchiere sul mio conto non avrei lasciato traccia. Bionda stupida.

Nell’accettare che considerevoli porzioni della mia immagine venissero determinate da questo o quel professionista che si credeva più furbo di me, stavo svendendo all’asta la mia capacità di produrre lavoro in maniera professionale. Ogni apparizione pubblica ti stacca un morso di carne dal collo. Poi un giorno stai buttando sangue e il tuo ufficio stampa ti abbaia, perché non sei felice! Dietro le quinte vedi persone che tremano fuori fuoco. Le loro immagini stanno avendo problemi tecnici.

Se ti pagano dieci milioni di dollari a botta, forse riesci a procurarti gli strumenti per rimediare all’assenza di individualità. Costruisci un te stesso segreto, niente codice, indecifrabile. Ti infili la maschera dell’attore alle prime luci dell’alba; metti insieme una bambola, la bambola si muove.

Sono stata una stella per cause di forza maggiore. Poi mi sono lasciata credere morta. Era più facile che andare avanti a vivere. Mi sono presa un nuovo nome e ho lavorato con quello. C’erano stati problemi relativi alla sicurezza in carne e ossa di cui non si riusciva a venire a capo, minacce di cui non mi sarei liberata una volta per tutte, se non cambiando radicalmente stile di vita. Una storia come tante nella categoria storia triste piangi piangi – di una donna in pericolo non importa a nessuno – e non è stato nemmeno quello il punto di non ritorno per me. Il pulsante «scomparsa» l’ho premuto quando ho capito che non avevo mai fatto niente di quello che volevo fare. Non una cosa.

Soltanto quello che veniva offerto per sfida o per scherzo da gente più vecchia e più ricca di me, pochi avanzi sul pavimento per vedere chi aveva più fame: una continua guerra disincantata che prendeva una persona e la faceva diventare una ferita d’arma da taglio.

Chi è nato e cresciuto nell’esercito dei fantasmi non prova simpatia per l’invisibilità come scelta – anzi, magari viene a chiedere a te cos’hai fatto di male, se hai preferito l’auto‑esilio al concreto rischio di mostrare un viso sempre più cattivo e più scavato in tempo reale. Come se il panopticon non arrivasse per tutti.

I legami sono stati tranciati. I telefoni, gettati. Gli abiti indossati a favore di camera sono finiti nei bidoni delle parrocchie. Ho vissuto irreperibile per dodici mesi, senza saltare un anacronismo – il mio nome d’arte l’ho preso da una strada statale – e ho cominciato a scrivere quando stavo diventando un’altra persona dalla testa ai piedi. Ho fatto in modo che Violetta non la trovasse nessuno: ho deciso che non mi sarei fidata, e quindi, come nella migliore tradizione, a metà dell’opera mi sono rilassata per trenta secondi e mi sono affezionata a Daniel, l’unico che qualcosa di me la sapeva.

La cotta, in sé, è stata un’esperienza fuori dal corpo, dall’eccitazione alla tensione al terrore è stato un attimo: mi sono allontanata dallo schermo del portatile la prima volta che lui mi ha chiamato darling. In un lampo avevo dodici anni e la bocca che bruciava. Oh no. 

Voglio stare con lui. Cos’ho fatto.

Sia data la colpa a me. Che Daniel vivesse per smontare i ricchi e i famosi dal divano di casa sua, avevo scelto di ignorarlo. Che Daniel fosse un contatto incrociato e tenuto a bordo senza la più pallida idea del come, o perché, lo attribuivo alla piacevole casualità delle relazioni a distanza prima dell’avvento dei social network. Che Daniel fosse un aspirante scrittore, quello sì rendeva speciale la nostra corrispondenza. Eravamo sullo stesso piano: ci scambiavamo consigli; materiale inedito, alla fine.

Lui mi segue ancora. Deve aver premuto il tasto «mute» sei mesi fa, forse prima – a Natale. Se siete già stati qui, l’assenza di interazione racconta tutta la storia. Per come la vedevo io, Daniel mi aveva bloccato. Ci poteva stare. Quando mi sono accorta che non era proprio così – riuscivo a leggere i suoi commentini, avrei avuto il permesso di rispondere agli aggiornamenti per soli amici che mi schizzavano accanto in tempi di elevata angoscia politica –, lì ho pensato che lui avesse chiuso con me, allora ho rispolverato i classici del mestiere: evitare con garbo, fermarsi a esaminare il dolore spento di un bersaglio mancato, farsi domande del tipo, cosa ci ho mai trovato in questo, per caso sta uscendo con qualcuno – lui vede mai quello che sto facendo adesso?

E poi è arrivata la realtà: certo che non lo vede. Daniel non mi rivolge la parola da quasi un anno, ma potrebbe sempre decidere che io merito di essere ascoltata, se e quando mi rimette in viva voce.

ARTICOLO n. 77 / 2024

COME CAPITA SPESSO NELLE FAMIGLIE

Pubblichiamo un estratto dalla nuova edizione di Invasioni controllate (Ponte alle Grazie) in libreria in questi giorni. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Ok, papà, inizia la tortura. La tua proverbiale riservatezza sta per subire un grave attentato. So che diffidi dell’idea di questa conversazione e del resto, in generale, sei una persona molto schiva. Ti definiresti una persona timida? E la timidezza, riveste per te un qualche tipo di interesse psicologico, o è un semplice impedimento, un fatto accidentale?

Entrambe le cose. Mi spiego: la timidezza, un certo eccesso di riservatezza sono indubbiamente un mio difetto. Nello stesso tempo, io provo sempre ad attuare una strategia di utilizzazione dei limiti… che in fondo è già un concetto junghiano, Jung amerebbe parlare di utilizzazione dell’«Ombra». Senti però, prima di andare avanti ti ricordo che ho ottantatré anni, e che la mia memoria non è più quella di una volta, posso fare qualche errore. Non c’è da fidarsi completamente.

Tu sei nato nel 1924, ad Ancona. Senza mai nominarla, Nanni Moretti ci ha ambientato un film, La stanza del figlio, dove lui – guarda le combinazioni! – interpreta molto bene la parte di uno psicologo, forse anche junghiano visto che non usa il lettino. Una volta, passeggiando per Ancona vicino al porto, ho notato su un palazzo una vecchia insegna di marmo, c’era scritto: MATERASSI TREVI. Era la ditta di tuo padre?

No, era una ditta di parenti dei nonni, d’altra parte tutti i Trevi di Ancona erano più o meno parenti. I nonni erano abbastanza ricchi, i tipici rappresentanti della borghesia ebraica di allora, gli anni a cavallo tra Otto e Novecento. Ma la loro sorte è cambiata radicalmente con la Prima Guerra Mondiale. Perché avevano molti affari in Ungheria. A questo proposito, ho un ricordo molto vivido dell’infanzia: ci lasciavano giocare con dei grandi contenitori – quelle casse di vimini che oggi non si fanno più – pieni fino all’orlo di corone ungheresi… che non valevano più nulla! Ci facevamo il gioco della banca, il gioco della posta… La nostra era quella che si dice una buona famiglia: tra gli avi c’è anche, a quanto pare, un famoso rabbino, un commentatore della Torah. Non è che ne sappia molto, però.

Tuo padre non era tanto legato alle tradizioni, visto che ha sposato una cristiana…

Sì, mia madre, tua nonna Bianca, in un certo senso era una perfetta mezzosangue, metà piemontese e metà meridionale. Ma non era ebrea.

Suo padre, mio nonno, veniva da Salerno, era un bravissimo ingegnere ferroviario, faceva cose difficili, come i valichi, le gallerie, le elettrificazioni delle linee più importanti. Aveva lavorato anche a un tratto particolarmente difficile della rete di allora, quello di Porretta, vicino Bologna. E così, andava con la moglie dove lo portava il lavoro. Figurati che mia madre è nata a Sulmona. La casa dei nonni era piena di ricordi, trofei, riconoscimenti…

Parli della casa a Diano d’Alba, nelle Langhe, dove hai passato parte della tua infanzia?

Sì, ci siamo trasferiti in Piemonte da Ancona con la mamma quando mio padre, Giacomo, è partito per il Kenya. Lui aveva preso in Svizzera una specie di laurea – ora non esiste più – in ingegneria tessile, ma era il tipo d’uomo che sapeva fare tutto, strade, case… devo riconoscere che era una persona geniale. Era andato in Kenya con un amico che aveva un’azienda agricola di migliaia e migliaia di ettari, e faceva tutto quello che può fare un ingegnere vero e proprio: abitazioni, strade, ponti. Tra l’altro l’azienda tessile di famiglia, come ti dicevo, non esisteva più, era fallita a causa della guerra. Mia madre si sentiva sola ad Ancona, dopo la partenza di mio padre, e così decise di tornare in Piemonte per stare vicina ai suoi, che tra l’altro iniziavano a invecchiare. Voleva proteggere ed essere protetta. Noi non stavamo proprio a Diano, ma ad Alba, dove io e le mie sorelle saremmo potuti andare al ginnasio e al liceo. A Diano, a casa dei nonni, ci andavamo anche a piedi, sono solo sei chilometri.

Tu sei il più piccolo, entrambe le zie sono nate prima di te…

Sì, abbiamo quattro anni di differenza uno dall’altro: la prima era Mariù, che è morta da poco, poi è venuta Vera, poi io.

Sei nato il 3 di aprile, sei un Ariete. Mi sembra però che, a differenza di molti junghiani, te ne sei sempre infischiato del tuo segno zodiacale…

In effetti, non gli ho mai dato peso. E pensa che Ernst Bernhard, il mio maestro, cercava sempre di stimolare il mio interesse per questa materia. Come molti tedeschi, credeva fermamente nell’astrologia. Aveva anche studiato un po’ il mio quadro astrale, come lo chiamano…

Anche Jung del resto credeva nell’influenza delle stelle…

Sì, lui ci era arrivato studiando il fenomeno della sincronicità. Comunque, mi è anche capitato di frequentare persone che si occupavano di astrologia, voglio dire professionalmente. Dei tratti del carattere che si attribuiscono per tradizione all’Ariete, mi sono riconosciuto particolarmente nella testardaggine, nella tenacia nel perseguire certi obiettivi.

In realtà, tu sei una persona molto metodica. Un ricordo che ho di quando ero piccolo è il rumore della macchina da scrivere che partiva puntualmente alle cinque di mattina…

…mi avrai odiato.

…no, anzi, era un rumore rassicurante, un invito a rigirarsi nel letto, il segnale che l’ora della scuola era ancora lontana.

Per me quelle ore intorno all’alba sono sempre state le più produttive, le uniche in un certo senso. Ancora oggi, mi alzo alle cinque e mi metto a lavorare per un’ora, un’ora e mezzo. Poi mi occupo di altro.  Torniamo ai tuoi genitori, se ti va. Da quello che ho intuìto, tuo padre era una persona dal carattere forte, quello che si definisce un volitivo. Giusto?

Sì, la definizione è esatta. Tieni presente che è anche stato molto sfortunato, come tutti coloro che, provenendo da una condizione agiata, a un certo punto si ritrovano praticamente in miseria. Ecco, lui ha reagito a testa bassa, facendosi la sua strada nella vita. Aveva questa incredibile capacità di fare tutto. Mi ricordo per esempio che, quando ero ancora molto piccolo, aveva costruito per un amico una bellissima villa vicino a Foligno. Andavamo spesso lì, a vedere il babbo lavorare. Per noi bambini, faceva dei presepi fantastici, con vere cascate d’acqua! E aveva una prodigiosa facilità per le lingue, che io non ho mai avuto e che lo ha indubbiamente aiutato. In Africa aveva imparato non solo lo swahili, ma anche molti dialetti locali, quelli che si parlavano in tutta la zona che va dal Kenya alla Somalia. Lo aiutava anche il suo carattere molto espansivo, era una persona dalle relazioni facili con il prossimo. Tu hai ereditato questo carattere molto più di me, come spesso capita nelle famiglie.

ARTICOLO n. 76 / 2024

L’IMPORTANZA DI ESSERE JOKER

Tutti odiano Joker: Folie à deux. Così leggo in giro.

Accolto in maniera tiepida alla Mostra del Cinema di Venezia, flop al botteghino negli Stati Uniti, e con un misero 33% di recensioni positive su Rotten Tomatoes, il film di Todd Philips è il sequel del più fortunato Joker, premiato invece a suo tempo da pubblico e critica. Quel Joker mostrava la genesi di un “villain”, attraverso il racconto di una porzione di vita di Arthur Fleck. Ex bambino abusato e ora nullità umana, aspirante comico in una Gotham City del 1981, più sudicia che dark e pronta a esser risucchiata da spirali di violenza. Il ragazzo vive in compagnia della madre e di seri problemi psicologici; vuole essere riconosciuto come artista e come essere umano, ma nessuno si accorge di lui. Questa frattura fra sé e il mondo viene colmata dall’assunzione di un’ombra, di un riflesso cattivo, e così l’alter ego Joker prende il sopravvento su Fleck, che da timido bullizzato diventa violento bullizzatore. Finirà in macello: durante un’ospitata in televisione, Joker uccide il presentatore in diretta. Verrà rinchiuso in un manicomio criminale, mentre la città, in preda a sommosse, chiama a gran voce cattivi maestri da prendere a modello.

È da qui che Folie à deux ricomincia: Fleck è in carcere, anestetizzato dai farmaci e in attesa di un processo. In un corso di canto per detenuti a cui partecipa conosce Harley, una bionda forse più disturbata di lui. Si capisce presto che, più che da Fleck, è attratta dal Joker assopito dentro di lui. Insomma: nasce l’amore, ma nascendo risveglia il male.

La sceneggiatura, opera dello stesso Haynes e di Scott Silver, così come quella del precedente Joker ha il merito di ricreare un mondo di finzione in cui l’elemento supereroistico è compresso fino quasi a scomparire. Il cliché è ridotto a pretesto, a mero ingranaggio di accensione narrativa, a scusa buona per far dimenticare il mondo DC Comics. È ormai lontanissimo il carrozzone grottesco dei Batman di Tim Burton, così come è ampiamente superato il realismo noir di Nolan. Qui non ci sono costumi, armi speciali, lattice e gommapiuma. Allucinata forma di courtroom dramaFolie à deux non enfatizza l’azione tipica del genere: scarseggiano combattimenti e inseguimenti. C’è un solo momento in cui la macchina da presa “esce allo scoperto”, sfondando gli interni (ovvero carcere, tribunale, e studios “mentali” di Fleck), ed è la scena in cui Fleck scappa da un taxi e comincia a correre in mezzo al traffico, ripreso in campo largo frontale, mentre schiva automobili, ambulanze e ostacoli in movimento. Ecco, qui ci si può commuovere se si riconosce l’atto poetico del contravvenire a una regola, fatto con la misura e l’eleganza di un balletto o di un musical. 

Il musical, per l’appunto. Leggo commenti in rete del tipo “non andate a vederlo, non succede niente, parla solo del processo”, e “cantano di continuo, ripetendo le stesse canzoni”, oppure “è un vero e proprio musical” (in senso dispregiativo). Oltre lo sberleffo di prendere a prestito un personaggio dai fumetti e permettersi di scrollargli di dosso tutto il “fumettabile”, Haynes alza la posta e aggiunge carne al fuoco. Ha a disposizione un’attrice che è anche cantante (Lady Gaga, bravissima, anche soltanto nel non sfigurare accanto a Joaquin Phoenix) e ne sfrutta le doti canore. Ma il film non è un musical! O perlomeno non lo è classicamente. I personaggi non dialogano cantando, il modo-canzone rimane all’interno del racconto su un piano di realtà che è esclusivamente quello del sogno, quello della rappresentazione soggettiva del mondo da parte di un personaggio, ovvero il disturbato Fleck. Fleck vede la realtà – sometimes – in forma di musical, e il film ci fa mostra di questo: un uomo la cui mente “vede e pensa in modalità musical”.

Cosa non piace di Folie à deux, dunque? Il tradimento di un genere? Ci si aspettava un action ed è uscito un film d’autore, una forma informe in cui si canta troppo? Potrebbe darsi, anche se già il precedente film, con i suoi rimandi a Re per una notte e Taxi Driver, la diceva già abbastanza chiara sul dove si volesse andare stilisticamente a parare. Non piace Joaquin Phoenix, la cui interpretazione travalica, trascende o annulla quasi il film? Non credo. Sarebbe come criticare all’Everest l’altezza e ai diamanti il troppo splendore. È più probabile che dia fastidio in giro il fatto che Folie ò deux, più del suo predecessore, intendo dire più didascalicamente del suo predecessore, è un film che quasi si autodichiara chiave di decodifica del presente.

Lo è, dal mio punto di vista, a tutti gli effetti. Potrei aggiungere che è addirittura un film necessario per capire l’oggi. Si può effettivamente non essere interessati a questa chiave di lettura e ostinarsi invece a cercare qui e chiedere al genere il distacco, l’ironia, l’evasione. Perfino il divertissement o il postmoderno. “Abbiamo la guerra, il riscaldamento climatico e i ragazzi che massacrano le famiglie, lasciate che Hollywood faccia Hollywood, e i supereroi combattano senza che nessuna scheggia ci arrivi in casa. Lasciateci il piacere del nostro privato e sicuro vivere nerd”. Mi pare di leggere in questo, e mi pare di leggere in generale in giro da qualche tempo i segni di un’insofferenza, di un’intolleranza generale delle persone, nei confronti di qualsiasi fatica interpretativa, e più in generale dell’analisi dei meccanismi di produzione del senso.

Come scrive Giulio Sangiorgio su FilmTV (uno dei pochi che difende), Folie à deux è un’opera «mainstream radicale, situazionismo grand public». Ha ragione. È un film che mostra l’assassino in un tempo in cui l’assassino, quello vero, non lo vuole più conoscere nessuno. È un’opera che senza paura rivela un tratto somatico fondamentale dell’Età Spettacolarizzata: ovvero come tutti noi ci aggrappiamo oramai allo spettacolo come atto disperato. Agiamo solo tramite atti spettacolari, pensandoli come gli unici oramai possibili. Piuttosto che aprirci la testa e guardare dentro, ma anche piuttosto che indagare fuori, colmiamo con l’agire spettacolare il gap fra reale e immaginario. Per poter continuare a vivere, indossiamo una maschera dalla risata spastica.

Tanti anni fa ho avuto la fortuna di svolgere il servizio civile alla ASL di Siena. Fra le varie mansioni che dovevo svolgere nell’arco della mia giornata lavorativa, c’era quella di occuparmi di Federico. Federico faceva il secondo anno in un Istituto Tecnico ed era cieco e paralizzato alle gambe. La mia mansione era quella di andare a scuola all’ora di ricreazione e portarlo in bagno a fare i suoi bisogni. Arrivavo a scuola puntuale, e varcavo la porta della classe Terza D un secondo dopo il drin lungo della campanella; venivo accolto dal boato degli studenti, dal frastuono delle sedie spostate, dalla voglia di uscire in corridoio di tutti.

Salutavo la professoressa, schivavo le spinte di qualcuno e andavo al banco da Federico, che era l’unico, ovviamente, a essere rimasto a sedere. Lui sapeva che sarei arrivato, e appena suonava la campanella cominciava a ridere freneticamente, ad agitarsi. Un filo di bava gli usciva dalla bocca. La professoressa lo raggiungeva al banco e ogni volta, con una carezza sulla testa, cercava di calmarlo. “È arrivato l’obiettore”, gli diceva. L’obiettore, senza alcuna esperienza di tipo medico o infermieristico, e senza avere fatto alcun corso di preparazione, lo sollevava di peso e lo trascinava al bagno, attraversando un corridoio lungo una ventina di metri. L’obiettore in piedi dietro, il corpo di Federico abbracciato davanti, come un manichino appoggiato al petto. L’obiettore spingeva le proprie gambe in avanti e quelle di Federico andavano avanti con lui. Arrancavano, con fatica, passando in mezzo agli altri studenti in pausa, che facevano varco per lasciarli passare. Una piccola Via Crucis quotidiana.

Arrivati al bagno, gli tiravo giù pantaloni e mutande, lo piazzavo con non so quale forza sulla tazza del cesso e aspettavo. Poi lo rivestivo e facevo il viaggio di ritorno nella solita modalità di trascinamento di peso morto: solito lunghissimo corridoio all’indietro, e rientro in classe. Lo posizionavo sulla seggiola, e saluti. Durante questi per me disperati tragitti Federico voleva chiacchierare, era esaltato, felice come una Pasqua di parlare con me. Io respiravo male per la fatica, quindi tendevo a star zitto e lasciavo parlare lui, rispondendo con mozziconi di parole. Federico durante i trascinamenti mi parlava di voler essere Robbie Williams. Il cantante pop, in quel momento molto famoso e adorato dal pubblico. Soprattutto da quello femminile. Perché vuoi essere Robbie Williams, gli chiedevo. Perché è bello, ha donne bellissime, perché è amato. Mi raccontava che stava scrivendo dei testi per delle canzoni di un suo proprio disco personale, che anche lui un giorno avrebbe cantato. Gli chiesi un giorno il nome di questo fantomatico disco e lui senza pensarci un attimo rispose “Millennium”. Millennium era esattamente il nome del disco di Robbie Williams uscito in quel momento.

Federico con me si trasformava in Robbie. La sua ricreazione era essere un altro. La professoressa con cui ogni tanto ho scambiato qualche parola e la tizia con cui mi rapportavo alla ASL mi avevano detto che i genitori di Federico avevano deciso volontariamente di non far usare la sedia a rotelle al figlio. Perché non si sentisse discriminato, perché fosse uguale agli altri ragazzi. Chissà cosa avrà pensato lui, ogni volta che si toglieva la maschera da Spettacolare Robbie. Non potrò mai saperlo, perché con me ce l’aveva sempre su.

Una volta, durante un trascinamento in corridoio, si agitava particolarmente, parlando di Millennium; io ho perso l’equilibrio e siamo caduti a terra. Per evitare che si facesse male ho sbattuto prima io entrambe le ginocchia sul pavimento. Ho bestemmiato per il dolore, ma credo di aver attutito a lui l’impatto col granito. Rideva, me lo ricordo, mi pareva felice. Anche se credo capisse che non c’era la carrozzella soltanto perché ero io la sua carrozzella di carne e ossa, anche se credo capisse bene di non essere come gli altri, in quel momento era un supereroe ed era certo che Millennium sarebbe uscito presto e che prima o poi le donne le avrebbe trombate tutte lui.

ARTICOLO n. 75 / 2024

UN SEMPLICE NOME COME NOBEL DELL’ECONOMIA 2024

Anche quest’anno il premio Nobel per l’Economia a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson può essere inteso come un’allusione. Fuori da quella disciplinata e inflessibile dottrina economica neoliberale – il mainstrean che detta le regole alla nostra vita quotidiana – c’è un’alternativa. Ma sempre sotto la forma di un’allusione, appunto. Flatus vocis, disse Roscellino di Compiègne, il grande teorico del nominalismo che definì “soffio della voce” quei concetti universali che non hanno una realtà oggettiva e sono semplici nomi. Solo un nome è considerato sulla scena globale l’alternativa ai dogmi del “libero mercato” governato dalla “mano invisibile” o a quell’altro della massimizzazione del profitto da parte di individui egoisti. Eppure esiste. 

Il nome, in realtà, condensa fior di studi critici tra i ricercatori economici in tutto il mondo che hanno maturato negli ultimi decenni la chiara consapevolezza di quella finzione che è la società governata dal mercato. Il lavoro di Acemoglu, Johnson e Robinson – nella lettura che ho potuto dare dei loro libri e a partire dallo sviluppo delle riflessioni quasi quotidiane di Acemoglu – si colloca sul limite tra un flatus vocis dell’alternativa e le posizioni più avanzate nell’economia mainstream.

Dal punto di vista di una storia del presente questa è una posizione interessante. Acemoglu, Johnson e Robinson riflettono a partire dall’impresentabilità dei vecchi dogmi che in realtà sono vivissimi nelle politiche economiche di tutti i paesi. Basti pensare a cosa sta accadendo in Francia o, in maniera diversa, in Italia che stanno adottando i dogmi dell’austerità nelle loro leggi di bilancio.

Gli autori, allo stesso tempo, hanno maturato una serie di indicazioni politiche che potrebbero essere definite di ordine social-liberale progressista, una specie di speranza nella socialdemocrazia in un tempo in cui la socialdemocrazia è scomparsa. E, con essa, la stessa idea di alternativa a un neoliberalismo autoritario che sta divorando la democrazia e ogni possibile sbocco in senso contrario, cioè socialista, per non dire comunista. Questi sì, puri nomi che potrebbero avere un altro avvenire. Anche se spesso sono considerati discorsi privi di consistenza o promesse che non hanno seguito. L’opera di Acemoglu, Johnson e Robinson si colloca in quella zona di indistinzione tra la realtà e l’astrazione di un nome che contiene mondi.

I tre economisti e politologi – uno dei quali è turco e americano, l’altro britannico, ma tutti e tre hanno trascorso la loro intera carriera negli Stati Uniti – sono partiti da una delle domande più classiche dell’economia liberale: perché alcune nazioni registrano una crescita economica più forte di altre? Domanda che è stata ripetuta fin dagli albori dell’economia intesa come “scienza”, a partire dal suo padre fondatore, Adam Smith. Di questo parla il suo libro più famoso sulle indagini sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, pubblicato nel 1776.

La prima risposta è stata data 23 anni fa in un articolo che è diventato uno dei più citati della letteratura economica mondiale: “The Colonial Origins of Comparative Development” pubblicato dall’American Economic Review nel 2001. Storici dell’economia, Acemoglu, Johnson e Robinson hanno fatto ricorso ai numeri per confrontare le tabelle di mortalità dei coloni bianchi in diverse colonie con i tassi di crescita degli Stati nati da queste colonie. La conclusione è questa: dove i coloni erano in grado di popolare ampi territori grazie a un ambiente sanitario meno duro, hanno creato istituzioni capaci di garantire i diritti – in particolare i diritti di proprietà – e di stimolare il progresso tecnico ed economico. Mentre dove l’ambiente era malsano, si limitavano a schiavizzare la manodopera locale o a importarla per sfruttare le risorse locali, agricole o minerarie, al fine di trarne profitto. Il problema di fondo è il colonialismo. Può forse svolgere una funzione di “civilizzazione” quando crea “buone” istituzioni? Il punto è delicato, evidentemente.

Il problema è stato sfiorato in un articolo, “Reversal of Fortune”, pubblicato nel 2002 sul  Quarterly Journal of Economics, dove gli autori hanno dimostrato che le istituzioni nate dallo schiavismo negli Stati Uniti meridionali alla metà del XIX secolo, quelle che avrebbero garantito uno “sviluppo”, sono diventate un gigantesco problema per la democrazia nel momento in cui il paese procedeva nella sua rivoluzione industriale. 

La politica in Acemoglu, Johnson e Robinson ha il nome di “istituzioni”. Se una politica garantisce la regolazione “istituzionale” dell’innovazione tecnologica, bisogna sempre vedere se i frutti di tale innovazione restano nelle mani di un’élite dominante o viene messa al servizio del maggior numero di persone. Da questo si capisce se una democrazia è più o meno funzionante oppure ha bisogno di essere democratizzata. E oggi la democrazia ne ha un drammatico bisogno. Deve sottrarsi dalla cattura del sistema finanziario per evitare di continuare a subire le crisi che esso produce. Sta qui l’intenzione democratica di Acemoglu, Johnson e Robinson che è stata premiata con il Nobel. Si direbbe: poca roba. Eppure, a chi ha una vaga idea del conformismo feroce che domina l’opinione pubblica oggi, sembra già tanto. Del resto, non è la prima volta che si danno riconoscimenti a questa idea. Cioè al nome di una necessaria trasformazione, a condizione che resti una chimera.

Non diversamente da altri economisti noti, per esempio Thomas Piketty, anche Acemoglu e Johnson hanno scritto libri per il grande pubblico. Ad esempio: Potere e progresso. La nostra lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità (Il Saggiatore). Qui il posto della storia dell’economia è molto importante, ed è anche chiaro il ruolo di ponte elaborato dagli autori per unire l’economia dominante a una scuola “istituzionalista” che ha avuto un certo ruolo sia negli Stati Uniti che in Francia, nell’economia e nella sociologia. Per chi ha una passione per questi argomenti in questo tipo di libri possiamo trovare sia Thorstein Veblen che Robert Boyer e Michel Aglietta. Acemoglu, Johnson e Robinson hanno usato i metodi econometrici per ragionare sulla storia e sulla possibilità di regolare diversamente il capitalismo. È un tentativo di individuare un contrappeso a quella tendenza, apparentemente inarrestabile, di tradurre la vita in modelli matematici che non tengono conto della storia e delle politiche economiche.

Acemoglu, Johnson e Robinson sono stati criticati perché credono in una filosofia della storia secondo la quale la ricchezza è assicurata dall’istituzionalizzazione dei diritti di proprietà, prerogativa della cultura giuridica occidentale.Sulla base di questo liberalismo economico, il cui capolavoro ideologico è stato quello di considerare la proprietà come un diritto fondamentale della persona (lo ha scritto Luigi Ferrajoli, che è un liberale di caratura) Acemoglu, Johnson e Robinson sembrano credere all’esistenza di “buone istituzioni” che garantiscono di per sé il progresso. A condizione che rispettino la legge fondamentale del liberalismo economico. 

Se è questa la base teorica di un lavoro storico di notevole interesse, allora è molto interessante il dialogo tra l’economia marxista italiana di Emiliano Brancaccio e Acemoglu. Il loro tema è se esista o meno una legge generale del capitalismo oggi. Per Brancaccio sì, per Acemoglu no. In realtà, come abbiamo visto, una legge esiste. E va trovata nei trascendentali che guidano quella formidabile macchina teorica – e non solo produttiva e finanziaria – che è il capitalismo. Per una filosofia della storia ispirata al liberalismo economico una legge generale non esiste perché è già determinata in maniera trascendentale. Se il diritto di proprietà è una legge naturale e cosmica, non ha bisogno di essere nominata. Essa esiste e basta.

Nelle argomentazioni di Acemoglu, teorico fine, si comprende l’esistenza di un conflitto a un livello alto, quello marxiano. Per Marx infatti la definizione di una tendenza generale del capitalismo non è una legge eterna, bensì la determinazione storica di un avvenire che nasce dalla critica del capitalismo e del suo dogma: l’esistenza in natura di una proprietà considerata diritto fondamentale dell’uomo. Se fosse tale, allora arriveremmo a giustificare la diseguaglianza tra gli esseri umani, e tra l’uomo e la natura, per esempio. Invece, se parliamo di politica – che non è solo un nome, bensì una prassi – questa idea è inaccettabile. 

ARTICOLO n. 74 / 2024

LA NUOVA SOCIETÀ DEGLI APOTI

Il 23 settembre scorso, Giorgia Meloni ha ritirato il Global Citizen Award 2024 dell’Atlantic Council. Il premio, consegnatole da Elon Musk, le sarebbe stato conferito per la sua – cito – attività pionieristica come prima premier italiana, per il suo rapporto con UE e Nato e per la presidenza dello scorso G7.

Meloni, nel ritirare il premio, ha tenuto un discorso di ringraziamento in cui ha citato tre suoi grandi miti: Michael Jackson, Ronald Reagan e Giuseppe Prezzolini.

Ora, se i primi sono conosciuti al grande pubblico (uno è stato uno tra i peggiori presidenti degli Stati Uniti della storia, l’altro non ha bisogno di introduzioni) il terzo non è un nome che si sente con la stessa frequenza degli altri due.

Prezzolini è stato un intellettuale, giornalista, editore, scrittore italiano, fondatore de La Voce e maestro di molti noti nomi del giornalismo e della cultura nostrana (da Gobetti, che poi ne prenderà le distanze, a Montanelli).

Nella sua lunghissima vita – muore centenario – Prezzolini ha sviluppato diverse linee di pensiero, care soprattutto al giornalismo a noi contemporaneo (la ricerca della verità priva di pregiudizio era per Prezzolini il fine ultimo del giornalista). Ma oltre a questo riconoscimento, Prezzolini è divenuto anche un intellettuale di riferimento per il mondo conservatore italiano.

La vita di Prezzolini fu ricca di cambi di rotta, ma dall’avvento del fascismo le sue opinioni sul ruolo degli intellettuali si fecero man mano più scettiche. Nel 1921, a un mese dalla marcia su Roma, Prezzolini scrisse una lettera a La Rivoluzione Liberale, giornale fondato dall’allora suo amico Gobetti.

Nella lunga riflessione a mezzo stampa, Prezzolini teorizzò che la figura dell’intellettuale politicizzato fosse ormai desueta, asservita involontariamente a un gioco di potere viziato nelle fondamenta. La proposta che espresse in questa sua lettera fu quella di costituire, con altri intellettuali vicini a La Rivoluzione Liberale, una Società degli apoti, ovvero un sodalizio di individui super partes, disillusi dalla politica contemporanea e liberi dalle logiche di fazione.

Per Prezzolini, la società degli apoti doveva «far risaltare i valori, per salvare sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri». Insomma, un ritorno al passato, alla conservazione delle tradizioni, all’esaltazione della territorialità in contrapposizione al progresso, visto come disfattista, e alle forze politiche, percepite come corrotte, delle quali non c’era da fidarsi.

Prezzolini rinnegava il “pensiero dominante” – termine amato, abusato e ossessivamente ripetuto da ogni rigurgito alt right occidentale – verso il quale era apertamente oppositore e scettico. 

L’unico pensiero di cui non fu oppositore ma solamente critico fu, manco a dirlo, quello fascista. Fu sì amico di Mussolini, ma fu anche un intellettuale che decise di lasciare l’Italia fascista per trasferirsi negli Stati Uniti. Non si oppose apertamente al ventennio e fece – breve – ritorno in Italia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, per teorizzare le sue idee sul conservatorismo. Abbandonò definitivamente l’Italia per la Svizzera, dove morì nel 1982.

Nel nostro contemporaneo, molti esponenti dell’attuale governo sono stati affascinati da Prezzolini. Il primo è l’ormai fu Ministro della cultura, Sangiuliano, che ha addirittura scritto un libro su di lui e sul suo pensiero anarchico-conservatore. La prefazione è a cura di Vittorio Feltri. La dedica è a Giorgia Meloni.

Ed è proprio Meloni che, ritirando il Global Citizen Award, ha citato di nuovo il pilastro del conservatorismo e una sua celebre frase, ovvero «chi sa conservare non ha paura del futuro, perché ha imparato le lezioni del passato».

Ho provato a pensare spesso, in queste due settimane, al perché Prezzolini piaccia così tanto alla nostra nuova ultra-destra.

Per quanto fosse – passatemi il termine – un cerchiobottista, Prezzolini non ha mai esitato nel criticare ogni tipo di potere, anche quello del suo amico Mussolini. E per quanto fosse conservatore, Prezzolini non ha mai avuto fiducia in alcuna forma di pensiero politico post-fascista.

Eppure un grosso punto di contatto tra l’ideologia alt right nostrana (e direi anche occidentale) e il pensiero anarco-conservatore di Prezzolini c’è. E sta tutto nella teoria della compagnia degli apoti.

Gli apoti sono scettici, non credono ai soliti furbetti di partito, sono dubbiosi, malfidati nei confronti del potere e del progressismo liberale o socialista. Il passato è un elemento rassicurante mentre l’istituzione democratica viene percepita come corrotta, maligna, malfidata.

Se questa descrizione vi rammenta un certo tipo di elettorato occidentale (dagli Stati Uniti all’Ungheria, passando per l’Italia e anche le ultra-destre francesi, tedesche e spagnole), avete fatto centro.

La visione anarco-conservatrice di Prezzolini si presta a una rilettura perfetta per i movimenti far right, che fanno leva da un lato su un elettorato scettico e nostalgico, dall’altro su figure politiche che hanno ben poco dell’istituzionale e del democratico.

Giorgia Meloni viene definita underdog, qualcuno di lontano dai circuiti di partito (il che è falso, vista la sua militanza ventennale nei partiti satellite di matrice fascista che a oggi supportano il suo Fratelli d’Italia), qualcuno che non si mischia con le solite dinamiche di palazzo. Trump è un altro perfetto esempio di questa erronea percezione: viene dall’imprenditoria, dallo show business, da ambienti che hanno a che fare con un altro tipo di potere, più libertino e libertario che istituzionale. Gli spagnoli di Vox hanno fatto del negazionismo (climatico e scientifico) una bandiera, idem per Bolsonaro in Brasile e Milei in Argentina, ma anche Orbán in Ungheria. Insomma, le grandi forze dell’Occidente del globo hanno preso una nettissima svolta a destra, godendo della fiducia di un elettorato scettico, stanco, ossessionato dal “pensiero dominante” (che, al pari della “teoria gender”, non esiste, ed è bene ricordarlo di tanto in tanto). Non solo: l’alt right occidentale ha goduto moltissimo di altre sottoculture di apoti contemporanei, come i negazionisti storici (in primis dell’Olocausto), quelli climatici, gli incel, i complottisti (da QAnon a quelli sul Covid19), i movimenti omofobi e antiprogressisti, i puristi della razza bianca, le comunità digitali di 4chan, Reddit e non ultimo l’X di Elon Musk.

L’elettorato alt right e far right è stato intercettato perfettamente dalle nuove linee politiche di ultra-destra, che hanno saputo vendersi come semi anarchiche o, in alcuni casi, apertamente e completamente nemiche del potere democratico: il tentato colpo di Stato avviato da Trump il 6 gennaio 2021 a Capitol Hill ne è un perfetto esempio. Idem l’autoritarismo anticostituzionalista ungherese. 

Facendo leva sulla ricerca spasmodica della verità anche quando questa è lampante e plateale, le ultra-destre occidentali hanno preso la fiducia degli sfiduciati per eccellenza, ovvero una congregazione di apoti che arriva da decenni difficili di crisi delle democrazie occidentali e della borghesia stessa. 

Importare dunque un’ideologia conservatrice è diventato facile: se al tempo di Prezzolini gli intellettuali socialisti e liberali cercavano di fare muro alle derive fasciste, oggi perfino la classe intellettuale è in crisi e fa fatica a ritrovare il coraggio che dovrebbe contraddistinguerla.

In questo panorama desolato, in cui gli intellettuali si vendono spesso al miglior offerente e depongono le armi della radicalizzazione a favore della visibilità su ogni tipo di media esistente, il pensiero retorico del “si stava meglio quando si stava peggio” è diventato centrale in tutto l’Occidente.

E in questa affermazione del pensiero di destra, la riscoperta degli intellettuali conservatori è necessaria, per conferire quella parvenza di autorevolezza e cultura che da sempre manca a ogni forma di movimento far right.

Prezzolini dunque, parzialmente compreso e ampiamente revisionato, è diventato un teorico di riferimento per Meloni e compagnia cantante ma soprattutto per il suo elettorato.

Così come gli intellettuali etnonazionalisti in Francia e quelli neoconservatori negli Stati Uniti: le ultra-destre stanno diventando teoriche, riprendendo terreno nella cultura, spingendosi verso la celebrazione di una società rabbiosa e diffidente, inascoltata per troppo tempo e che, abbandonata dalle sinistre liberali occidentali, si è crogiolata nella diffidenza e nell’odio.

Da apoti sono divenuti dunque neofascisti, convinti di poter distruggere ciò che reputano nemico ovvero lo stato democratico e la sua naturale evoluzione progressista, in favore di un moto reazionario che si muove spedito verso una chiusura anti-illuminista.

La sfiducia verso la democraticità è il cardine di questi nuovi apoti, coccolati dalle nuove destre e abbandonati dalla classe intellettuale progressista, sempre meno adatta a contrastare i conservatorismi.

Poco sopra vi raccontavo di come Prezzolini teorizzò la società degli apoti al suo giovane collega Gobetti tramite una lettera pubblicata sulla rivista fondata da quest’ultimo. 

La lettera di Prezzolini ricevette una precisa, forte e appassionata risposta da parte del giovane intellettuale antifascista.

E nelle parole di Gobetti io ritrovo una disarmante attualità, una linea morale ed etica assolutamente a fuoco e a noi contemporanea, che sa perfettamente disinnescare gli slanci conservatori e ignavi e ricorda quasi le parole – scritte venticinque anni più tardi – di Italo Calvino ne Il sentiero dei nidi di ragno.

Mi sembra doveroso dunque aggiungervele qui, senza alterazione alcuna da parte mia, affinché possiate farne tesoro, ricordandovi che quella della “compagnia della morte” teorizzata da Gobetti è ancora oggi la più efficace spiegazione della pericolosità di chi non sa prendere una posizione intellettuale, anche e soprattutto davanti al fascismo.«Mentre assistiamo alle più vigliacche dedizioni degli intellettuali ai fasci noi non ci siamo mai sentiti tanto ferocemente nemici di questa intellettualità delinquente, di questa classe bastarda, bollata così definitivamente da Marx e da Sorel e in Russia dai bolscevichi. Sapremo mostrare come ci distinguiamo da questi parassiti anche a costo di ricorrere alla tattica anarchica di insurrezionismo armato, se pare il fascismo non si risolverà allegramente in una palingenesi ottimistica di democrazia e di riformismo. Di fronte a un fascismo che con l’abolizione della libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della nostra azione formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma la compagnia della morte. Non per fare la rivoluzione, ma per difendere la rivoluzione». Pietro Gobetti.

ARTICOLO n. 73 / 2024

HAN KANG, LA RIVOLUZIONE DI UNA LETTERATURA MINORE

La Premio Nobel per la letteratura 2024

Han Kang, prima scrittrice (sud) coreana e diciottesima donna a vincere il premio Nobel per la letteratura: queste le principali informazioni fornite dalla maggior parte delle testate giornalistiche che hanno riferito la notizia. Generalmente, l’attribuzione di tali onorificenze è trasferita su un’eccezionalità legata all’appartenenza a qualche tipo di minoranza di genere, etnica o linguistica, quantomeno percepita.

In realtà, l’autrice de La vegetariana rappresenta un paradosso interessante nella sua esibita volontà di apertura all’ibridazione, a una letteratura intesa come tensione e riflessione continua sulla lingua e sulla comunicazione. Come la protagonista de La vegetariana, suo romanzo d’esordio, Kang accoglie la lezione di Bartleby alla perfezione inoltrandosi nel più vasto territorio della “world literature” già auspicata da Goethe e che, come afferma Franco Moretti, rappresenta ancora oggi una sfida, un’ipotesi.

Questa provocazione si concretizza in una prosa definita dall’accademia svedese “poetica” ma che potrebbe essere piuttosto intesa come sperimentale nel suo soppesare parola per parola, nel procedere per sottrazione fino alla rarefazione con l’obiettivo di raggiungere lo scheletro di ciò che è umano e della letteratura come narrazione basilare di questa umanità. Non a caso i pareri della critica di mestiere e dei lettori più o meno forti non sono unanimi, a conferma anche dell’intento politico e sovversivo perseguito dalla prosa pacata – ma editorialmente ben diffusa – di Kang. Il lettore, infatti, è spesso disatteso nelle sue aspettative, posto di fronte a una continua deterritorializzazione.

Kang si sottrae apertamente al piedistallo della “periferia” instradandosi, invece, in quella che Deleuze e Guattari hanno definito letteratura minore che “non è la letteratura di una lingua minore ma quella che una minoranza fa di una lingua maggiore”. Quando, infatti, nel 2016 Kang vince il Man Booker International Prize per La vegetariana (2007, uscito in Italia per i tipi di Adelphi nel 2016), condividendo il premio con Deborah Smith, la sua traduttrice britannica, le polemiche si concentrarono soprattutto su questioni di leggibilità e di identità culturale nei confronti della lingua originale. Secondo il parere dei detrattori, il successo di Kang in occidente dipenderebbe da una traduzione poco accurata del suo stile diafano, profondamente radicato nella tradizione letteraria coreana. Ma il tradimento della lingua madre, inteso etimologicamente come trasmettere, consegnare, risponde in modo intrinseco alla necessità di raggiungere un destinatario. La risposta a questa diatriba è già contenuta ne L’ora di greco del 2011 (pubblicato in Italia soltanto nel 2023) dove la deterritorializzazione linguistica si fa esplicita, regressiva, sottraendosi alla violenza della Storia intesa anche come connotazione etnica e culturale.

In quest’ultimo romanzo pubblicato in Italia, si fa spazio una sorta di trattazione teorica sulla lingua che proprio nel suo evolversi e diventare veicolo d’uso necessariamente si corrompe, perde le sue strutture rigide e preziose volgendo al degrado. Si tratta, tuttavia, di un degrado necessario affinché essa si plasmi trasformandosi, così, in strumento di contatto: «Dal momento in cui una lingua arriva al suo apogeo, la sua evoluzione segue un tracciato più lento e graduale, via via si modifica e diventa più facile da usare. In un certo senso declina, si contamina, ma da un altro punto di vista potremmo considerarlo un progresso. Le odierne lingue europee sono il prodotto di una lunghissima trasformazione che le ha rese meno rigide, meno accurate, meno complesse» (L’ora di greco, p. 31).

La corruzione della lingua d’uso – e di conseguenza e per esteso della comunicazione anche letteraria – rende costante in Kang l’impossibilità di un significato univoco, certo, provocando in chi legge un profondo spaesamento delle proprie possibilità interpretative. La comprensione dei fatti e dei comportamenti dei personaggi rimane sospesa, aleggia sulla narrazione a volte in modo quasi sfiancante. Il senso sembra puntualmente riconducibile a un significante che risponde a una logica “altra”, alternativa a un processo di indagine razionale. Da qui il ricorso alla polifonia, alla parcellizzazione dei punti di vista come accade proverbialmente anche in un romanzo più concreto come Atti umani (2016). Qui la ricostruzione storica non si fa indagine né recriminazione ma narrazione, al tempo stesso veritiera e verosimile, della rivolta di Gwangju del 1980. All’epoca dei fatti Kang aveva nove anni e nella sua revisione a posteriori non viene meno all’ossessione di riportare tutto a misura d’uomo anche quando la Storia appare come un gigante che travolge minuscole esistenze.

A quel punto, ogni dettaglio esistenziale viene per l’appunto ingigantito mischiandosi a una paratattica narrazione degli eventi, in un doloroso alternarsi di immagini interne ed esterne ai personaggi. Qualsiasi distinzione tra memoria storica e memoria individuale si confonde e viene in qualche modo negata. Nella definizione di letteratura minore fornita da Deleuze e Guattari, ogni gesto individuale si fa politico e collettivo. In Atti umani ogni singola vita narrata o solo accennata sembra significativamente unirsi a un coro che urla il proprio dolore in una bolla insonorizzata. Il ricordo si fa strada come un linguaggio possibile così come quello onirico, altrettanto significativo ne La vegetariana, dove il sovvertimento della logica simmetrica del sogno si fa strada, smantellando il senso delle azioni della vita quotidiana della protagonista e delle persone che la circondano, come una sorta di epidemia: «Forse a un certo punto, Yeong-hye ha semplicemente lasciato cadere l’esile filo che la teneva legata alla vita di ogni giorno! (La vegetariana, p.163).

Il rifiuto di mangiare carne e poi di mangiare del tutto rappresentano l’atto più estremo del riconoscimento del dolore che è necessariamente anche fisico: «La vita è così strana, pensa dopo aver smesso di ridere. Le persone, anche dopo che gli sono successe certe cose, non importa quanto terribili, continuano comunque a mangiare e a bere, ad andare al bagno e a lavarsi – in altre parole, a vivere. E a volte ridono perfino di gusto. E probabilmente hanno questi stessi pensieri, e quando succede si ricordano tutta la tristezza che erano riuscite per breve tempo a dimenticare» (La vegetariana, p. 164).

Come il digiunatore di Kafka, la vegetariana di Kang rimanda alla necessità di tornare all’assoluto umano, alla necessità di una scrittura così magra da far intimidire il superfluo del nostro tempo. La deterritorializzazione si fa quindi defunzionalizzazione delle azioni fisiologiche abituali, si concretizza nel rifiuto del cibo e della parola, ma si rianima nel desiderio di una compenetrazione sempre più profonda con la natura, o meglio, con una condizione vegetale, precosciente, in cui il linguaggio diventa così essenziale da trasformare mittente e destinatario in una diade. I nomi propri, infatti, sfumano spesso insieme ai volti, come sovrastrutture accessorie della conoscenza di sé, degli altri e di un destino comune che azzera sembianze e connotati.Probabilmente in questo svanire del tu e dell’io si realizza la prosa “poetica” di Kang, nella capacità di far penetrare il potenziale mimetico della poesia all’interno della plurivocità romanzesca, realizzando così la rivoluzione possibile di un’orgogliosa letteratura minore.

ARTICOLO n. 72 / 2024

TRAP E RAP: LA TRASGRESSIONE SVELA MONDI INVISIBILI

intervista di isabella de Silvestro

Don Claudio Burgio è nato a Milano e di Milano ha il fare pragmatico e solerte. Ordinato sacerdote nel 1996 dal cardinale Carlo Maria Martini, quattro anni dopo fonda Kayròs – dal greco “momento opportuno” – un’associazione che accoglie in comunità residenziali ragazzi tra i 14 e i 25 anni con procedimenti penali a proprio carico, accompagnandoli, come si dice, al reinserimento sociale, ovvero guidandoli nell’elaborazione del dolore pregresso e nella costruzione di una forma futura che sia solida e responsabile del rispetto di sé e degli altri. Da anni Don Burgio è anche il cappellano dell’istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano. Nel 2010 ha pubblicato per le Edizioni Paoline Non esistono ragazzi cattivi, testimonianza del suo operato tra il carcere e la comunità. Abbiamo parlato del mondo dei ragazzi e di quello degli adulti, di come si costruisce un dialogo fertile attraverso la musica, con curiosità, ascolto e senza moralismi.

Isabella De Silvestro: Come si è avvicinato al mondo del carcere e in particolare a quello del carcere minorile?

Don Claudio Burgio: Sono prete dal 1996 e sono stato mandato subito in una parrocchia periferica di Milano. I ragazzi che incontravo presentavano tante fragilità, sia nel rapporto con i genitori che a causa di dure esperienze di vita. Tra questi c’erano tantissimi minori stranieri non accompagnati. Da lì è nata spontaneamente l’idea di accogliere questi ragazzi in piccole case e si è avviata così l’esperienza di Kayròs. Nel tempo il progetto si è ampliato e di conseguenza il Cardinal Martini, che mi ha ordinato prete, mi ha proposto di andare al Beccaria come vice cappellano. Diciamo che le comunità e il Beccaria sono nate dal mio ministero in mezzo ai ragazzi.

I.D.S. Ad aprile sono venute alla luce torture e pestaggi da parte di alcuni agenti penitenziari nei confronti dei ragazzi detenuti al Beccaria. Di fronte a violazioni di questa gravità, è ancora possibile guardare al sistema-carcere con fiducia?

D.C.B. Quando ho iniziato al Beccaria, diciannove anni fa, potevo dire che quella fosse un’esperienza rieducativa. C’era una multidisciplinarietà dell’intervento, un metodo-Beccaria che risultava vincente in molte situazioni. Posso dire che quel paradigma, quel dispositivo funzionava. Nel tempo, a causa di tanti fattori legati nel caso del Beccaria alla mancanza di un direttore stabile, tra le altre disfunzioni, quel metodo non è stato più efficace. Come spesso accade quando manca un governo centrale le figure si chiudono in una certa autoreferenzialità e quindi gli agenti penitenziari andavano da una parte, gli educatori dall’altra, gli insegnanti da un’altra ancora: un approccio frammentato e disfunzionale. Oggi non solo il Beccaria, ma le carceri minorili in generale, purtroppo, non riescono a far fronte alle situazioni complesse a cui dovrebbero invece saper rispondere. Che dunque la galera diventi una scuola di crimine è abbastanza evidente, ancora di più nelle carceri per adulti dove il rapporto detenuti-educatori è di 300 a 1.
Il minorile, poi, ha una responsabilità ancora maggiore: dovrebbe essere un’esperienza fortemente educativa dove non sia mai la violenza a prevalere. Il carcere è per definizione un’istituzione totale, che corre il rischio costante di diventare totalitaria. 
Non posso nascondere che le figure educative di oggi, quelle che l’università italiana forma nelle facoltà di scienze dell’educazione, sono altamente impreparate ad avere a che fare con ragazzi che vengono da contesti così complessi. Anche le forze di polizia penitenziaria mancano di formazione. Un conto è tutelare la sicurezza in un carcere per adulti, un conto è avere a che fare con adolescenti. Fino al 2017-2018 era prevista una formazione specifica, poi questa formazione è stata dismessa: questi sono i risultati. Essere autorevoli ed essere autoritari sono cose diverse.

I.D.S. A proposito di autorevolezza. Quando ha capito che la musica poteva essere uno strumento efficace di dialogo e lavoro comune con i ragazzi?

D.C.B. Da sempre, perché a mia volta ho ricevuto una formazione musicale fin da bambino e come prete ho svolto ruoli di direzione musicale, composizione e studio in ambito ecclesiastico. Per cui ho sempre avuto una familiarità con la musica, ne conoscevo i riscontri e le possibilità espressive. Nella mia comunità c’è stato fin dall’inizio un laboratorio musicale, ovviamente adattato ai ragazzi, perlopiù di rap. Questo linguaggio è diventato con il tempo preponderante e alcuni di questi ragazzi ne hanno fatto un vero e proprio lavoro. Ci tengo a dire che si tratta di carriere che si sono costruiti da soli, noi li abbiamo solo messi nelle condizioni di potersi esprimere accompagnandoli negli studi di registrazione, assistendoli nel loro cammino artistico. Mettere i ragazzi nelle condizioni favorevoli per fare musica ha significato anche averli tutelati rispetto al mondo dei servizi sociali, dei tribunali per minori che diffidavano di questo genere musicale. All’inizio è stato molto difficile, la comunità si è esposta per loro perché era considerato impensabile dalle istituzioni che un cammino educativo potesse conciliarsi con i testi e i video delle loro canzoni. C’era un forte pregiudizio e una richiesta quasi di censura, cosa che invece noi non abbiamo mai abbracciato come metodo educativo. La comunità ha cercato di interagire con giudici e servizi sociali per far capire come questo progetto non dovesse essere ostacolato ma fosse invece una possibilità non solo di lavoro ma soprattutto di espressione. Negli ultimi anni qualcuno ci ha capito di più ma all’inizio è stata dura.

I.D.S. La giustizia processa i testi, tanto in senso metaforico quanto letterale?

D.C.B. Io penso di sì. Il rap e la trap erano visti come generi musicali deviati e devianti, associati alla criminalità. Io credo che questa lettura, favorita dal mondo delle istituzioni, non abbia ragion d’essere. In queste canzoni, peraltro forse mai ascoltate fino in fondo dagli uomini delle istituzioni, si poteva trovare una chiave di lettura di fenomeni complessi. Avrebbero aiutato a capire per esempio l’esistenza delle seconde e terze generazioni, permettendo all’ascoltatore di entrare in una realtà scomoda, difficile da guardare, eppure fondamentale da comprendere.
Noi non abbiamo mai avuto pregiudizio, anche quando i testi esprimevano concetti che non ci appartenevano. Abbiamo sempre pensato che un malessere vissuto debba poter essere espresso. La realtà che raccontano esiste, per quanto sgradevole possa apparirci. Quando ai ragazzi è stato evidente che li ascoltavamo, allora da lì siamo entrati in confidenza, da lì abbiamo potuto dialogare davvero. Questi ragazzi erano prima totalmente indifferenti se non ostili al mondo adulto. Io credo che tante sentenze o interventi della giustizia nei confronti di alcuni dei nostri ragazzi siano stati un accanimento che andava oltre il reato stesso o le condotte.

I.D.S. Perché per i ragazzi che hanno abitato i margini il rap e la trap hanno una presa che nessun altro genere riesce ad avere?

D.C.B. Perché permettono di descrivere la realtà di contesti sconosciuti: le periferie, le situazioni giovanili di fragilità economica, sociale, culturale che attraversano il nostro tempo. Adesso si dirà che esagero ma io credo che questo genere permetta una narrazione del reale di stampo pasoliniano. Anche lui descriveva mondi che appartenevano alla povera gente, raccontava, attraverso la poesia, un’Italia che nessuno aveva il coraggio di guardare con quegli occhi e quello sguardo.

I.D.S. Lei crede che il successo di questi ragazzi, come quello vertiginoso raggiunto da Baby Gang o Sacky, per citare due trapper di grande successo passati per la sua comunità, li abbia aiutati o ingabbiati?

D.C.B. Il successo dà alla testa a tutti, soprattutto a chi per anni è vissuto nella povertà più assoluta e di colpo si ritrova nella posizione di accedere anche ai lussi più sfrenati. Detto questo, sono ragazzi che non hanno solo buttato via. Hanno comprato la casa per i loro genitori: c’è un forte senso di responsabilità nei confronti delle famiglie. Ne parlavo spesso con loro e li trovavo esemplari.

I.D.S. Mi interessa il tema del denaro. In un servizio delle Iene sull’esperienza di Kayròs, vicino a lei appare un ragazzino straniero, poco più che bambino, che immediatamente parla di soldi. Lei dice: «soldi è la prima parola che imparano». Come lavora su questa tema?

D.C.B. La prima cosa è prendere sul serio le parole dei ragazzi. Noi in fondo facciamo riferimento a parametri, codici e valori che nascono dalle condizioni di vita nelle quali abbiamo vissuto. Quando un ragazzino con un’esperienza totalmente diversa dalla nostra dice “soldi”, innanzitutto va preso sul serio. Per molti di noi, vissuti tutto sommato nell’agio questa parola sembra non risolutoria. Invece, per chi viene da una povertà estrema, per chi addirittura non mangiava tutti i giorni, o ha vissuto interi inverni senza acqua calda in casa, questa parola ha una risonanza che non è la stessa che può avere in me o in lei, che se anche abbiamo conosciuto la povertà è una povertà di ordine diverso. Questo, dunque, è il primo passo. Dopodiché è chiaro che bisogna accompagnare i ragazzi a dare senso e valore al denaro. Quindi il secondo passo è chiedere: i soldi perché? I soldi dove vanno una volta che li guadagni? Accompagniamo i ragazzi a dare valore alle parole, prima ancora che al denaro. Molti di questi ragazzi dicono parole, ma sono parole ripetute, sono mantra. Non sono ancora parole riflettute, a cui dare un significato serio. 

I.D.S. Lei dice che i tempi giuridici non sempre corrispondono a quelli della crescita di un essere umano e che è probabile che un ragazzo sbagli ancora e ancora prima di trovare la strada giusta. Che rapporto ha con la delusione e il rammarico?

D.C.B. La parola delusione non deve esistere per un educatore. L’educatore non è quello che vive il suo ruolo con ansia da prestazione: io so benissimo che perché un ragazzo scopra e dia valore alla propria vita deve inevitabilmente passare da alcune tappe. Un cammino di crescita non è mai un cammino continuo e lineare verso il bene, è anzi sempre un cammino accidentato e discontinuo. Ci sono momenti buoni e momenti meno buoni e bisogna accompagnare i ragazzi in questo saliscendi che è la vita per aiutarli a dare senso anche al dolore, anche alla frustrazione, anche a uno sbaglio. Aiutarli a capire che uno sbaglio non è la fine di tutto ma può essere l’inizio di qualcosa di più importante.

I.D.S. Non si scandalizza mai?

D.C.B. [ride n.d.r.] In questi anni ho imparato a digerire veramente tante cose. Io, devo dire, mi scandalizzo più del nostro mondo adulto. Faccio fatica a scandalizzarmi dei ragazzi anche quando sono provocatori. Anzi, a dire il vero tutto sommato mi diverto. Trovo più scandalo in un certo modo di fare politica, e lo intendo nel senso della polis. Quando per esempio ci sono delle case che la gente mette a disposizione per fare comunità e un’amministrazione comunale si mette contro, influenzando la cittadinanza, creando allarmismo. Ecco, quello per me è un modo scandaloso di fare politica, in un momento come questo in cui l’immigrazione non è più un’emergenza ma un processo irreversibile. Più che scandalosa la trovo una politica miope, un’incapacità di capire dove si sta andando. Ma devo dire che faccio i conti anche con questo. Non sono uno che si accende, diventa ideologico o polemizza. Cerco di capire la paura della gente, di comprenderne l’origine. Mi sembra che le persone abbiano bisogno di un mostro in cella per affermare la propria bontà. Io penso che un sistema come quello del carcere debba essere superato, ma sono cosciente che è una posizione che può essere facilmente tacciata di ingenuità. Il passaggio da valori proclamati a valori vissuti è ancora un passaggio molto difficile in Italia. 

I.D.S. La trasgressione, intesa sia come possibilità della vita che come versi in una canzone, può avere un ruolo creativo e positivo?

D.C.B. Credo di sì. La trasgressione svela mondi prima invisibili. L’emergenza, io dico sempre, non è una parola negativa. Ciò che emerge, ciò che si rende visibile è già speranza: perché permette di guardare oltre. Se invece guardiamo all’emergenza solo come qualcosa da abbattere non riusciremo a fare dei passi avanti. Non basta la lamentela, la nostalgia dei tempi che furono: bisogna imparare a guardare anche al male come una possibilità, come un Kayròs.

I.D.S. Che ruolo ha la fede, quella sua e quella dei ragazzi, nel dialogo che instaurate?

D.C.B. La fede vista da dentro – dal carcere, dalle storie difficili di questi ragazzi – è una fede molto più evangelica. Il vangelo diventa drammaticamente reale. Il rischio, per noi uomini di Chiesa, è quello di diventare un po’ fideisti, il fideismo di chi si affida a Dio in maniera retorica o convenzionale. Invece, dalla prospettiva del margine, la fede non è quella della preghierina, è una fede fatta di domande aperte. Stare in carcere mi aiuta a tenere sempre accesa la domanda.

ARTICOLO n. 71 / 2024

PARANOIDI-PARANOICI

l’America, Trump e il destino del mondo

Pubblichiamo un’anticipazione dall’ultimo saggio di Alessandro Carrera, I vecchi, i giovani e gli strani. Biden, Harris, Trump e il destino del mondo (Sossella editore) in libreria dal 9 ottobre. Ringraziamo l’editore per la disponibilità

All’inizio di novembre del 1987, all’inizio del mio primo incarico negli Stati Uniti, senza sapere ancora molto di ciò che mi aspettava, venni catapultato in una giornata di studi in onore di Roberto Rossellini alla Rice University di Houston. 

Tra il 1970 e il 1974 Rossellini aveva fatto il pendolare tra Roma, Parigi e Houston per conto di John e Dominique de Menil, grandi mecenati d’arte, che alla Rice University avevano creato un centro studi di cinema e media. Rossellini però, anche se chiamato per conto del Media Center, era più interessato a parlare con gli scienziati dell’università, con i quali sperava di realizzare una serie di documentari televisivi che avessero come tema la scienza, coloro che la fanno e come la fanno. 

Conversò a lungo con biologi, astronomi, fisici, fisiologi, storici e meteorologi, filmò ore di conversazioni, visitò la NASA e l’osservatorio Arecibo di Puerto Rico, ma non ebbe mai la soddisfazione di essere preso sul serio. Non erano i tempi in cui uno scienziato provasse piacere a discutere con un umanista, se mai quei tempi sono arrivati.

Una sessione di quella giornata di studi del 1987 era appunto dedicata agli scienziati e al ricordo dei loro lunghi pranzi con Rossellini, che a quanto pare ordinava sempre due dessert. Raccontavano quell’esperienza, per loro trascurabile, con divertito fastidio. Non avevano mai capito che cosa avesse in mente quello strano signore italiano che chissà perché voleva farli “comunicare” con chi scienziato non era.

Di quella serie di documentari mai realizzati non sapevano cosa dire e non mancavano di far capire che l’intera faccenda, per quanto li riguardava, era stata una distrazione inutile. Li trovai tanto irritanti quanto ammirevoli, con quella loro spocchia scientifica stampata in faccia. Per me c’era qualcosa da imparare, visto che avrei potuto avere a che fare con qualcuno come loro anche nei corridoi della mia università, la University of Houston. 

Tra gli italiani presenti c’erano giornalisti, critici cinematografici, probabilmente funzionari della Rai o di Cinecittà. Quando gli scienziati ebbero finito di prendere in giro quel simpatico scocciatore che aveva fatto perder loro tutto quel tempo, si alzò un italiano piccolino e nervoso. Con una voce che squittiva, cantilenante e fastidiosa come ne ho sentite poche, rinfacciò a quei meschini scientisti la grandezza di Rossellini, il suo genio universale, continuazione dell’immensa tradizione culturale italiana che da Dante portava al Rinascimento e culminava nella Nazione che il neorealismo di Rossellini aveva fatto conoscere al mondo.

Niente da obiettare, se non che quella voce da topo cacciato in un angolo, quel singhiozzo che usciva a stento dalla gola, quel gesticolare ispirato con il quale il poveretto accompagnava le sua retorica da professore di ginnasio, spuntata in partenza dal freddo stupore che gli arrivava in risposta dagli imponenti scienziati americani, mi fecero capire in un momento che cosa avevo lasciato in Italia e che di sicuro non volevo più ritrovare: quell’isteria, quel vittimismo, quel continuo invocare un grande passato che è la sigla di coloro il cui momento è passato.

Sono partito da un paese di isterici, pensai. E mai e poi mai, finché rimango qui, dovrò farmi sfuggire un comportamento simile a quello che ho appena visto. Era il caso, piuttosto, di cominciare a capire che cosa avrei trovato lì dove ero arrivato. E non ci misi molto a capire che avevo lasciato una terra di isterici per entrare in una nazione nella quale il termometro, una volta per le armi, un’altra per il sesso, un’altra ancora per la religione o la politica, segnava sempre qualche linea di febbre paranoide.

Che una certa inclinazione paranoide sia un tratto ricorrente del carattere americano l’hanno argomentato in molti, americani loro stessi, e molto meglio di quanto potrei fare io. Non potevo immaginare, allora, che più di trent’anni dopo mi sarei trovato in un paese che, oltre alle ben note tensioni paranoidi, presentava anche tratti fortemente isterici.

Ciò che colpisce nel rileggere oggi il celebre saggio di Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana (edizione del 1965, tr. di Francesco Pacifico, Adelphi 2021) è che se confrontiamo gli scritti citati dall’autore, tratti dalla pubblicistica del Settecento e dell’Ottocento, come dai discorsi di politici del Novecento, constatiamo che dal 2008 a oggi c’è stato un rovesciamento di prospettive. Chi sosteneva che gli Stati Uniti fossero vittima di una congiura mondiale guidata di volta in volta dagli Illuminati di Baviera, massoni, gesuiti, papisti, mormoni, socialisti, anarchici, ebrei e comunisti, proclamava che il suo fine era la salvezza dello Stato o, per citare Benjamin Franklin, «una repubblica, se la sai difendere» (“a Republic, if you can keep it”), l’ordinamento politico nato dalla Dichiarazione d’Indipendenza.

Ma negli ultimi sedici anni, segnati dalla pessima conduzione della seconda guerra in Iraq, la crisi finanziaria del 2008, l’elezione alla presidenza di Barack Obama accolta con sincero terrore dall’America conservatrice,nonché la nascita del Tea Party (la frangia repubblicano-populista poi confluita nel culto di Donald Trump), lo stile paranoide è stato adottato proprio da chi afferma di voler smantellare lo stato, in modo molto, molto più radicale di come l’aveva promesso Ronald Reagan. 

L’ideologia isterica, la “domanda impossibile” che sottende a questa nuova furia mescola il risentimento del povero con l’adorazione verso il ricco, l’odio verso le classi povere (consustanziale alla piccola borghesia) con il libertarismo assoluto dei grandi tecnocrati, sovrani assoluti delle reti informatiche e delle criptovalute, e per i quali la democrazia è solo un inciampo verso il dominio del Sistema Solare. 

Lo “stile paranoide nella politica” è oggi l’essenza paranoica dell’antipolitica. Non arrivo a dire che chi pronuncia discorsi paranoici sia egli stesso paranoico, non fornisco diagnosi e non uso questi termini nel loro uso clinico. In ogni discorso teso ad aizzare la componente isterico-paranoide del proprio elettorato giace una buona dose di opportunismo, ma qualche volta mi viene davvero il sospetto che il confine tra lo stile paranoide e una qualche condizione paranoica clinicamente accertabile sia stato passato. 

Oggi, i paranoidi-paranoici per i quali il discorso isterico-complottista è la forma normale di comunicazione (“Tu mi nascondi qualcosa, e io non so cos’è, ma non te lo dico!”) non vogliono salvare l’America dai nemici che ha veramente. Anzi, ne sono innamorati persi, il che vale per la destra quanto per certe frange della sinistra. La destra non vede l’ora che la democrazia sparisca per inaugurare finalmente un’inedita dittatura American Style, impossibilmente cristiano-fondamentalista, nativista-razzista, e allo stesso tempo basata sull’assoluta libertà d’impresa – una miscela assurda, che entrerebbe in contraddizione nel momento stesso del suo trionfo. 

Si credono conservatori, ma non intendono conservare nulla. La loro politica rigetta tutto quello che l’America è stata: nel male, forse, ma anche nel bene. Dal canto suo, la sinistra identitaria, pacifista e bellicosa insieme, esalta la minoranza du jour come unica portatrice dell’umano, cade in deliquio per il diverso puro e incorrotto (non il diverso come davvero diverso) e indossa la stola dell’inquisitore supremo della cultura occidentale, giudicata l’unica nella storia del mondo a essersi macchiata di crimini imperdonabili.

Ma l’ideologia identitaria, giustizialista o cosiddetta woke non possiede una briciola del potere che ha la destra. La vera questione è la natura di quella rabbia che continuiamo a chiamare destra per non chiamarla anarco-fascismo. Perché il fascismo tradizionale adorava lo Stato, mentre da questo anarco-fascismo emerge una pura volontà di distruzione, un this is the end da disperazione tardoesistenzialista, il nichilismo terminale di chi ha concluso che il progetto americano è fallito e che si può solo por fine alle sue sofferenze. Il 26 luglio 2024, intervenendo a un evento di Christian conservatives in Florida, Trump ha detto che, se verrà eletto, per quattro anni gli americani non dovranno preoccuparsi di votare.

Significa annullare le elezioni di medio termine, il che magari sottintende che sarebbe meglio se non dovessero votare mai più. Non accadrà, la macchina elettorale è un business enorme per chi vince come per chi perde (a volte il capitalismo è una garanzia), ma nessuna obiezione si è levata, né dal Partito Repubblicano né dal popolo MAGA (“Make America Great Again”, “Fa’ l’America di nuovo grande”, lo slogan di Trump). Nessuno ha gridato al complotto contro l’America, come invece sarebbe accaduto in qualunque altra occasione.

Il complotto sono loro. Non intendono solo impadronirsi dello stato, il loro progetto è di eliminarlo. Nancy Pelosi, “Grande Anziana” del Partito Democratico (è lei, più di ogni altro, ad aver convinto Biden a ritirarsi), in una conversazione con Ezra Klein riportata dal “New York Times” il 18 agosto 2024, ha detto: «È molto difficile trovare un punto d’intesa con persone che non hanno né principi né un progetto. È difficile negoziare con qualcuno che non vuole niente». Molti hanno cercato la causa di questo rovesciamento di valori, ma forse nessuno ci è andato più vicino di Marilynne Robinson, una delle vere coscienze cristiane dell’America.

In un saggio pubblicato sulla “New York Review of Books” del 18 luglio 2024, intitolato Agreeing to Our Harm, che si potrebbe anche tradurre: “Continuiamo così, facciamoci del male”, Marylinne Robinson si chiede da dove emerge questo patriottismo da messa nera. La sua risposta, sorprendente e profonda, è che bisogna guardare allo squilibrio con il quale sono stati distribuiti tra la popolazione i pesi delle guerre che l’America ha sostenuto, dalla Corea fino a oggi.

Più che riassumere le tesi di Marylinne Robinson, le userò come una scala sulla quale salire, aggiungendoci del mio, ma la richiamerò quando ce ne sarà bisogno. Il fenomeno Trump, così si dice, riflette lo stato d’animo della popolazione che si è sentita abbandonata dalla furibonda corsa in avanti della globalizzazione e del capitalismo estremo. Ma dal movimento sorto intorno a Trump non è uscita nessuna proposta che potrebbe attenuare la disuguaglianza economica, né è stata espressa la minima simpatia nei confronti degli investimenti pubblici che l’amministrazione Biden ha messo in opera e che hanno fatto di Biden il presidente più “sociale” (non dirò socialista) che l’America abbia avuto dai tempi di F.D. Roosevelt. 

Se davvero questa popolazione si sente lasciata indietro, si chiede Robinson, perché sembra preoccuparsi soltanto di coloro che offendono il suo amato capo? Il movimento MAGA, che Trump ha creato senza neanche pianificarlo e che di fatto ha sostituito il Partito Repubblicano, non ha una visione politica, e nemmeno l’avrà finché Trump ne terrà le redini. 

Come è accaduto ad altri movimenti populisti, dal poujadismo francese al grillismo italiano, quando il fondatore si fa da parte agli altri resta solo da rimboccarsi le maniche ed entrare nel gioco. Ma una seconda presidenza Trump (che al momento appare meno sicura di quanto non lo fosse mesi fa) potrebbe portare alla fine dei giochi, o perlomeno a un periodo di caos che si rifletterebbe sul mondo intero.

Al movimento MAGA questo non interessa affatto. I suoi membri sono preda di un’identificazione dionisiaca con le sofferenze del loro dio, un satiro anziano e sovrappeso che sale sul palco a recitare la litania dei suoi dolori con il coro MAGA che gli fa eco, dimenticandosi catarticamente dei propri. È così che è nata la tragedia greca, ed è così che potrebbe finire la tragedia americana.

ARTICOLO n. 70 / 2024

DECOSTRUIRE IL PATRIARCATO CON IL BLACK METAL

intervista di marco de vidi

Un salotto curato, le pareti bianche, una famiglia abbiente come tante, madre, padre e figlia che si dedicano allo yoga, che mangiano cibo vegano, che si annoiano nella vacuità del loro benessere. Indossano tutti una maschera, i volti hanno sembianze aliene, le voci sono alterate e distorte: la normalità borghese assume una forma grottesca, esagerata, spietata. Aperta la tenda rossa, tutto avviene in un’unica stanza, in una sorta di kammerspiel iperreale e bizzarro: con l’irruzione dei Fag Fighters, un commando di terroristi gay in passamontagna rosa che terrorizza e tortura le sue vittime dopo averle interrogate sull’identità delle più importanti personalità non binarie polacche, la scena precipita ancor di più nell’ironia dissacrante, estrema, a tratti splatter.

Eccolo, il teatro di Markus Öhrn, il regista svedese di base a Berlino, che con Phobia, il lavoro presentato per la prima volta in Italia durante la Biennale Teatro a Venezia, ha dato forma scenica al mondo creato dall’artista e attivista Karol Radziszewski, che con le sue illustrazioni vuole riscrivere la storia queer del suo paese, la Polonia, in un atto di resistenza contro le politiche omofobe dei governi di estrema destra. 

«Ho visto i dipinti di Karol e gli ho chiesto se sarebbe stato interessato a realizzare una pièce in cui avrei provato ad animare i suoi personaggi», racconta Markus Öhrn. «Siamo partiti dalle sue storie e insieme agli attori lo abbiamo fatto accadere».

Lo spettacolo è nato grazie al Novy Teatr di Varsavia, con cui Öhrn collabora da diversi anni, esplorando nel suo modo provocatorio e personalissimo i temi della famiglia, dove ha anche portato in scena (stravolgendolo) un autore classico come Strindberg. Phobia ha esordito in Polonia a fine 2023, dopo le elezioni che hanno riportato al governo il liberale Donald Tusk. «Non abbiamo avuto nessun tipo di problema, di critica o di censura», spiega il regista, «perché tutti questi governi liberali di destra hanno bisogno di uno spazio in cui è permesso un po’ di tutto, per dire che non esiste la censura. E il Novy Teatr è uno di quei luoghi: hanno bisogno di quel tipo di produzioni, quindi sono fortunato a potervi lavorare».

A un certo punto, in Phobia compare l’alter ego dello stesso regista: Markus Öhrn alieno è in hotel, progetta il suo nuovo spettacolo mentre fa un’esilarante telefonata con la madre («Sì, mamma, sempre sangue e merda. No, non è colpa tua, mamma»). Accusato dai Fag Fighters di essersi appropriato furbamente, da straniero, di temi che non lo riguardano, il regista viene trucidato e smembrato, in un tripudio di urla e sangue finto. «Quella è la mia parte preferita, è l’esperienza più catartica che posso avere, quando io stesso vengo fatto a pezzi. Perché è una cosa che comprendo. Devo sempre capire la mia posizione come artista, di ogni cosa che faccio, di quando vado in un altro paese a occuparmi di un tema che è presente e che io affronto dalla mia prospettiva. Io arrivo qui in aereo, dico la mia, faccio il mio spettacolo e riparto. Tutto ciò è la versione artistica del colonialismo».

Il percorso artistico di Markus Öhrn comincia con il video, con l’installazione Magic Bullet, un lavoro che dura 49 ore e che mette in fila cronologicamente un secolo di censura, montando tutte le scene di film tagliate dai censori svedesi dal 1911 al 2011. La riflessione sulle dinamiche coloniali ancora esistenti è un tema che Öhrn affronta fin dall’inizio, con l’installazione video White ants, black ants del 2010, lavoro poi sviluppato con Bergman in Uganda, in cui mostra le reazioni del pubblico locale alla proiezione del film Persona. In We love Africa and Africa loves us i temi delle fantasie neocoloniali si intrecciano alle opprimenti relazioni famigliari, mentre nella «black metal opera» Bis zum Tod torna a esaminare, nel suo modo irriverente, la famiglia, il capitalismo, la pedofilia. 

Il suo stile originale e dissacrante comincia a piacere anche ai contesti più istituzionali, come nel caso del teatro nazionale di Stoccolma, che ha invitato Markus Öhrn a reintepretare un lavoro del celebre drammaturgo Lars Norén.

La musica è un aspetto importantissimo del lavoro di Markus Öhrn. In Phobia i brani originali suonati dal violoncellista Michal Pepol e dal pianista Bartek Wasik sottolineano le atmosfere comiche e grottesche dello spettacolo. In Azdora (ne parliamo tra poco), un contributo fondamentale è arrivato dalla direzione musicale di Stefania Alos Pedretti, cantante della band noise degli Ovo, che ha insegnato alle protagoniste a cantare in growl, le urla gutturali tipiche del metal. Markus è anche musicista e suona con un duo noise, chiamato Liikutuksia, insieme al fratello Linus Öhrn, cantante e chitarrista attivo in diverse band e collaboratore anche dei Marduk, una delle più importanti band black metal svedesi. 

È proprio a partire dal mondo del metal che Markus Öhrn ha sviluppato il suo approccio, estremo e provocatorio e sempre fortemente ironico. «Tutto ciò viene dalla mia fascinazione per il black metal», racconta. «I protagonisti di questo genere musicale si presentano con il corpse paint (un peculiare tipo di trucco in bianco e nero che fa apparire cadaverici e macabri i volti dei musicisti) e anche solo per il fatto di presentarsi in questo modo puoi diventare una persona diversa, e dunque puoi fare qualsiasi cosa tu voglia. È la stessa cosa che faccio a teatro, usando delle maschere. Per esempio, quelli che recitano in Phobia sono attori molto famosi in Polonia, che lavorano nel teatro classico e nel cinema. Io voglio creare uno spazio libero, che è davvero molto in connessione con l’idea di spazio libero che esiste nel black metal, in cui tu interpreti un personaggio, diverso da quello che sei veramente, puoi farlo e basta».

In questo modo, qualsiasi cosa avvenga sul palco può diventare anche un’affermazione politica, una presa di posizione.«Chi segue un genere come il black metal sa che tutto quel mondo è solo un gesto, una posa. Non si tratta della realtà. E la realtà, per me, non è mai il modo migliore per raccontare qualcosa. Preferisco raccontare una storia attraverso il filtro dell’arte o, ancora meglio, il filtro del corpse paint, che è il modo migliore per buttarsi fuori. È quello che ho cercato di fare qui, come in tutti gli altri miei lavori».

Questo linguaggio è diventato uno strumento utile per irridere e decostruire i concetti cardine della nostra società, dal mondo occidentale, da cui è così difficile immaginare una via d’uscita. «Io vengo da un minuscolo villaggio nel remoto nord della Svezia, da una famiglia di coltivatori di patate, un luogo dove nessuno si aspetterebbe che qualcuno possa fare l’artista», riflette Markus Öhrn. «Un mondo patriarcale in cui mio nonno era il capo, la persona a cui tutti si rivolgevano, e mia nonna era a sua disposizione. Con i miei genitori, anche se in modo più morbido, funzionava ancora allo stesso modo. Quando mi chiedevano se ero il nipote di mio nonno, io rispondevo: “No, sono il nipote di mia nonna, Eva Britt”. Perché era lei la persona che si prendeva cura di me. Non lui».

È questo il punto di partenza, il nucleo profondo da cui prende il via il percorso di Markus Öhrn, in un’incessante confronto e scontro con il villaggio in cui è cresciuto. «La mia pratica artistica, la mia intera vita, servono a guardare dentro tutto questo. Tutto quello che faccio come artista è una sorta di digestione della mia stessa educazione, un modo per capire meglio il mio vissuto. È quello che porto sul palcoscenico, ogni volta. Perché anche io sono il risultato di quella società patriarcale. Ho 51 anni, sono un uomo, faccio arte. Sto a delle regole, sono sempre collocato in una gerarchia. Sono anch’io parte di tutto questo. Ma sto cercando di distruggere, o almeno di analizzare la mia posizione in tutto ciò, e la posizione da cui provengo. È un processo che dura per tutta la vita». E poi aggiunge: «Con il mio lavoro voglio onorare mia nonna, che non è mai stata ascoltata, in tutta la sua vita».

La figura di Eva Britt, della nonna di Markus Öhrn, è al centro di uno dei suoi progetti più conosciuti, Azdora. Il lavoro, avviato nel 2015 a Santarcangelo quando l’allora curatrice Silvia Bottiroli invitò l’artista svedese in residenza, è diventato inaspettatamente longevo, tra i più rappresentativi dello stesso festival romagnolo. «È il lavoro più importante che io abbia fatto nella mia intera vita. E mi ha cambiato per sempre».

Per rendere omaggio a sua nonna, morta da poco, Öhrn decide infatti di coinvolgere una quindicina di signore della zona, anziane, legate alla casa e alla famiglia (l’azdora in Romagna era la colonna portante della casa), inizialmente senza svelare cosa avrebbero fatto. 

Truccandole con il corpse paint, le ha portate a realizzare performance che sono diventate sempre di più dei rituali di liberazione e catarsi, attirando un pubblico che si è sempre più affezionato al progetto. Le Azdora si sono esibite come band noise black metal, suonando un unico concerto e registrando un disco. In un’edizione hanno lanciato delle molotov all’interno dello Sferisterio, cantando un’inquietante ninna nanna, mentre in un’altra occasione hanno tenuto un confessionale, in cui il pubblico poteva raccontare di sé, in modo molto intimo, e chi era ritenuto all’altezza poteva venire tatuato da una delle Azdora. 

Nel 2019, le Azdora sono state invitate in Lapponia, nel villaggio della famiglia Öhrn, per dare un ultimo saluto, nel loro stile, a Eva Britt, lì sepolta. «Era come se il cerchio si fosse chiuso, per molti aspetti. Hanno incontrando il fratello di mia nonna, la mia famiglia. Le hanno reso omaggio sulla sua tomba», ricorda il regista. «Mancava ancora qualcosa però, un’ultima uscita, davanti a un pubblico».

È così che, lo scorso giugno, le Azdora sono arrivate a Stoccolma, alla Bonniers Konsthall, dove nella mostra Requiem för Eva Britt erano raccolti tutti i materiali legati a questi anni di progetto, immagini, foto, video. «Loro si sono viste per la prima volta in azione», racconta il regista, «ed erano commosse, perché non si erano mai guardate prima come Azdora». Il loro compito era di distruggere tutti i materiali presenti nella galleria, in un atto di saluto potentissimo e liberatorio, in quella che forse potrebbe essere il capitolo di chiusura di un progetto che si è rivelato quanto mai fecondo e illuminante.

«A Stoccolma, moltissime persone hanno potuto conoscere questa storia», racconta Markus Öhrn. «E improvvisamente, tutto questo non riguardava più Eva Britt, mia nonna, ma tutti si sono messi a parlare dei propri ricordi, sulle loro nonne, madri, sulle donne in casa. Tutti abbiamo un’idea un po’ romantica di una persona a cui siamo così legati, ma non le vediamo mai come persone. Con Azdora è successo».

Come ha spiegato introducendo la performance al pubblico svedese, «quando abbiamo cominciato il progetto, inizialmente queste donne sono state messe in guardia, dai mariti, dai figli: non partecipate, sarete solo dei clown. E alla fine sono diventate l’oggetto del desiderio, con i mariti nel backstage a supportarle, a fotografarle. Forse anche un oggetto sessuale. E credo che sia una cosa che meritano, come meritiamo tutti di essere persone volute, desiderate, di essere al centro dell’attenzione, per quello che fai, per l’energia che trasmetti. Sono diventate loro le star, le protagoniste. Sono queste donne che hanno reso l’azdora, la donna che lavora in casa, qualcos’altro, molto di più. È qualcosa che non mi è mai accaduto prima, che non sapevo nemmeno che potesse accadere. Non è più Markus Öhrn. Sono loro. È mia nonna. Io sono solo la persona che ha trasmesso il messaggio, da mia nonna a loro. Le Azdora sono diventate un gruppo a sé, create da quello che mia nonna pensava e insegnava. E tutto questo è qualcosa che ti cambia la vita, come artista. Nella vita, posso realizzare un solo lavoro come questo. Che riposi in pace, Eva Britt».

ARTICOLO n. 69 / 2024

AI YOGA PER INTELLIGENZE ARTISTICHE

Che tecnologia e innovazione siano sinonimi è un fraintendimento a cui ci siamo abituati, che abbiamo introiettato e ripetuto non tanto a partire dall’avvento di internet, come verrebbe istintivo dichiarare, ma ben prima, e cioè ogni volta che l’umanità si è trovata a confrontarsi con la nascita di uno strumento tecnico di cui ha avuto timore intuendone il potenziale rivoluzionario. La verità è però che la tecnologia è un fatto umano, ed è questo il primo e più importante punto di intersezione con il concetto di innovazione.

Nel contrapporre uomo e macchina, nel prodigarci per difendere il primo dalla seconda, abbiamo rischiato di dimenticare quanto ogni progresso tecnologico risponda, essenzialmente, al bisogno umano di trovare strumenti e alleati per rispondere alle domande sempre più complesse che l’uomo si pone. L’intelligenza artificiale è l’ultimo di questi avanzamenti spaventosi, e c’è stato un gran dibattere – e dibattersi – per mettere al riparo l’arte e la creatività dall’intrusione di una tecnologia che, si diceva e si dice, finirebbe per soppiantarle. Ma se fare arte significa problematizzare il reale, sollevare domande, aprire spiragli inediti e allenare sguardi inaspettati, è contradittorio pensare che questa non debba o non possa confrontarsi con l’ultima delle rivoluzioni tecnologiche. A che punto siamo nell’interazione tra arte e tecnologia? Che cosa risulta dal dialogo tra intelligenza artistica e intelligenza artificiale?Queste le domande da cui prende avvio la mostra “AI Yoga per Intelligenze Artistiche”, inaugurata a Milano il 19 settembre presso MEET Digital Culture Center – il Centro Internazionale per l’Arte e la Cultura Digitale.

Il MEET è un museo che dà spazio alle avanguardie, con una particolare attenzione al dialogo tra arte e dimensione digitale. Si trova a Porta Venezia, quartiere ibrido e difficile da incasellare, ai limiti del centro di una città irrequieta. Arrivare al Meet è dunque già un buon modo per prepararsi a ciò che si vedrà al suo interno: opere ibride, irrequiete, sperimentali, che interrogano il presente perché nel suo flusso si inseriscono, senza timori conservativi. 

La mostra “AI Yoga per Intelligenze Artistiche” nasce dal dialogo di dieci artisti italiani – Accurat, Lorenzo Bacci e Flavio Moriniello, Roberto Beragnoli, Alessandra Condello, Francesco D’Isa, Lorem (Francesco D’Abbraccio), Katsukokoiso (Eugenio Marongiu), Mauro Martino, Andrea Meregalli e Mattia Piatti – con il nuovo portatile Lenovo Yoga Slim 7x. Un dispositivo dotato di un’unità neurale in grado di processare fino a 45 trillioni di operazioni al secondo. Non so che cosa significhi e provo una sorta di timore reverenziale quando ne vedo due esemplari poggiati all’ingresso della mostra. Non temo che siano più intelligenti di me. Temo invece che, se mi capitasse di interagirci, non sarei in grado di trovare la lingua adatta per comunicare, e cioè per spiegare al dispositivo cosa penso e come intendo ciò che penso, cosa ho intenzione di creare e come potrebbe aiutarmi a farlo.

La sensazione non mi abbandona quando rivolgo l’attenzione alla prima opera: Viaggio in Italia di Roberto Beragnoli. Si tratta di un documentario in stile cinegiornale Istituto Luce, con tanto di voce narrante di Emilio Cingoli, celebre e prolifico doppiatore italiano. Qualcosa dunque di familiare, che immediatamente sollecita la memoria e ci rassicura. Dopo pochi secondi, però, accade qualcosa di inaspettato. Il riferimento che abbiamo individuato è scalzato da una sorta di disturbo difficile da definire, un bizzarro stridore tra il cinegiornale che conosciamo e il cinegiornale che stiamo vendendo si insinua in noi, emanato dall’opera. Non è facile capire a cosa sia dovuto, individuare che cosa non torni, eppure qualcosa non lo fa ed è presto evidente che quello che stiamo guardando non è ciò che nei primissimi secondi avevamo individuato. La meta del viaggio oggetto del cinegiornale non è l’Italia ma il risultato di reminiscenze non più esclusivamente umane: un’Italia hackerata, verrebbe da dire, da un intruso indefinibile, risultato del dialogo e del confronto tra uomo e macchina, tra artista e algoritmo.

Proseguendo lungo il percorso espositivo vengo catturata dall’opera Brave New World – Dancing with the Machine, installazione fotografica di Lorenzo Bacci e Flavio Moriniello che documenta tramite istantanee fotografiche una delle più durature e anarchiche forme di aggregazione sociale degli ultimi decenni, ovvero la cultura rave. Vengo di nuovo rassicurata da qualcosa che conosco, alla cui estetica e se vogliamo etica sono abituata. Di nuovo, però, un glitch si intromette, un disturbo che ricorda lo schermo grigiastro e vibrante di un vecchio televisore senza segnale. Questa volta individuo il campanello d’allarme: il volto di una delle donne gloriose e devastate fotografate a questo rave assomiglia terribilmente a Marla Singer, la protagonista femminile del film Fight Club. Le assomiglia senza essere lei, capisco a uno sguardo più attento, e allora proseguo scrutando ogni volto e riconoscendo in ogni volto me stessa, il mio amico, il vecchio cultore di musica techno che si incontra nei club berlinesi e, contemporaneamente, non riconoscendo fino in fondo nessuno. Si tratta di fotografie generate dall’Intelligenza Artificiale: vicine alla realtà e allo stesso tempo altrove, un altrove onirico e sfuggente. 

«Le opere che compongono la mostra vivono all’interno di una dimensione estremamente onirica, sembrano dei piccoli sogni» racconta Valerio Borgonuovo, curatore della mostra e ricercatore. «Questo è dovuto ad aspetti formali attraverso cui l’IA generativa costruisce e assembla le immagini in movimento. I corpi si liquefanno e osserviamo una continuità innaturale e talvolta illogica tra un’immagine e l’altra. Tutto ciò è molto simile a come funzionano le nostre fasi neurali nel sonno, per cui il risultato del dialogo tra artista e dispositivo è un ancora un dialogo tra la veglia e il sonno, al limite dello stato di coscienza». 

Proseguo il viaggio negli spazi espositivi del MEET fino ad arrivare alla sala immersiva, che ospita quella che si potrebbe definire una quadreria digitale animata dai lavori pittorici e video di Alessandra Condello, Mauro Martino, Francesco D’Isa, e Katsukokoiso (Eugenio Marongiu). Sono lavori molto diversi fra loro, a unirli però è l’inaspettata capacità di risultare pieni di grazia e insieme angoscianti. Le infinite vite possibili di ognuno di noi esplorate nell’opera Me-Me di Mauro Martino, dove il protagonista del video generato dall’IA cammina per una Milano camaleontica trasformandosi insieme a essa, convivono con il lavoro pittorico digitale di Francesco d’Isa. L’opera Erranze/Errancies dà vita a una poetica dell’errore e del vagabondaggio: i dipinti digitali sono il frutto della tendenza dell’artista ad assecondate l’errore della macchina, a dare spazio ai fraintendimenti che necessariamente avvengono quando l’uomo e il computer si trovano a dialogare. 

«L’arte non è un algoritmo, è un dialogo. Un dialogo tra l’intuizione umana e gli strumenti che la amplificano. L’intelligenza artificiale, come lo Yoga Slim 7x di Lenovo, non sostituisce l’artista, ma ne diventa il complice, il compagno di viaggio in territori inesplorati», dice Francesco D’Isa.

La domanda che rimane aperta, quando si esce, arricchiti e frastornati, dalla mostra AI Yoga per intelligenze artistiche, è come sia avvenuto questo dialogo. Perché ogni confronto con un’opera d’arte che possa dirsi tale richiede di arrendersi alla difficoltà, quando non all’impossibilità di tradurre a parole ciò a cui si è assistito. Come si dice un’opera d’arte? Come si spiega? 
A dire il vero in questo caso la domanda è capovolta. E cioè: che cosa hanno detto questi artisti alla loro macchina per raggiungere il risultato che abbiamo visto? Quale lingua hanno usato, quale chiarezza intima e poi espositiva hanno dovuto allenare perché l’opera risultasse come è risultata? E ancora: quante rinegoziazioni, errori e fraintendimenti sono stati parte del processo creativo, arricchendolo? 

«Dovresti vedere quanto sono brutte le cose che creo io quando provo a usare questi strumenti. Questo dimostra che il risultato varia enormemente in base a chi li utilizza. Ci sarà sempre un’intelligenza artistica capace di padroneggiare ogni nuovo strumento, proprio come uno scultore sa usare lo scalpello o un pittore il pennello», conclude Borgonuovo. 

Torniamo all’inizio: tecnologia e innovazione non sono sinonimi. Tuttavia, quando l’intelligenza artistica entra in dialogo con la tecnologia, senza timore e consapevole del proprio valore insostituibile, innovare diventa un esito possibile, e la tecnologia può smettere di essere antagonista per farsi strumento utile e vitale. 

ARTICOLO n. 68 / 2024

ABORTO

La prima volta che ho accompagnato un’amica in consultorio per ricorrere a un contraccettivo di emergenza, la “pillola del giorno dopo”, era il 2004 e avevamo entrambe diciassette anni. Lei aveva avuto un rapporto sessuale con un ragazzo conosciuto da poco ma qualcosa era andato storto e il preservativo si era rotto. La mattina successiva l’accompagnai in ospedale, dove all’epoca il consultorio aveva sede, per parlare con un’operatrice e prendere la ricetta con cui acquistare il farmaco, evitando così di passare per il medico di famiglia. Ricordo lunghi tempi d’attesa, le occhiate cariche di ostilità e commiserazione – tipiche delle persone adulte quando giudicano la condotta delle ragazze – le domande che avevano il sapore di un interrogatorio, la ritrosia a consegnare una banale prescrizione.

Quest’episodio, risalente ormai a vent’anni fa, mi è tornato in mente spesso nelle ultime settimane. L’approvazione al disegno di legge per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) che legittima a livello nazionale la presenza delle associazioni antiabortiste nei consultori ha sollevato infatti una forte ondata di indignazione, in particolare da parte di chi osserva il tentativo di smantellare, un pezzetto alla volta, una legge importante come la 194, a cui nel 1978 si arrivò non senza conflitti e tentativi di mediazione. Nel viaggio che ci porta a ripercorrere i miti su cui si è costruita e sedimentata una certa idea di femminilità, dunque, non potevamo esimerci dall’affrontare il grande tema dell’aborto, la cui narrazione, ancora una volta, è funzionale a negare alle donne la possibilità di autodeterminarsi.

Nel volume L’aborto, le studiose Alessandra Gissi e Paola Stelliferi sottolineano come la legge che ha depenalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza sia stata costruita su una dicotomia: da una parte l’idea di maternità come scelta libera e gioiosa, dall’altra quella dell’aborto come decisione sofferta e traumatica. Se così non fosse, per intraprendere la procedura non sarebbe necessario sedersi a un tavolo con un’operatrice e analizzare le possibili soluzioni alternative (di natura economica, assistenziale, sociale ecc.) che permetterebbero di riconsiderare la scelta, né questa fase di anamnesi si concluderebbe con un “invito a soprassedere” per sette giorni allo scopo di riflettere bene sulla decisione da prendere. 

Come ha ricordato la giornalista Jennifer Guerra, le organizzazioni antiabortiste attraversano le corsie dei nostri ospedali e le stanze dei consultori almeno da una trentina d’anni, ma solo da qualche tempo hanno beneficiato di un solido appoggio istituzionale e di fondi pubblici a sostegno delle loro iniziative. A luglio 2023, per esempio, è stato istituito presso L’ospedale Sant’Orsola di Torino un accordo con il Movimento per la vita che ha portato all’apertura della “stanza per l’ascolto” salutata dall’Assessore alle politiche sociali della Regione Piemonte Maurizio Marrone come un passo importante, “soprattutto in questa stagione di preoccupante inverno demografico”.

Uno dei miti che è andato sedimentandosi intorno all’aborto è, infatti, l’idea che esso contribuisca al fenomeno della denatalità, colpevolizzando di fatto le donne che vorrebbero compiere una scelta legittima. La colpevolizzazione avviene da tempo e in molti modi. In Gendertech, Laura Tripaldi rispolvera un documentario del 1984 intitolato The silent scream. Il video si apre con un’immagine poco chiara, forse quella di un’ecografia in bianco e nero, mentre la voce narrante maschile afferma «possiamo riconoscere l‘agghiacciante grido silenzioso sulla faccia di questo bambino, che sta fronteggiando la sua imminente estinzione». Il filmato racconta l’aborto di un feto di dodici settimane e alterna fotogrammi in cui si mostrano procedure mediche invasive a spezzoni registrati nello studio del medico pro-life Bernard Nathanson, attore e regista della pellicola, che illustra l’anatomia del feto servendosi di gigantografie e modellini 3D. 

Nel suo libro, in cui si occupa di raccontare come le interfacce tecnologiche – dallo speculum alle app per monitorare il ciclo mestruale – abbiano contribuito a modificare non solo il rapporto delle donne con il proprio corpo ma anche quello con il potere che ne limita la libertà, Tripaldi sottolinea come l’ecografia abbia prodotto una rivoluzione epocale, svelando per la prima volta ciò che avviene dentro al corpo della gestante. Dal punto di vista di Nathanson e di molti antiabortisti, essa permette di rivelare «l’aborto dal punto di vista della vittima». 

A partire da questa posizione sono stati prodotti molti contenuti che cercano, da una parte, di fare “formazione” raccontando l’aborto come un omicidio, dall’altro di giudicare implicitamente ogni donna che vi ricorre. L’articolo pubblicato nel 2021 sul blog di Provita e Famiglia risponde perfettamente a questa funzione. «Non è ideologia. È qui: un embrione che diviene bambino» sono le parole con cui si apre un lungo pezzo in cui le immagini occupano la totalità dello spazio a disposizione. A quelle, oniriche, tratte da ecografie che mostrano cellule che si moltiplicano fino ad assumere poco per volta forme umane, seguono quelle dell’operazione chirurgica in cui feti ed embrioni vengono smembrati per mostrare da vicino quanto quelle ossa, quelle teste e quelle piccole mani assomiglino alle nostre.

Un’operazione analoga era stata compiuta molti anni prima, precisamente nel 1965, quando, sulla copertina della rivista Life, comparve un’immagine destinata a fare storia. Con il titolo Drama of life before birth (lo spettacolo della vita prima della nascita) il giornale accoglie un reportage del fotografo Lennart Nilsson, un lavoro che a suo dire lo impegna per più di dieci anni. Come ricorda la studiosa Alessandra Piontelli ne Il culto del feto, le foto mostravano, per la prima volta, la vita intrauterina dal concepimento alla formazione del feto. Ricorda Piontelli: «chiamandolo “bambino”, “neonato”, “vita” o “miracolo della vita”, Nilsson cambia di fatto la terminologia usata per descrivere la gravidanza. Anche l’utero diventa “grembo” o “ambiente” (…)». Queste parole in effetti non sono casuali: il fotografo aveva raccontato di aver ottenuto le immagini avvalendosi di strumenti sofisticatissimi, necessari per poter osservare il feto in utero, tuttavia si scoprì successivamente che le foto furono scattate impiegando feti abortiti o nati morti, messi in posa (per esempio con il pollice in bocca) in veri set cinematografici in grado, attraverso la giusta illuminazione, di dare l’idea che fluttuassero beati in ambienti onirici.

Le immagini su Life sono significative non solo perché ci fanno assistere, forse per la prima volta, a un’opera di mistificazione (impiegare feti abortiti e abbelliti per rimarcare il concetto di “miracolo della vita”) ma anche perché segnano il punto di svolta rispetto al rapporto tra gestante e concepito. La donna scompare dal discorso e, per estensione, anche i suoi diritti, la sua volontà, i suoi desideri. L’unica cosa che conta è “il miracolo della vita”.

La narrazione che porta a focalizzarsi esclusivamente sulla bellezza della vita che nasce – e quindi a biasimare tutte le donne che, nonostante ne abbiano la possibilità, rifiutano questa “chiamata” – non è l’unica strategia impiegata da chi vorrebbe limitare il diritto all’aborto. L’altra ha a che fare con le false informazioni che vengono veicolate al fine di scoraggiare chi vorrebbe ricorrervi. Non ci sono prove che l’interruzione di gravidanza aumenti il rischio di incorrere in un cancro al seno, né che sia correlata all’insorgere di malattie mentali, tuttavia questo genere di informazioni vengono ancora date per vere.

Se un rischio le donne che vogliono abortire lo corrono davvero, è quello che segnala la psicologa Federica Di Martino, attivista e fondatrice della community online “IVG. Ho abortito e sto benissimo”: la stigmatizzazione. Incappare in medici che si rifiutano di praticare l’intervento, essere costrette ad ascoltare il battito del feto, raccontare l’esperienza dell’aborto come un trauma le cui conseguenze dureranno per tutta la vita, descrivere chi vi ricorre come “poverine” o – anche peggio – come delle assassine in potenza sono strategie utili solo a impedire alle donne di autodeterminarsi. Come ricorda Di Martino in un’intervista: «l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato che l’aborto, laddove è reso accessibile dallo Stato, è un’esperienza positiva di benessere e di salute nella vita di una donna, anche se ad oggi in Italia rimane uno dei più grandi tabù».

Per cambiare la narrazione intorno all’aborto servono altre prospettive. Una è quella che propone Gabrielle Blair, designer, blogger e autrice di Eiaculate responsabilmente. Nel volume, diventato un bestseller nel giro di poco tempo, propone una chiave di lettura semplicissima e cioè «che il 99% degli aborti siano il risultato di una gravidanza indesiderata e che i responsabili di tutte le gravidanze indesiderate siano gli uomini». Prima di passare sotto la lente di ingrandimento il comportamento delle donne, pertanto, sarebbe opportuno osservare anche quello degli uomini: «la società ha addossato la responsabilità di prevenire le gravidanze al genere che è fertile ventiquattro ore al mese, anziché a quello che lo è ventiquattro ore al giorno». Quando si parla di aborto nessuna stigmatizzazione colpisce gli uomini semplicemente perché sembra che quel discorso non li riguardi. L’altra prospettiva, oggi particolarmente difficile da perseguire, dovrebbe andare al cuore della 194, che ancora interpreta l’aborto come “pratica sanitaria” quando in realtà è qualcosa di molto diverso: è una pratica di libertà e come tale andrebbe salvaguardata.

ARTICOLO n. 67 / 2024

IL POPULISMO AL TEMPO DELL’EPISTEMOCRAZIA

intervista di Antonio sgobba

«Il populismo, più che un’etichetta per (mal)qualificare gli altri, è un segno generale del nostro tempo, una risorsa facile per fare politica nella nuova costellazione sociale e politica, che assume molte forme». Lo dice Daniel Innerarity, filosofo e sociologo spagnolo di cui Castelvecchi ha da poco pubblicato La società dell’ignoranza: Sapere e potere nell’epoca dell’incertezza (traduzione di Matteo Anastasio). In questo saggio Innerarity si occupa di una particolare forma di populismo, forse tra le più sottovalutate, quella che definisce «demagogia gnoseologica» o «populismo tecnocratico». 

Antonio Sgobba: Partiamo da qui: che cos’è oggi il populismo tecnocratico?

Daniel Innerarity: La forma più comune di populismo è quella che si oppone alla tecnocrazia, ma ce n’è anche un’altra che alimenta nella società una fiducia cieca nella tecnologia, che si suppone abbia l’ultima parola anche nella soluzione di problemi che non sono esclusivamente tecnici.

A.S. Per questo lei parla di “epistemocrazia”.

D.I. Se è vero che gran parte dei nostri problemi richiedono una grande mobilitazione di conoscenze, quella che io chiamo epistemocrazia è la convinzione (peraltro non scientifica) che siano semplicemente problemi di conoscenza, che non abbiano altre dimensioni e che quindi possano essere risolti da scienziati ed esperti, o da politici che terrebbero conto solo dell’opinione di questi ultimi.

A.S. Lei scrive invece: «Non vi è dubbio che la scienza espanda il sapere, ma aumenta anche l’incertezza e l’ignoranza nella società». Come possiamo reagire a questo paradosso?

D.I. Ci sono due tipi di ignoranza che crescono più velocemente della scienza e che sono in gran parte causati da essa: quella dei rischi legati all’uso delle tecnologie e quella della crescente complessità del mondo.Possiamo dire che i nostri predecessori ne sapevano meno di noi, ma viviamo con maggiore preoccupazione il gap tra ciò che sappiamo e ciò che dovremmo sapere per affrontare i problemi che abbiamo di fronte. Questo divario spiega in gran parte il nostro atteggiamento ambiguo nei confronti della conoscenza, a volte ingenuamente speranzoso e a volte eccessivamente timoroso.

A.S. Invece lei scrive che l’ignoranza può essere anche una risorsa. In che senso?

D.I. Nel senso che il potere non è legittimato solo dalla conoscenza disponibile e accreditata, ma anche dall’ignoranza riconosciuta e comunicata in modo adeguato. Il Ministro della Salute tedesco della Merkel ha tenuto una conferenza stampa in cui ha saputo comunicare alla popolazione non solo le cose di cui erano certi nel bel mezzo della pandemia, ma ha anche elencato le incertezze che non erano state chiarite. In questo modo si è resa più affidabile che se avesse finto una certezza che non aveva e che avrebbe potuto erodere ulteriormente la sua autorità se la sua ignoranza fosse poi diventata evidente al pubblico.

A.S. Ci ritroviamo così a fare i conti allora con due paradossi: il sapere non sa, il potere non può. Quali sono le conseguenze di queste due debolezze?

D.I. Che invece di essere pensati come due momenti diversi o opposti del nostro processo decisionale, dovremmo metterli al servizio della soluzione dei problemi che dobbiamo affrontare. Il rapporto tra conoscenza e decisione è la grande sfida delle società contemporanee, una volta che siamo consapevoli dei limiti democratici del modello tecnocratico e dei limiti epistemici del modello decisionista, dei limiti della conoscenza e del potere considerati isolatamente.

A.S. Se viviamo in un società dell’ignoranza, che ruolo può avere l’istruzione in una società come questa?

D.I. In quella che ho definito la società dell’ignoranza è necessario sviluppare una cultura riflessiva dell’insicurezza. Ciò che non si conosce, la conoscenza insicura, le forme di conoscenza meramente plausibili e non scientifiche e l’ignoranza non devono essere considerate come fenomeni imperfetti, ma come risorse. Ci sono questioni in cui, in assenza di conoscenze certe e prive di rischi, è necessario sviluppare strategie cognitive per agire nell’incertezza. Bisogna imparare a muoversi in un ambiente che non è più caratterizzato da chiare relazioni di causa-effetto, ma sfocato e caotico».

A.S. In un ambiente così caratterizzato quale può essere il ruolo degli intellettuali?

D.I. La figura dell’intellettuale in politica è impallidita per varie ragioni, che hanno a che fare con le trasformazioni della società e anche con l’avanzamento e la specializzazione delle scienze, in particolare di quelle sociali. La divisione del lavoro e la specializzazione scientifica o la configurazione di una società di intelligenze distribuite non rendono superflue le panoramiche, ma rendono ridicola la superiorità dell’intellettuale che pontifica su questioni morali o politiche senza conoscere i principali dibattiti che si sono svolti tra gli scienziati sociali. Il prestigio degli intellettuali funziona se sono pochi e il sapere è scarso, ma si orizzontalizza e si condivide quando sono molti quelli che sanno e con visioni della realtà che non sempre coincidono e spesso si contraddicono. L’intellettuale oggi ha un rapporto meno verticale con la società, che non è una massa di incompetenti disinformati, e condivide l’autorità con un gran numero di specialisti di ogni tipo che sono più avanti di lui nella conoscenza esperta, così rilevante per il mondo complesso in cui viviamo.

A.S. Alla fine quale può essere una strategia efficace per raggiungere un equilibrio tra fiducia e diffidenza?

D.I. La fiducia è una relazione che sostituisce l’inaffidabilità delle cose (perché non ci sono prove o non è possibile la conoscenza di sé) con l’affidabilità delle persone. Il problema è che spesso non abbiamo prove sufficienti, non possiamo fidarci degli altri, ma nemmeno di noi stessi. La sfiducia negli altri ci protegge dall’inganno altrui, ma non ci restituisce alcuna certezza.

ARTICOLO n. 66 / 2024

LA DEGLUTIZIONE

Pubblichiamo un’anticipazione da Cinquantun giorni (La nave di Teseo), il nuovo romanzo di Andrea Moro in libreria dal 17 settembre

“Ci si sporca di più a nascere o a morire?” A questo stava pensando Pietro Raphèl, uomo di pochi libri, mentre, ostinatamente, ma invano, con la punta della lingua cercava di spostare Dio dal palato.

Per quanta saliva le mucose producessero, il Verbo, sustanziato nell’ostia, se ne stava appiattito e appiccicato in quel punto esatto nel quale il palato si inarca sensibilmente, poco prima che l’osso finisca e inizi la parte molle, dove normalmente per qualche istante sosta il cibo prima che il movimento ascendente e retrogrado della lingua, seguito da una contrazione della faringe, lo accompagni nel tubo dell’esofago. “Ci si sporca di più a nascere o a morire?” ripeté cercando di ignorare quell’ingombro fastidioso ancorché sacro e si rese conto di come quella domanda fosse per lui ineludibile, dopo quello che nei cinquantun giorni precedenti la vita gli aveva riservato. Certo, gli era già capitato di provare vergogna, di sentirsi giudicato per come appariva: per quel taglio di capelli esagerato, per non aver detto la cosa giusta alla cena importante, per non essere all’altezza delle aspettative dei colleghi, per quel particolare del suo corpo che più cercava di nascondere più gli pareva attirare l’attenzione di tutti. 

Ma quelle erano vergogne puntuali, intermittenti semmai, come ponfi di zanzare estive: prima intensi, poi scemano, poi rincalzano arrossendo e poi svaniscono come sono venuti. Ora invece la vergogna l’aveva inzuppato tutto; inghiottito, fagocitato: non si salvava niente di lui e senza intermittenze. Cosa aveva fatto di male per provarla, per sentirsi così irrimediabilmente sporco, dall’inizio alla fine?

Chiuse gli occhi e rimase inginocchiato mentre l’incenso e il silenzio si miscelavano nell’aria fredda della chiesa e ricadevano densi, oscillando come piume, sul legno delle panche allineate nella penombra di quel piccolo edificio barocco, nascosto nel centro di Milano, quasi deserto, dove un prete giovane si preparava a impartire la benedizione alla fine della messa.

Pietro Raphèl si era trasferito a Milano ben prima di quell’ottobre del 1978. Arrivò che era poco più di un ragazzo con la sua prima scrittura teatrale e una valigia piccola di pelle scura, regalo del padre. La sua ascesa come principe del palcoscenico fu inarrestabile e rapida ma non del tutto imprevista, almeno non in cuor suo: la sua capacità di rendere credibile ogni battuta, modulando l’intonazione delle frasi in modo che sembrassero sgorgare spontanee dalla mente, come fosse la prima volta che venivano pronunciate, senza mai una ripetizione di toni, restituendo freschezza al testo dei giganti, così come la sua statura fisica, il suo portamento, quella sua voce così calda e bassa che fluiva spandendosi dalla bocca ben disegnata, incorniciata dalla barba fitta, nerissima, gli occhi taglienti e distanti in armonia con un naso dritto e corto, lo fecero emergere su tutti gli altri attori come il migliore. Qualunque fosse la parte, qualunque fosse la compagnia, qualunque fosse il costume e il prestigio del teatro, Pietro Raphèl era sempre il migliore. 

Gli spettacoli, quando recitava lui, non si concludevano veramente con il calare del sipario: l’eccitazione proseguiva elettrica lungo processioni di spettatori che andavano a stanarlo in camerino svolgendosi tra i corridoi angusti del teatro fino a raggiungerlo e incastrarlo per il saluto vis-à-vis. Perfino gli applausi finali, tanto deflagranti quanto interminabili, sembravano più sfoghi isterici dovuti al desiderio di mitigare la tristezza del congedo che un omaggio alla sua bravura.

Quell’ottobre del 1978, però, lo spettacolo per il quale stava lavorando sarebbe passato completamente in secondo piano nella sua vita.

A essere onesti, quella catastrofe non gli era capitata senza che lui l’avesse – come dire – se non proprio invitata almeno inconsapevolmente evocata, perché malgrado tutti i suoi successi, malgrado il suo prestigio, la ricchezza accumulata, l’accesso ai circoli più esclusivi di tutta Italia e d’Europa e le frequenti interviste su giornali e televisioni per pareri su tutti i temi possibili, Pietro Raphèl si trovava in un momento della sua vita che si sarebbe definito “morto” se non che della morte, quella vera, in quei giorni se ne erano dimenticati tutti.

A Pietro, in realtà, mancavano i desideri. Anzi, peggio, ne individuava sempre di marginali; cercava la soddisfazione in desideri che finivano col trovarsi solamente vicini a quelli cui puntava davvero. Diceva di sé, infatti, di vivere “di bolina”: finiva col dover navigare contro il flusso delle forze naturali nelle quali era immerso per raggiungere la sua destinazione, e quindi non ci arrivava mai direttamente.

Puntava sempre ad approdi intermedi, scostati, sia pure di poco, da quello cui ambiva veramente, ed era dunque costretto a cambiare di continuo direzione, riaggiustando la rotta. Alla meta, tuttavia, non ci arrivava mai, perché ogni volta si rendeva conto di aver sostanzialmente mancato il bersaglio.

Pietro avrebbe volentieri seguito l’ostia nel viaggio all’interno del suo corpo, inghiottendo di conseguenza anche se stesso come in un quadro di Escher o in una bottiglia di Klein, se solo fosse riuscito a staccarla lavorando di lingua: sciolta dalla saliva, accompagnata nell’esofago, si sarebbe poi impastata nei succhi dello stomaco, e giù nel tenue dove finalmente sarebbe stata quasi completamente assimilata dalla sua carne, salvo – ci si immagina – un’inezia irrisoria di scarto. Questo avrebbe voluto percepire: Dio che veniva assorbito dal suo corpo per diventare parte di sé.

Imbrigliato nella ruminazione di quei pensieri ad andamento ciclonico, sentì inaspettata una forza contraria iniziare a crescere improvvisa; una violenta contrazione nel basso ventre gli dava netta la sensazione di dover veramente, subito, velocemente, subito, senza aspettare, subito: evacuare. Dio piantato in bocca che doveva entrare, la merda dentro che spingeva in direzione opposta per uscire e lui – per così dire – in mezzo.

Milano era allora una città in bianco e nero, come d’altronde tutte le città degli anni Settanta, così impegnate nel dichiararsi lontane dall’ultima guerra, immerse in una pace poco più che maggiorenne, e così schiacciate in realtà da tutti i problemi sociali ed economici che l’immeritata cuccagna dei pochi anni precedenti non solo non aveva risolto ma anzi aveva generato e accumulato e continuava ad accumulare. 

Il flusso della storia si era intasato, come un fiume dove l’onda della piena aveva ammassato tronchi d’albero e detriti contro le arcate dei ponti rendendoli impraticabili: quasi tutti sulle sponde fermi a guardare, non senza un certo gusto del macabro, quasi tutti inermi.

Milano poi aveva gli occhi addosso perché ci si aspettava di veder fiorire la ricchezza frutto del lavoro e dell’organizzazione e invece si aveva paura anche a uscire di casa. Non per il freddo, non per la nebbia, non per l’aria sporca, né per certi agosti roventi con la radiolina nel parco, ma perché ci si sentiva delle prede: cortei, agguati, ma anche banalmente il gonfiarsi del traffico incontrollato intorno e dentro la città davano la sensazione di poter essere presi di mira ed essere puniti, senza avere alcuna colpa che quella di trovarsi lì per caso. Eppure, si usciva, eppure ci si affezionava anche alle luci ancora fioche di certe vie del centro. E si guardavano le vetrine, quelle dei vestiti, soprattutto, ma senza farlo capire troppo: una generazione alacre di sarti e di sarte, unici sopravvissuti all’esercito di poeti e santi, che di eroi certi non ce ne sono mai stati, si preparava in quegli anni al salto che li avrebbe portati nel giro di un decennio alla devozione incondizionata della società civile. 

Poi si fumava molto e ovunque, tant’è che forse la memoria della prevalenza del grigio di quegli anni – a pensarci bene – più che la nebbia poteva essere anche solo l’effetto del fumo delle sigarette: nelle case, in ufficio, nei bar, nei cinema, sui tram. Ma se anche non ci fossero state quelle, i colori sarebbero stati comunque pochi: i palazzi del centro, alcuni ricostruiti da poco, erano lerci, incatramati, e gli unici sprazzi di rosso e blu e verde e arancione venivano dai manifesti delle pubblicità, affissi ovunque e periodicamente rimossi da mani, per fortuna, così frettolose che strappandoli regalavano spicchi di involontaria allegria sia lungo strade che, soprattutto, sottoterra, alle fermate della metropolitana. 

A Milano, di sicuro, Pietro aveva trovato il successo, quello che, visto da fuori, ti mette nella categoria delle persone riuscite, ma quei cinquantun giorni appena trascorsi avevano davvero cambiato tutto in lui e quello stesso successo, apparentemente così solido e imperituro, si sarebbe rivelato per lui della stessa consistenza di un carrozzone di carnevale. Nel groviglio disordinato di quei pensieri, il suo cuore si fece allora più rapido del suo respiro e sfociò in un nome e tutto quello che ad esso era ancorato: Lucia. La sua Lucia, tutto era iniziato da lei. Anzi, dalla sua perdita.

“Ci si sporca di più a nascere o a morire?” La domanda non lo aveva abbandonato, anzi si era fatta ancora più cogente, schiacciata com’era da quelle sensazioni contrastanti. “Certo, nascere non deve essere meno spaventoso di morire – pensò – solo che non ce lo ricordiamo. Quel primo respiro che ti fa ingoiare aria per sostituirla a quell’acqua tiepida che fino ad allora aveva occupato la gola non deve essere stato meno angosciante di quanto sarà quell’ultimo, quando l’aria la si sputa fuori per l’ultima volta.” Così si disse pensando di mettere in quel modo ordine alla domanda e di capire, quietandosi, come rispondere. “D’altronde, non ci ricorderemo nemmeno della morte,” pensò di controcanto. 

Si era di nuovo incastrato: “Siamo fortunati noi esseri umani perché gli unici due eventi sicuri della nostra esistenza sono divorati dall’oblio, vero custode della mente e in entrambi, di sicuro, non siamo affatto puliti: si viene al mondo facendosi largo tra sangue e liquido amniotico, sempre che la madre trattenga gli sfinteri, e quando si va via, per lo più, ci si smonta liberando umori non più nobili di questi.”

Spalancò d’improvviso gli occhi, che teneva stretti più nel tentativo di scacciare i dolori addominali, o forse almeno di rallentare l’urgenza, che in quello di concentrarsi nella preghiera, e vide che il prete si stava preparando per la benedizione finale. In quella chiesa, che pareva arredata con i residui di scena di una tragedia elisabettiana, il ricordo dell’inizio di quei cinquantun giorni riaffiorò allora in lui come un sogno vivido sul fare del mattino, di quelli che non vorresti avere ma che non puoi spegnere, e si sostituì alla percezione della realtà. 

Tentò di scacciarlo con l’unico pensiero che poteva competere: la consapevolezza di dover scontare una colpa profonda, assoluta, dolorosa. Non rievocava quei peccati dozzinali che commettiamo pentendoci e sapendo al contempo che li ricommetteremo di sicuro, ripentendoci; pensò al peccato dei peccati, il peccato che precede tutti gli altri e che non si ripete: il peccato originale. Il tentativo di cancellare il ricordo di quei giorni sovrastandolo con quel pensiero sembrò dapprima funzionare ma presto si rivelò del tutto controproducente: l’idea stessa di un peccato originale lo sgomentò ancora di più. “Come si fa a essere colpevoli di un atto non commesso?” – si disse – “e se è stato commesso da altri, di cosa è mai fatto quel peccato perché possa essere trasmesso?”

Cinquantun giorni prima, Pietro aveva fatto ritorno nella sua casa di Milano. Non viveva più in città da tempo. Da qualche anno aveva acquistato un palazzotto seicentesco, nella campagna che da Milano arriva a lambire il Ticino, quella piatta e insapore, quella che i turisti scartano, e anche gli uccelli migratori tollerano solo per una sosta. Il palazzotto manifestava un’architettura sobria ma non sciatta, dalle proporzioni talmente regolari che l’avresti detto sfuggito da un manuale di architettura; a pianta rettangolare, una facciata di tre piani, disegnata rispettando la proporzione aurea: i tre ordini di finestre, sei al primo per far spazio al portone e sette per gli altri due piani, in ordine decrescente di altezza a partire dal basso, erano contornate da un accenno di timpano in travertino chiaro e corredate da persiane massicce di un bel verde scuro. 

Il tetto di tegole rosse, forse un po’ più grosse del normale, sporgeva dalla facciata in modo insolito, come fanno le costruzioni toscane, fino a circondare il palazzo di una fascia dove le persone potessero rimanere a parlare senza essere infastidite nei momenti di pioggia. L’edificio, intonacato con i colori della terra di fiume, chiari e fragili, sfuggenti quasi, si erigeva solitario in mezzo a campi di riso, curiosamente affiancato da un bosco di pioppi di coltivazione. Pur sovrastando il palazzotto, il bosco ne aveva la stessa proporzione, quasi che volesse limitare il timore che sapeva di incutere, che tutti i boschi incutono, ma forse ancora di più quelli regolari, duplicando la struttura armoniosa del palazzo con la disposizione regolare degli alberi, che rassicurava chi gli venisse incontro. 

In tarda primavera, poi, le distese ampie d’acqua delle risaie, riflettendo, raddoppiavano nuvola a nuvola, filare a filare, generando simmetrie ipnotiche: allora i rari stormi che si alzavano verso il cielo facevano da contrappunto a quelli che, riflessi nell’acqua, sembravano volare invece verso il basso. Solo le nuvole, quelle grandi, bianche e spumose, così insolite e buffe nei cieli bassi di pianura, sdrammatizzavano con ironia queste partiture solenni. 

A Pietro piacevano comunque questi raddoppi primaverili perché vedeva le stesse cose da una nuova prospettiva, che consentiva al cervello più che all’occhio di notare particolari che l’abitudine aveva smerigliato e reso quasi invisibili. D’inverno, invece, per lo più, la nebbia, frequentissima e compattissima in quelle zone, regalava l’effetto opposto e non permetteva di cogliere i confini delle cose: il bosco sembrava il palazzo e il palazzo dava l’impressione di una siepe alta, tant’è che bisognava avvicinarsi al palazzo e al bosco, quasi a toccarli, per essere sicuri di quello che si vedeva. 

Qualcuno, forse un filosofo, sosteneva che la nebbia, in fondo, per questo conferma ed esalta la vera natura delle cose. Insomma, era chiaro che la nebbia fosse per Pietro essenzialmente un setaccio metafisico, salvo quelle rare volte in cui alle cose ti portava troppo vicino, come in certi fossi maleodoranti, quando si sbagliava a guidare l’automobile finendo fuori strada.

Provò a richiuderli, gli occhi, come in un ultimo tentativo di nascondersi ma, come sempre capita a chi non vede, ogni cosa divenne allora molto più chiara e invece di sparire dalla percezione gli fu sbattuta addosso come uno schiaffo meritato. Senza volerlo, senza sperarlo, si trovò catapultato a quella sera di ottobre di cinquantuno giorni prima nella quale, rispondendo a un invito di Anna Rérere, si era presentato a un ricevimento del quale non poteva assolutamente immaginare il motivo e che gli avrebbe fatto scattare la vita a un nuovo livello di difficoltà di gioco.

ARTICOLO n. 65 / 2024

CHAMELEON: UNA CREATURA MUTANTE NEL CUORE DI VENEZIA

intervista di francesco d'isa

Matt Pyke, fondatore e direttore dello studio Universal Everything, è un artista noto per il suo approccio innovativo all’arte digitale. Per la Fondazione Cini ha di recente creato Chameleon, un’opera site-specific ambientata nella bellissima isola di San Giorgio Maggiore a Venezia. Pyke ha sempre esplorato la relazione tra la figura umana e il movimento nelle sue opere, ma con Chameleon sposta l’attenzione sull’interazione dinamica tra la figura e l’ambiente circostante. Ho avuto modo di intervistare l’artista per approfondire il suo lavoro, e ne ho approfittato anche per chiedergli un’opinione su come e quanto le AI influenzeranno l’arte e quale sarà la risposta dell’arte digitale alla nascita e la diffusione tra il grande pubblico di queste nuove tecnologie.

Francesco D’Isa: Nel tuo lavoro con lo studio Universal Everything c’è un’attenzione ricorrente verso la figura umana in movimento, come in opere come Run Forever e Future You. Tuttavia, in Chameleon lo sfondo gioca un ruolo da protagonista tanto quanto la figura stessa. Potresti raccontarci come questo doppio focus ha influenzato la creazione di Chameleon?

Matt PykeChameleon è una creatura che si trasforma mutando materia, colore e texture. Si aggira nell’Isola di San Giorgio Maggiore in una sorta di passeggiata visionaria ad altissima definizione, accompagnando gli spettatori per dodici minuti attraverso ambienti che un tempo erano monasteri e che oggi ospitano gli istituti, i centri studi, e le biblioteche della Fondazione. La figura entra nella Sala degli Arazzi, contempla le Nozze di Cana, attraversa il bosco con le Vatican Chapels. Diversamente da altri lavori in cui la figura che cammina era la protagonista, qui Chameleon si trasfigura mentre è in movimento, adattandosi ai colori, ai giardini, ai chiostri e agli arazzi che incontra lungo il suo percorso.

Questo lavoro è stato concepito come un’opera site-specific. Volevamo esplorare nuove possibilità offerte dalla tecnologia, investigando la figura umana in un modo nuovo, mescolando realtà e digitale per creare una forma vivente digitale che fosse in armonia con il contesto circostante. Abbiamo cercato di far dialogare la figura con l’ambiente, creando qualcosa che fosse al tempo stesso parte del luogo e unica nel suo genere.

F.D. In Chameleon avete sviluppato una tecnica per mappare gli ambienti su una figura umana, creando texture con rilievi e contorni. Potresti approfondire questo interessante processo? In che modo questo approccio si differenzia dai tuoi lavori precedenti?

M.P. Per creare Chameleon abbiamo utilizzato un nuovo software di intelligenza artificiale estremamente interessante. Questo software traccia il movimento dell’attore che cammina nello spazio, estrae i dati e li rimuove dall’ambiente, per poi sostituirli con una figura CGI (Computer Generated Imagery). Il risultato è un movimento umano realistico che attraversa lo spazio. Successivamente, ci siamo concentrati sulla mappatura delle texture in tempo reale, una cosa che fino a poco tempo fa sarebbe stata impossibile.

Abbiamo sviluppato una tecnica di estrusione dell’ambiente che ci ha permesso di creare una figura tridimensionale in metamorfosi continua, basata sui luoghi che attraversa. Inizialmente, tutto è stato realizzato in tempo reale, per poter posizionare la figura negli ambienti e vedere come il contesto influenzasse le texture del corpo. Poi abbiamo utilizzato un software per tracciare la scena e ottenere la prospettiva, la luce e le ombre corrette, prima di inserire la figura nelle scene.

Si tratta di una scultura digitale moderna, una scultura impossibile che non potrebbe esistere al di fuori del mondo digitale, una scultura in movimento. Per fare l’estrusione e il rilievo abbiamo lavorato sui pixel più chiari e più scuri, che ci hanno aiutato a percepire e restituire la profondità.

F.D. Quest’anno ricorre il decimo anniversario del riconoscimento di Universal Everything al Festival Ars Electronica con Walking City. Poiché l’arte digitale è una disciplina relativamente giovane e strettamente legata alle tecnologie emergenti, come vedi l’evoluzione di questo campo? Come è cambiato il tuo approccio all’arte digitale nel corso degli anni, e quali cambiamenti prevedi per il futuro di questo medium?

M.P. La prima cosa che è cambiata è la velocità. Oggi possiamo lavorare in tempo reale con il computer, cosa che prima era impensabile. Anni fa, per ottenere un rendering realistico ci volevano due o tre settimane; ora, grazie a tecnologie simili a quelle utilizzate nel gaming, possiamo ottenere risultati molto realistici in tempo reale.

Anche dal punto di vista del display delle opere è cambiato molto. Un tempo avevamo solo schermi rettangolari, ma ora abbiamo schermi più grandi e di forme diverse, che si adattano agli edifici e ad altre superfici. Le superfici su cui proiettiamo le nostre opere sono più flessibili, più grandi e più varie in termini di forma.

Dal punto di vista concettuale, ciò che sta cambiando e cambierà rapidamente è l’estetica. In passato si cercava di presentare visioni impossibili; ora, con l’AI, questo è diventato relativamente facile per chiunque. Quindi, la sfida è trovare un’estetica che non sia già stata esplorata o che vada oltre ciò che è facilmente ottenibile con l’AI. Dobbiamo andare oltre l’estetica standard, perché l’AI è bravissima a fare remix, ma trovare qualcosa di veramente unico sarà sempre più difficile.

Adesso inoltre esistono nuovi formati di display, come i visori VR, per esempio Apple Vision, e la realtà aumentata immersiva. Questi strumenti offrono nuovi modi per entrare negli spazi privati e offrire esperienze collettive. Con la VR, l’arte digitale diventa più partecipativa. Possiamo anche creare video immersivi in spazi molto versatili, come pavimenti e soffitti, con proiezioni interattive. E non si tratta più solo di loop video; possiamo creare opere che si evolvono e cambiano con ogni visitatore, offrendo ogni volta un’estetica o un’esperienza diversa.

F.D. Come artista e filosofo che lavora a stretto contatto con l’AI, sono molto interessato a come l’intelligenza artificiale stia trasformando il mondo dell’arte. Nella tua esperienza, come vedi l’AI influenzare il futuro della creazione artistica? Alcuni artisti esprimono preoccupazioni sul fatto che l’AI possa minare l’autenticità dell’espressione artistica. Considerando il tuo lavoro con l’AI, qual è la tua prospettiva in merito?

M.P. Lavorare con nuovi strumenti è, per me, parte del piacere di fare arte. Mettere il proprio talento al servizio della scoperta, utilizzando strumenti nuovi in modi innovativi, è sempre stato fondamentale per il mio processo creativo. Ora, l’intelligenza artificiale rende tutto questo accessibile a tutti, forse persino troppo facile, e questo è un fenomeno interessante. Oggi, chiunque con un iPhone può fare cose incredibili. La tua è una domanda interessante: bisogna trovare strade nuove per restituire l’unicità, per creare cose mai viste prima, e sarà più difficile andare oltre l’estetica standard, sia per l’esistenza delle AI che per la loro capacità di fare remix.

Negli ultimi anni, gli strumenti AI sono diventati più accessibili al grande pubblico, permettendo a molte più persone di sperimentare senza richiedere un grande investimento di tempo o denaro. Questo ha generato scompiglio. La reazione dei pittori all’arrivo della fotografia è stata simile, portando alle avanguardie del ‘900. Penso che sia fondamentale creare strumenti unici per generare nuove forme. Come nella musica, c’è chi manipola i propri strumenti e chi segue certi standard; per fare cose nuove, servono strumenti nuovi, e nel nostro studio vogliamo sempre costruire nuovi strumenti, così da mantenere la nostra visione unica e indipendente. La personalizzazione delle tecnologie sarà essenziale.

F.D. Il processo di creazione di Chameleon ha coinvolto non solo le tecnologie, ma anche una collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini. Come ha influenzato questa collaborazione il risultato finale del progetto? 

La Fondazione Giorgio Cini è un luogo bellissimo e molto vario, e per noi è stato essenziale studiare le transizioni tra gli ambienti. Chameleon cerca di catturare l’unicità della Fondazione, illuminando alcune delle aree meno conosciute di questo luogo. Abbiamo filmato i chiostri, la Biblioteca del Longhena, la Manica Lunga, il bosco, le Vatican Chapels e altro ancora. Si tratta di arte digitale, ma in questo caso è stata pensata con uno scopo specifico: invitare il pubblico a immergersi nell’ambiente e a scoprire alcuni degli aspetti e dei dettagli unici di un luogo così speciale.

Uno dei nostri interessi principali, da lungo tempo, è la creazione di nuove forme di immagini in movimento. Ci siamo naturalmente ispirati anche al lavoro di scansione e archiviazione svolto dalla Fondazione Giorgio Cini. Ci è piaciuta l’idea di combinare queste due cose attorno a una figura che cammina, esplora l’ambiente, ma scansiona e assorbe anche i materiali, le trame e le superfici circostanti. L’architettura classica, combinata con i chiostri, i corridoi interni, gli arazzi e il bosco, ci ha fornito tantissime texture interessanti con cui lavorare. Come materiale di partenza, è stato strutturalmente diverso da ciò a cui siamo abituati, e proprio per questo molto stimolante e ideale in termini di creazione con le nuove tecnologie.

Chameleon comunque è solo il primo di una serie di opere. Vogliamo usare “Chameleon” per rivelare spazi nascosti in tutto il mondo e ne stiamo già realizzando altri, uno a Londra e uno in Corea, in un ambiente naturale. È affascinante vedere come la figura reagisce a diversi contesti; lo abbiamo persino provato in un supermercato ed è stato molto strano!

ARTICOLO n. 64 / 2024

VIVERE IN FLORIDA

Pubblichiamo un estratto da Paradiso terrestre (Mercurio, traduzione di Marta Olivi). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

La casa di mia madre è storta. Nemmeno questa è una metafora. Un pomeriggio rovente mio marito mi fa notare che il pavimento della cucina è in discesa. Per dimostrarlo, riempie un bicchiere d’acqua, si inginocchia, e fa gocciolare l’acqua a terra. Porta ancora i pantaloncini e le scarpe da corsa, è senza maglietta, è abbronzato e luccica di sudore. 

Guardiamo le gocce d’acqua scivolare giù come se fossero attratte da una forza invisibile. Approfondiamo la questione e scopriamo che anche il pavimento del soggiorno è inclinato, e anche le camere di sopra. Perfino la porta d’ingresso non è centrata. Ci chiediamo se non sia un segno che la casa di mia madre sta per crollare. 

Per tutta la nostra vita adulta siamo state persone da appartamento; le case per noi sono un immenso, insondabile mistero. Un sacco di spazio. Un sacco di cose che possono andare storte. «Le cose si spostano», è tutto quello che mia madre ha da dire quando glielo facciamo notare. Ci ricorda che la maggior parte della Florida poggia su uno strato di pietra calcarea, porosa; che tutto quanto intorno a noi è una specie di schema piramidale, perfino la terra sotto i nostri piedi. 

Il riferimento alla pietra calcarea mi fa pensare ai sinkhole – un pensiero tutt’altro che rassicurante. Qualche giorno dopo, portiamo il cane in un parco statale e nel bel mezzo di un prato troviamo un cratere circondato da transenne gialle. Un cartello spiega che è un sinkhole apparso la scorsa estate.

All’inizio i commissari di contea avevano pensato che poteva essere una nuova sorgente d’acqua, teoria che si è poi rivelata falsa. Il buco ha continuato a crescere, allargandosi fino a diventare una bocca profonda e inquietante. Il Dipartimento Parchi Pubblici ha ipotizzato che potrebbero esserci delle caverne lì sotto; hanno chiamato dei geologi per investigare.

Ci affacciamo alle transenne per guardare dentro il cratere, osserviamo lo scintillio nero della terra bagnata. Il nostro cane, indifferente, mangia l’erba. 

Tornati a casa, cerco “sinkhole” su Internet e leggo un articolo dal titolo Perché i sinkhole stanno inghiottendo la Florida. Leggo di un uomo di Tampa che è morto dopo che un sinkhole si è aperto sotto casa sua. Non dico a mio marito di quel poveretto, dell’orrore di venire divorati dalla terra mentre guardi Maury seduto sul divano. Non gli dico che, per colpa del rapido aumento della popolazione, la Florida ha esaurito le sue riserve d’acqua sotterranee, destabilizzando ulteriormente lo strato di pietra calcarea. O che ho iniziato a guardare il cortile di mia madre con un’attenzione nuova. Dicono che si vede la terra tremare leggermente poco prima che si spalanchi un sinkhole.

La casa di mia madre è stata costruita nel 1902, è una casa in stile Queen Anne con un comignolo di mattoni rossi perché il tipo che l’ha fatta costruire era di New York e si era trasferito nel Sud per arricchirsi con il commercio di sedano. Quando mia madre l’ha comprata, la casa era un rudere. La vegetazione sul retro era così incolta che impediva di vedere dove finisse la proprietà. Ma era proprio accanto alla villetta in stile Craftsman che mia sorella, all’epoca incinta, e suo marito avevano passato anni a rimettere a nuovo. 

Mia madre invece ha lavorato alla ristrutturazione per sei mesi e poi si è stancata, quindi casa sua rimane un progetto che non sarà mai completato. Per esempio, l’impianto elettrico è un po’ strano. A volte mentre sono sul divano a leggere saltano le luci, tutte, come se una mano invisibile fosse arrivata a spegnere gli interruttori.

Come siamo finiti quaggiù, naufragati a casa di mia madre? In Florida, è una domanda che mi faccio ogni giorno. Siamo venuti qui all’inizio dell’anno per prenderci cura di mio padre, che stava morendo già da un po’ e che ora è morto. Dopodiché io e mio marito pensavamo di tornare alle nostre vite, ma è arrivata la pandemia e non siamo potuti andare da nessuna parte.

Mio marito era un visiting professor nel Dipartimento di Storia di una città nell’Upstate New York, ma durante la pandemia il budget del Dipartimento è stato tagliato e non avevano più bisogno di visite di nessun tipo.

Mio marito crede che per trovare un nuovo lavoro deve prima finire il suo libro sui pellegrinaggi. Nel frattempo, io smaltisco pian piano la mia montagna di thriller. Per tutto quest’anno mi è sembrato di vivere sotto una gigantesca coperta, nascosta agli occhi del mondo esterno, ma sotto questa coperta esiste un intero universo di ricordi e associazioni ed esperienze. Non sono mai sola. Sotto la coperta ho, con mio assoluto orrore, tutte le mie me passate a farmi compagnia.

Quando vivevamo nell’Upstate New York abitavamo in una casa dell’università, quindi non abbiamo un posto che possiamo dire nostro. «Ma con tutte le cose brutte che ci sono in giro», mi dice mia sorella quando mi lamento della nostra situazione. «Meglio restare vicino a casa, è più sicuro». Mia sorella è un perito assicurativo e le piace credere di avere uno spiccato senso del pericolo. Le ricordo che quaggiù circola un’energia molto strana. Il giornale locale, per esempio, è pieno di annunci di persone scomparse.

Nextdoor è pieno di appelli e numeri di telefono da chiamare nel caso si sapesse qualcosa su qualcuno che è sparito. Non avevo mai visto così tante foto di facce che urlano dagli abissi. Sedute su due sedie a sdraio nel cortile sul retro di casa di mia sorella, guardiamo mia nipote che gioca a parlare con ogni foglia d’erba, e ogni foglia d’erba le risponde. Mia nipote ha quattro anni e ha un’immaginazione sconfinata e sregolata. Del tipo che è convinta di avere un fantasma come animale da compagnia. «È tutta la vita che sei lontana. Cosa c’è di male a stare qua per un po’, visto che c’è bisogno di te?», mi dice mia sorella, incrociando le braccia abbronzate. Non è mai uscita dalla Florida, né ha mai desiderato farlo. È una delle grandi differenze tra di noi. Eccone un’altra: durante la pandemia anche lei si è ammalata ma sostiene di essere assolutamente uguale a prima, come se non mi fossi accorta che i suoi occhi blu oltremare sono diventati di un verde dorato, felino. I traumi ci cambiano nei modi più inaspettati.

Ho lasciato la Florida quando avevo ventidue anni e ora ne ho trentasei. «Metà della vita», la correggo. A casa di mia madre, nella mansarda, c’è una camera da letto con il soffitto inclinato e una sola finestra rotonda che si affaccia sulla strada. Le pareti sono ricoperte di scatoloni e contenitori di plastica. Contengono cose tipo bambole con un occhio solo o tovaglie con macchie di senape che non andranno mai via, perché mia madre non crede nel buttare le cose. Secondo lei, non avere lungimiranza è l’errore più grave che si possa commettere.

Di fronte alla finestra a oblò c’è una vecchia scrivania in stile marina. È in radica di noce e ha tre cassetti su entrambi i lati con pomelli dorati a forma di teste di leone. Ci metto di fronte uno sgabello. Mi siedo. Traballa, quindi ondeggio un po’ e mi sembra che la mansarda sia davvero su una barca. A volte di sera sento una sirena che va avanti per ore. C’è qualcosa che si è rotto e l’allarme non smette di suonare. 

Il mio fratellastro vive nel Panhandle, dove gestisce una compagnia di turismo sostenibile; di recente un gruppo di uomini in tuta mimetica ha prenotato uno dei suoi tour sperando di trovare un’isola deserta dove accamparsi. Non ci credi davvero a tutte quelle scemenze sul cambiamento climatico, vero?, ha chiesto uno di loro al mio fratellastro. Non sai che le ondate di calore e le alluvioni fanno parte di un ciclo? È così dai tempi biblici. Mai sentito parlare di Noè? Decido che verrò in mansarda per il ghostwriting, sì, ma anche per pensare ad altro. Tipo a cosa voglio dalla Florida e a cosa vuole la Florida da me. A com’è successo che questo posto si sia infilato dentro di noi facendosi spazio in mezzo a tutto il resto, e a come è successo che anche noi abbiamo fatto lo stesso dentro di lui. Se è giusto credere alle voci che ci parlano in sogno. Quali siano i voti di silenzio da mantenere per sempre, e quali vadano infranti.

Nel Chiedilo ad Ava di oggi un uomo scrive di sua madre, che è scomparsa di recente. Viveva a casa di suo figlio, in una piccola stanza degli ospiti che dava sulla cucina. Una volta passava il tempo guardando telenovelas e chiacchierando con le amiche al telefono, ma durante la pandemia ha iniziato a usare il minds eye. Si metteva a letto e si infilava il visore e restava così per ore, il corpo inerte ma la mente piena di energie. La madre dell’autore della lettera ha smesso di seguire le trame intricate delle telenovelas, ha smesso di chiamare le amiche. Lui ha iniziato a pensare che avrebbe dovuto farle un discorso serio al riguardo, ma un giorno ha aperto la porta della sua camera e lei non c’era più. Il resto della camera era normale. A parte la madre, l’unica altra cosa scomparsa era il visore bianco. Lei non era in casa, non era nel cortile sul retro, non era sul vialetto. È in pensione; non guida. Lui ha chiamato tutte le sue amiche. Ha chiamato la polizia, che ha risposto in tono brusco, indifferente. Ha la minima idea di quante denunce riceviamo ogni giorno? Tra un po’ ci saranno più persone scomparse che ritrovate. 

L’ha cercata in tutti i posti dove avrebbe potuto essere; ha appeso cartelli; ha scritto post su Nextdoor. Ha avuto la tentazione di prendere in prestito il mind’s eye di qualche vicino di casa, per capire che tipo di vita conduceva sua madre lì dentro – ma proprio non ci riesce. L’electra lo mette a disagio. E se il dispositivo facesse inceppare qualcosa dentro i suoi utenti, un po’ come i messaggi subliminali nella musica che deviano i percorsi neurali del cervello? 

Vai dove devi, ci dicono, ma come fa una compagnia tech a sapere dove devo andare?, scrive lui. Un’altra cosa: se non dovessi trovarla, o se non volesse essere trovata, secondo te sarebbe una cosa poco etica affittare camera sua a qualcuno?

ARTICOLO n. 63 / 2024

LETTERE SOLTANTO IMMAGINATE

Giorgio Manganelli. Lettere familiari

Pubblichiamo un estratto dal testo di Giorgio Vasta che introduce la nuova edizione di Giorgio Manganelli, Lettere familiari (nottetempo) da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Iniziamo a leggere una scrittura personale – per esempio un diario o un epistolario – accompagnati da quel senso di curiosità e di sgomento con cui varchiamo la soglia di una casa che non è stata costruita per noi e nella quale non siamo stati invitati.

Proprio perché sappiamo che non dovremmo essere lì, proviamo a valutare una serie di giustificazioni. Ci diciamo che abbiamo varcato quella soglia come il pellegrino che intravista la porta socchiusa di un casolare ha deciso di trascorrere la notte lì dentro – è una congettura un po’ balzana e medievaleggiante, ma ci piace immaginarci come chierici vaganti della lettura, un po’ sapienti un po’ goliardi, autorizzati dal desiderio di conoscenza a superare ogni confine. 

In alternativa raccontiamo a noi stessi di essere il vicino che non sentendo più da giorni nessun rumore provenire dal piano di sopra, temendo il peggio è salito a dare un’occhiata; dunque siamo lì perché siamo solleciti se non affettuosi: entriamo in casa d’altri perché gli altri, ci diciamo, hanno bisogno di noi – della nostra attenzione: della nostra magnifica indiscrezione. 

Oppure, su questa falsariga, ci raccontiamo di essere l’ispettore appena convocato proprio perché il peggio è avvenuto e il vicino ha prontamente telefonato alla polizia, e adesso ci muoviamo cauti e tecnici per le stanze cercando ovunque tutto ciò che può essere indizio, persuasi che il testo sia sempre il teatro di un delitto e quindi il luogo di un’indagine, il testo è una camera ermeticamente chiusa dall’interno, nessuno è entrato e nessuno è uscito eppure lì dentro è avvenuto un crimine – l’enigma può essere risolto, prima o poi il testo si deciderà a confessare.

Volendo però essere spietati dovremmo riconoscere che se siamo lì dove non dovremmo è perché siamo il ladro: nessun altro se non il ladro: colui che scava una buca e poi un tunnel e poi spacca il pavimento e fa capolino nel testo, il furfante equilibrista che si arrampica lungo la grondaia e poi forza la porta o la finestra oppure si cala giù da un lucernario o da un abbaino o dalla canna fumaria; nell’inoltrarci in quello spazio intimo che sono le lettere familiari di Giorgio Manganelli, noi stiamo compiendo una violazione di domicilio.

Ho letto dunque questo libro sapendo che qui dentro dimorano parole che non sono per me. Qui dentro io sono l’intruso. Colui che ficca il naso in un discorso che non lo riguarda. Ho letto questo libro disobbedendo all’interdizione che fisiologicamente governa l’esistenza delle scritture personali: ogni riferimento, ogni allusione, ogni confessione, ogni lamentazione – e i rimbrotti, le confidenze, le esortazioni, le implorazioni: tutto

ciò che è detto palesemente così come tutto ciò che è cifrato o implicito o anche soltanto limpidamente taciuto – è solo di quei due: è loro; e dunque non è lì per noi. 

L’ho letto così, questo libro, e so che non è la prima volta che succede. Perché le scritture personali vengono recuperate dai fondi, da armadi e cassetti, e pubblicate. E lette. Se lecitamente o illecitamente non lo so – nel caso specifico, negli ultimi tre decenni l’editoria italiana è alla ricerca di un Manganelli ulteriore, dunque anteriore, il più possibile originario, retrostante, a priori, fetale, un Manganelli di fianco, di tre quarti, di spalle, tra virgolette o tra parentesi, estemporaneo, distratto, svagato, addirittura inconsapevole: un Manganelli a oltranza; è una specie di vizio, quello di voler pubblicare, di qualcuno, tutto, ma nonostante a volte si possa avere la sensazione di una forzatura, questa pulsione editoriale è logica e utile: dove cercare la scrittura di Giorgio Manganelli – di uno scrittore che scrive sempre, qualsiasi cosa scriva, a oltranza – se non in ogni sua scrittura?

Quando leggo testi che non hanno previsto la mia esistenza – se il mittente seduto al tavolo a scrivere o il destinatario in piedi a leggere mi avessero visto avvicinarmi, avrebbero fatto una mezza torsione su se stessi per proteggere la scrittura dal mio sguardo –, in faccia mi compare il ceffo del gatto quando gli viene detto di non infilarsi nel vaso e lui si infila nel vaso e scava: No, gli viene detto, non si fa, e il gatto ascolta il rimprovero e scappa e si nasconde e dopo un poco torna nel vaso e ricomincia a rovistare; ho letto questo libro così, furtivo, sentendomi ingiusto e allo stesso tempo non riuscendo a non rinfilarmi nel vaso e a scavare – ancora mille volte mi si potrà rimproverare e ancora mille volte fuggirò intuendo che non si fa e ancora mille volte tornerò nel vaso a zampettare rovesciando fuori la terra: perché nel leggere furtivamente c’è qualcosa di osceno e di bellissimo: nel leggere rubando c’è un senso di colpa che non si distingue dall’euforia.

E allora meglio non subire la natura felinamente canagliesca di questa lettura ma rivendicarla. Meglio dichiarare che si legge anche da clandestini, senza nessuna giustificazione. Dandosi giustificazioni. Si legge intromettendosi tra i bisbigli degli innamorati o dei fratelli, risalendo lungo la spirale che lega un figlio a una madre, il respiro di un padre a quello della figlia. Si legge di ciò che è stato il quotidiano degli altri, che a volte fiorisce improvviso e a volte se ne resta legnoso, un quotidiano che è progetto, problema, fantasticazione, ricerca, inciampo, delusione, e dunque si leggono le circostanze minute delle giornate, le attese, i preparativi, i presentimenti e i dispiaceri, tutte le piccole vicende del corpo – le eccitazioni, i disturbi –, si leggono i desideri, i tormenti, le ambizioni, le frustrazioni, tutti i farò e dirai e andremo e saremo: l’esistenza che mentre accade è sempre un po’ baldanzosa un po’ patetica, cieca e sorda, timida, famelica, simultaneamente vulnerabile e indistruttibile; e ancora, continuando a fare irruzione nella dimora delle confabulazioni private si legge di come a un certo punto la morte smaglia il tempo, separando il tempo dal tempo e insieme umiliandolo, e allora la scrittura tenta di farsi consolazione per provare a stare dentro la scomparsa.

Nel fluire delle lettere che danno forma a un epistolario c’è una costante: ciò che non dà tregua al mittente e al destinatario è il presentimento di un equivoco; ogni lettera è il luogo di un dubbio: ho la sensazione che tu non abbia capito che, forse non ti ho adeguatamente chiarito in che modo, ti avevo chiesto se per cortesia… e invece tu non; nelle lettere che mittente e destinatario si scambiano c’è sempre qualcosa che dovrebbe avvenire, una risposta auspicata che non arriva, un chiarimento in sé necessario ma che proprio per questo latita: qualcosa, l’oggetto di questo equivoco, che a tratti dà la sensazione di farsi emblema di ogni possibile senso, sempre però permanendo indefinito; ogni informazione intesa come fondamentale, e quindi incessantemente sollecitata, non può che venire procrastinata fino a essere omessa, ogni richiesta all’apparenza elementare si rivela misteriosa e irrealizzabile, tutto quello che dovrebbe accadere – facilmente e a stretto giro, pressoché sotto i propri occhi – non accade e addirittura si rifiuta di accadere: ogni singola lettera diventa allora un luogo in cui l’irrequietezza slitta in dispetto, a dominare la scrittura compaiono il disorientamento, il sarcasmo e la recriminazione: null’altro esiste – questo il sottotesto – se non l’equivoco, e venirne a capo è solo una superstizione perché ciò di cui a poco a poco ci rendiamo conto è che nonostante la nostra certezza che il discorso epistolare faccia parte della cosiddetta realtà, e quindi di una cosa descrivibile e persino logica e addomesticabile, invece il discorso epistolare è onirico, il mittente e il destinatario si stanno sempre parlando in sogno, anche quando condividono informazioni radicalmente terrestri e sembrano coinvolti nella realtà più materiale, ciò che si dicono è incerto, ciò che si dicono sembra avere a che fare col movimento e invece è immobile, o meglio ha a che fare con il movimento per come si manifesta nei sogni, quando si corre senza avanzare di un millimetro, frenetici e cristallizzati, brancolando; negli epistolari ci si parla come si parlano Vladimiro ed Estragone, non facendo altro che equivocare e trasformando l’equivoco nell’unica cosa che è possibile dire; ciò che il mittente e il destinatario si dicono è un rêve à deux, dunque una magnifica indistruttibile folie à deux: una confusione di ogni giorno che sconvolge e terrorizza e commuove; non ci siamo capiti, dice ogni lettera, non c’è proprio modo di capirci: comprendersi somiglierebbe a un miracolo – eppure, ed è la condizione più struggente di un epistolario, questo non poter fare altro che equivocare è il nostro unico patrimonio, è il nostro giacimento: il senso del legame; nient’altro c’è da attendere se non un altro equivoco – e non c’è da arrabbiarsi o da patire: questo continuo rinnovarsi dell’equivoco, questo suo caparbio e sempre nuovo inverarsi, non è un’anomalia bensì struttura; e dunque, dice una lettera all’altra, ti prego, sfuggimi ancora, concedimi ancora il privilegio di equivocarti e, così, di equivocarmi, lasciami la possibilità di immaginare che il senso esista e che semplicemente finora ci è sfuggito ma prima o poi riusciremo a prenderlo; intanto, nell’attesa del nostro prossimo equivoco, carissime cose a te e famiglia.

ARTICOLO n. 62 / 2024

MELONI, PISTA E FICHI

Differenze tra propaganda e comunicazione

“Piaccia o no, Meloni dà una pista a tutti”. Questo è un estratto dall’intervista a Cathy La Torre, avvocata paladina dei diritti LGBTQ+ e delle istanze progressiste, su Il Foglio

Cerco di capire cosa non vada in questo trafiletto che profuma di endorsement al Presidente del Consiglio, che fino a qualche settimana fa sembrava essere nemica (nemico? Meloni mi perdoni il misgendering, ma la scelta dei pronomi qui non è ancora molto chiara) giurata numero uno degli ideali a cui anche La Torre si ispira per il proprio lavoro di content creator.

Gli avvocati di Avvocathy (cit. @Odiodiclasse) mi perdoneranno in questo mio esercizio del diritto di critica (e satira, non so essere troppo seria in questo mio incipit), ma non posso davvero credere alla buonafede della loro assistita nel rilasciare tale intervista. Infatti, il risultato della chiacchierata con Gottardi su Il Foglio è un chiarissimo esempio di cerchiobottismo liberale che fa più danno che altro e che arriva talmente all’improvviso da lasciare di stucco perfino il giornalista, che finisce egli stesso per perculare La Torre, cito: “Fermiamoci un attimo prima che l’avvocata La Torre si iscriva a Fratelli d’Italia”.

Nel breve pezzo, le quattromila battute più autosabotanti dell’anno, La Torre elogia la capacità comunicativa di Giorgia Meloni, che sarebbe una “fuoriclasse” dell’ars oratoria della politica nostrana. Per La Torre infatti, Meloni sarebbe un esempio per moltissime persone e la sua parlantina sarebbe magnetica ed efficace. Vabbè che gli standard di professionalità in ambito politico qui in Italia sono bassi, ma manco a far così. 

Credo infatti sia opportuno fare un piccolo approfondimento proprio sulla scelta politica delle parole (dalla campagna elettorale in poi) adottata da Meloni e dal suo partito, per comprendere appieno quanto queste poco abbiano a che fare con la “comunicazione” e quanto invece abbiano il sapore inconfondibile della propaganda di regime. Già, perché se non fosse chiaro, quello del governo Meloni ha tutti i connotati per chiamarsi in questo modo: criminalizzazione del dissenso, uso della forza tramite il braccio armato dello Stato, cancellazione delle marginalità con limitazione dei diritti fondamentali di intere comunità, controllo dei corpi, controllo dei mezzi di comunicazione, finanziamento dell’esercito israeliano, accordi con la cosiddetta guardia costiera libica, silenzio stampa su vicende al retrogusto di MSI e una spietata quanto irriverente apologia di fascismo commessa a giorni alterni.

In questo quadro che ha qualcosa dell’autarchia e qualcosa dell’assolutismo, la comunicazione non basta per sedare gli animi dei cittadini. Serve invece la propaganda, ovvero una serie di espedienti tesi a ribaltare l’ovvietà dei fatti mistificando la realtà e i reali interessi che ha questo governo, per convincere l’elettorato attivo e smuovere quello potenzialmente passivo. Per vedere rinnovato con legalità un incarico, una fiducia in un modus operandi che non potrebbe mai passare come innocuo se raccontato con la spietatezza che invece lo contraddistingue.

La propaganda viene dunque in soccorso di Meloni, che già in campagna elettorale aveva cercato di mitigare l’estremismo post-fascista delle sue intenzioni usando la triade rassicurante per eccellenza: mamma / donna / cristiana.

Con questo motivetto amabile, FdI ha raggiunto anche gli elettori più restii nell’abbracciare istanze violente e discriminatorie, rassicurati da una parvenza di cura che poi avrebbe ritirato fuori all’occorrenza per stemperare le critiche all’operato del primo partito nazionale: Meloni-madre è stata ed è un personaggio propagandistico centrale nello sviluppo e nella radicalizzazione delle politiche sempre più estreme di questo governo.

Mentre in Italia la premier sceglieva questo andazzo rassicurante, ospite in Spagna per i fratelli di Vox si lasciava andare invece a dichiarazioni ben più frizzantine quali “Sì alla famiglia naturale, no alla lobby LGBT, sì all’identità sessuale, no all’ideologia di genere, sì alla cultura della vita, no a quella della morte”. E ancora, mentre in Italia lasciava fare il lavoro sporco ai suoi scagnozzi, da Roccella ai vari parenti inseriti nell’esecutivo, bloccava con il sorriso rassicurante di una madre il diritto di due madri di poter riconoscere i propri figli. O ancora, di poter accedere alla maternità surrogata.

Mentre sfilava diritti e inaspriva le pene, ci raccontava una storia che non corrisponde al reale: Meloni non è mai stata una che, come invece dichiara La Torre, condanna con fermezza gli attacchi omolesbobitransfobici. Meloni è una che DEVE farlo, non che vuole. E mentre lo fa, impedisce la transizione a centinaia di giovani ragazzi, firma leggi che controllano i corpi della comunità, disconosce l’omogenitorialità, promuove il razzismo, dirotta navi di ONG in porti lontani centinaia di chilometri per giocare partite a braccio di ferro con l’Europa sulla pelle delle persone migranti, fa presidiare tramite i suoi fedelissimi di Pro Vita e famiglia i consultori del paese rendendo spesso impraticabile l’interruzione volontaria di gravidanza, ignora i fondi destinati alla prevenzione della violenza maschile contro le donne, accusa pubblicamente una pugile di non essere ciò che è contrapponendo le “vere donne” a tutte le altre, criminalizza le ONG che salvano vite in mare mentre stringe accordi con chi tortura e uccide.

Mentre questo piano di orbanizzazione con la camicia nera va avanti, si confeziona insieme al suo sapiente ufficio stampa un pacchetto di informazioni falsate e perentorie, frasi fatte e facilmente memorizzabili che possono essere rese tormentone, che nessuno verifica mai, complice anche un analfabetismo funzionale devastante, sia a destra che a sinistra.

Fa leva sulle paure ataviche delle società capitaliste, instillando il dubbio nel diverso, allontanando l’arricchimento e il progresso rievocando un passato che dolce non è mai stato, ma che ci vuol far credere sia così.

Meloni e i suoi hanno capito esattamente come far breccia nelle fragili convinzioni di un elettorato – anziano e lontano dalla velocità e attualità delle nuove generazioni – che si trova a votare chi tra i vari politici fa la voce più grossa. 

La propaganda fa leva sulla paura del diverso, sulla punizione e sulla promessa di un futuro florido che non verrà mai mantenuta.

La propaganda di per sé non è una comunicazione politica canonica ed efficace proprio perché è il mezzo che hanno i regimi per convincere che tutto quello che avviene sotto al loro dominio sia giusto e rassicurante. Mentre, nella pratica, si va esattamente nella direzione opposta.

La differenza tra comunicare politicamente qualcosa di reale e fare propaganda sta tutta qui: delle parole vuote noi categorie marginalizzate ce ne sbattiamo il cazzo, soprattutto se queste sono accompagnate da provvedimenti che ci limitano la libertà a esistere.

Per questo mi fa incazzare da morire che si faccia un endorsement di questo tipo a un personaggio come Meloni, che del soffitto di cristallo fa suo rigidissimo scudo. 

Non c’è niente di autentico in quello che il Presidente ci comunica ogni giorno, e che a non rendersene conto siano persone che mi aspetto abbiano gli strumenti per riconoscere questo meccanismo disumano mi spaventa non poco.

Se poi questo sia un tentativo di mettere piede in qualche progetto o programma ministeriale a me non interessa, ognuno di noi si vende a chi preferisce almeno una volta nella vita. 

Ma che lo si faccia con tanta scelleratezza, passando sopra la sofferenza di intere categorie che probabilmente si sentivano rappresentate e al sicuro nel leggere le parole scritte da La Torre ogni giorno sui suoi social, mi disturba.

Perché queste sviolinate me le aspetto da Silvia Grilli, non da chi mette i diritti davanti a ogni cosa.

Volevo e ci tenevo a esprimermi su questo argomento perché ora più che mai dovremmo avere chiari sia gli intenti del governo Meloni che l’inadeguatezza del liberalismo del PD. 

E mi duole vedere che anziché reagire con una radicalizzazione si voglia invece finire a tutti i costi nel buonismo anche davanti all’evidenza. Evidenza che fa schifo e soprattutto paura. 

Ci tenevo a esprimermi perché penso che a volte mettere le cose nero su bianco e fare un’analisi un po’ più approfondita in risposta ai vari “non mi avete capita” e del “parlavo di comunicazione, non di politica” possa servire davvero a non reiterare questi terrificanti autogol in un momento così delicato per chi vive o sosta in Italia.

Ci tenevo a esprimermi qui, perché posso ancora farlo. E in un regime mica è scontato.

E finché potremo farlo, dovremmo ribadirlo con rinnovato orgoglio: la propaganda meloniana è roba da fascisti, non da fini comunicatori. 

Non vederlo è marchetta, o semplicemente liberalismo.

Non mi esprimerò invece sulla scelta di quella foto con la maglietta di Murgia, perché se dovessi davvero dire cosa penso del personal branding fatto con i morti dovrei bestemmiare. E so che questo, a Murgia, avrebbe dato molto fastidio.

ARTICOLO n. 61 / 2024

EROS

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

«Non vedi come soffrono le coppie legate dal piacere? Anche quando l’amore è felice e i corpi si congiungono e sono vicini a godere e Venere inonda la femmina, i due si avviluppano, mescolano la saliva con la lingua, premono le labbra contro i denti, ma è inutile: non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere», diceva Lucrezio (De rerum natura, IV, vv. 1105-1111). 

Ma se, scriveva tre secoli prima Platone nel Simposio, Efesto il fabbro, il dio del fuoco e delle fucine, apparisse in quel momento ai due amanti con i suoi strumenti e chiedesse: cosa volete? forse volete fondervi? Io potrei farvi diventare da due uno solo, finché sarete in vita e poi ancora nel mondo dei morti, loro stupiti e imbarazzati direbbero di sì, che è proprio quello che da tempo desideravano, da due diventare uno, congiungendosi e confondendosi (192d). 

Sempre nel Simposio Aristofane racconta che in origine gli esseri umani avevano quattro braccia e quattro gambe e due facce rivolte all’opposto su un’unica testa, e quando volevano muoversi velocemente rotolavano come una palla. Fu Zeus, per moderare la pretesa di perfezione di queste creature sferiche, a dividerle in due, incaricando Apollo di girare i loro volti in modo che guardassero di fronte. Ma gli esseri umani così scissi sentivano una terribile mancanza dell’intero originario e ognuno andava cercando la metà perduta e la abbracciava e cercava di fondersi con lei, fino a morire di inedia e di inazione. Perciò Zeus, impietosito, inventò l’unione sessuale e da allora ogni essere umano cerca di ritrovare così l’unità antica e di riunirsi alla metà mancante (189d-191d). 

«Ma coloro che trascorrono insieme tutta la vita — cito ancora — non saprebbero neppure dire che cosa vogliono ottenere l’uno dall’altro. Nessuno potrà credere che si tratti solo del piacere sessuale. È evidente che l’anima di entrambi vuole qualcos’altro che non è capace di esprimere. Di ciò che vuole ha un presentimento, e parla per enigmi».

 «La verità, vi prego, sull’amore», invocava Wystan Hugh Auden. Non c’è nulla di più beffardo del discorso di Aristofane nel Simposio e del suo mito degli uomini palla. Chi può dire di conoscerlo, l’amore?

Eros stesso è l’unico dio che non è né sapiente né ignorante. Nel Simposio c’è il famoso discorso di Diotima, dove dice (203e): «Eros non è mai sprovvisto né ricco, e d’altro canto sta in mezzo tra la sapienza e l’ignoranza». Segue spiegazione: «Gli è propria la tensione verso la sapienza, dunque è più ignorante dei sapienti; ma d’altra parte non è ignorante, perché gli ignoranti non desiderano diventare sapienti». 

Il fatto è che Eros è figlio di una mancanza: sua madre è Penìa, Povertà, che durante il banchetto per la nascita di Afrodite chiede l’elemosina alla porta degli dèi. Lì si imbatte in Pòros, figlio della dea Mètis, Intelligenza. Lui è ubriaco e lei lo seduce mentre è semincosciente. Dal connubio nasce Eros, che contiene in sé un’assenza, un’indigenza (penia), ma proprio da questa è spinto a cercare ogni via, sotterfugio, espediente (poros) per raggiungere ciò cui tende: così Platone, Simposio, 203b-e. In questo senso per Diotima Eros, non essendo né mortale né immortale, in una stessa giornata ora vive, quando trova una nuova strada (poros), ora muore ma ritorna di nuovo alla vita grazie alla natura del padre; ma ciò che si è procurato è poco e scorre sempre via (203e). 

Perché è vero che l’amore è una manìa, ossia una forma di follia in senso tecnico, classificata come tale dalla medicina dei greci oltre che dalla loro filosofia, per esempio nel Fedro di Platone. È vero che, come diceva Omero, l’amore fa perdere la ragione anche ai più saggi. È vero che scrolla la mente come una ventata che si abbatte sulle querce, come diceva Saffo. Che suscita nella psiche un’affezione bipolare: «Amo. Non amo. Sono pazzo. Non sono pazzo», come diceva Anacreonte. Che sgomenta chi dopo anni riconosce il suo «sguardo struggente sotto le palpebre scure», come Ibico: «Io tremo quando lo vedo venire / come un cavallo già vecchio / allenato a molte vittorie / controvoglia / si avvia alla gara dei carri veloci».

Ma è anche vero che solo attraverso questa emozione che “scioglie le membra” proprio come la morte al guerriero omerico (la formula omerica: «Si sciolsero le membra, e la vita volò via»), attraverso questa vana macina di ricchezza e miseria – tutto ciò che Eros accumula scorre via, per questo non è mai né povero né ricco –, di sapienza e ignoranza, questo continuo sperpero che chi ama fa di sé, l’amore crea quello stato di vuoto, di penuria assoluta, di vanificazione dei fini materiali di cui affolliamo la nostra esistenza per superficialità, per horror vacui, per orrore del vuoto, o semplicemente per conformistica, depressa accettazione delle regole della tribù. 

Eros sgombra il campo: procura un’alienazione mentale che ci salva dall’alienazione sociale, ci mette in contatto con l’assoluto, ci rende indifferenti a ogni status aleatorio, a ogni ricchezza illusoria, ci spinge a raggiungerne un’altra più profonda. Eros «ci svuota dell’estraneità e ci riempie di intimità» (Platone, Simposio, 197d).         

Per questo l’amante è più caro al dio e più divino dell’amato (180b). Il desiderio alimentato dalla mancanza fa sì che l’amante continuamente si ravvivi e la passione diventi tensione verso la ricerca di un inesprimibile bene e faccia di lui «un uomo destinato a vivere in modo bello» (178c) e a «creare nel bello, col corpo ma soprattutto con l’anima», come dice la maestra d’amore di Socrate, Diotima (206b-c).

Così, come nella fiaba di Amore e Psiche, Eros è il misterioso tramite dell’unica possibile conoscenza umana, il mezzo dell’unico possibile miglioramento individuale, il veicolo dell’unica possibile sintonia della psiche con il cosmo. Perché l’una e l’altro, per i greci, sono generati e permeati da Eros. 

Già per i presocratici Eros promuove la nascita di ogni cosa. Nella Teogonia di Esiodo emerge direttamente dal caos, nelle cosmogonie orfiche si identifica con la stessa energia cosmica: come racconta Aristofane negli Uccelli (693-699), dal seno sconfinato dello spazio primordiale, da Caos, Notte, Erebo, Tartaro, che ospitavano la materia senza che ci fossero ancora terra né aria né cielo, «la Notte dalle ali di tenebra generò un uovo pieno di vento, e da questo uscì Eros, sul cui dorso splendevano ali d’oro, ed era simile alla tempesta, e congiunto a Chaos nella vastità del Tartaro covò la nostra stirpe e questa fu la prima che venne alla luce».

Ed è così che gli umani, per citare Cole Porter, begin the beguine, cominciano la danza — una danza estenuante, come appunto la beguine. Nessun essere umano può essere defraudato della sua energia. È una forza che porta ordine al cosmo e un apparente disordine all’anima. Ma se raccogliendo la sapienza greca si contempla nel microcosmo dell’anima il processo ciclico di desiderio e tensione, unione e creazione, distacco e mancanza, sconvolgimento e rinnovamento che governa il grande cosmo, se ci si immerge nel suo vuoto e ci si specchia nel suo  caos, se ci si scioglie dalla sofferenza dell’io per cogliere nelle vicissitudini della psiche individuale il riflesso dell’anima del mondo, si può come i greci avere il dono di avvertire, nella beguine di Eros, il rumore di fondo dell’universo.

ARTICOLO n. 60 / 2024

CONTROLLO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Potrebbe sembrare scontato legare il tema del controllo a quello delle tecnologie digitali ma forse non lo è così tanto, considerato che c’è chi si indigna anche solo all’idea di accostare i due termini.

Eppure non solo da tanti punti di vista la cosa può aver senso, ma c’è anche una buona biografia a sostenere un simile approccio. Certo, forse una biografia non troppo accademica, probabilmente eterodossa, ma certamente di un certo rilievo.

Volendo però fornire qualche elemento per un ipotetico sommario si potrebbe cominciare nominando la creazione della cibernetica, la nascita e lo sviluppo della rete internet, le intuizioni visionarie di Burroughs e le riflessioni di Deleuze sulle società del controllo, certi scritti un po’ dimenticati del Critical Art Ensamble e di Tiqqun, passando per le analisi di Stiegler e del Comitato invisibile per arrivare alla gran quantità di studi dedicati all’argomento degli ultimi quindici anni. E come tralasciare tutto il dibattito intorno alla sorveglianza, la trasparenza, la biometria e la privacy?

Da questi pochi elementi dovrebbe già essere chiaro il motivo per il quale appare oggi del tutto in cattiva fede tenere separato il discorso sulle tecnologie digitali da quello sul controllo, i due sono infatti il medesimo.

Andando dritto al punto: questi decenni e i prossimi si configurano sempre più come un era nella quale la governance delle popolazioni – che ha sostituito il governo democratico degli stati amministrando i flussi delle risorse invece di sviluppare una politica per i loro cittadini – si attua sempre più per via digitale – algoritmica – dando vita a società del controllo che si configurano mimeticamente come sistemi di sorveglianza e tracciamento diffusi e capillari.

La premessa indispensabile per questo scenario è la fusione della vita off-line con quella on-line, nella dimensione nota come on-life. Lo strumento che sigilla questo passaggio e lo rende possibile è attualmente lo smartphone, ma nuovi device potranno prenderne presto il posto. Già adesso questo strumento non è che una parte di un apparato più grande, e funzionando di fatto come un terminale di una serie di calcolatori “server” allocati in remoti datacenter, ma anche elaborando e scambiando informazioni con altri dispositivi, dallo smartwatch ai sistemi di pagamento digitale fino ai sistemi di domotica.

Considerato poi gli investimenti in settori quali l’intelligenza artificiale, i computer quantistici e la nanotecnologia è certo che, presto o tardi, la loro diffusione ridefinirà ulteriormente dinamiche, soglie, campi d’azione, possibilità.

Due sono le direttrici del controllo, quella attiva e quella passiva, che sono però strettamente intrecciate tra loro. La prima ha a che vedere con la presenza e l’attività sulle piattaforme di messaggistica e dei social media, ossia con l’esposizione di sé, del proprio corpo e dei propri pensieri, con l’espressione di like e in generale gli indicatori per la numerificazione dell’esperienza digitale. L’altra si riferisce a tutti quei momenti nei quali la nostra attività è tracciata senza che ce ne rendiamo conto – antenne dati e wi-fi, tempi di connessione, uso di app, siti visitati, profili seguiti, abitudini di consumo eccetera.

Entrambe queste direttrici si muovono però su un sostrato comune, la quantificazione del sé, la biometria. 

Se quest’ultimo elemento, com’è noto, ha subito prima un’accelerazione dalla teorizzazione dei sistemi cibernetici e poi una sua normalizzazione nell’industria dei dati, propria delle tecnologie digitali dei social media commerciali e delle altre piattaforme di comunicazione e consumo, è però in buona parte ignorata la sua genealogia che ne fonda i presupposti culturali. E passa dall’organizzazione dei corpi dei lavoratori nelle fabbriche della modernità.

Per la studiosa Simone Browne questa genealogia si può retrodatare ai registri compilati sulle navi schiaviste che servivano per tracciare, identificare e certificare la proprietà delle persone deportate.

Già da qui si possono indicare alcuni concetti fondamentali: l’identificazione, la profilazione, la proprietà, ma anche la previsione, la pianificazione, la programmazione. Sono questi i tasselli fondamentali da cui sorge la logica del controllo delle tecnologie digitali. E sembra avere sempre a che vedere con la gestione dei corpi altrui, corpi subalterni, corpi su cui si pretende la proprietà, oppure inseriti in una ben definita gerarchia, corpi di cui avvantaggiarsi per il proprio tornaconto privato.

Veri demoni dell’età cibernetica, profilazione e previsione sono ossessivamente presenti, dal calcolo balistico degli ordigni alle indicazioni di consumo della prossima primavera, dalla proposta di contenuti, contatti, prodotti, intrattenimento, alla gestione dello sviluppo di povertà e ricchezza nelle aree metropolitane, fino all’identificazione degli obiettivi da bombardare nelle zone di guerra. La guerra torna sempre, sembra essere il basso continuo della logica del controllo.

Questo legame con la violenza potrebbe sembrare paradossale ma non lo è. Se è vero che nelle società di controllo il potere esercita il suo lato “morbido” perché la governance pratica la gestione della vita attraverso la persuasione, l’intrattenimento, il consumo culturale, l’economia dell’attenzione, ossia attraverso il controllo del tempo delle coscienze e dei corpi quale valore economicamente calcolabile, è altrettanto vero che è sempre presente, quando necessario, il suo rovesciamento, il suo “lato ombra”, dove domina la coercizione e la forza bruta. Questo rovesciamento, questo “lato ombra” avviene quando la reificazione di soggetti e ambienti è completa e totale – come già prefigurato da Burroughs – ossia quando la numerificazione e la possibilità di uso che permette non lascia spazio a nessuna alterità possibile, configurando così la pura “società strumentale”. In entrambe – come ci invitava a riflettere Caronia – assistiamo al passaggio dalla tecnologia come protesi alla tecnologia come mondo, non solo per la dimensione dell’on-life richiamata inizialmente o per la pervasività delle tecnologie digitali nella vita quotidiana ma per la capacità dell’informazione di farsi mondo e di farsi interiorità. 

È in virtù della potenza dell’informazione di dare forma a soggettività che hanno interiorizzato un sistema di valori e una razionalità della vita sociale conformi al discorso del capitale che oggi possiamo dire che la logica del controllo è interiorizzata.  Ed è il carattere storico e culturale di questa logica che deve essere affrontato dietro e al di là delle tecnologie digitali.

In questo scenario dove l’esterno si fa interno e l’interno si fa esterno, il controllo è un vettore che parte da più lontano nel tempo e che produce, più che esserne plasmato, la cultura cibernetica. Essa è però l’incarnazione teorica di questa logica, mentre la tecnologia digitale ne è quella pratica.

ARTICOLO n. 59 / 2024

MEDITAZIONE

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

La parola del futuro è la parola che non ci sarà mai nel futuro: è la parola meditazione. La parola meditazione è la parola che non ci sarà mai, o che ci sarà sempre di più, ma stravolta, contorta, scaraventata giù, sotto un dirupo, la parola fatta bandiera, esposta come vessillo in ogni angolo della città, confusa, usata come slogan, perennemente fraintesa.

La parola del futuro che auspico è la parola senza parole, la parola in cui scompare la parola, la parola che prende una parola e la porta via, la fa cadere giù, non si vede più niente, non si sente più niente, neanche la parola, neanche il vuoto.

La parola del futuro deve essere la parola meditazione, e non lo sarà. Deve essere la parola che se ne va, la parola che sta per un attimo in silenzio. La parola che se ne sta in silenzio per una vita intera e anche di più.

«Yoga Chitta Vritti Nirodha» scrive Patanjali, e significa che lo yoga estingue le modificazioni mentali. E allora voglio immaginare un futuro che non ci sarà, un futuro senza parole, in cui cadiamo, tutti insieme, in uno spazio vuoto luminoso.

Un futuro dove stare proprio tutti lì, in quello spazio vuoto luminoso, insieme, a respirare insieme, ogni respiro è un respiro che non ho mai respirato, e quindi a co-spirare insieme, un futuro dove cospirare tutti insieme, uno dopo l’altro, un futuro senza vritti.

Ho scritto a un amico che ero felice, e che lo ero in quel preciso istante, e lui mi ha risposto che sto diventando un prete, e io gli ho chiesto da quando la felicità è di proprietà della religione cattolica, e poi ho scritto che se è così non si può che essere preti, preti per sempre, andare incontro alla felicità, andare incontro al mondo, essere intramati di mondo. 

Sei troppo spirituale, parlami della tua svolta mistica, mi hanno detto, sei diventato buddista, hanno detto ancora, e ho detto che non ho detto niente, che c’è il silenzio, che la parola del futuro non è il silenzio, è dentro il silenzio, la parola del futuro non è neanche più tra gli spazi bianchi, tra una lettera e l’altra, la parola del futuro è tutto uno spazio bianco, uno spazio vuoto luminoso.

E mi hanno detto ancora sei sufista, da quando segui il sufismo sei diverso, e hanno detto ancora che hanno detto ancora che sono meno mondano, non sei mai stato mondano, mi hanno detto, ma così è troppo, così stai esagerando, sei anche dimagrito, avrai perso quindici chili hanno detto, abbiamo detto, ho detto. 

Mi hanno detto che con il lavoro che fai dovresti tessere più relazioni, potresti conoscere il mondo intero, invece tu…

Mi hanno detto che con il lavoro che fai puoi farti tanti amici, che ti saranno utili, eppure tu non lo sai fare, mi hanno detto che si fanno anche tanti nemici.

La parola del futuro, allora, è benevolenza, la pratica di metta bhavana, spargere amore nel mondo, spargere amore a chi ti odia, a chi hai odiato, dare amore a chi non lo saprà mai, eroso da ciò che siamo, non ti nutrire di invidia e gelosia, ma anche sii consapevole di invidia e gelosia, lasciale andare, non sei tu a essere gelosoè la gelosia che passa, è lei che passa di qua, salutala e falla andare

Ecco, la parola del futuro è meditazione cioè meditare cioè medicare, cioè respirare, cioè co-spirare, cioè cospirare insieme, in uno spazio vuoto luminoso.

Eccola questa parola, la parola “meditazione”, anche lei vilipesa come tutte le parole, frullata dagli algoritmi, impacchettata e spedita da Amazon Prime in sole 24 ore, la parola che si porta dietro mondi immensi, la parola che è fuori dalla parola, l’unica parola che è fuori dalla parola, ma è dentro TikTok, è dentro Instagram, la parola che viene usata come un’Aspirina, marchio registrato. 

Eccola, la parola che viene bombardata giorno dopo giorno, ora dopo ora, la parola che viene uccisa negli ospedali pediatrici bombardati, la parola che si è nascosta nell’oblio delle guerre dimenticate, dell’invasione cinese del Tibet e in infinite altre guerre, negli imperi che vogliono mangiarsi le religioni, negli imperi che vogliono mangiarsi le meditazioni. 

Mi hanno detto Sei diventato troppo idealista, pensi ancora a quello che succede nel mondo, mi hanno detto che non si può empatizzare con chi è così lontano da te, mi hanno detto che non puoi piangere per una donna nera morta ammazzata perché non sei donna e non sei nera, mi hanno detto che è facile piangere dalla mia posizione, mi hanno detto che non puoi piangere perché non sei morta, solo i morti devono piangere, mi hanno detto, i vivi devono solo soffrire. 

Mi hanno detto che quello che scrivo non lo legge nessuno, che non si capisce come mai non metto a frutto le relazioni, mi hanno detto che proprio non lo so fare, mi hanno detto che non si sa perché non mi interessa, che se hai un ruolo di potere, mi hanno detto, lo devi sfruttare, mi hanno detto che è tutta una questione di essere presenti. 

Mi hanno detto che bisogna esserci, e non si sa perché io non ci sono, non sono mai dove dovrei essere, mi hanno detto, non vado alle cene. 

Mi hanno detto che vado a dormire troppo presto.

Mi hanno detto che sono diventato taoista, mi hanno detto che però mi vesto come un prete, mi hanno detto che mi vesto queer, mi hanno detto che prima ero elegante e adesso sembro pazzo, mi hanno detto che attraverso la classica crisi di mezza età, è normale, a quarant’anni ci si intenerisce, ma non ti preoccupare, poi passa, mi hanno detto, poi si torna a fare quello che si deve fare, a essere come si deve essere, a non pensare a tutto il resto, a odiare chi ti odia, a sfidare chi ti sfida, a gareggiare, poi si torna a fare quello che bisogna fare, mi hanno detto che bisogna pensare al futuro, sì, al conto in banca, mi hanno detto che sì, ne ho passate tante, ed è per questo che sono in questo e quest’altro modo, mi hanno detto che da un po’ parlo troppo poco, che anno dopo anno i dialoghi con me sono sempre più monologhi degli altri, che un tempo parlavo tanto, ero simpatico, adesso voglio stare lì, ad ascoltare. 

Mi hanno detto che la parola del futuro non sarà mai meditazione, saranno tutt’altre le parole del futuro, per esempio io, per esempio io, per esempio io-io-io, e poi c’è un’altra parola tutta nuova ma così antica, la parola algoritmo per eccellenza, la parola io-mioio-mioio-mio.

Io-mio sì che è una parola, altro che meditazione. 

Una parola vera, una parola che non puoi fraintendere, reinterpretare, confondere.

E allora voglio immaginare un futuro che non ci sarà, un futuro senza parole, senza parole vere, senza parole false, un futuro in cui cadiamo, tutti insieme, in uno spazio vuoto luminoso. 

Un futuro dove stare proprio tutti lì, in quello spazio vuoto luminoso, insieme, a respirare insieme, ogni respiro è un respiro che non ho mai respirato, e quindi a co-spirare insieme, un futuro dove cospirare tutti insieme. 

Un futuro dove respirare, ed essere tutto ciò che c’è attorno, noi tutte, noi tutti. 

Un futuro dove essere come alberi, come acque, come respiri, come montagne.

Un futuro dove essere le nuvole che volano via, sempre più in alto, poi si tuffano giù, per abbracciarci quando siamo sotto le lenzuola. 

Un futuro dove essere la brina del mattino, quei piccoli aghi di ghiaccio che sembrano mandati dal cielo per ricordarci che siamo tutti ancora qui.

Un futuro dove essere ciò che chiamate vigilia: il giorno prima. 

Voglio essere la veglia prima del momento, l’esitazione felice e malinconica del tempo dell’attesa, il momento che arriva, trema, e non vuole andare via. 

Il momento che spinge quel momento ad andare via.

Il presente da rincorrere, il futuro da rinchiudere, il passato da stringere forte. 

Voglio essere la crepa che c’è in ogni cosa, e la luce che entra in quella crepa. 

Voglio essere la rupe e tutto ciò che la rupe ha inghiottito nel lungo corso di questi lunghi secoli.

Voglio essere questo secolo. 

Quell’altro secolo, che è come quello che verrà.

Voglio essere i denti che battono per la paura, la pelle delle mani che raggrinzisce quando è gonfia d’acqua, il bordo dell’unghia del piede che penetra dentro la pelle, si incarna, si fa carne.

Voglio essere la carne.

Voglio essere il collo compresso con violenza, e strozzato da mani nemiche che non credevo nemiche. 

Il respiro, l’ultimo respiro, il respiro che deve ancora venire. 

Voglio essere le mani amiche che strozzano il collo nemico. 

Il nemico e l’amico. Quello che divide il mondo in nemici e amici. 

Voglio essere quel momento in cui, per un attimo, tutto questo finisce, finiscono i nemici, finiscono i pensieri, e noi, tutti, splendiamo della nostra stessa luce, abitiamo soltanto dentro noi stessi. 

Voglio essere l’unità che non siamo in grado di vedere, l’energia creatrice che trascende ogni tempo, ogni spazio.

Voglio essere il germoglio brucato dalla vacca in un punto sperduto dell’universo. 

Tutto ciò che nel mondo si disperde, dagli acari alle stelle. 

Voglio essere il lombrico mangiato dal rospo, e il rospo che mangia il lombrico.

L’onda che cresce, risale il fondale e si solleva fino a rompersi a riva. 

Voglio essere la riva e il fondale, la conchiglia spazzata via dall’onda, trascinata sulla sabbia.

La sabbia che arriva e che copre la conchiglia, che copre altra sabbia. 

Essere la sabbia che è alla luce e la sabbia che è all’ombra. 

Essere l’ombra che ci segue nel bosco, e ci fa compagnia tra i canti delle allodole.

La luce che certe mattine sembra ululare.

L’aratro che dissoda il terreno e il terreno dissodato, la formica uccisa dal passaggio dell’aratro, i muscoli delle zampe del cavallo che traina l’aratro, il contadino che ara: voglio essere l’aratro fermo, abbandonato, quando tutto è finito. 

Voglio essere il legno marcito dalla pioggia, la pioggia che marcisce, la bambina che piange, la mamma che picchia, il sangue che scende, la ferita che ricuce la pelle, la cenere che se ne va e che si fa dimenticare.

Voglio essere tutte le guerre dimenticate, le paci da dimenticare.

Voglio essere tutto ciò che finisce nell’immenso deposito sotterraneo delle dimenticanze, tutto ciò che dimentichiamo ogni giorno, noi tutti, che siamo passati da questo pianeta. 

Voglio essere la vetta della montagna, che congiunge il cielo e la terra. 

Voglio essere il trattino che unisce cielo e terra, montagna e mare, est e ovest, vita e morte, noi e loro, io e te, e abbatte ogni parola, abbatte ogni confine. 

Voglio essere una parola nuova, fatta di tutte le parole pronunciate da tutti gli esseri che sono vissuti sul nostro pianeta e su tutti gli altri pianeti.

Voglio essere la parola non pronunciata, quella silenziosa, quella detta da un salice, da un alligatore, da una salamandra.

Voglio essere una parola infinita, fatta di trattini, una parola unica che non ha più bisogno di trattini.

Voglio essere una parola così lunga che sarà pronunciata per intera, finalmente, solo quando sarà dimenticata.

ARTICOLO n. 58 / 2024

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

“Intelligenza artificiale” è un’espressione che ormai è venuta a noia anche a chi si occupa di queste tecnologie. Con il trascorrere del tempo, l’hype verso un prodotto dai costi miliardari che promette o minaccia di salvare o distruggere l’umanità comincia a suonare credibile come i timori del millennium bug dopo il duemila. Alcune persone restano timorose e diffidenti, altre non rinuncerebbero più a queste innovazioni, ma nei grandi poteri economici – dove si prendono le decisioni – continuano movimenti di assestamento tra accordi e minacce.

Di recente, Apple ha siglato un accordo con OpenAI per l’utilizzo di ChatGPT; poco prima, Samsung aveva fatto lo stesso con Google per l’utilizzo di Gemini, tra i più celebri concorrenti a ChatGPT; Microsoft integra l’AI (powered by OpenAI) nel suo nuovo sistema operativo. Queste tecnologie entreranno presto anche nelle abitudini dei più scettici: sarà possibile rifiutarle? Ovviamente sì, nessuno ci ha mai obbligato a comprare uno smartphone, eppure lo abbiamo fatto, un po’ per moda, ma soprattutto perché è comodo. Non solo per le mappe, ma anche per le traduzioni, le foto, i treni, le informazioni, la banca, i giochi, gli appunti, le notizie… persino i social network sono utili. Le giuste critiche a queste reti capitaliste di controllo e persuasione non devono farci dimenticare che, se paghiamo un prezzo così caro, non è solo per dipendenza, ma anche perché troviamo utile conoscere persone e condividere esperienze e informazioni. Così come lo smartphone, anche l’AI scivolerà nelle nostre vite perché, banalmente, è utile.

“Intelligenza artificiale” non è solo un’espressione troppo diffusa, ma anche inaccurata. Non abbiamo una nozione chiara di “intelligenza” – anzi, la cambiamo via via che una mente non umana o una tecnologia ci supera in qualche ambito – e non sappiamo se e secondo quali criteri possiamo definire intelligenti queste macchine. Una calcolatrice è senza dubbio più abile di me nel fare i calcoli, un’ape vola e coordina i suoi movimenti meglio di me, le piante sanno comunicare tra loro attraverso i miceli. Il mondo vivente è pieno di intelligenze che ci superano, tanto che, come suggeriva Stanislaw Lem in Summa Technologiae, anche l’evoluzione è un’intelligenza sorprendentemente efficace, che opera attraverso il tempo e la statistica. La natura lo fa meglio e prima insomma, come suggerisce il recente libro di Giorgio Volpi (Aboca edizioni). Lenta e priva di un’intenzione consapevole, riesce a produrre una straordinaria varietà di soluzioni viventi con risultati che spesso superano quelli di un disegno intelligente e intenzionale. Nel ristretto ambito della manipolazione di simboli, è già innegabile che ChatGPT sia spesso più intelligente di noi, considerato che scrive e parla meglio di molti umani; tuttavia, come la calcolatrice, resta molto meno versatile, non essendo in grado di cose come muoversi nello spazio o di assimilare informazioni per il proprio apprendimento in tempo reale e con cinque sensi.

“Artificiale” è un termine ancor più sbagliato. Ogni tecnologia nasce e si sviluppa in una rete di conoscenze culturali e ambienti sociali, rendendo artificiosa l’idea che siano degli oggetti neutrali o separati dall’uomo. Nel caso delle AI, questa neutralità è ancora più fantasmatica, perché si tratta di strumenti la cui stessa materia prima sono i dati e i feedback forniti dagli umani. Miliardi di immagini e testi vengono dati in pasto agli algoritmi, grazie a un complesso e capillare lavoro di annotazione e di feedback fornito da umani, spesso sottopagati. Come scrive Josh Dzieza per The Verge, il ruolo dei lavoratori dell’annotazione dei dati è cruciale ma invisibile. Questi lavoratori, spesso situati in paesi con salari più bassi come il Kenya, svolgono compiti ripetitivi e tediosi. 

Joe, un laureato di Nairobi, etichettava riprese per auto a guida autonoma, un lavoro che richiede ore di annotazione per pochi secondi di filmato, pagato solo $10 ogni otto ore di lavoro. L’annotazione dei dati è essenziale per la funzionalità dei sistemi AI, specialmente per gestire i casi limite che i modelli di machine learning incontrano nel mondo reale. Un incidente con un’auto a guida autonoma di Uber ha evidenziato tragicamente la necessità di un’accurata annotazione dei dati. Nonostante l’importanza di questo lavoro per il funzionamento delle AI, i lavoratori sono spesso pagati poco e non hanno consapevolezza del valore del loro contributo. In altri casi, come quello di Surge AI, le aziende svolgono compiti di labeling più complessi e specializzati, che richiedono competenze specifiche, con paghe tra $15 e $30 all’ora, con alcuni lavori specialistici che raggiungono i $50 all’ora o più. Considerando tutto questo lavoro umano e l’importanza dei dati, l’AI non è poi così artificiale.

Nonostante l’hype eccessivo, le paure esagerate e il nome sbagliato, l’intelligenza artificiale è qualcosa che farà senza dubbio parte del nostro futuro, così come fa già parte del nostro presente. Di recente un’artista americana nota per la sua posizione contro le AI, Jingna Zhang, ha fondato Cara, un social network per artisti sul modello dei più grandi Behance o DeviantArt. La peculiarità principale di questo nuovo social è che filtra le immagini generate dall’AI, proibendone la presenza nel network. L’aspetto più interessante è osservare il walldi Cara e confrontarlo con, per esempio, quello di Civit Ai, un social dedicato solo ad arte prodotta con AI generativa: al netto della tecnica risultano spesso indistinguibili. Si tratta per lo più di ottime realizzazioni ma stilisticamente di maniera, molto simili tra loro, di frequente kitsch. Nulla di male in questo, anzi, sono spesso gradevoli se non eccellenti nel loro ambito, ma testimoniano come probabilmente, nonostante la resistenza di molti illustratori e illustratrici, queste tecnologie faranno parte degli strumenti degli stessi artisti che oggi le criticano, così come accadde con i software di computer graphics, una volta osteggiati dalla medesima categoria (forse con meno forza, ma va detto che ancora non esistevano i social).

L’esplosione di questa sempre più gonfia e meno credibile bolla sulle potenzialità dell’AI aiuterà senz’altro a integrare questi strumenti in molti ambiti lavorativi, che però non saranno in grado di sostituire l’operatore umano senza importanti nuove rivoluzioni, al momento non all’orizzonte. Questo ovviamente non significa che non avranno impatto sul mondo del lavoro, laddove un umano che usa le AI potrà sostituirne due che non le usano. Di recente girava una battuta di qualcuno che diceva che voleva AI per lavare i piatti e fare il bucato, non per creare opere d’arte. Ma a dirla tutta, come scrivono Helen Hester e Nick Srnicek, anche tecnologie come lavatrici e lavastoviglie non sono riuscite ad alleggerire il carico di lavoro delle donne a cui erano in origine destinate, che si è solo ingrossato di nuove mansioni casalinghe. Il problema insomma è politico e in ogni caso siamo lontani dalla meta.

ARTICOLO n. 57 / 2024

DONNA

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

A cavallo tra la realtà fisica e una dimensione per lo più ignota, apro gli occhi. Non so dove sono, ma tutto intorno a me vedo un caleidoscopio di colori vividi e sfumature delicate in cui macchie di selva si mescolano a prati dorati e colline che sfiorano il cielo.

Una giovane donna è immersa in una danza vorticosa. I lunghi capelli neri, dritti e pesanti, sono raccolti in un milione di trecce spettinate e nastri impreziositi da fiori di diverse dimensioni. Il suo vestito, simile a un tradizionale huipil messicano, riflette figure straordinariamente geometriche dai colori accesi lasciando intravedere i suoi seni sodi, e a ogni movimento della donna, a ogni sua piroetta, i colori si mescolano tra loro a cascata creando un’orgia di luce. Tutto intorno a lei è vivo e non ha contorni. La sua danza è libera, spudorata, sensuale e il suo canto per un attimo mi riporta ad alcuni vecchi sogni di emancipazione.  

La donna si muove avvolta in un velo trasparente, i suoi occhi brillano. Mi guarda, sorride, mi invita a raggiungerla. Chiedo allora alla donna chi è, ma lei non risponde. Continua a volteggiare con lo sguardo fisso sull’immagine di sé stessa che ora uno specchio davanti a lei riflette. “Sono bella”, dice. “Non ho catene”. Muove le dita lunghe e nodose, e nella vertigine della sua gonna vaporosa lascio che si perda per un po’ il mio sguardo sognante. 

A un tratto però i nostri occhi si incrociano e un’ombra sinistra si affaccia tra le sue pupille. Intravedo qualcosa che la tormenta e che, al suo primo sussulto, incomincia a turbare anche me. La stanza si dipinge di un blu tetro, e a poco a poco, cala un’oscurità profonda e inquietante. Mi sembra che il ritmo della musica rallenti, che le note si diradino, che inesorabilmente la giostra intorno a noi incominci a fermarsi. Allungo la mano per provare a toccare la donna, ma le sue dita al contatto con le mie prendono a sgretolarsi.

All’improvviso il suo volto si deforma, il sorriso diventa grido, e a poco a poco I colori si sciolgono, si dissolvono. Adesso la donna è illuminata solo dal rosso e dal giallo di una fiamma vivace: sta ardendo viva. Legata a un grande pezzo legno asciutto e avvolta a una veste nera, pesante come il piombo, si dimena come una bestia impazzita che vorrebbe sottrarsi al suo destino, ma le sue lunghe dita sono state usate come corde che la mantengono salda al suo patibolo. Centinaia di occhi la inchiodano accompagnandola spietatamente nella bocca della morte. Sento un brusio in sottofondo, un bisbiglio che si fa sempre più fragoroso. Qualcuno strilla “puttana”, qualcuno ride, qualcun altro sputa sui suoi piedi scalzi. 

È un’immagine spaventosa, a tratti angosciante. La fiamma ha già ustionato pelle, i capelli sono lingue di fuoco, vedo brandelli di carne schizzare. Apro la bocca come per urlare ma non esce nulla. Vorrei salvarla, ma già presagisco la sua triste sorte e mi sento inerme. Una lacrima mi riga il viso mentre sfumano i lineamenti di quella donna troppo libera, e di lei rimangono solo le braci di un corpo represso e carbonizzato.


Esco dalla stanza di corsa, trafelata. Sono madida di sudore, il cuore mi esce dal petto. Ciò che ho visto mi perturba. Forse sto sognando? Mi prendo un momento per contare i secondi in cui l’ossigeno fresco risale le mie narici fischiando e poi tiepido le abbandona. Dove sono? 

Alzo gli occhi e capisco che sono arrivata nel bosco. Ci sono rami e foglie immersi in un manto di stelle e nel fruscio della notte. Una fronda ciondola, mi fa un cenno di saluto, ma io ho perso la strada per tornare e, invece di ricambiare, mi lascio andare ad un lamento. Continuo a pensare a quel ballo soffocato e a quell’odio spietato di cui non posso accettare l’esistenza. Che cosa spinge, mi chiedo, gli uomini a godere dell’annientamento?

La gentile fronda richiama la mia attenzione. Mi accarezza la testa, mi fa cenno di voltarmi e proprio lì, a cavalcioni tra il cielo e mantelli di felci giganti, intravedo il lembo di una lunga sottana a cui mi aggrappo con tutta la forza, come una bimba impaurita e bisognosa di rassicurazione. Risalgo velocemente l’alta figura passando attraverso i suoi orli di pizzo, la peluria delle sue cosce, i solchi delle sue natiche, e man mano che mi arrampico, sento una sensazione di crescente tranquillità e pace farsi spazio dentro di me. Raggiungo la cima. 

Il volto della donna è rugoso, ma bello. I suoi occhi sono brillanti incastonati tra il naso e la fronte, e sulla bocca indossa un sorriso radioso che risveglia in me alcune sensazioni familiari. Assomiglia un poco a mia nonna, penso, eppure è viva. Vorrei poterla abbracciare e accarezzare, e invece resto lì imbambolata senza sapere bene che dire. La donna mi osserva teneramente, poi sussurrando con voce lontana ma carezzevole mi chiede di avvicinarmi ancora un poco a lei. Mi accomodo così sul palmo della sua mano, lasciando che mi trasporti lontano dai ricordi più dolorosi. 

Arriviamo insieme nei pressi di un laghetto in cui scorgo il riflesso della luna, nuvole in corsa e grandi rami di pino. Siamo sole e delle fiamme di prima ormai sembra non esserci più traccia. Scruto la donna nei suoi occhi verdi e cristallini, e attraverso quello specchio distinguo il movimento di cerchi concentrici che si allargano nell’acqua. Il mio sguardo si rivolge di nuovo alla superficie del lago che ora gioca a nascondino con le fronde degli alberi, e il tempo mi sembra irrimediabilmente sospeso tra passato, presente e futuro. 

Chi è questa donna e che cosa mi vuole mostrare? Ruminando tra i miei ricordi confusi mi rammento di tradizioni ancestrali di cui mi è stato narrato, e ricordo in particolare di aver sentito a lungo ciarlare dei poteri magici della curandera. Ella è una madre, una figlia, una strega, una santa. Peccatrice e guaritrice di ogni ferita dell’anima, è colei che traghetta oltre le limitazioni del presente per abbracciare senza ansie l’infinità del futuro. La riconosco appena un fioco fascio di luce illumina le sue gote opache.

La curandera impugna un grosso bastone come fosse una matita e traccia cerchi nel lago che si tramutano in figure inizialmente smarginate. Guardo meglio nel riflesso dell’acqua e sobbalzando vedo il mio volto contorcersi fino a diventare quello di mia madre, poi quello di mia sorella, poi quello della danzatrice arsa sul rogo delle puttane. Tutto d’un tratto, donne di ogni forma, colore e dimensione si moltiplicano sotto ai miei occhi ruggendo all’unisono. Cantando, si prendono per mano fino a formare un cerchio compatto tra le sfumature, tra le stelle e le ombre, incarnando le forze contrastanti che plasmano il destino. Non ci sono corde né occhi giudicanti attorno a loro. I loro corpi nudi ora ruotano in un’unione sinuosa e simbiotica che mi appare invincibile. 

Alcune di loro mi tendono la mano, mi fanno cenno di unirmi. “Portaci con te”, mi esortano. “Ti serviremo per illuminare l’oscurità del presente”.

Scuoto la testa. È un’allucinazione, un’illusione, forse un’utopia. Eppure, finalmente capisco di non essere in un luogo fisico ma in uno stato d’animo, in un’esperienza di libertà e potenziale in cui ogni respiro porta con sé la promessa di un nuovo inizio o la magia di un sogno che può ancora diventare reale. 

La curandera mi ha donato il potere di scrutare il tempo. Dinnanzi, mi si stagliano infinite possibilità e fantasie non ancora realizzate. Non è solo una visione di ciò che potrebbe essere, ma un vero e proprio invito a creare e credere nel potenziale illimitato dell’essenza femminile. Uno sguardo su quel che verrà, non come qualcosa di predeterminato, ma come un arazzo in continua evoluzione, tessuto solo dalle nostre decisioni, dai nostri desideri e dalla nostra voglia di offrire visioni e ideali alternativi.   

Sta di nuovo sorgendo il sole. Mi volto ancora una volta a guardare la mia curandera prima di vederla evaporare per sempre in un pulviscolo dorato. Prima di andare mi strizza un occhio e da lontano bisbiglia: “Ogni volta che avrai paura, ora sai dove cercare”. 

ARTICOLO n. 56 / 2024

ANONIMO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Qualcuno, presumo un uomo, a un certo punto ha sentito il bisogno di scrivere il proprio nome dietro un vaso in terracotta che aveva appena realizzato, uno lo ha guardato, un terzo lo ha imitato. Qualche tempo dopo, qualcun altro ha pensato di poter rivendicare un valore economico discendente da quel nome; altri poi hanno fatto in modo che quei nomi valessero di più degli oggetti che firmavano. Su ogni idea che apparisse minimamente nuova ci si è affannati a mettere ciascuno la propria bandierina: i nostri bisnonni hanno inventato la proprietà intellettuale, i brevetti come “combustibili dell’interesse sul fuoco dell’ingegno”; i nostri figli hanno la cenere firmata.

Una delle critiche che sento fare più spesso da chi osserva i progetti è la mancanza di originalità di qualcosa; e parallelamente una delle ossessioni che riscontro di più nelle generazioni più giovani dei progettisti è l’ostinazione a inventare qualcosa di nuovo e immediatamente dopo trovare il modo per proteggere quella cosa dalla possibilità che qualcun altro la copi: non solo dare il proprio nome, ma evitare che qualcun altro metta il suo. E nel frattempo non succede assolutamente niente: abbiamo tantissime bandierine e pochissime idee nuove su cui metterle. Da una parte infatti l’accesso ai mezzi di produzione aperto a tutti ha messo sempre più persone nella condizione di poter fare. Dall’altra questo fare, produrre, immettere cose nel mondo con il proprio nome, che forse doveva servire come dispositivo inconscio per lasciare tracce di sé, rimandare i conti con la nostra inevitabile mortalità, ha accelerato lo schianto contro il limite delle risorse, forse non solo strettamente materiali, e così sono finite, prima di noi. Viviamo in un tempo storico fatto di linguaggi, prodotti, progetti, interventi ma anche ideali premasticati dal Novecento. Prendiamone atto: è molto più comune liberarci di cose, ma anche pensieri, idee, fedi, ideali, amori, stili appena nati, che non di quelli che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ma a meno di non volerci condannare alla noia del già visto, alla frustrazione del già pensato, all’infelicità del già fatto, se qualcosa di radicalmente nuovo non è possibile e non è immaginabile, forse dev’essere possibile immaginare almeno di rinunciare al “nuovo” come sinonimo di buono, interessante, degno. Decolonizzare l’approccio al fare. Liberare il fare dall’essere, avere, apparire. E, qui la dico grossa: ripensare quello che esiste fuori dal codice della paternità tradizionale. Togliere i nomi propri alle cose. Portiamo l’anonimo nel futuro.

Ora, voler portare “l’anonimo” nel futuro, fin qui, potrebbe sembrare più una reazione al dilagare di facce e nomi e firme e loghi e storie di sé ovunque, e un po’ effettivamente lo è. Ma non è solo un manifesto contro, è credo anche un antidoto per provare a salvarci dall’infelicità in cui ci schiacciano le unità di misura che abbiamo utilizzato finora per raccontare quello che abbiamo intorno: elenchi, novità, sapere, produzione, profitto, eroi, geni, protagonisti, artefici, successo, lenti attraverso cui ci arriva ogni cosa, anzi peggio, attraverso cui ogni cosa esiste oppure no.

Abbiamo compilato cataloghi di nomi, abbiamo fatto mostre intorno ai nomi, abbiamo scritto storie che sono elenchi di nomi, più o meno illustri, abbiamo raccontato i picchi della linea continua che li produceva, abbiamo registrato quello che stonava più del rumore bianco di sottofondo che lo faceva risuonare; abbiamo sostituito le immagini delle cose con le gigantografie dei loro autori; l’io, l’io, l’io, la messa in mostra della propria biografia. Bruno Munari, che proveniendo dall’avanguardia futurista se ne intendeva di vertigini dell’io, si era spinto a formulare la proposta di dare il prestigioso premio “Il Compasso d’Oro” a ignoti, ovvero a tutti quei tecnici, ingegneri, designer anonimi che avessero progettato cose d’uso non migliorabili, sensate, cioè pensate, semplici, pratiche, accessibili, intelligenti, spontanee, disintermediate. Riccardo Dialisi, che era stato tra i fondatori del movimento radicale di Global Tools, tra i primi e gli unici a rilanciare davvero l’artigianato non solo come espressione mondana, e a generare nella periferia napoletana alcune delle più interessanti espressioni di design dal basso, proponeva di sostituire il premio con il Compasso di Latta. Io dico: lasciamo perdere i premi. E lasciamo perdere pure i soggetti.  

Quando parlo di “anonimo”, infatti, io mi spingo un po’ più in là. Non è tanto questione di persona singolare o plurale, perché – a meno delle cose in natura, per le quali, infatti, pur di dare un autore, ci siamo dovuti inventare che sono creazioni di Dio – ogni cosa ha sempre almeno un io, un tu o un lui o in alcuni casi una stratificazione di interventi di noi, voi, essi all’origine della sua storia, e che spesso è un limite nostro non conoscere o riconoscere (o se non nostra, è colpa delle didascalie a non trasferirceli nel modo debito e corretto). Con “anonimo” non mi riferisco al soggetto, che proprio vorrei ci disinteressasse, ma all’oggetto, e indico quella produzione della cultura materiale o visiva per la quali Gio Ponti aveva trovato una definizione bellissima e contraddittoria: perché “anonimi” è un aggettivo delle cose per dire che sono cose senza aggettivi: cose che sembrano essere sempre state lì e che danno l’idea che lo saranno per sempre, cose senza segni, senza tempo e senza geografia, eppure al tempo stesso assolutamente generate in una storia e in uno spazio a volte molto precisi. Macchine minime, si dice con un’altra espressione felice: derivate direttamente dalle ragioni della loro materia, della loro pratica, della propria storia produttiva. Cose che non hanno un nome proprio, o ne hanno assorbiti molti e diversi a seconda del tempo e delle latitudini in cui sono nate. Cose senza bandierine.

L’“anonimo” non necessariamente è l’“archetipo”, e nemmeno il “prototipo” o l’“oggetto primo” o “platonico”, perché all’anonimo non interessa il primato, sta in terra e non nell’aria, non è un simbolo, né un segno, né un segnaposto, non è una cosa che sta al posto di un chi

Ma soprattutto l’anonimo non è l’anonimato. Non è la negazione del proprio nome o la volontà di tenerlo nascosto, è il nessuna volontà del nome. Non è la maschera attraverso cui lasciare segni, è il non segno. Non è la firma che dichiara “non mi troverai mai”, è l’oggetto che dice di “non perdere tempo a cercare la firma”. Non è l’io, è il noi. Non è il prima, è l’oltre. Quindi, ripensandoci, forse non è nemmeno da portare nel futuro, perché lo troveremo già lì.

ARTICOLO n. 55 / 2024

SMISURATO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Bologna. Sono qui da qualche giorno in prova con Motus, la compagnia con cui lavoro da quasi vent’anni: stiamo per debuttare in città con il nuovo spettacolo, Frankenstein (a love story). In realtà non è la prima volta che lo mettiamo in scena ma i nuovi lavori, che iniziano acerbi a stare nel mondo, hanno bisogno di tempo per prendere sicurezza e imparare le leggi interne che li governano. Per questo mi piace pensare che ogni città è un nuovo debutto. È tarda mattinata, in teatro Theo e Daniela stanno finendo i puntamenti delle luci mentre Martina ed Enrico equalizzano i microfoni. Io non servo a niente dunque, dopo aver messo a posto i costumi, prendo qualche ora di stacco. Saluto Alexia in camerino e ancora con la tuta da training indosso il marsupio ed esco. E dal nero del teatro, ancora con l’eco del maniglione antipanico che sbatte dietro di me, divento tutta pupilla contratta dalla luce del sole. 

C’è un bel tepore, cammino sotto i portici vampireggiando e facendomi trasportare dalle scie della gente, aspetto che gli occhi si adattino al reale e io con loro. Faccio giusto in tempo a smettere di lacrimare che li vedo arrivare in due sulla stessa bicicletta: Eva e Omero, che coppia incredibile. È passato del tempo dall’ultima volta che ci siamo incontrate, i loro capelli sono molto più lunghi. Non mi hanno ancora vista, sono concentrati nel loro passo a due: è così disarmante la loro confidenza. 

Li osservo nella parentesi di tempo prima che il loro sguardo mi intercetti e mi godo la mia invisibilità sovrannaturale. Poi mi vedono e la mia apparizione riordina tutto. 

Ci abbracciamo, Eva lega la bici, ci sediamo a un tavolino del bar e ordiniamo un caffè. Facciamo sempre, come minimo, due cose contemporaneamente. Un dialogo serrato come se l’avessimo interrotto la sera prima ci possiede: non ci vediamo da mesi ma fanno così le amiche, lasciano i convenevoli sul tavolo ed entrano come due razzi nella materia profonda, negli aggiornamenti di vita, in questo come stiamo che è matrice di ogni cosa. Un torrente di parole che scavalla il caffè, scavalla la passeggiata, scavalla la spesa dal fruttivendolo e ci teletrasporta in un camminare balordo mano nella mano nella mano in tre, in direzione di una stamperia in via Ugo Bassi.

Bologna è stracolma di gente, di bar, di stuzzicherie, di cibo. E nel tempo di questi discorsi appassionati mi accorgo come le vie soffrano di un blocco intestinale. Sature, gonfie, sudate, unte, strabordanti di grassi.

“È ok per te se entro in stamperia dieci minuti mentre rimani fuori con Omero?”

Omero è una delle poche persone che conosco che esulta di felicità ogni volta che nel suo campo visivo entra una Fiat Panda, corridore instancabile con una spiccata passione nel confezionare gelati alla sabbia bagnata. 

“Nessun problema, stiamo qui sotto i portici, facciamo un giretto”.

Omero ha un grande dono, si sposta continuamente e mentre lo fa anche le cose e le persone che ha attorno si spostano con lui in una ristrutturazione continua dell’ambiente circostante. Ignora le regole dello spazio urbano muovendosi a un ritmo imprevedibile in qualsiasi direzione, risignificando segnali stradali, marciapiedi, semafori, flussi cittadini, auto, biciclette che sfrecciano veloci. È beatamente dentro il mio stesso mondo ma è lui a disegnarlo, piedino dopo piedino. Ogni stimolo diventa direzione, ogni oggetto abbandonato diventa vettore irresistibile verso il pavimento. Mischia con coraggio il camminare con il correre, il saltare con lo sdraiarsi a terra, le lacrime con lo sputo. Straborda di entusiasmo per la città che misteriosamente controricambia dimostrando d’avere abbastanza spazio per contenerlo. Fino a che in un preciso istante di questo scarabocchio cinetico, si ferma per sempre, immobile, incastrato in un mistero. 

“A cosa pensi?”
Mi verrebbe da chiedergli. 

È concentrato su ogni sua distrazione, una collezione infinita di false partenze. Omero quando si alza sulle punte dei piedi non arriva all’altezza del mio coccige e questo mi commuove.

Si sfila continuamente dalla mia mano mentre provo a serrare la presa, al contrario rimane manina docile quando la lascio respirare e in questo assaggio di anarchia mi trovo anche io incastrata in un mistero. E Bologna diventa Parigi a metà del Novecento e Omero diventa il mio Guy Debord. C’è tutto: stabilire una relazione particolare con la città, abitarla come se fosse la propria casa. Disegnare percorsi che non coincidono con il resto della moltitudine, inciampare nelle buste della spesa cariche di Parmigiano e verdure biologiche, sfrecciare tra i cammini premeditati e assopiti dei passanti. La metropoli è un labirinto e Omero cambia forma a ogni suo passo: si lascia condurre dalla città che lo prende, lo guida e per un attimo, la città stessa riprende fiato. Flâneur senza bisogno di teorizzarlo, Omero è un piccolo dandy a zonzo, in deriva. 

Dentro questa moltitudine di eventi indipendenti, con il cuore in gola, temo per ogni suo passo: immagino che sparisce dietro all’angolo, che cade e sbatte il mento e si taglia con una bottiglia affilata, che si punge con una siringa rimasta lì dagli anni Ottanta, che viene investito da ogni bici, ogni auto, ogni autobus, che viene sbranato da ogni cane che passa. Che viene rapito dagli alieni, seriamente. Nonostante queste visioni terrificanti mi trattengo per non anticiparlo su ogni sua mossa e all’improvviso, dentro questo mio esitare, respiro e mi faccio guidare da questo piccolo caleidoscopio dotato di coscienza. Tramite lui mi ritrovo a godere pienamente dello spettacolo che la città offre, lasciando spazio nella mia partitura visiva a ogni continuo urto di cui Omero fa esperienza camminando per la città. 

Eva esce dal negozio tenendo tra le braccia una busta piena di fotocopie. 
“Cosa ne dite di andare a prendere la bici e fare una passeggiata fino a Gare de l’Est?”

ARTICOLO n. 54 / 2024

UMORISMO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

“Capacità di rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Bene, lo scopro ora. Non mi ero mai posto il dubbio in precedenza. Non sapevo cosa fosse o forse lo sapevo senza saperlo, come tutti.

Qualche giorno fa stavo facendo un caffè con una macchinetta simil-Nespresso a casa della mia ragazza. Normalmente quando carico la cartuccia e sono insieme a lei fingo di essere in un ufficio milanese e mi metto a fare l’imitazione di un fantomatico capo ufficio fluido sui cinquanta anni che importuna in modo uguale giovani donne e giovani uomini, facendo valere il peso della sua innata simpatia.

“Avete letto quella pazza su Magazine coso? Ma quella è da internare o no?”
“No raga… io non ce la faccio!”
“Come va con la casa? Trovato qualcosa?”
“Ah, solo zone terribili? Cazzo con quel che ti paghiamo… Ahhahaha…”
“Come va con il pezzo per Gucci? Venuto figo? Camicetta top oggi eh… ahahahah”
“Mi Ami? Andati? Flop? Top? Droga?”
“Raga le cialde sono finite, facciamo la solita raccolta?”

Ma quel giorno ero stanco, ormai è un mese che mi trascino come uno zombie fra Milano e Roma fingendo di avere energie che non ho più. Ho terminato un tour bellissimo e molto intenso che mi ha portato in giro per l’Italia con il mio ultimo spettacolo. Sessantadue date in sette mesi. È stato esaltante, emozionante e stupendo, ma l’energia è completamente terminata e con essa anche la voglia di scherzare, ossia il desiderio di “rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Quando mi capita di parlare con qualcuno, non apprezzo più le battute su di me, sono estremamente paranoico rispetto al mio aspetto fisico, non sopporto le persone che fanno ridere, vorrei stare in campagna circondato dagli animali per un mese.

Sia chiaro: non mi sto lamentando. Sono felice di fare il lavoro più bello del mondo. Essere pagato per dire barzellette piuttosto complesse – questo è di fatto il mio lavoro – è qualcosa che va al di là dei miei sogni più vividi. Ma per farlo con enorme sincerità bisogna per prima cosa cercare di essere sinceri con se stessi. E se proprio devo esserlo, ora mi sembra difficile cavare umorismo dalla realtà che mi circonda.

Come sempre succede in questi casi è bene fare il punto della situazione e cercare di ripartire provando a decifrare cosa sia l’umorismo per me. Provo quindi a buttare giù una sorta di elenco, di punti, di idee, di leggi che seguo quando provo a scrivere qualcosa di divertente.

Vediamo se tornano utili a qualcuno. Non è un decalogo, non è nulla, solo una serie di pensieri sulla risata, l’umorismo che cerco di tenere a mente sia quando lavoro, che nella vita di tutti i giorni.

– “È molto simpatico/a” è una bellissima cosa da dire di una persona.

– “È un coglione/una cogliona” è la stessa identica cosa, detta da qualcun altro.

– Il lavoro di un umorista è surfare come una lumaca sul filo di un rasoio o sulla lama di un coltello, questa similitudine è mia non di Marlon Brando/Colonnello Kurz in Apocalypse now.

– A cosa punti una persona che sceglie di guadagnare facendo ridere, non si sa. Così è. I traumi infantili, essere stato bullizzato, non avere altre forma di difesa se non quella dell’ironia; non saprei, mi sembrano tutte idiozie. È un fuoco che arde? Non ne ho idea né mi interessa ormai. Ma è un desiderio difficile da spegnere.

– Non esiste applauso, risata, commento, di chicchessia che possa anche solo lontanamente avvicinare l’istante in cui, camminando per strada e ripensando a qualcosa, porta alla risata fra sé e sé. Le battute migliori, le piccole fratture della realtà in cui infilare le dita per provare ad arrampicarsi su una parete che con un po’ di tecnica porta alla scrittura di un monologo che sia divertente per sé e poi, se si ha fortuna, anche per gli altri. Quelle spaccature hanno a che fare con l’infinito dialogo che si ha con se stessi.

– Depositato quel seme, con la tecnica (banalmente segnandoselo su un taccuino), si può pensare di far crescere qualcosa che verrà prima o poi presentato al pubblico. Se avrà senso e sarà condivisibile dalle persone in ascolto, non sta certo all’autore deciderlo.

– Non è mai un monologo, ma sempre un dialogo. Prima con sé stessi, poi con il pubblico.

– “Quella cosa non fa ridere”, come dicono alcuni, è una frase che non ha senso. La risata non è oggettiva. È soggettiva. “Quella cosa non fa ridere me, adesso, perché ho i cazzi miei”.“Come me adesso”: così va bene, così si può dire.

– Per il palco: bisogna scrivere come si parla. Non c’è nulla di meno umoristico della forma mancata, della forma fittizia. Se – come spesso succede – un comico parla in modo eccessivamente forbito o distante dal suo vero modo di masticare la lingua ci si stacca immediatamente.

– Dimenticare il punto precedente. C’è chi riesce benissimo a parlare in modo diverso sul palco. Ognuno ha il suo stile. La comicità non ha regole, ma solo effetti. Chiunque provi a dare delle regole o dei voti se ne deve andare a fare in culo.

– Stare sul palco e scrivere sono due lavori differenti.

– Ci sono grandi autori e grandi perfomer, non sempre le due cose coincidono.

– Per trovare qualcosa di divertente da raccontare bisogna non ascoltare chi si ha davanti. Non è facile da spiegare né da accettare, ma è fondamentale ascoltare con mezzo orecchio. Con l’altro è necessario stare concentrati su se stessi. È doloroso perché può allontanare le persone, ma almeno per me funziona così. Se cerco qualcosa di divertente non posso ascoltare veramente chi ho di fronte.

– Di sicuro sono abbastanza abituato a cercare il pensiero laterale rispetto a tutto quello che accade intorno a me. Non saprei contare le volte che mi è stato rinfacciato il fatto di aver preferito una battuta di fronte alla possibilità di ascoltare il momento in cui mi trovavo, per il puro gusto di dire qualcosa di divertente. Da questo punto di vista non mi considero un artista, gli artisti veri sono quelli che sanno ferire gli altri, io qua e là potrei averlo anche fatto, ma ora come ora non saprei.

– Detto questo, amen. C’è di peggio.

– Ridere è sempre bello e giusto. Nessuno si è mai lamentato di aver riso per un’ora, era la frase con cui chiudevo le prime sere che organizzavo a Milano qualche anno fa. Non penso di aver mai detto nulla di più sincero sull’umorismo in vita mia.

– Niente ha senso finché non si trova qualcuno a cui raccontare di sé. Se non si ha qualcuno a cui raccontarlo è bene tenere un diario, una chat fittizia. Qualcosa per cui si possano mettere in fila delle immagini, dei momenti, una traccia. Più sono struggenti, più c’è lo spazio per ridere, solo che magari sarà qualcun altro a farlo notare. Fa niente. Esistiamo solo in base ai rapporti con gli altri. Anche questa frase è mia!

– Non esiste nulla finché non lo si racconta e finché non si cerca il lato divertente di qualsiasi storia, sennò quella storia rischia di essere solo una lamentela.

– Il tempo per una battuta è l’unica cosa che non si può insegnare. È qualcosa di magico, di inafferrabile. È una partitura scritta con l’inchiostro invisibile. Qualcuno la sa scrivere, ma solo per se stesso. Altri non lo sanno fare. È brutale da dire, ma così è.

– C’è sempre spazio per un aneddoto divertente, c’è sempre spazio per il ricordo di una storia. Chi non ha tempo o voglia di ascoltarli non merita la compagnia che gli viene regalata. Non sto parlando di palco, sto parlando di vita. Per fortuna esistono tante persone fra cui cercare ed esiste, se uno vuole, a un certo punto anche il palco.

– Non esistono momenti divertenti della propria vita che nel ricordarli non feriscano con la nostalgia. Quando si finisce di ridere e il rinculo degli ultimi singulti si spegne – magari a cena fra amici – e si afferra il bicchiere in tavola e si passa ad altro – a un amaro, al caffè, al conto – il sorriso si schiude sapendo che la storia è finita e si torna alla realtà. Come una folata di vento che fa sbattere la finestra. Il ricordo è passato, la storia anche e la vita anche. Quell’istante è per me struggente e dolorosissimo. Ma ce ne saranno altri, magari anche di più belli.

– Io diffido anche da chi mangia troppo in fretta, non mi piace che qualcuno ordini per il tavolo a cena, non amo chi parla di sesso senza che ci sia confidenza estrema. Non sopporto chi guida veloce in macchina o in generale si vanta di imprese esagerate al volante. Non sopporto chi parla di evasione fiscale o chi parla di soldi in generale. Non sopporto chi urla il proprio giudizio su un film mentre è ancora in sala o peggio a teatro.Ma soprattutto non sopporto chi non ride o ci tiene a dare l’impressione di non ridere mai, di non perdere tempo con l’umorismo. Non le persone che ridono poco o hanno una risata difficile. Parlo proprio delle persone sempre serie. Inculatevi! Trovatevi fra di voi al circolo degli inutili e andatevene a fare in culo tutti insieme.

– L’umorismo è come una carie nei denti. Fa male, ma senza non si possono espiare i propri peccati.

Quando si fa ridere qualcuno per qualcosa è una soddisfazione enorme. Non c’è nulla di più convincente a livello umano dell’ascoltare una risata, ma non bisogna dimenticarsi che la prima da ascoltare e da non dimenticare è la propria risata. Perché ridiamo solo per un motivo: per sentirci meno soli.

ARTICOLO n. 53 / 2024

GRAMSCI AL SUGO

Ricette di destra e riappropriazione culturale

Un “Gramsci di destra” non esiste. È un anti-gramscismo, cioè la negazione dell’autore dei Quaderni del Carcere, fondatore del partito comunista italiano e de L’UnitàEppure, la trovata è diventata popolare in un ceto intellettuale che è andato al potere in Italia. Nel governo Meloni c’è chi ha evocato la sua ombra dal Ministero della Cultura. Dopo Dante, Gramsci farebbe parte di una “cultura della destra”. Proprio lui che ha fatto a pezzi un’altra invenzione del moderatismo liberale: la linea ideologica De Sanctis-Croce-Gentile. Proprio lui che è stato ucciso nelle carceri dei fascisti, oggi si ritrova involontario protagonista del nazionalismo culturale dei loro eredi. Gramsci è pronto a essere venduto come un pacchetto vacanze. Oltre ai centri storici trasformati in luna park da turisti, tocca vendergli anche le primizie nostrane. Gramsci è la merce culturale che sta tra il fungo cardoncello e il resort ballardiano costruito per i VIP del G7 in vacanza in Puglia.

Gramsci teorico del consenso delle classi dominanti 
Voci su un Gramsci “di destra” sono arrivate in televisione anche da chi è stato nominato in posti di sotto-governo. Nei musei, per esempio. È stato scritto un libro, poco più di una collezione di testi improvvisati, sul fatto che Gramsci è vivo. Più che soffermarsi su pagine modeste è più interessante notare come uno dei pensatori che ha cambiato la teoria della rivoluzione comunista in occidente sia stato ridotto a un insignificante pensatore “liberal-democratico”. Non è la prima volta che accade. Tempo fa, ci hanno provato i liberal-liberisti della “sinistra”. Quelli che, dalla svolta della Bolognina in poi, hanno trasfigurato Gramsci in un filosofo funzionale al progetto di integrazione dei resti dell’ex partito comunista nell’establishment che ha co-gestito la drammatica transizione al neoliberalismo dagli anni Novanta.

Il lavoro di neutralizzazione e di reinvenzione di Gramsci è servito a giustificare il passaggio dalla Chiesa comunista a quella liberista. Così gli ex comunisti sono diventati gli ultras del nuovo verbo capitalista. Da subalterni e convertiti hanno usato Gramsci come un teorico del consenso che spinge le masse ad accettare le politiche neoliberali contrarie ai loro interessi: aziendalizzazione della sanità e della scuola, precarizzazione del lavoro e della vita, dismissione di un welfare già caricaturale, spostamento della ricchezza pubblica verso quella privata.

È questo Gramsci teorico del consenso delle classi dominanti e del ceto politico di turno che interessa al personale intellettuale che ha fatto carriera nella destra di governo. Dalla sinistra liberista alla destra nazionalista: l’appropriazione di Gramsci è una ricetta preparata in salse diverse. Ieri, come oggi, avviene in nome del moderatismo, dell’opportunismo, dell’indifferentismo e del morfinismo politico. Le pratiche criticate da Gramsci nella storia italiana. Oggi sono usate per sussumerlo nell’egemonia dominante. 

“Egemonia senza lotta di classe”
Il concetto più gettonato dal “Gramsci di destra” è l’“egemonia culturale”. Di questa idea importante è fatto un uso derisorio. Viene cioè intesa come il sinonimo di una narrazione pubblicitaria e televisiva che stabilisce la legittimità di chi può parlare nei talk show della sera. Questa idea non va banalizzata più di quello che già fanno i suoi sostenitori. Va intesa nell’ambito di un’operazione sistematica, realizzata ai danni di Gramsci, dal neofascismo e dal pensiero della cosiddetta “Nuova destra”, in particolare quella francese, a partire dagli anni Settanta del XX secolo. 

Una traccia di questo lavoro culturale è stata fornita in questo video da Marion Maréchal-Le Pen, la nipotina ex ribelle di Marine Le Pen da poco rientrata nei ranghi del Rassemblement National in Francia per ragioni di convenienza politica. Con il partito della zia alle soglie del potere non ha senso fare la fronda in un partito razzista collaterale. In una serata culturale organizzata in Liguria nell’estate 2018 Maréchal-Le Pen ha esplicitato chiaramente il senso per Gramsci delle “nuove” destre. A loro non interessa “la sua ideologia di sinistra”. Interessa “un Gramsci senza la lotta di classe”. Gramsci sarebbe colui che ha creato “il metodo di conquista del potere”. “Prima di sperare di vincere politicamente ed elettoralmente – ha continuato Maréchal-Le Pen – dobbiamo vincere sul fronte culturale. Bisogna fornire una risposta culturale da parte dei conservatori, non per un partito politico, non per ragioni elettorali, ma per la società nel suo complesso”.

L’idea di separare Gramsci dalla lotta di classe risponde a una strategia più ampia, quella dell’anticomunismo. Tanto più in effetti manca una politica comunista, tanto più forte è il suo fantasma usato contro le “sinistre”, anche quelle più moderate e ignare della stessa opera di Gramsci. Sull’anticomunismo si innesta la strategia del rovesciamento delle destre contemporanee. Si prendono le idee dell’avversario e le si rovesciano nel loro opposto. Così facendo si sostiene in modo ingannevole di essere dalla parte dell’avversario, attingendo elementi parziali ed errati dalle sue analisi al fine di creare confusione e togliere la credibilità alla parola della “sinistra” che non sa più di cosa parlare, con chi e perché. Soprattutto da quando ha rinunciato al rapporto tra teoria e prassi e ritiene che una politica può esistere se va in televisione o su Internet e non organizza la lotta a partire dai quartieri popolari, nei luoghi di lavoro e in quelli della festa e della produzione culturale dal basso. 

L’egemonia alla quale pensano Maréchal Le Pen e le altre destre reazionarie euro-americane può essere allora sintetizzata in una formula: anti-comunismo che si salda con l’idea proprietaria e capitalista della libertà, con l’odio dell’uguaglianza, il familismo eteronormativo e il razzismo culturalista e etnodifferenzialista, a cominciare da quello anti-arabo e anti-musulmano. 

“Guerra delle idee”: un’inchiesta
Diversamente da quanto si crede, la “guerra delle idee” è solo alla lontana riferibile all’idea gramsciana di “egemonia culturale”. Si tratta invece di un’allusione a una teoria del sociologo americano James Davinson Hunter. Ad avviso di Hunter la “battaglia delle idee” sarebbe una riattualizzazione delle guerre di religione in società secolarizzate dove il conflitto di classe sembra essere stato sostituito da quello sull’identità personale, culturale, religiosa o sociale.

La variante di “destra” di questo ragionamento, oggi prevalente, consiste nell’interpretare gli orientamenti di una maggioranza virtuosa e morale, non più “silenziosa” ma molto loquace grazie ai social network, che prende parola contro la cultura “elitaria” di una sinistra “borghese” ostile al «popolo». C’è anche una variante “di sinistra” di questa lettura riduttiva dell’egemonia culturale gramsciana adattata all’insipida minestrina dei pubblicitari che hanno fatto carriera tra i sondaggisti e tra i narratologi prestati alla propaganda elettorale. Questa “sinistra” ha inizialmente preferito l’identità – di sesso, razza o genere – alla moralità delle condotte prescritte dalla destra e ha pensato di liberare le minoranze oppresse dal giogo del potere maschile bianco.

L’affermazione dell’egemonia neoliberale tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento ha complicato questo progetto al punto che si è iniziato a contrapporre i diritti delle persone mettendo in secondo piano, o rinunciando del tutto in altri casi, alla loro connessione con la lotta di classe. Questa compagine “di sinistra” si è ritrovata in ostaggio di uno scontro tra identità culturali essenzializzate, costruite su criteri normativi impenetrabili e fortemente polarizzanti. A questo scontro collaborano anche coloro che evocano la priorità dei diritti “sociali” su quelli “civili”, ma non hanno un’idea di classe e così stabiliscono una gerarchia dei diritti dove al vertice si trova un’identità più “universale”, quella di un “popolo” idealizzato rispetto alle altre considerate parziali.

L’egemonia culturale per i “gramsciani di destra” consisterebbe nell’appropriazione e nel rovesciamento nell’opposto dei valori dell’avversario. Si prendono cioè i valori liberali dell’autonomia o della libertà di parola e quelli “sociali” della protezione paternalistica e autoritaria dello Stato che si occupa della famiglia eteronormativa. E li si brandisce contro l’avversario: una “sinistra” neoliberale fantasmatica, generica e senza distinzioni. Contro di essa è stata scagliata l’accusa di “totalitarismo” poiché intenderebbe determinare cosa può essere pensato e come le opinioni possano essere espresse. 

Contro la nuova polizia di questa cosiddetta “sinistra” gli “anti–autoritari” di destra hanno valorizzato il personaggio del moralista trasgressore, un’individualità eroica già presente nella tradizione avanguardista delle destre fasciste. Questo personaggio si palesa preferibilmente sui social network dove usa una finta ironia passivo–aggressiva, accompagnata da meme, immagini e video. Esibisce una cultura del non–conformismo, della trasgressione e dell’irriverenza fine a se stessa. Non si tratta solo di uno stile comunicativo, ma di una cultura politica che si è forgiata nel limbo dei forum e delle piattaforme digitali dove si usano i linguaggi oggi prevalenti su Internet: l’aggressione verbale fino all’istigazione al crimine, le fantasie di stupro o omicidio contro le donne, in particolare quelle impegnate nelle lotte femministe, rese oggetto di odio e di disprezzo. 

Molti degli “intellettuali” di destra perbenisti o liberal-conservatori potrebbero anche inorridire davanti agli orrori e alle violenze del vero fascismo digitale. Non è escluso che l’ondata politica di cui oggi loro sono le comparse non liberi soltanto la parola sessista e razzista, ma anche le pratiche della violenza fascista organizzata. 

Cos’è l’egemonia
L’egemonia per Gramsci è irriducibile a qualsiasi teoria del potere imposta più o meno surrettiziamente. Non è né una microfisica elettoralistica del potere, né un dominio puro e semplice esercitato dallo Stato attraverso la polizia, né un indottrinamento attraverso i suoi apparati ideologici. L’egemonia non è nemmeno un semplice rapporto pedagogico tra il potere, gli intellettuali e le masse amorfe. Non ha nulla a che vedere con il rapporto commerciale tra il venditore di merci e il consumatore di “offerte politiche”, né con quell’altro gerarchico tra maestro e allievo. In entrambi i casi, i consumatori come gli allievi, sono trattati come bambini che non capiscono le “riforme” ma che devono essere soddisfatti perché altrimenti abbassano il ranking del gradimento dei partiti nelle elezioni politiche. 

Il consenso democratico che sta alla base dell’egemonia gramsciana non può essere equiparato né al consenso passivo né al consenso mediatico. Invece è un consenso attivo, la costruzione di un’intesa, di una volontà collettiva fondata sull’unità tra governati e governanti, attraverso un costante passaggio da una condizione all’altra. Creare l’egemonia significa cioè riflettere sulle condizioni di possibilità e di realizzazione del futuro intellettuale, politico ed etico di tutti. 

L’egemonia è lo sviluppo intellettuale di qualsiasi persona nel dirigere la società e nell’autodeterminare la propria esistenza.

“Guerra di posizione”
Tutto questo avviene attraverso la lotta di classe con la quale il partito – il “Nuovo principe” di Gramsci – si rapporta, organizza, rilancia, ma non determina dall’alto. Il partito segue la lotta di classe, come quelle ambientaliste anti-razziste e anti-sessiste, cerca di valorizzare la loro autonomia, prova a collegarle insieme a tutte le organizzazioni indipendenti della “società civile” che si formano in queste lotte. Estende la loro organizzazione in tutta la società, oltre che nei luoghi di lavoro, in maniera non gerarchica e alla luce di una strategia trasversale della convergenza e dell’insorgenza. 

Ripensato con Gramsci il dibattito magmatico che si svolge oggi sulla “intersezionalità” delle lotte e sulle loro “alleanze” assume un interesse ulteriore. A queste pratiche, infatti, Gramsci può dare l’idea di “guerra di posizione”. Questo tipo di “guerra” coincide con l’egemonia politica. Bisogna però fare attenzione a non intendere la definizione nei termini solo ed esclusivamente militaristi o di occupazione delle istituzioni.  L’egemonia è il contrario: è l’azione di direzione della società e di autodeterminazione degli individui. Questa azione serve a “riassorbire la società politica nella società civile” e a riarticolarla attraverso la disseminazione dei poteri tra i mille fuochi dell’autonomia popolare e soggettiva presenti nelle società contemporanee. 

In questo obiettivo si riconosce quello marxista dell’“estinzione dello Stato” completamente sconosciuto alle destre. La “presa del potere” al quale esse inneggiano è invece per Gramsci la fine del potere capitalista, e di Stato, sulle masse. Gramsci pensava a un sistema di principi, e dunque a una egemonia, di una democrazia comunista che escludeva “accuratamente ogni appoggio anche solo apparente alle tendenze “assolutiste”. Ieri il gramscismo si opponeva allo stalinismo trionfante, oggi potrebbe farlo contro il neoliberalismo senza democrazia al quale si stanno riducendo i liberalismi “democratici”.

Tabù
Perché allora le destre postfasciste e i conservatori neoliberali scartano la lotta di classe da Gramsci? Perché sono subalterni alla vera egemonia del nostro tempo: il neoliberalismo. Quella che parte dall’assunto per cui la lotta di classe sarebbe morta con quel capitalismo totalitario e omicida che è stato lo stalinismo sovietico e oggi vivremmo nella società del “libero mercato” che coincide con l’“occidente”. Non è vero, e mai lo sarà. Il problema è che la lotta di classe non ha direzione, e si svolge al contrario. Cioè è una guerra tra i penultimi e gli ultimi. Parliamo di un conflitto regressivo che segue la linea del colore ed è basato sulla paura. I neoliberali conservatori, e le destre razziste, lo usano come strumento di persecuzione dei migranti e per segmentare la società attraverso un’apartheid flessibile e spietata.

Gramsci allora lo vorrebbero mettere al lavoro con l’obiettivo di prendere possesso delle leve del potere per realizzare, senza freni, una strategia avviata da tempo da altre forze politiche. All’esterno, e con la complicità di una borghesia senza scrupoli che ha perso ogni rapporto con l’idea di democrazia, ciò permetterebbe alle “nuove” destre di guidare in maniera autoritaria la complessa macchina neoliberale “occidentale” che sta affrontando una nuova guerra con i capitalismi neoliberali concorrenti (cinesi, russi ecc.). All’interno, Gramsci servirebbe a queste destre a fare la guerra contro i subalterni. Un paradosso, in effetti. Ma questo significa neutralizzare il suo pensiero sottraendolo a una sinistra politica e sindacale che lo ha sostanzialmente dimenticato, almeno in Europa. Non certo altrove dove Gramsci conosce, da 40 anni, un grandissimo ritorno di interesse pieno di originali declinazioni. 

Un Gramsci globale contro le riappropriazioni nazionalistiche per di più sconnesse. La riappropriazione, tra l’altro, risponde a una logica coloniale e scambia il potere per un dominio. Non è un caso che il Gramsci globale sia usato anche da coloro che pensano le strategie decolonizzatrici e si pongono il problema di come i subalterni residenti, immigrati o oppressi ed esclusi possano liberarsi.

La “cultura” che le destre vogliono imporre è una parodia del “lavoro culturale” attraverso il quale Gramsci invitava gli intellettuali e i subalterni a liberarsi delle catene e a distruggere il potere che li opprime. In tal caso il potere servirebbe per opprimere i loro simili e trasformare la “guerra di posizione” nel suo opposto di “guerra civile”. La lotta di classe, cioè la presa di parola da parte dei subalterni, in cui si inserisce l’egemonia gramsciana intesa come guerra di posizione, dovrebbe invece spaccare un simile progetto terrificante e organizzare la resistenza, già dall’interno di ciascun paese. Di questo scontro si vedono le prime scintille.

ARTICOLO n. 52 / 2024

SE NON RICORDI NON SEI NULLA

intervista di Fabio bozzato

Per più di un’ora e mezza Julio Llamazares ha firmato copie, all’uscita del suo incontro a Incroci di Civiltà, il festival letterario promosso dall’Università Ca’ Foscari di Venezia. Prima di mettere la firma sul suo Diversi modi di guardare l’acqua (Il Saggiatore, 2024, pagg.170, traduzione di Denise Zani) si è chinato centinaia di volte per chiedere qualcosa a chi gli si parava di fronte, finendo per ascoltare una quantità di piccole storie, anche solo un ricordo o un aneddoto, con negli occhi la stessa incontenibile curiosità. 
Julio Llamazares, poeta, scrittore e sceneggiatore, è nato nel 1955 a Vegamián, un paesino spagnolo che da bambino ha visto inondare per far posto a una diga. Quella vicenda è tornata più e più volte nella sua lunga e ricca produzione letteraria, compreso questo libro che è venuto a presentare in laguna. Il fatto è, come dice uno dei suoi personaggi, che «ci sono diversi modi di guardare l’acqua. Dipende da cosa stai cercando». E da qui, Spritz in mano, abbiamo cominciato a chiacchierare.

Fabio Bozzato: Lei è un grande narratore della memoria. C’è da chiedersi cosa sia per lei la memoria.

Julio Llamazares: Io credo nella personalità della memoria. Ognuno di noi è quello che ricorda. O meglio, siamo allo stesso tempo quello che ricordiamo, quello che abbiamo vissuto e quello che ricordiamo di aver vissuto. Per questo l’Alzheimer è la malattia più crudele, perché ti annulla non solo il fisico, ma anche la personalità. Perché se non ricordi, non sei nulla. Diventi un automa, un manichino da vetrina, una figura di cera. Dunque, potremmo dire che tutta la letteratura, perlomeno come io la concepisco, si costruisce sulla memoria, sull’esperienza della vita già vissuta, non solo personale ma soprattutto collettiva. Ecco perché è così importante per me la memoria, molto più che i singoli ricordi, perché le nostre complicate radici sono il fondamento della nostra identità.

F.B. In realtà, nei suoi testi sembra sempre volerci fermare sugli strappi della memoria. Ha accennato ora all’Alzheimer, si dice spesso sia anche una metafora del contemporaneo: pensa sia così?

J.L. Oggi possiamo dire che l’Alzheimer è davvero una delle malattie di cui soffre l’Europa. Altrimenti non si spiega perché siano ritornate certe ideologie e persino certe parole che credevamo esserci lasciati alle spalle un secolo fa e a volte molto più di un secolo. Se ricordassimo, come europei, se avessimo una memoria funzionante e non crepata o interrotta, non torneremmo a ripetere certe cose. Il fatto che si ripetano ha a che vedere con questa perdita di memoria. E così ci troviamo divisi, una parte ammalata di questo Alzheimer collettivo e una parte che affronta le conseguenze. Oggi siamo in mezzo a questa battaglia.

F.B. Nel suo libro i personaggi raccontano gli stessi fatti, tutti hanno di fronte la stessa scena ma ognuno vede cose diverse. 

J.L. In quel momento tutti hanno di fronte lo stesso specchio: è il bacino d’acqua. Quell’acqua, che è stata la causa dello sradicamento e della distruzione di un mondo, è lo stesso specchio su cui tutti si riflettono. Succede così in tutta la nostra esperienza quotidiana. Lo stesso paesaggio significa per ciascuno di noi qualcosa di diverso, c’è chi l’ha abitato e chi lo vede per la prima volta, chi ha lavorato la terra e chi ci viene per turismo. Io posso rivedermi in quella scena di fronte al bacino d’acqua della diga, là in quel piccolo paese dove sono nato. Mi è capitato spesso di fermarmi in un punto panoramico, assorto nei miei ricordi, e sentire gente venuta da lontano osservare quel luogo e rimanere sbalordita dalla meraviglia del paesaggio: «Che bello, sembra di stare in un lago delle Alpi».  
Con i libri è la stessa cosa. Ogni libro è uno specchio e non ci sono due lettori al mondo che vivano quell’esperienza letteraria allo stesso modo. E così con la musica: ad ascoltare la stessa canzone, c’è chi ricorda un giorno quando è stato felice e c’è chi sentirà tristezza perché magari la associa a un dolore o una perdita. Si dice che non si dovrebbe tornare dove si è stati felici ed è quello che vivono i personaggi del libro. Perché è vero che è una storia sullo sradicamento, ma è anche il racconto sulla relatività delle emozioni e delle reazioni alla vita. 

F.B. Di tutti i personaggi l’ultimo che fa parlare è Agustín. È come se per tutto il libro stessimo aspettando la sua voce. È il personaggio taciturno, isolato, considerato da tutti problematico e non autonomo, eppure ci sorprende.

J.L. Agustín ha uno sguardo di lucidità che gli altri non hanno. Ed è il personaggio che più mi è stato difficile scrivere. È quello a cui nessuno fa caso, su cui tutti sentono commiserazione; eppure, ha dentro di sé sentimenti più profondi di tutti gli altri. A volte tendiamo a disprezzare qualcuno, soprattutto se è abituato a restare in secondo piano e a non verbalizzare ciò che sente o ciò che desidera. È la voce che stona nel coro eppure lo completa. Perché in realtà questo libro è una tragedia greca: ogni maschera dice quello che deve dire e se ne va o tace. 

F.B. In questo coro di voci familiari, ognuna finisce per raccontare due perdite irreparabili: un paesino fatto affondare nell’acqua e la morte del patriarca. La perdita, questa perdita ineluttabile, è un personaggio in più del romanzo?

J.L. È proprio così, quella perdita è davvero una presenza ingombrante che parla per sé. Questo romanzo è una elegia attorno a una persona le cui ceneri vengono gettate nell’acqua nel momento in cui muore, anche se era già morto cinquant’anni prima, ancora vivo, quando il suo paese è stato inondato con la costruzione della diga. Quell’uomo si è spento quando gli hanno sottratto il suo paesaggio. Il paesaggio è la sua memoria. E quando si perde paesaggio e memoria si muore. Un pensatore australiano, Glenn Albrecht, ha coniato un neologismo: “solastalgia”. È il trauma che viviamo di fronte alla distruzione del paesaggio. Nella mia storia, non è solo un bacino d’acqua che sommerge questi piccoli paesi, no, è tutta la tua vita che viene spazzata via. D’improvviso tutto cambia, si forma un nuovo paesaggio così come la tua vita ricomincia da capo in modo inaspettato. E continuerai sempre a sentire tutto il dolore dello sradicamento della tua memoria. Non solo è uno sradicamento fisico, ma è uno strappo dell’intera tua memoria. E questo produce un tale smarrimento da sommergerti nella malinconia.


F.B. I suoi libri sono sempre ambientati in questi piccoli paesi della Spagna profonda. Anche in Italia si parla molto dei borghi, antichi e spesso spopolati, che ora sono riscoperti come una risorsa. Lei crede che possano essere anche un terreno nuovo su cui ricostruire un sentimento comune europeo?

J.L. Credo sia un mondo estremamente importante, ricco, vitale. Di fatto, dopo la sbornia della globalizzazione e i suoi effetti di omogenizzazione economica e di livellamento culturale, credo che la gente senta la necessità di cercare qualcosa di perduto, di trovare un senso alla propria identità e per farlo è un movimento inevitabile rivolgersi alle proprie origini. Così assistiamo a un movimento sociale e filosofico di ricerca delle radici, come reazione proprio a una perdita di identità. Ora sono qui a Venezia. È una città unica, certo, ma se mi guardo attorno è uguale a qualsiasi altro posto, ci sono gli stessi negozi, la gente è vestita allo stesso modo. Le città non sono altro che una enorme rete in franchising. L’insoddisfazione e lo smarrimento che vive tanta gente derivano dalla sensazione di essere un prodotto in più nella società dei consumi. Non solo siamo consumatori ma noi stessi prodotti, la nostra stessa vita è venduta in questo modo. Così si spiega, credo, la tensione verso le origini. E si finisce per idealizzare un mondo delle origini, come sono i piccoli borghi. Attenzione, è un movimento confuso, pieno di rischi.

F.B. Perché finisce per incrociare e alimentare un’onda di nostalgia conservatrice.

J.L. Certo! Il rischio è che questa tensione alle origini diventi il brodo dei nazionalismi e delle piccole patrie, che è qualcosa di escludente ed egoista. Voglio dire che la ricerca delle proprie origini, delle radici, finché resta una filosofia di vita ha un suo senso, ma diventa pericolosa quando si fa ideologia. 

F.B. A leggere i suoi libri, viene in mente Pasolini e il suo sguardo struggente sul mondo rurale. Lei stesso ha scritto un libro che si chiama Vagalume, lucciola, ed è famoso di Pasolini il testo sulla scomparsa delle lucciole come catastrofe antropologica ed ecologica. Lui aveva una risposta di rabbia e furia. Lei no, sembra essere solo profondamente malinconico.

J.L. Lo confesso, provo molta rabbia anch’io. Ma è una rabbia rassegnata. Perché sento sempre la sensazione di essere uno straniero nel mio stesso Paese. Sento che tutto va in una direzione che non condivido e che mi mette a disagio. Ho sempre in mente le parole del filosofo spagnolo Ortega Y Gasset: «Lo sforzo inutile porta alla malinconia». 
Così, puoi scrivere tutto quello che vuoi ma sempre sentirai che non servirà a nulla. Non parlo di me, ma di chiunque. E tutto finisce macinato nella ruota del progresso o della vita, sotto i denti dell’economia. Allora davvero tutti gli sforzi che fai di scrivere sembrano uno sforzo inutile in senso sociale. È da qui che mi viene quella mia rabbia rassegnata che porta da un lato a una grande malinconia e dall’altro a qualcosa che ha a che fare con l’ironia o il sarcasmo. A questo punto, mentre scrivo mi sento come uno di quei naufraghi che lasciano messaggi in bottiglia. Non cambio il mondo scrivendo, ma mi serve per continuare a vivere. Sì, penso che scriviamo per sopravvivere.

ARTICOLO n. 51 / 2024

COME MI SONO AVVICINATO ALL’ACQUA

Una conversazione con Luca Massimo Barbero

Luca Massimo Barbero: Venezia è un luogo ineffabile e leggendario, associato alla pittura e soprattutto all’acqua. L’acqua in tutte le sue forme: la bruma, la laguna, il costante dialogo fra l’isola e i canali, e la potenza del mare che preme alle porte della città e talvolta la sommerge. Se pensiamo al titolo di una delle sue mostre, Unfamiliar Images, l’acqua potrebbe non essere il tema che associamo immediatamente alla produzione artistica di Alex Katz. Ci viene in soccorso, tuttavia, la recente analisi delle sue opere sviluppata da Éric de Chassey nel saggio Les Mondes Flottants [“I mondi galleggianti”, NdT], primo lavoro dedicato a Red Sails nonché introduzione a un collage decisamente straordinario, Sea, Land, Sky: niente potrebbe essere più adatto a un ritorno a Venezia, una città sospesa proprio fra questi tre elementi, mare, terra e cielo. Nei suoi dipinti, l’acqua come superficie riflettente è un soggetto che ricorre con frequenza. Qui, alla Fondazione Giorgio Cini, sarà esposta in un’unica spettacolare sala una raccolta di tele di grande formato dedicate all’oceano. Spesso i critici fanno riferimento alle onde di Manet, e al mondo galleggiante dell’imprescindibile, ossessivo e straordinario Monet. Qual è stato negli anni il suo approccio al paesaggio marino e alla figura immersa nell’acqua, che si tratti di un’anonima bagnante o di un personaggio riconoscibile? Cosa l’ha portata a riunire questi oceani straordinari, la loro profondità e tutta la luce e la vitalità di un mondo in costante rinnovamento?

Alex Katz: Mi sono avvicinato all’acqua quando facevo il guardiano notturno per la Jamaica Railroad di New York. Di mattina, la superficie dell’acqua di Jamaica Bay a New York diventava di porcellana, di tutti i colori più disparati, proprio come succede a Venezia. E mi chiedevo se fosse possibile dipingere una cosa del genere. Allora avevo sedici anni. Poi ho passato diversi anni nel Maine a cercare di dipingere la luce sull’acqua. Guardavo i dipinti di altri artisti e pensavo: “Che cosa non hanno colto?” Quali sono le qualità dell’acqua? Per dipingerla perfettamente devi mostrarne la trasparenza, il peso e il movimento, sono questi i tre elementi principali. Ricordo di aver osservato i dipinti di Winslow Homer. Era tutto giusto, ma l’acqua non aveva alcuna energia. L’artista che preferivo in termini di raffigurazione dell’acqua era Manet.

L.M.B. L’isola di San Giorgio e il grandioso Bacino di San Marco, come Venezia tutta, sono stati l’ambientazione che ha ispirato artisti da Tiziano a Tintoretto a Veronese, che per secoli hanno rappresentato un’intera iconografia della pittura figurativa. Che cosa pensa di questi artisti? Hanno mai suscitato il suo interesse? Come li definirebbe in relazione alle tematiche che hanno esplorato nelle loro opere?

A.K. Per mantenermi come artista intagliavo cornici tre giorni alla settimana. Gli intagli veneziani erano i più difficili perché le forme sono estremamente fluide. Tiziano, Tintoretto e Veronese: sono loro lo stile di Venezia, uno stile ampio e fluido. Quando ho visto per la prima volta le opere del Veronese al Louvre, a 35 anni, ero strabiliato. Davvero impeccabili. L’enorme ovale verticale di Giove che fulmina i vizi, inteso originariamente per il soffitto, ha un movimento e una potenza incredibili. Ha avuto un enorme impatto su di me.

L.M.B. Vorrei chiederle di parlarmi di una cosa che ha detto a proposito del grande maestro Jacob van Ruisdael: «Jacob van Ruisdael è un artista indiscusso, e le sue opere sono tutte paesaggi». Qual è stata la sua esperienza rispetto alla storia della paesaggistica, e come è giunto a realizzare i paesaggi monumentali che sono esposti qui, alla Fondazione Cini?

A.K. La maggior parte dei paesaggi sono come un buco nel muro: forniscono prospettiva. Mi sono ritrovato a creare un’opera paesaggistica ambientale, in cui il paesaggio ti avvolge. Quindi avevo bisogno di un certo formato per ottenere l’energia giusta, e ora sto cercando di ricreare la stessa cosa in un dipinto più piccolo.

L.M.B. Il Maine è incastonato fra l’oceano e la natura. Qual è la genesi di opere di grandi dimensioni come Maine Field 3 o degli avvolgenti dipinti della serie Grass, che verranno esposti qui insieme per la prima volta? Quale interpretazione dovrebbe darne il pubblico?

A.K. Realizzare un grande quadro che raffigura l’erba è stata una grossa sfida. Si rimuove il soggetto dal dipinto. Nella pittura narrativa, il soggetto è importante quanto il quadro stesso. Quando dipingi erba, invece, elimini l’idea del soggetto. Si tratta dell’atto del vedere, di quella percezione che scaturisce a livello individuale in base a come si vive il dipinto dell’erba, da cosa significa per l’osservatore trovarsi al suo interno. Per gli intenditori, è il dipinto stesso. Quanto agli altri artisti, per me possono anche rodersi il fegato.

L.M.B. La natura è un mondo in cui i francesi hanno riscoperto la filosofia, gli inglesi il romanticismo, e gli italiani il piacere. Come si manifesta e si sviluppa il piacere all’interno della sua opera? Come viene sintetizzato nella serie Flowers, ossia i dipinti precursori dei grandi paesaggi che verranno esposti qui?

A.K. Ho iniziato a interessarmi ai fiori negli anni ‘50, perché l’atmosfera era impregnata di machismo. Facevamo delle mostre collettive, e a me piaceva inserirci un fiore e annientare tutti gli artisti macho. È così che è cominciato, che ho cominciato. Anche i dipinti di fiori sono difficilissimi da realizzare, al pari dei dipinti raffiguranti l’acqua. Si può descrivere un fiore, ma il colore è davvero giusto? La descrizione distrugge il colore. E se il colore è giusto, lo sono anche i volumi? Insomma, è molto complicato. Per non parlare della superficie del fiore. Renoir ha realizzato delle magnifiche tele di fiori, ce n’è una a Boston. Ho sempre pensato, invece, che quelle di Mondrian fossero prive di superficie. È estremamente complesso ritrarre un fiore in modo non formulativo. Come artista, sei obbligato a dipingere qualcosa di nuovo. E stai discutendo con l’artista che dice che il nuovo può solo provenire dal presente immediato, poiché questa è l’idea di modernismo. Quindi dici: qualunque esperienza io abbia fatto è al tempo presente. Nefertiti per me è sempre nuova, perché sono là assieme a Nefertiti, assieme alla scultura.

L.M.B. Non posso non chiederle del suo rapporto indelebile e costante con la ritrattistica. In tutta la sua opera sono evidenti decenni di ricerca e un fascino perenne: «Io perseguo il presente immediato», ha dichiarato una volta. Quando ha fatto la scelta radicale di concentrarsi sui ritratti, in particolare rispetto ad altri artisti americani contemporanei, sia espressionisti astratti che realisti?

A.K. Tutto è iniziato alla scuola d’arte. Ho ottenuto una borsa di studio per la pittura presso la Skowhegan, dove si dipingeva all’aperto sostenendo che quella era pittura realista. Io stavo facendo un quadro che sembrava un Bonnard, guardo in su e vedo un tizio sopra un tetto, con il sole che lo illumina. È stata una sensazione straordinaria, e per me era una sensazione nuova, diversa da qualsiasi altra cosa. Quella che ti fa capire che è questo che vuoi fare. È da quando l’ho provata per la prima volta nel 1949 che continuo a inseguire quella sensazione.

L.M.B. Una volta l’indimenticabile David Sylvester le ha fatto una domanda molto diretta: «Va bene Giotto, e Piero allora?» Qual è il suo rapporto in termini di figura, soggetto e carattere (vorrei quasi dire postura) con Piero della Francesca, di cui fra l’altro è esposto un quadro proprio a Palazzo Cini?

A.K. Piero mi è sempre sembrato straordinario. Assolutamente formidabile, eppure controllato. Non assomiglia a nessun altro. Ha una marcia in più, senza dubbio. Giotto è il massimo. È capace di prendere un sentimento personale e dipingerlo in uno stile impersonale. Nessun altro riesce a farlo. Il colore è come uno spettacolo di luci, e le forme sono incredibili. Ma la cosa più importante per me è che nel suo modo classico è in grado di avere emozioni interiori. La Vergine soffre realmente per la morte di Cristo. Percepisci la sua sofferenza, e questo non sminuisce il dipinto. È fantastico. La sua generalizzazione delle forme mi ricorda il dipinto marino di Albert Pinkham Ryder, Moonlight Marine, esposto al Metropolitan Museum of Art. È la stessa cosa. E il quadro di Ryder è uno dei migliori che l’America abbia mai prodotto.

L.M.B. Per usare un’espressione paradossale coniata da Vincenzo Agnetti alla fine degli anni ‘60: la storia dell’arte dovrebbe essere “dimenticata a memoria”? Ossia, dovrebbe essere assimilata in modo così profondo da essere trasformata in qualcos’altro? Lo consiglierebbe ai giovani artisti di oggi?

A.K. Credo che questo signore abbia avuto un’idea legittima, ma non ne apprezzo l’espressione. La storia dell’arte fa parte dell’arte, e dovrebbe scomparire nel tempo presente. Fa parte del subconscio. Dipingere il subconscio, per me, è l’unica cosa positiva del surrealismo.

L.M.B. La moda, un sistema grandioso, è forse una delle tematiche più profondamente associate all’esistenza quotidiana delle persone famose. Leggo: «L’attrazione di Katz nei confronti delle apparenze, delle superfici, è particolarmente evidente nel suo ritratto di Anna Wintour, caporedattrice di Vogue e direttrice creativa di Condé Nast». Come vede il processo creativo e comunicativo della moda? Qual è la sua opinione sui suoi sviluppi nel corso dei decenni, nell’ambito dell’immaginario collettivo nonché della sua opera?

A.K. L’idea della moda è cercare di creare qualcosa nel presente, e questo è ciò che dovrebbe essere un dipinto. Ci sono soluzioni diverse per la moda e per la pittura. Non può esistere lo stile senza la moda. Lo stile esiste in questo rapporto con la moda. E se un designer riunisce in sé stile e moda, il suo lavoro non perde valore dopo 20 anni. Una donna può indossare un Charles James o un Balenciaga di 20 anni prima e fare una bella figura.

L.M.B. Qual è l’origine della serie di opere dedicate alla stilista Claire McCardell?

A.K. L’origine della serie di Claire McCardell mi è spuntata dal subconscio. Stavo uscendo dalla vasca e un segno mi ha detto: “Claire McCardell”. Era con me da tutti quegli anni. La serie si collega all’arte e alle idee di Claire McCardell sulla forma generica. In altre parole, è come i Levi’s. Puoi portare i Levi’s con una maglietta oppure con una giacca da 2.000 dollari, non fa differenza. I Levi’s sono del tutto generici. La biancheria intima di Calvin Klein è generica, e indossarla ti fa sentire socialmente accettabile. Come stilista sociale, merita un 10. Un altro stilista che ha lo stesso effetto sul pubblico è Ralph Lauren, che crea capi per le fantasie della gente. Non c’è molto in termini di design, ma c’è molto in termini di ragionamento.

L.M.B. Qual è il suo rapporto con Claire McCardell e con il mondo che rappresentava in un momento molto particolare della moda americana e internazionale?

A.K. Claire McCardell ha sostituito la moda francese durante la guerra, quando non potevamo avervi accesso. Si basava su un’idea molto radicale, quella di rendere la moda accessibile a chiunque e di vendere i capi a prezzi accessibili. Ha avuto molto successo per due anni, fino alla fine della guerra.

L.M.B. Come sono stati concepiti e strutturati i singoli dipinti, oltre a quello che ritengo essere il suo ritratto? Come narra la storia della grande avventura di questa donna in ciascuna tela della serie?

A.K. I materiali di partenza erano delle fotografie. Lei vestiva le modelle in diverse tonalità di grigio, quindi ho pensato, tanto vale metterle in fila. I toni del grigio risultavano fastidiosi sulla tela, e non volevo che sviassero l’attenzione dall’impatto immediato delle creazioni stesse. I dipinti sono virtuosismi che hanno l’energia delle sue creazioni di moda. Quei quadri non erano che un’invenzione, e ci vuole bravura per farli apparire tali. Se li osservi da vicino, scopri che lì non c’è proprio nulla.

L.M.B. Concludiamo con un aforisma: cosa vorrebbe che il pubblico capisse dalle sue opere, in termini di stile?

A.K. Vorrei che il pubblico giungesse alla conclusione che è plausibile.

Intervista estratta dal catalogo dell’esposizione alla Fondazione Cini presso l’isola di San Giorgio a Venezia in corso fino al 29 settembre. Ringraziamo il Direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte Luca Massimo Barbero della Fondazione Cini per la disponibilità.

ARTICOLO n. 50 / 2024

IL MITO DELL’ORGASMO PERFETTO

breve storia della clitoride

In una celebre scena di Palombella rossa, film del 1989 di Nanni Moretti, il protagonista Michele Apicella si ritrova a urlare “le parole sono importanti!” a una giornalista che, a bordo piscina, lo assedia con affermazioni retoriche e un lessico vuoto e fastidioso.

Nel nostro viaggio che ripercorre i miti intorno a cui si è costruito, nel corso del tempo, un certo ideale di femminilità, l’attenzione al linguaggio costituisce un punto di osservazione  imprescindibile, utile per comprendere i meccanismi che hanno dato vita a molte delle ingiunzioni intorno alla sessualità delle donne.

Nel volume Sesso, la docente Kate Lister osserva come esistano centinaia e centinaia di parole per riferirsi, in toni più o meno coloriti, agli organi genitali maschili e solo una manciata di termini per definire quelli femminili. Non solo: la maggioranza di questi lemmi descrivono vulva e vagina in ottica passiva, strumenti utili più per procurare piacere all’altro (il maschile è voluto) che non a chi quegli organi li possiede. 

La quantità di parole a disposizione, l’accezione con cui sono impiegate e i significati cui alludono, quindi, non sono neutri, ma rimandano a uno specifico modo di intendere la sessualità. Assumendo questa prospettiva è facile capire perché, per tanto tempo, di clitoride non si è parlato affatto. Nell’edizione del 2013 del Roger’s Profanisaurus, l’enciclopedia delle volgarità pubblicata per la prima volta nel Regno Unito nel 1998, Lister conta solo cinque voci riferite a quest’organo. D’altronde, la prima ecografia tridimensionale era stata ottenuta dai ricercatori Odile Buisson e Pierre Foldès solo qualche anno prima, nel 2009. È sempre grazie a loro se, dal 2016, disponiamo di un modello 3D, indispensabile nei testi di anatomia ma anche per i corsi di educazione sessuale.

La filosofa Catherine Malabou rintraccia il primo uso anatomico del termine nei testi di Rufo di Efeso, medico greco vissuto tra il I e il II secolo. Galeno, medico romano coevo, definiva questa parte del corpo femminile “nymphe”, termine che sarà ripreso anche dagli anatomisti di epoche successive, per esempio dal francese George Cuvier che, in un testo di medicina del 1805, scrive: «(…) due specie di piccole labbra chiamate ninfe, perché hanno  la funzione di dirigere il flusso dell’urina, delimitano la metà superiore della vulva all’interno delle grandi labbra». Come ricorda la studiosa, “ninfa” è passato progressivamente da parola con cui definire la clitoride a lemma con cui sussumere l’intero genere femminile e, a suo modo di vedere, non è un caso: «C’è un tratto che unisce tutte queste ninfe (…). Si dice non raggiungano mai il piacere. Rimane prigioniero della sua crisalide. La ninfa, non godendo, è il fantasma erotico per eccellenza. La donna ideale non ha una clitoride». Nella visione del mondo degli uomini, quindi, la sessualità femminile è silenziosa e pudica, si nasconde e non reclama attenzioni; in pratica, non esiste.

Fino al XVI secolo, “clitoride” era una parola considerata oscena. Tuttavia, nonostante fosse ancora incerta la sua funzione, era noto il fatto che quest’organo fosse strettamente funzionale al piacere sessuale. Ricorda Lister: «Si pensava che le clitoridi eccessivamente grandi fossero simili a un piccolo pene, e quindi causa di lesbismo e appetiti sessuali anormali». Va da sé che l’unica cura possibile fosse la loro rimozione: dall’antichità al Medioevo, in tutti testi di anatomia compaiono indicazioni precise su come asportarle e cauterizzare le ferite.

È solo nel periodo rinascimentale che si scopre che la clitoride non è “solo” un lembo di pelle in eccesso ma un vero e proprio organo, funzionale al piacere e alla sessualità. Queste nuove consapevolezze, lungi dal mettere in discussione le pratiche agite fino a quel momento, potrebbero al contrario averle rafforzate. A partire dal Seicento, infatti, il tentativo di disciplinare la sessualità femminile si fa ancora più evidente. L’anatomista olandese Thomas Bartholdin definisce la clitoride “disprezzo per l’umanità”, ricordando a tutte le donne che il suo eccessivo sfregamento le avrebbe rese lesbiche. Il filosofo Rousseau mette in guardia genitori ed educatori dal pericolo della masturbazione, in particolare quella femminile, invitandoli a non lasciare mai sole le ragazze, a vestirle con abiti che rendessero più difficile lo strofinamento e a correggere il modo in cui si sedevano, facendo attenzione che tra le loro gambe vi fosse sempre un po’ di spazio per evitare spiacevoli stimolazioni indirette. 

Se la medicina continua la sua battaglia contro questo piccolo organo del piacere, è la letteratura pornografica del XVIII secolo ad accoglierlo e liberarlo, rendendolo protagonista di molti racconti e libri erotici. Da De Sade ai testi noti come “Merryland books”, si moltiplicano le pagine dedicate alla clitoride e al piacere che può provocare. Ciò nonostante, il tentativo da parte della medicina di disciplinare la sessualità continua: «Alcuni medici credevano che una clitoride ipertrofica fosse causata dalla masturbazione, altri il contrario» ricorda Lister. Per tutti la soluzione a un problema concreto o solo paventato era sempre la stessa: la clitoridectomia.

Con l’avvento del Novecento la rimozione della clitoride passa dal piano medico a quello simbolico. Nei Tre saggi sulla teoria della sessualità, Freud sostiene che le donne maturino una sessualità sana, adulta e pienamente femminile «una volta che si sia verificato il transfer dell’eccitabilità erotica dalla clitoride all’ingresso della vagina». Mentre la crescita sessuale maschile non prevede una variazione della “zona direttiva erogena”, il padre della psicanalisi ritiene che quella femminile cambi: quella clitoridea, parziale e limitata, lascia il posto a quella vaginale, autentica perché funzionale ai fini procreativi. 

Se fino all’800 la clitoride era causa di una sessualità senza freni, pericolosamente vorace – come quella che caratterizzava le ninfomani – a partire dal Novecento diventa sinonimo di frigidità. Marie Bonaparte, pronipote dell’Imperatore Napoleone e paziente illustre del medico viennese, arrivò addirittura a farsi operare per riposizionarla, illudendosi che solo in questo modo sarebbe riuscita a ottenere un orgasmo vaginale. 

Per tutto il secolo scorso, quindi, le donne hanno inseguito il mito dell’orgasmo vaginale che per i medici dell’epoca costituiva l’unica garanzia di una sessualità sana ed equilibrata. È solo grazie al femminismo della seconda ondata che si assiste a una netta inversione di tendenza. Ciò avviene anzitutto con Simone De Beauvoir, che ne Il secondo sesso sposta l’analisi della sessualità dando risalto al corpo, al soggetto desiderante. Come ricorda Malabou: «Non possiamo capire cos’è la sessualità se prima non vediamo che è un fenomeno, una manifestazione». Pur prendendo le distanze dall’etichetta “clitoridea” o “vaginale”, De Beauvoir non si discosta totalmente dalla logica duale che caratterizzava il pensiero freudiano. Bisogna attendere Carla Lonzi per il superamento di questa dicotomia. Nel suo Sputiamo su Hegel, la clitoride diventa emblema di una differenza che nessuna dialettica potrà mai risolvere. Non solo: essa costituisce la resistenza all’ideale eterosessuale, procreativo e pertanto penetrativo imposto a ogni donna.

Rimossa simbolicamente dalla teoria psicanalitica, la clitoride ritorna sul finire del Novecento e diventa, grazie al pensiero di Lonzi, il terreno su cui fondare ontologicamente l’identità femminile. Lungi dall’essere sintomo di una sessualità parziale, infantile o peggio ancora malata, con l’avvento del “femminismo della differenza” la clitoride segna, secondo Malabou, «lo scarto irriducibile tra sottomissione e responsabilità». Riconoscere il piacere clitorideo significa prendere le distanze dal modello femminile promosso dalla cultura patriarcale che concepisce la donna subordinata al desiderio maschile. «Per godere pienamente dell’orgasmo clitorideo – scrive Lonzi – la donna deve trovare autonomia psichica dall’uomo»: il femminismo diventa allora lo spazio, antitetico alla psicanalisi, in cui «elaborare i termini della sua liberazione». 

L’attuale ondata femminista è lontana, non solo temporalmente, da quella vissuta da Lonzi negli anni Settanta, tuttavia l’attenzione intorno alla sessualità che il femminismo della differenza ha contribuito a sollevare non accenna a diminuire (per fortuna, aggiungerei). Dal 2009 a oggi abbiamo potuto conoscere molto della clitoride: sappiamo che è l’unico organo privo di altri scopi se non quello di procurare piacere e che ha più di 8.000 terminazioni nervose, il doppio di quelle presenti nel glande maschile. Della clitoride, oggi, conosciamo la sua struttura anatomica: sappiamo che si estende in profondità, ben oltre ciò che possiamo vedere esternamente, e ciò rende assolutamente risibile la distinzione tra orgasmo clitorideo o vaginale per il semplice fatto che tutti sono ascrivibili al primo

Tutto ciò di cui la clitoride è stata accusata – di portare alla ninfomania ma anche alla frigidità, di rappresentare una sessualità infantile o di fomentare il lesbismo – racconta della paura del genere maschile di perdere quel potere che è stato, per secoli, conferito al pene anche attraverso il linguaggio. Conoscerne la storia e ricordarla, pertanto, è un atto di liberazione per le donne che ancora oggi si interrogano sulla propria sessualità. Non c’è nulla di sbagliato nel nostro piacere, in qualsiasi forma in cui si manifesti; l’unica cosa sbagliata è la sua repressione.

ARTICOLO n. 49 / 2024

DECLINO CHE PASSIONE

anatomia del mito "era meglio prima"

Era meglio prima. Oggi non va bene niente. Siamo in declino. Il declino è diventato un genere: il declinismo. È più che una moda. In effetti, non esistono mode che durano in eterno. Il declinismo è un pensiero retrospettivo che spiega il presente a partire da un’origine perduta o dalla degradazione di una potenza organica, industriale, personale, militare.Questo pensiero è basato sulla psicologia collettiva, sulla condizione sociale di chi si sente personalmente in declino, sull’idea di progresso lineare ma anche sull’idea di società organica, gerarchica, automatica.

Nostalgia e risentimento

Il declino è una questione di prospettive. Non è solo il rimpianto di un’epoca. È anche la proiezione del presente in direzione di un’idea del passato da riattualizzare nel futuro. Questo doppio movimento sfugge all’attenzione. Di solito, infatti, si pensa che il declinista rimpianga il tempo della sua giovinezza, sia vittima della Caduta dal paradiso terrestre, rimpianga l’Età dell’Oro. È vero, ma non è tutto. 

La passione del declino è la nostalgia. La nostalgia può ribaltarsi in risentimento. Il declinismo è, in fondo, un idealismo. Il mondo è la degradazione dell’Idea, va riportato all’origine. E se il mondo va da un’altra parte, e non si lascia correggere, né risponde al bisogno di mettere ordine, allora si scatena l’apocalisse, il misantropismo, l’odio per chi non capisce la necessità di salvare la storia da se stessa e imporre la storia come dovrebbe essere ma non sarà. 

Non c’è un unico declino. Ce ne sono tanti quanti sono i declinisti per generazione, che siano della politica, dell’ideologia o della storia. Ciascuno ha il proprio modo di essere passivo, e di reagire. Il declino, in fondo, risponde a un’economia delle passioni. Oggi, nel cuore della controffensiva reazionaria, queste passioni sono spietate.  

Il declino inizia su Tik Tok

Ci sono i declinisti aggiornati. Quelli che si occupano di provocazioni scrivendo libri contro la scuola pubblica di massa, colpevole a loro dire di diseducare e non essere “meritocratica”. Dicono che il declino è iniziato con l’avvento di Internet e poi dei social network. Oggi i ragazzi non sanno scrivere, né parlare. Hanno la soglia di attenzione di un video su TikTok. È una catastrofe, signora mia. È la fine dell’età dell’oro, quando tutto sembrava più grande, gli alberi del paradiso terrestre erano gravidi di frutti promettenti. Tutto allora sembrava possibile. Oggi, quando abbiamo in effetti un problema con le mezze stagioni, ci troviamo sul piano inclinato verso il nulla. Se non reagiamo, il declino ci sommergerà.

C’era una volta: i “trent’anni gloriosi”

Il tempo delle mele è quello della giovinezza perduta. Se il declinista è di sinistra, la giovinezza coincide con i “trent’anni gloriosi” (1945-1973), cioè con il periodo del boom del neocapitalismo e di una narrazione mitologica di un Welfare idealizzato, una classe operaia eroica, un partito comunista frizzante, l’altra Chiesa che accoglieva e dava identità. Non occorre avere vissuto quegli anni. Si tramanda la loro idea. Oggi il declinista rimpiange quella idea di comunità, più che di classe. E in subordine il maggio ’68. I conflitti allora c’erano. Erano più vivi, tondi, sensati. Si capiva chi era il nemico. Bisogna salvare quella memoria ora che è finito tutto.

Io li capisco questi declinisti. Mi sento vicino a loro. Come dargli torto. Allora c’era la musica tra le più belle, un rito liberatorio, un’immaginazione politica. A un concerto dei Pink Floyd psichedelici ci sarei andato. Li ascolto oggi e sono favoleggianti. La scena finale di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni è una bomba, letteralmente. E avrei fatto un viaggio avventuroso. Non so se in India però.

Scrivo per un giornale che si chiama Il Manifesto. Una delle creature del Sessantotto. Spesso vado in archivio a leggere il quotidiano che facevano le madri e i padri fondatori e gli altri che li hanno seguiti. I primi furono espulsi dal PCI perché, tra l’altro, scrissero: “Praga è sola”. Denunciavano lo stalinismo che invase la Cecoslovacchia nel ‘68. Altro che riconciliazione. Altro che passato ideale. Violenza, repressione, negazione. La critica al Partito Comunista italiano era ruvida. La ricerca di un’altra rivoluzione era difficile. C’era allora però un’intuizione di fondo che dura ancora oggi. Gli studenti, gli operai, le donne, i movimenti di liberazione dal colonialismo e dall’imperialismo a cui si rivolgeva quel giornale formavano allora la parte emersa di un altro tipo di rivoluzione. Questa è la politica che resta da pensare, e da fare, ancora oggi. È il futuro. Si direbbe che il “declino” sia stato inventato per cancellare la sua intuizione. E per annegarla nella nostalgia del presente. Il genealogista vede invece la realtà in prospettiva. Le rivoluzioni, quando ci sono, lasciano il segno. 

All’origine dei guai

Tra i declinisti di “destra”, ma le parti si confondono perché sono in molti a pensare lo stesso a sinistra, si pensa che il “Sessantotto” sia stato l’inizio della decadenza e della perdita di autorità. A pensarlo c’è sia chi ha partecipato a qualche collettivo in quegli anni e poi si è messo a scrivere libri, trovando una popolarità tra i “nuovi filosofi”, sia i qualunquisti, populisti o fascisti veri e propri. In cinquant’anni di odio per il Sessantotto hanno trovato un’idea comune: chi allora si è opposto – i movimenti della contestazione studentesca e della protesta operaia, il femminismo – sarebbe stato un agente del capitalismo. Gli anti-autoritari avrebbero desiderato in realtà più autorità sostituendo i loro padri al potere e gli anti-capitalisti avrebbero desiderato più capitale auspicando una società liberata. 

L’esempio di questa posizione è la credenza basata su una considerazione ingenua della critica: se Karl Marx si è occupato di capitalismo, questo significa che è un sociologo capitalista; se Michel Foucault ha parlato di neoliberalismo, allora è un neoliberale. E Herbert Marcuse? Era l’ideologo di un movimento neo-capitalista composto da anarchici pulsionali che volevano godere dei privilegi della società dei consumi. La criticavano? Erano schiavi del capitale. Gilles Deleuze e Félix Guattari? Figuriamoci: teorici dei fondatori di Google e Facebook. Al di là delle stupidaggini che si scrivono alla base di questa idea del declino della critica c’è l’immaginazione di un soggetto pieno, bello e fatto, che si trova in natura. Uno nasce e, se è fortunato, lo trova nella culla. Dipende però dove e quando. Se nasce nel paese e nel movimento sbagliato non godrà della stessa fortuna. 

“Riarmamento demografico della popolazione”

Ci sono i declinisti natalisti. Un agghiacciante capolavoro di retorica declinista è stato realizzato dal presidente francese Emmanuel Macron quando ha detto che «bisogna riarmare demograficamente la nazione». Non lo ha detto Giorgia Meloni, o Viktor Orbán, di solito considerati tra i campioni dell’estrema destra europea al potere. Lo ha detto il liberal-qualcosa Macron che, quanto ad autoritarismo, non scherza nella civilissima Francia. Basta parlare con chi ha perso un occhio a causa dei flash ball sparati dalla sua polizia in piazza. Discorso patriarcale, guerriero, machista, teso a militarizzare il corpo delle donne, considerandolo una risorsa della nazione nella guerra, pardon nella competizione. 

L’ossessione contemporanea per la demografia implica l’idea inconfessabile che le donne producono forza lavoro. La Nazione ha bisogno dei loro grembi per riarmarsi. Se le donne non fanno figli, la colpa è loro. Non delle condizioni materiali che impediscono anche di amare un figlio. È la popolazione che non reagisce al proprio declino, non i suoi leader che invitano a riprodursi. Se le donne non fanno figli disertano dall’esercito della Nazione. Le metafore hanno una logica atroce. Macron, nella sua stupida brutalità, ha esplicitato ciò che è stato osservato a suo tempo da Michel Foucault: esiste un discorso che attraversa le teorie del capitale umano, l’economia della famiglia, la storia sociale, la geografia e altre discipline. Oggi il posto di questo discorso è occupato dal declinismo. E serve a disciplinare e controllare la popolazione.

Dietro la natalità, l’ossessione xenofoba

Ci sono i declinisti razzisti. Il demografo Hervé Le Bras lo aveva osservato nel 1998 nel libro  Le Démon des origines. Démographie et extrême droite: «La demografia sta diventando un mezzo per esprimere il razzismo». “Grande sostituzione” o “sostituzione etnica” sono i concetti in cui tale processo si è condensato. Questa espressione è stata importata anche in Italia. Ce ne siamo accorti quando il Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, cognato della Presidente del Consiglio Meloni, ha parlato di “sostituzione etnica” e della necessità di “incentivare le nascite”. 

Idea-guida dellestrema destra, la grande sostituzione” è un pilastro anche del discorso declinista. Uno dei suoi ispiratori è il francese Renaud Camus. In un libro omonimo ha parlato della Francia, e per estensione l’Occidente, che stanno subendo un “cambiamento di popolo” a causa dell’immigrazione. Gli “autoctoni” saranno “sostituiti” da persone provenienti dall’Africa, in particolare dal Maghreb. Lo stesso dice oggi Trump a proposito dell’immigrazione dal centro e dal Sud America. Questo processo di “sostituzione” è paragonato da Camus a una “occupazione del territorio”, persino a una “colonizzazione”. Chi vive nelle periferie delle città, e del mondo, è un “soldato” del campo nemico che punta sulla “demografia” che è “uno degli strumenti di questa conquista”, “il suo braccio armato”. L’obiettivo è la “conquista attraverso l’utero”. Deriverebbe da un aumento del tasso di fertilità delle donne che non sono “autoctone”, ma cittadine acquisite di fede musulmana. 

Questo discorso permette di comprendere l’orizzonte coloniale in cui si muovono in discorsi che parlano di “reagire” a un “declino” calcolato in base all’uso natalista delle statistiche. In questa prospettiva un problema ricorrente in tutti i paesi del capitalismo in crisi è vincolato all’evocazione di un aumento della produttività dei corpi delle donne, alla divisione razzista tra le donne autoctone e quelle immigrate, alla gerarchia tra donne “cristiane” e donne “musulmane”, alla divisione tra donne “bianche” contro “donne nere”, e così via. “Reagire al declino” implica il potenziamento di queste tecniche di governo, e di oppressione, in un discorso trasversale.

L’apocalisse

Il declinismo è un racconto fondato sull’apocalisse. Quello delle nascite, rappresentato per Renaud Camus dalla “grande sostituzione”, sarebbe «il fenomeno più cataclismatico nella storia della Francia da 15 secoli». 

C’è poi l’apocalisse ambientale. Se oggi nei paesi capitalisti ci si concentra sul calo delle nascite “bianche”, fuori da essi si parla della sovrappopolazione del pianeta. E si evoca la necessità di una “denatalità”. I due discorsi non sono estranei. Stanno in un rapporto stabilito dal neomalthusianesimo in cui si sviluppa il declinismo. L’ecologista Jason W. Moore ha ricostruito questo nesso nella sua critica radicale al concetto di Antropocene e ha evidenziato come la riduzione dell’ecopolitica al problema del governo della popolazione sia stato un modo per rendere l’ambientalismo compatibile con il capitalismo. Se un problema esiste, allora è quello del modo in cui si produce e della distribuzione più equa della ricchezza. Visto che vivremo in dieci miliardi sulla Terra, allora come minimo bisognerebbe evitare che 2.400 miliardari e 100.000 milionari possiedano la stragrande maggioranza della ricchezza impedendo che le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche siano messe al servizio di tutti, compreso il mondo animale, vegetale e minerale. Il declinismo invece serve a giustificare l’estrattivismo (non c’è tempo, arriva la fine, troviamo i rimedi!). E poi ad accelerare la “crescita”, a rafforzare il fascismo fossile, radicando le divisioni e l’ostilità. In questa prospettiva dire che stiamo vivendo l’apocalisse, o dire che l’apocalisse c’è già stata, significa rafforzare lo schema prevalente, non profetizzare una rivoluzione che non c’è.

C’è l’apocalisse dell’identità nazionale. L’Italia, per esempio. Un caso di scuola. Si potrebbe dire che lo Stato unitario non era ancora nato e già si parlava del suo declino. Non sono riusciti a fare gli italiani. In compenso hanno creato e rinvigorito un paese disfunzionale, depredato, i servizi a pezzi, con i salari al palo da trent’anni e una totale sfiducia in tutti e in tutto. Il declinismo è il lato oscuro della Nazione. Un concetto, quest’ultimo, caro agli eredi del Movimento Sociale Italiano al governo. La Nazione la mettono dappertutto. È come il tofu. Sta bene con tutto. Insapore, prende quello del piatto che condisce. La usano come il crocefisso contro i vampiri. E tuttavia ciò non basta ad allentare il declino. Quest’ultimo è uno spettro. Insegue la Nazione. E smentisce i suoi protettori.

Lo strano caso del debito pubblico

Il declinismo è una costante nel racconto del debito pubblico in Italia. Ne Lo strano caso del debito pubblico italiano, Danilo Corradi e Marco Bertorello hanno spiegato un mito diffuso nella storiografia post-risorgimentale: l’Italia anello debole dello sviluppo capitalistico, eccezione incorreggibile, cicala e spendacciona, ostaggio di imprenditori levantini, di uno Stato inefficiente in un paese dove la «modernizzazione» è stata mancata. Il debito pubblico, e l’incapacità di governarlo, sarebbero la prova di una storia arcaica che non passa. Al contrario l’Italia è un paese moderno, e non solo perché altri paesi europei come la Francia oggi sono avviati a produrre un debito paragonabile. 

Il record italiano non è stato tanto generato da apprendisti stregoni senza cultura economica, ma da un progetto politico che ha usato il debito pubblico per garantire un modello di sviluppo profondamente ingiusto e radicato sulla bassa pressione fiscale sui capitali che ha favorito, già dagli anni Ottanta del XX secolo, il blocco sociale dell’individualismo proprietario composto da professionisti, commercianti, piccole e grandi aziende che non investono, risparmiano sui salari, non fanno innovazione, evadono o eludono il fisco. 

Certo, errori enormi ne sono stati fatti. Certo, c’è la corruzione e il clientelismo. Ma il grosso dell’aumento è stato una risposta pragmatica all’esaurimento del modello keynesiano-fordista, quello dei rimpianti “Trenta gloriosi” che ha associato l’aumento della produttività con quello dei salari, ma non ha garantito una crescita sociale coerente con le sue premesse moderatamente riformistiche. L’uso compensativo del debito pubblico ha posticipato le contraddizioni che si ritrovano immutate nel nuovo modello, il “keynesismo finanziario”. Il declino è una giustificazione a posteriori di un modello economico ingiusto che continua ad essere applicato in condizioni diverse. 

Di cosa, allora, il declino è il nome? Dell’estenuazione di un paradigma economico fondato sulla centralità della finanza: bassa crescita e aumento delle diseguaglianze pagate da lavoratori precari e cittadini senza tutele.

Il rinvio a un futuro negato

I declinisti sono una famiglia. Ci sono i progressisti, i reazionari e i conservatori. I primi pensano di tornare indietro per fare due passi in avanti. I secondi voltano le spalle al presente e in sostanza rimpiangono il tempo quando le donne erano disuguali rispetto agli uomini, quando il mondo era diviso tra colonie e imperialismo, o l’omosessualità era criminalizzata. Gli ultimi, i conservatori, vogliono conservare il meglio che la storia per loro ha tramandato. Tutti hanno una memoria selettiva. Per loro la storia è la discesa in un pozzo.

Il declinismo è una delle formule che sono riemerse in un nuovo campo di battaglia. Quello dell’egemonia neoliberale il cui scopo è assorbire e canalizzare le richieste di una profonda discontinuità politica in una progressiva, continua e flessibile restaurazione di un ordine senza giustizia. Da quasi mezzo secolo le controriforme che hanno costellato la storia di questa egemonia non hanno riformato nulla se non le condizioni che rendono praticabile la vita dei dominanti e spingono gli oppressi ad adattarsi a una vita parossistica e servile in una crisi senza sbocchi né alternative. Nella rivoluzione al contrario in cui viviamo, la vita è un rinvio a un futuro negato, a una pratica separata dalle sue potenze e dalla concreta possibilità di esercitarle in maniera democratica e generativa, al ricordo di un’epoca dell’età dell’oro che non è mai stata tale.

ARTICOLO n. 48 / 2024

CALASSO SENZA NOME

una lunghissima storia

Spesso le ragazze d’oggi principiano le proprie storie d’amore nella velata convinzione che ben presto tutto andrà storto. Lo storto non è più una tragedia bensì una meta sardonica: bisogna saperci arrivare. Raggiungere lo storto può essere gustoso o almeno utile a pagare qualcosa di più grazioso che un modulo F24.  

Ad alcune di noi capita talvolta un errore di sistema: lo storto non si presenta, l’amato ci ama, il plot cade. Nessuna è pronta a che le cose vadano bene.

Un simile attentato alla mia fidata isteria è stato giocato da Roberto Calasso (1941-2021). Bigino per chi ancora non è un suo lettore: Calasso ha scritto ventisei libri. Tra questi, undici titoli compongono l’Opera senza nome e sono stati pubblicati da Adelphi dal 1983 al 2020. Essi sono: La rovina di Kash (1983), Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), Ka (1996), K. (2002), Il rosa Tiepolo (2006), La Folie Baudelaire (2008), L’ardore(2010), Il Cacciatore Celeste (2016), L’innominabile attuale (2017), Il libro di tutti i libri (2019) e La Tavoletta dei Destini (2020). Per dirla in soldoni (che mi sarebbero valsi un’occhiata di disprezzo post-storico da parte di Calasso), i protagonisti di questi libri sono Zeus e i suoi dèi, il sistema vedico descritto nei Brāhmaṇa, il Progenitore e svariati patriarchi, Utnapishitim, Tiepolo, Talleyrand, Baudelaire, Kafka, Homo saecularis.

Come lettrice nata nel ’90 ho iniziato da Il rosa Tiepolo, recuperando a mano a mano i primi titoli, e posso testimoniare quanto l’uscita de “il nuovo libro di Calasso” fosse di anno in anno un evento atteso con curiosità e un velo di apprensione da parte mia e di mio padre, voraci e ammirati lettori che alla fine si chiedevano l’un l’altra perché Calasso avesse scritto proprio di “questa cosa qui”. In ogni autore solitamente si coglie una certa sincronicità con l’attuale, nella letteratura di Calasso invece regna una logica narrativa e temporale antica, esodata, vagamente irrecuperabile. 

Per una vita ho letto i suoi enigmatici libri sapendo che non sarei mai arrivata alla Verità, anzi, certa che lui non avrebbe mai voluto condividerla con alcun lettore. Due o tre volte mi è stato permesso di pubblicare recensioni alle sue opere, due o tre volte recensioni a Calasso mi sono state cassate (a ragione, erano più criptiche dei libri stessi). In quelle occasioni gli inviavo i testi via e-mail e lui scendeva dal Primo Mobile per rispondermi “Cara Sofia Silva…”. 

Che dire? Coup de théâtre: nel giugno del 2024 persino questo plot, quello in cui le parole di Calasso entrano nelle nari come il fumo di un rito che invade senza richiedere meccaniche dell’intelletto, è caduto. Adelphi pubblica il saggio di autocritica letteraria Opera senza nome; post-mortem Calasso spiega per filo e per segno la propria ambizione da scrittore svelando i più strategici espedienti. Non solo, rivela il disegno escatologico di tutto ciò che ha pubblicato. Rimango allibita. Se nessuna è pronta a che le cose vadano bene, tantomeno si è pronte a che le cose abbiano un senso.

Prima rivelazione contenuta in Opera senza nome: Calasso scrittore ha ambito alla “primavoltità” nella forma, a una letteratura nuova nata da una concezione “sinottica e simultanea” (Léon Bloy) della storia – e dunque del testo – e redatta tramite l’uso di accorgimenti specifici come l’eliminazione degli esponenti di nota o la predilezione di immagini in carta-testo prive di riferimento (spoiler: Calasso rivela di essere stato in questo d’ispirazione per Sebald). «Inventare qualcosa che prima non esistesse […] ma che accogliesse occasionalmente frammenti di forme esistenti». La penultima citazione di Calasso è nientemeno che lo scriba Khakheperraseneb, un grintoso del 1900 a.C: «Che io possa disporre di espressioni ignote, di formule originali, fatte di parole nuove». 

La seconda rivelazione che ho rintracciato si concentra più specificamente sul poter leggere la storia affidandosi alla simultaneità. «Mrs. Procter, quale appare in poche righe dei Taccuini di Henry James, appartiene alla profonda preistoria così come la profonda preistoria converge con la macchina di Turing». Ogni volta che Calasso ha citato venti nomi provenienti da diversi secoli e civiltà all’interno di una stessa pagina cartacea non stava, come ho creduto per molti anni, tessendo un poema per una ristretta cerchia di eruditi con cui prima o poi avrei sbevacchiato Opollo di Lissa, ma stava – diciamola così – trasportando l’algoritmo in Mesopotamia, sottraendo la paratassi al nostro dataismo per applicarla al passato statuendo che in essa esiste senso. Nel legame tra esistenze e fatti umani e sovrumani che non si sono nemmeno sfiorati nel tempo, noi viviamo. E se smettiamo di collegarli, se smettiamo di concepire Ṛta, l’ordine cosmico, come un tappeto di cui tutti i fili sono intrecciabili l’un l’altro, è perché stiamo passando dall’essere una civiltà all’essere una società. (A breve illustro la differenza).

Quindi attenzione, adolescenti in lettura: Calasso vi sta autorizzando a zittire i docenti che lamentano citazioni improprie. Tutto è pertinente; al prossimo tema su Pirandello andate pure giù duro di teatro elisabettiano.

Terza rivelazione: intravedo l’ammissione da parte di Calasso di aver sempre scritto su un unico tema, sul rito di sostituzione per eccellenza, il sacrificio. «Il sacrificio è la colpa, l’unica colpa.  […] Qualcosa di cui il pensiero non riesce mai a sbarazzarsi». «La civiltà è il luogo del sacrificio». Civiltà è stata sostituita da società. «Escludendo da sé qualsiasi cosa che non sia la società, la società ha escluso un rito ricorrente ovunque, sotto varie forme del mondo: il rito sacrificale». Nella propria «bigotteria laica», «la società rende ragione solo a se stessa e considera la natura un po’ come un parco all’interno di una grande città». Rinunciando alla rinuncia, eliminando il sacrificio, si è perso il simbolico come legame universale.

Stremata dalle rivelazioni che mi pare di aver colto, mangio cereali impiastricciati di burro di arachidi, e il mio pensiero subito vola a un titolo degli undici che costituiscono l’OperaIl libro di tutti i libri, 555 pagine dure e inesorabili come il dio che raccontano. Analisi della Bibbia che mai sfocia in esegesi biblica; non ordinata comprensione di significato quanto piuttosto perpetua creazione di hyperlink di verità e crudeltà tra la Bibbia e ciò che di essa non ha mai smesso di riguardare l’inconscio individuale e sociale.

La lettura del Il libro di tutti i libri opera una immissione di storicità in pagine che spesso si è abituati a leggere con un pensiero aperto alla metafora; questo ritorno del testo sacro nella storia – primitiva, nomadica – non toglie sacralità come si è spesso temuto, ma ne aggiunge. Prodezza di Roberto Calasso: nel sublime, ricordarci che siamo stati frugivori, saprofagi e, talvolta, sacri.

«Non deve meravigliare se, risalendo fino agli inizi del pensiero, si incontrano immancabilmente parole che indicano un ordine cosmico e mentale: ṛtá, asha, ma’at, me, díkē, śimāti, dao, torah. […] Ciò che alla fine si è inteso sotto il nome di scienza non è che l’ultimo tentativo di articolare quell’ordine che già era stato indicato sotto molti nomi. Tutti inesauribili, tutti alla fine provvisori e inconclusi. Tutti indispensabili perché una qualche forma di vita prosegua. La figura del Messia è l’ombra che si intravede dietro la perenne lacuna dell’ordine».

In questi quattro decenni Calasso ha fornito ai suoi lettori una lunghissima storia, ibrida, sincretica, paritaria, in cui tutte le vite e i fatti del mondo sono intrecciati nelle civiltà sapienti, sfaldati nelle società laiche e reintrecciati nei glitch di un mondo post-laico, nel terrorismo, nella “religiosità” dell’algoritmo, nelle riapparizioni del senso in un randomico talk show. 

ARTICOLO n. 47 / 2024

LA GENTRIFICAZIONE È DISUMANA

una conversazione di elisa teneggi

Alcune sensazioni rimangono addosso: il profumo di una madeleine, la crema cruda uova-zucchero sbattuta per merenda da una nonna di provincia, il sale incrostato sulla punta delle dita nella spiaggia dell’infanzia. La letteratura (e la scienza) ci hanno spiegato che il gusto è un senso strano, che ha a che vedere con la memoria. Ricordarci che cosa ci ha fatto stare bene una volta ingerito è questione di sopravvivenza primordiale: questo sì, questo no, questo meglio di quell’altro, così da non confonderci mai tra le bacche di una giungla inesplorata. Nei contesti urbani, però, spesso deleghiamo questo istinto di conservazione a un altro senso, la vista. La usiamo per identificare una facciata ben ristrutturata (e che conservi comunque quel je ne sais quoi di vissuto), il riflesso delle lucine calde usate per decorare un appartamento, l’insegna di un cafè che propone panini con pollo allevato a terra e opzioni plant-based.

Il sapore ci riporta a esperienze puntuali, a momenti scolpiti nel tempo. La vista, in questo caso, a una nozione: quella del “carino”. Che, come scrive Giovanni Semi in Breve manuale per una gentrificazione carina, è il futuro, e ci dovremo abituare alla sua presenza sia che ci vada bene, sia che non. «A meno che tu [il lettore, ndr] non voglia startene tra i tuoi simili in periferia, ma mi sembri troppo sveglio, nonostante tutto, per volere una cosa del genere». Perché i “simili” sono i “poveri”, i nemici del carino. E verranno spazzati via dalla gentrificazione, che è «una cosa bella, ma soprattutto giusta».

Giovanni Semi è Professore Ordinario all’Università di Torino, in cui insegna Sociologia delle culture urbane e Sociologia generale. Nel 2015 ha pubblicato per Il Mulino Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, saggio a oggi considerato il testo canonico sulla gentrificazione scritto in Italia (e dalla prospettiva dell’Italia). Nel 2022, il Breve manuale era uscito in edizione digitale, inserito nei Quanti di Einaudi. E, nel 2023, il testo è arrivato anche in formato cartaceo grazie a Mimesis. Si deve dedurre che, negli otto anni trascorsi tra le due pubblicazioni, Semi abbia invertito completamente il proprio punto di vista rispetto al tema della gentrificazione, o meglio, della gentrification?

Naturalmente no. «Gentrification è un testo su cui ho lavorato nel 2014, dopo una decina d’anni di ricerca. Porta ancora, secondo me, delle argomentazioni valide anche a otto anni di distanza, poi certo, andrebbe aggiornato in alcune sue parti, prendendo in considerazione, per esempio, l’esplosione delle piattaforme. Però le dinamiche di fondo osservate a quel tempo per i processi legati alla gentrificazione sono le stesse, oggi le cose si muovono solo più velocemente, è tutto più compresso». Il Breve manuale non è, dunque, una ritrattazione, ma un testo satirico. Non ne fa, peraltro, mistero. Queste le sue righe d’apertura: «Ne ho visto uno, l’altro giorno. Alto, barba incolta ma non completamente lasciata andare, una camicia tre o quattro taglie più grande, un giaccone che sembrava un bomber ma non lo era (una cinesata). Ciondolava per una via del centro, davanti a un negozio di cucine con delle isole in legno non trattato davvero splendide. Di quelle con la doppia vasca in Corian in cui non si vedono manco gli schizzi e che, se cucini un pad thai saltandolo nel wok giusto, non si macchiano con la salsa d’ostriche o di soia (senza sale, mi raccomando)».

Il momento giusto per pubblicarlo arriva in acque relativamente calme dopo l’emergenza pandemica da Covid-19. «Infatti», continua Semi, «la pandemia ha aperto uno squarcio, ci siamo guardati dentro senza più riconoscerci. Abbiamo reagito come qualunque specie animale farebbe: ricucendo in fretta, mettendoci in salvo, e ricominciando sulla stessa rotta su cui eravamo prima, e il più in fretta possibile. Il che spesso vuol dire perpetrare comportamenti folli. Eppure andiamo avanti, anzi, sarebbe più corretto dire che siamo tornati indietro. Davanti a questa evidenza serve, credo, un ribaltamento di prospettiva temporaneo. Prendiamo Gentrification: ha circolato nell’ambiente degli interessati ai temi dell’abitare e dell’urbano, credo abbia fatto bene al discorso su questi punti. Però, se fai una nuova operazione su quella falsariga, ti rivolgerai sempre allo stesso tipo di pubblico, che sono o chi appunto legge per interesse, o chi ne è esterno, si incuriosisce, e chiude dopo cinque pagine perché dice “ho capito la solfa, i soliti professori di sinistra”. Allora ho pensato di affidarmi all’arma più appuntita, la satira».

Operazione particolarmente riuscita: il mondo che dipinge Semi nel Breve manuale fa accapponare la pelle, non tanto perché distopico, anzi, proprio per la verosimiglianza del tratto. Oltre al contrasto tra vetrine limpide, materiali splendenti e persone trasandate presentato nell’incipit, nel testo si trovano invocazioni alla Dea Bellezza – «Il tuo quartiere è in preda al degrado? Un panorama desolante fatto di scritte sui muri, esseri umani ciondolanti, bottiglie per terra lo caratterizza? Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo intervenire, è ora di Basta! Quello che ci serve è la Bellezza®. […] La chiave di volta del successo di ogni iniziativa, dal transito del proprio corpo per la città al transito della città attraverso i nostri corpi, è la bellezza. Abbiamo bisogno di gente bella in posti belli, perché solo la bellezza ci salverà dalla sfacciataggine della Bruttezza®, del Degrado®, dei Poveri®» – corredate di comode istruzioni su come “farla accadere” anche nel proprio quartiere. Ovvero: cambiarne il nome (pensare in questo all’esempio milanese di NoLo, North of Loreto, primo quartiere brandizzato della città), parlare con la gente, lasciar fare agli esperti, fare dei disegnini carini sui muri (che dicano, per esempio: Cities Are Mental Weapons, Fight White Privilege, Surrender To Art), mettere i ragazzini a spazzare le strade assieme a cooperative di richiedenti asilo. Azioni da effettuare rigorosamente dall’alto, quando verranno erogati i fondi, facendo capire alle persone che cosa vogliono, insomma in stile coloniale. Quando finalmente si raggiungerà l’unanime grido “questo quartiere è davvero carino”, la missione sarà completata. Parlate con i vostri amici urbani, se non ci credete, seguite le loro storie Instagram: saranno pieni di posticini carini, oppure bruttissimi ma fotografati bene, che è solo carino alla meno uno (e, soprattutto, molto cool e urban). Forse preferite non pensarci, ma tutto quello che vedete in questa modalità è gentrificato, e, scorrendo attentamente il Breve manuale, potrete ravvisare come molti degli step fondanti della gentrificazione stiano avvenendo (o continuando ad avvenire) tutto intorno a voi.

Spazio per una presa di coscienza collettiva, insomma, lo si avrebbe. Oltre a questo, però, possiamo sperare anche in spiragli di azione politica? Ancora Semi: «Non credo sia più possibile convincere la politica a rivedere il corso delle azioni intraprese. Storicamente, in Italia la proprietà immobiliare è un bene sacro e inviolabile. Questo perché la trasmissione intergenerazionale è ancora il primo mezzo con cui si acquisisce una casa di proprietà, e questo si lega al fatto che la popolazione è meno mobile, geograficamente parlando, nel senso che molto spesso si nasce in un posto e ci si rimane a passare la vita. E abbiamo tasse sulla casa che, per i proprietari naturalmente, sono irrisorie se comparate a quelle di paesi molto più neoliberali di noi, Regno Unito e Stati Uniti, per esempio [in Italia non ci sono tasse sulla prima casa, ndr]. Invece in Italia è dagli Anni ’50 che si spinge sull’allargamento della proprietà immobiliare, ormai è un dato di fatto, e toccare le politiche legate alla casa è un suicidio, politicamente parlando. Tanto nelle grandi città quanto ancor più nei piccoli centri, dove i politici hanno nomi e cognomi che a volte troviamo sul campanello di fianco a casa nostra. È una situazione molto difficile da smuovere, se non con, forse, un accordo di larghe intese, o un intervento costituzionale».

A questo si aggiunge l’atteggiamento di tolleranza-zero relativo alle forme di abitare informale come, per esempio, le occupazioni di immobili dismessi. Emblematico, nel luglio 2023, il caso dello sgombero dell’occupazione di un palazzo in via Fortezza (a Milano), in cui l’intervento delle forze dell’ordine è arrivato a meno di un giorno dall’insediamento degli occupanti. Dunque, senza un reale interesse a ripensare la conformazione dell’abitare nel paese, dobbiamo aspettarci che le logiche omologanti, replicabili con lo stampino, carinissime della gentrificazione continuino a trainare lo sviluppo urbano, attraendo verso quartieri un tempo grigi e popolari nuove coppie di hipster “molto berlinesi”?

Conclude Semi: «Io credo di sì. Non è ragionevole supporre, visti i dati che abbiamo, che il processo si esaurirà spontaneamente. Anzi, temo che presto le conseguenze classiste della gentrificazione si allargheranno ulteriormente, tra crisi climatica e rischio reale di nuove pandemie. Ipotizziamo che tra dieci anni giunga un nuovo Covid-19, una nuova emergenza sanitaria, già le città saranno meno vivibili a causa dell’aumento globale delle temperature, unendoci la necessità di fuggire dalla massa ci troveremo in una polarizzazione fortissima: un numero davvero esiguo di persone “che potranno”, e magari si dirigeranno a colonizzare borghi e villaggi tra montagna e campagna; tutti gli altri saranno bloccati e non avranno un “altrove” a cui potersi rivolgere. La gentrificazione dovrebbe allargare l’esperienza urbana, e invece la sta rendendo sempre più stretta».

Terminato il chiarissimo (e non carinissimoBreve manuale, in realtà la domanda che rimane da fare è una sola: quali possono essere i principi di una s-gentrificazione non solo carina, ma anche efficace? «Bisogna, innanzitutto, agire sulla rendita immobiliare, che è un elemento violento, inutile persino dal punto di vista del tardo-capitalismo, e parassitario. Sul versante sociale, invece, dovremmo mettere l’accento sul conflitto, cioè tornare a considerarlo come una forza motrice in positivo della società. Non intendo naturalmente il conflitto armato, ma lo scambio di idee tra persone che la pensano diversamente. Infine, sul lato politico e culturale, dobbiamo metterci in testa che la gentrificazione distrugge la qualità principe della vita: la sua diversità, in quanto ragiona per omologazione e ripetizione del già visto». Una gentrificazione non solo ingiusta, dunque, ma anche dis-umana. Chissà se, con un po’ di ironia e con l’aiuto del Breve manuale per una gentrificazione carina, riusciremo finalmente a mettercelo in testa.

ARTICOLO n. 46 / 2024

L’ILLUSIONE FEBBRICITANTE DELL’AMERICAN DREAM

La favola realista di Steven Millhauser

Il mondo di Steven Millhauser è un mondo di creatori e sognatori. Quanto più è forte la coscienza del sogno, tanto più è determinata l’azione che li proietta dentro la concretezza del reale. E quanto più quest’ultima si arricchisce, tanto più i confini del sogno si dilatano. Martin Dressler è un sognatore perché agisce, fa, crea. È, come esplicita il sottotitolo, un “sognatore americano”, ma al contempo, eccentrico com’è rispetto all’epica del self-made man, rappresenta una singolare disfatta del proverbiale american dream

Millhauser è un autore legato a una sua molto personale idea di realismo e di letteratura fantastica. È autore dominato, non meno dei personaggi che è venuto creando, da una generosa ossessione che dà luogo a modalità diegetiche, a tensioni psicologiche, a spinte e controspinte strutturali, e soprattutto a un bagaglio iconico che si dispone puntualmente intorno allo stringersi di un nodo drammatico e al manifestarsi di una significativa contraddizione: l’ambizione del sognatore muove la realtà, ma la realtà risponde solo fino a quando quell’ambizione è contenibile dentro una logica che cede alla norma.

Da quando esordisce nel 1977 con Portrait of a Romantic alla raccolta di novelle The King in the Trees del 2003, Millhauser ha saputo rimanere fedele alla sua “favola” realista. E dico favola per cercare di rendere ragione di quella singolare tonalità di racconto che sembra iscrivere le storie dentro un loro allarmante e spiazzante «c’era una volta». Per lo più infatti Millhauser rivolge lo sguardo al passato, un passato mai generico, ma più definito dalla concretezza figurale dei paesaggi urbani e suburbani che dalla Storia in senso stretto. E anche quando si avvicina di più al presente (la cittadina del Connecticut de La notte dellincanto, 2022) o se ne allontana drasticamente (il Medioevo, per esempio, de La principessa, il nano e la segreta del castello, 1993) ciò avviene tenendo fede agli stessi criteri di favola realistica. 

«There once lived a man named Martin Dressler», così l’incipit del romanzo. Un attacco tradizionale, caro soprattutto alla forma della ballata che tanta parte ha avuto nella formazione della cultura popolare americana. Il fatto che di lì a poco ci rendiamo conto che l’azione è situata negli anni a cavallo fra Otto e Novecento non incrina – anzi semmai rafforza – un senso di vertigine temporale funzionale allo svolgersi della vicenda. 

È come se si stabilisse da subito un fecondo rapporto tra la concretezza visiva delle cose del secolo e la lontananza di esistenze che dobbiamo considerare strappate a leggende orali, ad apparati semi-documentali, a repertori mitologici attivi solo nel patto di verosimiglianza imposto dall’autore. E non è un caso che Millhauser faccia molto sovente uso di nomi e cognomi, quasi a invocare un’esistenza non fittizia: Martin Dressler ma anche Edwin Mullhouse del romanzo eponimo (1979), John Franklin Payne e Edmund Moorash delle novelle di Little Kingdoms (1993). Quelle che abbiamo chiamato le “cose del secolo” sono, in questo romanzo, New York e l’entusiasmo della modernità, la frenesia dell’eclettismo che si traduce, sulla pagina, in appassionati cataloghi descrittivi.

La città di Millhauser è innanzitutto la percezione di un bazar, di una galleria di meraviglie, di una fiera delle «novità» che si moltiplicano e si allineano orizzontalmente come nell’American Sales Catalogue (o come in quel circo Barnum che ricorre a dar spessore alla molteplicità e alla varietà della meraviglia: The Barnum Museum, 1990).

Lo si avverte distintamente quando Dressler incontra Rudolf Arning, scenografo e architetto: «Quella attuale, spiegò l’architetto, era l’epoca dell’eclettismo esteriore, come chiunque aveva modo di constatare: bastava osservare gli edifici in ferro e marmo carichi di volute e decori pseudo-rinascimentali, che catturavano lo sguardo in ogni via di New York, ma, ancor più di questo, era l’epoca dell’eclettismo interiore o da interni, definizione con la quale Arning non si riferiva alla solita combinazione di stili antiquati e tecnologia moderna, come ascensori o telefoni, bensì alla tendenza delle strutture a contenere e racchiudere il maggior numero di elementi possibile». E cita come esempio massimo «… quella meraviglia del mondo moderno, quel modello di ingegnosità e sapere, che era il catalogo di vendita a domicilio nordamericano, con la sua multipla offerta di colli per camicie staccabili e aratri in acciaio, giocattoli di latta e carrozzine per poppanti e sacchi di noccioline, il tutto racchiuso nelle pagine di uno stesso libro: un libro più onnicomprensivo di qualsiasi epopea. Quella tendenza all’eclettismo interiore era una nota che Arning aveva sentito risuonare nelle parole di Martin riguardo a un grande albergo per famiglie…». 

Il grande albergo per famiglie è solo il nucleo originario del progetto prometeico, del sogno, della scommessa, della sfida che occupa da sempre l’immaginazione di Martin Dressler e che prenderà forma nel Grande Cosmo. Un edificio destinato in parte a tendere verso l’alto come un grattacielo, in parte a svilupparsi sottoterra, e a replicare, sopra e sotto, tutto lo spazio del vissuto, sincronicamente e diacronicamente, a “rifare” insomma la città e in qualche modo a cancellarla. Teatro, museo, grande magazzino, il Grande Cosmo si rivela tutto meno che un hotel. 

Martin Dressler è il figlio di un negoziante di sigari che viene illuminato sulla via di Damasco il giorno in cui entra per la prima volta in un grand hotel: da fattorino a direttore, da imprenditore a “inventore” di alberghi, egli sente in quella forma particolare dell’abitare che coincide con l’ospitalità alberghiera una potenzialità di espressione prima confusamente illuminata da rivoluzionarie concezioni della “comodità”, poi sempre più nettamente fusa con l’agonistico progetto di sottrarre vita alla comunità reale per farla rifluire in un’altra comunità, in tutto simile alla prima, ma separata e onnicomprensiva. 

Va da sé che il sogno di Dressler nasce nella New York in piena trasformazione della fine dell’Ottocento, e può nascere solo lì, ma è pur anche vero che la spinta onirica finisce con il coincidere con una drammatica, tragica sospensione del tempo. Tutto quello che si muove, come sviluppo, come invenzione, come trionfo di un capitalismo dinamico e onnivoro, è riassorbito, metamorfizzato nel disegno di un altro sviluppo, di un’altra frenesia inventiva, di un altro dinamismo, tanto luminoso nel suo ardire, quanto oscuro nelle sue componenti di lucido delirio, di deriva onirica.

Come Millhauser ben fa dire a Harwinton, il nuovo genio della pubblicità, interprete e “comunicatore” dei progetti di Dressler e Arling, i nuovi alberghi incarnano il bisogno «attuale» di stare nel cuore delle cose (la città), ma di poter contemporaneamente dar seguito a quei “riti bucolici” di allontanamento che ruscelli e prati più veri del vero consentono all’interno di uno spazio concepito all’uopo e raggiungibile con un taxi. 

Nel Nuovo Dressler, seconda tappa della prometeica avventura del nostro eroe, il dodicesimo piano è tutto intitolato Museo dei Mondi Esotici con «… scrupolose riproduzioni di località come un villaggio eschimese, una valle scozzese, i giardini delle Tuiléries, i canali di Venezia (con acqua e gondole vere), uno scavo archeologico nella valle tra il Tigri e l’Eufrate, il luogo natale di Shakespeare e la giungla amazzonica, ciascuna illuminata da luci di scena multicolori e popolata di attori in costumi autentici, cosicché il visitatore aveva la sensazione parallela di trovarsi in un luogo reale, ma anche di godersi un ingegnoso effetto scenico». 

La favola che Millhauser racconta qui – e anche nel resto della sua opera – è la favola dell’adolescente, del bambino che compulsivamente continua il suo gioco per impedire alla luce dell’età adulta di scoprire il trucco. Più il gioco produce illusione, più l’illusione difende il suo trucco. Ma più l’illusione è opera, più è – contemporaneamente – approssimazione infinita alla perfezione ed esposizione al fallimento.

La nozione di american dream contiene un aspetto di forte tensione ideologica che fa dipendere il sostantivo dall’aggettivo. Nelle storie di Steven Millhauser si assiste a un ribaltamento che inverte l’ordine di dipendenza. L’americanità è inglobata e quasi divorata dal sogno. La storia del cartoonist John Franklin Payne (prima novella della trilogia Little Kingdoms) non diversamente fa perno intorno a un’idea di progresso e perfezione, a un confronto con la modernità che tuttavia si contrae intorno alla necessità della bellezza, all’esaustività promessa dall’accanimento della fantasia e dalla messa a fuoco delle tecniche espressive: lì, addirittura, l’artista-artigiano combatte la sua solitaria, sempre più solitaria, battaglia per ottenere un film d’animazione perfetto che non ha bisogno degli sviluppi ulteriori della tecnologia. E anche lì c’è New York, ci sono i piloni dei ponti inchiodati nell’oscurità della terra, i cunicoli sotterranei della metropolitana, le redazioni dei giornali, il clima eccitato degli anni Venti. C’è insomma un mondo figurale da cui discende una sorta di febbre che accende l’immaginazione.

Gli eroi di Millhauser sono di fatto febbricitanti – spesso in senso stretto –, soffrono di crisi psichiche che si traducono in alterazioni dell’equilibrio fisico: sono visionari à la Nerval, e quello che vedono sono manifestazioni molto, molto veritiere della realtà. La loro “favola” è quella di una Cenerentola che si ferma a contemplare la magia o se si vuole la magica bellezza delle scarpe da ballo, della carrozza, dei cavalli sorti dal nulla, del palazzo del principe, della notte incantata che precede l’incontro e lì si ferma, perdendo l’occasione e sviando il corso dei fatti dal lieto fine.

Non a caso, Millhauser si perde e fa perdere i suoi personaggi nella contemplazione della “macchina” che produce trucchi e illusioni: i luna park, i giardini delle meraviglie, i manichini e le marionette, gli effetti di luce, le smaglianti opere (siano esse macchinari o edifici) della tecnologia. Martin Dressler ha uno spiccato senso degli affari e lo usa, ma proprio mentre costruisce la sua fortuna si rende conto che se il successo dipende dalla capacità di dar forma a persuasive illusioni, queste illusioni sono anche il vero unico obiettivo, la poesia dell’esistente, e in quanto tale ostile alla normalizzazione e, di conseguenza, allo stesso successo, quale che sia il senso che si voglia dare a questa parola. 

Uno dei sintomi in cui viene puntualmente a rivelarsi la natura controversa dello streben dei suoi personaggi è l’eros, l’attrazione e più in generale il confronto con l’area del femminino. È lì che, con una specie di presago anticipo, comincia a manifestarsi la febbre morbosa di un equilibrio che non tiene. Il desiderio si palesa come una forza imprevista e l’amore si insinua come una domanda di alleanza o una minaccia. Il giovane Martin è sì sedotto da una donna più grande di lui, ma è solo quando diventa, nolente, oggetto delle attenzioni di una bambina che si manifesta formicolante e vertiginoso lo stordimento dell’eros dando forma a una sorta di allucinata visione: «… si accorgeva a un tratto del fruscio lieve delle sottovesti, degli scricchiolii prodotti dai corsetti, dello sfregamento delle calze di seta, un cupo e seducente suono di sete e di merletti in sottofondo, l’improvviso lampo scuro delle occhiate; intanto, passandogli accanto o sprofondando con un sospiro in divani soffici, le signore dell’atrio cominciarono a sfilarsi i lunghi abiti, a slacciarsi i bustini stretti, a lanciare in aria camiciole come palle di neve, gettando all’indietro la testa e respirando forte con le vene che pulsavano nel collo…». Come un uomo che sa di dover obbedire a un solo pensiero dominante (il lavoro, la creazione, il sogno), decide di «prendere provvedimenti per quella parte della vita alla quale aveva raramente prestato attenzione» e comincia a frequentare un bordello sulla Venticinquesima Ovest, alle spalle della Sesta Avenue, «la casa dalle finestre che vibrano». Ma non basta. Quando entrano in scena le sorelle Vernon, Caroline ed Emmeline, si instaura un rapporto complesso, misterioso, fuor di squadra, che corre parallelo alla febbre creativa (e che si apre ad ancora più intricati sviluppi attraverso gli amori ancillari). Anche qui la dipendenza amorosa scatta attraverso un processo semi-allucinatorio (un capello biondo immaginato su un divano vuoto e poi penetrato in un sogno notturno come una guizzante verminosa creatura) e somma il silenzio della svagata sonnambulica Caroline con la grazia confidente di Emmeline. Il matrimonio con Caroline coincide in realtà con la comunanza intellettuale e spirituale con Emmeline. Febbre nella febbre, il rapporto con le sorelle Vernon duplica e complica la tensione onirica di Martin Dressler, riproponendo la nervosa intesa sentimentale che Millhauser ha già evocato in Catalogo di una esposizione: larte di Edmund Moorash 1810-1846 (in Little Kingdoms). 

Là la figura fittizia di un pittore americano visionario, qui l’altrettanto visionario creatore di alberghi-mondo, e per entrambi la sofferta corona di una devozione femminile, il confronto agonistico con una tensione erotica letale, con la gravità caotica del desiderio e la sua negazione forzata. 

Molto romanticamente quello dei sognatori di Millhauser è un destino che sfocia in solitudine; nondimeno le figure femminili che li accompagnano virano dalla rapacità ansiosa della femme fatale alla specularità nevrotica dell’assenza-presenza e del tradimento. Quando Caroline si ritira, fisicamente, nelle sue stanze, in preda a una sorta di cupa regressione fra veglia e sonno, e lascia il posto alla sorella, non fa che obbedire al “progetto” nevrotico di Martin Dressler, sdoppiando ed enfatizzando i vettori tragici del sogno. Castellana («a princess in a castle») prigioniera in un maniero che quanto più cresce tanto più isola, Caroline è il sintomo di uno squilibrio e la inconsapevole battistrada del fallimento: «… Caroline era proprio come la principessa delle fiabe, sposata con il principe potente». 

Attraverso il ruolo delle figure femminili risulta evidente come Steven Millhauser abbia fatto, a suo modo, i conti con il gotico e con il racconto fantastico: creature umbratili, dominatrici e sorelle-in-spirito, le sue donne hanno una qualità di abisso o, per contro, di antidoto all’abisso. Affondano le radici nelle muliebri ossessioni di un Poe, ma guardano come di sguincio verso quelle kafkiane. Portano addosso il languore tardo-romantico di una sensibilità morbosa, ma entrano nella pagina come figure che, spiccandosi da un arazzo, mettono in scena, nel loro pallore, nei loro trasalimenti, nella stessa vitalità nervosa, una distanza che è insieme letteraria e di un realismo che attinge all’incubo.

Distanza e vicinanza. Siamo ancora lì. Millhauser è autore che porta consapevolmente in sé questi due tratti e, sommandoli, ne trae una cifra di originalità che lo consegna a una posizione difficilmente classificabile nella letteratura americana contemporanea. Leggibile come un tardo erede della post-modern fiction (dei Barth, dei Barthelme, dei Coover), Millhauser rivela tuttavia una spiccata tendenza al tragico, o quantomeno al conflitto di opposti, che attenua o addirittura spegne la dimensione ironica che è parte integrante di quella narrativa: i suoi personaggi assumono il peso del sogno con drastica determinazione e lo lasciano cadere sulla superficie liquida dell’accadere. Ne discende un racconto come progressiva immersione e dilatazione di eventi, che, mentre procede, fa percepire la tensione di uno scontro insolubile. Se per certi versi la sua opera suona “restaurativa” (il romanzo, il racconto a tutto tondo), d’altro canto la ricchezza immaginativa, la giostra del meraviglioso, la seduzione del catalogo, l’esibizione della ricostruzione (che, va sottolineato, non è mai “storica” nel senso stretto del termine) spingono l’attenzione del lettore sugli snodi, sulle giunture, sulla macchina piuttosto che sulla rotondità della narrazione. 

La “leggenda” che i suoi personaggi tendono a incarnare è sempre compresa in un orizzonte percettivo che soverchia lo stesso svolgersi della vicenda: la luce e il buio, la sfera diurna e la sfera notturna, l’emerso e il sommerso. È come se la sua ispirazione venisse, piuttosto che da un apparato documentale, da una forma mediata di oralità (voci di voci, racconti di racconti, immagini di immagini) che dilata l’esperienza convulsa del visitatore di piacevoli orrori e sgomentanti meraviglie (e in ciò verrebbe voglia di accostare lo scrittore americano all’Italo Calvino delle Città invisibili). In realtà non sappiamo mai con esattezza a quale distanza temporale e figurale le sue storie si dispongano (anche quando sono così situate come in Martin Dressler) rispetto a noi. 

Nella novella La principessa, il nano e la segreta del castello piace a Millhauser ricondurre la varietà del racconto leggendario alla molteplicità delle fonti, ma soprattutto alla duplicità del tono con cui la narrazione è stata tramandata: «Ciascuno di noi ha sentito innumerevoli versioni del racconto della Principessa. […] Il proliferare di versioni scartate, scadenti e tuttavia mai dimenticate confluiscono in un repertorio noto come “racconti del sottosuolo”, poiché nascono dalle tenebre, misteriosi come tuberi o elfi. […] Benché i racconti del sottosuolo non siano mai compresi nel ciclo principale dei racconti del castello, nondimeno son ben lontani dall’esaurirsi, anzi si moltiplicano instancabilmente, lasciando sugli altri racconti i loro ignoti colori, esercitando una misteriosa influenza. C’è chi dice che verrà un giorno in cui i racconti diuturni si sfibreranno per mancanza di nutrimento e allora i racconti del sottosuolo si leveranno dai loro luoghi di tenebra e invaderanno la terra». (La principessa, il nano e la segreta del castello, trad. di Alberto Rollo, Einaudi, Torino 1993, p. 51.)

Dunque la tenebra e il giorno. Non è un caso che, con addestratissimo senso pittorico, Millhauser accompagni questi scavalcamenti narrativi con una gamma di sostantivi e aggettivazioni relativi alla qualità della luce, alla sua intensità e all’intensità delle varianti che connotano l’oscurità. Come costantemente compresi fra il sonno e la veglia, i suoi personaggi passano la soglia dei due mondi o addirittura, come accade in Martin Dressler, quella soglia la si crea artificialmente, acciocché finalmente sia patrimonio di tutti. Dressler e i suoi collaboratori, che vivono in era pre-televisiva, pre-virtuale, pre-informatica, costruiscono, facendo sentire il rumore e la perizia delle maestranze, i mondi finti che noi – e con noi, l’autore – abbiamo imparato a riconoscere come possibili. 

Eppure lì – come in Vathek e nella vicenda biografica di William Beckford, un classico del gotico – è l’ardore dell’impresa a dare spessore all’immaginazione. Vathek e William Beckford hanno molto in comune con Martin Dressler. Il primo fa ampliare il palazzo di famiglia facendo costruire cinque palazzi che siano, ciascuno, la risposta ai sensi dai quali dipende il piacere di esistere (L’eterno e inconsumabile banchetto, Il tempio della melodia o il nettare dell’anima, La delizia degli occhi o il conforto della memoria, Il palazzo dei profumi o L’incentivo dei piaceri, Il rifugio dell’allegria o l’insidioso), a cui aggiunge una torre di millecinquecento gradini; il secondo ingaggia l’architetto James Wyatt perché trasformi la proprietà di famiglia, Fonthill, in un palazzo dominato, anch’esso, da una torre così alta che, costruita troppo velocemente, crolla e fa sì che tutta la residenza sia presto venduta. Lo scrittore William Hazlitt ebbe accesso a Fonthill dopo che era stata venduta e la descrisse come «una cattedrale trasformata in un negozio di giocattoli». 

Ed è qui che l’immaginazione di Beckford sembra allacciarsi a quella di Dressler e dunque di Millhauser. Come Vathek-Beckford, Dressler-Millhauser vede crescere il suo teatro-mondo come offerta di uno «stile di vita». La storia, la geografia, la natura e l’opera dell’uomo: tutto riunito in un solo luogo, perché il fanciullo non cresca più e possa fermarsi – nel non luogo che l’albergo può diventare – con tutto il sogno intatto prima che il giorno ridistribuisca la vita nel tempo e nello spazio. Qualcosa di analogo accade anche nel romanzo La notte dellincanto, ambientato nel Connecticut contemporaneo: una chiamata notturna di tutti i dreamers per le strade di una cittadina sprofondata nel sonno. 

Ha detto Steven Millhauser a proposito di quest’opera: «Mi piace attirare il mio lettore lontano dalla realtà convenzionale, verso un mondo parallelo che solitamente definiamo, semplificandolo, come fantastico ma che io preferisco chiamare il mondo segreto, il mondo che eclissa il reale. Questo mondo parallelo mette il primo con le spalle al muro, lo rimette in questione e impone la sua forma specifica di realtà. In generale, preferisco che il mio lettore resti là, sul sottile confine compreso tra l’uno e l’altro, gli occhi rivolti di qua e di là, contemporaneamente». 

Un tunnel. Steven Millhauser è scrittore di tunnel. Scavati fra il possibile e il terribile. Fra la Storia e l’estatica immobilità dell’incantamento. C’è in Martin Dressler qualcosa che potremmo chiamare “epica dell’impossibile”, che, in forza della sua dettagliata declinazione, in forza della ostinata pazienza con cui la scrittura la sostiene e la sfida, ci lascia inquieti e stupiti come se un “mondo segreto” ci fosse sfuggito, continuasse a sfuggirci, e Millhauser fosse lì a evocarlo, fantasma del tempo, da un passato mai trascorso, che ci riguarda.

Postfazione di Alberto Rollo a Martin Dressler, di Steven Millhauser
© 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano

ARTICOLO n. 45 / 2024

IL MESSICO COME TRAUMA

intervista di Fabio bozzato

Cosa succede quando due mondi alieni si incontrano? Quando un evento si può considerare così importante da cambiare il corso della Storia? E cos’è la Storia quando incontra la letteratura? Per provare a orientarci, ci è di aiuto Álvaro Enrigue, lo scrittore messicano che su questo materiale scivoloso si è cimentato in quattro romanzi e due raccolte di racconti. Lo incontriamo in occasione di Incroci di Civiltà, il festival letterario promosso a Venezia dall’Università Ca’ Foscari. Classe 1969, premio Elena Poniatowska 2014, Álvaro Enrigue ha lavorato a lungo come giornalista per poi approdare a New York, dove insegna alla Hofstra University. In Italia, Feltrinelli ha pubblicato Morte improvvisa (2015), Adesso mi arrendo e questo è tutto (2021), mentre di recente uscita è Il sogno (2024, tradotto da Pino Cacucci). Qui Enrigue mette in scena il famoso incontro fra l’imperatore Montezuma e Hernán Cortés, avvenuto l’8 novembre 1519 nella città flottante di Tenochtitlán, la capitale dell’Impero mexica, da cui è nata Città del Messico.

Fabio Bozzato: Il sogno è un testo di fiction, però lei ha lavorato su una grande quantità di archivi storici. Dunque, di quali parti o dettagli di questa storia possiamo fidarci, nel momento in cui slitta continuamente tra verità e finzione? E di cosa possiamo fidarci invece della storiografia?

Álvaro Enrigue: È una domanda che sembra una trappola [ride]. Sì, è un romanzo basato su un archivio enorme e una quantità di persone che ho interpellato. Dunque, di cosa può fidarsi il lettore? Potrei dire innanzitutto dei dettagli della vita quotidiana, il cibo, gli odori, la forma della città e delle costruzioni. Tutto questo è dettagliato grazie alle conoscenze in nostro possesso. Bisogna ricordare che la capitale dell’Impero venne distrutta nel 1521 e poi ricostruita e ci siamo abituati a pensare che d’improvviso l’antica Tenochtitlán sia diventata l’attuale Città del Messico come per miracolo. In realtà è stato un processo lento. Il grande lago dove sorgeva, per esempio, è rimasto in vita fino al Novecento e a distruggerlo non sono stati gli spagnoli, ma la Repubblica. È vero che gli spagnoli hanno compiuto uno dei più grandi genocidi della Storia, ma nei primi cento anni che si insediarono qui hanno fatto convivere le autorità e le tradizioni native con le nuove, perché di fronte avevano una cultura e una struttura statale troppo grandi e potenti e sapevano di dover avere pazienza e non irritare troppo le autorità locali. Così, nei primi cento anni, un’autorità locale governava i popoli indigeni e un viceré governava gli spagnoli, che peraltro erano pochissimi, almeno per un secolo. Tenochtitlán rimase una città sull’acqua per due-trecento anni. Ma il problema è che a tutt’oggi restano molte domande aperte e le stesse ricostruzioni storiche si fondano sì su ricerche rigorose, ma vanno a tentoni e immaginano, a loro modo, delle storie. 

F.B. Potremmo dire che la stessa forma del romanzo è una prova della conoscenza precaria della Storia.

A.E. In qualche modo sì. È curioso che, da quando ho cominciato a scrivere il romanzo a quando l’ho finito, ho dovuto cambiare molte pagine, perché si susseguono sempre nuove scoperte archeologiche. Prima di chiudere il libro l’ho mandato in lettura a un famoso archeologo. E mi ha fatto riscrivere intere parti, anzi mi ha dato appuntamento un giorno allo Zócalo, il cuore della capitale, e da un palazzo mi ha fatto scendere nel sottosuolo, dove hanno portato alla luce templi, costruzioni e camminamenti: è impressionante. Gli storici e gli archeologici stanno ridisegnando le mappe e riposizionando pezzi di città. 

F.B. In un’ntervista alla rivista Letras Libres, lei ha detto: «La Storia in realtà non esiste. Esistono degli archivi che noi interpretiamo secondo le nostre convenienze». Dunque, cos’è la grande Storia? Come si collega a quello che intendiamo per reale?

A.E. Io credo che la Storia si costruisca, come il linguaggio, attraverso un processo continuo di messa in discussione e di cambiamento. È interpretazione, scrittura. È la messa a fuoco di una narrazione partendo dai frammenti che abbiamo: rovine, reperti, documenti. E questi ultimi sono ulteriormente vulnerabili e appartengono a una sfera del discorso politico. Perché la scrittura è sempre politica: se mi mostrassi la tua lista per il supermercato, ti potrei dire per chi voti [ride]. E quello che facciamo è di articolare una narrazione attorno a ogni cosa. Per questo penso che il lavoro di un romanziere e quello di uno storico siano molto simili, salvo per una cosa: lo storico è chiamato a dimostrare ciò che scrive e il romanziere no. Ma sono convinto che un romanziere abbia molto da dire sul passato, anche se lo fa come un racconto di fantasia.

F.B. Lei descrive l’incontro fra Montezuma e Cortés con grande maestria psicologica: sono due uomini onnipotenti, ma di cui lei tira fuori paure e dubbi; ciascuno osserva il mondo dell’altro con meraviglia e incomprensione e ognuno ritiene l’altro un barbaro.

A.E. Nessuno sa veramente cosa sia successo in quell’incontro, eppure sappiamo che è stato un fatto epocale, perché si può dire ormai con certezza che è stato uno dei detonatori della modernità. Per la prima volta una lingua europea esce dall’Europa e si radica in un altro continente; per la prima volta il sistema economico europeo concepisce e pratica una economia estrattiva su larga scala; per la prima volta quella diventerà la prima città non europea ad avere un aspetto europeo ed essere popolata per la maggior parte da europei e africani. E ancora, per la prima volta gli europei capiscono che da là possono proiettarsi nel Pacifico, che era la vera ragione per cui erano arrivati: nel 1565 sbarca per la prima volta al porto di Barra de Navidad una nave piena di mercanzie proveniente dalla Cina che poi torna in patria carica di argento, di cui aveva fame per coniare monete.

Da quell’incontro inizia un flusso umano senza precedenti, forzato o meno: schiavi e migranti, non solo dall’Africa ma anche dall’Oriente. Il mondo, insomma, comincia a girare attorno a una nuova modernità globale. Ma cosa sia successo davvero in quell’incontro nessuno lo sa. In mano abbiamo solo due testimonianze, uno dello stesso Hernán Cortés e uno di un semplice soldato, Bernal Díaz del Castillo, ma ormai sappiamo che ci servono a poco, non hanno raccontato la verità, ma hanno manipolato la storia per giustificare quello che poi hanno tragicamente fatto. Peraltro, raccontano solo i primi quattro giorni degli otto lunghi mesi che vissero a Tenochtitlán. Perché? Forse perché se la facevano addosso dalla paura ed erano sbalorditi dalla bellezza e dalla potenza di quella città e di quella civiltà. Gli spagnoli erano solo duecentosessanta con venti cavalli e un piccolo cannoncino. È stato dopo, quando arrivano in tremila ben armati, che non hanno più paura e non abbattono l’Impero da soli, ma con tutte le nazioni indigene che si sono alleate a loro. Ma a questo punto so bene che quel racconto sulle paure di Cortés e del suo manipolo di uomini lo può scrivere solo un romanziere, non uno storico.

F.B. Possiamo dire che è anche il trauma originale da cui è nato il Messico attuale?

A.E. Metaforicamente sì, ma è stato un lungo percorso, lento, complicato, brutale e meraviglioso, ricco di molte più storie. Ma è vero che il Messico nasce da un mondo perduto, certo. E da una violenza incalcolabile, inimmaginabile. Però non mi spaventa il fatto che un paese abbia un trauma con cui fa i conti continuamente; magari mi spaventa di più chi crede di non avere un trauma da affrontare, come potrebbero essere gli Stati Uniti o l’Argentina. Mi impressiona che gli Stati Uniti comincino a raccontare la loro storia dal 1700 come se prima non ci sia stato niente. Noi messicani abbiamo la memoria di quegli eventi traumatici e in qualche modo continuiamo a rigurgitare il verbo di quello che è successo, in un processo storico di digestione tutt’ora in corso. So anche che non esisterebbe la pasta alla bolognese senza quel trauma: per inventarla e metterla sui piatti degli italiani c’è stato bisogno del mais, della carne quando le mucche qui scarseggiavano, dei pomodori, tutte cose messicane; e per fare quella pasta c’è stato bisogno di appropriarsi degli spaghetti cinesi, che arrivarono in Messico e poi in Spagna e infine in Italia. Come si vede la Storia è complicata, ma anche sorprendentemente familiare.

F.B. Il presidente del Messico, Andrés Manuel Lopez Obrador, ha fatto scalpore per una lettera inviata al Re di Spagna e al Pontefice invitandoli a chiedere perdono per la Conquista. Come è possibile per l’Europa contemporanea affrontare a così lunga distanza una matassa storica? Come è possibile che un gesto simile possa risolvere la questione?

A.E. Abbiamo un presidente che usa toni, parole e gesti molto populisti, nazionalisti, rudi. Questo è certo. E la sua lettera, peraltro filtrata dalla stampa, suona grottesca. Ma poi pensi: ogni dieci persone che vivevano nelle Americhe prima della Conquista, nove sono scomparse, uccise, falciate via. Abbiamo sofferto un genocidio senza precedenti, cui si è aggiunta una colossale tratta di esseri umani come mai si era visto. Allora ti dici che un gesto è necessario. Il Papa è riuscito a farlo, perché non ci riesce la famiglia reale di Spagna? Di cosa ha paura l’Europa?

ARTICOLO n. 44 / 2024

I LIBRI DI ADRIANO OLIVETTI

Pubblichiamo un’anticipazione dall’ultimo libro di Chiara Faggiolani, Il problema del tempo umano. Le biblioteche di Adriano Olivetti: storia di un’idea rivoluzionaria (Edizioni di Comunità) da domani in tutte le librerie. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

I libri sono un elemento fondamentale della vita di Adriano, nella sua infanzia e nella sua educazione: i libri non da possedere, non come oggetto, ma considerati per ciò che essi incarnavano nella loro funzionalità. La conoscenza, l’ispirazione, la visione alla base dei suoi “progetti di rigenerazione totale del mondo”.

Per questo forse non è azzardato dire che ad Adriano i libri non bastavano: aveva bisogno di ascoltare, di capire interagendo, di investigare e di intercettare nuove idee aprendosi soprattutto ai giovani, che andava a cercare e da cui riusciva a tirare fuori il meglio, spesso aiutandoli a capire e scoprire la loro vocazione «dietro lo sportello di una banca come Barolini, fra gli studiosi impegnati nel terzo mondo, come Meister, tra i banchi della scuola come Pampaloni, tra gli ultimi anarchici come Doglio e Fedeli, tra i perseguitati politici come Tulli, tra i reduci di Nomadelfia come Perego, tra pasticcieri come Strobbia o tra i ceramisti come Giorda. Parlava loro con grande umanità, ma, soprattutto, con estremo “pudore”, dimostrando molto interesse per il messaggio, piccolo o grande che fosse, di cui ogni uomo è portatore. Tutto ciò che era intelligente lo attraeva».

Adriano Olivetti non era un intellettuale o meglio non lo era con l’accezione che attribuiamo oggi a questa espressione. Era un industriale. Era un ingegnere di Ivrea. La sua terra condiziona il suo modo di vedere le cose: una società in cui individui e comunità si trovano in equilibrio, in cui l’individuo si trova realizzato nel suo essere parte della comunità e la comunità è la risultante dell’incontro di individui liberi che si esprimono sulla base di idee che sono state elaborate e informate. Idee e azioni.

Anche se amava circondarsi di volumi, di opere d’arte, rimarrà per tutta la vita un uomo di pochi libri, che però assimilava, faceva suoi al punto di provare un vivo bisogno di dividere con gli altri quella scoperta che gli aveva spalancato nuovi orizzonti, gli aveva suggerito idee feconde. La casa editrice Comunità nacque proprio per far divenire patrimonio comune le sue “scoperte”. Si pensi all’opera di Mumford da cui trarrà, come da una ghiotta miniera, tante “illuminazioni” sul valore

educativo, culturale dell’architettura, dell’urbanistica, sulla necessità di fondere armonicamente l’ambiente rurale e quello

urbano, di decentrare le facoltà universitarie nelle cittadine di provincia, di legarle finanziariamente alla Comunità e all’industria, e tante altre cose ancora. Tra i suoi libri cercheresti invano quelli storici, oppure il romanzo (che non fosse quello romantico francese). Non amava la musica più di quanto lo attraessero le arti figurative (anche se ne intuiva il valore rasserenante e formativo per altri, che riteneva più fortunati di lui). L’oggetto che più polarizzava la sua attenzione era sempre l’uomo: il suo destino, il suo futuro, il suo progresso, il modo di migliorare la condizione delle masse attraverso l’industria (non l’agricoltura tradizionale), magica creatrice e dispensatrice di ricchezza, che aveva fatto sì che, nel giro di pochi decenni, l’ultimo dei manovali delle sue officine si nutrisse meglio di un principe medioevale, abitasse in case confortevoli e venisse a lavorare con l’auto. Tutte cose che mezzo secolo prima “era follia sperar”. Non era raro il caso che Adriano convocasse un suo collaboratore solo per comunicargli di avere scoperto un libro “illuminante”. Tale fu il destino di quello di Bergson Le due sorgenti. (Vico Avalle, Ugo Aluffi, Pino Ferlito, cit.)

La sua relazione con i libri è mediata da esperienze completamente diverse. Ne individuo quattro che possiamo considerare la stratificazione dei suoi paradigmi ancestrali:

1. l’educazione alla lettura in famiglia condivisa con i genitori e i fratelli;

2. la lettura tecnica, volta alla fabbrica, nelle biblioteche americane durante il viaggio del 1925-1926;

3. l’inizio di una fase di lettura onnivora e asistematica che porterà alla formazione della biblioteca privata;

4. la lente dell’editoria, ovvero il supporto a numerose iniziative editoriali, la progettazione delle Edizioni di Comunità per portare in Italia ciò che non c’era. La consideriamo la costruzione della sua biblioteca ideale fuori da tracciati delineati e sentieri già percorsi per il rinnovamento culturale di cui il Paese aveva bisogno.

Questi quattro momenti rappresentano diverse fasi che raccontano una sorta di sedimentazione e di travaso e tutte e quattro concorrono alla definizione della sua idea di biblioteca come infrastruttura per lo sviluppo umano.

L’ambiente familiare influenza moltissimo lo stile e la personalità di Adriano. Influenza anche il suo rapporto con

i libri. La prima fase si concretizza proprio con il modo di leggere insieme trasmessogli in famiglia, l’abitudine di commentare i libri con i fratelli – Elena, nata l’anno prima di Adriano, nel 1900, Massimo più piccolo di un anno, del 1902, Silvia del 1904, Lalla del 1906 e Dino del 1912 – e di condividerne le suggestioni ricevute.

Il padre Camillo e la madre Luisa Revel così avevano formato i fratelli Olivetti. Questa attitudine fa sì che Adriano sia ben poco legato al libro come oggetto e aperto alle sollecitazioni più disparate.

La sera non si va più a letto alle nove e si parla di letture. È ancora Elena, la primogenita, a far spicco, a guidare il discorso.

È lei a buttarsi sulla letteratura russa, appena esce una nuova traduzione dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Ma si parla anche di Freud e di psicoanalisi, che già appassiona Elena, accanto all’occulto, al misterico. Gira anche un libro di interpretazione dei sogni e di astrologia. Adriano continua a subire il fascino della sorella maggiore, anche se mostra poco interesse per la letteratura. È da Elena che gli viene, o è alimentata nel momento determinante dell’adolescenza, quando i sentimenti prima che le idee si radicano fortemente, quella curiosità esoterica che lo accompagnerà per la vita, e che ha lasciato consistenti tracce nella biblioteca, nell’archivio personale, nel ricordo dei testimoni. Adriano leggerà presto il libro di Rudolf Steiner, I punti essenziali della questione sociale, critica spiritualista del capitalismo e, con il tempo, collezionerà una

trentina di libri dello stesso autore. Massimo, neppure di un anno più giovane di Adriano, più di Adriano è vivace: ama la letteratura, la musica, i divertimenti, suona il violino, anche se è assai mutevole di carattere e di salute. Lalla, la più graziosa,

diventerà la più egualitaria di tutti: sarà lei a introdurre i primi libri sulla rivoluzione sovietica, a sostenere che bisogna viaggiare assolutamente in terza classe. Dino, ancora bambino, ha altri orari e altri interessi. Di Silvia non parlo, perché da

lei vengono questi ricordi e per un senso di grande modestia non ha voluto dirmi di sé. Si sa però che ci teneva a far bene le cose, con puntiglio, a essere la prima della classe. Adriano e Massimo, il “fratello Max”, che allora sono molto vicini, fanno anche altre letture. Si passano la Fisiologia dellamore e alcuni libri di Paolo Mantegazza, ma la madre li requisisce e li brucia nella stufa. Camillo mette invece fra le loro mani il Self-Help di Samuel Smiles, una galleria di personaggi che si sono formati con una virile disciplina interiore. (Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia)

Se prendiamo come riferimento un altro rapporto familiare fortemente incentrato sulla condivisione del libro quale è quello di Giulio Einaudi con suo padre, il Presidente Luigi Einaudi, appassionato bibliofilo, qui siamo di fronte a uno scenario completamente diverso. Non è il libro nella sua oggettualità che interessa, ma lo scambio che esso rende possibile come oggetto relazionale e di crescita: la lettura.

Dunque, un primo strato che influenza il rapporto di Adriano Olivetti con i libri è l’ambiente nel quale cresce, l’atmosfera culturale di una famiglia doppiamente minoritaria, padre ebreo e madre valdese, dove domina un fortissimo spiritualismo.

Aveva ereditato la sensibilità religiosa ebraica da suo padre, sebbene Camillo non fosse praticante, e quella valdese da sua madre. Dopo la conversione al cattolicesimo, avvenuta in età adulta, ogni sera, prima di addormentarsi, leggeva qualche pagina del Vangelo, così come nei momenti di difficoltà ne apriva a caso una per trarne ispirazione […].

È dal padre Camillo, personalità colta ed eclettica, geniale, che Adriano eredita la visione della fabbrica come attività economica al servizio della vita sociale. Non dimentichiamo che nell’affidare ad Adriano l’organizzazione della fabbrica, Camillo gli aveva dato la precisa indicazione di poter fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno a motivo dell’introduzione dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia. È Camillo a introdurre nel nucleo sicuro e famigliare l’idea che, se il cuore di un uomo cambia il suo volto, tanti cuori e tante menti possono cambiare il mondo.

ARTICOLO n. 43 / 2024

PUNTUALI COME UN OROLOGIO

il mito delle mestruazioni

Nel 1945 lo scultore Abram Belskie, supportato dal ginecologo Robert L. Dickinson, realizzò due statue destinate a diventare famose. Le sculture, che vennero battezzate Normman e Norma, dovevano rappresentare le caratteristiche tipiche degli uomini e delle donne americane. Detto in altre parole, erano chiamate a raffigurare quei tratti – altezza, peso, conformazione fisica, muscolatura – che costituivano la media statistica della popolazione degli Stati Uniti, una sorta di rappresentazione visiva di ciò che voleva dire, in quel periodo e in quella zona del mondo, essere “di sana e robusta costituzione”. Non è un caso, infatti, che alla loro creazione contribuirono solo le misure prese su una certa popolazione, quella con la pelle bianca, senza disabilità o altre caratteristiche considerate devianti o non desiderabili. 

Quando, nello stesso anno, le due statue furono trasferite al Cleveland Health Museum, sul principale quotidiano dell’Ohio campeggiava un titolo: «are you Norma, typical woman?». Il giornale invitava le donne americane che si sentivano “vicine” alle forme di Norma a partecipare a un concorso: la concorrente con le caratteristiche più somiglianti a quelle della statua si sarebbe aggiudicata il primo premio. Come ricorda Sarah Chaney nel suo Sono Normale?, furono più di quattromila le donne che si iscrissero ma nessuna di loro, neppure la vincitrice Martha Skidmore, possedevano esattamente le forme o le misure di Norma. 

Gli standard di bellezza incombono sulla vita delle donne da secoli e, come la storia di Norma ci ricorda, sono nella maggior parte dei casi irrealistici. Essi non hanno a che fare solo con l’esteriorità ma diventano così pervasivi da inserirsi anche nei discorsi apparentemente più lontani, come quello sulle mestruazioni. Nel nostro viaggio intorno ai miti su cui si è costruito un certo ideale di femminilità non possiamo quindi non soffermarci sul rapporto – stretto, intricato e quasi sempre sbagliato – tra il concetto di normalità e quello di ciclo mestruale.

All’età di quindici anni il ginecologo da cui mia mamma mi aveva portato a causa di un ciclo irregolare e doloroso mi prescrisse la pillola contraccettiva. Quel giorno e in tutte le visite successive, il medico si affrettava a ricordarci che la “terapia” aveva una funzione regolarizzante: sarebbe servita, cioè, non solo a prevenire gravidanze indesiderate ma anche a curare uno dei sintomi più noti della sindrome dell’ovaio policistico, le mestruazioni scombinate. Assumendo regolarmente quei confetti colorati, ventotto giorni dopo si manifestò quello che per me, abituata a cicli quadrimestrali, aveva tutta l’aria di essere un miracolo: un flusso regolare. Dopo anni di disagio e dolore, quelle mestruazioni rappresentavano la svolta. Nessuno mi aveva detto, però, che non erano affatto delle mestruazioni ma un semplice “sanguinamento da sospensione”. Che cosa sia, un sanguinamento da sospensione, lo spiega bene Laura Tripaldi inGender tech: «Esistono varie tipologie di pillole contraccettive ma tutte (…) agiscono attraverso una soppressione del processo di ovulazione. Questo significa che, per una persona che prende la pillola, non esiste alcun “ciclo mestruale” da regolarizzare: l’assunzione sopprime la variazione ciclica degli ormoni che determina tanto l’ovulazione quanto la mestruazione». Il medico che mi spiegava i benefici della pillola nella regolarizzazione del ciclo mi aveva detto una falsità, ma ho potuto scoprirlo solo molti anni dopo anche grazie agli studi compiuti in autonomia. Tante donne, oggi, ricevono ancora la stessa informazione sbagliata, e non da amiche o dottori disinformati: tra le FAQ del sito del Ministero della Salute è riportato chiaramente che la regolarizzazione del ciclo «rappresenta uno degli effetti positivi che svolge la pillola».

Le mestruazioni sono, oggi, forse l’unico tabù rimasto. Se è vero che possiamo parlare praticamente di tutto, dal porno alla morte (non importa, in questa sede, in che termini se ne discute), è altrettanto vero che il tema del sanguinamento mestruale resta fuori da qualsiasi discorso, come se non riguardasse direttamente circa la metà della popolazione mondiale. Nel volume Ciclo, la docente Kate Clancy ripercorre le tante credenze che si sono via via sedimentate intorno alle mestruazioni. Se, per Aristotele, esse costituivano la materia – inerte, fredda e passiva – che gli spermatozoi “attivavano” nel momento del concepimento, durante il Medioevo diventano il pretesto per accusare le donne di essere pericolose: si raccontava, per esempio, che le persone mestruanti fossero in grado, a causa dei vapori esalati, di avvelenare i bambini in culla. Non è un caso che proprio in quegli anni la visione intorno al potere “mostruoso”, contenuto in ciascuna donna, si radicalizzi, costituendo il pretesto per fomentare la paura della stregoneria, ma su questo torneremo poi.

L’idea che le mestruazioni possano essere pericolose è radicata nel concetto di tabù, che ancora connota la discussione intorno a questo argomento, a qualsiasi latitudine. Per la giornalista Élise Thiébaut, autrice di Questo è il sangue, la parola “tabù” sembra essere stata coniata a partire da due termini polinesiani che significano “marchiare” e “intensità”. Il termine rimanda quindi a un segnale, a un tratto distintivo che indica un pericolo. Thiebaut fa notare la natura ambivalente del concetto, «dato che designa sia ciò che è proibito e impuro sia ciò che è sacro, misterioso, investito da un potere divino». Clancy, che nel testo già citato riprende queste considerazioni, osserva come gli antropologi occidentali, nel riportare il significato di questa parola, che deriva dal termine polinesiano indigeno “tabu” o “tapu”, si siano concentrati soltanto sull’idea di pericolo e proibizione, ignorando il suo legame con la sacralità.

La versione parziale del concetto di tabù, unita a un approccio scientifico che ha guardato alla fisiologia della donna con disprezzo o diffidenza, ha contribuito a portare quelle bizzarre teorie sulle mestruazioni fino ai giorni nostri. Negli anni Venti del secolo scorso, il Dottor Schick teorizzò la presenza di una tossina particolarmente tossica, la menotossina. Il luminare arrivò a provare la sua ipotesi mediante un esperimento. Pose due fiori in due vasi diversi, entrambi riempiti con acqua distillata, ma in uno diluì una piccola quantità di sangue venoso, nell’altro la medesima concentrazione di sangue mestruale. Nonostante i fiori fossero stati recisi e immersi nel vaso nello stesso preciso momento, quello a bagno nella soluzione contenente sangue mestruale appassì velocemente. Il medico aveva trovato una motivazione in grado di spiegare perché fosse opportuno, per le mestruanti, non evitare contatti con il resto della comunità.

Ben prima dell’esperimento del dottor Schick, l’atavica paura nei confronti del sangue mestruale aveva portato alla creazione di pratiche misogine e dannose, come quella del Chhaupadi, in Nepal, che consiste nell’isolare le donne in apposite capanne, molte delle quali senza servizi igienici o coperte, perché si crede che il sangue espulso sia nocivo. Si tratta di tradizioni dichiarate fuorilegge, ma che nei fatti continuano a essere osservate, esattamente come, in Occidente, si ritiene ancora che chi ha le mestruazioni faccia impazzire la maionese o non possa lavarsi per evitare di incorrere in emorragie.

Oggi questi stereotipi sono in larga parte superati, quello che resta ancora da fare è fuoriuscire dall’idea che le mestruazioni debbano essere “normali” per essere accettate. Come ricorda Clancy, non sappiamo ancora perché si manifestino indicativamente una volta al mese, considerando il dispendio di energie che il cervello deve impiegare per gestire le complesse pratiche di cui il ciclo si compone, come monitorare i livelli ormonali, formare e sfaldare l’endometrio, ecc. Molti studi dimostrano come il sangue mestruale «possieda importanti proprietà di cura e riparazione quando si trova in utero». Tuttavia, il ciclo, nella sua durata e nelle sue manifestazioni, è fortemente influenzato da fattoriindividuali – sia fisici, come l’età di arrivo del menarca, che psicologici, come la relazione con i caregivers – e sociali. Essere esposte a esperienze sfavorevoli infantili, far parte di categorie marginalizzate e discriminate, subire lo stigma grassofobico o gli stereotipi che ancora si associano alla cosiddetta “sindrome premestruale” influisce negativamente sul modo in cui il ciclo si manifesta.

Presentare il ciclo mestruale (che, come ci ricorda la studiosa Anna Buzzoni in Questo è il ciclo, è solo uno dei tanti cicli che gli esseri umani sperimentano nell’arco della vita) come qualcosa di monolitico, che accade regolarmente a tutte le persone assegnate femmine alla nascita, avulso dal altre esperienze endogene o esogene, significa contribuire a costruire una specifica idea di cosa voglia dire essere una donna… una donna “sana”, cioè “normale”.

Nel suo funzionamento, la pillola contraccettiva sopprime il ciclo mestruale ma mantiene l’esperienza del sanguinamento, in realtà totalmente inutile, per dare la percezione che esso si manifesti secondo i ritmi dettati dalla natura. Rubricare tutte le altre modalità in cui il ciclo accade definendole “irregolari”, anche in assenza di particolari condizioni mediche, rappresenta il tentativo di normare un certo ideale di femminilità, che risponde ai consueti dettami culturali: fertile, controllabile e innocuo. Tutte le soggettività che non rientrano in questi parametri sono mostruose (esattamente come lo erano i corpi delle streghe, tema intorno al quale la studiosa Francesca Matteoni dedica gran parte della sua ricerca) e pertanto da ammaestrare o punire. 

Riflettere sulle mestruazioni, normalizzando la loro presenza nei nostri discorsi, non significa solo liberarsi di preconcetti e tabù: significa anche accogliere l’estrema variabilità di cui la natura sa rendersi portatrice.

ARTICOLO n. 42 / 2024

CIÒ CHE MI MANCA. L’OASI, LA GIUNGLA, LA LETTERATURA

I

In Harry a pezzi (1997), mentre Woody Allen scende in ascensore verso il fondo dell’inferno, una voce registrata dice: «Quinto piano: borseggiatori della metropolitana, mendicanti aggressivi, critici letterari».

E io non so se sia vero, ma anni dopo, durante una cena a margine delle riprese di To Rome with Love (2012) cui era stato invitato, un critico letterario di mia conoscenza sostiene di aver chiesto conto ad Allen di questa battuta. Il mio conoscente trovava che quell’umorismo fosse intollerabile, perché la critica letteraria («Almeno quella fatta bene») sarebbe a suo dire più o meno l’opposto della malafede, il contrario dell’inganno, addirittura «l’unica forma di discorso in cui la cattiveria coincide con la pietà».

Woody Allen, stando a questo resoconto, nemmeno ricordava di aver fatto quella battuta, ma incalzato riconobbe che, se anche aveva esagerato, comunque il suo bersaglio non era la disciplina in sé e per sé, ma i suoi atleti – non la critica letteraria, ma i critici: almeno alcuni, e specie gli assenti.

Il critico letterario gli chiese di essere più preciso.

Allen bevve a garganella un calice di vino, sorrise con garbo, cambiò argomento: «Perché siamo qui?», chiese imbarazzato. «Di cosa parliamo veramente quando parliamo di libri? Il pistacchio di Bronte è poi così diverso dal pistacchio comune?»

Vera o falsa che sia, questa storiella penso dica qualcosa di importante sul posto che chi fa critica letteraria ricopre oggi nella società. È il posto del prete ubriacone: se puoi non lo inviti, se parla non lo ascolti, e ti dà l’impressione di predicare ai convertiti anche quando si lancia in imprese missionarie. «Se questi sono i preti», ti fa pensare, «allora forse sarebbe meglio che restassero nelle chiese».

Appena esce dai luoghi in cui la sua legittimità non è posta in questione – università, pagine dedicate sui quotidiani, riviste di settore, alcuni blog, qualche profilo social –, la critica letteraria viene insomma mal sopportata. La si ignora, la si fraintende, la si spernacchia senza indugi. Perché?

La prima risposta è senz’altro nella marginalità in cui, prima della critica, versa oggi la letteratura. Quando ci viene voglia di scrivere pubblicamente, le strade sembrano tre: rivolgersi a una nicchia, svilire il messaggio, tacere. La cosa suscita talvolta una specie di compiacimento della decadenza, sembra quasi dolce non importare a nessuno, e inevitabile (se non virtuoso) anteporre il marketing a tutto il resto, ma forse l’accento andrebbe posto su ciò che ognuno può fare per cambiare questa situazione.

Letteratura e critica sono più marginali di quanto potrebbero.

Ciò che mi manca è un margine – angusto, inestimabile – su cui lavorare: riuscire ad affermare che no, non sono un prete, né vorrei esserlo, ma credo valga la pena di parlare di letteratura con semplice serietà.

Dov’è che sbaglio? Perché?

Ne parlo spesso con un’amica più esperta di me, una critica letteraria dell’università che ogni tanto scrive anche sui giornali. Io ho ventisei anni, lei una sessantina. La vado a trovare una volta a settimana. Ordiniamo una maxi-pizza, due birre, una coca, e mangiamo chiacchierando sulla penisola di marmo: poi ci spostiamo sul divano di pelle. Accendiamo la consolle e passiamo ai discorsi seri.

L’altra sera abbiamo provato EA FC 24 sulla Playstation 5 che si è regalata per il compleanno. Io le ho chiesto com’è che siamo arrivati a questa situazione. Lei mi ha esposto la teoria delle tre morti.

«Il problema, Anto, è che negli ultimi trent’anni siamo morti tre volte, e chi se ne accorge cerca di agonizzare con dignità», ha detto la mia amica guardando entrare in campo la mia Juventus e il suo Real Madrid. «Mentre gli altri, tutti gli altri, parlano a una piazza vuota».

«Però chi muore poi rinasce, a quanto pare», ho detto rincorrendo Brahim Díaz.

Vlahovic per Chiesa, sponda a Rabiot, doppio passo, lancio verso Cambiaso – fuori. Peccato.

«La prima volta siamo morti negli anni Novanta. Non sapevamo più in cosa credere, a che titolo parlare. Quando non sai cosa dire né come dirlo l’industria ha campo libero. Era finita la Storia, figurati la critica: restavamo noi. Gli specialisti disorientati di una specialità di cui nessuno sentiva più il bisogno… ‘fanculo!»

Uno a zero per me. Danilo su ribattuta.

«Era fuorigioco».

«Avanti: qual è la seconda morte?»

Silenzio. Una partita sporca, tutta falli a centrocampo.

«Embè?», ho detto dopo un po’, cercando di marcare Vinicius Jr. con Rugani.

«I blog, Anto – i blog. Che sembravano un fermento inaudito, e poi era una guerra tra bande. Quando il conflitto non si fa nell’interesse generale, l’industria ha campo lib– tie’, sotto il sette! Palla al centro».

«… dicevi?»

«Dicevo che le tue sono banalizzazioni. Tu vuoi fare il risotto con la nutella, e non si può».

La partita è finita 4 a 1 per lei, e comunque la terza morte sarebbero i social network: se tutti parlano è come non parlasse nessuno, la critica si riduce a pubblicità, eccetera. Tutto giusto, ma mi sembra che la mia amica – da critica universitaria piena d’esperienza quale è – abbia un po’ nostalgia dell’autorevolezza che ha dovuto rispettare nei suoi maestri. Trovo che la nostalgia sia quasi sempre sospetta. E secondo me essere ritenuti autorevoli a prescindere è persino più brutto che restare sconosciuti ingiustamente.

Di queste cose mi capita di parlare anche con un mio coetaneo che fa l’influencer di libri (28.000 follower). Ci incrociamo in biblioteca e, anche se siamo molto indaffarati – io leggo perché devo, lui perché gli va –, ogni tanto ci prendiamo un momento per noi. Mi invita nel suo bilocale. Mangiamo insieme.

«Ma quindi non vivi in una stanza damascata con i micetti e le tisane?», dico per sfotterlo un po’.

Poi, dondolandomi sul sedile da gamer che mi presta per pranzare, gli infliggo la mia idea.

“Tutto fumo e niente arrosto” sarà pure lo slogan dell’impostura, dico, ma “tutto arrosto e niente fumo” rischia di diventare l’epitaffio dell’intelligenza mal spesa. Ciò che mi manca è una quantità di fumo commisurata al peso dell’arrosto: una scrittura che faccia i conti con il fatto che nessuno è tenuto ad ascoltarla, e proprio per questo cerchi di non annoiare (o impressionare) nemmeno chi la seguirebbe in ogni caso; un discorso che non abbia paura di essere interessante, ma si imponga di esserlo (si consenta di esistere) solo quando può cogliere le cose alla radice. Ben venga il fumo che valorizza l’arrosto!

Appena pronuncio questo strambo motto, il mio amico mi interrompe a bocca piena.

«’tto wronzo, ’ta’ wiwi-hando i’ wio wavo’o!», dice sputacchiando risotto e funghi.

«Eh?!»

Inghiotte, mi guarda infastidito. «“Tutto fumo e niente arrosto”, dici? Stai criticando il mio lavoro!»

«Ma va’…»

Ehm ok forse un pochino, penso tra me. Ma ti prego, non chiedermi di argomentare!

«Sì invece. Qual è il punto? Né con i tromboni, né con i televenditori. Io, per te, sarei il televenditore».

Silenzio. Non ce l’ho con lui, però in effetti la penso all’incirca così.

«Bah» dico però. «Una volta tanto sarei per la via di mezzo…»

«Non c’è una via di mezzo. Lo sai che ci sono piccole fabbriche di bulloni che fatturano più delle maggiori case editrici? O l’oasi protetta o la giungla: non c’è altro. O il privilegio o il mercato: se tutti ragionassero come voi, domanda e offerta si ignorerebbero a vicenda».

Voi chi?, vorrei chiedere, ma il risotto ai funghi non mi è mai sembrato così triste. Non so più cosa dire.

Sono nato nel 1998, sto per finire un dottorato in letteratura italiana tra Università di Pisa e Sorbonne Université, scrivo su riviste cartacee e online, il mio primo romanzo uscirà per Einaudi a settembre del 2024. Quando ho invitato a cena la mia amica accademica e il mio amico influencer, le cose sono andate più o meno come all’inizio di Kill Bill volume 1: mazzate, mobili all’aria, pause sornione quando mi affacciavo dalla cucina. Eppure, senza saperlo, concordano su un punto: entrambe credono che non ci sia alternativa alla condizione del prete ubriacone. Solo che poi l’accademica si chiude in convento, e l’influencer spretato scarica Tinder. Ciò che mi manca è un modo per non fare né una cosa né l’altra.

II

Due volte, nell’ultimo anno, per via della critica letteraria mi sono trovato coinvolto in risse social violente e inaspettate. La prima volta avevo analizzato criticamente Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (Laurana 2022); la seconda avevo espresso perplessità su come si discute a RicercaBO, storica rassegna dedicata agli scrittori emergenti cui ero stato invitato per leggere un estratto del mio romanzo.

In entrambi i casi ho fatto come mi diceva il mister quando giocavo a pallone: no al fallo, sì al contrasto. Mi mancava la possibilità di dire che le cose belle possono anche avere dei difetti. L’ho detto con tutta la mia parzialità, senza presumere di avere ragione: perché stiamo celebrando un capolavoro che – secondo me, e per questi motivi – non c’è? Perché ribadiamo stanche ortodossie anziché valutare i testi per quel che sono? Non volevo essere scorretto, ma neppure ero disposto a tirare indietro la gamba.

«Se così tanta gente reagisse ai miei lavori potrei anche vomitare», mi ha detto la mia amica accademica.

E l’influencer di libri: «Bello, bravo. Ma eravate quarantaquattro gatti in fila per tre con il resto di zero. Sicuro che non ti stai rivolgendo ai due liocorni?»

Le discussioni che ho suscitato, per me, sono state in gran parte infruttuose, simili com’erano allo scandalo per la lesa maestà. Ma credo che sia valsa la pena di suscitarle: c’è stato anche un dibattito più serio, grazie al quale ho avuto una piccola conferma del fatto che, per quanto sarebbe ragionevole lamentarsi della propria marginalità o arroccarsi su di essa, un margine scomodo ma prezioso c’è ed è abitabile – ci sono persone che, se solo riesco a raggiungerle, mi parlano e ascoltano, mi mettono in crisi.

Per raggiungerle in modo sensato, però, mi sembra che occorra rifiutare tanto il privilegio quanto il mercato, cioè tendere a un’idea di normalità che includa il conflitto come una cosa scontata, doverosa, e rifiuti di agire sulla base della prudenza strategica o del tornaconto privato.

Ci vuole conflitto, ecco, e deve essere disinteressato.

Avete presente le frecciatine sui social, le recensioni d’opportunismo o di cortesia, gli sfoghi, le lagne, i deliri culturalistici spacciati per avanguardia, il carrierismo mascherato da meticolosità, le raffinatezze che sanno di polvere e muffa, l’enfasi che nasconde il vuoto di contenuto, l’intransigenza così ostentata da somigliare al settarismo, la licenza autobiografica che diventa prigionia ombelicale?

Ecco: anch’io talvolta rischio di fare molte di queste cose, ma ci vorrebbe (credo) l’esatto contrario – e dirlo mi sembra tanto ingenuo quanto necessario.

Perché il punto, secondo me, è che non dovremmo mai essere noi che scriviamo o studiamo, ma sempre e soltanto ciò di cui proviamo a parlare: perché i libri non sono un monumento a chi li scrive (o a chi li pubblica, o a chi ne parla), ma uno dei più preziosi terreni comuni che abbiamo.

III

E insomma. Io provo a dire queste cose, ma in realtà non ho ancora trovato una mia misura: lavoro per l’università, ma non credo che ciò che finora ho prodotto faccia di me un buon critico accademico; cerco di scrivere sulle riviste, ma tendo spesso a complicare indebitamente le cose. La mia certezza è che, più di tutto, mi interessa scrivere romanzi (non tanto fabbricare risposte, quindi, se non esprimendo delle contraddizioni); e per il resto, di solito, uno dei miei limiti è non saper fare molto di meglio che rivendicare inappartenenza e disorientamento.

L’altra notte, però, il folletto che si siede sulle pance degli indisposti – le orecchie a punta, le dita nodose – è venuto a trovare anche me. Mi ha sorriso, mi ha accarezzato. Provavo a scacciarlo ma non lo raggiungevo. E lui, saltellando sul mio stomaco, mi ha lasciato sul lenzuolo un foglietto piegato in quattro. L’ho aperto al mattino: era una specie di strana ricetta.

Risotto con la nutella (una terza via tra l’oasi e la giungla):

  • Riso 500g;
  • Nutella qb;
  • Analisi scanzonata e parziale del campo letterario.

Be’, la Nutella ce l’ho, il riso pure… e così il quadro, semplificando a tremolaterra, mi sembra questo: la critica universitaria è autorevole, ma spesso respinge perché non sa (e a volte non può) uscire dai propri codici; la critica sui giornali è interessante, ma spesso superficiale e d’occasione; la critica sui blog è libera, ma troppo contenta di rivolgersi a una nicchia; la critica sui social è divertente, ma spesso – anche a malincuore – si limita a dire «Va’ che bello, garantisco!». Non voglio straparlare, so di fare un torto alle eccezioni meritevoli e me ne scuso, ma mi sembra che le tendenze egemoniche siano più o meno queste. (il folletto sorride, sorride, mi approva e mi spalleggia).

Poi certo, parlare a tutti non si può, i lettori sono pochi… ma il problema è che, in contesti anche molto diversi tra loro, io stesso alle difficoltà oggettive rispondo troppo di frequente con scelte di comodo, anche se ogni esempio ha poi un controcanto. Di seguito racconto tre aneddoti che mi sono realmente capitati – uno sui giornali cartacei, uno sull’università, uno sui blog; se non vi interessano, saltateli pure.

Primo aneddoto. Il romanziere in rampa di lancio e la mangrovia bonsai

Io: «Ciao caro, ti scrivo perché ho letto il tuo articolo sulle rappresentazioni letterarie dell’inquinamento a Kuala Lumpur e non sono d’accordo con la tua tesi. Come fai a dire “basta coi romanzi d’invenzione sfrenata, ma documentati come inchieste” e “dateci più polizieschi erotico-esotizzanti”? Non capisco!»

… passano ore…

Io: «Ci sei? Non volevo essere aggressivo, scusami, però è una questione a cui tengo molto».

Lui: «Galetta, ciao! Sono opinioni: rispettiamocele a vicenda. Davvero dobbiamo litigare per dei libri?»

… non passa mezzo minuto…

Io: «Certo che dobbiamo litigare! E proprio perché sono opinioni».

Lui: «Senti, non mi ritengo responsabile di ciò che ho scritto. La redazione mi ha commissionato l’articolo e mi ha detto che tesi sostenere. Tra l’altro quei polizieschi fanno schifo anche a me…»

(Qui, leggendo, penso: “Ma se li scrivi anche tu!”, e poi mi vergogno perché non è vero: mi fa comodo pensarlo, ma in realtà il romanziere in rampa di lancio è un artista che stimo)

Sempre lui: «… mi interessa stare su quel giornale. Fa bene ai miei libri, e intanto guadagno due spicci. Non credo che della letteratura importi una mangrovia bonsai a qualcuno, quindi ciccia».

Controcanto

Diverse persone di mia conoscenza non sono più state contattate dai quotidiani nazionali dopo aver difeso o rifiutato di esprimere un’idea.

Ipotesi e domanda

Sui quotidiani nazionali la critica letteraria può essere condizionata da interessi aziendali o privati, dalla linea editoriale o da valutazioni d’opportunità. Qual è la giusta misura del compromesso?

Secondo aneddoto. La dottoranda e la prudenza

Convegno all’Università della Transnistria del Nord, cena sociale. Sono molto incuriosito dal progetto di ricerca di una dottoranda che non conoscevo, sulle rappresentazioni della caccia nella letteratura scandinava del XII secolo. Domando, domando, fingo di saperne qualcosa. Mi sembra assurdo e meraviglioso che un argomento così astruso possa nascondere tanta complessità.

«… e quindi so che è un po’ palloso, ma la spartizione della selvaggina, secondo me, è un topos non tanto lontano dal nostro… dal nostro… oh. No, niente. Lasciamo stare. Chi hai detto che è il tuo tutor?»

La dottoranda guarda il piatto come avesse appena commesso un errore stupido e grave. «Scusa, non è il caso», dice poi. «Questa cosa non l’ho mai detta a nessuno. Preferisco conservarla per la tesi».

«E va be’, ma io studio il romanzo italiano di oggi, figurati se…»

«Non mi va. Ho paura che qualcuno mi rubi l’idea e la pubblichi prima di me. Non tu, eh! Ma ho paura».

Controcanto

Una persona di mia conoscenza ha inviato la propria tesi di laurea a studiosi più esperti per averne un parere. Gli studiosi più esperti l’hanno plagiata senza citarla.

Ipotesi e domanda

L’università chiede di produrre a ciclo continuo una critica letteraria che rispetti molti vincoli formali, e di custodire i propri lavori inediti come un’azienda assediata dalla concorrenza custodisce le invenzioni non ancora brevettate – ma le pubblicazioni richiedono mesi (se non anni), e spesso hanno una circolazione che tanto valeva mandare una mail agli interessati. Qual è la soglia oltre la quale la prudenza degenera in paranoia, e il desiderio (la necessità) di confronto diventa sventatezza autolesionista?

Terzo aneddoto. Incagli e disincagli su sfondo blu cobalto

«Anto, forse non dovrei dirtelo, però Blogger mi sta troppo sul culo. Sai Scrittore Inedito? Blogger ha rifiutato di pubblicargli un racconto».

«Aspe’, dici Incagli e disincagli su sfondo blu cobalto? L’ho letto, mi è piaciuto».

«E certo! Blogger è il primo fan di Scrittore Inedito, solo che ora è in rotta con Controblogger: teme che se pubblica Scrittore Inedito (autore storico di Controblog), Controblogger monti un altro casino».

«Be’, che monti ciò che vuole. Qual è il problema? Già non pagano una lira…»

Silenzio. Vengo guardato con compassione e ironia.

«Blogger ha paura di essere delegittimato a forza di retorica. Un po’ lo capisco, ma Incagli e disincagli è un mezzo capolavoro – ci metterebbe niente a finire sul podio annuale di Rivistina Neglettuccia! E Blog, al di là di tutto, sarebbe la sede perfetta: è un peccato che finisca altrove per paura della critica…»

«Mmh. Perché non ne parli con Blogger?»

«Io? Ma di questa storia non dovrei sapere niente! Me l’ha detta il Viceblogger di Blog, in confidenza…»

Controcanto

Blogger e Controblogger svolgono un lavoro fondamentale e impagabile di selezione e pubblicità. Senza di loro, la letteratura italiana sarebbe un’altra cosa: forse meno plurale, di certo più istituzionalizzata.

Ipotesi e domanda

Sui blog i giudizi di valore sono spesso in odore di lite tra paesani. Come bucare questa bolla?

Cos’altro? Mi ricordo di quando, durante una riunione di redazione di uno dei principali periodici nazionali dedicati alla letteratura, un articolista chiese «Ma a chi ci stiamo rivolgendo?», e la direzione rispose «Non lo sappiamo». Mi viene in mente quel che dice la (secondo me) più brava scrittrice della mia generazione: che niente, per chi scrive, è difficile quanto ricevere un parere sincero sui suoi sforzi.

Tra la letteratura e la società, insomma, c’è di mezzo la società letteraria, ma il problema di questo gruppo intermedio è che chi ne fa parte spesso non vede le persone diverse da sé: parliamo a noi stessi o a target più merceologici o astrattamente culturalistici che umani, non sappiamo mediare con chi non condivide i nostri codici, e anche per questo siamo più marginali di quanto potremmo.

Il punto, però, è che a fare le spese di questa situazione non sono soltanto (né principalmente) gli scrittori, i critici universitari, i recensori, i blogger, gli influencer o i cosiddetti lettori forti.

Sono, piuttosto, le persone simili a quella che io stesso ero ancora pochissimi anni fa, e che in parte sono ancora oggi: è chi avrebbe anche certe curiosità, certe domande, e forse più entusiasmo che mezzi, e una disponibilità genuina e acerba a vivere la letteratura come un’occasione per conoscere il mondo e arricchire o mettere in crisi la propria esperienza, ma non possiede gli strumenti necessari a decodificare certi linguaggi, non ha avuto il tempo di mettere a fuoco la ragion d’essere di certi problemi o i retroscena di certi cinismi. Io ho avuto la fortuna di andare all’università e di frequentare persone più lucide di me, ma sono cresciuto lontano da ogni metodo e quasi da ogni libro: da un certo punto in poi non ho fatto altro che scrivere e leggere, ma se fossi stato solo un po’ più sfortunato non avrei capito granché di ciò che sia oggi in Italia la letteratura – avrei continuato, più che altro, ad avere l’impressione di un deserto dove ci si ammazza per la sabbia, di un vuoto coperto dall’ego ancora più vacuo degli scrittori, di una corsa senza senso a chi sparisce più in fretta dalle librerie.

Queste immagini così comuni sono desolanti quanto superficiali (oltre che false in buona misura), e che circolino così tanto è un vero peccato: ciò che mi manca è una critica rigorosa ma interessante, delle voci umili quanto intransigenti, un dibattito che almeno provi a suggerire anche a chi non ne sa niente che la letteratura attuale esiste ed è viva anche al di là delle pressioni del mercato e dell’autopromozione di chi la scrive.

Di questa vitalità provo a parlare in concreto ogni giorno nei modi che posso, e qui parlo in astratto – e obbedendo al folletto – di ciò che secondo me la ostacola e la nasconde. Poi vabbe’: è ora di pranzo. Accendo il gas, verso la cannella nel burro. Peso il riso e lecco la crema di nocciola dal mignolo. Mezz’ora dopo ho rovinato una padella. Mi sa che la mia analisi era tutta sbagliata.

IV

Balzac, da qualche parte, scrive che la felicità è poter dire ogni cosa con la certezza di essere compresi.

Questa frase mi commuove. So che il diritto di dire tutto e la garanzia di non parlare a vuoto non piovono dal cielo, e so che non basta protestare contro un linguaggio per creare di colpo un contesto comunicativo diverso. Ma credo anche che chi scrive o studia la letteratura sia un membro della società come gli altri (non deve mettersene al di sotto, non può porsene al di sopra, muore ogni volta che scarta di lato); e quando ci penso capisco una cosa: ciò che mi manca più di tutto è la capacità di ricominciare ogni volta da capo, in ogni testo e ogni frase. Vorrei saper sempre parlare come se ci incontrassimo per la prima volta al bar e stessimo per morire di lì a poco – mi piacciono gli aperitivi, d’accordo, e soffro un po’ di horror vacui; ma magari, in punto di morte, mentire e sproloquiare mi verrebbe più difficile.

Che bello sarebbe! Hai due minuti per dire le cose fondamentali a un altro essere umano… provi a dirle con seria semplicità… ti sbagli, vieni frainteso e (diciamo che) va bene così.

Poi muori e tutto si fa più distante, manca la voce. Lo sfondo diventa scena e la scena diventa sfondo. Non è che ti dissolvi: aleggi. E non è che scompari: ti rarefai. Premi ovunque e tutto preme su di te. Ti sembra che ciò che ti è sempre mancato sia un modo per essere intero. Ti accorgi che, malgrado i buoni propositi, sei caduto ora nel sussiego ora nella sciatteria, ora negli opportunismi ora nell’ortodossia, e tanto hai rincorso la tua libertà che alla fine sei diventato schiavo della tua rincorsa.

E poi lo senti, lo sai. Presto precipiterai per conficcarti nel tuo posto: al quinto piano dell’inferno, tra mendicanti aggressivi e borseggiatori del metrò.

Satana sorride, il risotto con la nutella è quasi pronto.

«La morte sua», ti dice sghignazzando tra palme e liane, «è una spolverata di pistacchio comune».

ARTICOLO n. 41 / 2024

SALVARSI IN TEMPI OSTILI

Antonio donghi a palazzo merulana

Prima di raggiungere Palazzo Merulana, andrebbe attraversata per quasi tutta la sua lunghezza l’omonima via nel cuore dell’Esquilino. Partendo dal teatro Brancaccio giù verso piazza San Giovanni, via Merulana appare infatti come una strada autenticamente romana, ma al tempo stesso profondamente distante da ogni forma di retorica romanità. Al centro di un’infinita aneddotica storico-artistica, via Merulana è un chiassoso e confuso viale dentro al quale i destini dei suoi abitanti e di chi la attraversa s’incastrano di continuo, in un movimento fatto di ritmi diversissimi: facile inciampare l’uno nell’altro. 

Tra attraversamenti impavidi, frenate improvvise, sirene che sembrano casuali e prive dell’urgenza di un malessere reale, prende corpo metro dopo metro l’idea di un rumore ossessivo e impossibile da arginare. Un caos naturale che vive in uno spazio ampio e ventoso come solo certe strade in discesa fatte di corsa sembrano poter presagire. Una regolarità topografica, un viale alberato elegante che non stride però con il confuso flusso vitale che con rassicurante placidità viene invece affettuosamente accolto. 

Un rumore e un’ampiezza che si esauriscono una volta all’interno della piccola e intima esposizione dedicata, al secondo piano di Palazzo Merulana, ad Antonio Donghi. Poco più di trenta opere, un silenzio icastico rotto solo da un gruppo in gita che subito però si muta, colto alla sprovvista dagli sguardi insistiti dei personaggi donghiani, ma anche dalle richieste di un paio di puntuali custodi. Antonio Donghi. La magia del silenzio curata da Fabio Benzi è un’occasione rarissima e preziosa per poter ammirare il grande artista romano che fu tra i più apprezzati della sua epoca, quando i suoi quadri, esposti a New York alla fine degli anni Venti, venivano contesi nelle aste americane e appesi nei salotti dei più illustri collezionisti d’oltreoceano. 

Priva di ogni forma di solerte nostalgia, la mostra è una riflessione attorno alla forza di quel realismo magico che vide Donghi tra i più brillanti esponenti della corrente pittorica. Una tensione fortemente attraversata da ironia, come si può cogliere nell’emblematico dipinto Mussolini a cavallo del 1937, in cui a vincere, più che l’imperio, è il ridicolo di un dittatore dal pretenzioso profilo statuario. Lo spazio del museo è a tratti claustrofobico, si passa a pochi centimetri dalle opere. E questo, invece che predisporre al caos, offre una possibilità inedita di cura e attenzione. Ci si guarda rapidamente negli occhi con gli altri visitatori, si porge il passo per restare poi attoniti davanti alla grazia e all’insistenza degli occhi che, bucando le tele di Donghi, dagli anni Trenta arrivano fino a noi. Figure che rivelano un sentimento di malcelato abbandono, lo stesso che coglie evidentemente noi e loro in un tempo per quanto ormai post, eternamente moderno e quindi infinitamente tecnico e sfuggevole. La modernità di Antonio Donghi sta proprio nell’inganno di prodursi in una ricca ritrattistica del popolare: lavori umili, semplici, che rivelano però l’attenzione per uno stato psichico inedito. 

Siamo nel pieno splendore di una rivoluzione industriale compiuta, ma solo ora la tecnologia sta mutando da mero strumento a elemento portante dell’umano. E l’ironia dello sguardo, e il suo imbarazzo, sembrano così far dialogare a distanza di circa cento anni generazioni diverse, nipoti e trisavoli. Uno sguardo difficile, peraltro, da sostenere. In questo aiuta la misura della mostra, i suoi spazi raccolti e il desiderio compulsivo che si genera di tornare e ritornare sulle opere. Vedere e poi rivedere ancora, ricercare nei particolari un motivo, una possibile scusa per salvarsi, noi con loro, in un tempo così profondamente ostile. 

Le opportunità si confondono con i pericoli, allora come oggi, quasi un unico tableau vivant in cui rispecchiarsi a figura intera, trattenendo il respiro. Gli oggetti sono quelli d’uso comune, un paio di forbici abbandonate, una canna da pesca, un vaso di fiori e un cilindro, tutto è ben disposto come a disposizione di un’indagine. Anche i bellissimi dipinti di paesaggi infatti offrono una prospettiva precisa ed elegante, che va al di là di un’esigenza di composizione e che diviene vero e proprio strumento d’analisi di ciò che resta negli occhi dopo tanto obbligato silenzio. 

Così avviene in uno dei più famosi dipinti di Donghi, Il giocoliere del 1936, che ferma lo sguardo in perenne sospensione. Il giocoliere è ritratto di profilo, in surplace mentre sostiene un cappello a cilindro con una canna serrata tra le labbra. Il palmo della mano, totalmente aperto al centro del quadro, diviene il punto focale oltre che d’equilibrio di un gesto che permane, offrendo forse la parte più erotica e umana in perfetta simmetria con la forma affusolata di un vaso di fiori. Una specie di doppia natura morta, in cui solo la mano tesa sembra poter decidere l’equilibrio finale o il suo possibile ribaltamento. Si vorrebbe non smettere di fissare, per raggiungere possibilmente quell’istante perenne che sembra offrire un’immortalità sicura. 

Anche le figure femminili appaiono ferme e stabilissime: puntano gli occhi sui visitatori invece impacciati, se non imbarazzati. Stupende le Lavandaie del 1922, così come le due donne ritratte in Gita in barca del 1934. In entrambi i casi colpisce l’assolutezza degli occhi, la consapevolezza acquisita, segno di un’emancipazione che contiene in nuce un’idea matriarcale avvolgente e inclusiva. Si resta spogliati da se stessi, in una visione che incanta e al tempo stesso addolora, parentesi tra la ferocia che richiede protezione e armamenti e un silenzio che vorrebbe solo un lungo e delicato abbandono. 

Nato a Roma negli ultimi scampoli dell’Ottocento e morto sempre a Roma nel 1963, quando il mondo occidentale si gode gli anni Sessanta e l’Italia vive il boom economico sotto forma di misticheggiante miracolo dalla cui retorica probabilmente mai si riavrà, Antonio Donghi resta forse il primo tra gli artisti italiani contemporanei a vivere una fama internazionale, restando però al tempo stesso confinato negli anni precedenti la Repubblica. Non tanto e non solo per la sua equivoca convivenza con il regime fascista, ma per una convinzione appartata della pittura e dell’arte, che poco si adatta alle esigenze sociali e culturali del secondo dopoguerra. 

Una qualità estetica capace di cogliere l’umano nella sua discreta e a volte anche mediocre intimità: il tinello, un lavoro umile, una gita fuori porta. Gesti quotidiani che, isolati dal rumore che ritorna prepotentemente una volta tornati lungo i marciapiedi di via Merulana, rivelano il loro infinito valore: quello del tempo vissuto, dei gesti compiuti, magari all’ombra di un pensiero distratto, ma che restano fortemente nei palmi di una mano ancor più che nelle convinzioni di una testa. Sempre più troppo distratta, e abbandonata al pensiero (impossibile) di un rassicurante presente.

ARTICOLO n. 40 / 2024

MANGIARE CRITICAMENTE

intervista di isabella de Silvestro

Peter Singer, filosofo australiano, è vegano da più di cinquant’anni. Nel 1975 ha pubblicato Liberazione Animale, un saggio tradotto e venduto in tutto il mondo che ha contribuito alla nascita del movimento per i diritti degli animali. Singer è un filosofo utilitarista e si definisce consequenzialista: crede che le azioni debbano essere giudicate dalle loro conseguenze. L’azione giusta è quella che porta il beneficio più grande al maggior numero di persone e animali non umani. 

Nuova liberazione animale (Il Saggiatore, 2024) è dunque il ritorno, in edizione aggiornata, di uno dei saggi più influenti del secondo Novecento: un’opera che ha cambiato per sempre il nostro modo di guardare agli animali, ai loro diritti e alle nostre scelte come individui e società.

Isabella De Silvestro: Perché è così difficile passare dall’accettazione razionale del fatto che uccidere gli animali e sottoporli a condizioni di vita orribili per nutrirsi sia sbagliato, alla pratica di smettere di consumare prodotti animali?

Peter Singer: Credo che la ragione principale sia che ciò che mangiamo ha radici culturali molto profonde e per di più è una pratica sociale, qualcosa che in genere non facciamo da soli. Questo rende difficile un cambiamento, soprattutto se motivato eticamente. Se immaginiamo un cambiamento motivato dalla salute, per esempio da un’intolleranza al glutine, siamo sicuri che la gente lo accetterà e non avrà alcun problema nell’offrire alternative gluten free. Quando invece si smette di mangiare carne perché si pensa che sia sbagliato trattare gli animali nel modo in cui vengono trattati, si tratta di una scelta che implica una critica a chi sceglie di continuare a mangiare carne. È già abbastanza difficile cambiare qualcosa che si mangia da molti anni, ma è ancora più difficile farlo se ciò implica una critica sociale.

I.D.S. Ha iniziato a battersi per i diritti degli animali sulla base di argomenti razionali e intellettuali o di una spontanea empatia e compassione?

P.S. Si è trattato senza dubbio di una presa di posizione filosofica. Non provo emozioni particolari nei confronti degli animali. Non mi considero un amante degli animali, non ho e non voglio avere animali domestici. Credo sia stata una decisione razionale che ho preso dopo essermi reso conto dello stato delle cose. Ho approfondito le condizioni di vita degli animali non umani negli allevamenti intensivi e mi sono chiesto se ci fosse un modo per giustificare tutto ciò: ho deciso che non c’era. È facile pensare che si debba avere un legame speciale con gli animali per decidere di non mangiarli, perché chiunque non sente quel legame può sentirsi esonerato dal prendersi certe responsabilità.

I.D.S. Anti-specismo e ambientalismo vanno necessariamente di pari passo? In particolare, crede che l’ambiente abbia un valore intrinseco o solo in quanto habitat di esseri capaci di provare dolore?

P.S. Non credo che l’ambiente abbia valore intrinseco. Ha un grande valore strumentale e pratico per sostenere la vita degli animali umani e non umani, ma non attribuisco valore di per sé a qualcosa che non è in grado di avere coscienza. C’è certamente un potenziale conflitto tra l’attivismo ambientalista e l’attivismo antispecista, ma in termini pratici di solito collaborano senza problemi. Se si parla di dibattito filosofico, le persone con la mia posizione avranno di che discutere con chi pensa che l’ambiente abbia un valore in sé: ho sostenuto questo genere di dibattito e se ne trova testimonianza in alcuni miei libri. Ma in termini pratici stiamo lavorando insieme perché proteggere le foreste e ridurre il cambiamento climatico è un obiettivo che fa bene alla causa anti-specista e viceversa.

I.D.S. Quanto è stretto il legame tra sfruttamento degli animali e capitalismo? Lei parla di case farmaceutiche che conducono test sugli animali non necessariamente per il progresso scientifico o medico, ma per il profitto. Perché la parola “capitalismo” è assente nel suo saggio?

P.S. Certamente il capitalismo è un sistema che, se messo in atto in una società che ha un atteggiamento specista e tratta gli animali come oggetti e non come esseri senzienti, espande enormemente le sofferenze di questi perché è un sistema altamente produttivo ed efficiente ed è guidato dal profitto, quindi farà di tutto per produrre beni al minor costo possibile. Ma la radice del problema non è il capitalismo. Lo stesso accadrà in una società socialista se avrà il medesimo atteggiamento nei confronti degli animali. L’Unione Sovietica trattava gli animali proprio come le società capitalistiche occidentali, quindi penso che la radice del problema sia l’idea che i diritti degli animali non contino. Il capitalismo peggiora la situazione perché è più produttivo.

I.D.S. Lei parla spesso di responsabilità nei confronti delle parti più povere del mondo. Come possono partecipare alla lotta per i diritti degli animali persone con risorse limitate o provenienti da comunità svantaggiate? È giusto che se ne preoccupino?

P.S. Il lettore che io immagino quando scrivo i miei libri sulla causa antispecista è un lettore che ha la scelta di smettere di mangiare carne avendo comunque accesso a una dieta sana e nutriente. Se immaginiamo una persona che vive in condizione di svantaggio e per la quale smettere di mangiare carne o prodotti di origine animale significherebbe non soddisfare il proprio fabbisogno di proteine, credo che in questo caso la moralità della situazione cambi. La lotta antispecista non sarebbe una sua priorità e non mi sognerei di chiedere di rinunciare alla carne. Farebbe un sacrificio molto più grande di quello che fa una persona come me, che può entrare in un supermercato e permettersi tutta una serie di alimenti da cui trae ottimo nutrimento. La responsabilità è di chi ha il privilegio di poter scegliere.

I.D.S. Come risponderebbe a chi sostiene che la caccia non sia necessariamente negativa, dal momento che permette di evitare la dipendenza dalla grande distribuzione e dagli allevamenti intensivi?

P.S. Chi caccia animali selvatici che conducono una vita interamente libera e vengono uccisi nel modo più veloce e indolore possibile arreca meno danno rispetto a chi compra la carne al supermercato. Questo lo capisco. Sicuramente un cacciatore si sta in qualche modo prendendo la responsabilità per la propria scelta: mi sembra più rispettabile del consumatore che scarica su altri l’uccisione dell’animale. Però chiederei comunque: è necessario uccidere animali?

I.D.S. Quanto è importante l’attivismo nella lotta per la liberazione degli animali? Crede che possa raggiungere traguardi politici significativi?

P.S. Io penso che l’attivismo sia fondamentale. È difficile ottenere un cambiamento solo attraverso articoli accademici. Una pressione martellante sulla politica può essere efficace e lo è stato in Unione Europea, ad esempio, molto più che negli Stati Uniti. Ma l’attivismo ha ottenuto risultati anche negli Stati Uniti, dove si rivolge più spesso alle grandi corporation. Qualche settimana fa McDonald’s ha annunciato che userà solo uova di galline allevate a terra. Lo avevano annunciato nel 2015 ma sono stati necessari dieci anni per assicurarsi una fornitura adeguata, dal momento che allora il 90% delle galline negli Stati Uniti erano allevate in gabbia e McDonald’s usa più di 2 miliardi di uova all’anno. 

I.D.S. Lei è un filosofo. Si considera anche un attivista?

P.S. Sì. Ho preso parte a molte proteste e dimostrazioni. Sono stato arrestato per il mio attivismo in Australia, qualche anno fa. Siamo entrati di notte in un allevamento di maiali dove gli animali venivano trattati particolarmente male: avevano catene intorno al collo e potevano muoversi a malapena. Abbiamo contattato i giornali perché tutti potessero vedere cosa accade negli allevamenti intensivi. 

I.D.S. Il libro The Sexual Politics of Meat di Carol J. Adams esplora il legame tra l’oppressione degli animali e quella delle donne nella società occidentale. Adams sostiene che il modo in cui gli animali vengono trattati nella produzione di carne riflette e perpetua dinamiche di potere che contribuiscono all’oppressione delle donne, viste come semplici agenti riproduttivi. Ritiene che un approccio intersezionale sia più efficace?

P.S. Io penso che sia un approccio interessante, ma non penso che il movimento animalista dipenda dalla validità di un approccio del genere. Si può usare per attrarre il movimento femminista verso quello antispecista e ben venga. Ma si può anche sostenere che sono cose diverse. L’obiezione a ciò che facciamo agli animali non dipende dal legame con ciò che facciamo alle donne. Puoi ritenerla una connessione valida ma non è necessaria.

I.D.S. C’è un Paese in cui ritiene che le sue idee siano più facilmente accettate e in cui la direzione presa, anche a livello politico, sia quella dell’antispecismo?

P.S. Ci sono posti dove c’è una forte minoranza che rispetta i diritti degli animali ma non conosco nessun posto dove questo atteggiamento è dominante. C’è molto più rispetto di queste idee in alcuni paesi europei. 

I.D.S. Cosa pensa della carne sintetica?

P.S. Credo che, se sarà prodotta in larga scala e riuscirà ad avere un prezzo competitivo, sarà un’ottima cosa. Però è un processo molto lento. In questo momento è molto più fattibile comprare prodotti plant-based che imitano la carne. Ho assaggiato del pollo creato in laboratorio a Singapore, per curiosità. Ma sa, molti vegani provano disgusto per il sapore della carne perché per anni lo hanno associato alla sofferenza animale, quindi non ne sentono la mancanza. Potrà essere un prodotto utile per chi continua a volere il sapore della carne.

I.D.S. Il futuro sarà vegano?

P.S. Lo spero, ma manca tanto. C’è una preoccupazione crescente per le condizioni degli animali e un’estensione della compassione per altri esseri viventi, che non è più necessariamente limitata alla nostra specie. Il futuro è sempre difficile da prevedere ma la strada intrapresa mi sembra quella giusta.

I.D.S. Le piacciono gli Stati Uniti?

P.S. Ci sono molte cose che mi piacciono e ce ne sono altre che sono semplicemente terribili. Insegno all’università di Princeton da 24 anni. Dal punto di vista sociale preferisco l’Australia, per molte ragioni, ma io negli Stati Uniti ho una posizione molto privilegiata. Princeton è un’università meravigliosa, un posto ottimo per insegnare e lavorare. Credo però che il Governo degli Stati Uniti sia disfunzionale, che la Costituzione dei padri fondatori vecchia di duecento anni presenti delle criticità e che l’idea di un Presidente indipendente dal Congresso non funzioni bene come una democrazia parlamentare. La Bill of Rights viene interpretata dalla Corte Suprema in modi terribili, inclusa l’idea per cui permettere a tutti di possedere armi equivalga a difendere la libertà. Negli Stati Uniti si crede anche che in nome della libertà di espressione non si possa proibire alle persone di donare enormi quantità di denaro a candidati o partiti politici: significa che è il denaro l’elemento dominante nel sistema elettorale americano.

I.D.S. La disuguaglianza è di per sé sbagliata?

P.S. Potremmo dire che una piena uguaglianza sarebbe la situazione ideale ma credo che non sia qualcosa di realizzabile, tenuto conto di come sono gli esseri umani. Non è realizzabile senza un controllo statale forte, pervasivo e invadente, e un controllo del genere non è desiderabile. Sono convinto che sia fondamentale che i governi si preoccupino del benessere dei più fragili, sostengo l’eticità del welfare, del reddito di base universale, dell’assistenza sanitaria gratuita. Ma un’uguaglianza come quella auspicata dagli utopisti o dai socialisti non è desiderabile perché il prezzo da pagare sarebbe troppo alto in termini di controllo.

ARTICOLO n. 39 / 2024

IMPARARE A SCRIVERE IN MODO NUOVO

Pubblichiamo un estratto da Vorrei essere qui (Mercurio) di M. John Harrison da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

I concetti, le idee, li odio. Avere un’idea non significa avere qualcosa da scrivere: avere qualcosa di cui scrivere significa avere qualcosa da scrivere.

Mai privilegiare la fabula. Va bene l’intreccio, ma la fabula è come l’agricoltura chimica.

Portare a conclusione è sbagliato. È tossico. Dedicati a un genere, se ti va, ma dalla posizione più esterna possibile.

Studiati tutto il formalismo hollywoodiano che riesci a reggere, così saprai che cosa non fare. Rompi le strutture, piuttosto che cercare di aggiornarle o affinarle. Non fare giochetti con le aspettative del lettore, mai. 

Al contrario, chiarisci con onestà, franchezza e linearità che non gli darai nulla di ciò che si aspetta. Non sempre ci riuscirai, perché è più difficile di quanto sembra. In fondo sei stato un lettore anche tu. A proposito, ultima cosa. Non sei più un lettore. Sei uno scrittore, quindi non cercare gratificazioni da lettore mentre ti dedichi alla scrittura. 

Non raccontarle mai a te stesso, le storie. Quella relazione romantica, per te, è finita. Da oggi in poi troverai soddisfazione altrove.

Cerca il modo di esprimerle, le cose, piuttosto che riassumerle in due parole per poi sorridere e uscire di scena come se appiccicare l’etichetta su una cosa bastasse a farci i conti per sempre. 

Per tutta la mia vita, la scrittura di genere ha insistito sulla scorrevolezza, specialmente nelle conversazioni riguardo a sé stessa, specialmente nei suoi incontri con la condotta e le percezioni umane, e specialmente se può lasciar intendere che il tentativo di riesprimere o riabilitare un ordinario evento umano non è che la ripetizione di un tropo. 

Se puoi, evita di usare la parola “tropo”, anche nell’intimità del tuo taccuino. La fatica di dire qualunque cosa è sempre la fatica di reinventare la ruota: di distinguere la descrizione di un’esperienza da tutte le altre descrizioni che potrebbero somigliarle. La scrittura di genere preferirebbe sempre che la vita non intralciasse una “bella storia”. 

I teorici della scrittura di genere si appellano alla predilezione per il tropo a scapito dell’esperienza per poter dichiarare banale qualunque argomento tranne il loro.

Comprensibile. Ma è un atteggiamento che tende alla “proscrizione”, piuttosto che alla scrittura. È sostanzialmente liquidatorio.

Mira a costruire uno spazio in cui il lettore si possa orientare soltanto con una specie di sonar emotivo. Intendo uno spazio che pone una distanza sufficiente a creare riverbero, che appare tanto lontano da poter essere sul piano astrale.

Lo spazio del libro necessita di essere grande, vuoto ma risonante, uno spazio in cui i personaggi nemmeno sanno di aver perso l’orientamento. Al suo interno è in corso una specie di invasione aliena o di azione hauntologica o chissà cos’altro, ma avviene a un grado o anche due di separazione. Lo spazio è carico, ma come lettore non sai dove scavare per attingere alle sue risorse; né sai completarlo.

Non sai a che cosa ti vincola il patto. Sarebbe più facile se pensassi

che i personaggi conoscono gli aspetti giusti di sé, invece è chiarissimo che no. Intanto ti tornano indietro gli ultrasuoni riflessi da strutture emotive enormi ma così lontane, lontanissime, che non riesci a distinguerle da affanni passeggeri leggeri come piume.

Una volta, mentre pranzavamo in un ristorante che non era granché (scelta che già di per sé la diceva lunga), un editor mi disse: «Dietro il tuo romanzo c’è una trama valida, il problema è che l’autore l’ha levata quasi tutta». Quell’osservazione così acuta mi sbalordì, ma poi capii che non voleva essere un complimento. 

Questo succedeva prima che entrassi in quella fase in cui gran parte della trama neanche la mettevo. Nel 1968 avevo già la nausea del ticchettio del metronomo strutturale, che teneva insieme la macchina narrativa e la spingeva in discesa verso Hollywood, in tutto ciò

che guardavo, ascoltavo e leggevo. 

È la solita vecchia storia del raccontare storie, è l’unica storia che ne traggo. Che profonda insoddisfazione, sentirmi promettere ogni volta una storia nuova e invece sentirmi raccontare la stessa.

In Justine di Lawrence Durrell (1957) lo scrittore Pursewarden sente che dovrà lasciare il suo prossimo libro «libero di sognare». Da un simile atto di rinuncia consegue la necessità che il testo sia anche «libero dall’onere della forma».

Qui sarebbe importante la rigidità della forma da cui il libro è stato liberato? Il contributo della forma persisterebbe come i resti di una civiltà scomparsa che, a chi attraversa il paesaggio del libro, offre una struttura e subito la nega?

Strutture rotte o crollate, strutture fai-da-te, pezzi di strutture inchiodate e imbullonate usando tecniche più e meno artificiose, strutture cocciute che non soltanto vanno oltre le aspettative ma sembrano anche non fare niente di conoscibile. Si sforzano, al contrario, di suggerire che se ne può trarre qualcosa di diverso, un diverso sistema descrittivo. Al quale sei convinto che si potrebbe accedere, se solo sapessi assemblare gli oggetti e le forme del testo a guisa di chiave. 

Anche il testo si aggrappa a questa convinzione, nonostante le bizzarrie che lo circondano. C’è una misura di motivazioni condivise minima ma sufficiente a tener viva la relazione, a continuare l’esplorazione del territorio.

Autore, lettore e testo si affannano a coprire le distanze che hanno costruito insieme, gesticolando, scocciati gli uni dagli altri eppure legati dall’idea che da tutto questo possa venir fuori qualcosa. I personaggi: porta in superficie il terrore profondo di questi personaggi, la cui vita si regge come una sottilissima membrana iridescente avvolta al nulla. Anzi, più che a un nulla, a tante altre sottilissime membrane iridescenti.

In questo senso, tutte le storie dovrebbero essere storie di fantasmi.

Un altro tipo di spazio è questo: la struttura della storia, nel momento in cui il lettore la affronta, potrebbe fare un effetto simile al ritrovamento di una serie di oggetti dentro un contenitore di materiali non catalogati, appartenuti a qualcun altro. Sfogli le carte, spolveri gli oggetti. Il momento in cui ti eri ripromesso di smettere è passato da un po’, ma nella stanza entra ancora luce. Anziché portare a una conclusione, la fine di ogni storia che fabbrichi cercherà di ricreare l’attimo in cui certi frammenti di prove – che in realtà potrebbero non essere prove – guizzano insieme e alludono alla possibilità di un pattern che peraltro potrebbe non esserci mai stato. Barlumi di significato emotivo che cambiano con la luce, incorniciati da nostalgie incerte. 

La sensazione fuggevole di capire o di non riuscire a capire stati emotivi che, peraltro, potresti esserti inventato. Lo scrittore mira non a diventare uno che esibisce oggetti trovati, ma piuttosto a non riuscire fino in fondo a farsi curatore di cose che potevano esserci, ma anche no. Ovviamente c’è dietro una politica. Che produce sempre, per definizione, la storia di uno o più fantasmi, se non un vera storia di fantasmi.

In questo tipo di struttura annodi un significato a ciascuna immagine sbiadita. Non scrivere neanche un evento, una conversazione, un paesaggio, una veduta dalla finestra sul retro di una scena, che non sia una metafora o non faccia parte di una metafora. Carica tutto il significato possibile su ogni componente che ha un significato. Non temere che si rovesci: produrrà comunque qualcosa di interessante.

Pensa con le emozioni. Tutti, specialmente nella scrittura di genere, pensano che la logica causale e razionale sia l’unica possibile. Non lo è, e produce narrativa tediosa, limitata, disfunzionale. Le metafore hanno una logica tutta loro. Per l’amor di Dio, dopo averle usate non spiegarle mai. 

Non lo so. Cerca solo di stare dentro a quello che fai. Oltraggia l’idea di narrazione oppure l’idea di personaggio, mai tutte e due insieme. 

Se oltraggi uno di questi sistemi di credenze, cioè che a) la storia è possibile, centrale e preziosa, oppure che b) il personaggio non è il prodotto, in continuo mutamento, di relazioni su un altro livello, ma qualcosa di fisso e affidabile quanto basta a generare un “movente”, il pubblico si limiterà a presupporre che sei un incompetente o un pazzo. 

Oltraggiali tutti due, invece, e i lettori balzeranno sul tetto con addosso una specie di vecchio pigiama o camicia da notte, a scampanare e avvertire questa cittadina del Texas: «Ha sbagliato! Ha sbagliato!», mentre cerchi di svignartela come un finto lottatore messicano su un cavallo rubato nella notte, uno che ha perso la scommessa contro di sé e contro il sistema che un tempo amava eccetera eccetera.

ARTICOLO n. 38 / 2024

ERA PRIMAVERA

G ha deciso di buttarsi nella tromba delle scale in una mattina di aprile.

La festa era finita da poco, la droga anche. Spenta la musica, vuotati i bicchieri, gli ultimi ospiti erano usciti silenziosi dall’appartamento del sesto piano. Uno sciame composto e vestito di nero. Indossavano occhiali da sole e si muovevano in modo goffo, tutti quanti, cercando di non farsi notare troppo nella luce del giorno nascente.

I gesti bruschi e meccanici di chi ha mischiato cocaina e alcol fino a poco prima, le mascelle serrate e il respiro affannoso. Odore di sudore, ma nessuno di loro lo sente, le narici hanno smesso di funzionare da tempo.

Una volta arrivata all’incrocio, due palazzi più avanti, la bizzarra compagnia si è divisa senza salutarsi.

In quel momento – quando tutti se ne andavano, la droga non era ancora scesa ma fuori stava sorgendo il sole – vivere era terribile. E la paranoia diventava corrosiva.

Non dormirò mai, si ripetevano ogni giorno centinaia di persone sotto il cielo albeggiante di Milano, digrignando i denti come grosse cicale disperate.

Non dormirò mai, scandivano piano, cercando di prendere aria, di abbassare il ritmo del respiro.

La fine della notte era il momento peggiore per noi: per chi lavorava fino al mattino e s’infilava in un letto subaffittato da studenti fuori corso; per chi usciva dai locali in chiusura e doveva barcollare verso casa; per chi finiva la droga e strisciava verso la luce fingendosi sobrio sotto il peso degli sguardi altrui.

Sembrava un incubo, una processione di zombie, ma era la routine. E come succede con ogni routine, alla lunga nessuno la sentiva più come un peso: a Milano, in quegli anni, funzionava così tutte le sere. È questa la fregatura dell’abitudine: la puoi sviluppare con tutto, perfino con la noia.

Con l’arrivo del buio brulicavano per strada gruppi di persone vestite come delle rockstar, jeans attillatissimi, stivaletti chelsea anche in piena estate, camicie sbottonate fino a metà, chiodi in pelle o blazer dal taglio squadrato, cappelli a tesa larga o ciuffi indie, pezzi di corpo immacolati dai tatuaggi o tutti ricoperti di inchiostro come i rockabilly.

La città prendeva vita e un’intera generazione conquistava il suo spazio notturno: strette di mano che si passavano buste, i telefonini ancora con lo schermo piccolo e i tasti veri, e una rubrica fornitissima di numeri sempre disponibili. Gli angoli delle strade presidiati a qualsiasi ora, i bar pieni, la zona degli strip club con ragazze bellissime dai nomi inventati, i concerti negli scantinati di band famose in tutto il mondo, i club glamour dove il jet-set internazionale veniva a devastarsi.

Milano viveva una doppia esistenza: di giorno la città grigia degli uffici, la borsa, le fabbriche, il fatturato, di notte la metropoli piena di luci in cui perdersi era questione di un attimo.

Le feste duravano giorni, spingendo la notte più in là. Nessuno di noi voleva arrendersi: volevamo ribaltare il ritmo circadiano, fare del ritorno a casa una minaccia vaga e astratta, trasformare quell’attimo in cui saremmo stati nel letto mentre fuori c’era il sole in un pensiero distante e nulla di più.

Nessuno di noi voleva vedere il giorno perché di giorno non avevamo spazio; il mondo della notte invece ci aveva accolto con le sue braccia lunghissime, offrendoci tutto quello di cui avevamo bisogno: soldi facili, lavoro, anestetici per rendere meno dolorosa la caduta.

G ha deciso di buttarsi nella tromba delle scale in una mattina di aprile.

Mi fa strano iniziare questa storia proprio da G, eppure continua a tornarmi in sogno, come il fantasma di un Natale passato. Nella mia testa, dopo tutto quello che è successo, è diventato il simbolo della nostra generazione dispersa in quella città all’inizio del nuovo millennio.

G si è buttato nella tromba delle scale in una fottuta mattina d’aprile.

Ha preso la rincorsa e si è lanciato nello spazio tra le ringhiere e la colonna dell’ascensore, atterrando proprio di fianco alla portineria.

Un volo secco, improvviso, non premeditato, senza biglietti, regali, pensieri. 

Quando i vicini hanno provato ad avvisarci della sua morte noi dormivamo ancora. Il giorno, dopotutto, era il nostro momento di riposo.

Le ore successive alla notizia sono state febbricitanti.

Le giornate seguenti, fino al funerale, sono state sommesse e amare come se nessuno volesse parlare. Come se la colpa fosse di tutti. Come se il prossimo a volare dalle scale potesse essere chiunque tra noi.

Poi, semplicemente, abbiamo smesso di parlarne. Quasi non fosse mai successo.

Eppure ho pensato tantissimo a G, in questi anni.

Ho pensato più a lui che a chiunque altro di quel mio vecchio gruppo di amici e colleghi e conoscenti, che con me hanno diviso lo spazio di quella città e di quegli anni così veloci.

A lungo mi sono chiesta come mai G avesse scelto di buttarsi dalle scale dentro al palazzo e non all’esterno, nel giardino condominiale pieno di alberi e margherite, nel sole primaverile.

Poi, un giorno, quando ho pensato che la prossima a lanciarsi nella tromba delle scale sarei potuta essere io, ho capito. È la praticità a darti le risposte. Ho iniziato a covare quel pensiero intrusivo, e subito mi sono accorta di quanto siano i dettagli a fare la differenza. Perché Kassovitz nell’Odio ha detto una cazzata: il problema invece è proprio la caduta, non l’atterraggio.

Ed è davvero elementare.

Se durante la caduta ti accorgi che stai morendo, all’atterraggio mica ci vuoi più arrivare.

Ma se durante la caduta sei incosciente, l’atterraggio allora perde di valore. Se mentre precipiti ti spacchi il cranio sbattendo contro ogni ringhiera, dal sesto piano fino al primo, se nel frattempo perdi conoscenza e ti schizza il cervello sulle porte dei vicini, tu dell’atterraggio non ti accorgi neanche.

G è arrivato al suolo con due sicurezze: che dal volo non sarebbe uscito vivo, ma che almeno non avrebbe sentito il colpo finale. Perché forse era proprio quello il problema: l’impatto.

E mi ha fatto sorridere e rabbrividire vedere finalmente quanto l’ultimo volo di G nella tromba delle scale in quella maledetta mattina di aprile riassuma chi siamo stati noi in quegli anni a Milano.

Era primavera, stavamo cadendo e lo sapevamo perfettamente.

© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Il racconto è un estratto da Animali notturni (Einaudi), il primo romanzo di Carlotta Vagnoli da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

ARTICOLO n. 37 / 2024

È AMORE SE TI TRAVOLGE

Pubblichiamo un estratto da Le postromantiche. Sui nuovi modi di amare (Laterza). Ringraziamo l’editore per la disponibilità

Era il 1977 quando in Francia uscì Frammenti di un discorso amoroso, scritto da Roland Barthes per dimenticare e sublimare un amore non corrisposto. Si narra che Barthes, innamorato pazzo e dolente, abbia deciso di consultare lo psicanalista Jacques Lacan il quale, vedendolo in quello stato, gli avrebbe detto: “Guarda, lascia perdere”. Barthes seguì il suo consiglio e al tempo stesso lo trasgredì. Pose fine alla storia d’amore e iniziò la scrittura dei Frammenti.

Non so se questo aneddoto sia vero – me l’ha raccontato Arturo, mio fratello, il tipo di persona che sotto l’ombrellone legge tomi di teoria lacaniana, per cui tendo a credergli quando si parla di queste cose. 

In ogni caso è una storia verosimile perché i Frammenti non sono soltanto un’opera di semiologia, ma anche la celebrazione dell’innamorato e del suo discorso. Un libro scritto sull’amore, ma anche in amore.

Scritto da chi ama e rivendica la sua posizione. La afferma e la esalta, in risposta a quelli che l’amore non lo considerano degno d’impresa intellettuale e a tutti i cosiddetti “normali” che non ci sono caduti – non ancora.

L’osceno straparlare dell’innamorato diventa visibile e degno d’attenzione: posto al centro della scena. È come se un innamorato finalmente uscisse dalla sua tana – metaforica e non – ed esibisse il suo monologo interiore davanti a tutti, in mezzo alla strada. L’effetto è strabiliante: non è il discorso di ­­­un pazzo ma la danza di un virtuoso, un “semiologo selvaggio”, un sovversivo! 

E quindi non possiamo che alzarci in piedi e applaudire gridando “Anch’io! Anch’io!”, perché sentiamo che quelle fantasie esagerate, quelle immagini straripanti e quelle ipotesi improbabili che ci hanno avvinto durante notti insonni e giornate infinite non sono il materiale scandaloso di un’anima scimunita, un delirio privato senza senso, ma l’espressione di un’esperienza collettiva e condivisa. Grazie a Barthes, l’innamorato non è più solo.

Così è stato per me. Nella mia cameretta di adolescente alla fine degli anni Novanta, da Roland mi sentivo compresa e difesa. Leggevo e rileggevo le pagine sull’incontro, la dedica, l’abbraccio, l’abbandono…, e ritrovavo il filo dei miei discorsi di ragazza che s’innamorava volentieri. 

La mia copia dei Frammenti – un volumetto Einaudi, in copertina il particolare di un quadro del Verrocchio con due mani che si sfiorano sullo sfondo di velluti d’altri tempi – mi ha seguita da Firenze a Londra e porta ancora le sottolineature fatte con il 2B che usavo al liceo per disegnare; molti passaggi sono segnati da tre righe scure, in alcuni casi rafforzate da punti esclamativi enormi. 

Non credo di aver letto nient’altro con così tanto trasporto, di essermi sentita così capita da un libro. Finalmente potevo confessare l’imbarazzante patimento in cui mi gettava l’attesa di una telefonata: c’era il telefono fisso e ogni trillo poteva essere un segno che quel tizio dalle apparenze poco raccomandabili che avevo baciato alla festa del vino novello si fosse proprio innamorato di me, folgorato dai miei occhi e dalla mia sottana, come Petrarca con Laura in chiesa il giorno di Pasqua. 

Stato d’animo che ero costretta a nascondere con amici e parenti: mi avrebbero subito rimproverata di farmi “troppi film”. “Non è che mi faccio i film”, avrei voluto gridargli. “Barbari! Io genero immagini, enuncio, danzo. Guardate che bellezza questa temporalità che m’inchioda alla fatale mia identità d’innamorata!”.

Volevo tantissimo innamorarmi come i personaggi di cui avevo letto nei libri e che avevo visto in tv. Al contempo seguivo il copione di una sessualità scevra da moralismi e tuttavia ancora governata da assunti misogini e spesso ridotta a un bene di consumo. Facevo casino. Cercavo di realizzare l’improbabile crasi tra Carrie Bradshaw e Anna Karenina.

Nelle performance sessuali si celava la speranza che la mia bocca o le mie mani potessero trasformare un tamarro senza nome in un contemporaneo Werther; all’indomani di amplessi etilici in parcheggi periferici declamavo sonetti invocando un segnale che non sarebbe mai arrivato: «O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne, / fonte se’ or di lagrime nocturne, / che ’l dì celate per vergogna porto». Puntualmente mi ritrovavo sola con il dubbio di essere un’idiota.

Vivevo come una colpa il non riuscire a combinare condotta sessuale promiscua e incanto d’amore. Barthes mi assolveva e consolava.

Perché i Frammenti non sono soltanto il “ritratto strutturale del soggetto romantico”, ma anche la grandiosa apologia della sua specifica jouissance, cioè del modo in cui gode del dolore in quanto varco esistenziale per un di-più di verità. Una verità sull’essere cui si accede proprio attraverso l’esperienza amorosa.

L’espressione inglese to fall in love cattura il potenziale rovinoso di questo legame. C’è una vitalità festosa, ma anche un rischio oscuro: l’amante si può perdere, può impazzire (l’amore romantico è amore folle), non solo il suo equilibrio ma la sua stessa esistenza sono in pericolo.

A seguito dell’incontro con l’amato, scrive Barthes, entriamo in un tunnel: quella «lunga sequela di sofferenze, dolori, angosce, sconforti, rancori, impacci e tranelli» che ci porta «a vivere incessantemente sotto la minaccia di un decadimento che coinvolgerebbe contemporaneamente l’altro, me stesso e l’incontro che ci ha scoperti l’uno all’altro».

Ripenso spesso alle esperienze della mia formazione sentimentale, quando ricamavo su un incontro occasionale i ghirigori dell’amore assoluto. Un modo di cercare e interpretare l’amore che ha formato il mio sentire e che avrei visto ripetersi, salvo variazioni di intensità, maturità e circostanze, anche negli anni a seguire, fino all’età adulta. 

Ricordo in particolare il sabato in cui andai per la prima volta a ballare (i pomeriggi di domenica all’Happyland di Campi Bisenzio non contano). Ero uscita dalla finestra (l’unica fortuna di stare al piano seminterrato), e avevo messo un cuscino sotto le coperte come avevo visto fare a Joey e Dawson. Avevo seguito alcuni amici più grandi di me al Jaiss, una discoteca a Empoli che solo molti anni dopo avrei scoperto essere stata tempio della techno anni Novanta. 

Mi ero messa gli anfibi con la suola chiodata e la punta di ferro. Andavano bene per impressionare (o credere di impressionare) i punk del liceo artistico, ma erano del tutto inadatti al ballo, da quella volta in poi solo scarpe da ginnastica nei club. I piedi mi facevano malissimo, ma chi se ne frega però, perché a un certo punto ero diventata così leggera che alle scarpe non ci pensavo più. Pensavo solo a Guido, che era bello: gli occhi allungati, una cicatrice sullafronte, le labbra perfette. Ci baciammo per ore sui divanetti della “zona relax”, tra cartoni di acqua naturale di montagna e leccalecca panna e fragola. I sensi allertati, gli organi interni smossi dai bassi, ogni zona erogena, tutto il corpo, tutto il cuore, tutto teso verso Guido, ragazzo di cui non sapevo assolutamente nulla. Tranne il nome, che guidava un Booster giallo con la marmitta truccata e che una volta aveva preso sei pasticche tutte insieme.

­­­Il lunedì, da sola a casa e con la mascella ancora indolenzita, aspettavo che mi chiamasse. A quella telefonata ero appesa come a un verdetto. La mia amica Francesca lo diceva sempre: «chi ama, chiama». E allora doveva chiamare. Come poteva non riconoscere il significato di quei baci? Di quelle mani calde nel buio, con la musica dritta nella cassa toracica, la bocca impastata sul treno della mattina, il tè col limone al bar della stazione di Rifredi? 

Per me, questi dettagli erano andati a comporre la scena dell’incontro, l’immagine che mi aveva “rapita”. D’altra parte, lo diceva anche Roland Barthes, l’incontro d’amore lo si costruisce solo retroattivamente, come punto di inizio mitico della storia, e io ventiquattro ore dopo la serata al Jaiss mi ero già messa all’opera.

La telefonata di Guido serviva da conferma che ci avevo visto giusto, che davvero quello poteva essere stato l’incontro d’amore. E allora aspettavo. Per qualche giorno il mio impegno principale fu attendere.

Vista dall’esterno sarei potuta sembrare scema, chiusa in camera per interi pomeriggi, pronta a scattare al primo squillo del telefono, inviperita se mio fratello occupava l’apparecchio per più di due minuti. 

Roland lo sapeva, e lo sapeva spiegare con parole così belle che la realtà ne usciva trasfigurata: attesa. Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni). […]L’attesa è un incantesimo: io ho avuto lordine di non muovermi. L’attesa d’una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, allinfinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio); per la stessa ragione, io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea che di lì a poco dovrò uscire, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della Madre, mi tormenta. 

Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano, senza far niente.

Che poi è la stessa cosa che dice (con parole un po’ meno belle) Max Pezzali quando si domanda disperato «Come mai / ma chi sarai / per fare questo a me / notti intere ad aspettarti / ad aspettare te». 

Eravamo tutti d’accordo, io, Roland e Max, sul fatto che l’attesa sembra essere una stasi ma non lo è: ci diamo un gran daffare a rincorrere e ricreare immagini affastellate di abbandono e coronamento, pronti a riconoscere e interpretare i segnali del cosmo, a cogliere l’ispirazione per scrivere “chilometri di lettere”.

Il punto è che ero decisa a innamorarmi e scommettevo su Guido, la cui unica mossa, a ben vedere, era stata quella di darmi una pasticca di ecstasy con una buona percentuale di MDMA. Il dubbio che quella notte poteva non essere stata la versione contemporanea e un po’ tamarra dell’incontro del Petrarca con Laura, ma una triviale “pomiciata in discoteca, fatti d’emme”, non riusciva a intaccare il mio afflato poetico e produceva anzi altri e nuovi stati d’animo lirici: accorati pensieri sulla terribile scissione tra una realtà volgare, cinica e ottusa, e l’ardire meraviglioso della fantasia d’amore.

Scissione dolorosa, certo, ma in verità ero contenta mentre soffrivo: la fantasia di un amore romantico era proiezione di un mondo altro, e soffrirne la mancanza un modo per evocarlo, per farlo esistere nella sua assenza.

Mi accorgo di essere cresciuta riconoscendo nella sofferenza un sintomo inequivocabile dell’amore. Per anni, ben oltre l’adolescenza, mi sono gettata nei drammi iniqui di relazioni ­­­impossibili per potermi identificare nell’amore attraverso il tormento.

Mi sentivo attratta da uomini con situazioni difficili, geograficamente lontani, clinicamente depressi, (in)felicemente sposati, mentalmente instabili, emotivamente immaturi, oppure semplicemente stronzi.

Sapevo che non erano all’altezza del sentimento amoroso, ma ciò non mi impediva di sovrascrivere una narrazione romantica alla banalità modaiola dello “scopare in giro”.

Non volevo un amore qualunque, un amorazzo da rotocalco buono per le sale d’aspetto. Volevo un amore con la A maiuscola: quello che ti travolge e ridefinisce il senso di ciò che è avvenuto prima e di quello che avverrà nel futuro. «In un Evento, non cambiano soltanto le cose, ma cambia anche il parametro col quale misuriamo i fatti del cambiamento stesso: un punto di svolta modifica l’intero campo all’interno del quale i fatti appaiono», ha scritto Slavoj Žižek. 

L’amore-evento che stavo cercando doveva essere un’esperienza capace di sovvertire l’equilibrio dell’io, di scompaginare le coordinate del mondo per come lo avevo conosciuto fino a quel momento.

La prima volta che lessi Madame Bovary non mi resi minimamente conto dell’ironia di Flaubert che, come appresi in seguito, con il romanzo voleva mettere alla berlina gli stilemi del romanticismo, smontare la figura dell’innamorato che si strappa le vesti e i capelli per rivelarne l’animo sciocchino e impressionabile. Io però ero dalla parte di Emma: una ragazza giovane che secondo gli usi del tempo sposa un uomo che lei non ama, ma che può offrirle una vita materiale dignitosa.

Charles Bovary è un medico di campagna zelante e sempliciotto che la intrappola in un matrimonio alienato, di cene appiattite da silenzi volgari. Lei ha sogni diversi, non le importa di essere madre e moglie, guarda con sospetto la bambina che ha partorito, i gesti di Charles la disgustano. Sola in casa legge romanzi immaginando la vita di Parigi: teatri, poeti e tessuti pregiati, artisti carismatici che potrebbero prenderla e portarla via, lontano dall’immensa noia di Yonville. Invece gli uomini che incontra nella vita reale e di cui sarà amante si riveleranno meschini e bugiardi, Emma lo sa ma non può accettare una realtà così insulsa, una “vita insufficiente”. Resiste al disincanto. Si suicida.

A me questa parve la storia di una donna che si ribellava a un mondo imbecille. A ucciderla non era stata la letteratura che aveva sfrenato la sua immaginazione. Era stata uccisa dalla vigliaccheria e dall’opportunismo di Rodolphe, dalla piccolezza di Charles. Era la realtà a non essere all’altezza di Emma, non lei idiota perché incapace di accettarne lo squallore. All’università scoprii con sorpresa che con il termine bovarismo, coniato da Jules de Gaultier nei primi anni del Novecento, si indica la facoltà di credersi ciò che non si è, di credere cioè alle fantasie che ci fabbrichiamo per convincerci di essere diversi e di vivere in un mondo diverso.

Ci rimasi male. Per me Emma era (e resta) un’eroina vittima dell’ostinata indifferenza delle cose alla maestà del desiderio. Certo, io avevo un vantaggio conoscitivo rispetto a lei: sapevo che le passioni vanno nascoste, che è sempre meglio fingersi disinvolte, impermeabili, perché va bene tutto ma mai mostrarsi deboli. Perciò mai chiamare per prime, resistere alla tentazione di rispondere subito a un messaggio, non esaltarsi troppo per un invito e, soprattutto, non lamentarsi mai per un’attenzione non ricevuta, una telefonata mai arrivata.

Bisogna essere cool. Così si conquistano gli uomini. Questi i precetti diffusi dai manuali simbolo degli anni Novanta e Duemila come Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (1992), il saggio più venduto di tutta la decade secondo la CNN; oppure La verità è che non gli piaci abbastanza ­­­(2004), bestseller da cui fu tratto l’omonimo film, un grande successo al botteghino.

Io non li avevo letti e non avevo nemmeno visto il film. Ma queste “grandi verità” percolavano già nelle telefonate con Francesca: «Che faccio lo richiamo Marco?», «No! Aspetta che ti chiami lui!». Non lo chiamavo, ma quando chiamava lui dicevo sempre “sì”. Mi spiegava che non voleva una relazione – forse perché era ancora innamorato della sua ex ragazza, più bella di me? più magra di me? più brava di me? –, passavamo le notti a parlare e bere vino rosso in camera sua, ascoltando la musica. Quando mi voleva io mi spogliavo e speravo sempre di poterlo avere addosso più di quei pochi istanti. 

Persino l’annoso problema dell’eiaculazione precoce mi sembrava il segno di una mia manchevolezza, e mi dicevo: “è stato bellissimo lo stesso”. 

Una sera andammo al cinema, un film d’autore in bianco e nero perché noi non eravamo tipi da blockbuster. Avevamo passato la notte insieme. «Stasera vedo una che mi piace», disse, «si chiama Jacqueline, è di Lione, pensavo di invitarla a uscire con noi». Invece di scoppiare a piangere e piantare una scenata – perché come ti viene in mente di dirmi una cosa del genere quando poche ore fa eri dentro di me, cioè non “vicino” o “accanto”, proprio dentro, e quindi vaffanculo –, ecco invece di dire questo, risposi: «Certo, ma che bella idea, vengo anch’io!».

E andai davvero, a vedermi la scena di lui che imbroccava Jacqueline con le stesse mosse e parole con cui aveva poche settimane prima rimorchiato me. Ordinai uno shot di tequila, cominciai a ballare con uno sconosciuto e lo baciai in mezzo alla pista anche se non mi piaceva com’era vestito e aveva i capelli un po’ troppo corti. Alle tre di notte tornai a casa ubriaca, prima di entrare mi sdraiai a stella sulla ghiaia del parcheggio guardando le stelle coperte dalla nuvole e le cime blu dei cipressi scuri nella notte scura. 

Avevo fame e decisi di farmi una valdostana fritta, pasteggiai a whisky. Poi un pianto sull’impossibilità del vero amore, Roland Barthes, e a letto. In questa scissione tra discorso amoroso e incontri occasionali ci siamo trovate in molte, e ci siamo sentite strane.

Ci ha preso il legittimo sospetto che imbastire la trama romantica su amplessi casuali e mediocri sia soltanto un esercizio di stile, con il rischio di rimanere incastrate in relazioni ridicole, o addirittura tossiche, di svegliarsi dopo qualche settimana di estasi e rendersi conto che okay, è un cretino, oppure di soffrire senza motivo, per giorni e giorni, talvolta mesi, per uno che non si sa nemmeno chi è. E però allo stesso tempo siamo state incapaci di smollare il sogno di un amore, dandoci una gran pena a concederci e poi ritrarci, tessere per scucire, tutto un fare e disfare fino a non capirci più niente.

Ora, quest’impasse non deriva da un difetto di fabbricazione dell’universo o dalla nostra innata deficienza, piuttosto dalle contraddizioni insite nell’idea di amore cui siamo state esposte nel corso delle nostre vite: da una parte l’utopia romantica, e dall’altra l’interpretazione del sesso come svincolato dai sentimenti. Un ossimoro che è stato il nucleo della nostra educazione amorosa, e che ancora ci dà tanto da parlare, a me e alle mie amiche, a noi che siamo romantiche inguaribili ma che del romanticismo abbiamo anche capito l’artificio, noi che il sesso ci piace eccome ma che in molteoccasioni avremmo preferito dire: “anche no”.

ARTICOLO n. 36 / 2024

VENTI GIORNI PRIMA

Pubblichiamo un estratto da Tre notti (Rizzoli). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Non lo vedeva da quel giorno all’ospedale. Andrea scorse la Fiat 127 parcheggiarsi davanti al cancello di casa loro. Da dietro la tenda della finestra del salone che dava sulla strada, vide scendere suo padre e stentò a riconoscerlo. Era magrissimo. Gli sembrò anche più alto. Lo vide chiudere lo sportello della macchina faticosamente, come se pesasse dieci volte di più. Gli sembrò che avesse la testa più triangolare, rispetto alla forma che ricordava. Vide suo padre appoggiare le mani sul cofano della macchina per riprendere fiato, poi incamminarsi verso la salitella che conduceva al portone. Prima che sparisse dalla sua vista, notò che gli abiti gli andavano grandi. I pantaloni erano stretti intorno alla vita sottile, mentre le gambe sembravano non esserci dentro alla stoffa, per quanto era abbondante. Camminando in modo incerto e appoggiandosi alla ringhiera del cancello, Dante sparì dalla vista di Andrea.

Ora l’uomo stava suonando al campanello di casa. Quella che era, ancora, casa sua.

La madre andò ad aprire. Il fratello era seduto al tavolo nella sala da pranzo, apparecchiata a festa, con tanto di tovaglia e servizio buono, per l’occasione. Andrea stette in piedi, tra la porta della sala e l’ingresso. La madre aprì la porta e, forse, non era pronta neanche lei a trovarsi davanti quel che restava di un uomo mangiato da un cancro.

Dante la salutò, con una voce che stentava a farsi udire. Come se il fiato non arrivasse a sostenerla.

La madre lo prese per mano e lo sostenne per sorpassare la soglia. Poi si girò verso Andrea, per farsi aiutare a farlo camminare.

L’uomo alzò lo sguardo sul figlio, riuscì a dire un ciao e a sorridere di una gioia che sembrò reale, nel rivederlo e nel rientrare dentro casa sua. Si guardò intorno, mentre lo sorreggevano verso la sala da pranzo. Ad Andrea parve talmente stanco da essere sul punto di addormentarsi. Arrivarono in salone, aiutarono Dante a togliersi un goffo borsello a tracolla che non gli avevano mai visto e il giubbotto, che gli stava come fosse di qualcun altro. Dante fece una carezza sulla testa del secondo figlio, rimasto seduto, composto e immobile. Forse ebbe paura di quell’immagine di uomo dalla cera grigiastra, con la pelle sottile e gli occhi enormi incassati in una testa tremendamente magra. Dante si sedette in quello che era stato da sempre il suo posto a quella tavola. Andrea ebbe la sensazione che si potesse spezzare se avesse fatto un movimento brusco. La madre era preoccupata e stupita. Disse al marito che non sarebbe dovuto venire in quelle condizioni, che guidare era pericoloso e che aveva messo in pericolo lui e gli altri per strada. Dante rispose che stava bene e non c’era pericolo. Andrea aiutò la madre a portare i piatti in tavola, tortellini in brodo, mentre il padre scambiava le parole che poteva con il figlio piccolo.

Mangiarono pressoché in silenzio. Dante ogni tanto chiudeva gli occhi, per riaprirli subito dopo. Oppure fissava lo sguardo in modo assente. La madre continuava a far finta di niente e a incitare i figli a parlare, a raccontare al padre qualcosa della scuola. Dante chiese di andare in bagno. Lo accompagnarono, gli chiesero se avesse bisogno di aiuto, ma lui disse che no, non ce n’era bisogno. Andrea e la madre chiusero la porta del bagno e tornarono in salone. La donna spiegò ai figli che era l’effetto delle medicine, fortissime, contro la malattia. Stettero in silenzio, anche per ascoltare ogni minimo segno che arrivasse dal padre. Non sentirono nulla per svariati minuti, allora si alzarono e prima stettero all’erta in corridoio, indecisi sul da farsi, poi aprirono la porta.

Dante dormiva seduto sul water, con la schiena sottile poggiata al muro e le braccia abbandonate lungo i fianchi.

Allora la donna lo destò con delicatezza, e nel farlo notò lo sgomento di Andrea, che osservava e stava pronto ad aiutare.

Dante sembrò riprendersi. Lo aiutarono a rivestirsi e, a quel punto, mentre gli stringevano la cinta dei pantaloni, Andrea realizzò quanto magra e stretta fosse la vita del padre. Quanto magre fossero le sue braccia. Quanta fatica aveva fatto per arrivare lì, guidando dalla campagna.

La madre si offrì di accompagnarlo. Insistette a più non posso, ma non ci fu verso.

Dante salutò il figlio piccolo, tenendo più tempo possibile le braccia sulle sue piccole spalle e guardandolo insistentemente.

Salutò la moglie – ancora lo era, non avevano divorziato mai legalmente – e tentò di abbracciare Andrea.

Il figlio avrebbe voluto abbracciarlo fortissimo, ed essere stretto da lui, ma quello che ricevette fu simile a un lenzuolo appoggiato addosso, talmente poca era la forza che riuscì a mettere il padre nell’abbraccio.

Si staccarono e l’uomo restò per un attimo a guardare il figlio.

Andrea lesse negli occhi del padre un dispiacere e un dolore che lo scossero. Poi Dante abbozzò un sorriso, a lungo.

Guardò allo stesso modo la moglie. A lungo.

Fece la stessa cosa con il secondo figlio, che era in piedi nel corridoio, a lungo.

Non volle nemmeno essere accompagnato alla macchina. Girò le spalle da cui si percepivano le ossa delle scapole e, lentissimamente, richiuse la porta di casa dietro di sé.

La madre e i due figli si affacciarono sul balcone. Lei li tenne abbracciati da dietro. Lo videro aprire a fatica lo sportello della 127 blu, quasi si muovesse al rallentatore. Dante alzò lo sguardo un’ultima volta. Nessuno fece altro, se non guardarsi. Lo videro entrare in macchina, fare manovra con difficoltà e allontanarsi nella strada.

Fu il suo modo di salutarli e, forse, di chiedere scusa.

ARTICOLO n. 35 / 2024

IL CAPITALE MUSICALE

SIDE A

Ascolto il nuovo brano dei British Murder Boys e al termine della riproduzione la app mi avvisa che non esiste una radio della canzone appena ascoltata. Forse perché è uscita oggi, forse perché è roba anche un po’ di nicchia e quindi il ricco algoritmo che guida gli ascolti non del tutto casuali seguenti a una nostra scelta, davanti all’ultima release dei BMB, alza le mani e dice “veditela te, che ascolti ‘sta merda”.

Non mi sento di dargli torto, quindi faccio play sull’album di altra gente di quel giro lì e vado avanti nelle mie attività.

Ancora oggi, dopo molti anni da utente delle piattaforme di streaming, trovo sorprendenti i loro pregi e i loro difetti. In un tempo che mi sembra preistorico l’algoritmo di Spotify mi ha permesso di conoscere molta musica davvero per caso. Partendo da un punto e finendo altrove. Per prendermi in giro dicevo che “andavo in gita su Spotify”, come fosse un autobus di cui ignoravo il capolinea. Un capolinea che non c’era e non c’è, perché idealmente potrei stare in ascolto casuale per un tempo indeterminabile a priori. Non esiste una feature che ti avvisi di quanto lungimirante sarà l’algoritmo messo in moto dalla tua unica e ultima scelta arbitrale. Sei davanti al baratro, ma non sai quanto durerà la caduta.

Poi, da bravo indie kid formato nei primi 2000, ho lasciato Spotify perché non era più quello di prima. Era meglio il demo, diciamo.

Ho lasciato Spotify per due motivi di natura tecnica: l’algoritmo di suggerimento cominciava a mostrare la corda e a non appassionarmi più, e poi la qualità di riproduzione era (ed è ancora) di scarsissima qualità. Mai stato un audiofilo, ma lavorando con la musica da un paio di decenni a un certo momento non ho più saputo reggere l’ascolto. Tuttavia, il vero motivo per cui ho abbandonato con gioia il player più usato al mondo è che nel mio personale percorso di rettitudine per diventare “il migliore compagno possibile”, non riuscivo più a reggere l’idea di finanziare una piattaforma che è un insieme di negatività per me che, per l’appunto, non sono più solamente un appassionato della musica, ma sono un lavoratore della musica.

Non entrerò nel dibattito sulle revenue da streaming. La verità è talmente sotto gli occhi di tutti che è ridicolo sottolinearla ancora una volta. Non c’è una piattaforma che si salvi, ma in fin dei conti va bene così, l’importante è volersi bene, no?

Ho lasciato Spotify per questo suo viziaccio di trattare la musica e gli ascoltatori come dati metrici, puramente quantitativi. Numero di ascoltatori mensili, numero di play, numero di ascoltatori per playlist, le stelline ai podcast e via così. Mi sono chiesto: davvero voglio finanziare con 10€ al mese qualcosa che sta facendo del male al mio mestiere e alle persone a cui voglio bene? Persone cioè tutte le persone che hanno un loro brano o hanno partecipato alla realizzazione di almeno un brano che sta lì dentro. Perché malgrado tutto la maggioranza degli artisti presenti nelle piattaforme sono persone che ritengo colleghe e colleghi, mai avversari. Parola che riservo a chi è davvero molto ricco. Ma è un altro discorso.

Non riesco a digerire che la app più usata per ascoltare la musica sia una piattaforma che ha come unico interesse la pubblicazione di dati di misurazione sul prodotto culturale che dice di voler diffondere. Questo unico interesse è figlio di una logica speculativa: se fai vedere quanti utenti seguono o ascoltano sulla tua piattaforma puoi dare un valore a quegli spazi digitali che precedono o seguono l’opera. Indipendentemente dalla scelta dell’ascoltatore: se hanno spinto play o meno, se sono lì per spinta dell’algoritmo, non importa ai fini del conteggio. Spotify, quante persone possono incrociare quegli spazi digitali, lo mette in bella vista nelle pagine degli artisti, affianco ai brani, ovunque: spuntano dal lavandino quando vi lavate la faccia appena alzati dal letto. 

Il continuo rimbalzo metrico, la sottolineatura delle cifre, è la strategia di ingolosimento che Spotify utilizza per avvicinare gli investitori pubblicitari e per tenere incollate le parti professionali e di utenza: sapere se Lo Stato Sociale va più o va meno di Rhove. Vedere crescere gli abbonati alla propria playlist. Illudersi che il conteggio di ascoltatori mensili significhi poi, alla fine di questa corsa, qualcuno che ti farà gli applausi.

Sono dati complessi, che quando ci vengono comunicati dai nostri distributori hanno a che fare con molti aspetti della vita di chi ascolta: genere, luogo, età. Servono a capire qualcosa della tua musica, se ti interessano i numeri. Servono a Spotify per spiegare a chi compra gli spazi pubblicitari a chi si sta rivolgendo.

La cosa interessante, tornando a questioni un po’ più geek, è rilevare che dei 600 milioni di utenti di Spotify nel mondo, circa 300 sono utenti free o – come dicono loro – ad-supported, ovvero sostenuti dalla pubblicità. Gli utenti, mica la musica. Vuol dire, tenendomi sempre almeno a due passi di distanza dalle questioni di capitale, che statisticamente la metà degli ascolti di ogni artista presente su Spotify non è deciso dall’essere umano che spinge play, ma dall’incedere delle combinazioni che l’algoritmo proprietario dell’azienda di streaming formula di volta in volta.

Su queste basi poggia larga parte del business musicale dell’ultimo decennio. Si basa su misurazioni prodotte al 50% dalle vostre scelte e al 50% da qualcuno o qualcosa indipendente dalle logiche promozionali, dalle strategie artistiche, dai piani quinquennali. È almeno un 50% di fuffa che viene comunque venduta agli investitori e che le discografiche hanno necessità di utilizzare.

La parola algoritmo è molto usata e abusata negli ultimi anni, ma ne abbiamo ben donde: è due volte interessante cercare su Google come lavora questo algoritmo di Spotify, senza trovarne tracce ufficiale. È normale: è un segreto aziendale e non ho la pretesa che venga spiegato nulla, ma proprio per questo è importante che sia chiaro che la distribuzione degli ascolti della vostra musica è in mano al volere di una corporate che ha interessi diversi dai vostri. Patti chiari, amicizia lunga.

Spotify non è l’unico player, per fortuna, ma rappresenta la schiacciante maggioranza dell’utenza ed è con questo che dobbiamo fare i conti. Anche perché i principali competitor (Apple e Tidal) non offrono piani d’ascolto gratuiti, quindi lì sopra, come diceva il Dogui: “pago, pretendo”. Il che non significa che poi dopo l’ultimo singolo dei British Murder Boys non ci sia un oscuro algoritmo a decidere al posto mio, ma almeno possiamo avere l’illusione di intervenire in qualsiasi momento con una scelta deliberata.

Una forma di potere, quello delle piattaforme, che avrebbe appassionato Foucault, e che Edward Said avrebbe criticato come “quasi magico”*.

SIDE B

In ogni settore ci siamo accorti di quanto il lavoro influenzi negativamente la qualità della vita e di come questo sistema economico produca depressioni, nevrosi e innumerevoli sofferenze solo frequentandolo. Figuriamoci se non siete ricchi e vi tocca pure lavorare!

Sul finire della settimana di Sanremo un giovanissimo cantante molto famoso chiamato Sangiovanni ha deciso di rinviare l’uscita del proprio disco e la data al Forum di Assago prevista per ottobre. I motivi, facili da intuire, sono legati alla sua salute mentale, minata dalla continua analisi di un mercato così dipendente dalle metriche che è difficile dire dove inizi la persona e dove il prodotto. Nel dibattito pubblico che ne è scaturito ho letto spesso una frase inevitabile: “è così da sempre”. Vero.

Ma come in ogni lotta che ha a che fare l’identità, la società, il funzionamento della società e infine la distribuzione dei diritti e delle ricchezze che verticalmente influenzano la salute di ognuno, non è detto che ciò che è sempre stato così debba continuare a esserlo.

A me spiace per Sangiovanni, so di prima mano cosa vuol dire non stare bene e so di prima mano cosa vuol dire attraversare stati depressivi. È una merda e gli auguro ogni fortuna.

In quei giorni di metà febbraio anche io ho partecipato al dibattito sulla salute mentale nel mondo della discografia, perché come scrisse Mark Fisher: «La depressione, dopotutto e soprattutto, è una teoria sul mondo». Pensavo a chi fa l’artista e dura il tempo di una mezza stagione perché incapace di leggere lo sfruttamento a cui si sottopone. Penso a chi fa l’ufficio stampa e lavora anche venti ore in una giornata in nome dell’infinita reperibilità e delle gerarchie che innervano questo mestiere. Penso a chi fa il management e lavora anche venti ore in una giornata in nome dell’infinita reperibilità e dell’illusoria aspettativa che ci sia una crescita e una strategia per controllare ogni cosa. Penso a chi ha la scritta crew sulla maglietta durante i montaggi, i live, gli smontaggi e lavora anche venti ore in una giornata in nome di un vuoto legislativo che non sa riconoscere la fragilità economica di un mestiere in cui non si può dire di no.

Pensavo a un po’ tutte le figure che rappresentano il lavoro in questo settore. Penso anche a quante volte ho letto “fuori a mezzanotte” e ho pensato “rega ma speriamo di essere addormentati nel sonno dei giusti, che la musica ce l’ascoltiamo quando ne abbiamo bisogno mica quando ce lo dice la piattaforma!”.

Penso a della gente, che poi siamo noi, che non più tardi di un secolo fa avremmo definito schiavi, mentre adesso ci accontentiamo della definizione più rive gauche: lavoratori poveri.

Io non sono un professionista della salute mentale, mi occupo di far stare bene le persone suonando le canzonette o scrivendo dei libri, vado a prendere per la giacchetta il tempo libero degli altri. E non è un caso si chiami proprio così: tempo libero. Perché in questo mondo tardo-capitalista la libertà è connotata dalle ore senza i doveri e con le proprie scelte. Il tempo libero è dove noi decidiamo di essere.

È un tempo sempre più fagocitato dal lavoro, dall’attenzione per i social, le chat, le e-mail, l’infinita reperibilità e l’allungamento delle giornate lavorative. C’è un bel libro sull’argomento: Cronofagia di Davide Mazzocco. Leggetelo, è anche breve. È un tempo, quello di libertà, sempre più residuale, sempre più minacciato.

Nel non avere libertà io ho visto troppo spesso i sintagmi delle mie depressioni. Sangiovanni ha detto di no a un disco e a una data importante per tutelare quello che rimane della propria salute, ma quello che non ha detto suona ancora più feroce e descrittivo di come funziona la nostra industria e in generale il mondo: devi fare, devi fare, devi fare. Te lo chiede il capo. Diciamo di sì a tutto.

Il lavoro culturale, almeno nella musica, è vittima di una cultura padronale fortissima e introiettata.

Diciamo di sì a tutto perché domani, chissà. Domani non è detto che ci sia. Se noi adesso siamo e domani forse non siamo, abbiamo solo due scelte: il pensiero dicotomico è prodromico della depressione.

Mi domando: si può dire di no alle richieste dei doveri e circoscrivere malamente un confine di libertà personale? Lo chiedo a chi c’è lì fuori. Lo chiedo come se fossimo dei Bartleby di Melville che potenzialmente possano dire «I would prefer not to».

Lo ricordo a me stesso e mi piace dirlo a voce alta: se continuiamo a pensare al lavoro culturale nella musica – nel suo senso più largo – come a qualcosa di inattaccabile, di non modificabile, sbagliamo. Sbagliamo perché continuiamo a dire di sì, quando vorremmo dire di no. Sbagliamo perché sappiamo che le nostre vite non è giusto che siano in mano a qualche corporation. Sbagliamo anche quando qualcuno molto carino e molto sorridente ci dice che sta andando tutto bene: anche quella è una persona a sua volta schiacciata dagli obiettivi di produttività o da chissà quale altra stronzata che ci siamo messi in testa e verso cui corriamo sperando di allargare all’infinito un bacino di utenza che è tutto meno che infinito. Un bacino di utenza che è il linguaggio tecnico per parlare di ascoltatori. Ascoltatori che poi è un modo carino per dire “profitti”.

Infiniti profitti potenziali, mentre Spotify segna 1.82 miliardi di dollari di debito nel 2023. Loro, i leader mondiali indiscussi, è gente che produce debito. Figuratevi noi che con i debiti ci abbiamo pagato case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale… che anche se non valgo niente, perlomeno a te, ti permetto di sognare.

Ecco, ci sono cascato. Ho parlato di soldi.

* Il funzionamento materiale delle piattaforme di streaming e le implicazioni del capitalismo digitale, che io ho sommariamente accennato, sono approfondite e spiegate da La musica nell’era digitale di Tiziano Bone Paolo Magaudda (Il Mulino, 2023)

ARTICOLO n. 34 / 2024

CORPI CHE FATICANO

1. Pochi giorni prima di morire — prima di essere deportato dal ghetto di Varsavia verso Treblinka assieme agli orfani che accudiva, rifiutandosi di abbandonarli e anzi premurandosi di vestirli con gli abiti migliori, radunarli in fila e tranquillizzarli come poteva — pochi giorni prima di tutto questo il medico ed educatore Janusz Korczak evocò nel Diario del ghetto un tema per lui molto importante, «una cosa che combatto senza speranze di vittoria, senza una visibile efficacia, ma non voglio né posso sospendere questa lotta». Ovvero:

Combatto affinché nella Casa degli Orfani non ci siano lavori fini e lavori rozzi, intelligenti e stupidi, puliti e sporchi: lavori per signorine di buona famiglia e lavori per la plebaglia. Non ci dovrebbero essere nella Casa degli Orfani addetti esclusivamente al lavoro fisico e addetti esclusivamente al lavoro intellettuale.

Certo l’idea non era affatto nuova: ma colpisce l’insistenza di Korczak in ore così gravi. È il fato che si riserva alle questioni veramente cruciali, il nocciolo di un intero progetto pedagogico e politico.

2. Sul punto mi pare esistano due semplificazioni contrapposte. La prima ritiene che qualsiasi lavoro manuale sia svilente in quanto tale — come se il compimento dell’essere umano fosse una faccenda di mero pensiero. Non è così, e non serve andare molto lontano per comprenderlo: la soddisfazione del fabbro per una ringhiera fatta a regola d’arte o dell’elettricista che risolve — usando ingegno e abilità tecnica, mani e cervello — un difficile problema di impianto. E, perché no, la tranquilla stanchezza dell’operaio che non baratterebbe il suo mestiere con lo studio. Una volta, in provincia, un amico metalmeccanico mi disse proprio così: “Tutto il giorno seduto davanti ai libri da solo, ma non ti rompi i coglioni?”.

La seconda semplificazione è un elogio della manualità in quanto tale fatta da chi non ha mai dovuto svegliarsi alle quattro per caricare carrelli o posare piastrelle dall’altra parte della regione, o anche solo sudare — non metaforicamente — con una cassetta da dodici kg di attrezzi in mano, avanti e indietro per la città. Dunque non merita ulteriori commenti.

Sgombrato il campo da tali equivoci resta quanto distrugge realmente l’essere umano, lo sfruttamento: che nel caso del lavoro manuale è sfruttamento del corpo, con tutto ciò che ne deriva. Ma che cosa, nel dettaglio?

3. Innanzitutto uno sfinimento che il lavoratore intellettuale non può conoscere, e rende subito indegno il paragone fra i due. È la percezione di avere prosciugato ogni energia, di essere ridotto a un guscio e non avere nemmeno più spazio per il desiderio: la privazione di sé come soggetto libero. Tutto ciò spazza via d’un colpo la retorica sul tempo libero da usare per migliorarsi, costruirsi alternative, consumare cultura. Lodevoli propositi, certo, ma che non devono navigare nel vuoto: dopo un turno estenuante di pulizie, un’ora per tornare a casa e un bambino cui badare è molto più comprensibile desiderare di spegnersi.

Lo sfruttamento del lavoro manuale è un’offesa perenne al corpo che soffre e si espone a rischi quotidiani, dagli infortuni alle malattie professionali fino alle morti — morti che gridano vendetta, uno dei maggiori rimossi del Paese. Con l’ovvia aggiunta che l’anima, o come preferite chiamarla, resta altrettanto ferita: ansia, depressione, apatia, sviluppo di dipendenze: con il sovrappiù di difficoltà nel trattare queste patologie quando, appunto, tempo e soldi e conoscenze sono ridotti al minimo.

4. Negli ultimi decenni, dove la centralità della fabbrica è andata sparendo sostituita da una frammentazione del lavoro e dall’irregolarità diffusa, c’è stato come un occultamento progressivo dell’esperienza dei corpi che faticano, specie quando faticano oltremodo. Uso quest’espressione un po’ goffa per comodità, ma mi pare corretta: qui si tratta innanzitutto di fatica fisica, prolungata oltremisura e frutto di dinamiche di asservimento.

Bisogna invece accostarsi a tale vissuto con partecipazione e umiltà. Concentrarsi su tutta una serie di gesti — cucire, lavare, spingere carrelli, imboccare, grattare superfici, dissodare terra, identificare e spostare colli, lavare stoviglie, vendemmiare, cogliere fragole, conciare pelli, stare in piedi a fare la guardia, cambiare pannoloni, trasportare suini, uccidere suini, alzare muri, guidare muletti, spostare altri corpi, vendere il proprio corpo, rimuovere e smaltire amianto, estrarre ghiaia, spazzare foglie, riparare scarichi, sgomberare appartamenti, svuotare cassonetti, condurre camion, stendere asfalti, consegnare pacchi — senza alcun riconoscimento, alla periferia del paesaggio narrativo, in cambio di un compenso mortificante.

La recente inchiesta sull’utilizzo, da parte di Giorgio Armani Operations, di opifici cinesi dove il lavoro era organizzato su turni massacranti con paghe anche di 2-3 euro all’ora ha creato un certo scalpore per l’associazione lusso/sfruttamento; ma non è certo un caso isolato, anzi. Qualunque filiera produttiva è percorsa da questa feroce normalizzazione del dolore. Il lavoro così non educa, non dà occasioni, non è più affare di emancipazione se mai lo è stato; Dal Lago e Quadrelli lo dicevano con chiarezza ne La città e le ombre:

Oggi, l’impiego di forza lavoro servile o semiservile, reclutata tra gli stranieri e marginalmente tra le fasce giovanili locali più deboli, non è contraddizione con la terziarizzazione avanzata, l’economia immateriale o in rete. Anzi, ne è un necessario complemento o meglio un alimento indispensabile. La vita quotidiana delle famiglie di rispettabili professionisti può celare l’attività invisibile, per tutto l’arco del giorno, di giovani donne straniere. Di notte o all’alba, quando i telefoni e i computer di banche, società finanziare o di consulenza hanno smesso di ronzare, un piccolo popolo di ombre, reclutate spesso nei modi descritti sopra, rimuove i cascami materiali del mondo immateriale. […] Il lavoro, che sembrava essere entrato nella sfera dei diritti di cittadinanza, retrocede (per ciò che riguarda almeno una sua componente) in una dimensione pregiuridica, a cui si addicono più le descrizioni hobbesiane della società di natura, dominata dalla sopraffazione, che quelle hegeliane della società civile.

La vulnerabilità e la ricattabilità, con il loro corollario di dolore fisico e mentale, non sono insomma aberrazioni, bensì condizioni necessarie per il funzionamento di questo sistema economico.

5. Per fortuna non mancano racconti in prima persona o indagini di valore sui corpi che faticano: penso nel primo caso a vari testi del catalogo di Alegre e nel secondo a Noi schiavisti di Valentina Furlanetto o Le nostre braccia di Andrea Staid. Nel dettaglio, ciò che ha colpito Staid — e continua a colpire anche me — non è la diffusione della microcriminalità tra le fasce subalterne della popolazione, bensì il fatto che ve ne sia così poca. Andrea commentava così, già dieci anni fa:

Quando ti ritrovi distrutto da un viaggio che ha violentemente cambiato la tua esistenza, internato in un moderno lager, senza nessun tipo di diritti o quando ti ritrovi a lavorare segregato in una fabbrica illegale o sotto il sole cocente di un campo di pomodori del sud Italia per un salario da fame e il rischio di finire in carcere è lo stesso sia che decidi di delinquere, guadagnare più soldi e con meno fatica, che se decidi di lavorare schiavizzato per un salario da fame, ecco a questo punto la cosa più razionale sembra essere quella di scegliere di delinquere. Questo significa che se applicassimo la teoria dell’homo economicus al migrante posto davanti al ristretto orizzonte della scelta tra le possibilità che gli vengono offerte, dato un calcolo basato su costi e benefici, il migrante irregolare dovrebbe essere razionalmente portato a delinquere, ciò che lo frena sono i riferimenti morali, normativi e religiosi.

Dopo questi anni di ricerca non mi stupisce più chi esce dallo stretto confine della legalità, anzi mi stupiscono molto di più tutti quei migranti (la maggior parte) che decidono di lavorare onestamente.

E ci vuole una bella dose di ideologia, o una minuscola esperienza della vita, per non comprendere quanto simili circostanze materiali siano cosa ben diversa dalle condizioni formali cui ci si appella quando si parla di lavoro. In Anche i ricchi rubano la magistrata Elisa Pazé, discutendo lo squilibrio normativo per i cosiddetti reati dei colletti bianchi — la facilità con cui i colpevoli possono ottenere ampi sconti di pena per illeciti tributari o ambientali — scrive:

Per il delitto di caporalato la pena della reclusione è fissata nel massimo a sei anni e nel minimo a un anno, a meno che non vi sia stata violenza o minaccia, nel qual caso il minimo è di cinque anni. Ma non c’è bisogno di usare violenza o minaccia nei confronti di persone disperate, disposte a sottostare a qualunque condizione pur di lavorare; e quindi chi viene incriminato per avere sfruttato gli immigrati ha buone possibilità di cavarsela senza andare in cella.

6. E così l’atteggiamento più diffuso verso i corpi che faticano resta una narrazione paternalistica, gonfia di stereotipi e priva di pudore. Anche quando i corpi vengono mostrati, talora con voyeuristica insistenza e senza contesto, come in certe inchieste televisive, le singole persone con le loro singole storie e aspirazioni vengono ridotte a oggetti narrativi. Alla persona viene sottratta persino la dignità basilare del decidere quando e come mostrarsi.

Un altro automatismo eguale e contrario è insistere soltanto sul linguaggio. Le parole sono tutto ciò che abbiamo, ho sentito spesso dire da colleghi in ottima fede, con un tono tristemente accorato: e dunque vanno difese per prime. Comprendo il punto in astratto, ma così rischiamo di cadere in una vertigine nominalistica. Proprio perché conosco l’importanza della lingua e ne verifico ogni giorno i capricci e le resistenze — quant’è difficile esprimersi in modo chiaro, quant’è difficile governare le parole — ecco: proprio per questo mi sembra una protervia lasciare in secondo piano il mondo delle cose. Gli abracadabra non cancellano i rapporti di subordinazione fondati su una violenza che non ha niente di metaforico: botte, stupri, paghe negate, pance vuote, insulti, minacce, omicidi (il che ovviamente non significa che le parole non siano importanti, sia chiaro).

Camus ne Il pane e la libertà accusava il tradimento «degli intellettuali borghesi che accettano che i loro privilegi siano pagati con l’asservimento dei lavoratori. Costoro dichiarano spesso di difendere la libertà, ma difendono in primo luogo i privilegi che la libertà dà loro, e solo a loro». Era il 1953: in tal senso non è cambiato molto.

7. Torniamo così alla ingombrante, fastidiosa, realissima presenza dei corpi. «Combatto affinché nella Casa degli Orfani non ci siano lavori fini e lavori rozzi, intelligenti e stupidi, puliti e sporchi». Come realizzare il sogno di Korczak? Ci guardiamo attorno e sembra tutto andare in direzione opposta — incluso questo articolo, naturalmente, scritto a una comoda scrivania, esempio manifesto della divisione del lavoro.

Bene, per quanto mi riguarda ho trovato delle alternative reali e non soltanto vagheggiate nelle esperienze che vanno dai centri sociali all’associazionismo di base. Dove persone di ogni tipo si sono messe in gioco perché avvertivano non solo una responsabilità verso chi stava peggio, o il proprio quartiere, o un edificio abbandonato di cui occuparsi: intuivano anche che per nuovi fini occorrono nuovi mezzi; e tra questi il rifiuto di separare la redazione di un articolo dal tirare un cavo, la presa pubblica di parola dall’allestire un palco. In entrambi i casi si tratta di lavori diretti a uno scopo comune, con rotazioni stabilite, senza implicare sfruttamento. Eguale dignità ed eguale umiltà per ogni gesto.

Certo: come sa chiunque abbia a cuore queste esperienze ma coltivi un po’ di solido realismo, non basta. È salutare, è consigliabile — altro che alternanza scuola/lavoro — ma una volta chiusa la porta si ritorna a comprare cose fabbricate da corpi che faticano. Se non vogliamo che questo patrimonio si riduca a un gioco di difesa perenne tocca dunque allargare lo sguardo e unirlo ad altre lotte, anche più istituzionali, che si pongono il medesimo obiettivo. O quantomeno, desiderano combattere l’enorme quantità di dolore che lo sfruttamento universale infligge.

ARTICOLO n. 33 / 2024

IL CARCERE MI RIGUARDA

Un'intervista di Valeria Verdolini

Milano. La giornata è incredibilmente ventosa. L’aria è un costante mulinello di pollini e petali. Il carcere è lì, si scorge in fondo alla via. Le righe grigie e marsala delle mura di cinta si stagliano in fondo alla piazza. Passato l’androne del palazzo, quello spicchio di città sembra un mondo lontano, ma rimane un orizzonte che si scorge dalle finestre della casa, curatissima. La conversazione che si svolge nella sala è in effetti a tema: si parla di fughe, di isole, di carcere. 

Sono con Daria Bignardi, l’occasione è l’uscita del recente Ogni prigione è un’isola (Mondadori Strade Blu, 2024). Ogni spazio, ogni parete, è accompagnata da un pensiero: le mappe nel soggiorno, i libri ordinati per editore, i colori alle pareti, la poltrona libreria. Tra le varie coste, spiccano i volti di alcuni autori più amati: Kafka, Woolf, Carver. Sulla parete è appeso un décollage di Mimmo Rotella: Quando la moglie è in vacanza

Tanto la casa è pensata in ogni suo oggetto, quanto la sua proprietaria agisce un’informalità apparentemente in contrasto con quella cura. Si tratta però di una forma a me nota, ossia quella sottrazione schiva che insegna la pianura. Ferrarese, da molti anni poliedrica autrice, scrittrice, voce radiofonica e volto televisivo, Daria Bignardi sfugge alle classiche definizioni e non presenta una collocazione univoca nemmeno in biografia. Di lei colpisce la curiosità, la domanda incalzante, e un affettuoso e generoso interesse per l’umanità nelle sue forme più varie. Di questo parliamo davanti a una tazza di tè, mentre nella casa ci sono figli che cucinano cinghiale marinato, amiche arrivate da Odessa cariche di fiori, e una calma di fronte agli eventi esterni che si ritrova nelle pagine del libro.

«Come spesso succede, le cose sembrano accadere per caso. Un paio d’anni fa Jonathan Bazzi aveva avuto l’incarico di dirigere il numero di Finzioni, l’allegato di Domani. Jonathan mi chiese di scrivere di Milano, e di sceglierne un aspetto. Ho pensato che dopo quarant’anni in città, una cosa che conoscevo abbastanza bene ma non era accessibile a tutti era sicuramente il carcere di San Vittore, perché ci vado da quasi 30 anni, ci abito accanto da 25 e l’ho sempre sentito in qualche modo vicino. Perciò ho scritto questo lungo articolo, e Mondadori mi ha proposto di farne un libro, dato che in qualche modo il carcere tornava sempre: nei miei romanzi, nei miei articoli, nelle interviste televisive. Una richiesta che mi ha fatto capire che il carcere in qualche modo nella mia vita c’era da sempre, anche se avevo delle resistenze a capire perché.

È stato difficile scrivere questo libro, non credevo ce l’avrei fatta. Perché quando qualcosa ti sta molto a cuore, quando poi è un tema delicato come questo, pensi sempre che sbaglierai qualcosa, che ciò che dirai non andrà bene a qualcuno, che sarà difficile trovare la voce giusta per parlarne. Ho fatto fatica. Anche perché quando scrivo un libro finisco per pensare solo a quello, ne sono ossessionata giorno e notte, e io non volevo stare giorno e notte in carcere. Il mio rapporto con il carcere è antico ma discontinuo. Ho bisogno di periodi in cui non ci vado. Però ho cominciato comunque a scrivere, e quando l’ho detto al mio psicanalista lui mi ha fatto una domanda semplice, mi ha chiesto cosa rappresentava il carcere per me, mi ha stimolato a riannodare dei fili che partivano da molto lontano. Mi sono ricordata che quando da piccola andavo a giocare dalla mia amica in via Piangipane, a Ferrara, dove c’era il carcere [oggi chiuso e museo della Shoah ndr], e il maestro delle elementari ci diceva che tra quelle mura era stato rinchiuso Giorgio Bassani, noi ci interrogavamo sul perché. Quando sei un bambino o anche quando sei adulto e magari poco informato, e hai fatto poche riflessioni sul tema, pensi che il carcere sia una cosa che non ti riguarderà mai, un luogo dove rinchiudono solo quelli brutti e cattivi, non quelli come te, figuriamoci un grande scrittore.

Con quest’opera ho riannodato tanti fili, ho capito quante sono state le cose che mi portavano dentro. Ieri a Bologna ho fatto una chiacchierata con Alessandro, un ragazzo di Liberi Dentro – Eduradio, la radio in carcere, quella realtà emiliana che fa i programmi che vengono ascoltati dai detenuti. È un giovane laureato in Giurisprudenza, aveva appena letto il libro. Mi ha detto – con la lucidità di chi non ti conosce e ti vede da fuori: «A me sembra che sia stato il carcere a chiamarti». E io ho pensato: «Ma sai che forse ha ragione lui?»

Valeria Verdolini: Quella chiamata dal carcere arriva presto. Nel libro tu racconti di una fitta corrispondenza con Scotty, un detenuto americano nel braccio della morte, iniziata negli anni dell’università.

Daria Bignardi: Avevo 25 anni, forse di più, non così presto. Mi sembrava normalissimo farlo. O meglio, che una persona potesse stare nel braccio della morte mi sembrava una cosa inconcepibile e avevo bisogno di parlarci, di fare qualcosa. E poi ero grafomane. Quando ero ragazza si scriveva molto, si scriveva per se stessi, ci si scriveva con gli amici, si scrivevano un sacco di lettere che magari non si mandavano neanche. Mi è venuto spontaneo. Ho visto questo indirizzo su un ciclostile, gli ho scritto. Lui mi ha risposto subito ed è nata una corrispondenza che in realtà mi è sempre sembrata normale pur nell’assurdità della sua condizione. Quando mi ha scritto che era stata fissata la data dell’esecuzione, è stato inconcepibile. Eppure è successo.

V.V. E che cosa vi raccontavate in quelle missive?

D.B. Mi raccontava quel che faceva lì e le sue speranze. Ti racconto una cosa strana appena successa. Il giorno in cui in Mondadori sono arrivate le prime copie sono andata a firmarne qualcuna. Quindi ho visto per la prima volta il libro stampato, l’ho toccato, maneggiato, fotografato. È sempre emozionante quando vedi e tocchi per la prima volta la copertina, le pagine, la carta. Quello a cui hai lavorato per anni, finito, pronto per andare nel mondo. Quando la sera sono tornata a casa, dal momento che dopo due giorni avrei dovuto fare la prima presentazione, un’anteprima a Libri Come a Roma, e avevo invitato Sisto Rossi, uno dei detenuti di cui scrivo, uno dei primi che ho conosciuto e con il quale sono stata a lungo in contatto anche quando se n’era andato da San Vittore, trasferito al carcere Mammagialla di Viterbo, e non lo non vedevo da più di vent’anni, insomma, ho pensato di rileggere le lettere che mi aveva mandato.

Erano fogli con appiccicate margherite fatte seccare [raccontato nel libro, ndr] e altri fiori che aveva raccolto tra le pietre nell’ora d’aria. Sono andata a cercarle, erano dentro una cartellina che non aprivo da anni. In quella cartellina, con mia grande sorpresa, c’era anche una lettera di Scotty, lettera che avevo cercato per tutta la stesura del libro senza mai trovarla. Un filo che nel libro non si riannoda. E invece quella lettera l’ho trovata alla fine, a libro chiuso. L’ho trovata il giorno in cui ho visto il libro per la prima volta. E devo dire, non ho potuto non pensare a un segnale di Scotty, una sorta di incoraggiamento, una specie di “ehi dài, grazie che vi ricordate di me”. Quella lettera, ritrovata proprio quel giorno, mi ha emozionato moltissimo. Dentro la busta c’era anche una sua foto. Non era come me lo ricordavo. Io mi ricordavo e l’ho descritto come un ragazzo biondo, tipo un giovane Ryan O’Neal. No, Scotty era più un John Cusack, bruno. Però tutto il resto me lo ricordavo bene: quello che mi aveva scritto, la rapina che aveva commesso con la fidanzata quando era un diciassettenne tossicodipendente. Nella lettera sosteneva anche che non era stato lui a sparare. Mi raccontava la sua vita in carcere. C’erano alcune cose che ricordavo benissimo e altre che la memoria aveva alterato, tipo il suo viso. Non rivedevo quella lettera da 30 anni. Ritrovarla per caso il primo giorno di vita del libro è stato stranissimo.

V.V. Il libro fa la scelta di giocare sul binomio isola-carcere. Già il titolo dice che ogni prigione è un’isola, ma tu porti il lettore tanto in carcere quanto in viaggio con te, in particolare a Linosa.

D.B. Come tanti, ho sempre avuto attrazione per le isole, mi hanno sempre fatta sentire protetta. Le vivevo come luoghi in cui era più facile ritrovarsi e trovare un’identità. Ci ho passato molto tempo quando ero ragazza, ci ho lavorato, credo che sia un’attrazione comune, no? A un certo punto ho sentito che per riuscire a scrivere questo libro dovevo isolarmi e ho scelto quest’isola molto piccola, di soli cinque chilometri quadrati, dove ero stata soltanto l’anno prima. Linosa è un’isola particolarmente remota in Italia. Ci risiedono 400 persone, ma d’inverno ne rimangono al massimo 200. Ha molte difficoltà con i trasporti, ci si va da Lampedusa o dalla Sicilia, ma non c’è il porto per gli attacchi e quando c’è mare grosso i traghetti fanno fatica ad attraccare e gli sbarchi sono a discrezione del comandante. Non è assolutamente garantita la continuità territoriale che prescrive la legge. I linosani, giustamente, sono molto arrabbiati con la Regione econ lo Stato, che trascura le loro mille difficoltà.

Insomma, ero andata lì per isolarmi, ma anche sull’isola continuavano a uscire storie di carcere, da quelle dei soggiornanti mafiosi che ci erano passati dagli anni Settanta in avanti, dei quali ho trovato le lettere in biblioteca, al regista di Ariaferma che sbarcava sull’isola. Ho chiesto ai linosani di raccontarmi di Angelo La Barbera, di Giovanni Brusca, di tutti quelli che avevano abitato lì, e ho messo i loro racconti nel libro. Intanto leggevo i libri che mi ero portata: L’Università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, Io l’infame di Patrizio Peci, L’orlo del bosco di Cecco Bellosi, Nel ventre della bestia di Jack Abbott. E tutto entrava e trovava senso dentro al racconto che stavo facendo: gli incontri, le letture, i racconti, il mio isolamento. Il mio approccio al tema carcere non è giornalistico né da attivista né da addetta ai lavori, è l’approccio di chi sente che questa cosa, in qualche modo, lo riguarda.

V.D. Sembra un approccio affettivo, quasi.

D.B. Probabilmente. Sento che mi riguarda e cerco di fare quello che posso, ma soprattutto racconto dove mi hanno portato il desiderio, la curiosità, gli affetti. Ho fatto amicizia sia con i detenuti che con gli educatori, i direttori, una magistrata. Incontri profondi: lo sai come sono quelli che si fanno in carcere, non te li dimentichi. Nel libro racconto di Manolo, conosciuto a San Vittore nel reparto La Nave. Una volta siamo andati insieme in una scuola, a parlare di legalità e di carcere ai ragazzi. Mi aveva raccontato di aver malmenato un tizio del suo quartiere e poi davanti al giudice, per avere una condanna minore, aveva finto di pentirsi. L’aggredito ci aveva creduto e lo aveva abbracciato e perdonato. E mi aveva detto: «Io avevo finto di pentirmi, non ero per niente pentito. Ma quello lì invece, quando ci ha creduto e mi ha abbracciato, non sa cosa ha fatto, mi ha cambiato per sempre. Non dico che da quel momento ho smesso di delinquere, però da quel momento è iniziato qualcosa e poi un po’ alla volta, piano piano, ho fatto la scelta di uscire dal mondo criminale».

Manolo purtroppo ha avuto un incidente, è stato in coma un anno ed è morto, quindi non c’è più. Non ha potuto ricominciare, riprendere in mano la sua vita. Però un racconto del genere, di come un finto perdono possa diventare un perdono vero, è indimenticabile. È difficile imbattersi in storie di questa potenza fuori dal carcere. Chi è ristretto ha spesso storie straordinarie da raccontare. La storia di Marcello Ghiringhelli, che ho messo nel libro, è la storia di un ragazzino al quale la mamma fece fare l’elettroshock perché si ribellava al padrone da cui faceva il garzone. Lui allora è scappato, si è arruolato nella Legione Straniera, ha combattuto la Guerra d’Algeria, poi è scappato anche da lì, ha cominciato a fare il bandito, è finito a Parigi. Al Café de Flore ha conosciuto Simone de Beauvoir e Sartre. Dopo, in carcere, è diventato un brigatista. Nessun romanzo ti può raccontare una storia così. Per chi scrive e per chi legge sono storie irresistibili.

V.V. Non solo è irresistibile il tipo di racconto che restituisci, ma è anche molto forte il rapporto che esiste – fuor di metafora – tra isole e carcere. Nel mondo, 273 isole hanno ospitato carceri, confini, detenzioni.

D.B. Ero a Linosa, ma dall’isola i pensieri hanno fatto connessioni. Ero stata al carcere dell’Asinara, al carcere di Santo Stefano vicino a Ventotene, al carcere Terra Murata di Procida. Istituti chiusi nei quali respiri ancora la violenza che li aveva abitati. Il legame tra carcere e isole non è solo interiore ma anche reale.

V.V. La parola stessa, isolamento, ha la medesima matrice. Si tratta però di un isolamento abitato. Ci sono tanti animali nel libro.

D.B. Ci sono sempre animali nei miei libri, sia perché mi piacciono sia perché mi piace raccontare quel che succede mentre scrivo. Chi incontro, cosa penso. E a Linosa gli incontri sono stati soprattutto con certi animaletti inquietanti, come i tiri di cui racconto nel libro. 

Non so se sei andata a vederli, fanno abbastanza paura no? Più che paura, poverini, fanno un po’ senso perché sono come dei grossi lucertoloni, però lisci, grassi e lucidi, e hanno le zampette come le lucertole ma si muovono strisciando come serpenti, quindi sono abbastanza impressionanti. Non sono come le lucertole che a Linosa sono ovunque, però ce ne sono parecchi, perché amano la pietra lavica come nella casa dove stavo, una casa che mi piaceva moltissimo, dove ho scritto parecchio. Mentre convivevo con questi animali inquietanti mi ritrovavo nelle pagine dell’Università di Rebibbia dove Goliarda Sapienza non dico che facesse amicizia con gli scarafaggi, però ci interagiva, si affezionava. Sono tante le storie di detenuti che fanno amicizia con topi, ragni, e tutti gli animali tranne le zanzare, «quelle infami» ti dicono. Quando sei da solo ti affezioni, tranne che alle zanzare, a qualunque essere vivente incontri. Quando sei isolato sei particolarmente attento al vivente che si manifesta. Io a Linosa mi ero affezionata alle turriache [le berte di Linosa ndr], e un po’ anche ai tiri, tutti animali bizzarri e poco comuni. La comunicazione con loro a Linosa era più profonda che mai.

V.V. Tu fai molti incontri nel libro. Nella trama dei tuoi incontri in qualche modo ritorna quasi tutto il carcere perché ci sono delle persone dalle storie incredibili come Ghiringhelli, Salvatore Piscitelli e la sua storia a Modena, o ancora Patrizia Reggiani, e anche tutti quei pezzi che invece riguardano il periodo degli Anni di Piombo sia per storie incrociate che familiari. Come hai scelto tra i tanti incontri di questi 30 anni quelli da raccontare?  

D.B. Seguendo l’istinto. Scegliendo gli incontri che in qualche modo erano rimasti, erano tornati oppure erano stati inaspettati, come quelli con Lauro Azzolini e Bianca Amelia Siviero. Ero andata a presentare il libro di Tino Stefanini e Giorgio Panizzari al Consorzio Via dei Mille, a Milano, un consorzio di cooperative che lavorano nelle carceri. Non mi aspettavo ci fossero anche loro e ho capito solo alla fine chi erano. È stato un incontro che mi ha colpito perché loro hanno avuto ruoli molto importanti nelle Brigate Rosse, ma quel che mi ha colpito di più era stata la semplicità con cui durante e dopo la presentazione Bianca Amelia Sivieri mi aveva approcciato, raccontandomi che era di Castelmassa, un paese vicino a Ferrara. Avevamo chiacchierato e scoperto che era stata maestra come mia madre. Le avevo raccontato di mio padre che lavorava spesso dalle sue parti: c’era stata subito una sorta di familiarità. Ho capito solo dopo chi era, e ho fatto delle ricerche.

È stato un incontro, quello e altri con persone come Panizzari o Ghiringhelli, che mi ha fatto riflettere su come persone che hanno avuto una vita così violenta – si sono fatti almeno 40 anni di carcere durissimo, convivendo col peso di reati terribili, riescano ancora a sorridere. Tu oggi vedi delle persone anziane, affabili – Siviero poteva essere la mia prof del liceo, o mia suocera – e sai che hanno avuto una vita terribile in cui hanno esercitato e subito la violenza. Inevitabile il desiderio di provare a capire quegli anni, il loro percorso, come hanno ragionato. Il loro contesto storico, politico, sociale. Ma questo vale per tutti i detenuti, non solo per i politici. Vale per tutti quelli che hanno fatto delle scelte estreme. Anche per i rapinatori come Tino Stefanini che si è fatto quasi 50 anni di carcere. Provi a cercare di capire quali sono le risorse dell’uomo in situazioni estreme. La famosa frase di Svetlana Aleksievič: «In guerra l’uomo è come illuminato a giorno» vale anche per il carcere. Dentro al carcere vedi le persone per come sono davvero. E questo per chi scrive, racconta, ma anche solo osserva il mondo è magnetico.

V.V. C’è una cosa che rimane più sottotraccia. Com’è il carcere lo fai dire ai tuoi personaggi, ma in pochi punti dici come è il carcere per te. Che cosa pensi del carcere?

D.B. Pensa che secondo Adriano [Sofri, ndr], che è il nonno dei miei figli ma soprattutto un grande amico, lo spiego anche troppo. Secondo lui dovevo farlo dire solo agli altri, per una questione di stile, di sobrietà. In realtà mi sembra di aver detto chiaramente cosa penso. Penso che il carcere sia inutile, nocivo, dannoso, squallido e pericoloso. Ho cercato di far parlare soprattutto gli altri, perché è il mio modo di scrivere: mettere in scena senza dare giudizi o sostenere tesi. Questo non vuole essere un libro militante, anche se finisce inevitabilmente per esserlo. Vorrei parlare a tutti, non a chi la pensa già come me. Portare con me i lettori dentro un mondo di emozioni, ingiustizie, storie, paradossi. E portarli con me senza farli sentire giudicati per quello che pensano.

V.V. Infatti hai relegato lo sbilanciamento, l’esposizione sul carcere all’esergo. 

D.B. Le due frasi dell’esergo dicono quasi tutto e ben in vista, ma di solito l’esergo lo vai a rileggere e lo comprendi solo dopo che hai letto il libro, non prima. Su un tema come questo, che è già un grande rimosso, ho cercato di includere e non escludere. Di far scattare quel click tra cuore e cervello che fa sì che una cosa che magari sai che è giusta ma solitamente ti annoia o infastidisce ti diventi invece cara perché senti che ti riguarda. Ma come si può mantenere uno sguardo in equilibrio, di sottrazione, su uno spazio che è esso stesso uno dei poli delle dicotomie politiche dell’oggi?

V.V. Avresti voluto inserire cose che poi non sei riuscita a mettere?

D.B. Ho fatto fatica – per difficoltà credo burocratiche e di passaggio di richieste – a incontrare i medici penitenziari e alla fine ci ho rinunciato. In generale nessuno si è rifiutato: ho parlato con agenti, direttori, educatori, magistrati, detenuti ed ex detenuti. Solo con i medici non sono riuscita a parlare. Forse perché sono gli unici che ho cercato per strade ufficiali. Ma non ho insistito. Non volevo forzare nessuno. 

Credo che questa storia stia in piedi così, nel suo essere anomala, libera, istintiva, piena di cose mie. Io che rimango chiusa nell’armadio, i tiri di Linosa, gli incontri in spiaggia con il colonnello della Guardia di Finanza. Volevo che si sentissero le emozioni, le sorprese, le scoperte, i dubbi che ho avuto scrivendo e che poi si sono sciolti. A un certo punto ho capito che dovevo solo lasciarmi andare. Scrivere tutto, spudoratamente. Scrivere è decidere di tirar fuori tutto e senza vergogna. L’editor del mio primo libro, Non vi lascerò orfani, era Antonio Franchini. Dall’alto della sua autorevolezza mi aveva detto solo questo: “tira fuori tutto, non c’è altro da fare”. Nel libro precedente a questo, Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici, cito Marina Abramović e quei seminari dove mette le persone intorno a un tavolo con sotto un cestino della carta straccia e una pila di fogli bianchi, con l’indicazione di non svuotare mai il cestino. Alla fine del seminario va a vedere cosa c’è nel cestino, nelle idee che non si ha avuto il coraggio di tenere, non nei fogli consegnati. 

Quando ti dico che ho fatto fatica è perché non è stato facile, su un tema come questo, concedermi eventualmente anche di sbagliare, dire una cosa che può sembrare inopportuna, ridere. Nel capitolo dei tiri, i lucertoloni di Linosa, per esempio, si ride. In un libro sul carcere dove ci sono dall’inizio dell’anno 30 detenuti che si sono suicidati si può ridere? Io in queste pagine mi concedo anche di ridere. Come si ride ai funerali, o a scuola. 

V.V. A libro concluso, se potessi integrarlo, cosa aggiungeresti? I terribili fatti avvenuti in questi giorni al Beccaria, credi che avrebbero potuto trovare spazio tra le pagine? Come avrebbero cambiato le cose? 

D.B. Quello che si è scoperto al Beccaria meriterebbe un libro a sé. Tredici agenti indagati. Tredici come i tredici morti nelle rivolte di marzo 2020. Un numero che deve diventare il simbolo di quello che non si può più accettare. Con il Beccaria e con i morti nelle rivolte abbiamo toccato il fondo.

V.V. Il titolo è un’affermazione, Ogni prigione è un’isola. Siamo così d’accordo che ogni prigione debba essere un’isola? Che tipo di isola è la prigione?

D.B. La frase è stata detta da un ispettore. Voleva affermare che ogni istituto era diverso dall’altro, cosa come sappiamo vera, perché ogni istituto dipende dal direttore, dal rapporto del direttore con il comandante e da tutta una serie di altre variabili. Io invece l’ho isolata dal contesto in cui la diceva perché mi parlavano queste due parole: prigione e isola. Ho pensato alle prigioni interiori, mentali. A come possono essere prigioni i dogmi, i rapporti tossici, le nostre paure. Ho pensato che le cose che ci imprigionano sono elementi che ci isolano. E poi mi piace l’idea di guardare l’isola dal di fuori, dalla sponda di fronte, come racconta la copertina che è l’opera di un giovane artista russo di 25 anni. Aveva fatto un quadro simile a questo, gli abbiamo chiesto di inserire una donna che guarda quel profilo rosso laggiù che ricorda un po’ un carcere. 

V.V. Come possiamo guardare le prigioni da fuori, da oltre il muro di cinta?

D.B. Sul piano individuale, riuscendo a uscire da se stessi e vedere le proprie paure, su quello collettivo cercando di non tenere nascosto quello che accade dentro al carcere.

ARTICOLO n. 32 / 2024

VIVA L’ITALIA ANTIFASCISTA

Fa molto strano parlare di antifascismo, uno dei principi cardine – se non IL principio cardine – della nostra Costituzione, in questo 25 aprile 2024.

Fa strano perché “antifascismo” negli ultimi due anni è diventata una parola-jolly, alle volte insulto, alle volte scomoda, alle volte arma, usata da sempre più persone per indicare qualcosa di quasi anacronistico, una paranoia démodé. 

Quando di scomodo questo termine non dovrebbe avere niente, a meno che non si sia, per l’appunto, fascisti.

L’uso smodato e quasi sempre improprio del termine mi fa comprendere con non poco rammarico che la nostra classe politica ha una fottuta paura del significato della parola “antifascismo”. Sulle prime per me era piuttosto imbarazzante avere degli esponenti di Governo che non solo non la pronunciano mai, ma pensano che antifascismo sia il termine gemello di anticomunismo. Poi ho compreso che questo silenzio sulla nostra purtroppo recente storia – durata un Ventennio, e che è piaciuto moltissimo ai partiti-satellite di questa maggioranza e al presidente del Senato, che ne conserva i cimeli in casa propria – aveva e ha uno scopo ben preciso.

Già, perché se i fenomeni non li nominiamo, questi non esistono. 

E nessuno al Governo ha a quanto pare intenzione di pronunciare quelle dodici lettere che formano il fondamento della nostra costituzione. Perché pronunciarle vorrebbe dire dover dare fin troppe risposte a quesiti – quelli sì – divisivi per la maggioranza e i grandi supporter di Meloni.

Da due anni, davanti ai nostri occhi sta infatti avvenendo quello che potremmo chiamare il teatro dell’assurdo meloniano: pur di non arrendersi all’inevitabilità dell’antifascismo come principio fondativo della nostra Repubblica, gli esponenti di Governo stanno facendo dei numeri di prestigio che Houdini a confronto era un principiante un po’ goffo.

È dai primi mesi di questa legislatura che le domande su talune vicinanze tra Ministri, presidenti, parlamentari con ambienti fascisti e neofascisti affollano i (tele)giornali italiani.

Il primo rappresentante dello Stato – la seconda carica di questo paese – a cui è stato chiesto da alcuni giornalisti di dichiararsi antifascista è Ignazio La Russa.

Complici forse quel saluto romano in Parlamento, il busto del Duce in cucina, i cimeli del colonialismo fascista in Africa, la camicia nera esposta in casa sua, il suo secondo nome dal sapore retrò (Benito) e la vicinanza in gioventù all’MSI, i dubbi su una sua possibile affiliazione – se non più partitica quantomeno di cuore – agli ideali fascisti sono sorti piuttosto spontaneamente. 

Riuscito quasi sempre a tergiversare e a lanciare deliziose e fantasiose supercazzole (tra cui: «siamo tutti eredi del Duce, se intendi eredi di quell’Italia dei nostri padri, nonni e bisnonni» in risposta a Michele Emiliano), non è riuscito a scappare alla redazione di Repubblica, a cui lo scorso aprile ha dichiarato che la nostra Costituzione di riferimenti all’antifascismo non ne fa.

Chissà quale Costituzione ha letto, ma corriamo oltre.

Neanche Lollobrigida è stato particolarmente espansivo nel parlare di antifascismo con i giornali.

Dopo aver travisato Pasolini e aver dichiarato di odiare il “fascismo degli antifascisti”, qualche settimana fa davanti ai cronisti presenti al congresso romano di Fratelli d’Italia ha dichiarato che il concetto di antifascismo non gli piace molto, perché, cito, il concetto di “anti” non lo convincerebbe molto. Preferisce la preposizione propria “per” (per fascismo? Freud lo chiamerebbe un lapsus). Subito dopo ha ricordato con affetto i tempi dell’MSI e ha aggiunto anche che Mussolini andrebbe storicizzato.

Valditara sembrava promettere meglio a parole: nel 2023 aveva perfino pronunciato la parola antifascismo senza aver conati o rash cutanei improvvisi. Poi però si è lanciato in una brutta, violenta, prepotente accusa alla preside Savino che, in una circolare scolastica destinata al suo istituto fiorentino in seguito alle aggressioni da parte dei movimenti studenteschi neofascisti agli studenti del Michelangiolo, aveva difeso proprio i valori dell’antifascismo.

Sangiuliano a gennaio invece ha deciso di rispondere alla domanda di un cronista dell’Ansa, che gli chiedeva se si dichiarasse apertamente antifascista, strappandogli il microfono dalle mani e chiedendogli con brutalità se lui – il cronista – fosse pronto a dichiararsi anticomunista.

Piantedosi si è allineato alla linea di Governo e, alle domande di un’intervista di un paio di mesi fa, ha risposto di essere fermamente antifascista. Così come è anticomunista e antitotalitarista. Insomma, sembra che tra i vari Ministeri sia passata una circolare con la formula standard da usare in caso di emergenza. 

Salvini è un maestro nell’arte dell’escapismo sul tema: per anni – soprattutto nel periodo in cui era appassionato sostenitore e frequentatore di CasaPound – si è sempre dichiarato lontano dall’antifascismo. Solo recentemente, a “Belve”, il programma di Francesca Fagnani, si sarebbe dichiarato antifascista. E subito dopo anticomunista. Per bilanciare, non avesse a venirgli un travaso di bile in studio.

Meloni è come il mostro finale del videogame: farle ammettere di abbracciare i valori antifascisti è difficilissimo. È diventata sempre più scaltra nel rigirare frittate, fingere problemi tecnici, fare finta di nulla davanti alla domanda e passare subito alla successiva.

Ha condannato i nazisti, i lager, il comunismo russo, Mao, ma mai il fascismo. 

A capo del partito – e poi del Governo – che ha raccolto le briciole dell’MSI, con una gioventù in Alleanza Nazionale e una ormai storica dichiarazione del 1996 alla tv francese in onore di Mussolini – “è stato un buon politico, il migliore degli ultimi cinquant’anni” (cit) – Meloni è talmente refrattaria nel voler prendere le distanze dalle proprie radici che qualche giorno fa a Bruxelles, al termine del Consiglio Europeo, alla domanda di un giornalista che le chiedeva se si dichiarasse antifascista non ha risposto, lasciando un silenzio piuttosto eloquente davanti a quei microfoni. 

In questo meraviglioso panorama, che se non fosse preoccupante farebbe anche ridere, il gioco di risemantizzare alcune parole portato avanti dagli esponenti del Governo Meloni sta purtroppo funzionando.

A forza di ripetere che dichiararsi antifascisti sarebbe come dichiararsi anticomunisti – non serve, vero, che vi dica perché in Italia questa frase non solo non abbia senso, ma sia anche un pessimo, ridicolo, puerile artificio retorico? – si è svuotato il termine legato alla liberazione del nostro paese dal regime mussoliniano. 

Continuare a spostare l’attenzione dal tema al suo contorno (la parola, gli altri totalitarismi, la presunta mancanza di complessità, la necessità di apparire sempre come vittime di un complotto della sinistra) sta riuscendo a cancellare la già precaria memoria di un popolo in crisi d’identità.

Unitamente a questa risemantizzazione del termine “antifascismo”, le politiche del Governo Meloni remano nella direzione della censura, ovvero l’alleato più potente di ogni organismo politico con tendenze estremiste.

Prima le nomine Rai, poi l’esodo dalla tv pubblica, poi l’editto – quello “bulgaro” di Berlusconi a confronto fu una passeggiata di salute per la democrazia e il pluralismo di questo paese – con cui sono stati cancellati i palinsesti radio Rai, le voci storiche della televisione di Stato, i programmi scomodi – su tutti quello di Saviano – l’essenza del contraddittorio stesso. Poi la censura del monologo di Nadia Terranova a “Che sarà”, in cui la scrittrice avrebbe voluto parlare delle cariche della polizia a studenti e studentesse durante la manifestazione di Pisa a sostegno del popolo palestinese. Questa censura è passata in sordina rispetto alle altre (sarà perché Terranova è donna? Lancio il dubbio a voi lettori e lettrici, io la mia triste idea la ho già) ma non è meno grave, anzi. Fa ben capire la linea editoriale di Telemeloni. 

Fino ad arrivare alla censura di Scurati, che avrebbe dovuto tenere un monologo a “Che sarà”, il programma condotto da Serena Bortone, e che la dirigenza Rai ha cancellato a poche ore dalla diretta prevista.

Il monologo di Scurati verteva proprio sull’incapacità di questo Governo di prendere le distanze da un passato con il quale il nostro paese non ha mai fatto i conti. 

Il premio Strega, docente universitario, nonché uno dei maggiori conoscitori e studiosi contemporanei del Ventennio fascista, analizzava come l’inedia nel trattare quella parte della nostra storia abbia fomentato movimenti neofascisti e portato a un tentativo di riscrittura del passato.

Incapaci di ripudiare il fascismo, come Costituzione invece prevede, il nostro gruppo dirigente post-fascista (come lo chiama Scurati e a cui io mi accodo con convinzione) sta cercando di confondere le acque di un paese in crisi. Una crisi sociale, economica e culturale che porta facilmente alla nostalgia di un passato che viene – in primis dagli esponenti di questo Governo – troppo spesso glorificato e mai saldamente condannato o quantomeno dipinto per quello che realmente fu: un disastro di morte, distruzione, violenza e carestia che rovinò il nostro paese, portando alla morte di centinaia di migliaia di persone e alla distruzione di una generazione intera. 

Ma questo non è possibile, non è uno scenario contemplabile, perché questo Governo si nutre da sempre del supporto di associazioni, partiti-satellite e movimenti neofascisti.

I resti dell’MSI sono seduti nelle aule del Parlamento, e persone indagate per stragi nere premiate con promozioni (vedasi De Angelis alla comunicazione della Regione Lazio). Casa Pound è stata sorella e alleata di Ministri della Repubblica, Forza Nuova e Casaggì sono i luoghi da cui è partita la militanza del Presidente del Consiglio della Repubblica italiana: rinnegare il fascismo sarebbe una mossa kamikaze per un organizzazione paragovernativa come questa.

E non solo.

Perché forse queste sono solo tante giustificazioni che mi voglio dare davanti al silenzio e al revisionismo storico portati avanti da questo Governo.

Perché forse la risposta più semplice è anche quella più veritiera e terribile: è infatti impossibile rinnegare il Ventennio per chi è ancora fascista nel 2024.

Alle soglie di questo 25 aprile provo un grosso scontento e una lacerante preoccupazione per quelle che saranno le sorti di questo nostro paese, sempre più vicino al modello ungherese che alle forme virtuose di democrazia.

Mi chiedo cosa direbbe il mio nonno paterno, oggi, vedendo glorificare lo scempio per cui la sua generazione ha dato la vita.

Meloni, Salvini, Valditara, Sangiuliano, Piantedosi e gli altri escapisti di professione non sapranno dire cosa sia davvero l’antifascismo. 

Ma io sì. E come me migliaia, centinaia di migliaia di altre persone, centinaia di altri e altre intellettuali, attiviste e attivisti, giornaliste e giornalisti. 

L’antifascismo fu il movimento più trasversale della nostra storia politica. 

Comunisti, monarchici, cattolici, anarchici, preti, avvocati, contadini, donne, ragazzini, medici, disertori decisero di resistere davanti alla violenza cieca e poco intelligente del fascismo e ci donarono quella che oggi chiamiamo democrazia.

Lo sforzo di un intero paese ci ha regalato con il sangue, e con la Resistenza, lo strumento prezioso che è la nostra Repubblica. Lo stesso strumento con cui questo governo vuole riaffermare ideali e metodologie fasciste.

Ma se Meloni e compari, anziché evitare la storia, l’avessero studiata, saprebbero che nessun popolo davanti all’ingiustizia si fa prendere a lungo per il culo.

E che, di tutte le virtù, quella dell’intelligenza non è tipica dei nostalgici del Ventennio.

Proprio per questo, evidentemente, le voci libere degli intellettuali fanno così paura da meritare la censura.

In questo clima di tensione, un clima in cui si può essere licenziati senza preavviso o censurati per un monologo, sta nascendo per fisiologica risposta un movimento antifascista sempre più eterogeneo e coeso, che ricorda benissimo le radici di questo termine e che non ha mai avuto paura, tantomeno adesso, di urlare a gran voce Viva l’Italia antifascista.

Che questo 25 aprile sia un giorno di festa, di ricordo e di militanza. 

Alla faccia di chi ci vuole insegnare una storia diversa dalla nostra.

ARTICOLO n. 31 / 2024

MI DIMETTO DALLA MIA CLASSE. MA SEI IMPAZZITƏ?

Confini sociali, sessuali, istituzionali e del lavoro

Non si cambia classe sociale come una camicia. Oggi quella camicia è una camicia di forza. Immobilismo, conservazione o declassamento. In questo scenario solo qualcuno si conquista il diritto alla “mobilità sociale”. Cantanti, sportivi o imprenditori, talvolta incarnati nella stessa persona, per esempio. Gli altri sono alle prese con un dilemma: difendere o perdere quel poco, o molto, che i genitori hanno conquistato nell’epoca d’oro degli anni ’60-’70-’80, definiti “gli anni gloriosi”. Il Novecento è una questione di eredità. Patrimoniale. Per i migranti, tranne qualcuno compreso nelle categorie sopra menzionate, nemmeno quella.

Se c’è un discorso sulla questione sociale oggi è quello della promessa tradita dell’“ascensore sociale”, e in particolare delle classi medie “basse” o povere. Al tempo della pretesa “fine delle classi sociali”, quella “media” è ancora legittimata a parlare, anche perché sui suoi valori è costruita buona parte della comunicazione massmediale. Il terrore di tornare indietro, verso mondi arcaici senza nome – da cui i nonni e i padri di quelle classi provenivano – toglie il fiato e aumenta la paura. Anche perché una società come questa non ha pietà per i “falliti”. Chi invece non ha nulla, tranne le catene, è contemplato solo come minaccia, oppure è compatito come “escluso” o “povero”.

L’ascensorista

C’è stata un’epoca che ha atteso un Messia. Quella attuale attende inutilmente il tecnico degli ascensori. L’ascensorista è una metafora che ha trasformato la società in un condominio dove un ascensore sale e scende. Lui è il protagonista del racconto della mobilità sociale. Occupa il ruolo della mano invisibile del mercato, è la forma secolarizzata della provvidenza, è la metafora dell’assunzione in cielo, dell’investitura carismatica, o della predestinazione.

L’ascensore sociale è sempre stato guasto. E, quando ha funzionato, lo ha fatto grazie alla lotta di classe. La “mobilità sociale” non è una metafora del mercato, ma è l’effetto di un attrito con esso, oltre che della manifestazione di una soggettività irriducibile alla logica dello scambio tra una domanda e un’offerta. Eppure a questo è ridotta, a una lotta di classe malintesa e mascherata. Ci si concentra sull’immagine di una società-piramide, non sul problema di chi ha creato la scala, su chi manda il tecnico quando l’ascensore si blocca o sul potere di chi decide che la ricchezza va in un senso e la povertà nell’altro. 

Nella metafora dell’ascensore sociale è sempre entrata solo un’élite che accede alle posizioni superiori. Può essere ampia quanto si vuole, ma non può evidentemente raccogliere tutta la popolazione. Tutti non entrano nella stessa cabina. A turno potrebbero farlo? Forse anche sì, ma se tutti andassero all’ultimo piano l’intero palazzo crollerebbe. La metafora, pur assurda, ha una logica stringente. 

Sebbene le frontiere si siano allargate, al tempo rimpianto dai più dei “trenta gloriosi”, il sociologo Paul Pasquali ha ipotizzato che l’ascesa sociale abbia escluso almeno un terzo della popolazione con un basso livello di istruzione. Questo è accaduto in Francia. è ragionevole pensare che in un paese come l’Italia che ha conosciuto un notevole cambiamento anche grazie alla scuola e all’università “di massa”, gli esclusi siano stati molti di più. Nonostante una relativa redistribuzione della ricchezza, causata dai tentativi spesso drammatici di allargare la base sociale della democrazia, il potere è rimasto lo stesso, indipendentemente dagli esiti che i singoli vissuti, pur valorosi, hanno avuto.

Il cortocircuito è iniziato con l’inarrestabile riduzione delle possibilità (sociali, professionali, relazionali) della classe media. Non è stato dunque l’accesso mancato ai piani alti dei lavoratori con una scarsa istruzione, ma quello di chi ha lottato ed è stato selezionato per ottenere meriti, capacità e riconoscimenti che non si sono tradotti né in posti di lavoro adeguati, né soprattutto con una sicurezza economica che in passato è stata barattata con la rinuncia a cambiare la gerarchia che stabilisce i poteri.

Annie Ernaux 

Annie Ernaux sarebbe stata un caso esemplare di “ascensione sociale”. Lei, figlia di piccoli commercianti provinciali, è diventata scrittrice di successo in Francia e premio Nobel per la letteratura. I suoi romanzi hanno descritto cosa significa emanciparsi in una società dove i ruoli sono fissati e solo agli individui “meritevoli” è permessa la scalata.

Annie Ernaux, protagonista dei suoi romanzi, ha una storia tutt’altro che individuale. Nel suo racconto che ibrida l’autobiografia, il saggio storico e sociologico, la filosofia e il romanzo emerge un’epopea collettiva. Quella di una lotta di classe in cui una società ha sfidato il razzismo “interno” contro il proletariato e la classe media inferiore, mettendo in crisi la divisione sociale dei ruoli.

Dell’Io, protagonista di molta “autofiction” di oggi, Ernaux fa un uso strategico. Per lei l’Io – forma al tempo stesso maschile e femminile – è uno strumento esplorativo per catturare le sensazioni, guida all’autenticità della ricerca e impegno a rompere la solitudine «delle cose sofferte e sepolte», a «pensare in modo diverso a noi stessi». «Quando l’indicibile viene alla luce, è politico». 

«Per quanto mi riguarda, è vero che non riesco a pensare ad altro che alla scrittura. Ho sempre pensato che la scrittura fosse un modo di intervenire nel mondo… Non ho mai voluto che i libri fossero qualcosa di personale per me. Non è perché mi sono successe delle cose che le scrivo, ma perché sono successe, quindi non sono uniche… Quando l’indicibile diventa scrittura, è politica. Certo, le cose le vivi personalmente… Ma non devi scriverle in modo che siano solo per te. Devono essere transpersonali, ecco cosa devono essere» (A. Ernaux, Le Vrai Lieu. Entretiens avec Michelle Porte, 2014).

La scrittura come confessione di classe originaria o elettiva è “transpersonale”, nel senso che si connette con coloro che sono invisibili, non sono in grado di scrivere, ma hanno altri codici con i quali hanno tradotto il loro desiderio di emancipazione. La scrittura parla sia con i laureati all’Ecole Normale Supérieure consacrati professori universitari che con gli operai, i borghesi, gli inquieti e i non classificabili che hanno rifiutato di aderire alle aspettative borghesi o aristocratiche dei loro genitori.

Ernaux ha inoltre insistito sulla duplice espressione: “ho tradito la mia razza”, “ho tradito la mia classe”. L’ambivalenza è dovuta sia a un equivoco epistemico e politico diffuso nel movimento operaio alle cui origini, come ha spiegato anche Michel Foucault in Bisogna difendere la società, la “razza” e la “classe” si sovrapponevano e confliggevano.

Ernaux ha scritto che sessant’anni fa l’espressione “Scriverò per vendicare la mia razza” riecheggiava il grido di Rimbaud: “Sono di una razza inferiore da tutta l’eternità“. Aveva 22 anni. Studiava letteratura in un’università di provincia, tra ragazze e ragazzi, molti dei quali appartenenti alla borghesia locale. 

La “razza” è quella comune degli oppressi al di là del colore della pelle e delle appartenenze sociali e nazionali. La classe “tradita” è quella di nascita. Il suo tradimento è l’effetto di una rivolta diffusa contro i meccanismi che riproducono la società oppressiva così com’è. 

In un libro come L’evento, storia di un’interruzione di gravidanza, è apparso chiaro che la rivolta contro l’oppressione di classe camminava insieme a quella contro lo Stato che condannava le donne ad abortire illegalmente. La scrittura è uno strumento di liberazione sociale e femminista. Vendicare la “razza” significa vendicare sia la “classe” che “il mio sesso”. Sono “la stessa cosa”.

Didier Eribon

La lotta contro la metaforologia neoliberale basata sull’ascensore sociale è stata alimentata anche dal libro di Didier Eribon Ritorno a Reims. Un libro che ha recepito le istanze maturate da Ernaux e ha contribuito a un ricco dibattito letterario e politico al quale ha partecipato un altro scrittore, Edouard Louis con un romanzo come Il caso Eddy Bellegueule.

All’intersezione tra donna, razza e classe sulla quale ha riflettuto Ernaux, Eribon ha aggiunto un altro aspetto: il rapporto tra l’appartenenza di classe e l’omosessualità. Figlio di una famiglia operaia, dunque di una classe più chiaramente schierata nel conflitto di classe, Eribon ha dovuto difendersi dallo stigma omofobo nel suo ambiente di provenienza.

«Per me – ha scritto – fu capitale la frase di Sartre nel suo libro su Genet: “L’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi”» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p.91).

Lo studio fu un modo per liberarsi dallo stigma sessuale. Eribon andò a Parigi dove trovò più semplice vivere la sua sessualità. 

«Ero segnato nel profondo da due verdetti sociali: un verdetto di classe e un verdetto sessuale. Non si sfugge mai alle sentenze di questo tipo. E porto in me il segno dell’una e dell’altra.  Poiché in un momento della mia vita entrarono in conflitto l’una con l’altra, dovetti forgiare me stesso facendo giocare l’una contro l’altra» (D. Eribon, Ritorno a Reims, pp.196-197).

Per l’emancipazione individuale per realizzare una transizione sociale di successo serve un’“ascesi: un lavoro di sé su di sé. In un doppio senso: nel riappropriarmi e nel rivendicare il mio essere sessuale ingiuriato nel primo caso; nello strapparmi dalla mia condizione sociale di origine nel secondo”.

Ma ciò ancora non bastava. Serviva la sua connessione con la liberazione politica, sociale e sessuale collettiva. Dunque, la coniugazione tra la singolarità e l’universalità nella concretezza dei vissuti collettivi. Nel frattempo qualcosa si era rotto nella politica delle “sinistre”. Quella socialista, dopo il 1983, era diventata sia neoliberale che conservatrice, aveva cioè rinunciato a trasformare il sistema capitalista ed era diventata “neoconservatrice”:

«Voleva rimpiazzare gli oppressi e i dominati di ieri – e le loro lotte – con gli “esclusi” di oggi – e la loro presunta passività –, e di piegarsi verso di loro come destinatari potenziali (ma silenziosi) di misure tecnocratiche destinate ad aiutare i “poveri” e le “vittime” della “precarizzazione” e della “disaffiliazione» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p. 115). 

Eribon ipotizza che la lotta di classe non sia stata perduta solo dalle trasformazioni produttive del capitale e dall’effettiva tenuta del “blocco conservatore” dopo il maggio ‘68. Fu sabotata dall’interno dai “partiti di sinistra e dai loro intellettuali di partito e di stato che pensavano e parlavano con un linguaggio da governanti e non più da governati”.

«Non si parlò più di sfruttamento o di resistenza, ma di “modernizzazione necessaria” e di “rifondazione sociale”; non si parlò più di rapporti di classe, ma di “vivere insieme”; non si parlò più di destini sociali, ma di “responsabilità individuale”. Fu giustificata la demolizione del welfare state e della protezione sociale, in nome di una necessaria individualizzazione (o decollettivizzazione, desocializzazione) del diritto del lavoro e dei sistemi di solidarietà e di ridistribuzione». 

Il problema di Eribon è comprendere la ragione per cui la classe operaia, a cominciare dalla sua famiglia, ha iniziato a votare l’estrema destra della famiglia Le Pen a cominciare dagli anni Ottanta, proprio in coincidenza della svolta neoliberale della “sinistra”. La diga del partito comunista francese non è servita, è avvenuto uno spostamento. Ad avere contribuito a questo esito sarà stato il razzismo anti-immigrati in quel partito denunciato già all’inizio degli anni Ottanta. Ma, questa è la tesi di Eribon, la trasformazione è stata sia la causa che l’effetto di un cambiamento del “blocco sociale” che ha unito 

«Ampi settori delle classi popolari fragilizzate e precarizzate a commercianti, a pensionati benestanti del Sud della Francia, se non addirittura a militari fascisti o a vecchie famiglie cattoliche tradizionaliste e dunque fortemente radicate nella destra, perfino nell’estrema destra. Entrando in nuove alleanze politiche, in nuove configurazioni politiche, questo gruppo – composto solo da una parte del vecchio gruppo mobilitato nel voto comunista – è diventato altro da quello che era un tempo. Le persone che lo costituivano pensarono se stesse, i loro interessi e i loro rapporti con la vita sociale e politica in modo totalmente differente» (pp. 47 e 117).

L’impotenza creata dalla crisi, e dall’incapacità delle sinistre di assemblare un nuovo blocco sociale che unisse la strategia della liberazione che Ernaux ha preso dai soggetti della rivoluzione del ‘68 a quella della classe operaia, è diventata rabbia. La classe sociale decostruita dai discorsi neoconservatori della sinistra, «ha trovato un nuovo modo di organizzarsi e di far conoscere il suo punto di vista». 

Un punto di vista che contrappone il “noi” (francesi) a “loro” (immigrati) e sovrappone la lotta di classe a quella razzista. Ciò non basta a riavviare l’ascensore sociale, ma aggrava la separazione tra i subalterni e gli oppressi. In compenso la lotta per salire in una cabina bloccata è feroce. A quarant’anni dall’inizio del processo è ancora difficile uscire da questa trappola:

«Non ci si dissocia facilmente da un’appartenenza politica in cui si è mentalmente situati da molto tempo – fosse anche in modo instabile e incerto – per crearsi di punto in bianco un’altra appartenenza, vale a dire un altro rapporto con sé e con gli altri, un altro sguardo sul mondo, un altro discorso sulle cose e sulla vita».

Transfugadisertore, di classe

Un disertore di classe è una persona che ha superato le barriere sociali. Questo passaggio può avvenire in direzione dell’ascesa sociale (Ernaux), ma anche in direzione opposta (Eribon). Il disertore è un individuo che partecipa a un processo di massa, oppure un individuo che perde i contatti con tale processo. Quando accade può trovare una comunità globale di appartenenza – è il caso sia di Eribon che di Ernaux, il primo nell’accademia, la seconda nelle lettere. Ciò non toglie che entrambi continuano ancora oggi a voler uscire dalla loro terra di nessuno. 

L’esito della loro lotta non dipende dalla volontà, dal talento, dal merito di un individuo, né dalla forza impersonale di un sistema, ma da un conflitto che si svolge anche dentro chi vuole uscire dai confini sociali, sessuali, istituzionali, capitalistici e del lavoro. Questo conflitto è generato dall’attraversamento dei confini – tanto sociali quanto spaziali – oppure dalla sua “riterritoralizzazione” all’interno di perimetri già dati che formano nuovi territori, anche immaginari. 

Per spiegare il senso di questa lotta la filosofa spinozista Chantal Jaquet ha coniato il fruttuoso neologismo “transclasse” sul modello della parola “transgender” o “transessuale”. A suo avviso, sia Ernaux che Eribon sono un esempio di questa transizione trasformativa. 

La parola transclasse, adattata dal concetto anglosassone di passaggio di classe [class-passing]Passing è il titolo di un romanzo di Nella Larsen del 1929, indica l’azione di fuggire alla segregazione razziale e sessuale di una donna nera nell’America segregazionista. Tale “transizione” può avvenire in entrambi in sensi della linea del colore: il “nero” può fingere di essere bianco, ma anche il bianco può dire di essere “nero” (è raccontato nel 1961 in Black like me dal giornalista John Howard Griffin). Lo stesso può fare una donna che passa per un uomo, e viceversa.  E ancora un gay che “passa” per un “uomo eterosessuale”. 

La “finzione” si rende necessaria perché i transclasse devono affrontare un’ostilità tale che preferiscono mimare le convenzioni vivendo però quello che sono, cercando di sfuggire alla repressione. Il problema è sentito tra le donne che hanno dovuto affrontare la dominazione maschile nella classe operaia che cercava di emanciparsi, ma anche dagli omosessuali e dalle lesbiche, per non parlare dei trans oggi.

Un’interpretazione riduttiva ritiene che lo scontro sia confinato alle singole identità sessuali che legittimamente lo producono oggi. In realtà, proprio in ragione dell’estensione del concetto di “transclasse”, questi soggetti richiamano una potenzialità che risuona a partire dalla propria condizione individuale. Il processo è irriducibile a quello economicistico indicato dall’“ascensore sociale”. È tortuoso, inquietante e irriducibile a una misura unica. Il “passaggio di classe” non avviene solo rispetto alla gerarchia sociale e produttiva, ma anche rispetto alla posizione rispetto all’identità e alla differenza, la memoria e gli affetti, la sessualità e i poteri. 

A differenza della narrazione sulle “classi popolari” usate come mascotte dell’ordine sociale dominante per alimentare l’ideologia del “capitalista umano”, il “passaggio di classe” è un’attività complessa non limitabile a un’ascesa o a una caduta in una scalata. Parliamo di un duplice lavoro: quello su di sé connesso a uno con gli altri. Tale nesso è considerato marginale o vincolato alla trasformazione dell’ordine economico e politico. Oppure è ostacolato, deriso e considerato “pericoloso”. L’idea di fuga, diserzione o tradimento, per di più talvolta legata a una trasformazione sessuale, aggrava le inquietudini in un tempo in cui si cerca di vincolare l’esistenza a un’idea di un ordine “naturale”. Non esiste nulla di peggio che essere considerati rinnegati in un momento in cui bisogna serrare le fila nella guerra guerreggiata, delle identità e dei commerci.

Jacquet è stata criticata perché l’ha limitata alla sfera individuale, mentre si tratterebbe di pensarla in termini collettivi: una soggettività si trasforma quando è connessa alla società, alle tecnologie, all’ambiente e all’economia. A tale proposito, ne Le tre ecologie lo psicoanalista e filosofo Fèlix Guattari parlava della connessione tra l’ecologia mentale, sociale e ambientale. Più che auspicare il passaggio di un individuo da una classe all’altra già formate, si tratterebbe dunque di realizzare una trasformazione di un mondo diviso in classi. Ma è evidente che un movimento non è separabile dall’altro. È la connessione dell’uno con l’altro che ieri, come oggi, è considerata insidiosa e, per questo, va bloccata. Una simile ipotesi manda in tilt le destre al potere, e sorprende sempre più spesso le “sinistre”. In questa impasse il desiderio di dimettersi dalla propria classe, e dal suo mondo, sembra una supposizione priva di fondamento.

ARTICOLO n. 30 / 2024

OPINIONI DIVERGENTI

Arte e intelligenza artificiale

È da tempo che io e Silvio Lorusso ci leggiamo con reciproca stima e notevole disaccordo in merito alle tecnologie di IA generativa, spesso punzecchiandoci sui social rispetto alle nostre opinioni divergenti. In occasione dell’uscita del mio libro La rivoluzione algoritmica delle immagini per Sossella Editore non ho resistito alla tentazione di mandargli una copia, e quando Giacomo Giossi mi ha proposto un dialogo con lui attorno al libro sapevo che ne sarebbe nato un confronto interessante. I critici sono sempre preziosi (almeno finché non dicono palesi sciocchezze o millantano minacce) e sebbene in questo dialogo ci siamo fermati dopo cinque pagine, saremmo potuti andare avanti per altre cento. Ovviamente senza trovare un accordo.

Silvio Lorusso: Non mi dispiacerebbe entrare subito nel vivo affrontando le nostre divergenze, ma forse prima di parlare di ciò è importante esplicitare, quanto più precisamente possibile, il nostro rapporto con l’Intelligenza Artificiale come strumento e come ambito e, di conseguenza, il disequilibrio che c’è tra noi due. Mi spiego meglio. Tu hai pubblicato una graphic novel che fa uso di TTI e un saggio su immagini e Intelligenza Artificiale. Tieni regolarmente – mi sembra – corsi e conferenze su questi strumenti, sei stato di recente incluso in una lista delle “500 italiani e italiane che contano nell’Intelligenza Artificiale” secondo Repubblica. Su Facebook pubblichi quotidianamente post e commenti sul tema, discuti informalmente con gente del calibro di Lev Manovich e Luciano Floridi.

Mentre io, be’, mi limito a pubblicare di tanto in tanto qualche appunto a proposito dell’IA sul mio blog. Questo è quanto. Tuttavia sarei insincero se non dicessi anche che il mio understatement non deriva soltanto da un certo snobismo nei confronti di un’intellighenzia culturale in formazione attorno all’IA, che reputo opportunistica, ma anche dal timore di agire entro una cornice di riferimento passeggera e forse già obsoleta, costituita da tecno-entusiasti da un lato, e conservatori “umanisti” dall’altro. Una cornice peraltro incoraggiata in senso propagandistico dalle aziende che offrono servizi a base di IA.

Dunque ti vorrei chiedere, innanzitutto, se ti rivedi nel ritratto professionale che ho abbozzato, e se provi un simile timore.     

Francesco D’Isa: In realtà anch’io non mi sento a mio agio tra tecno-entusiasti e conservatori “umanisti”, come li definisci, perché non mi ritrovo in nessuno dei due gruppi. Il fatto che uso con entusiasmo (quello sì) le IA generative, che sono critico (anche da prima) verso il copyright e che non credo che siano strumenti poco creativi o addirittura dannosi per la creatività mi situa per molti tra i tecno-entusiasti; ma il fatto che critichi le scelte non open source di molte aziende tech, il loro usare un bene che reputo pubblico come i dati per il training a fine di lucro personale senza restituire nulla alla collettività, le preoccupazioni per le IA militari, quella per la chiusura culturale dei dataset, la mia critica ai filtri che mettono molte aziende ai loro software, la mia opinione sulle AGI… non piacciono a tutti i tech bros. E poi ci sono cose che non piacciono a nessuno, come il fatto che credo che le IA ci mettano davanti alla nostra mediocrità e ai nostri bias e difetti.

Per questo non ho paura di far parte di un milieu in scadenza: sono una persona che si occupa di filosofia e arte da tempo, questi strumenti sono (tra le altre cose) una perfetta congiuntura di interesse tra i due ambiti, sia dal punto di vista pratico che teorico. Sono strumenti che faranno parte anche del nostro futuro, questo penso sia assodato, e tutti coloro che ne hanno parlato, in qualunque modo, troveranno in futuro cose di cui si pentiranno e cose che saranno felici di aver detto, noi due inclusi. Se tacessi per paura o per uno snobismo che non mi appartiene penso che verrei meno al mio ruolo negli ambiti in cui lavoro. È un tema sicuramente molto interessante da esplorare, in fondo cosa dovrei temere? Di dire delle sciocchezze? Ma quello mi capita di continuo! Sarà la formazione filosofica ma non è certo una cosa di cui mi preoccupo, perché non implica che il mio contributo sia inutile o di cattiva qualità. Non è che se una teoria filosofica è sbagliata allora è inutile – anche perché è impossibile trovarne una che sia universalmente considerata “giusta”.

Avevo il timore di mettere tutto questo sotto forma di libro, quello sì, ma come hai visto ho cercato di trattare i temi in modo ampio. E soprattutto, come ha detto Sossella, che ha tanto insistito perché io lo scrivessi, è bene far sentire anche voci diverse e mettere un segno di passaggio in questa fase storica.

SL: Però bisogna ammettere che tra un punto di vista accorto ma errato e una sciocchezza plateale c’è una differenza, altrimenti saremmo tutti Spinoza. Ma il vero discrimine non sta tanto nel dire cose giuste o sbagliate, quanto nello scegliere opportunamente le questioni a cui dedicare tempo ed energia. Prendiamo il problema della creatività. Mi pare così male impostato che non credo valga nemmeno la pena discuterlo. Parlare di danno o supporto alla creatività vuol dire rifugiarsi nel trascendentale: se si può creare qualcosa di nuovo con l’urina o Excel non vedo perché non lo si possa fare con Dall-E. La questione si fa invece interessante quando si considera la creatività non come una qualità del soggetto o una categoria estetica bensì come un programma socio-economico. È quello che hanno fatto autori come Angela McRobbie (Be Creative) o Oli Mould (Against Creativity). Tale prospettiva ci mostra che esprimersi sull’alto o basso tasso di creatività dell’IA o del soggetto che ne fa uso vuol dire rimanere intrappolati nella narrazione offerta da diversi attori economici attivi nel campo dell’Intelligenza Artificiale, i quali alimentano l’immagine del creativo professionista per venderla ai consumatori, come Adobe e Apple prima di loro. È per questa ragione che gli utenti vengono nobilitati ricorrendo a formule come “AI artist” o “prompt engineer”.

Detto ciò, il fatto che le IA ci pongono davanti alla nostra mediocrità effettivamente non piace neanche a me, ma non per il suo contenuto bensì perché si tratta di un’affermazione troppo generica. Ti chiederei dunque di precisare il “noi” in questione.

FD: Be’, allora la mia risposta diventa che non credo di aver detto immense sciocchezze né di dedicare il mio tempo a qualcosa di inutile, altrimenti non lo farei. 

Concordo con quanto dici sulla creatività, l’idea del “creativo professionista” è un’immagine che fa comodo alle aziende, e non parlo solo di AI, ma anche di Adobe per intenderci. Si tratta della nobilitazione di una figura che non coincide con quella dell’artista, o almeno non del tutto. I lavori che sono appaltati al “creativo professionista” sono in genere applicazioni commerciali che non hanno molto a che fare con la produzione artistica e spesso nemmeno creativa in senso stretto. Si tratta di figure parallele o di ruoli che vengono svolti per motivi economici.

Pensa a James Harvey, che negli anni Sessanta era un espressionista astratto che per vivere faceva anche lavori grafici, come il logo “Brillo” finito nell’omonima opera di Warhol – fatto curioso, un’opera che Harvey vide al vernissage di Warhol senza risentimenti di sorta. Le TTI non open source sono tarate verso questo tipo di lavori perché sono quelli più redditizi, e questa calibratura del dataset e a volte della programmazione le rende più complesse da usare a fini artistici. Neanche io amo formule come “AI artist” o “prompt engineer”, perché implicano che chi lavora con IA sia una figura nuova, che è falso. Si tratta di alcuni dei vecchi artisti che a un certo punto usano anche le IA, tutto qua. Solo che sono sommersi dalla massa di amatori che le utilizzano autodefinendosi artisti senza esserlo. Anche qui però niente di nuovo: sono la stessa categoria di quegli illustratori, a volte anche celebri, che affollano comunità amatoriali come DeviantArt, piene di opere assolutamente scolastiche, derivative e di maniera. Non c’è niente di male, e possiamo anche definirli artisti se fa loro piacere, ma nella stragrande maggioranza dei casi non si parla di arte, non di quella che poi verrà storicizzata. È ancora una volta una questione statistica: di quelle migliaia di illustrazioni fantasy, anime e sci-fi che affollano quei siti c’è poco che non sia già visto. Questa è la “nostra mediocrità”: adesso una persona che usa benino le IA può produrre delle immagini che, almeno su schermo, sono di media di qualità superiore all’opera di questi artisti – ma né nel caso delle IA né nel caso dei corrispettivi umani trovo corretto parlare di arte se non in senso lato. Prima che si offenda qualcuno, non intendo dire che fumetto, design o illustrazione non siano arte, tutt’altro, ma che nella sterminata produzione contemporanea lo sia solo una piccola parte. Del resto vale lo stesso anche con l’arte da galleria. Quel che intendevo è questo: noi lavoratori nell’ambito della creatività abbiamo prodotto tonnellate di mediocri immagini commerciali a poco prezzo, nobilitati dal pur misero valore reputazionale che vi si aggiungeva con l’idea che erano opere creative se non addirittura artistiche. Nell’imitare alla perfezione questi triti stilemi – ricordiamoci che le IA sono macchine statistiche – ci viene sbattuto in faccia che in genere non eravamo né artisti né particolarmente creativi, o meglio, magari lo eravamo, ma non per merito di questo tipo di lavori.

SL: Mi interessa molto l’aneddoto su Warhol e Harvey. La mia lettura è la seguente: Harvey non si offende perché sa bene che l’opera in questione non è certo la scatola Brillo in sé (anche perché quelle in mostra sono prima dipinte a mano e poi serigrafate), bensì l’operazione concettuale attraverso cui Warhol “iconizza” la società dei consumi ponendoci di fronte a essa senza fare la morale. Essendo lui stesso un fine artist, Harvey riconosce il confine tra commercial art, il suo logo per Brillo, e fine art, la mossa di Warhol. Il problema sorge nel momento in cui questa mossa si rivela irreplicabile, persino per lo stesso Warhol! È quello che notava un suo grande ammiratore, Jean Baudrillard. Dopo Warhol non c’è che lo “stereotipo”, ovvero il kitsch.

Ora, molti fine artist dell’AI dicono: “Guardate, grazie alla mia particolare sensibilità ho colto questo fiore raro nei recessi del dataset (il cosiddetto “spazio latente”, termine tecnico che loro usano in maniera metafisica), ed è una mia “opera”, parte di una “serie”, da esporre in “galleria”…”

Non si rendono conto, però, che in questo modo stanno scimmiottando Warhol, Duchamp, i surrealisti e addirittura i romantici prima di loro. Franco Vaccari aveva notato qualcosa di simile a proposito della fotografia artistica, dominata dalla retorica dell'”istante decisivo” di Cartier-Bresson, ferraglia romantica per eccellenza, in quanto riconferma il ruolo dell’umano, dunque dell’artista, e in ultima istanza del genio individuale. Quindi, delle due l’una: o ci avvinghiamo al mito del genio romantico ricorrendo alla retorica kitsch dell’artista con la A maiuscola (anch’esso “trito stilema”), o accettiamo che la “mediocrità” di DeviantArt è infinitamente meno mediocre di quella del sedicente fine artist doppiamente derivativo (deriva estetica e retorica) che si presenta come un avventuriero di Midjourney, quando in realtà è un utente come tutti gli altri, e in un certo senso meno di tutti gli altri. Ecco perché bisogna essere snob nei confronti degli artisti e i teorici dell’IA che si sbracciano per storicizzare e farsi storicizzare: proprio per non esserlo nei confronti degli utenti di DeviantArt e Tumblr, molto più postumani, “macchinici” e quindi contemporanei dei primi.

FD: La storia di Warhol la leggo come te, con una divergenza nell’interpretazione finale, che pure in parte condivido. È vero che un Brillo è uguale a una Campbell e un orinatoio di Duchamp a una sua ruota, perché veicolano il medesimo senso, ma non è vero che il gesto sia irripetibile. Perché in fondo tutta l’arte concettuale deriva da questi gesti e al netto dei gusti è difficile non riconoscerne la varietà interna – ovvero i modi in cui questo gesto ha generato altre idee. Secondo me quello che viene evidenziato dal punto di vista filosofico non è tanto quanto sia brillante l’idea duchampiana mutuata (e variata, appunto) da Warhol di creare un’opera d’arte solo in virtù di una scelta, ma di evidenziare come sia proprio la scelta una condizione necessaria e spesso sufficiente per fare l’opera d’arte. Non è un caso che Duchamp fosse anche un attento lettore e conoscesse la filosofia Zen.

Non mi ritrovo invece nello sprezzo con cui descrivi il lavoro degli artisti che usano le AI (come altri rifiuto il termine “AI Artist”, perché sembra che si lavori solo con una tecnologia). Nella mia esperienza – ricordiamoci che lo faccio – è una prassi non meno creativa di quelle che ho sperimentato in passato. Concordo però sul fatto che possiamo tranquillamente cestinare l’idea romantica di artista con la A maiuscola, perché messa in crisi da più di un secolo di arte contemporanea e anche perché filosoficamente insostenibile, dato che ogni oggetto d’arte è frutto di un lavoro collettivo – non solo per via dell’innegabile eredità di altri umani da cui questa in parte deriva, ma anche per le agentività non umane all’opera in essa. Però la creatività umana resta in gioco, anche se non da sola, e non scompare di certo con le IA.

È ovvio che non tutti coloro che usano le IA generative sono artisti, si tratta di una minoranza che in genere lo era anche prima. Ma in molti casi gli usi del mezzo sono ben creativi: non vedo alcun argomento a supporto della tua affermazione che siano a priori doppiamente derivativi. Forse ti appelli al cliché del fatto che “fa tutto il computer” perché sono facili da usare? So che è falso per esperienza, esperienza confermata dalla totalità delle classi cui insegno e ho insegnato qualcosa in merito. Le opzioni di Midjourney si moltiplicano a cadenza mensile, le interfacce open source sono così complesse che alcune stento a capirle dopo mesi di utilizzo, le interazioni tra IA diverse, quelle con tecniche tradizionali, tra TTI e LLM, la fusione di modelli, la sottrazione di modelli, il fine-tuning, le referenze di stile… chi considera semplice questo mondo è solo chi lo ha esplorato superficialmente o non ci ha capito molto. Hanno un entry level largo e un top tier stretto, come la fotografia. O forse ti appelli all’idea che il risultato medio di una IA è, appunto, mediocre? È vero, colpa della loro natura statistica e del dataset (dunque anche “nostra”), ma è un motivo in più per lodare chi riesce a ottenere i risultati più rari. Da un punto di vista statistico inoltre la maggioranza degli usi umani di qualunque strumento è un risultato mediocre, perché gli utilizzi più semplici sono sempre i più comuni e i più noiosi.

SL: Ci sarebbe da dire molto – troppo – sulle continuità e discontinuità tra l’orinatoio e la zuppa Campbell, ma ai fini del nostro dialogo vorrei evidenziare un aspetto: mentre le opere di Duchamp sono ammantate di un senso di stranezza, quelle di Warhol paiono atone, e non solo quando raffigurano Liz Taylor, ma anche quando mostrano un incidente stradale. Se in Duchamp si scorge ancora un soggetto che prova inquietudine, in Warhol resta solo un vago stupore infantile e tautologico di fronte alla cosa. Warhol “supera” Duchamp perché mostra l’autonomia della cosa riprodotta in serie: è come se non ci fosse scelta alcuna, perché egli stesso si fa cosa. In tal senso forse Warhol è più Zen di Duchamp. Ora, l’AI Artist (bada: non una persona in carne e ossa ma un costrutto polemico) fa diversi passi indietro quando circonfonde le immagini che genera della sua sensibilità, chiamandole rare, inquietanti, oniriche. Le usa, insomma, per affermare sé stesso, o meglio, un’idea posticcia di sé stesso. È questo l’argomento a supporto della doppia derivatività: da un lato, deriva di una certa estetica weird, dall’altro, deriva di un’idea in ultima istanza sentimentale dell’artista. E invece è molto più weird l’immagine statistica del gattone “carino e soffice” di Dall-E che includi nel libro.

“Fa tutto il computer”: ma magari! È proprio ciò a cui bisognerebbe puntare per produrre un’arte che sappia rispondere a questi sistemi. Sistemi che come dici tu si sviluppano: si moltiplicano le opzioni, le app, i modelli, ecc. E c’è davvero qualcosa di entusiasmante in questo, ma non manca un aspetto deprimente: la top tier di cui parli somiglia molto ai geek della fotografia che acquistano un nuovo modello di fotocamera ogni sei mesi per rimanere aggiornati. Così ricadiamo nel “creativo professionista” che deriva la sua competenza dall’apprendimento enciclopedico del manuale di qualche azienda privata.                

FD: Concordo con quanto dici su Warhol. Penso invece che l’AI artist che generalizzi non esista, il risultato dipende dalla sensibilità di chi le usa. Ogni artista infatti le usa diversamente, mentre la massa le utilizza in modo più o meno analogo, che sì, oscilla tra kitsch e weird. Però il top tier che identifichi, quello del geek fissatone sulla tecnologia, non è affatto quello a cui penso, per me questa figura è sempre nell’entry level.

Ma ripeto, vale per qualunque strumento; come diceva Baudelaire, pur sbagliando sulla possibilità di farci arte, siamo alluvionati da fotografie orrende. E anche da pittura orrenda, sebbene richieda più tempo e dunque ce ne sia meno. La media umana è mediocre, non penso ci sia nulla di sconvolgente nel dirlo, essendo una tautologia – ma siamo noi la causa, non gli strumenti che usiamo.

La cosa affascinante delle IA generative è che anche la loro media è orrenda, ma comunque superiore alla nostra. Tempo fa Ugo Galassi, con cui condivido un dialogo simile al nostro, mi mandò l’immagine di un volantino di un idraulico con un orrendo gattino generato con Midjourney, segnalandomi il problema del gusto. La mia risposta, su cui poi ci siamo ritrovati, è che prima i volantini degli idraulici erano semplicemente ancora più brutti. Intendo questo quando parlo della nostra mediocrità.

Poi certo, ogni artista ha un ego molto invadente, lo vediamo da come pur copiandoci da millenni restiamo attaccati all’idea di autore. Perdere l’ego per me è una necessità spirituale e nello scenario fantascientifico in cui farà tutto il computer, o comunque ci supererà come con gli scacchi, sarà liberatorio fare arte solo per il piacere di farlo (ancora, come con gli scacchi, che non sono certo morti). Il mio punto di vista non è dunque a difesa dell’ego dell’artista che usa AI, anzi, è contro quello di tutti. L’ego va perso in qualunque prassi creativa – anzi, l’ego non esiste, per dirla con Buddha.

ARTICOLO n. 29 / 2024

I MEMBRI DEL GROUP SHOW SI VOGLIONO BENE

una mostra collettiva

Un ‘group show’ d’arte contemporanea può essere compilativo o tematico o, nell’ormai più raro dei casi, architettato su una tesi. Intorno a noi il metodo compilativo è il più comune, perché i rischi sottesi ad altre impostazioni sono spesso percepiti come pruriginosi. Per esempio, permane nel modus operandi più in auge una certa diffidenza verso il dato e il metodo biografici. Seppur talvolta il biografismo fa maldestro capolino sfruttando l’inesausto amore verso il dettaglio feticista, abile a imbellettare le idee più scarne, nella maggior parte dei casi esso soccombe di fronte alla rispettosa e universalista deontologia degli operatori dell’arte, che mostrano il linguaggio dell’artista senza chiedergli di aprire la bocca e tirar fuori la lingua. Proprio perché ho incontrato qualcosa di diverso da tutto ciò in una mostra collettiva per di più presso una galleria privata, mi è venuta voglia di scriverne. 

Alla base di quel che racconto c’è un regista di teatro che da alcuni anni agisce la propria autorialità anche nell’arte contemporanea, vestendo i panni di riattivatore di storie e curatore editoriale: Fabio Cherstich. Cherstich ha trovato anche per questo suo nuovo progetto (che segue quello dedicato a Larry Stanton) la complicità di APALAZZOGALLERY di Brescia, galleria con sede a Palazzo Cigola Fenaroli nota per patrocinare una cultura più sistematica del concetto di mostra collettiva, tra le altre cose impegnandosi a importare anche opere non “in vendita”. La mostra di cui scrivo si intitola ROBERTO JUAREZ 80’S EAST VILLAGE LARGE WORKS ON PAPER + DOWNTOWN AMIGOS Y AMIGAS ed è composta da una parte monografica dedicata all’artista americano di radici messicane e portoricane Roberto Juarez (1952). A questa si aggiunge un’estensione da group show che coinvolge sette “amici”, artisti che appartengono alla stessa comunità di Juarez fiorita nell’East Village negli anni della pandemia di AIDS.

Ora, una domanda che bisognerebbe sempre porsi quando il fare e il visitare mostre ambisce a costruire un programma culturale: perché uno show di questo tipo ha senso oggi? Prima motivazione: in campo pittorico l’Italia ancora non ha chiuso il verboso debito con la Transavanguardia; proporre una mostra in cui pittura prodotta negli anni Ottanta e di stampo neo-espressionista, com’è quella di Juarez, accoglie ibridazioni con un’estetica queer e istanze da émigré aiuta a ricordare che gestualità, istinto, soggettività, indulgenze di vario stampo non devono per forza corrispondere ad antintellettualismo e mancanza di ribellione politicamente definita. Seconda motivazione: leggere l’artista tramite il suo “gruppo” è un’operazione che in anni recenti è stata poco esplorata, e proprio da qui inizia la mia conversazione con Cherstich.

Sofia Silva: Fabio, gli otto artisti hanno intrattenuto tra loro rapporti di varia natura: amicizia, istruzione, condivisione di luoghi, sofferenza e amore. Tu e APALAZZOGALLERY lavorate molto anche su Larry Stanton,il cui soggetto pittorico è stata la comunità stessa: bellissimi ragazzi incontrati nei bar di Manhattan. Presentare l’artista tramite la comunità o, viceversa, veicolare il gruppo tramite un soggetto protagonista non è scontato di questi tempi, in cui spesso si pensa che isolare equivalga a tutelare e che la presentazione monografica dell’artista sia la più meritevole, anzi, la più gentilizia. Tu al contrario stai importando storie corali sotto forma di mostre, dando grande rilevanza al dato biografico. Quali sono i rischi e le virtù del tuo approccio? 

Fabio Cherstich: Il taglio narrativo, biografico, corale dei miei progetti legati all’arte visiva deriva dalla mia formazione e dalla pratica del palcoscenico, poiché a teatro non si lavora mai da soli, ma si racconta sempre una o più storie a qualcuno: si fa tutto per un pubblico. Il mio approccio curatoriale è didattico, nel senso brechtiano del termine, fortemente incentrato sullo storytelling, sul fornire i contesti storici per capire i lavori e il pensiero che ci sta dietro. È un dispositivo in cui stage e backstage convivono. Anche in questo caso alla mostra corrisponde un ampio progetto editoriale che raccoglie non solo le immagini delle opere esposte ma pure tutto il materiale di archivio, di “backstage” degli artisti, nonché testi originali e contributi di artisti contemporanei chiamati a rileggere in forma critica i lavori storici presenti in mostra.

S.S. La mostra presenta diversi lavori di Arch Connelly e Jeff Perrone. Connelly (1950-1993) applica sgargianti materiali decorativi su comuni elementi d’arredo, mentre Perrone (1953-2023) crea dipinti utilizzando materiali tessili e bottoni dove l’approccio iperdecorativista incontra tradizioni storico-artistiche in quei decenni extra-canoniche: quella dei nativi e dell’immigrazione africana, indiana, latina, oltre che la tradizione manifatturiera afghana di tappeti.

Tornare ai lavori iconici di questi due artisti, oggi, dopo tutto quel che si è assimilato e organicamente dimenticato rispetto a individuazione e disintegrazione del genere, fa un certo effetto.

Personalmente mi sono interrogata su quanto certi stereotipi della girlishness (l’estetica da diario segreto, burn book e cameretta della ragazza adolescente da Pretty in Pink a Mean Girls) siano sorelle minori del massimalismo decorativo queer che nel 1982 era già musealizzato in mostre quali Extended Sensibilities del New Museum. Questo immaginario sta oggi tornando in voga, in toni più opachi e post-concettuali, ovunque nel mondo ma anche nell’arte emergente della nostra Milano. 

Di fronte a Connelly e Perrone, mi sono chiesta quanto sia difficile costruire una rappresentazione estetica puramente non-binaria, forse è impossibile; prima pensavo che la decorazione potesse aiutare in tal senso. Cosa ne pensi?

F.C. All’opening della mostra mi ha raggiunto un amico artista milanese, Davide Stucchi. Le sue sculture, frutto di azioni minime, svelano la vulnerabilità degli oggetti, sfidando l’ideale machista dell’artefatto. In lui e nel suo lavoro trovo un intrigante legame con gli artisti queer newyorkesi della generazione Connelly/Perrone. Non sorprende infatti che davanti al lavoro di Perrone, Davide abbia definito il tutto “on DRAG”, un riferimento che si intreccia con il lessico della comunità queer cui Perrone apparteneva. Lo stesso e forse in una forma più pertinente si potrebbe dire del lavoro di Connelly.

Le opere di Connelly, sottoposte a un pesante make-up, si travestono e diventano sculture che nobilitano oggetti comuni grazie all’aggiunta di bigiotterie, glitter e gusci d’uovo glassati. Oggetti sexy, eccessivi, liberati dalla noiosa funzione borghese. Specchi recuperati in mercatini dell’usato o dalla spazzatura diventano preziosi oggetti desiderabili, coperti di tessuti e tulle che richiamano le trame dei collant. I collage di immagini pornografiche incrostati di glitter e stagnola luccicante… Tutto nel suo lavoro è “queer, kitsch, mannered, snobbish, pink, pink, pink, pink” per citare le parole del manifesto che Connelly scrive nel 1982 per codificare la sua opera.

S.S. Facciamo un gioco, azzarda dei lookalike di questi artisti che hanno abitato altre parti del mondo.

F.C. Perrone è un Boetti Queer, sarebbe un doppio show pazzesco. Il diario frocio di Arch Connelly trova affinità col brasiliano Hudinilson Jr., con le sculture sbrilluccicanti e bellissime, vicine al mondo di Raúl De Nieves. E, restando in Italia, la scrittura e gli slogan di Connelly mi fanno pensare al mio amato Nino Gennaro, agli oggetti e alle performance di Desiato. In Connelly intravedo anche ragionamenti concettuali e immaginari vicini ai mondi dell’artista italiana Anna Franceschini, a Davide Stucchi… Sarebbe anche interessante un parallelo tra il suo lavoro e quello di Tomaso De Luca: ci sono delle affinità rispetto all’indagine dei queer spaces e dei queer objects, un’indagine della casa nelle sue varie accezioni che non abbiamo qua il tempo di approfondire, ma che mi piacerebbe indagare in un progetto futuro.

S.S. Come viveva l’arte dei downtown amigos quando usciva dalla comfort zone comunitaria?

F.C. La spinta massimalista, non binaria, provocatoria degli artisti in mostra – molti di loro sono attivisti di ACT UP – nasce da una finalità politica e sociale. All’epoca c’era Reagan al governo e la gente moriva di AIDScome mosche. In questi tempi neofascisti, segnati dal ritorno all’ordine, auspico all’arte e agli artisti di non avere mezze misure. Di non avere paura. Jeff Perrone ha parlato di arte come “cavallo di Troia” per i collezionisti, immaginandoli esibire opere colorate nelle loro case eleganti solo per poi scoprire che i bottoni luccicanti compongono frasi intimidatorie e violente: “The Rich Will Never Allow You To Vote Away Their Wealth” e “Rape”. Pas mal, no?

S.S. Nella mostra assume centralità narrativa anche il luogo di ritrovo comunitario, il bar per esempio, come dimostrano i disegni di Jimmy Wright (1944) e le fotografie di Stephen Barker (1956). Viaggi spesso a New York per riavvolgere il filo di questa storia; quale memoria rimane dei luoghi?

F.C. I lavori diventano una testimonianza visiva di quei queer spaces che sono scomparsi a causa della speculazione contemporanea. Locali dove non esistevano differenze di classe sociale, razza, età, luoghi dove la Comunità si riuniva per vivere la sessualità in una forma libera dentro ad uno spazio protetto. Il Club 82, soggetto dei disegni realizzati nel 1973 da Wright e delle foto di Barker scattate nel 1993-94, è un locale nato negli anni 50, gestito dalla famiglia mafiosa Genovesi e noto al tempo per gli spettacoli di uomini e donne en travesti. Trasformato negli anni ‘60 in locale per show girls, negli anni ‘70 in un drag club e negli anni ‘80 – ‘90 in un gay sex club. Un luogo dove “tutti” andavano. Un altro posto di cui Roberto mi parla sempre è The Bar. Il Bar era il luogo in cui si ritrovavano tutti gli artisti gay – Robert Mapplethorpe, David Wojnarowicz, Peter Hujar, Robert Gober e Edward Albee per citarne alcuni. Roberto, Jimmy, Arch, Jeff e Marc Tambella (1953) – Marc era il barista – ma anche la loro amica Donna Francis, andavano sempre lì. In questo Bar si sono scambiate idee, opere, drink e ogni genere di fluidi per tutti gli anni 80. Era uno degli epicentri della vita culturale della città.

L’erotismo è elemento centrale di molti dei lavori in mostra. È l’energia che la città emanava e che veniva riversata nel lavoro. A detta di tutti la città ha ancora mantenuto questa elettricità, questa tensione sessuale e io sono d’accordo. Basta vedere come le persone ti guardano per strada… New York City è sempre stata una città promiscua e sporcacciona: lo è ancora.

S.S. Le due artiste in mostra, Elaine Reichek (1943) e Donna Francis (1952), stemperano la sofferente gioia delle altre opere con lavori più fermi.

F.C. Tra i vari lavori di Reichek presenti in mostra uno è tratto dalla serie Harlem Arcadia, quattordici ricami basati sui motivi architettonici trovati nelle case a schiera di mattoni e pietra marrone di Strivers’ Row dove Elaine vive e lavora. Strivers’ Row, progettato negli anni ’90 del 1800 come enclave per soli bianchi, è diventato il centro della Rinascita di Harlem quando è stato aperto agli afroamericani nel 1919. Il boom culturale è stato interrotto dalla Grande Depressione, ma il nome Strivers’ Row ha mantenuto un’aura mitica nonostante la difficoltà di immaginare qualsiasi quartiere di New York come un’Arcadia a lungo termine. Questa traduzione dei motivi architettonici neoclassici del quartiere in tessuto cucito e trapuntato porta l’ornamento esterno nel campo del decoro domestico, trasponendo materiali maschili in un linguaggio femminile. Elaine è stata la migliore amica di Jeff Perrone, artista che non a caso è esposto nella sua stessa stanza.

Donna Francis invece è presente in mostra con un lavoro molto potente dal titolo Black Rider. Cito le sue parole perché mi sembrano emblematiche: «Schwarz Faherin/Black Rider è un ritratto di un mio vicino di casa che ho realizzato negli anni ’80. Gli ho detto di vestirsi come avrebbe desiderato essere ritratto e lui si è presentato vestito da cowboy e con un fucile. Solo in seguito ho usato questa foto per realizzare l’opera. Il titolo è tratto dal termine usato per le persone che viaggiano sui tram in Svizzera senza pagare. Ho pensato che fosse una dichiarazione interessante su come le persone bianche vedono noi, persone di colore».

S.S. Al pubblico italiano la mostra offre un tassello di pittura anni Ottanta, la possibilità di studiare un singolo tramite una comunità. Offre arte politicizzata per essenza e non per intenti programmatici ergo quella di cui il potere sottovaluta la permeabilità, offre radici per gli artisti emergenti che operano nel campo di estetiche queer, offre un modello curatoriale diverso: emotivo e candidamente filologico; l’abbiamo percorsa anche credendo in group show sempre più esigenti, che affondino nella vita sociale degli artisti con rispetto e spudoratezza senza strappare le opere al contesto né ordinandole in faldoni avulsi dalla loro casa o dal loro bar.

ARTICOLO n. 28 / 2024

I SEGRETI DELLA MENTE MILIONARIA

Vengo da una lunga stirpe di gente economicamente irresponsabile. Nessuno nella mia famiglia ha mai avuto il fiuto per gli affari, e laddove una qualche ricchezza poteva essere accumulata o centellinata o anche solo assennatamente gestita, una serie di sfortunati eventi o di pessime decisioni hanno lasciato un piccolo buco fumante, simile a quello che da generazioni segna i palmi delle nostre mani. “I soldi vanno tenuti spesi”, diceva qualcuno che noi abbiamo preso in parola ed eretto a guida spirituale delle nostre esistenze, assicurandoci che la nostra eredità rimanesse composta da nient’altro che una fornitissima collezione di DVD e un buon senso dell’umorismo. 

Non ce la siamo mai passata davvero male, ma neanche benissimo, afflitti come siamo dall’eterno dissidio tra ciò che ci piace e ciò che ci possiamo permettere. Non è un problema di povertà, di per sé – ci siamo sempre mantenuti ben al di sopra della linea di galleggiamento – quanto di dissonanza cognitiva: i nostri gusti, i nostri desideri, le nostre smanie non riflettono in alcun modo la realtà dei fatti, né tantomeno i nostri conti in banca. Case in centro, pellicce di visone, vacanze in mete esotiche, porcellane di pregio, mobili di design, ristoranti esclusivi sono solo alcuni degli sfizi che nel tempo abbiamo ritenuto di meritarci, mentre lo stato delle cose rispecchiava sempre una situazione sostanzialmente diversa. 

Questa perenne tensione si unisce, almeno nel mio caso, a una fondamentale incomprensione del denaro e di tutto ciò che lo riguarda. Semplicemente: di soldi non capisco niente. So che esiste una cosa chiamata inflazione, ma non capisco in che modo questa ci impedisca di risolvere le crisi economiche stampando più soldi. Ho guardato e apprezzato La grande scommessaBillionsThe Wolf of Wall Street – e molti altri prodotti a tema “borsa” – come mi immagino un ruminante possa guardarli e apprezzarli. I miei occhi erano aperti, le mie orecchie pure, il cervello fino a prova contraria mostrava una minima attività sinaptica, ma dovessi spiegare mezza cosa di come funziona il mercato azionario farei scena muta, non importa quante Margot Robbie in vasche da bagno provino a spiegarmelo in termini semplici. 

Sono quasi trent’anni che mi faccio delle domande sul finale di Una poltrona per due. Pago le tasse da un terzo della mia vita e non ho ancora capito cosa sia l’IRPEF e perché vuole i miei soldi. Per evitare spese di spedizione su un’ordine online, finisco sempre per spendere molto di più di quanto avevo messo in conto e una voce incosciente dentro di me ripete solo “brava, hai risparmiato 4 euro”.

Nonostante le premesse, nel 2023 per la prima volta nella mia vita adulta ho messo via una congrua somma di denaro. Congrua nel mio mondo, ridicola in quello di qualcuno che ha un rapporto equilibrato con le proprie finanze, ma comunque un risultato inedito nella mia storia famigliare. Questo mi ha fatto sentire investita di una qualche responsabilità, e dopo essermi premiata – per cosa, non si sa – con una borsa di lusso e un paio di stivali tanto scomodi quanto bellissimi, mi sono detta che forse era arrivato il momento di cambiare atteggiamento. 

Ho superato i trent’anni, e questo significa che, tra gli argomenti di conversazione tra coetanei, le feste e gli amorazzi sono stati sostituiti da mercato immobiliare e fondi pensione. Così ho chiesto un po’ in giro e ho scoperto che questo fantomatico fondo pensione di cui tutti parlano può avere un suo senso, soprattutto per una persona della mia generazione che andrà in pensione a 140 anni, quando l’INPS sarà ormai un cumulo di macerie sul fondo del mare. Alcuni amici hanno iniziato addirittura a parlarmi di investimenti a basso rischio, di bond e obbligazioni, del tutto inconsapevoli del deficit di apprendimento che nel mio cervello viene innescato da queste parole. Sempre ruminando, fingevo interesse e annuivo con sguardo solenne, mentre mi convincevo che comunque la borsa – quella di Celine che mi ero comprata, mica quella di New York – era stato in effetti un ottimo investimento.  

Tuttavia, essendo ormai impossibile nascondere i propri pensieri all’algoritmo di Instagram, nei giorni successivi a queste conversazioni esplorative su una più consapevole gestione del mio denaro un post sponsorizzato si è insinuato nella mia vita: “per una più consapevole gestione del tuo denaro”, recitava infatti la didascalia dell’app, ma anche “diventa la persona più interessante della stanza”, un secondo obiettivo che mi è subito sembrato perfettamente in linea con le mie ambizioni più ataviche. Il telefono mi dimostra ancora una volta di conoscermi meglio dei miei genitori, e com’è ovvio scarico l’app pubblicizzata seduta stante.

C’è un periodo di prova gratuito, dopodiché, vengo informata, pagherò un piccolo abbonamento mensile, immagino per il resto dei miei giorni. Come ormai potete indovinare da soli, ho pagato molti abbonamenti nella mia vita, così tanti che se mi fossi tenuta tutti i soldi che ho dato alle varie piattaforme di streaming a quest’ora forse avrei le risorse per rilevare un piccolo cinema di provincia. Ho firmato iscrizioni di tutti i tipi, anche le più stupide, ho pagato corsi di fitness che non ho mai seguito, sono abbonata da anni alla Cucina Italiana cucinando esattamente zero pasti alla settimana, e mi sono fatta convincere a fare la carta di credito sul treno tra Roma e Milano, per farci non si sa bene cosa, se non pagare i molteplici abbonamenti di cui sopra. Eppure un lampo di buonsenso e amor proprio mi suggerisce che stavolta stiamo andando oltre il limite, e che non imparerò nulla sulla gestione delle mie finanze né tantomeno diventerò la persona più interessante della stanza, in nessuna delle stanze che popolerò in futuro, quindi mi premuro di segnare sul calendario la data in cui dovrò cancellare questo ennesimo abbonamento superfluo. Realizzo così che forse ho già imparato qualcosa: ho appena risparmiato 79 euro e 99 centesimi.

Come primo passo l’app mi chiede di selezionare gli argomenti che mi interessa approfondire tra una vasta gamma che comprende voci tanto specifiche quanto vaghe. Si va da “comprensione del mondo” a “mentalità di crescita”, qualsiasi cosa significhi. Io sono qui per capire cosa succede alla fine di Una poltrona per due e come fare più soldi con pochi soldi, quindi seleziono “soldi e investimenti” e “gestione del denaro”. Già che ci sono seleziono anche “crescita personale”, perché putacaso servisse a qualcosa sarebbe un’alternativa davvero molto economica alla psicoterapia. 

Nella seconda fase mi viene sottoposto un elenco di titoli di libri che sarei interessata a leggere, e sospetto e mi auguro che alcuni di questi non esistano: Padre ricco padre poveroSoldi. Domina il giocoTu 6 un duro che fa soldi con la mentalità della ricchezza. C’è una quantità di pubblicazioni sui Bitcoin francamente eccessiva, oserei dire addirittura offensiva, ma ormai ci sono dentro e non posso permettermi inutili snobismi. Le scorro tutte, e mentre sento che l’anima sta lasciando il mio corpo realizzo che nessuno di questi libri sembra dedicato all’obiettivo della crescita personale, a meno che questa non passi per la trasformazione transitoria in brutta persona. 

Seleziono tre titoli a caso solo per scoprire che per fortuna non mi sarà richiesto di leggerli, l’app ha raccolto per me degli utili riassunti che posso ascoltare a 1,5x mentre giro tra le corsie della Pam. “Non sei povera, sei pre-ricca” mi suggerisce il telefono mentre metto nel carrello dei cereali sottomarca che gridano il contrario. 

Decido di iniziare da I segreti della mente milionaria, da cui scopro nei primi minuti di ascolto che i soldi non fanno la felicità, da sempre massima di chi non ha mai avuto problemi di soldi. Ma sono determinata a farmi una cultura in materia, e mi sembra lampante che la mente milionaria ancora non ce l’ho. Non solo la mente, ma anche il corpo non mi pare milionario: i miei denti alla deriva non sono quelli di una persona ricca, i capelli tradiscono una scarsa frequentazione del parrucchiere. Le occhiaie e la gobba suggeriscono che passo molte ore davanti a un computer in Pianura Padana, e troppo poche ore sulle spiagge assolate dei Caraibi.

Nei venti minuti di ascolto che servono per riassumere tutto il libro però mi viene insegnato solo un metodo di dubbia utilità, secondo cui la ricchezza è tutta una questione di volontà. L’autore consiglia di ripetere ogni giorno allo specchio 17 dichiarazioni per sviluppare la mente milionaria, ma non è dato sapere quali siano. Poco importa comunque, ognuno si può creare le sue, quello che conta è l’atteggiamento positivo, primo requisito della mente milionaria. È forse dunque la mente milionaria che mi ha portato in questi anni a spendere sempre un po’ più di quanto guadagnassi? Vuoi vedere che quella che ho sempre scambiato per sconsideratezza altro non era che la mente milionaria? Saremo mica tutti milionari in potenza a casa mia? “I ricchi pensano in grande, i poveri in piccolo”, mi dice l’app mentre mi trovo davanti alle buste di insalata scontate del 30% in quanto scadute o in procinto di. Penso in grande, mi penso milionaria, e compro un lattughino a prezzo pieno.

Vado avanti così per qualche giorno, in un turbinio di citazioni di Warren Buffett e consigli farraginosi che hanno più a che fare con una simulazione della ricchezza che con una concreta pratica di amministrazione, e mentre sento un gilet tecnico da stronzo materializzarsi su di me e la parola “mindset” mi riecheggia nelle orecchie, realizzo che nessuna app al mondo mi può salvare dalle cattive abitudini. Dopo aver solidarizzato con Mike Tyson, che scopro essere finito in bancarotta pur guadagnando 400.000 dollari al mese, decido che cercherò indicazioni altrove – forse da un consulente finanziario come fanno le persone normali – e cancello l’app. 

Quella notte sogno di giocare al Superenalotto. Nel sogno dico al tabaccaio di segnare “sicuramente il 14” e poi il 96, perché nella dimensione onirica non so nulla proprio come nella realtà. Infatti si dà il caso che si possano giocare i numeri solo fino al 90, scopro il giorno dopo mentre mi affretto a comporre una schedina in ricevitoria. Sulla schedina del sogno, a mo’ di intestazione, c’era scritto “Il porco”, il numero 4 nella smorfia napoletana, che ho scelto come testo ermeneutico per l’occasione. Me lo sono appuntato nel cuore della notte per paura di scordarmelo, in quel dormiveglia drogato che è terreno fertile per le idee più stupide che tutti abbiamo avuto. Il giorno dopo ritrovo la nota sull’iPhone, una serie di numeri, il porco, e per qualche motivo la regione Liguria, che nella smorfia napoletana, come forse potete immaginare, non è annoverata. Scelgo di assecondare i miei peggiori istinti, esacerbati dalla settimana appena trascorsa nel mondo delle criptovalute, e decido che Liguria significa avarizia. Numero 22, mi informa l’internet, come gli euro per un pezzo di focaccia a Bonassola. 

Consegno la schedina alla tabaccaia, abbastanza sicura che la mia vita stia per cambiare per sempre. Le ore che mi separano dall’estrazione dei numeri vincenti le passo su Immobiliare.it a scorrere annunci di case oscenamente costose, avendo impostato il filtro di prezzo minimo (un milione) ma non quello massimo. Ho già deciso in quali città del mondo comprerò un pied-à-terre e quanti milioni regalare ad amici e parenti. Scelgo divani, lampade, tappeti. Lascio che la mia mente milionaria viaggi per realtà parallele, nessuna delle quali è abitata da una versione di me con i capelli crespi. Nel multiverso della mia ricchezza sono una benefattrice dalla chioma setosa, risolvo crisi umanitarie e ho finalmente il tempo per leggere Infinite Jest. Da ricca va a finire che sono anche la persona più interessante della stanza, oppure ho pagato i miei commensali per fingere che sia così. 

Quando si fanno le 20:30 e nessuno dei miei numeri viene estratto – nemmeno il sicuro 14, nemmeno la Liguria – sento una piccola fitta di delusione. In effetti nel sogno giocavo, ma mi svegliavo prima di scoprire se avevo vinto. Tale è l’incompatibilità tra me e il denaro: anche nei miei sogni più vividi e sfrenati non posso ambire allo stile di vita che vorrei. Resto solo una pre-ricca, e niente di più.

ARTICOLO n. 27 / 2024

AD ANTIGONE PREFERISCO CREONTE

Un’intervista di Valeria Verdolini

Milano. Uscita dallascensore, la porta è già socchiusa. La casa è luminosa, con le stanze comunicanti che si intersecano con il corridoio. Ovunque libri, ma anche oggetti di una vita di viaggi e studio. In ingresso un grande quadro specchiante con una tigre accoglie e restituisce alla casa di studiosa una nota impertinente, che è anche la cifra della conversazione che ne è seguita. Eva Cantarella è nello studio, la trovo dopo aver vagato per le stanze. 

«Eccomi da lei. Avevo lasciato tutto aperto, perché non volevo perdere il filo dei pensieri. Arrivo al punto e poi sono da lei. Parleremo di tutto quello che vuole, ma prima dobbiamo accertarci che nella sua attesa non sia fuggito il gatto. Ha vent’anni, povero, è cieco, ma ha mantenuto uno spirito avventuroso e appena la porta si apre, tenta la fuga».

Accertata la presenza del rosso persiano, poco lontano dalla libreria a soffitto, ci accomodiamo in sala. Loccasione è luscita del recente Contro Antigone, o dell’egoismo sociale (Einaudi, 2024). Professoressa ordinaria di diritto greco e romano, divulgatrice e studiosa, Cantarella ha pubblicato oltre 30 volumi e innumerevoli saggi sul diritto greco, sulla polis, esplorando le contraddizioni di Atene, ma anche la capacità che hanno i classici – così come gli istituti giuridici – di parlare alloggi, di offrirci uno spunto. Di classici ci sono solo gli interessi di ricerca, perché la professoressa ha mantenuto gli occhi e lo stile da ragazzina, che brillano quando la si provoca con una domanda, e quellinformalità spigliata e cosmopolita che permette anche di dissacrare Sofocle, riprendendo alla lettera gli stasimi e riportandolo allinterpretazione autentica.  

Nel libro si distingue chiaramente il mito di Antigone e la versione prosaica della paladina dei diritti contro il potere tirannico dello zio Creonte, e la tragedia di Sofocle, in cui le vicende narrate assumono una piega sensibilmente differente. «Il mito è stupendo. Per fortuna esiste, regge nello spazio e nel tempo, e va molto lontano. Recentemente, per esempio, Milo Rau l’ha riproposto in Brasile, con la sua Antigone in Amazzonia». Il mito è chiaro, è noto. Tuttavia, Antigone è un’invenzione di Sofocle, e Sofocle nella sua tragedia racconta una storia molto diversa». 

La conversazione parte perciò dal sottotitolo paradossale: a fronte della nota eroina che sacrifica la vita per la degna sepoltura del fratello, il suo libro parla di egoismo sociale”. 

«Antigone è di uno spaventoso egoismo! Lo dice lei stessa, chiaramente, eccome se lo dice! Rileggendo il testo è chiarissimo! Il momento nel quale la cosa è non solo evidente, ma esplicita è quando dice a Creonte “tu hai ragione, è giusto che ci siano le leggi ed è giusto che gli altri obbediscono, ma io non intendo farlo!”».

Le domando da cosa derivi allora questo paradosso. «Antigone disobbedisce perché vuole assolutamente compiere un’azione che sarebbe un reato. Fondamentalmente a lei non importa null’altro che della sepoltura di Polinice. Tutto il resto è irrilevante, gli altri che la circondano, le altre azioni umane. Lei vuole solo una cosa, che è un reato per la legge di Tebe».

Le chiedo cosa la spinge a questa ostinata rottura e devianza. Perché voleva così tanto farlo? «Ci sono varie interpretazioni, ma molte si possono semplicemente scartare. L’idea dell’incesto tra lei e il fratello è proprio semplicemente ridicola. E perché quindi agisce così? Per amore fraterno ovviamente, e da questo punto di vista non c’è niente di strano. Ma il modo in cui lei esercita questo amore fraterno è strano: lei dice che non è giusto in generale ma che lo vuole fare comunque, e che lo vuole fare a modo suo. Esplicita che non le importa nulla che sia sbagliato teoricamente, semplicemente non vuole fare altrimenti. L’egoismo sociale è proprio questo: l’affermare che c’è un interesse individuale e in contrapposizione la polis, la visione collettiva della città. E questa è l’unica cosa che le importa. Non le interessano i sentimenti, per esempio. Antigone è una donna che non ha un sentimento. Una delle cose più impressionanti secondo me. Devo dire, sono rimasta colpita, e non è che io sia una romantica che si immagina chissà quali tenerezze. Però mi sono riletta non so quante volte il testo di Sofocle proprio perché volevo essere sicura. E in tutta la tragedia lei non pronuncia una sola volta il nome di Emone, il suo promesso sposo. Non lo nomina mai! E non solo non ne parla, ma non allude al suo matrimonio neanche quando si avvia alla morte, sapendo di rinunciare alle nozze. Si avvia alla fine, e in quel momento le poteva venire in mente vagamente… E invece, nemmeno in quella circostanza compare il futuro marito. Nell’universo di Antigone c’è spazio solo per lei e per la decisione di seppellire il fratello, cosa che sarebbe più che lodevole se non fosse fuorilegge. Peraltro, a voler essere precisi, Antigone si oppone contro una regola giuridica che non è solo lecita, ma anche logica: quando mai si offre degna sepoltura a un traditore della patria? Non era mai accaduto. Dei cadaveri dei nemici si faceva strage. E in questo caso si tratta di Polinice, che organizza la presa di Tebe, e poi lo dovrebbero seppellire in città insieme al fratello caduto per difenderla. Non ha senso, è una pretesa illogica, contraria al senso comune. Avanzare questa pretesa significa essere mossi da un enorme, spaventoso egoismo sociale, accompagnato da una perenne mancanza di sentimenti, e di visione. Colpisce come una persona, da sola, per assecondare il proprio volere, si metta in contrapposizione alla polis, accettando la regola generale ma evocando per sé, per il singolo caso, l’eccezione, l’accettazione della violazione. Ed è una forma di mostruoso egoismo».

La conversazione – così come il volume – si sposta sulle contrapposizioni poste in luce da Sofocle, che ha prodotto un testo dicotomico. La prima è una dicotomia generazionale, tra giovani e meno giovani. 

«Quello è molto importante, anche perché c’è in mezzo tutto questo fatto di quella nuova gioventù che erano i sofisti – i primi sofisti – quindi rappresenta anche un momento importante di trasformazione. Perché il racconto dell’Atene democratica, be’, anche quello spesso sfocia nel mito. Io ho sempre amato Pericle, con le sue contraddizioni. Ad esempio si evoca sempre la pratica democratica dei cittadini ateniesi. Ma alla fine quanti erano questi cittadini? Erano quattro gatti. Perché io tutte le volte che rileggo il famoso discorso, appunto, “abbiamo perso la nostra primavera”, che è bellissimo, anche se non sappiamo se abbia pronunciato esattamente quelle parole, ma immaginando di sì, lui pronuncia questo bellissimo discorso davanti a tutta la cittadinanza e i cittadini chi sono? Sono soltanto i maschi. Anzi, Pericle restringe ancora di più, riducendo l’accesso ai maschi ateniesi figli non solo di padre ateniese, ma anche di madre. Si trattava di pochissimi privilegiati. E gli altri? Atene era abitata da moltissimi meteci. Senza i meteci Atene non avrebbe avuto vita, lavoro. I meteci avevano dato senso alla città, così come i figli dei meteci che erano andati a morire in guerra. E Pericle fa un discorso che è bellissimo se letto oggi, ma che allora era assolutamente impensabile come inclusivo, era elitario. Abbiamo mitizzato i greci da tanti punti di vista e gli ultimi studi, soprattutto statunitensi, stanno rivedendo – anche in modo a volte creativo – come stavano le cose. Questi lavori ci raccontano come, in concreto, i diritti riconosciuti ed esigibili erano pochissimi, e come fossero goduti da una piccolissima parte della popolazione. E sebbene questi giovani studiosi stiano mettendo troppa enfasi e a volte tendano a esagerare, centrano un punto: abbiamo mitizzato la Grecia, abbiamo mitizzato i greci, abbiamo mitizzato persino Pericle».

La chiacchierata prosegue sulla seconda dicotomia centrale nellAntigone sofoclea, ossia quella di genere, tra la mascolinità di Creonte e la responsabilità femminile di Antigone. 

«Di questo nodo non parliamone neanche. È impressionante l’arretratezza in cui versavano le donne greche, sebbene poco lontano, in Oriente, le condizioni fossero diversissime. Lo racconta bene Erodoto quando ripercorre la storia di Tomiri, una donna assolutamente straordinaria.  È la regina dei Massageti, quando muore il marito lei prende il trono. Era molto bella ed era stata chiesta in moglie da Ciro il Grande. Capendo che lui in realtà mirava solo a controllare i Massageti, lei risponde di no, con garbo. Lui risponde dichiarando guerra. Lei cerca diplomaticamente di dissuaderlo, ma non c’è niente da fare. Ciro il Grande fa prigioniero il figlio di Tomiri, Spargapise. Tomiri propone un accordo per liberare il figlio prigioniero. Ciro il grande si rifiuta, ma slega le mani a Spargapise che riesce a suicidarsi. A quel punto Tomiri dichiara vendetta, rispondendo al sangue versato con la minaccia di fargli bere tutto il sangue che aveva causato. Be’, quando ti muore il figlio, che cosa si fa se non la guerra? E naturalmente, vince lei. Piccolo particolare: Ciro il Grande viene ucciso quindi da una donna. Io non l’ho mai letto in un manuale di storia. E poi, il cadavere non si trova. Mandano a cercarlo, lo trovano, lo prendono. Lei aveva preparato questa una bella tinozza piena di sangue, e dentro ci affoga il cadavere di Ciro il Grande. Tomiri incarna tanto la grandissima guerriera quanto una madre coraggio. E incredibilmente questa è una storia minore, poco studiata e poco narrata.

Mentre questi eventi erano possibili, le donne greche erano completamente senza potere. E quindi è abbastanza impressionante questa contrapposizione di figure femminili e questa Grecia, da questo punto di vista così arretrata. Ed era così più o meno dappertutto, tranne forse a Sparta. Se lei mi chiedesse di scegliere tra spartana o ateniese non avrei avuto dubbi, ma basta leggere le fonti, c’è scritto. Vero è che queste donne spartane non vedevano mai gli uomini perché quelli venivano portati via, e spesso loro contavano solo in quanto madri di un eroe.  Però alle donne spartane era consentito l’amore che noi chiamiamo lesbico. Le donne si amavano fra di loro. Questo poteva succedere a Sparta, certamente non ad Atene. E per questo dico che comunque se avessi dovuto scegliere avrei scelto probabilmente Sparta, dove le donne quantomeno partecipavano alla vita sociale. Insomma, sono buffi questi greci, sono un po’ diversi da come ce li hanno insegnati».

Spostiamo il dialogo sulla questione centrale delle leggi costituite e del contrasto evocato da Antigone, ovvero sulle cosiddette leggi celesti che tutti sovrastano. Dove si colloca il testo? Che ruolo ricopre il diritto?

«C’è la legge, e lei la vuole violare e dice è giusto, però non me ne frega niente, non lo faccio. Sofocle mette di fatto in scena il suo timore: egli teme che Antigone incarni quell’individualismo egoistico che il tragediografo attribuisce ai suoi concittadini e che lo terrorizza. Quindi, rileggendo Sofocle noi vediamo una critica all’egoismo.  Perché si inventa un personaggio così antipatico? Perché descrive quella che è la Atene che lui amava follemente e la città lo ricambiava dello stesso amore. Un bel personaggino anche Sofocle, la sua stessa vita è ricca di aneddoti. Del resto, lo stesso Pericle lo sgridava perché gli piacevano i ragazzini. C’è una scena riportata dai testi in cui lui cerca di baciare un ragazzo durante un banchetto. Era un viveur. Era divertente, ma allo stesso tempo era pieno di principi politici rispettabilissimi. Si impegnava. Contrariamente a quello che si dice non è vero che non si impegnasse in politica, tra l’altro era un conservatore, e si impegnava talmente tanto da diventare poi amico e collaboratore di Pericle. Umanamente è un personaggio di grandissima simpatia, divertente, che si invaghisce di donne, uomini e ragazze, ma che al contempo fa tutto il possibile per divertirsi, rimanendo però politicamente impegnato. Era un conservatore che si adatta, e capisce cosa cambia attorno a lui. Una persona intelligente e un gran viveur. Era molto ricco, e nonostante questa vita piena di intrattenimento è riuscito a scrivere moltissimo. Va detto che è anche vissuto un secolo. Forse potremmo tenerci l’insegnamento che una vita piena fa bene e l’allunga. Cent’anni ben vissuti. Una vita godereccia e piena, necessaria per scrivere tragedie.

Tornando all’Antigone, alla fine, non ci posso fare nulla, ma pur con i suoi torti io preferisco Creonte. Creonte poveretto è coerente fino in fondo, fino a quando non entrano in campo gli dèi, perché come sempre poi chi decide sono gli dèi, i quali a un certo punto cambiano opinione radicalmente. I greci erano fatti così, no? E tra l’altro si dimentica sempre che il povero Creonte non è che volesse diventare re per forza, anzi, non voleva proprio, lo dice all’inizio della tragedia. Accetta il compito che gli tocca, e lo svolge con un rigore esagerato. Ma al di là di questo non si può accusarlo di essere un despota. Mi sembra un personaggio positivo, decisamente con i suoi limiti. Senz’altro insomma, tra i due, non avrei un attimo di esitazione».

La provoco allora. Se sta dalla parte di Creonte, quale potrebbe essere oggi un moderno Creonte? Nel libro si trovano elencate le moderne Antigoni (tra le più note, Carola Rackete). Ma mancano moderni Creonte, visti alla fine come buoni governanti.

«Be’, certamente nessun governante europeo, ma anche negli Stati Uniti in questo momento non riesco a vederlo. Magari ce ne fosse uno. Anche in Europa. Sto cercando, chi è il migliore? Macron no di certo. Faccio fatica a individuare qualcuno che possa rappresentare una politica mossa da logica e coerenza, con un certo rigore».

Discutiamo di come il mito abbia ribaltato le cose. E perché nel farlo abbia scelto di acuire la dimensione individuale, leroina salvifica e non una salvezza collettiva. 

«È sempre stato un po’ così, abbiamo sempre avuto bisogno di un ideale, l’ideale è necessario, ma è difficile rappresentarlo davvero in una dimensione collettiva. Ma oggi non troviamo più non solo il collettivo, ma nemmeno il singolo, e la singola, che si farebbero uccidere per un ideale. Salvo rari casi, come il povero Navalny in questi giorni. Una vicenda che, letta da qui, fa sembrare le scelte di Putin poco strategiche, perché quella morte sembra aver avuto la capacità di toccare e attivare molte coscienze, con una reazione mondiale di grande portata. E non mancano solo le Antigone, mancano anche le Ismene, ossia le persone dotate di buon senso. Ismene è un bel personaggio, un personaggio razionale, ma oggi di persone sagge se ne trovano poche». 

Sullo stato del mondo, e sui timori sul mondo, c’è il verso forse più oscuro e più bello dellAntigone, ossia il primo stasimo. Il testo greco usa il termine ambiguo Denia”, associato alle cose del mondo. Un termine che è stato di volta in volta declinato e interpretato come il diritto, la legge, ma anche la tecnica, il progresso. 

«Πολλὰ τὰ δεινὰ vuol dire tutte e due le cose, tant’è vero che poi a un certo punto dice, dipende da come fai, perché se lo usi in un certo modo diventi un cittadino pieno e integrato, se lo usi in modo errato diventi un reietto. Si possono intendere l’uno e l’altro, tanto l’abuso della tecnica per fini nocivi, quanto la violazione delle norme. E quella violazione rende le persone apolis, fuori dal patto di cittadinanza. Apolis voleva dire questo. Ma è evidente che a seconda della bontà dei governi questo uso può essere ribaltato, ieri come oggi. Pensi allo stesso Navalny: prima di morire era di fatto in una condizione di apolis nella Russia putiniana. E la debolezza democratica dei governi mi fa dire che paradossalmente, oggi, fuori dal patto sociale vengono messe le poche persone perbene che ci sono. Perché, diciamoci la verità: quando uno ha Ignazio La Russa come seconda figura dello Stato, diventa tutto inconcepibile. Stiamo parlando di una persona che ancora oggi ammette di tenere i busti di Mussolini in casa. E non ci dimentichiamo che menava. Come menava lo abbiamo visto tutti nel 1968 in piazza San Babila. Non me lo faccia dire».

Andando a concludere la nostra conversazione, quale tragedia o quale mito secondo lei rappresentano meglio la situazione attuale? Che cosa dovremmo rileggere per capire dove siamo oggi?

«Ma non lo so. Probabilmente però in qualunque tragedia troviamo un personaggio nel quale possiamo identificarci. Ma non una sola tragedia. Non lo so, non mi viene in mente niente. Non so se sono io in un momento di particolare distrazione, ma non trovo proprio niente.  Forse ci dice tanto del nostro tempo il fatto che non riusciamo a trovare dei modelli a cui ispirarci, perché ci racconta anche della grande confusione in cui siamo. Un tempo non era così. C’erano dei modelli, e spesso le tragedie e i miti hanno svolto questa funzione, e sarebbe importante che tornassero a svolgerla».

ARTICOLO n. 26 / 2024

ROMA VISTA DAL GAZOMETRO

Pubblichiamo un estratto dal volume Architetture inabitabili (Marsilio Arte) a cura di Chiara Sbarigia e Dario Dalla Lana. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Alto quasi novanta metri, tre tonnellate di ferro e due milioni di chiodi per costruirlo, chilometri di tubazioni. Scendendo viale Aventino, lo avvisti da piazza Scanderbeg che sovrasta le chiome dei pini, poi riappare da mille altri punti di vista, meravigliosamente incongruo nello skyline frastagliato di cupole, ville patrizie, torrette. Quando ero ragazzo lo si vedeva anche pieno per un terzo, o a metà, o vuoto del tutto, e nessuno di noi capiva come effettivamente funzionasse, nemmeno ce lo domandavamo: più è complessa, più la tecnica la si accetta come una specie di implicito miracolo. Un mondo sottinteso. A parte chi ci lavora, i macchinari che mandano avanti una città come sono fatti, chi li conosce?

E poi, la z nel suo nome vi aggiungeva un ulteriore tocco esotico. 

Molto è stato scritto e ancora di più filmato sul carattere impiegatizio, ministeriale e burocratico della città di Roma. Solo qui è stato possibile che si creasse un milieu artificialmente interclassista così capiente da mescolare palazzinari, gente di spettacolo, stimati professionisti, personaggi televisivi e politici, artisti e artistoidi, insieme a una variopinta fauna umana, che impropriamente veniva chiamato “generone”, capace di riprodursi in modo proteiforme avvicendando i suoi protagonisti eppure mantenendo quasi immutato il suo codice morale, e cioè un radicale e umoristico scetticismo, nei confronti di tutto e tutti (persone, istituzioni, idee), e persino verso un valore che in altre città viene, se non adorato, quanto meno rispettato: il denaro. La RAI, il tifo calcistico, er Cinema, i Palazzi della politica, i Circoli sul Tevere e sull’Aniene, le redazioni dei giornali e le caste dell’amministrazione pubblica sono legati dai fili di una rete più o meno visibile, come quella che salva gli acrobati del circo quando sbagliano, su cui sta sospeso un mondo al tempo stesso surreale e fatto di interessi concreti, di frivolezza e candore e opportunismo e miscredenza, dove, a momenti, i soldi sembrano contare un po’ meno che altrove, poiché, a tirare le somme, nulla conta veramente, tutto è transitorio, il potere, il successo, la considerazione o la riprovazione altrui, il sesso, la politica, insomma a farla breve la vita; e dunque, perché dannarsi l’anima a inseguire uno di questi obiettivi? Meglio lasciar andare il tempo, e l’anima (se qualcuno ancora ce l’ha) affidarla alla sua corrente… 

Secondo gli schemi del mio rigido moralismo di ragazzo, il corpo sociale della città in cui da sempre abito mi sembrava insomma formato da sonnolenta e retrograda borghesia, zozza plebe e aristocrazia spompata, con una preponderanza della prima categoria sulle altre. Qualcosa di analogo aveva scritto Stendhal quando ironicamente sosteneva che la città fosse abitata per un terzo da preti, per un terzo da donne e per un terzo da statue: a lui queste percentuali non sembravano dispiacere, forse perché trapassavano le epoche assicurando una sorta di precaria stabilità all’assetto cittadino. 

Suonerà bizzarro, ma da queste parti, infatti, permanenza e pungente senso dell’effimero si scambiano di continuo i ruoli: si confida nella prima a causa del secondo, o meglio, è la maestosità della prima (rappresentata plasticamente dalle immani rovine antiche) a indurre incredulità nei confronti di qualsiasi realizzazione attuale. L’immobilismo diventa così garanzia di eternità.

Ma ecco il Gazometro a smentire tutto ciò. Ferro, e non soltanto marmo. Chiatte cariche di carbone invece che pini e fontane. Tecnica e industria, e non turismo (ossia quell’attitudine che induceva Joyce a scrivere: “Roma mi fa pensare a un uomo che campa mostrando ai visitatori, in cambio di un soldo, il cadavere di sua nonna”). In altre parole, modernità, che non cancella l’antico anzi serve a mantenerlo vivo, a illuminarlo. Con la sua grandiosa incastellatura metallica, nulla come il Gazometro a Roma rammenta l’avanguardia del Novecento, che oggi è anch’essa divenuta a suo modo archeologia, certo, ma che contorna di un opaco splendore il profilo estetico della città esattamente come, in certi quadri, il paesaggio sullo sfondo fa risaltare ancora di più le figure in primo piano. Nel quadrante sud, là dove il Tevere serpeggia una volta sgusciato fuori dalle mura, la città era anche questo, soprattutto questo, emanante l’“acre e strano fascino” industriale, e lo ricordano le lugubri descrizioni nei documentari che venivano girati lì dentro. La stentorea voce fuori campo avrebbe potuto fungere da didascalia a un film su qualche fuligginosa città operaia inglese o addirittura all’incubo di Metropolis, con il “ventre insaziabile” delle sue fornaci. “Nell’atmosfera squallida ai margini della città… le officine del gas sembrano esprimere… coi loro tetri profili… tutta la tristezza della periferia…”. Centinaia di operai si aggirano intorno alle “costruzioni affumicate e untuose” di questo “mondo nero e pulsante”. E poi, con un tono ancora più esaltato: “si irradia dai tozzi gabbioni dei gazometri… il calore necessario alla vita dell’immensa città!”. Eh sì, perché in realtà i gazometri sono quattro, gli originari più piccolini, e poi quello monumentale aggiunto nel 1937 dall’Ansaldo, il più grande d’Europa, assai più titolato a rappresentare l’autentico Colosseo novecentesco in luogo di quello (quadrato) dell’EUR. 

Colgo l’occasione che oggi mi viene concessa di entrarvi. Da molti anni è stato svestito delle paratie telescopiche che si alzavano e si abbassavano a seconda della quantità di gas stoccato (fino a duecentomila metri cubi), quindi ne rimane il guscio, il “fantastico castello d’acciaio” come lo definiva il cinegiornale d’epoca. Ammetto di essere piuttosto emozionato: come quando visitai il cuore della centrale nucleare mai attivata a Montalto di Castro, e mi piazzai dove avrebbero dovuto essere le barre di plutonio (unico luogo al mondo, credo, Montalto, dove sia possibile far questo…). 

L’impressione, accerchiante, e che mozza il fiato, è di stare in un incrocio tra una plaza de toros e una vertiginosa proiezione di effetti optical verso il cielo, con in alto il tondo azzurro e tutt’intorno la trama leggera delle travature. Mi sembra di cogliere in modo palpabile la volumetria del manufatto anche se essa, di fatto, non esiste, è aria. L’architettura consiste soprattutto di quello che in cinese si dice wu, particella dalle mille possibili traduzioni: l’assenza, il nulla, il non avere o forse il non essere, l’apertura, il vano. Ciò che arretra, che esiste per sottrazione, insomma, e così offre spazio alla vita, come appunto i vani di un’abitazione. Volendo proseguire con analogie forse stravaganti, ma senza le quali non potrei rendere minimamente le mie sensazioni, è come quando mi ritrovai, a Bamiyan, davanti alle nicchie dei Buddha giganti distrutti dai Talebani: non c’erano più, eppure c’erano. Il vuoto suggeriva la loro presenza. Vi alludeva, la significava.

Poco più in là, oltre la recinzione, scorre il fiume, lo si intuisce dalle cime degli alberi scossi dal vento che ne segnano l’argine. È dal Tevere che veniva scaricata la materia prima. Quindi, negli “immani bracieri” dei forni, bruciava il carbone a mille e trecento gradi, per trasformarlo in gas, che poi doveva subire altri passaggi, lavaggi, purificazioni, sublimazioni, prima di essere adatto all’uso. Insieme a un buon sistema fognario, l’illuminazione segna il vero scatto in avanti della vita urbana. Qualcuno dovrà pur fare il lavoro sporco perché alla comunità sia concessa un’esistenza più pulita.

Persino a Roma, città simbolo di svagatezza e approssimazione, le fondamenta poggiano su sangue sudore e lacrime: ipocrita nasconderle o porle fuori vista. Il traforato castello del Gazometro, anche se ora è un immateriale disegno in cielo, una specie di miraggio calviniano, sta ancora lì a rammentare della base materiale dell’esistenza: come il fossile che segnala, in negativo, con il suo solco vuoto, il corpo dell’animale vivo. 

Le immagini degli operai che lavorarono lassù, sospesi in aria, tra il 1935 e il 1937, ricordano quelle famose dei grattacieli americani in costruzione, con i carpentieri che fanno uno spuntino seduti sulle putrelle d’acciaio appena imbullonate. Ora mi piacerebbe arrampicarmi sulla scaletta metallica che sale a zigzag fino in cima; ma soffro di vertigini, so che non arriverei a dieci metri. Dall’alto penso si allarghi il panorama fino all’osteria “Al Biondo Tevere” che sta un chilometro più in giù sulla via Ostiense. Be’, ci andrò in motorino.

ARTICOLO n. 25 / 2024

ALMARE: INDIVIDUALITÀ E PROGETTUALITÀ CONDIVISA

conversazione collettiva

La creatività collettiva è da sempre presente nel panorama culturale italiano, ma raramente le viene rivolta la stessa attenzione riservata a quella individuale. Per fare luce su questo mondo, su come nasce e come si manifesta, stiamo curando Conversazioni collettive: una serie di interviste con diversi collettivi italiani svolte da noi, Montag, un collettivo di scrittura.

In questo secondo appuntamento abbiamo intervistato ALMARE, un collettivo artistico-curatoriale fondato a Torino nel 2017 da Amos Cappuccio, Giulia Mengozzi, Luca Morino e Gabbi Cattani. ALMARE indaga le pratiche artistiche incentrate sull’uso del suono come mezzo espressivo, ma in molti dei loro progetti si riconoscono più anime, vedendo come la scrittura narrativa o l’audiovisivo, per esempio, possono convivere nello stesso spazio performativo, espositivo o testuale con la dimensione sonora.

MONTAG: Sul vostro sito vi descrivete come “collettivo artistico-curatoriale”, ma che cosa significa per voi essere un collettivo? Cosa vuol dire collaborare, lavorare insieme? E un’altra curiosità: che significa per voi essere un collettivo che collabora con altri collettivi? Come fate rete? Pensiamo soprattutto alla recente collaborazione The listeners.

ALMARE (Amos): Vorremmo prima fare una premessa: siamo in un periodo complesso e articolato per il collettivo stesso, motivo per il quale abbiamo deciso di fare questo incontro. Ci piaceva l’idea di dare delle risposte in un momento difficile in cui stiamo passando una crisi – ma sì, chiamiamola crisi. Per quanto mi riguarda, il nostro collettivo sta proprio in quell’equilibrio tra individualità e progettualità condivisa.

Noi siamo quattro persone che dal punto di vista delle attitudini e delle esperienze hanno un filo conduttore, che è il percorso artistico. Non necessariamente nel fare arte in quanto artisti, ma come percorso di studio, di interessi; un percorso di vita, in cui la musica, l’arte in generale, il mondo della cultura sono centrali. Detto questo, abbiamo provenienze diverse anche da un punto di vista di classe, percorsi di vita che hanno direzioni e necessità diverse. E abbiamo sempre cercato, nella nostra impostazione, di far sì che ognuno di noi potesse essere rispettato nella sua individualità e nella sua necessità di portare avanti un percorso personale. Proprio perché ci siamo uniti in una fase che era di “fine scuola” – almeno io, Gabriele, Luca – e, come tante altre relazioni che nascono in periodi di transizione, poi si deve crescere insieme. C’è quasi un movimento ondulatorio, in cui ci si adatta alle necessità degli altri, ci si fa anche trascinare dagli altri, in modo positivo. Poi per ognuno diventa più chiaro in che cosa si sente a proprio agio e che cosa vuole fare. Per noi questo è il momento: abbiamo iniziato a capire tutti più chiaramente che cosa vogliamo, in cosa vogliamo andare avanti nelle nostre vite. E bisogna riuscire a capire quanto questa cosa si può fare insieme e secondo quali modalità.

Questa credo sia l’introduzione, ma forse anche già una parte del discorso. Poi nella pratica facciamo cose diverse. Gabriele, per esempio, ha un percorso più da artista e teorico. Giulia un percorso più curatoriale, anche lei teorico, però con un’attitudine diversa alla scrittura. Io un percorso da musicista e sound designer, come Luca, che è anche informatico. Questo ha fatto sì che le cose si unissero molto bene, ognuno ha potuto portare la sua specificità. Forse il film a cui stiamo lavorando ne è l’esempio maggiore. Detto questo, ci sono altri aspetti, che sono appunto le necessità della vita, del dove si vuole vivere, se nella stessa città o in città diverse, come organizzarsi il tempo, come comunicare. 

MONTAG: Vi siete conosciute a Torino. Si pone la questione della topografia del collettivo. Vi capiamo, lo stiamo vivendo un po’ anche noi.

ALMARE (Giulia): La nostra idea di collettivo si sta schiantando contro la vita reale, quando si incrociano delle necessità che impongono di rispettare l’individualità, comunque rimanendo nella volontà di lavorare insieme. Non so poi fino a che punto si possa dare una definizione univoca di collettivo. Nel caso di ALMARE l’idea di partenza era: che cosa vogliamo fare? A quali mancanze vogliamo provare a rispondere? A quali frustrazioni? Insomma, ci siamo chieste come costruire uno spazio di azione che da sole forse non avremmo saputo creare.

Un’azione trasformativa del proprio contesto, anche mediante iniziative che possono prendere varie forme, da un film che diviene audio-racconto all’organizzazione di concerti, alla scrittura, oppure, non so, passare la notte a parlare di cose. Eravamo quattro amici al bar, scusate la banalità, ma vi vedo sorridere, quindi magari sono esperienze comuni. L’essere collettivo ha a che fare con una agency condivisa. I collettivi, sia artistici che politici, alla fine sono persone che si uniscono per fare qualcosa. Se non c’è questa spinta bastano, credo, altri tipi di relazioni, amicali, ma se c’è un intento di unirsi in un organismo che supera le individualità forse è perché si sente la volontà di essere più efficaci nell’operare nel proprio contesto. Spero non sia troppo astratto come ragionamento.

MONTAG: Non sembra per niente astratto, anzi: l’agency condivisa, creare uno spazio d’azione comune, è un fare molto politico, ed effettivamente, addentrandosi nei vostri lavori, si legge di guerriglia sonora o di arma sonora. Come vi ponete rispetto a questo discorso, a questa vocazione politica, a questa voglia di cambiare le cose, sia in riferimento al vostro ultimo lavoro, Cronache di vita di Dorothea Ïesj S.P.U., sia rispetto ad altri lavori passati nei quali vi siete interfacciati con figure politiche, di lotta, come Porpora Marcasciano? 

ALMARE (Gabriele): Non so se esista un politico fuori da una visione, che poi è anche ideologica. E non c’è bisogno di aver paura di questo. Noi siamo quattro, e in questo corpo tetracefalo abbiamo visioni che guardano in una stessa direzione, forse politica, ma che si sono espresse anche in modi diversi e in attività diverse. Penso che Giulia e Amos abbiano una pratica più spiccata di attivismo, o di studio relativo a certe tematiche. Poi, una parte di questo studio e di questa pratica è entrata all’interno del collettivo, così come in Dorothea, ma come dicevate anche il nostro incontro con Porpora ha contato. In quel caso eravamo state invitate per lavorare su come il suono, e specialmente il suono registrato, occupa uno spazio, in senso molto pratico, architettonico. E dunque qual è la differenza tra uno spazio privato e uno spazio pubblico, che è anche performativo? E come scelgo di diffondere un suono che altrimenti rimarrebbe inciso? Quando abbiamo cominciato a organizzare delle sessioni d’ascolto o a ragionare su certe tematiche, è allora che queste sono emerse come urgenti: oggi il suono è rientrato nel dibattito sulla politicizzazione della memoria e su come conserviamo certi suoni, come vi abbiamo accesso. Penso che queste tematiche, poi, ci abbiano spinto a occupare in modo più trasversale diverse posture, con la volontà di porsi domande su questioni difficilmente riassumibili, che necessariamente aprono a una sorta di mimesi che spinge a chiedersi: “E io come lo farei? Come reagirei a questo stimolo?”

ALMARE (Giulia): Da questo punto di vista faccio una precisazione: fatico a arrogarmi il diritto di definirmi attivista perché per esserlo ci vuole una costanza, una coerenza e una capacità di impegnarsi rispetto ad alcune questioni che purtroppo, forse per uno spirito di autoconservazione o mantenimento di privilegi, sento di non avere appieno. Però è indubbio che c’è una sensibilità che va in quella direzione, un approccio politico. ALMARE ha sempre cercato con le proprie pratiche di creare operazioni culturali che potessero funzionare come piattaforma di supporto e diffusione di contenuti politici, che poi abbiamo condiviso con persone che invece possono a buon diritto dirsi attiviste. Penso a Justin Randolph Thompson, che abbiamo portato in una performance al compianto Macao e al festival Saturnalia nel 2018, poi sicuramente a Porpora Marcasciano, chi più di lei? Insomma, non voglio dire che un approccio politico sia il motore primigenio delle nostre collaborazioni, però c’è un’attenzione verso questo aspetto. Penso che chi fa attivismo abbia bisogno di piattaforme, di risorse. E nel suo piccolo ALMARE prova a contribuire. Questa è un’intenzionalità politica che ha un piccolo effetto sul piano del reale.

Poi c’è un lavoro di analisi e diffusione di contenuti che non è mai didascalico, perché non lo è il nostro linguaggio, che a tratti è anche abbastanza complesso e lì cerchiamo di fare il nostro per diffondere contenuti che sono esplicitamente politici. Si faceva riferimento ad esempio alla questione delle armi sonore, che è da intendersi come l’ha intesa Steve Goodman in Sonic Warfare. Nel contesto dell’audio-racconto l’abbiamo veicolata attraverso una storia fantascientifica che fa esplodere in maniera fantasiosa l’argomento, però per noi sono tutti strumenti di riflessione sulla realtà che viviamo tutti i giorni, e speriamo anche che lo siano per chi si imbatte nel nostro lavoro. Mettiamola così.

MONTAG: Partendo da Cronache di vita di Dorothea, volevamo farvi una domanda sul fronte artistico. Ci ha interessato molto come progetto perché è una creatura ibrida sotto moltissimi punti di vista: unisce sonoro, testuale, narrativo. Ma è anche ibrida dal punto di vista del genere narrativo, perché c’è da un lato il framework fantascientifico, ma dall’altro c’è anche quell’effetto quasi horror generato dal sentire la voce, il suono perduto di qualcosa quasi inarrivabile. Ne avete parlato anche in un post su Instagram, della possibilità di recuperare la voce di Gesù, che però chiaramente avrebbe un effetto orrorifico, perché parlerebbe in una lingua che a noi è completamente aliena, con inflessioni a noi sconosciute. Ci interessa questo vostro lavorare in maniera ibrida sia sul piano dei media che su quello dei generi. Per voi è una cosa naturale, lo decidete insieme…?

ALMARE (Giulia): Terrificante, ma anche comico. Sempre a cavallo.

ALMARE (Amos): I formati ibridi credo siano una delle scelte che più ci caratterizzano e interessano fin dall’inizio. Ci abbiamo sempre fatto attenzione, perché non volevamo bloccarci all’interno di una modalità di fare, di un formato o di un linguaggio. Di per sé questo audio-racconto si forma pian piano da un punto di vista formale, ma nasce prima di tutto come un racconto inteso proprio come una fiaba letta ad alta voce. Lo volevamo fare con uno stile che fosse vicino alla fantascienza dal punto di vista della scrittura, perché lì ci portava il tema dell’archeoacustica, che di per sé è fantascienza, ma nel senso che è una scienza che ancora non ha trovato delle risposte ai propri esperimenti, quindi è fantastica ed è qualcosa che ti devi per forza immaginare. Poi da un punto di vista formale, invece, all’inizio era semplicemente un audio-racconto senza sottotitoli. I sottotitoli sono nati come elemento funzionale e poi sono diventati centrali e necessari per portare fuori la voce e dargli una forma attraverso le lettere e le parole. Da lì ci sono voluti anni prima di arrivare a pensare che potesse essere considerato un film. Abbiamo avuto la fortuna che ci invitassero a fare la presentazione e ci dicessero “guardate abbiamo un cinema, vi va di farlo in un cinema?” E noi, “Ok, proviamoci”. Quell’esperienza lì, al cinema, è stata illuminante, perché abbiamo capito che effettivamente era un film. Lì prendeva forma nella postura che richiede il cinema, nello stare seduti, nell’ascoltare dall’inizio alla fine, nell’avere un grande schermo che ti attrae gli occhi e allo stesso tempo non c’è quasi nulla da vedere. Dall’altra hai anche la possibilità di avere un impianto audio che ti concede di spaziare, di lavorare sulla dimensione drammaturgica del suono. 

ALMARE (Giulia): Era il cinema Eliseo di Cesena, nel contesto della programmazione curata da MU, un’organizzazione composta da Enrico Malatesta, Glauco Salvo, Giovanni Lami. Tutte quelle ricerche che avevamo svolto in altri progetti, sia curatoriali che organizzativi, ci avevano portato a indagare certe tematiche che sono intrinsecamente legate agli albori di una tecnologia, di un modo di intendere la tecnologia, e che ci riguardano perché siamo ancora all’interno della modernità per quanto uno si sforzi a dirsi postumano. Nello specifico, Cronache di vita di Dorotea nasce da una ricerca legata alla registrazione, con la quale eravamo ossessionate nel 2019, e su cosa significa ascoltare e riascoltare, e se è possibile davvero ascoltare suoni registrati da noi stessi senza calcolare un interlocutore diretto: un’impressione sonora che non è finalizzata a una comunicazione intenzionale. Ci siamo accorte che le questioni che stavamo studiando andavano a smuovere tutta una serie di ambiti di cui noi non potevamo assolutamente occuparci. Allora abbiamo deciso di invitare autori, autrici, artiste, ricercatori, ricercatrici, che pensavamo potessero avere qualcosa da dire rispetto a questa domanda: che cosa significa autoregistrarsi? Il risultato è stata un’installazione sonora che abbiamo chiamato “Miscellanea” in riferimento a un format seicentesco, barocco, perché chiamarla archivio, database, non era abbastanza. La traccia dura 17 ore e raccoglie una serie di spunti sull’archeoacustica, una disciplina che indaga le proprietà acustiche dei siti archeologici per capire come sentiva la gente all’epoca dentro quei luoghi, come voleva far riverberare la voce.

Si tratta anche di un fantasioso sottobosco di teorie cospirazioniste e leggende metropolitane, legate a un’idea nata tra fine Ottocento e inizio Novecento: le persone attraverso queste tecnologie scoprivano che le onde sonore si imprimono nella materia e che poi, con degli strumenti appositi, è possibile riprodurre l’incisione discografica. Qualcuno si chiese: sarà successa la stessa cosa in tempi antichi? La voce di Aristotele sarà rimasta incisa su un vaso che qualcuno stava modellando in quel momento? Un’idea molto stimolante dalla quale è nato il what if del nostro racconto fantascientifico. Immaginate cosa succederebbe se questa ipotesi diventasse praticabile.

Qui la fiction arriva un po’ come reazione ai limiti della ricerca speculativa. Anche questo nasce da un’esperienza di ricerca condivisa e forse non ci saremmo mai arrivate se non avessimo fatto ricorso a ispirazioni portate dal coinvolgimento di altre persone. Abbiamo avuto la fortuna di poter approfittare in maniera quasi parassitaria di soluzioni che vengono dall’incontro con un’etichetta internazionale con cui abbiamo organizzato alcuni concerti a Torino. L’etichetta aveva poi coinvolto un’associazione torinese, Archivio Tipografico, che si occupa della conservazione della nobile arte della stampa a caratteri mobili. Il fatto che loro lavorassero alla riemersione di strumenti per la stampa risuonava con quella del suono, inciso e scavato come caratteri mobili, di cui parla il racconto. Il lavoro è, alla fine, un film, un piano sequenza che però è anche un’operazione di graphic design, ottenuta tramite processi analogici. L’effetto finale è quello di immagini che sembrano uscire dallo schermo, senza una funzionalità in sé, ma rinforzando ciò su cui volevamo lavorare, questa idea dello scavo archeologico, dell’emersione di strati diversi che poi si sintetizzano. L’interfaccia visiva ha assunto quasi magicamente un ruolo sintetico, una ragione quasi autonoma. E, anche qui, non avremmo potuto farlo senza entrare in relazione osmotica con il lavoro di altri collettivi.

MONTAG: Volevamo proprio andare a scavare su quanto fosse importante per voi il rapporto tra sonoro e visivo. Poi con il discorso sul collaborare e intrecciarsi con altre realtà ci avete fatto pensare a Kathy Acker, che seguiva un’etica molto punk, appropriazionista, e le sue opere cercavano di mostrare come tutto viva di una intertestualità e sia, in fondo, una sintesi di appropriazioni. Ci sembra che anche il modo in cui decidete di lavorare mostri il bello di una sintesi simile, fatta di tutti gli scambi e le collaborazioni che avete attraversato, sia tra di voi che con altre realtà. Tutto ciò, in un certo senso, rimane. Ecco, lo sottolineiamo perché sulle cose di cui abbiamo parlato aleggia una certa ossessione per l’inciso, la memorizzazione, qualcosa che viene salvato. Noi, nella nostra esperienza con la scrittura performativa, ci siamo confrontati con il dilemma inverso: situazioni di creazione collettiva in cui, alla fine, se l’opera finale scompare, che problema c’è? Cosa cambia, insomma, se dell’esperienza sonora o narrativa non resta assolutamente niente, se viene vissuta interamente sul momento. Finora abbiamo parlato di memoria sonora ma, al contrario, come vi ponete rispetto alla scomparsa sonora? Nella vostra estetica o etica si è mai posta una questione simile?

ALMARE (Gabriele): L’audio-racconto traccia esattamente questa traiettoria di cui parlate. Da una parte, l’ossessione di salvaguardare, o forse una pretesa di salvaguardare, tutto, di un’archiviazione quasi totale. Proprio l’altro giorno mi trovavo a discutere del rapporto con la tradizione e del fatto che la tradizione sia sempre, in fondo, una reazione emotiva alla perdita. E non esiste tradizione senza perdita. Sono la stessa cosa: ogni volta che ci interfacciamo con una ricorrenza, ci interfacciamo con una perdita. D’altro canto, e questa è la fine del racconto, le cose devono essere lasciate andare, in modo che possano essere vissute e basta. La memoria non è archivio. Bisogna fare i conti con l’ineluttabile e anche, direi, con una certa gioia nell’accettare che le cose prendano la loro naturale vita e che, quindi, si perdano. Forse potremmo definire la tecnologia nei termini di una hauntologia, una creazione di fantasmi: se si vuole tenere tutto, si vivrà in un mondo di fantasmi. E questo per noi era un punto centrale verso il quale volevamo andare con il racconto.

ALMARE (Amos): Aggiungo una cosa, un po’ per chiudere il cerchio rispetto all’introduzione. Per far sì che i nostri personaggi lasciassero andare, in un certo modo, abbiamo dovuto lasciare andare noi prima di tutto. Per questo parlavamo di un’esperienza “sofferta”, nel senso che la cosa andava a toccare un elemento intimo, anche rispetto a un momento in cui il nostro collettivo ha incontrato quel sottile confine tra le necessità comuni e le necessità di ciascuno. L’individuo, nel senso positivo del termine, non è l’individuo che rifiuta gli altri o rifiuta di mettersi in discussione, ma è l’individuo che riconosce il suo percorso e impara anche a mettersi da parte. Solo così aiuta la collettività, nel momento in cui è in grado di lasciare andare. E questo è un percorso che si fa da soli e insieme allo stesso tempo.

ALMARE (Giulia): Dico un’ultima cosa che però mi sembra significativa rispetto anche alla scrittura collettiva. Mi pare di capire che anche voi vi scontriate con il lasciare andare, il domandarsi fino a dove accumulare e poi fino a che punto sintetizzare o rielaborare tutto. Prendiamo lo script del nostro film. Molto materiale che usiamo sono parole scritte da altri, come Goodman, Burroughs, Morselli. Credo che finora solo per caso non ci sia finita Acker stessa. Poi c’è stata una prima fase del lavoro che è stata una registrazione delle nostre conversazioni, oppure salvataggi più o meno autorizzati di mail, chat, e così via. Tutto quel materiale è finito in un modo o nell’altro all’interno del lavoro finale: là dentro ci sono le parole di tutti, il nostro cumulo. Qui poi potremmo aprire tutta una digressione sull’accumulo come ossessione e sulla sua matrice politica, ma forse non abbiamo tempo.

MONTAG: Forse no, ma grazie mille per tutto quello che avete detto. Una cosa finale?

ALMARE (Amos): Nessuno ha ancora detto la parola capitalismo.

ARTICOLO n. 24 / 2024

DONNE CATTIVE

Il mito della mostruosità femminile - ii

Uno dei film più attesi del nuovo anno è stato indubbiamente Povere creature!, ultima pellicola del regista greco Yorgos Lanthimos. Il film, che vede tra i protagonisti Emma Stone e Willem Dafoe, è tratto dal celebre romanzo di Alasdair Gray e racconta la storia di Bella Baxter, giovane donna che lo scienziato Godwin Baxter riporta in vita attraverso uno strano esperimento. Di Bella, all’inizio, sappiamo poco; non conosciamo i motivi che l’hanno portata, incinta, a suicidarsi gettandosi nel fiume, né con quali tecniche Baxter l’abbia rianimata. Mentre racconta all’amico e collega McCandless delle circostanze in cui ha compiuto l’operazione, il medico rivela di aver prelevato il cervello dal feto e di averlo impiantato successivamente nel corpo della giovane: «Per anni avevo progettato di prendere un corpo e un cervello scartati dal nostro mucchio di letame sociale per riunirlo in una nuova vita. Adesso l’ho fatto, e Bella ne è il risultato». 

A una prima analisi, la storia di Bella Baxter potrebbe ricordare quella di Frankenstein, entrambe le figure condividono infatti il destino di essere assemblate e riportate in vita per mano di un uomo. Tuttavia, Bella è fin da subito dotata di un nome e una propria individualità, che si forma via via grazie ai progressi evolutivi di quel cervello infantile che le è stato impiantato. Bella è riconoscente al suo creatore, che non a caso per tutto il romanzo chiamerà con il suo diminutivo che significa “Dio”: «Mi hai reso forte e sicura di me – God – insegnandomi le cose belle e importanti del mondo e mostrandomi che ero una di esse». Ben diversa invece è la vicenda di Frankenstein, mostro senza nome, ripudiato anche dall’uomo che lo ha creato, e mai avrebbe dovuto. Mentre Shelley dà vita a un romanzo – il primo a metà tra gotico e fantascienza – in cui traspone la perdita e il dolore per la morte prematura della figlia, Gray crea una storia politica funzionale a ricordarci l’importanza di cambiare costantemente prospettiva per poter andare, davvero, al nocciolo delle questioni. Non è un caso, infatti, che lo scrittore di Glasgow, giocando con la quarta parete, racconti la storia da punti di vista diversi: il suo, che nella finzione letteraria diventa curatore di un grande volume trovato per caso tra i materiali di cui una ditta si era sbarazzata; quello di McCandless, che firma l’opera e quello della stessa Bella Baxter, che il giovane medico sposerà dopo varie peripezie. 

Bella Baxter è una figura mostruosa non solo e non tanto per il modo in cui interagisce con gli altri personaggi – si muove a scatti, impara a parlare e scrivere esattamente come farebbe un bambino, per tappe e grossolani errori – lo è soprattutto perché il suo comportamento trasgredisce le regole sociali. È bellissima, sessualmente insaziabile – tanto che non perde occasione di intrattenersi con l’avvocato Duncan Wedderburn (nonostante sia promessa sposa di McCandless) – e si diletta inoltre a girare per il mondo sostenendo le nascenti teorie socialiste. La mancata maternità, la vita sessuale dissoluta, l’interesse per la politica e la scienza fanno di lei una donna mostruosa, una delle tante che il sistema di potere nel quale ci troviamo a vivere ha sempre tentato di condannare e reprimere. Nel lungo cammino che ci spinge a riflettere intorno ai miti del femminile, non potevamo quindi esimerci dal raccontare del loro corpo e, soprattutto, delle loro pulsioni.

Come dicevamo, il patriarcato non si è premurato soltanto di definire quelle pratiche e quei comportamenti che dovevano essere agiti dalle donne per poter ottenere approvazione e consenso. Le regole si creano soprattutto attraverso il biasimo e la condanna sociale delle condotte ritenute indegne: dimostrare un’eccessiva libertà e promiscuità sessuale rientra indubbiamente in questa casistica.

Ne Il mostruoso femminile, Sady Doyle scrive: «La sessualità di una donna adulta – quella che va a braccetto con l’esperienza, la capacità d’azione e il potere – è demonizzata anche più di quella adolescenziale». Non ci si deve stupire quindi se il patriarcato ha cercato nei secoli di costruire, attraverso la narrazione, miti funzionali a stigmatizzarla. Il genere femminile viene da sempre raccontato attraverso una prospettiva maschile: non solo nel cinema, come ci ha spiegato la critica cinematografica Laura Mulvey, ma anche nelle storie e nelle tradizioni che ci sono state tramandate vengono rappresentate esperienze femminili attraverso lo sguardo e le lenti interpretative degli uomini. A ben vedere, molte protagoniste che ci sono state consegnate dalla storia raccontano più della paura degli uomini nei loro riguardi che non delle vicende che le vedono coinvolte. In questo senso, la mitologia irlandese è una fonte interessante a cui guardare per cercare qualche esempio. Le selkie sono donne-foca che possono “perdere” la loro pelle animale per assumere una forma umana e vivere sulla terra, insieme al loro partner, a patto che egli non ne veda il manto tenuto al sicuro in baule. In quel caso l’essere mitologico perderà le fattezze femminili e si allontanerà per sempre dal suo sposo.

Il mito delle selkie potrebbe derivare a sua volta dalla vicenda di Melusina, raccontata nell’Histoire de Lusignan, dallo scrittore francese Jean d’Arras. Melusina è una fata che accetta di sposare Raimondino, figlio del re dei celti, a patto che egli la lasci sola per un giorno a settimana. Tutto sembra procedere bene fino a quando il giovane, convinto dalle malelingue che la moglie avesse un amante, rompe il patto e la spia: ciò a cui assiste non è un tradimento ma una rivelazione circa la mostruosità della sposa, che dalla vita in giù è dotata di una lunga coda da sirena. In seguito alla rottura dell’accordo, Melusina sparisce gettando il suo sposo in un dolore straziante.

Le donne libere sembrano quindi giocare con i sentimenti degli uomini: a Bella Baxter pare non importare molto del dolore che arreca a McCandless quando decide di andarsene con “l’amante” nonostante la promessa di matrimonio. Per lei, l’amore per le due figure non è in contraddizione. La protagonista di Povere creature! non è un vampiro, eppure la sua vicenda ricorda molto quella di Lucy Westenra.

Secondo l’interpretazione di J.E. Sady Doyle, la donna descritta in Dracula appare come un personaggio non convenzionale, ricca, bellissima, voluttuosa e, a differenza della cugina Mina Harker, più interessata a flirtare con i tre suoi pretendenti che a sposarsi e aderire alle convenzioni sociali. Il modo in cui Bram Stoker descrive il momento in cui Dracula si china sul suo corpo trasformandola per sempre in una non-morta ha poco del sacrificio e molto della voracità sessuale a cui lei pare abbandonarsi. È il professor van Helsing che rivela ai tre amanti la spiacevole verità e obbliga il promesso sposo Arthur Holmwood a piantarle un paletto nel cuore. Prima del gesto, la cui violenza ricorda quella dello stupro, la donna tenta ancora un approccio sessuale («vieni da me, Arthur, le mie braccia ti bramano»), ed è proprio quello il momento in cui la sua immagine si trasforma, anche agli occhi degli astanti. Dice ancora Sady Doyle, riportando Stoker: «Diventa un incubo, “la dolcezza era diventata spietata crudeltà e la purezza voluttuosa impudicizia”».

Pur non avendo nulla del romanzo didascalico, la punizione subita da Lucy Westerna insegna alle donne a moderare il proprio desiderio, a renderlo accettabile all’interno della cornice sociale entro cui devono adattarsi. Bella, Lucy, Melusina, sono figure che mal si adeguano alle regole anche perché sono loro che cercano di dettarle, ed è proprio questo l’aspetto contribuisce a renderle una minaccia. Nel corso dei secoli, non tutte le donne che hanno rappresentato un pericolo sono state rinchiuse in manicomio o processate per stregoneria, ma tutte hanno subito un controllo nel tentativo di produrre un addomesticamento coatto. La maggior parte delle protagoniste non avrà una storia come quella di Bella Baxter (di cui non sveliamo il finale), molte soccombono alla forza di un potere che le sovrasta. Muoiono, ma si ribellano seminando terrore negli uomini che sono costretti a scontrarsi con loro, e questo gesto sì che può insegnarci qualcosa.

ARTICOLO n. 23 / 2024

LA MUSICA DELLE PAROLE

Dopo essere stati travolti dall’overdose sanremese, in cui si è disquisito di tutto, dall’outfit (oddio, l’ho scritto!) di uno al colore dei capelli dell’altra, dalle pseudo-polemiche agli pseudo-scandali, mi è venuta voglia di parlare di musica. Mi correggo: siccome della musica non ha molto senso parlare (la musica la si ascolta), mi soffermerò su ciò di cui parla la musica, ovvero i testi delle canzoni. Tanto per rimanere sul più grande fenomeno canoro italiano, citerò alcune strofe raccolte a caso dei brani sanremesi di quest’anno (oltre all’immarcescibile parola “amore”, la più ricorrente pare sia “mare” seguita da “cielo”):

Se avessi un telecomando non ti cambierei mai / tagliami il cuore se vuoi con un paio di forbici
L’amore spacca il cuore a metà / ti lascia in coma dentro al solito bar / nessuno resta per sempre tranne i tattoo sulla pelle / e vomito anche l’anima per sentirmi vivo dentro ‘sto casino
Con cosa son rimasto / con ‘sta nostalgia del cazzo
Sai che dentro ho un mare nero che m’illumina
La mia collana non ha perle di saggezza / a me hanno dato le perline colorate / per le bimbe incasinate con i traumi/da snodare piano piano con l’età/eppure sto una Pasqua guarda zero drammi
Stamattina io mi lavo i denti col gin / metto i soliti jeans / sono un nomade in un attico chic
Le tue pupille sembrano pallottole se mi guardi mi ferisci / tu sai che avevo bisogno d’aiuto potevi pure mandarmi a fanculo
L’amore è una sala slot / mi gioco tutto
Questo amore è una sparatoria / con le tue armi puntate verso di me / siamo pieni di rimpianti fino all’overdose.

Ecco qui. Ora non sto a lambiccarmi se debba o meno lasciare il segno un testo scritto per quel palcoscenico fiorito, abbandono dunque il festival rivolgendo lo sguardo (e in seguito l’orecchio) alle canzoni i cui testi, insieme alle note, hanno segnato la mia esistenza, e comincerò dal gruppo che più di ogni altro associo alla mia biografia: i Genesis. Credo di conoscere a memoria quasi tutti i testi degli album prodotti dal 1970 al 1976, vale a dire da Trespass a Wind and Wuthering, che segna la fine della mia cieca devozione. 

La maggioranza delle persone ascolta una canzone senza tener conto delle parole che la compongono, vuoi perché non conoscendo la lingua ne ignora il significato, vuoi perché considera il testo elemento accessorio alla melodia. Per me invece i testi sono fondamentali. Posso dire di aver imparato l’inglese per poter capire le lyrics dei Genesis, e seppure la padronanza della lingua non ha chiarito il senso di quelle parole misteriose imbevute di mitologia e simbolismi, mi ha però offerto l’impagabile piacere di cantare insieme a Gabriel, Rutherford, Hackett, Banks e Collins le migliaia di volte che ho schiacciato il tasto play per ascoltarli. I’ve got sunshine in my stomach… 

Già solo questo attacco: “Ho il sole nello stomaco”, me li fa amare senza riserve. La concezione musicale (di questo si tratta, di concezioni) dei Genesis è strettamente legata al testo, le celeberrime suite sono interminabili poemi musicali, e pazienza se le ambiguità, i doppi sensi, gli scioglilingua, le ripetute metafore di cui sono farciti i versi rendono ardua la comprensione, pazienza… Li avrei amati allo stesso modo senza conoscere i testi delle loro canzoni? Non credo. Mi piace sapere che in Get’em out by Friday vengano evocati dei “dirigenti dell’Ente Controllo Genetica” che decidono la statura massima delle persone così da sfruttare lo spazio abitabile delle case: I hear the Directors of Genetic Control / have been buying all the properties that have recently been sold / taking risk oh so bold / it’s said now people will be shorter in height / they can fit twice as many / in the same building site. Così come mi appassiona sapere che Supper’s ready nasce da un’esperienza paranormale vissuta da Peter Gabriel e sua moglie Jill, nel salotto, divenuto improvvisamente teatro di spaventosi fenomeni, della casa dei genitori di lei. Si racconta di visioni soprannaturali, tende svolazzanti, strani rumori, e di uno stato di trance che trasfigura il volto di Jill: Walking across the sitting room / I turn the television off / Sitting beside you / I look into your eyes / As the sound of motor cars / Fades in the nighttime / I swear I saw your face change / it didn’t seem quite right.

Capire il significato del testo rende il brano, già grandioso nella sua composizione, ancora più potente. Naturalmente la metrica è fondamentale, la traduzione rischia talvolta di far apparire un testo ancora più assurdo di quanto già non lo sia in originale. Cito l’esempio di un’altra band che ricorre nelle stagioni della mia vita: I King Crimson. 

Disse l’uomo onesto all’uomo in ritardo / Dove sei stato? / Sono stato qui e sono stato lì / e ho vissuto a metà / Io parlo al vento / il vento non sente, il vento non può sentire.

I talk to the wind è il titolo del brano: Said the straight man to the late man / Where have you been? / I’ve been here and / I’ve been there / And I’ve been in between.

Non si tratta quasi mai di parole appese tanto per soddisfare il ritmo di una melodia, è evidente la ricerca di un valore letterario, il tentativo di far combaciare due linguaggi senza che uno prevalga sull’altro.

Between the iron gates of fate / the seeds of time were sown / and watered by the deeds of those / who know and who are known / knowledge is a deadly friend / if no one sets the rules / the fate of all mankind I see / is in the hand of fools.

Tra i cancelli di ferro del destino / furono piantati i semi del tempo / e innaffiati dalle azioni di quelli che conoscono e da quelli che sono conosciuti / la conoscenza è un’amica mortale / se nessuno stabilisce le regole / il destino di tutta l’umanità che vedo / è nelle mani dei pazzi.

Epitaph è il titolo del brano contenuto nell’album In the court of the Crimson King. Echi shakespeariani e musica sublime. Non a caso, ai testi, interpretati dalla voce distorta di Greg Lake, collaborò il poeta Peter Sinfield. Vi è incluso anche l’apocalittico (e profetico) 21st Century schizoid man: 

Un tormento di sangue / filo spinato / un rogo di politici /innocenti stuprati con il fuoco del Napalm / uomo schizoide del ventunesimo secolo / La morte semina l’avidità dell’uomo cieco / i figli dei poeti affamati sanguinano / Non ha nulla di cui abbia veramente bisogno / l’uomo schizoide del ventunesimo secolo.

“L’uomo schizoide del ventunesimo secolo” potrebbe essere il titolo del momento, invece è datato 1969. Inutile citare la copertina, probabilmente la più bella mai realizzata (da un ragazzo di ventitré anni che morì l’anno successivo senza sapere quale prodigio aveva compiuto). Chi non la conosce vive sulla luna.

«Nei nostri concerti vedo migliaia di persone felici di ascoltare questo pezzo, ignari di ciò che dice», ha detto in un’intervista Thom Yorke a proposito di Street Spirit (fade out), brano dei Radiohead contenuto nell’album The Bends. Un testo disperato, Street Spirit, come disperata è la voce di Yorke: Uova frantumate, uccelli morti / urlano mentre lottano per la vita / sento la morte, vedo i suoi minuscoli occhi / queste cose matureranno / queste cose ingoieremo un giorno.

Cracked eggs, dead birds / scream as they fight for life / I can feel death, can see its beady eyes / all these things into position / all these things we’ll one day swallow whole.

Esistono diverse cover dei brani dei Radiohead (lo stesso Peter Gabriel ha prodotto una sua dolentissima versione di Street Spirit), ma i testi di Thom Yorke, così criptici, psicanalitici, concettuali, se cantati da altri suonano come appropriazioni indebite. Basta leggerli per capire che non esiste altro modo possibile di interpretarli se non con la voce del loro autore, così come accade con i poeti, gli unici legittimi declamatori dei loro versi. 

Il più grande scrittore (sì, scrittore) di testi è senza dubbio Bob Dylan, probabilmente uno dei Nobel per la letteratura più meritati degli ultimi anni, con buona pace di chi ha sollevato riserve. Lo cito per dovere di cronaca pur non facendo egli parte delle mie ossessioni musicali. Possiedo però un libro ponderoso (1225 pagine) intitolato Bob Dylan Lyrics 1962-2001 (mancano dunque più di vent’anni di brani aggiuntivi), del quale ogni tanto mi diletto ad aprire una pagina a caso, e ogni volta casco su qualche perla. Come in questo momento: p.585, Sign on the CrossI know in my head / that we’re all so misled / and it’s that ol’sign on the cross / that worries me / Now, when I was just a bawlin’ child / I saw what I wanted to be / and it’s all for the sake / of that picture I should see / but I was lost on the moon / as I heard that front door slam / and that old sign on the cross / still worries me.

Ce l’ho ben chiaro in testa / che siamo tutti sulla strada sbagliata / ed è sempre quell’insegna sulla croce / a darmi dei pensieri / Sin da quando ero un bambino che frignava / sapevo cosa volevo fare da grande / ed è tutto per via / di quella figura che poi dovevo vedere / ma ero perso sulla luna / quando ho sentito sbattere la porta / ed è sempre quell’insegna sulla croce / a darmi dei pensieri.

Proviamo di nuovo. Casco sulla pagina 1025. Il titolo è Dignity. La dignità.

Fat man lookin’ in a blade of steel
Il grasso la cerca in una lama d’acciaio
Thin man lookin’ at his last meal
Il magro la cerca nel suo ultimo pasto
Hollow man lookin’ in a cottonfield
Un guscio d’uomo la cerca in un campo di cotone
For dignity
La dignità
Wise man lookin’ in a blade of grass
Il saggio la cerca in un filo d’erba
Young man lookin’ in the shadows that pass
Il giovane la cerca nelle ombre che passano
Poor man lookin’ through painted glass
Il povero cerca di scorgerla in un vetro dipinto
For dignity
La dignità

È tutto chiaro. Ciascuna parola ha il suo significato.

Per una stramba associazione penso a Syd Barrett e ai suoi testi, i cui significati vagavano nei bui meandri del suo cervello: An effervescing elephant / with tiny eyes and great big trunk / once whispered to the tiny ear / the ear of one inferior / that by next june he’d die, oh yeah.

Un elefante effervescente…

I versi enigmatici sono quelli che prediligo. Inestimabile Mogol, ma Pasquale Panella, per Battisti, di questo è stato capace: 

Ti piacciono i dolci / ed io sul tuo terrazzo impianto / un’impastatrice industriale / che mescola e sciorina la crema per le scale.

Vuoi prendere un treno di notte / pieno di paralumi e di damasco per dormire / Sennò a che serve un treno? / Alzo con le mie leve tutti i binari / E, senza alcun disagio di viaggiare in discesa / Scivolano da te tutti i vagoni / Detto così è semplice / E infatti lo è detto così.

Se nulla capivo, qui tu finalmente / Nulla lasciavi germogliare sulla brulla / Paradossale, tra noi terra infondata / Dove sono i leoni / Ammattiti e marroni / Lasciando immaginare / La sposa occidentale.

I leoni ammattiti e marroni…

E poi c’è De Gregori con l’inarrivabile: Conoscete per caso una ragazza di Roma / la cui faccia ricorda il crollo di una diga.

O l’ancora più bello: Ditele che la perdono per averla tradita.

E infine vorrei ricordare un autore ignorato in Italia e molto popolare in Francia. Personaggio eclettico (è attore, scultore, disegnatore, regista) dall’aspetto buffonesco, è autore di testi sublimi nascosti in motivetti elementari, apparentemente leggeri. Un pezzo unico nella patria degli chansonniers. Il suo nome è Philippe Katrine, e questo è ciò che scrive nel brano Mort à la poésie:

Je fais de ma vie un chef d’œuvre / Faccio della mia vita un capolavoro
Que l’on visite pour 100 francs / Visitabile con 100 franchi
Tous les deux ou trois ans / Ogni due o tre anni
J’écrase des insectes merveilleux / schiaccio insetti meravigliosi
Sur des visages adolescents / su visi adolescenti
Et absolument consentants / e assolutamente consenzienti
Je marcherais nu sur la Pont Neuf / Camminerò nudo sul Pont Neuf
Le 7 avril de 2009 / Il 7 aprile 2009
En criant: / Gridando:
«Mort à la poésie ! Mort à la poésie ! / Morte alla poesia! Morte alla poesia!
Je suis un homme libre» / Sono un uomo libero»


Concludo con il suo testo più bello, Où je vais la nuit. Versi che Baudelaire avrebbe amato:

Si tu savais où je vais la nuit / Se tu sapessi dove vado di notte
Je nage dans tes yeux comme en Océanie / Nuoto nei tuoi occhi come in Oceania
Je marche dans tes cheveux sans trouver mon chemain / Cammino nei tuoi capelli senza trovare la strada
J’escalade tes seins avec l’aide des dieux / Scalo i tuoi seni con l’aiuto degli dèi
Si tu savais / Se tu sapessi
Où je vais la nuit / Dove vado di notte
J’embrasse tes ancêtres sur leur bouche adorée / Bacio i tuoi antenati sulla bocca adorata
Et toutes les terres qu’ils ont un jour foulé / E tutte le terre che calpestarono un tempo
Je les embrasse pareil à un nouveau né / Li bacio come farei con un neonato
Puis je pleure un peu pauvre con que je suis / Poi piangerei un po’, povero fesso che sono
Si tu savais où je vais la nuit / Se tu sapessi dove vado di notte
Tu resterais, toi ou ton fantôme / Rimarresti, tu o il tuo fantasma
Qui métamorphose mes nuits en royaume / che trasforma le mie notti in un reame
Sauvage et délicat / Selvaggio e delicato
Reste dans mes bras / Resta fra le mie braccia

ARTICOLO n. 22 / 2024

TORNARE NELL’ESTREMO NORD DELL’ALASKA

Pubblichiamo un estratto inedito dal volume oggi in libreria, Il canto del mare (Einaudi, traduzione di Duccio Sacchi).

Prima della nascita di mio figlio vivevo a Londra, avevo una vita sociale intensa ed ero una giornalista di successo. Una volta diventata mamma, le cose hanno preso una piega via via peggiore. Quando Max aveva un anno, nel 2012, mi sono ritrovata a vivere in un ostello per madri single, sull’isola di Jersey, di fronte alle coste del nord della Francia, dove ero cresciuta. Avevo speso tutti i miei risparmi in onorari di avvocati, per difendermi in tribunale dal mio ex, Pavel, e dimostrare che Max doveva vivere con me. 

Nell’ostello me ne stavo sulle mie, usavo il corpo come un’armatura, cercando di dare nell’occhio il meno possibile. Era tutto svanito così in fretta. Il lavoro regolarmente retribuito, il sonno, gli amici a cui non avevo più i soldi per telefonare, la mia stessa casa. Possedevo un appartamento nell’East London, ma non potevo venderlo, dato che valeva meno del mutuo che dovevo finire di pagare, e neppure ero in grado di estinguere l’ipoteca per andare a viverci. Senza contare che c’erano anche altre ragioni per non stare a Londra. 

Per me era come reimparare da zero a camminare e a parlare. E dato che il mondo sembrava non riconoscermi più, pensavo soltanto a prendermi cura di quello che era diventato il centro di ogni cosa, il mio bambino di un anno. 

Un giorno d’inverno avevo imboccato una viuzza appartata, lontana dalla zona dei negozi di Saint Helier, il maggiore centro abitato di Jersey, e avevo proseguito fino al banco alimentare situato al piano di sopra di un negozio di beneficenza dell’Esercito della salvezza. Un uomo sorridente ci aveva fatto strada oltre gli appendiabiti e su per le scale fino a una fila di armadi a muro al primo piano. «Prendi tutto quello che ti occorre e che riesci a portarti via», aveva detto. Me ne portai via di più. Una borsa di plastica era già sul punto di strapparsi. La campanella del negozio suonò mentre uscivo tenendo con una mano tre borse piene di scatolette e nell’altra il piccolo palmo di Max. 

All’improvviso una voce familiare: «Doreeen!» Una mia compagna di scuola ferma sulla strada, con un bel sorriso che ricordavo ancora a distanza di vent’anni. Eravamo amiche da ragazzine. «Sei tornata». 

«Ciao! Sono tornata, sì», risposi posando le borse per terra. 

«Non sapevo che avessi un bambino. Ciao, bello». Fece un cenno a Max e tornò a guardarmi. «Tuo marito è inglese?» Max saltellava, tirandomi per la mano. 

«Nessun marito. Siamo soltanto io e Max. Come stai? Sono secoli che non ci vediamo». 

La sua domanda successiva era già partita: «Sei tornata a casa dai tuoi allora?» 

Strinsi la mascella. «No, mamma sta troppo male». Risollevai le borse. 

«Ma quindi dove stai?» riprese accigliata. «Come te la cavi? Ti dà una mano qualcuno?» 

Mi era venuto mal di testa. Sentivo i manici delle borse tagliarmi la mano. Lasciai che Max mi tirasse dall’altra parte. «Stiamo bene. Mi ha fatto piacere vederti. Adesso scusa, devo andare, siamo in ritardo». 

Mentre tornavamo all’ostello passammo davanti alla vetrina di una panetteria, dove erano esposti vassoi di panini morbidi. Nel vetro vidi una barbona: indossava i miei vestiti e teneva per mano un bimbo adorabile. 

Qualche settimana dopo, un altro incontro mi fece cambiare rotta. Le donne come me, voglio dire le madri che avevano soggiornato di recente nella casa rifugio o che attualmente vivevano lì, avevano anche dei vantaggi. Un’associazione ecclesiastica organizzava una giornata di cure di bellezza tutta per noi. Ero arrivata qualche minuto in anticipo e spingendo i pesanti battenti di legno scoprii ammirata la vastità della sala inondata di luce. 

«Signore mio Dio, aiuta queste povere donne… sulla retta via… lontano da Satana». Il capannello di donne non mi aveva visto entrare. Pensai di tornarmene subito fuori ma il gruppo si era sciolto e le signore mi stavano già salutando sorridenti. Ricambiai con uno sguardo serissimo. Non pensavano mica che avessi bisogno di essere salvata? Una donna puntò dritta su Max e ci fece strada fino all’area bimbi gestita da volontari, tutti assistenti all’infanzia professionisti, mi rassicurò. Max la prese per mano e avanzando a passi incerti andò a dare un’occhiata ai giocattoli. Un’altra signora con una maglia a righe blu alla marinara e scarpe da barca cercò di guidarmi verso un altro angolo dove erano a disposizione massaggi, manicure e pediluvi. Non sarei stata il loro caso umano. Dovevo portare via Max. Diedi un’occhiata intorno e vidi mio figlio che in braccio a una signora stava scartando un regalo, un’autobetoniera giocattolo con tanto di autista e bicchiere rotante. Sprizzava felicità. Guardai di nuovo la sala. 

Cominciavano ad arrivare altre famiglie. Se proprio dovevo passare il pomeriggio a fare la donna di Satana, tanto valeva approfittarne. «Un massaggio alla testa andrebbe benissimo, grazie», dissi alla mia nautica accompagnatrice, dopo di che mi sedetti e chiusi gli occhi. Le sue dita accarezzavano come acqua il mio cuoio capelluto. All’inizio fingevo, fantasticando, di trovarmi in una spa. Ma la spa si trasformò in un mare. Non ero più nella sala parrocchiale. Ero tornata una bambina che correva a perdifiato sulle spiagge di Jersey e d’Irlanda. Poi mi si presentò alla mente l’immagine di una costa diversa, una costa artica, e posai lo sguardo su una vasta distesa di ghiaccio marino, che si perdeva in lontananza verso il polo Nord. Ero di nuovo in Alaska, dove ero stata in viaggio sette anni prima, di nuovo a Utqiaġvik, che prima si chiamava Barrow, e vivevo con una famiglia iñupiaq. La città si affaccia sull’oceano Artico, all’estremo confine settentrionale degli Stati Uniti. Gli iñupiat prosperano da migliaia di anni in questo luogo periodicamente inghiottito dal ghiaccio e dall’oscurità, uniti dalla loro antica cultura e dal rapporto speciale che hanno stretto con gli animali che cacciano, tra cui la magnifica e misteriosa balena artica. Laggiù non avevo soltanto visto le balene, avevo fatto parte di una grande famiglia di cacciatori, viaggiando con loro in un paesaggio di stupefacente bellezza e pericolosità. Mi ero sentita straordinariamente viva, connessa alle altre persone e al mondo della natura. Se solo avessi potuto sentirmi di nuovo a quel modo, e trasmettere anche a Max quella sensazione! «Mamma!» 

Tornai dall’Artide e riaprendo gli occhi mi trovai davanti il mio bambino. La signora sollevò le mani dai miei capelli. Avevo la testa più leggera. 

«Via». Max fece un gesto in direzione della porta. Ringraziai la mia massaggiatrice, presi Max per mano e me ne andai. 

Quella notte, mentre Max dormiva, lasciai perdere la ricerca a cui stavo lavorando da freelance e cercai in rete informazioni sulle balene artiche. 

Passando alle balenottere azzurre, guardai il mio video preferito di David Attenborough, in cui la creatura gigantesca emerge vicino alla barchetta del regista. Dopo di che finii su un articolo sulle balene grigie, una specie di cui non sapevo niente. Ne esistevano due popolazioni, c’era scritto, una nel Pacifico occidentale, l’altra in quello orientale. Fu allora che scoprii che ogni anno la popolazione orientale si trasferiva dall’oceano Artico ai luoghi di parto nelle lagune costiere del Messico, per poi migrare nuovamente a nord con i cuccioli appena nati. Tra andata e ritorno era un viaggio di più di quindicimila chilometri, come dire quasi due giri a nuoto intorno alla luna. Le balene viaggiavano in genere in prossimità delle coste sopra fondali abbastanza bassi coperti di alghe e si potevano avvistare lungo tutta la costa occidentale del Nord America. E mentre si facevano mezzo pianeta a nuoto le madri respingevano i predatori, crescevano la prole e allattavano. Erano la resistenza incarnata. 

Leggendo queste notizie sentii rinascere dentro di me una nuova forza. L’articolo diceva che nella Baja California era possibile vedere madri e cuccioli da dicembre ad aprile. Forse potevo portarci Max. Risi di gusto all’idea, ma continuai a pensarci. Sarebbe stato un modo per imprimere le balene nel suo subconscio, per insegnargli il sapore della libertà, per cancellare qualsiasi traccia di claustrofobia o di disperazione che poteva aver assimilato nella casa rifugio. Avrei potuto condividere con lui gli stimoli che mi davano le meraviglie della vita sottomarina. Sarebbe stato come i documentari di Attenborough con cui ero cresciuta, anzi, meglio ancora, perché sarebbe stato reale. Era gennaio. Madri e cuccioli dovevano già essere lì, nella Baja California. 

Mentre ero china sul computer, sul bordo del letto, di fianco a Max, sentii una voce, la voce di Billy, vicina e profonda, come se fosse seduto accanto a me, sulla banchisa in Alaska sette anni prima, a scrutare le balene. 

«A volte», disse lentamente, «vediamo una balena grigia». Era come se Billy mi stesse parlando attraverso i chilometri che ci separavano. 

Da quel momento avvenne tutto in fretta. Una corda calata dal cielo mi stava tirando fuori dalla finestra per portarmi di là dal mare. Il giorno dopo lasciai l’ostello e mi trasferii nella mansarda di un’amica. Ottenni un prestito, richiesi i visti. Seguiremo madri e cuccioli dal Messico fino in capo al mondo, spiegai a Max. Le balene nuoteranno e noi prenderemo l’autobus, il treno e la barca di fianco a loro. 

«Treno?» Max non aveva tutta questa smania per le balene, ma sicuramente adorava tutti i mezzi di trasporto. «Flash con me, mamma!» Prese il suo morbido cagnolino di peluche e si fermò vicino alla porta, pronto per partire. 

Mi dissi che dalle balene avrei imparato di nuovo a fare la mamma, a perseverare, a vivere. 

Sotto sotto, segretamente, quello che desideravo era tornare nell’estremo nord dell’Alaska, nella comunità che mi aveva offerto rifugio nell’aspra bellezza dell’Artico, e da Billy, il cacciatore di balene che mi aveva amato. 

© 2022 Doreen Cunningham
© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

ARTICOLO n. 21 / 2024

PANICO WOKE

Anatomia di un'offensiva reazionaria

C’è un’ondata di panico nel dibattito pubblico globale sul termine wokismo. È nato con l’omicidio, nel febbraio 2012, di Trayvon Martin, un adolescente afroamericano uscito dalla sua casa in una città della Florida per comprare caramelle in un negozio di alimentari. Fu ucciso da George Zimmerman, un uomo di razza mista bianca e latina che faceva parte di un’organizzazione di “vicini vigilanti”. Il governo federale non ha immediatamente perseguito l’aggressore. In Florida, la legge “Stand Your Ground” consente a chiunque ritenga ragionevolmente che la propria sicurezza, o quella della propria proprietà, sia minacciata di sparare alla persona che la sta minacciando.

L’omicidio di Trayvon Martin è avvenuto nel 2012, in un’epoca in cui le reti sociali erano sviluppate: Twitter, Facebook, Instagram, Tumblr, e altri. Furono organizzate mobilitazioni digitali per chiedere giustizia, spingere lo Stato della Florida a perseguire l’assassino e reclamare lo spazio pubblico per le persone di colore. I genitori di Trayvon Martin, Tracy Martin e Sybrina Fulton, lanciarono una petizione, sostenuta da celebrità come Janelle Monae e LeBron James. Il processo si è tenuto durante l’ondata di emozione per l’omicidio. L’assassino si difese sostenendo di essersi difeso contro un diciassettenne disarmato. Una giuria composta da sei donne, cinque bianche e una latina, assolse Zimmerman nel 2013. Le conversazioni trapelate sulla stampa indicano che, secondo la giuria, Zimmerman “temeva per la sua vita”. Tuttavia, si scoprì che il vigile volontario aveva preso l’iniziativa di seguirlo con la sua auto, sebbene il 911 [il numero per le emergenze negli Usa, ndr.] gli avesse proibito di farlo.

Stay woke

È stato a questo punto che è dilagato lo slogan “stay woke” sui social network. Era un’indicazione alle persone mobilitate di restare vigili di fronte alla violenza della polizia. Stay woke esprimeva anche la sfiducia nei confronti della copertura mediatica tradizionale degli eventi, riecheggiando la famosa frase di Malcolm X: «Se non sei vigile, i media ti faranno odiare gli oppressi e amare coloro che li opprimono». 

L’espressione deriva dall’African-American Vernacular English, l’inglese sviluppato dai neri americani. È stata diffusa sui social network e irritò gli utenti conservatori che l’hanno subito ridicolizzata. Allora venne realizzata un’operazione di rovesciamento semantico e di ricolonizzazione del senso di un’espressione concepita per liberare gli oppressi. Wokismo, oggi, si riferisce a chiunque sia coinvolto in lotte sociali progressiste: contro la “negrofobia”, la transfobia e così via. Ormai “wokeism” non è una parola che indica un contenuto, ma va considerata a partire da una funzione censoria e stigmatizzante che serve a contestare tutto ciò che gli oppressi hanno da dire quando sono uccisi, sfruttati o umiliati.  

A differenza di Stay wokewokismo non ha una definizione precisa. L’acquista quando si tratta di colpire, con il cinismo aggressivo dell’ironia social o il disprezzo di classe, qualcuno che osa dire di non volere essere malmenato. Stiamo parlando di una chimera come altre nate quando le guerre di religione sono state secolarizzate nei conflitti sulla proprietà dell’immaginario. La sua peculiarità è data dal fatto che il wokismo è azionato quando si tratta di bloccare un principio di organizzazione dei dannati della terra.

Per chi indaga le culture politiche contemporanee, questa strategia indica l’esistenza di uno scontro e permette di comprenderne la logica spesso oscura e quasi mai esposta in maniera razionale. Alla base delle discussioni che occupano la sfera pubblica digitale c’è un’intuizione della teoria critica della razza, quella di Angela Davis ispirata alla connessione tra classe-genere-razza, Questa prospettiva denuncia la criminalizzazione degli uomini e delle donne di colore e il loro alto tasso di incarcerazione negli Stati Uniti. Un’altra ricercatrice, Kimberlé Crenshaw, ha sviluppato questo lavoro e ha parlato di “intersezionalità della violenza”, soffermandosi in particolare sulle lotte femministe contro la misoginia, l’ipersessualizzazione e la criminalizzazione dei corpi neri.

Insieme queste teorie sono state usate dai movimenti statunitensi a partire da quel 2012 per creare uno spazio politico liberato e denunciare quello occupato dalla “supremazia bianca”. Questa opera di costruzione politica procedeva insieme allo sviluppo di un movimento a Miami, Oakland, New York e Detroit e in tantissime altre città. Un’attivista afrofemminista, Alicia Garza, scrisse un post su Facebook in risposta all’assoluzione dello sparatore Zimmermann: BLACK LIVES MATTER. Lo slogan è stato ripreso come hashtag ed è stato urlato da folle di manifestanti. Attivismo, teoria critica, creazione di uno spazio politico, anche attraverso i social network, dunque. Questo, a oggi, è lo schema seguito per costruire un movimento.

Cancel culture

Un’analoga strategia di contro-rovesciamento di una pratica militante è avvenuta nel caso della cosiddetta cancel culture. L’abbattimento delle statue raffiguranti personaggi razzisti, prove del colonialismo e l’imperialismo degli Stati Uniti, è stato interpretato come una volontà nichilista di cancellare il passato della “nazione” e imporre in maniera totalitaria una verità di minoranze pericolose e riottose. In realtà si è trattato di atti simbolici, profondamente conflittuali, realizzati sia per contestare la violenza del passato che l’oppressione del presente ai danni di una moltitudine di soggetti amplissima, non limitabile nemmeno ai discendenti degli schiavi. 

L’enorme differenza tra un atto politico è un altro banalmente distruttivo è stata strumentalizzata per fare dire a questi movimenti ciò che non pensano. Questa strategia ha unito, nel medesimo empito di legge e ordine, liberali reazionari e destre estreme oggi al potere, o che aspirano a vincere le prossime elezioni. Il senso comune è diventato un campo di battaglia attraversato dalle scorribande degli editorialisti negli spazi mediatici centralizzati come la televisione, la radio e la stampa scritta. La comunicazione tra il livello mediatico e quello politico-organizzativo ha bisogno di una continua manutenzione e di un costante rilancio, proseguendo la strategia di base: quella di occupare il terreno dell’avversario e cambiare radicalmente il senso delle sue azioni, e dei simboli, al fine di delegittimare e patologizzare la sua stessa esistenza. 

Contraccolpo, contrattacco

Alex Mahoudeau ha analizzato le caratteristiche della “offensiva reazionaria” nel libro La Panique woke. Per l’autrice la denuncia del wokismo è un esempio di “panico morale”, cioè “una serie di aneddoti più o meno esagerati o inventati [che] alimentano la sensazione di una grande minaccia”. Aneddoti decontestualizzati che caricaturano la realtà. Ecco perché le scienze sociali, o le filosofie, che descrivono una realtà diversa sono sempre il primo bersaglio di queste operazioni. Il loro scopo è creare un consenso su una presunta minaccia rappresentata da gruppi di subalterni accusati di essere responsabili di comportamenti “devianti”. 

La “devianza” è l’esito dell’affermazione di una norma, considerata naturale e accettata dalla maggioranza, mentre in realtà è l’espressione della volontà di un’élite che ha interesse a mantenere un “dominio” e a stigmatizzare chi lo insidia come responsabile di un’irrazionalità rispetto all’ordinato decorso del mondo.Strategie come il wokismo servono ad alimentare l’ostilità diffusa verso persone classificate come “nemiche” nel dibattito pubblico. L’operazione è astuta perché usa il linguaggio della democrazia liberale, quello ispirato alla libertà di opinione, per negare una visione diversa della società attribuendole una minaccia all’integrità sociale.

Il panico woke è dunque l’espressione di una reazione a difesa di uno dei rapporti di poteri sui quali è costruita una società maschilista e bianca. Il binomio è tornato con forza all’attenzione dello scontro. Un simile ritorno è stato spiegato da Susan Faludi nei termini di un backlash, cioè di un “contraccolpo” o di un “contrattacco” dopo le conquiste sociali delle lotte femministe degli anni Settanta e Ottanta. Faloudi ha descritto una proteiforme mobilitazione maschilista che ha portato nel dibattito pubblico l’idea che le donne controllino tutto, mettano la museruola anche a una sana opposizione e prosperino a spese degli uomini, della famiglia e del mondo del lavoro.

Una simile torsione, osservabile anche nella retorica acchiappatutto del “politicamente corretto”, non è nuova. Susan Faludi sostiene che si verifica dopo la manifestazione di una nuova soggettività rivoluzionaria che impone, anche in maniera contraddittoria e non lineare, un “progresso sociale” che incrina i rapporti di potere, a cominciare da quelli nelle relazioni. A quel punto scatta un’operazione che potremmo definire di “sussunzione”: gli avanzamenti vengono parassitati e modificati anche nel significato da teorie concorrenti, e apparentemente assonanti, che tendono a espropriare le soggettività associandole a teorie come quella dell’“empowerment” femminile, per esempio. Quest’ultima è una teoria che riduce le nuove libertà e le nuove uguaglianze al mercato. Contemporaneamente si diffonde una paura che contribuisce a destabilizzare le persone escluse dai cambiamenti e a colpevolizzare coloro che li hanno formulati, rimproverandole per la sconfitta o per la crisi dello status quo che è all’origine dell’ingiustizia.

Problematizzare l’universalismo

Il campo non è tuttavia occupato solo da due forze opposte. In mezzo si trova l’universalismo degli Stati costituzionali, che conosce diversi sviluppi nei singoli paesi. Per esempio in Francia, dove l’universalismo “repubblicano” e “laico” è fortissimo, le istituzioni restano in una posizione apparentemente neutrale. Una posizione usata sia per addomesticare lo scontro, sia per “regolarlo” in termini consensuali, di “patto sociale”, o di normalizzazione. 

Questo universalismo si basa sull’idea che il popolo sia “uno e indivisibile”, composto da individui indistinguibili e indistintamente rappresentati. Allo stesso tempo l’universalismo è un principio costituzionale della Repubblica, basato su un individualismo mediato socialmente. La contraddizione entra in fibrillazione quando emergono i conflitti scatenati dal genere, dalla razzializzazione o dalla religione. Da un lato, lo stato costituzionale cerca di garantire una differenza positiva di trattamento; dall’altro lato, conferma l’esistenza di differenze oggettive. 

Quando un governo, come quello francese guidato da Jean Castex nel 2021, ha iniziato a polemizzare contro un grottesco, e inesistente, “islamogauchismo”. Con questa formula arzigogolata si è cercato di attribuire alla sinistra, e al pensiero critico, posizioni simili al fondamentalismo islamico. Così facendo si è cercato di stigmatizzare ogni forma di opposizione, a cominciare da quelle espresse da una generazione fortunata del pensiero politico: per esempio Derrida o Foucault, le cui opere sono state oggetti di interpretazioni distorsive e parodistiche.

Il conflitto sull’universalismo, e nell’universalismo, ha investito anche il campo cosiddetto “decoloniale”. Con questa espressione si intende un ampio lavoro, sia teorico che politico, che in Francia (e non solo, evidentemente), lavora su più fronti al fine di estendere la critica del passato coloniale di questo paese nelle relazioni sociali e di potere in cui sono imbrigliati i soggetti “razzializzati”.

Ci sono state violentissime polemiche, seguite anche da minacce di violenza contro le attiviste impegnate in questa prassi. Hanno riguardato in particolare la tendenza al separatismo, definito anche “non-mescolanza” [non-mixité, ndr.]. Tale pratica conflittuale è uno strumento usato in maniera occasionale dallə attivistə oggettədelle discriminazioni. Offre un sostegno per rielaborare il senso della propria posizione in una società in cui la contraddizione non è ancora stata accettata dalle autorità pubbliche come problema politico. Spesso questo tipo di oppressione viene negata o minimizzata, a cominciare dalle sue vittime. In più, com’è accaduto più volte, l’organizzazione di tali momenti di “non mescolanza” è stata attaccata come una manifestazione di “razzismo anti-bianchi”. Invece, sostengono lə attivistə, è in realtà una tattica per contrastare il “razzismo strutturale”.

La critica dell’universalismo è un argomento molto delicato in un momento in cui l’universalismo è usato, in maniera del tutto destoricizzata, per sostenere le ragioni di una “democrazia occidentale” senza distinzioni contro quelle di tirannie e altri “illiberalismi” in un mondo multipolare e ostile. Su questo spartito si esercitano sia le fabbriche dell’opinione conservatrice e che quelle delle estreme destre che saccheggiano la storia del “liberalismo” in maniera capziosa e strumentale, espellendo da essa proprio gli aspetti legati al colonialismo e all’imperialismo. 

Il punto debole 

Una delle ragioni per cui l’offensiva reazionaria continua ad avere presa sembra essere dovuta al fatto che colpisce uno dei luoghi più problematici dei pensieri critici, a cominciare dal marxismo. L’obiettivo è fornire nuove ragioni per consolidare la separazione tra razza, genere, lavoro, mercato e Stato. Si intendono così dividere i diritti della libertà da quello dell’uguaglianza, la struttura dalla sovrastruttura, la verità dall’ideologia, le lotte sulla produzione da quelle sulla redistribuzione, la materialità dalla cultura, la sessualità dal simbolico, e così via. 

Contro questo dualismo molti pensieri materialistici, femministi o spinozisti si sono battuti. Ma, in tempi di debole connessione tra teoria e prassi, la loro lotta è indebolita. Rinascono invece identificazioni fantasmatiche, ispirate all’ontologia dell’autenticità e dell’identità. Si creano nuove gerarchie. Ad esempio, quella di una classe lavoratrice con bianchi maschi eterosessuali separati, e spesso ostili, a una forza lavoro migrante composta sia da uomini che da donne. Su un dualismo tra minoranza e maggioranza è costruita anche la parodia secondo la quale le richieste di giustizia avanzate dalle minoranze sono una difesa dei loro “privilegi”. 

Queste e altre pratiche fanno parte di una guerriglia ideologica, realizzata nei perimetri dei pensieri critici tra loro in conflitto. Il loro scopo è screditare ed eliminare la possibilità stessa che i subalterni si organizzino in maniera efficace e di massa. Si tratta di avvelenare i pozzi ai quali si abbeverano le soggettività che cercano di creare una nuova condizione politica in comune. Bisogna riuscire però a riconoscere le strategie di resistenza, e di contropotere, usare per interrompere questa aggressione sistematica. Tali strategie incontrano spesso un limite storico, intensamente combattuto, ma perdurante: il dualismo, appunto. Tra i diritti, le identità, le priorità politiche: viene prima l’anticapitalismo oppure la lotta per l’ecologia? Viene prima la libertà o l’uguaglianza? L’oppressione patriarcale o lo sfruttamento del lavoro? La centralità della dinamica razziale oppure quella sessuale?

Su queste opposizioni la controrivoluzione in atto va a nozze e si diverte a dividere i suoi avversari a seconda delle priorità del momento. Questa azione risponde a una priorità: bisogna impedire con ogni mezzo la ricomposizione dei soggetti e la riscoperta di una dialettica tra teoria e prassi che permetta di coniugare nuovamente, in contesti diversi, la critica dell’economia politica con i conflitti di classe, di razza, di sesso e ambientali. Sono numerosi i tentativi sia teorici che pratici di ricombinare questi elementi, individuando nuove forme politiche e organizzative.

Rispetto a questi obiettivi abbiamo riscontrato diversi passaggi a vuoto. Non ha giovato la diffusione del populismo, nelle sue diverse declinazioni. Si tratta di una politica che contrappone i “ricchi” e i “poveri”, ma non pensa la lotta di classe, e istituisce una nuova gerarchia tra diritti sociali e civili. Non ha giovato nemmeno la svolta neoliberale e autoritaria del sistema mediatico che è più pronto a rielaborare le parole d’ordine delle destre estreme (“prima gli italiani” ecc., o migranti = pericolo invasione) che le istanze femministe, anticapitaliste, anti-razziste. Un’evoluzione che è andata di pari passo con la chiusura all’elaborazione più avanzata e diffusa dei pensieri critici nell’accademia come nella scuola. 

Questi mutamenti strutturali e istituzionali sono gli effetti materiali, e sistemici, della controrivoluzione che si è rafforzata in coincidenza con il moltiplicarsi delle crisi dal 2008 a oggi. Gli spauracchi del wokismo, della cancel culture o del “politicamente corretto” non sono mere ideologie, ma effetti discorsivi prodotti da un potere reale.

Rivoluzione passiva

La tesi di una “guerra non dichiarata contro le donne” (Faludi) in nome di un “contrattacco” condotto per riaffermare il “dominio maschile” (Pierre Bourdieu) e la “bianchezza” (Paul Gilroy) è molto interessante nella prospettiva di una genealogia della politica contemporanea. Sono usati cioè i valori del liberalismo politico (la libertà, l’universalità, il diritto all’opinione, la tolleranza, e altri ancora) per affermare il contrario e ristabilire un’egemonia dei dominanti giudicata sotto attacco. Ciò avviene in un momento, per di più, in cui il presunto attacco è più debole rispetto ad altri, come quello degli anni Sessanta e Settanta, oltre che di natura difensiva. 

Ciononostante il conflitto si basa sull’uso delle parole dell’avversario (le donne, i neri, i subalterni, gli sfruttati e gli oppressi), e della loro storia “minoritaria”, per evidenziare come le “maggioranze” artificialmente costruite siano in pericolo. In nome di tale emergenza si evoca l’antica legge del “bisogna difendere la società” per colpire i soggetti e la loro presunta volontà di destabilizzare il sistema.

In Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista ho definito questa strategia nei termini di una “rivoluzione passiva”. Termine che ho rielaborato da Antonio Gramsci, con il quale il filosofo comunista italiano ha inteso descrivere un lungo periodo di “contro-rivoluzione” moderata e classista nel XIX secolo in Italia. Questa politica ha strumentalizzato i contenuti di una rivoluzione politica e sociale – di segno diverso: quella francese prima, quella sovietica poi – riconoscendo ai popoli solo i diritti decisi dalle classi dominanti e negando ogni forma di partecipazione e trasformazione ai movimenti di autodeterminazione. Dal punto di vista della logica politica, l’offensiva reazionaria in corso si esprime allo stesso modo. Prolunga cioè la reazione a un ciclo rivoluzionario che ha modificato i rapporti sociali, di genere o razziali nelle società capitalistiche, attacca i soggetti che si ispirano necessariamente a quella storia e usa contro di essi i principi che, in linea teorica, dovrebbero liberarli. 

Così funziona l’egemonia. Diversamente da come la intendeva Gramsci, una certa corrente della destra al governo l’ha intesa come una “guerra culturale” priva però di lotta di classe. Questa “guerra” intende consolidare un sistema basato su un triplice potere: economico (il potere di possedere la maggior parte della produzione di ricchezza e di stabilire una divisione razziale del lavoro); normativo (il potere di stabilire le regole della società su scala internazionale – in un mondo globalizzato); simbolico (il potere di attribuire un valore e di valutare unilateralmente i corpi e le pratiche dei “non bianchi” per definire la loro umanità). 

Un simile assetto dei poteri è rivoluzionato incessantemente, in maniera antitetica a chi si oppone, al fine di consolidare l’ordine della proprietà, dei confini e del capitale. La rivoluzione passiva oggi è un ribaltamento postmoderno dei principi classici della rivoluzione: la reazione è libertà, l’uguaglianza è sfruttamento, il capitale è natura. In questo regime paradossale, i soggetti restano subalterni. Di solito, questo processo è considerato un blocco unico insuperabile, un grande Leviatano indistruttibile. Quando accade, come oggi, è difficile trovare un’alternativa, mentre risorgono culture dell’apocalisse e della fine del mondo. In queste fasi si perde di vista il carattere reazionario dell’offensiva, cioè la sua mancanza di autonomia. Essa non può fare a meno del “nemico” che si è scelta per giustificare la propria esistenza. Quanto ai suoi avversari, continuano a dividersi, obnubilati da un’intelligente operazione politica che sembra avere saturato ogni spazio di libertà nel presente. Ma questo è l’effetto derivato della loro autonomia che persiste nel mondo rovesciato della rivoluzione passiva.

ARTICOLO n. 20 / 2024

CARCERE. IL SUONO DELLE ANIME

intervista di isabella de Silvestro

Franco Mussida è chitarrista, compositore e membro fondatore della Premiata Forneria Marconi, il gruppo musicale simbolo del rock progressive anni ’70. Nel corso della sua carriera ha collaborato con i più grandi nomi del cantautorato italiano, ha vinto premi, scalato le classifiche oltremanica e oltreoceano. Ma la sua carriera non è solo quella di un virtuoso della musica, è anche quella di un uomo che ne ha fatto una pratica di comunità, un mezzo per creare reti di sostegno e vie di conoscenza.

Mussida si impegna da decenni per l’applicazione della musica in ambito sociale, dalle carceri alle comunità di recupero per tossicodipendenti. Nel 2013 dà vita al progetto Co2, che ha visto la creazione di audioteche in undici carceri italiane con il fine di educare all’ascolto e dare sollievo. L’iniziativa più recente, unica in Europa, è la sonorizzazione di ampi spazi del carcere di San Vittore a Milano, con musica strumentale selezionata dai detenuti nella cornice del laboratorio “Ascolto emotivo consapevole”, condotto da Mussida stesso. Mi accoglie nel suo ufficio all’ultimo piano di Cpm-Music Institute, la scuola di alta formazione musicale che ha fondato e dirige dal 1984. Ha bianchi capelli lunghi e una rara serenità nei gesti e nel tono della voce. Nonostante la porta chiusa, gli esercizi di pianoforte di qualche alunno penetrano le pareti, facendo da sfondo al nostro incontro.

Isabella De Silvestro: Da dove viene il suo interesse per il carcere?

Franco Mussida: Non fu direttamente il carcere a interessarmi. Accadde che molti dei tecnici della Premiata Forneria Marconi iniziassero ad avere problemi di dipendenza dall’eroina. Li vedevo soffrire molto, così insieme a mia moglie decidemmo di provare a dare una mano accogliendoli in casa. È stato questo il primo approccio alla marginalità. Il carcere è arrivato dopo, nell’87, quando il professor Garavaglia, il responsabile del gruppo di psicoterapia del carcere di San Vittore, nel prendere atto che la sua équipe non funzionava più chiese alla Provincia di mandare delle attività artistiche. Il mio socio dell’epoca era in contatto con la Provincia e mi chiese se me la sentivo. Da lì è partita la mia ricerca, trentacinque anni di onorato servizio. Non mi sono mai fermato.

È stato l’interesse per la persona a portarmi fra quelle mura.

I.D.S. Il carcere è un luogo dove ancora si espia una pena corporale: la sensorialità è ridotta, gli stimoli sono scarsi e ripetitivi. Che significato assume, in un contesto del genere, l’introduzione della musica?

F.M. Dopo trentacinque anni di lavoro in carcere sono riuscito, in seguito a innumerevoli sforzi non solitari – queste cose sono sempre il frutto di relazioni – a fare in modo che i corridoi di San Vittore abbiano un impianto dedicato esclusivamente alla sonorizzazione: ho lavorato con i detenuti per creare playlist di sola musica strumentale che risuonano nei corridoi della galera.

È vero che sembrerebbe che la dimensione degli stimoli in carcere sia compressa, in realtà si tratta di una compressione da eccesso di stimoli. La compressione arriva dall’incapacità delle persone detenute di gestire il dolore pregresso, il dolore presente e l’immaginario nero del futuro che hanno davanti. Quindi il tema non è quello di arrivare a dare ulteriori stimoli, perché ne hanno già abbastanza, anche di fortemente negativi. Tutti, anche gli agenti di custodia. Il tema è piuttosto usare la musica come stabilizzatore dell’umore, agendo sulla nostra comune struttura emotiva.

I.D.S. Che cosa significa “agire sulla nostra comune struttura emotiva?”

F. M. Ci sono dei medicamenti naturali, e artificiali, che agiscono sul fisico e che hanno dei risultati anche sulla psiche. Dobbiamo immaginare la musica come una sostanza. Non parlo di musicoterapia perché già il tema mi fa rizzare i peli, dal momento che non c’è una fisiologia musicale conclamata, e non essendoci si fa fatica a immaginare di operare fisicamente con la musica. Io mi tiro indietro e osservo. Che cosa osservo? Che la nostalgia di un giapponese non è diversa da quella di un napoletano, di un milanese, di un cileno o di un nigeriano. È la stessa cosa. Tutto il mondo del sentire è un archetipo. Il mio lavoro sul codice musicale è duplice: da un lato studio gli elementi oggettivi, dall’altro studio come questi elementi oggettivi diventano soggettivi attraverso l’esperienza umana, che è unica e irripetibile ma che è osservabile proprio per il fatto che la nostra struttura emotiva è comune. Le emozioni possono cambiare di intensità, di spessore, di auto-percezione, di coscienza, ma la radice è la stessa. Vedi, è come per gli elementi fisici: io e te abbiamo gli occhi. Magari tu li hai azzurri e io verdi, ma entrambi abbiamo gli occhi. 

E la musica che cosa fa? Agisce attraverso elementi magici, spirituali, dell’anima, che poggiano la loro sostanza sul fatto che noi siamo esseri vibranti e che, in quanto esseri vibranti, se organizziamo le vibrazioni in un certo modo otteniamo dei risultati di natura anche emotiva. A me sembra di aver scoperto l’acqua calda, ma sono 35 anni che ci lavoro, su come scaldare l’acqua.

I.D.S. Come si dialoga in maniera efficace con l’umanità variegata e marginale della galera, uomini che provengono da angoli anche remoti della Terra, della cui esperienza sappiamo pochissimo?

F.M. Ricordo che feci sentire il Tema di Deborah di Ennio Morricone a un centinaio di detenuti, di cui ottanta erano stranieri, al carcere di Venezia. Diedi a queste cento persone diverse faccine in grado di rappresentare diversi stati d’animo e poi chiesi loro di alzare questi fogli catalogando l’emozione che il brano musicale emanava. Tutti hanno scelto la nostalgia: i siciliani, gli albanesi, ma anche i nigeriani, che non l’avevano mai sentita. Le forme ti avvicinano a casa, alla storia, alla cultura. Ma il portato musicale va al di là della forma, della storia e della cultura. Certo, bisogna tenere conto delle forme: in carcere facciamo un lavoro sulla musica dei paesi di provenienza dei detenuti, sulla storia della musica classica, sentiamo il jazz, ascoltiamo Chet Baker, arriviamo al pop. Ci confrontiamo con tutto. Oggi la depressione imperversa. Schiere di uomini e di donne che elaborano un pensiero che ne pensa un altro che ne pensa un altro che ne pensa un altro e ti uccide. E questo accade quando si esce dallo spazio del sentire come strumento di conoscenza.

I.D.S. Il suo essere uomo e il suo essere musicista coincidono? 

F.M. L’abito fa il monaco, sì. Non è facile. Il mondo del sentire è come le nuvole, cambia di continuo, ma nello stesso tempo ci vuole un orientamento: la musica è il mio orientamento, mi indica la direzione. Può essere pesante a volte, vengo assalito da attacchi di solitudine. Ma sono malinconico: nella solitudine ci sto benissimo. 

I.D.S. Qual è l’ambiente sonoro del carcere? Che suoni si sentono?

F.M. Ci sono due tipi di suoni: quelli della gestione della giornata, i suoni della popolazione del carcere che arrivano dagli oggetti, dall’aprirsi e chiudersi dei portoni di ferro, dalle chiavi, dai chiavistelli. Sono i suoni dati dalla manifestazione degli esseri senzienti che lì vivono o lavorano e che manifestano la loro presenza. 

Poi c’è un altro tipo di suono che si fa più fatica a sentire, ed è quello delle anime che sono lì. Quel suono è così potente che anche un operatore di passaggio deve maneggiarlo con cura. Ci si abitua, il callo arriva abbastanza in fretta, però, una volta che lo hai sentito, non lo devi dimenticare. È una sensazione molto profonda, traumatica per certi versi. È per questo secondo suono che continuo a recarmi in carcere dopo trentacinque anni. 

I.D.S. Il carcere rieduca o punisce? È cambiato in questi trentacinque anni che ha avuto la possibilità di osservare?

F.M. L’unica grande differenza è il ruolo della società civile. Io sono arrivato proprio all’inizio di un cambiamento, dopo la legge Gozzini, che ha consentito alle associazioni di entrare in carcere e portare arte e cultura. Per il resto l’etica in carcere rimane una questione personale. Si possono trovare degli agenti di custodia pessimi, brutali, senza capacità di sentire l’altro, e trovare invece dei piccoli angeli come li ho incontrati io, soprattutto all’inizio del mio lavoro. Non posso dimenticare non solo Luigi Pagano [il direttore a cui si deve il modello a celle aperte della casa di reclusione di Bollate, ndr], l’allora direttore del carcere di San Vittore, ma anche Luigi Cadoni, un agente di custodia che andava nelle celle a tirar fuori questi ragazzi per portarli a fare musica. 

Si tratta purtroppo di visioni eccezionali, non della norma. Il peggio sono le carceri minorili perché sono abitate dai ragazzi ma vigono più o meno le stesse regole delle carceri per adulti, cosa tremenda. Va modificato il pensiero, la maniera di percepire l’uomo nella sua essenza. 

I.D.S. Le interessano di più i vizi o le virtù?

F.M. Che bella domanda… I vizi per promuovere le virtù. Quando entro in carcere non voglio mai sapere la storia delle persone. Per me sono persone pulite, tutte. Poi hanno una voglia tremenda di raccontare le loro storie. Però voglio immaginarli così. Perché il lavoro del musicista non è quello di stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato. Il suo ruolo è quello di portare elementi di luce, di coscienza, di equilibrio, a persone che ne hanno bisogno. Il lavoro in carcere è da un certo punto di vista un processo educativo anche per chi lo fa. Bisogna provare a stare con le persone immaginando di essere un prete laico. Non siamo operatori culturali, non è un lavoro di cultura, è un lavoro sulla profondità dell’essere. 

Dico prete laico in questo senso: l’arte è una via di conoscenza, quello di cui stiamo dimenticando il senso è l’arte come via di conoscenza, non di espressività. Ora è diventato tutto espressività, bravura, dimostrazione. Ma non dovrebbe essere quello il punto. Chi è un artista? E una persona intelligente? Una persona sensibile? Che connotati ha? Queste sono le domande che oggi il mercato di qualsiasi genere ha coperto. Si fatica ad arrivare sotto la domanda, perché sopra è coperto tutto dal mercato. La musica è una via di conoscenza e gli artisti dovrebbero percorrerla. 

ARTICOLO n. 19 / 2024

WALTER CHIARI, HAI PRESENTE?

I cento anni di Walter Chiari

Stava là, nel residence. Niguarda. Residence Hotel Siloe. Milano, al limite della periferia nord, la strada, via Cesari, anonima, senza un negozio, il rumore da consumo quotidiano. Silenzio. Un appartamento minimo, due stanze, gli arredi un po’ così, non scelti, adottati in una noncuranza da solitudine. Lui, tuta blu scuro, i capelli spettinati, le mani grandi come pale di un mulino a vento mentre raccontava qualcosa di una vita sincopata. Parole come note da jazz. Caldo nonostante il posto, il divano blu pure quello, un tavolino senza arte o parte. “Ma, scusi, che ci fa qui? No, dico, questa è la sua città, non c’è una casa, un luogo diverso da questo?”. Sorrise con una virgola di amarezza nelle labbra, disse ma no, l’ho data a mio nipote. Disse: le cose appartengono a chi le desidera di più. Una frase celebre, un gioiello cesellato da Dashiell Hammett poco prima di volare via. Era primavera, stava per andarsene pure lui, morto pochi mesi dopo, 20 dicembre 1991, stessa stanza, stesso residence. Aveva 67 anni, aveva quella faccia là, bellissima, da ragazzo che non sa invecchiare, aveva addosso una malinconia da giorni perduti, adrenalina consumata, amori travolgenti, qualche oscuro rimpianto.

Walter Chiari, hai presente? Mica tanto, ma no, per niente. La traccia si è fatta debole, è invisibile per chi non ha l’età. Un peccato, perché Walter Chiari ha regalato un viaggio indimenticabile a ciascuno di noi, fatto di improvvisazioni strepitose, aneddoti esilaranti, sketch indimenticabili, film non sempre memorabili, spettacoli trionfali, flirt da paparazzi e pettegolezzi, uno scandalo alla cocaina che gli costò 98 giorni a Regina Coeli e una ferita a cielo aperto mai rimarginata del tutto. Popolare, amatissimo, quel modo di fare un po’ guascone, morbido, una simpatia da naturalezza, per far innamorare gli italiani al fianco di Mina e Paolo Panelli in una edizione perfetta di Canzonissima, anno 1968; al fianco di Carlo Campanini – la sua spalla ideale – in viaggio sul treno con il sarchiapone. Era di casa, in ogni casa, affabile, come un fratello, un fidanzato, un amico prediletto. Compreso al punto da farsi perdonare ogni trasgressione, ogni svarione, quasi tutto; bonariamente invidiato per quel fare là da conquista a prima vista, l’ironia come tocco magico, adatto, niente a che vedere con la spocchia del playboy, niente camicie sbottonate, catene dorate, roba da Saint Tropez, da gesti e luoghi comuni così distanti dalla sua originalità. Alle donne, a corteggiarle, sembrava non pensasse più di tanto e proprio per questo diventava irresistibile. Relazioni al galoppo e fidanzamenti, uno soprattutto, chiacchieratissimo, con Ava Gardner, data come diva irraggiungibile, alla quale raccontava delle abilità strategiche di Napoleone: “Avevo anche dei soldatini per spiegare i movimenti geniali delle truppe”. Ava? Figuriamoci. Eppure in quella storia d’amore senza futuro, Chiari si era trasformato in un rappresentante dell’orgoglio italico maschile e maschilista. Una specie di eroe delegato, di certo molto invidiato.

Donne. Del resto, un vero esperto. Rivista, teatri, dopoguerra all’alba. Una festa del sogno, del desiderio. Il palcoscenico come pista di atterraggio e di decollo. Prima scrittura nel 1946, Se ti bacia Lola il titolo dello spettacolo. Non il primo debutto visto che Walter Annichiarico, nato a Verona nel giorno dedicato alle donne – 8 marzo 1924 – origini pugliesi, padre brigadiere, madre maestra elementare, trasferito a Milano nel’33, era stato magazziniere, pugile pesi piuma, discreto tennista, fenomenale nel gioco delle bocce, nuotatore agonistico, radiotecnico, bancario licenziato in tronco causa imitazione di Hitler in piedi su una scrivania, giornalista, vignettista, milite della X MAS, conduttore radiofonico, arruolato nella Wehrmacht, ferito, prigioniero degli americani a Coltano insieme a Dario Fo, Raimondo Vianello, Enrico Maria Salerno, Enrico Ameri. Una precoce odissea. A chiamarlo in teatro fu Marisa Maresca, leggendaria primadonna del varietà, una compagna di lavoro fondamentale, al pari di Delia Scala, molti anni dopo. 

Walter, in pista, sul palco, capace di divertire improvvisando, generando continui straniamenti, noto per i ritardi cronici, le dimenticanze: “Avevo una prima a Trieste, me ne ero completamente scordato. All’ora dell’apertura sipario stavo a Livorno. Per altri versi rimediavo. Una sera Delia era malata, un febbrone. Il teatro stracolmo. Dissi agli spettatori: mi spiace, vi rimborsano il biglietto. Oppure, se proprio volete, potrei recitare la parte sua e la parte mia, una cosa un po’ scombinata. Restarono. Ridevano. Ridevano da matti”.

Passava da una argomento all’altro con una rapidità fulminea, una cultura vasta, sorprendente. Parentesi tonde, quadre, graffe riuscendo a riprendere ogni filo, magari evitando di soffermarsi sul matrimonio con Alida Chelli, su Simone, suo figlio, preso forse dal peso di qualche mancanza, di una vaga inadeguatezza. Raccontava piuttosto degli anni che gli fornirono una patente, lo slancio per diventare Walter Chiari. Il tempo dell’euforia, di un incontro collettivo con la bellezza femminile: ”Un uomo che usciva la sera, magari per vedere anche il teatro, soprattutto, voleva guardare la donna. In un film vedevi solamente la star mentre lì, in teatro, anche l’uomo comune, questo impiegato che stingeva gli occhi invano al cinematografo, che una bella donna mai, non l’avrebbe nemmeno sfiorata, poteva fantasticare anche sull’ultima ballerina di fila, vicinissima, viva, con il suo sorriso. Le prime ballerine si sposavano con gli industriali. Appena entravano in scena erano prenotate. Si fidanzavano, si sposavano e sparivano. Era una specie di riserva di caccia privilegiata alla quale avevano accesso i signori. O magari gli impresari. Uno di loro aveva sposato la donna più statuaria del mondo. Si chiamava Irene. Era talmente bella, talmente perfetta, gli occhi, il naso… sembrava appartenesse a una tetralogia wagneriana rivisitata da una specie di Arcadia latina. Vestita da uomo, con cilindro e bastone. E il ballerino era vestito da donna. Improvvisamente mentre lui si appoggiava, lei gli girava intorno, gli piegava la testa indietro e lo alzava con due mani. Vedevi queste braccia truccate, bianche, esangui, da cui venivano fuori muscoli che sembravano incisi a penna su una litografia. C’era anche chi, della donna in quanto donna, non fregava niente, osservavano il particolare, il disegno del corpo, la grafica. Magari erano quelli che oggi chiamano stilisti. Per noi lo stilista era uno che faceva i cento metri a nuoto. Stile libero. Dopo lo spettacolo arrivava qualcosa per tutte. Da un’autista con la fuoriserie a un mazzetto di fiori. Quelle donne lasciavano qualcosa anche nel teatro vuoto. Un profumo, un’emozione”.

Lo sport, altra passione: “Qualcuno dice: non mi occupo di sport. Non sa che per sua fortuna pratica lo sport da sempre, da quando si è innamorato la prima volta nella vita. Lei, di Venezia, lui di Modena. Si conoscono magari al mare, poi via, per direzioni separate. Amano e scoprono il verso dell’amore, la separazione. Ma ormai sono in campo, senza sapere bene con chi hanno a che fare, una dolcezza, un cinismo dell’altro. Non sai. È che l’arbitro ha già fischiato, la partita è già iniziata. È un debutto in gara, è sport. Quando tocca tirar fuori il tuo meglio, nell’amore, nell’amicizia, sul lavoro, fai sport. Scopri, misuri, riveli, patisci e godi. Sport”.

Un fuoriclasse, un pezzo unico. Non appena ci incontrammo, in quel residence a Niguarda, disse: “Guardi, tra mezz’ora devo andar via”. Cinque ore dopo, con un dispiacere fondo, dissi: “Guardi, devo andar via”. Era sera ormai e sono qui da anni a domandarmi quale impegno, quale urgenza mi portò via. Avrei voluto, avrei dovuto rimanere. A cena, dopocena, a tirar tardi, chissenefrega. Porca malora, Walter, aspetti, faccio in un attimo, torno lì.

ARTICOLO n. 18 / 2024

FREEDA, COME FREEDOM

Il femminismo non è un brand

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo saggio di Jennifer Guerra Il femminismo non è un brand (Einaudi). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Nel gennaio del 2017 avevo 21 anni. Scrivevo sul blog di «Soft Revolution Zine» da tre e avevo appena concluso un breve stage in una rivista di moda di Milano. Avevo già un lavoretto, ma ero sempre in cerca di opportunità per scrivere su altri blog o riviste, magari ricavandoci anche qualche soldo. In una bella giornata di gennaio, su Facebook mi imbattei in un annuncio: «Stiamo cercando autrici che si interessino di femminismo per un nuovo progetto editoriale». Sono sicura che c’erano molti più inglesismi nel testo, ma il senso era quello. Non ci potevo credere: una rivista che tratta di femminismo in Italia, oltre a «Soft Revolution Zine», e che pagherebbe pure? Mandai subito la mia candidatura. Mi rispose una persona molto gentile per chiedermi di inviare il mio portfolio, ma poi la cosa si fermò lì.

La «rivista» si chiamava Freeda. 

Oggi sono 2 milioni le persone che seguono la pagina Facebook e 1,7 milioni i follower su Instagram. Freeda ha anche due divisioni estere, una versione spagnola e una inglese, per un totale di 7 milioni di persone raggiunte. Secondo la pagina LinkedIn, l’editrice Freeda Media oggi conta 200 dipendenti in tutto il mondo e ha raccolto investimenti pari a 13 milioni di euro per i suoi progetti futuri. «Freeda – come freedom, al femminile – è un progetto editoriale che celebra la libertà e i tanti modi di essere di una nuova generazione di donne», recita la sezione delle informazioni su Facebook. A settembre del 2021, l’azienda ha lanciato un nuovo progetto, Freeda Platform, «una piattaforma che mira a innovare il mercato della consulenza di marketing e dell’analisi dei dati provenienti dai social, fornendo alle aziende un servizio a 360° finalizzato allo studio delle community e dei comportamenti online dei più giovani», come ha spiegato il cofondatore Andrea Scotti Calderini in un’intervista.

Da un paio d’anni è in corso un fenomeno curioso negli ambienti antifemministi e della maschiosfera italiana, «i siti e i gruppi di discussione di internet che si occupano dell’interesse e dei diritti degli uomini in opposizione a quelli delle donne, spesso collegati all’ostilità verso il femminismo o al disprezzo delle donne». In rete sono spuntate pagine, interventi, video e articoli che criticano Freeda perché lo identificano con il movimento femminista e, cosa ancor più strana, con una sua variante «estremista». Su Instagram esistono diversi profili dedicati alla contestazione di Freeda e Marco Crepaldi, divulgatore italiano che si occupa di «discriminazione maschile», le ha dedicato ben tre video sul proprio canale YouTube: Tutta l’ipocrisia di FreedaFreeda: il business del femminismo I pericoli del femminismo moderno. Nel corso di questi video, pur riconoscendo la natura profittevole che sta dietro al progetto Freeda, Crepaldi sovrappone più volte gli intenti della pagina al movimento femminista nel suo insieme, specialmente nell’ultimo video. 

Ma Freeda è oggetto di critiche anche da sinistra o dall’interno del movimento femminista. Il primo tentativo di smascherare i reali intenti di Freeda fu un articolo di «Dinamo Press», da tempo cancellato dal sito ma ancora reperibile in rete, intitolato Ecco cosa c’è dietro Freeda, pubblicato meno di due mesi dopo l’avvio del progetto editoriale. L’articolo parlava della nascita di Freeda e dei suoi legami con la famiglia Berlusconi e all’epoca aveva scatenato grande indignazione e stupore. L’azienda proprietaria del marchio Freeda, Ag Digital Media, è stata infatti fondata da Gianluigi Casole, che ha lavorato per il family office di Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi H14, e da Andrea Scotti Calderini, ex di Publitalia 80, concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset. Tra i suoi investitori, insieme a diverse figure legate alla galassia Mediaset, c’è anche Ginevra Elkann, nipote di Gianni Agnelli. Se nel 2017 quello di «Dinamo Press» sembrava un vero e proprio scoop, dal momento che agli esordi Freeda poteva benissimo essere scambiato per un progetto nato dal basso, oggi si tratta di informazioni note a tutti e che di certo non vengono tenute nascoste. Insomma, sul fatto che dietro Freeda si celino interessi diversi dalla lotta transfemminista o dalla rivoluzione proletaria nessuno nutre alcun dubbio. Eppure, moltissime persone degli ambienti femministi si sentono ancora in dovere di prendere pubblicamente le distanze da Freeda, non solo per la sua vicinanza alla famiglia Berlusconi, ma anche e forse soprattutto per l’idea di femminismo che la pagina propone: la Libreria delle donne di Milano, spazio storico del femminismo della differenza italiano, ha scritto un post sul proprio sito per ribadire che quello di Freeda è «sedicente femminismo rassicurante e mai controverso». Sono inoltre innumerevoli gli articoli che tentano di differenziare il «vero» femminismo da quello del marchio, con argomentazioni più o meno condivisibili: Freeda non è una pagina femminista («Medium»), Freeda: un femminismo confuso («La colonna infame»), Il doppio volto di Freeda («The Password», rivista degli studenti dell’Università di Torino), Freeda è solo un altro strumento del capitalismo? («Excentrico»), per citare i più recenti. 

Tale confusione sulla natura di Freeda ha generato qualche episodio che mi ha personalmente coinvolta e mi ha fatto riflettere sul ruolo che questo progetto sta avendo nel mondo femminista italiano. Durante una presentazione del mio primo libro, Il corpo elettrico, due ragazze molto giovani mi hanno chiesto cosa dovessero rispondere a chi sosteneva che Freeda fosse «femminismo radicale». Un’altra volta mi è stato chiesto, sempre da adolescenti, se fosse giusto o sbagliato seguire quella pagina. Se dovessi dire qual è una delle domande che mi vengono rivolte più spesso durante le interviste o gli incontri di fronte a un pubblico giovane, sarebbe proprio un commento su Freeda e sull’autenticità dei suoi contenuti.La mia impressione è che queste lettrici cercassero una conferma sul fatto che Freeda, come mi è stato detto più volte, «è il male». Mi sono interrogata a lungo sull’impatto che Freeda ha avuto sulla vita di chi si avvicina in adolescenza al movimento delle donne. Perché le giovani femministe sentono il bisogno di prendere una posizione così netta nei suoi confronti? Perché le più anziane intervengono per condannarla apertamente? Perché Freeda è diventata lo Zeitgeist del discorso femminista contemporaneo nel nostro Paese? 

Freeda non ha, ovviamente, nulla di estremista, sovversivo o pericoloso: è una pagina dai contenuti inoffensivi, con una grafica curata da una palette viola e fucsia, che alterna post e storie motivazionali – che hanno spesso per protagoniste le minoranze sessuali, etniche o le persone con disabilità – a inserzioni pubblicitarie. Il suo target sono le adolescenti o le giovani adulte e il progetto mira a promuovere cose del tutto innocue come la «realizzazione femminile, lo stile personale e la collaborazione tra donne». Basterebbe ribadire che si tratta di un’azienda per dimostrare che Freeda non ha molto a che vedere con il movimento femminista in quanto tale. Eppure, il motivo per cui si dibatte tanto su Freeda, arrivando a sovrapporla con quello che fanno le militanti e attiviste femministe, non è affatto banale né marginale.

La domanda da porsi infatti è questa: pagine come Freeda rappresentano una variante del femminismo o sono una variante del capitalismo che si appropria del linguaggio, della retorica e dell’estetica femminista?

La recente riemersione del soggetto politico femminista in un paradigma economico che non si fa scrupoli a capitalizzare i temi sociali in nome del profitto ci pone di fronte a delle sfide nuove. Il primo nodo da sciogliere è se le aziende e i brand si meritino il «patentino» del femminismo e il secondo, la cui risposta pare meno scontata, è come tale nuova postura della brand identity influenzi la pratica femminista. Per tentare di dare una risposta a queste domande, è necessario capire come si è arrivati a questo punto. 

© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

ARTICOLO n. 17 / 2024

LA DISTANZA PIÙ BREVE

Quando si è laureato non pensava di dover sparare. 

Si era iscritto ad Agraria come se non avesse alternative, futuro laureato per soddisfare i suoi desideri e le aspettative dei genitori. Aveva scelto la facoltà legata all’attività della famiglia paterna: la terra. Il presente universitario omaggiava la tradizione, il passato, ma soltanto per distanziarsi e ipotizzare il futuro, il futuro come manager nella Grande Distribuzione Organizzata. 

Prima di arrivare a sparare, aveva studiato alternando i libri ai laboratori; aveva studiato, annoiandosi, la storia dell’agricoltura, che gli era parsa troppo astratta rispetto alla smania di vivere, alla dipendenza dal quotidiano. Certo, occorreva conoscere la storia dell’agricoltura, il pensiero degli agronomi nel corso dei secoli per comprendere il lungo processo grazie al quale miliardi di esseri umani si erano affrancati dalla fame, ma il problema della fame, così come quello della guerra, non si era risolto in tutto il mondo, e allora lui preferiva concentrarsi sul benessere smemorato, su ciò che aveva trasformato la storia dei popoli in vicende individuali. 

Il suo ruolo sarebbe stato quello: soddisfare la fame del singolo cliente.

Aveva studiato le teorie per analizzare la conformazione degli animali, allo scopo di quotare le funzioni economiche delle esistenze, poiché ogni animale offriva, in potenza, qualcosa, e spettava all’essere umano trasformare la potenza animale in prodotto: carne, grasso, latte, uova. Aveva studiato la chimica organica, la metodologia per ispezionare e stimare i rischi degli alimenti di origine animale, le tecniche di trasformazione e conservazione. Ma soprattutto aveva studiato come valutare il cosiddetto benessere animale, le procedure relative all’allevamento e alla macellazione, o meglio, al ciclo di macellazione di bovini, suini, polli, pesci.

Ecco, ciclo di macellazione. Sia da studente che da manager della Grande Distribuzione Organizzata aveva utilizzato locuzioni tipiche – qualità nutrizionale, regime alimentare – perché così imponeva, e impone, ogni linguaggio tecnico ripetuto in modo meccanico. 

Ogni linguaggio tecnico utilizza parole condivise con linguaggi tecnici di altri settori; da alcuni decenni, per esempio, sembra sia impossibile sottrarsi al sostantivo filiera: filiera del libro, filiera della carne. 

Nella seconda metà degli anni Novanta, subito dopo la laurea, era stato assunto presso la sede centrale di un’azienda di supermercati. Il suo ruolo era adeguato alla laurea in agraria e all’indirizzo scelto durante gli studi: era diventato il buyer junior della carne. 

Il suo capo cinquantacinquenne – il buyer senior – aveva iniziato come compratore della carne quando la parola buyer non era di uso comune. Il buyer senior lavorava per quella azienda di supermercati da trent’anni, aveva comprato carne in ogni angolo del pianeta senza parlare inglese. Durante la sua carriera era stato affiancato da numerosi buyer junior i quali – dopo pochi anni, a volte dopo pochi mesi e perfino dopo poche settimane – avevano cambiato lavoro, passando alla concorrenza o a un altro settore. 

Eppure quando il buyer senior aveva visto il nuovo buyer junior, aveva pensato che quel trentenne potesse essere la scelta giusta; il buyer junior conosceva davvero la carne; il buyer junior, durante i mesi estivi della giovinezza, aveva coltivato la terra nell’azienda agricola dello zio e, fin da bambino, aveva assistito all’uccisione degli animali sull’aia della cascina. Ma quello era il passato.

Il buyer senior aveva notato la voglia di crescere, il desiderio, in prospettiva, di diventare buyer senior al suo posto. E allora il buyer senior aveva organizzato, in accordo con il presidente dell’azienda, un addestramento specifico, che necessitava di dieci giorni – due settimane lavorative – all’interno di un macello. 

Il buyer junior aveva guidato l’auto aziendale, una Fiat Punto bianca utilizzata in precedenza da un altro collaboratore. Aveva percorso la tangenziale e un tratto di autostrada fino al macello, pensando di analizzare capi di bestiame, di verificare la macellazione, la filiera della carne, appunto. 

Appena arrivato, era stato accolto dal responsabile della macellazione che gli aveva mostrato un foglio, il disegno raffigurante la testa di un bovino. Il responsabile della macellazione aveva indicato con un pennarello l’obiettivo al centro del cranio; poi gli aveva mostrato una pistola e i proiettili captivi, punte acuminate d’acciaio. 

Il responsabile della macellazione aveva condotto il buyer junior alla finestrella che si affacciava su un breve tunnel, il punto in cui attendere l’animale; si trovava un po’ più in alto rispetto al passaggio del bovino, come se il buyer junior si affacciasse al davanzale di una finestrella al piano terra, e quella leggera posizione rialzata servisse ad avvicinarsi meglio alla testa. Il bovino era entrato nel breve tunnel, aveva compiuto pochi passi, al buyer junior la testa era sembrata grande. Il responsabile della macellazione aveva sparato, colpendo il punto mostrato poco prima sul disegno. 

Il bovino era stramazzato incosciente a terra, nella condizione tra lo stordimento e la morte, morte che sarebbe avvenuta pochi secondi dopo, nella giostra di macellazione. 

Adesso toccava al buyer junior. Il bovino successivo era entrato nel tunnel, al buyer junior la testa non era sembrata grande, semmai più simile al disegno del foglio che alla realtà sopraggiungente, sì, lo spazio in cui colpire era davvero minimo, come se la testa del bovino si fosse ristretta, diventando la testa di un ovino, un agnellino di tre chili. 

Aveva sparato, il bovino era stramazzato a terra, incosciente, pronto alla macellazione.

Se ci fosse stato il tempo per porsi domande, il buyer junior avrebbe risposto che lui non uccideva l’animale, lo stordiva, lo inviava alla macellazione in uno stato di incoscienza per evitare sofferenze, e farlo morire meglio. Ma poco dopo il primo bovino, ne era uscito un altro, e poi un altro, e un altro ancora.

Alla fine del primo giorno, il buyer junior, salendo sull’auto aziendale, aveva sentito un indolenzimento al braccio destro, tenuto per quasi tutto il giorno in posizione di sparo. Così aveva guidato la Fiat Punto bianca in autostrada e poi in tangenziale usando la sola mano sinistra. Ma quei giorni, e il dolore al braccio destro, erano passati. 

Non tutti i buyer junior erano riusciti a sparare in fronte ai bovini. Lui sì, e questo lo aveva fortificato. Sparare nella fronte di un essere vivente, di centinaia e centinaia di esseri viventi, significava aderire davvero al processo di apprendistato e a qualcosa di più grande della carriera aziendale. Tra l’altro, un apprendistato di quel tipo non era necessario a un buyer junior, ma lui non si era sottratto, e l’azienda aveva così testato le doti di resistenza fisica e mentale. La promozione da buyer junior a buyer senior poteva essere valutata anche attraverso gli spari all’inizio della carriera. 

Dopo quei giorni, il buyer junior aveva comprato la carne che lui stesso aveva anestetizzato prima della macellazione, la carne che il consumatore italiano avrebbe trovato in vendita al supermercato. 

Il buyer junior sarebbe diventato buyer senior e avrebbe avuto una carriera manageriale ancora più significativa se, una decina d’anni dopo, non si fosse ammalato di cancro. 

E tuttavia, poiché aveva aderito fino in fondo al proprio ruolo, a quarant’anni, da malato terminale, era andato in Scozia per partecipare a una fiera del bestiame, conscio che sarebbe stata l’ultima fiera della sua vita, durante la quale aveva premiato un allevatore scozzese per la miglior carcassa

Era morto poche settimane dopo. 

Il buyer junior era un mio caro amico ai tempi del liceo e della giovinezza. Ventidue anni fa, sei anni prima che morisse, avevo scritto un monologo su un buyer della carne. 

Di recente ho ripensato a ciò che mi aveva raccontato a proposito della macellazione ebraica e della macellazione islamica. 

Gli addetti alla macellazione kosher erano tre, rabbino compreso. Ciascuno aveva un compito preciso. Uno leggeva ad alta voce ciò che sembrava una preghiera. Uno effettuava la visita dell’animale. Uno sgozzava. L’animale era infilato in una gabbia rotonda, quasi al buio. Il meccanismo della macchina spingeva l’animale verso una finestrella aperta, così l’animale sporgeva la testa, e allora la macchina manovrata dall’uomo si stringeva intorno al collo, ribaltava la bestia e la sgozzava, uccidendola per dissanguamento. La macellazione halal era molto simile. Avveniva durante la recita del Corano. L’animale era imprigionato in una gabbia ricoperta da un telone nero. La gabbia doveva essere rivolta verso La Mecca; anche se la macellazione avveniva nei pressi di Lodi, ciò che contava era La Mecca, la direzione verso cui l’animale, adagiato su un fianco e sgozzato da specifici coltelli, rivolgeva lo sguardo prima di morire dissanguato.

In entrambi i casi, il personale che tagliava e disossava la bestia era sempre ebreo o musulmano. La macellazione kosher e la macellazione halal avvenivano soltanto una volta la settimana, poiché bisognava allestire la parte del macello che, di solito, era pronta secondo i metodi di uccisione stabiliti dall’Unione Europea.

Oltre alle storie che raccontava il mio amico a proposito della macellazione kosher e della macellazione halal, mi è tornato in mente un piccolo, prezioso libro che avevo letto quando era uscito in Italia, nel 2011: Esecuzioni a distanza, di William Langewiesche (Adelphi). Il libro era composto da due brevi testi: il primo narrava di Crane, tiratore scelto statunitense che aveva combattuto in Afghanistan e in Iraq, eccellendo, diciamo così, per la precisione della mira grazie alla quale aveva ucciso afgani e iracheni; il secondo testo raccontava la vita dei militari che pilotavano i Predator, piccoli aerei pilotati dalla base di Alamogordo, New Mexico; i Predator restavano in volo fino a ventiquattro ore, viaggiando alla velocità di circa cento chilometri orari; erano sensibilissimi alle intemperie, tanto che una semplice pioggia poteva causare loro danni; i Predator erano utili nella raccolta dati e aiutavano le truppe di terra ma, all’occorrenza, potevano sparare e uccidere in Afghanistan o in Iraq, a tredicimila chilometri di distanza dal punto in cui erano pilotati.

Il tiratore scelto Crane, a differenza di molti soldati semplici, non sparava all’impazzata. Se fosse stato un pessimo tiratore, si sarebbe comportato come il soldato britannico che sparava a casaccio e recriminava di aver “ucciso più asini che talebani”: disappunto mitigato in parte dal fatto che, a giudizio del soldato britannico, si trattava comunque di “asini talebani”. Crane era invece un tiratore serio, professionale, e questo fatto implicava un altro tipo di inquietudine. «A quanto sembra Crane ha colpito sempre e solo bersagli giusti. Ciò significa che in varie occasioni ha rinunciato a sparare». Langewiesche evitava qualsiasi sbavatura epica guerresca e ci costringeva a un calcolo balistico, una cifra che tuttavia racchiudeva anche la responsabilità del gesto. Crane, per esempio, si era trovato a 806 metri di distanza da un altro uomo, un afgano nascosto dietro una roccia e inquadrato nel mirino del tiratore scelto statunitense. Non sappiamo nemmeno dire se 806 metri siano tanti o pochi: 806 metri sono due giri di una pista d’atletica, più quei sei metri in cui di solito, al termine della gara, si crolla a terra ansimando per lo sforzo. L’essere umano più veloce impiega circa un minuto e quarantuno secondi per compiere 806 metri; un proiettile impiega pochi istanti. Ammettiamo che in quella circostanza Crane abbia deciso di sparare, come possiamo definire la morte dell’uomo? Si può considerare un’uccisione remota oppure è la giusta distanza per sentire ancora la responsabilità del corpo di un altro uomo, l’idea che quell’uomo stesse rifiatando dietro una roccia, poco prima di essere colpito?

Mentre Crane prendeva la mira sotto il sole, in mezzo alla polvere, altri militari, a tredicimila chilometri di distanza, nella cittadina di Alamogordo, in un anonimo edifico di mattoni rossi, erano seduti su “una poltroncina di vinile marrone” e pilotavano aerei che volavano a oltre quattromila metri d’altezza, nel cielo afgano. «Oggi ci hanno dato l’Afghanistan, ma possiamo avere mappe di qualsiasi parte del mondo».

Già da buyer junior il mio amico aveva molta libertà di azione. Poteva comprare carne in ogni zona del pianeta, ma per ovvi motivi logistici privilegiava l’Italia e alcune nazioni europee, come la Francia e l’Irlanda. E poi, quando possibile, preferiva visitare i macelli, gli animali che sarebbero diventati le bistecche del consumatore. E tuttavia, con il passare degli anni, il suo lavoro era diventato più simile a quello dei militari di Alamogordo e quindi molto simile alla maggior parte dei gesti che compiamo ogni giorno. 

Cosa ci infastidisce di più? Chi uccide a distanza, con un Predator o un drone? Chi bombarda e uccide con un caccia F35? Oppure ci fa più orrore chi entra nelle case armato di fucili mitragliatori, guarda negli occhi le vittime e ascolta le urla prima di sparare? Oppure ci fanno orrore tutte queste situazioni, consci che nulla possa essere come i videogame dell’infanzia ininterrotta, perché ci pongono nella condizione di spettatori e complici? 

«L’addestramento non lo aveva preparato a niente del genere. Era come se gli avessero insegnato a uccidere in astratto», scriveva Langewiesche.  

Il buyer senior aveva mostrato al buyer junior il processo attraverso il quale si giungeva alla fettina di carne nel supermercato. Ma le uccisioni non sempre avvenivano secondo le procedure, in apparenza così ineccepibili come quelle stabilite dall’Unione Europea. 

Un essere umano si stancava di affacciarsi alla finestrella nel tunnel del macello, stravolto dal dover sparare con quella frequenza, stravolto dal dover mirare la piccola parte della testa di un altro essere vivente; e quindi accadeva che il proiettile captivo non centrasse il punto esatto per stordire l’animale, e l’animale giungeva alla macellazione ancora cosciente.

Raid. Operation Enduring Freedom. Farm to Fork. 

Mettiamo una ulteriore pellicola tra il linguaggio che depista, i gesti e le loro conseguenze. Quando i nostri corpi ci parlano, troviamo giustificazioni, utilizziamo sotterfugi, come guidare l’anonima Fiat Punto bianca con la mano sinistra in autostrada, dopo centinaia di colpi sparati in fronte ai bovini, il braccio destro indolenzito.

«Tra i movimenti del controllo e la risposta del Predator c’è un intervallo di due secondi, il tempo necessario a trasmettere il segnale attraverso le fibre ottiche in Europa, e da lì, via satellite, all’aereo in volo sull’Afghanistan». Il tempo necessario affinché il pilota, dall’altra parte del pianeta, possa correggere le oscillazioni.

Vorrei credere che due secondi di lieve discrepanza satellitare tra l’istante di Alamogordo e l’istante dell’aereo nel cielo afgano – come la breve riflessione di Crane a 806 metri di distanza, la sensibilità dei Predator alle gocce d’acqua o il dolore al braccio destro del mio amico ventisette anni fa – siano una forma residuale di resistenza anomala, forse nemmeno troppo consapevole, ma grazie alla quale possiamo ancora definirci, insomma, qualcosa.

ARTICOLO n. 16 / 2024

IL FILO DELLA VITA DI ROSA E DI BASAGLIA

Cento anni di Franco Basaglia

Pubblichiamo un estratto da Cento giorni che non torno (Laterza) di Valentina Furlanetto. Ringraziamo l’editore e l’autrice per la disponibilità.

Cent’anni dopo la nascita di Basaglia, seduta alla scrivania, cerco di dipanare il groviglio di fili di queste vite parallele. Si intrecciano storie di guerra, povertà, sofferenza, storie di una crescita economica che pure ha lasciato indietro moltissimi individui fino a schiacciarli: e penso alla malattia mentale. 

Il filo della vita di Rosa e il filo della vita di Basaglia, ma anche di Lorenzo, che a più di quarant’anni dalla legge 180 è morto legato a un letto, e di tutti noi, che almeno una volta nella nostra vita abbiamo avuto una crisi d’ansia o un periodo difficile, almeno una volta ci siamo chiesti se siamo sani o se siamo malati e se davvero abbia un senso questa distinzione. Ci siamo domandati se le persone che ci circondano stanno bene e cosa dovremmo fare per aiutarle, se la malattia mentale è una cosa lontana e pericolosa o vicina e innocua, se ci appartiene, come funziona, come si cura, se le possiamo dare la colpa di tutto ogni volta che succede qualcosa di apparentemente inspiegabile, se possiamo chiuderla nel recinto e finalmente liberarcene, noi che il più delle volte ci pensiamo sani, razionali, che ci illudiamo che non ci riguardi. E invece.

Da bambina passavo molto tempo da sola. Avevo un fratello molto più piccolo con cui non potevo sperare di giocare dalla mia nonna paterna, Maria, non c’era nessun altro bambino. Trascorrevo pomeriggi assolati e infiniti con la nonna ad aspettare che i miei genitori tornassero a casa. Il tempo non passava mai, credo per entrambe. Lei ogni tanto sollevava la testa dal suo lavoro a maglia e mi sorrideva, spesso mi chiedeva se avevo fame, era sempre preoccupata che avessi mangiato abbastanza: anche se avevamo appena pranzato, anche se stavamo ancora mangiando chiedeva continuamente “hai fame?”. Io fame non ne avevo mai e questo le dava ancora più ansia, raddoppiava le sue raccomandazioni. In quei lunghi pomeriggi leggevo, disegnavo, facevo i balletti davanti al vetro del forno, guardavo assieme a lei la telenovela Andrea Celeste in tv, così straziante, così gonfia di retoricae così carica di sventure da far sembrare le nostre esistenze fortunate. Poi scappavo fuori e gironzolavo per il giardino.

Oppure accadeva che stessi sola con i miei pensieri nel cortile d’asfalto della scuola elementare. Ero così piccola rispetto alle altre bambine che non andavo bene per la maggior parte dei giochi, e allora per puro spirito di sopravvivenza, prima ancora di essere scartata, mi sottraevo e facevo immensi giri a vuoto nel cortile.

In tutte queste occasioni di solito i pensieri si ripetevano, si muovevano in cerchio, e ricordo che a un certo punto ho iniziato a sentire delle voci. Erano voci che sussurravano le stesse parole ossessivamente, a volte intere frasi, a volte parole singole. Mi ronzavano nell’orecchio, monotone e insistenti, come una cantilena. Poi si spegnevano e magari tornavano il giorno dopo o a distanza di qualche settimana. Anche sforzandomi, non ricordo cosa dicessero. Ma ricordo che erano voci benigne, che riconoscevo, che talvolta mi facevano compagnia, che sembravano un mantra, una nenia, qualcosa che mi cullava, che faceva da sfondo, che compiva un movimento sempre uguale che tornava sempre al punto di partenza. Anche se non erano minacciose, a un certo punto queste voci hanno iniziato a turbarmi, a essere invadenti e costanti, e soprattutto io ho iniziato a pensare che forse ero matta e che fosse qualcosa di cui preoccuparmi. Non avevo nessuna voglia di parlarne a mia madre, ero certa che lei, sempre così ansiosa, si sarebbe allarmata.

Ma se stavo diventando pazza? Alla fine gliene parlai. Mi chiese solo se queste voci mi inquietavano, se dicevano cose che mi spaventavano, se mi davano ordini, se erano aggressive. Le dissi di no, lei mi rassicurò, mi disse che a tanti bambini accade, che facevo bene a parlargliene, ma che non dovevo preoccuparmi. Ho continuato a sentire queste voci per qualche tempo, mi hanno fatto compagnia senza più allarmarmi, fino a che sono sparite e non sono più tornate.

Anche Lorenzo aveva sentito le voci da bambino? Erano voci buone o voci cattive? Si era spaventato? Anche lui era stato rassicurato che non si trattava di niente di grave oppure gli avevano detto che era “matto”, che era malato? E se anche era “matto”, perché lo avevano legato? Sì, in passato si faceva così, ma non erano pratiche ormai superate? La risposta alla follia, alla diversità, all’imponderabile è sempre stata chiudere, dividere, legare. Ma non avevamo fatto tanti passi avanti? E dove siamo esattamente oggi?

La questione del legare o meno i pazienti, come quella del rinchiuderli negli istituti o lasciarli liberi, ha radici antiche e, si sperava, superate. John Conolly, ad esempio, già tra il 1839 e il 1849 aveva messo in piedi un movimento per eliminare le misure di contenzione e le porte chiuse nel manicomio di Hanwell in Scozia. Per la sua epoca era un rivoluzionario.

Nella sua opera Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi (1856) Conolly scrive: »non solo è possibile dirigere un grosso manicomio senza applicare ai pazienti la coercizione fisica, ma dopo l’abolizione totale di tale metodo di controllo, le caratteristiche di un manicomio subiscono un graduale e benefico cambiamento».

Per lo psichiatra inglese, che Franco Basaglia citerà poi nei suoi scritti, «la sicurezza e il buon comportamento dei pazienti dipendono completamente dalla cura e vigilanza ininterrotta degli infermieri; e al sistema repressivo va sostituito ­­­un metodo di cura sostenuto dalla serena collaborazione di ogni singolo dipendente, così che tutti siano gentili, protettivi e, per così dire, familiari. Per l’attuazione di questo piano è quindi indispensabile che tutto il personale sia concorde».

Insomma, il coinvolgimento di infermieri e medici e il lavoro di équipe che poi Basaglia metterà in atto trovano in Conolly un antesignano importante.

Il medico inglese descrive anche i risultati positivi della sua esperienza: »Ci portano dei giovani impazziti da alcune settimane che, per lo spavento o l’ignoranza dei parenti, sono stati messi dentro dalla polizia, esposti a maltrattamenti e ingiurie, sono state loro imposte le manette e alla fine inviati in manicomio al colmo della esasperazione per tutto ciò che avevano subìto. Un esempio notevole di tale stato di cose fu una giovane diciottenne, la cui guarigione ebbe inizio il giorno del ricovero: pur essendo in preda a crisi maniacali e con tendenze suicide al momento dell’accettazione, lasciò l’istituto perfettamente guarita. Dopo due giorni che la fanciulla era nel reparto, sparirono i gesti incomposti e l’aspetto pazzoide; si fece notare per l’aspetto mite e la gentilezza, ma conservò un lucido ricordo di come era stata trattata prima di essere mandata da noi». Il medico inglese era il pioniere del cosiddetto “no restraint”, il sistema di trattamento dei malati mentali che esclude i mezzi di coercizione meccanica o li consente solo in casi estremi (se il paziente ha una tendenza a ferirsi o a ferire gli altri). Ma allora perché Lorenzo era stato legato?

Negli anni Quaranta Franco Basaglia, adolescente, giocava spesso a Campo San Polo a Venezia, ancora oggi un luogo dove i ragazzini si incontrano, giocano a palla, si scambiano chiacchiere, dispetti, scherzi. A pochi metri c’è la laguna, ma all’interno del campo quasi non se ne avverte la presenza: se non fosse per l’odore salmastro che sale quando fa caldo, ­­­si potrebbe essere ovunque. 

Franco Basaglia passava molte ore con i compagni di classe e gli amici a giocare sotto casa a Venezia, talvolta nei fine settimana con la famiglia si spostava sulla terraferma, con il padre visitava i mercatini di antiquariato, una sua passione. Erano gli anni del fascismo, ma in famiglia si parlava poco di politica, anche se da parte di madre ci sarà una medaglia d’oro, Giovanni Faccin, ufficiale di carriera che l’8 settembre preferì suicidarsi piuttosto che consegnarsi ai tedeschi.

Così, mentre l’Italia fascista si lanciava nella guerra con scriteriato entusiasmo, Franco Basaglia ragazzo giocava a Campo San Polo e camminava per le calli di Venezia con i libri sottobraccio per andare a lezione, e a una settantina di chilometri di distanza, in piena campagna veneta, Rosa, figlia di un falegname, cadeva a terra, investita da un’auto.

Fu un brutto incidente. Il conducente scappò. Non si scoprì mai il colpevole, probabilmente un gerarca fascista, chi altri poteva disporre di un’automobile in campagna a quei tempi? La cartella clinica riporta che «fu investita da una macchina con trauma cranico e frattura dell’osso frontale, di cui rimane evidente infossamento a sinistra». Rosa entrò in coma e venne trasportata in ospedale. 

Nessuno pensava che ce l’avrebbe fatta, tanto che non la operarono neppure alla gamba, dove aveva riportato una frattura, convinti com’erano che sarebbe comunque morta, né pensarono di operarla alla tempia, che presentava una ferita importante, perché allora non esistevano né la strumentazione né le competenze scientifiche per intervenire.

Per mesi Rosa rimase incosciente in ospedale. Le sorelle, i genitori, il fratello erano rassegnati al peggio, invece dopo qualche mese Rosa si risvegliò. Sopravvisse, ma da quel momento iniziarono i problemi. La commozione cerebrale da trauma le lasciò in eredità frequenti mal di testa, convulsioni e crisi epilettiche durante le quali perdeva conoscenza, il suo corpo si muoveva a scatti, senza alcun controllo; quando usciva dalle crisi, Rosa avvertiva un senso di confusione ed estraneità che per qualche tempo non la rendeva partecipe della vita quotidiana. Per queste crisi, per questi disturbi, venne più volte ricoverata in manicomio. Da qui ha inizio la sua storia di malata psichiatrica.

ARTICOLO n. 15 / 2024

MADRI MOSTRO

Il mito della mostruosità femminile - i

A causa di alcuni problema di salute, la Presidente del consiglio Giorgia Meloni ha rimandato la consueta conferenza stampa di fine anno ai primi giorni di gennaio. Si tratta di un appuntamento importante in cui l’esecutivo è chiamato a confrontarsi con la stampa in merito alle attività svolte durante l’anno appena concluso. Com’era prevedibile, molto tempo è stato dedicato a rispondere alle domande sulla natalità e sulle misure utili a favorirla. Il cosiddetto “inverno demografico”, espressione utilizzata per descrivere lo stato di preoccupante denatalità che caratterizza i paesi europei e in particolare l’Italia, è infatti un tema molto avvertito dall’attuale Governo, che non a caso vi ha dedicato ampio spazio sia nella manovra di bilancio che nelle iniziative pubbliche, come per esempio nell’ultima edizione di Atreju, la festa organizzata dalla Sezione Giovanile di Fratelli d’Italia. Gli esponenti politici non perdono occasione per ricordare alle donne la necessità di adempiere alla propria funzione biologica. Lo ha fatto, tra le altre, la senatrice Lavinia Mennuni in un programma televisivo proprio sul finire dell’anno, quando ha ricordato alle istituzioni di agire per avvicinare le diciottenni alla maternità, rendendola di nuovo cool.

In un puntuale articolo su Valigia Blu, la scrittrice Giulia Blasi ha ricordato che la maternità (e non la “genitorialità” o la “paternità”, i tre termini infatti non sono propriamente sinonimi perché inseriti all’interno di una cornice narrativa che attribuisce loro, socialmente, valori differenti) non è mai stata cool, perché l’aggettivo si riferisce a una moda, e far figli non dovrebbe esserlo. Se fosse una moda, aggiungo, essa colpirebbe un po’ tutti gli strati della popolazione come accade quando un accessorio diventa incredibilmente richiesto e tutti cercano di accaparrarselo nella versione luxurycheap o fake a seconda delle possibilità.

Il mito della maternità, di cui abbiamo già parlato in uno dei nostri precedenti appuntamenti, invece, è uno strano mostro multiforme che si manifesta in modo differente a seconda della soggettività in cui si incarna. Come ricorda la giornalista Ilaria Maria Dondi in Libere, «la questione per una donna non è tanto o solo avere o non avere figli, ma averli o non averli in un modo preciso». Le campagne volte a contrastare la denatalità sembrano riguardare tutte, ma in realtà si rivolgono a un target specifico: le destinatarie dell’invito a procreare devono essere giovani, bianche, abili, possibilmente economicamente autosufficienti e inserite in relazioni monogame ed eterosessuali. Tutto ciò che fuoriesce da questo identikit è escluso dal discorso, non importa se anche queste soggettività siano in possesso degli organi necessari alla riproduzione e del desiderio – di cui troppo spesso ci dimentichiamo – che dovrebbe sostenerla. 

Rebekah Taussig è una scrittrice e docente, oltre che una persona con disabilità. Nel suo volume Felicemente sedutautilizza la propria esperienza personale per mostrare come certi temi, tanto cari al femminismo, colpiscano il corpo di una persona disabile in modo del tutto diverso. Mentre le sue sorelle crescevano e diventavano madri confrontandosi sui rimedi contro le nausee mattutine e i vestiti premaman, nessuna le chiedeva se avrebbe voluto figli. Lei per prima, afferma, non sarebbe riuscita a immaginarsi in quel ruolo a causa di una totale assenza di modelli. Nel 2020 la scrittrice e il suo compagno sono diventati genitori. Nei post su Instagram in cui si mostra con il pancione e, successivamente, con suo figlio tra le braccia ha sottolineato spesso come la sua maternità sia stata considerata un’anomalia, qualcosa di inconsueto che sembrava autorizzare chiunque a porre indebite domande sul futuro: come lo avrebbe gestito? Come avrebbe fatto a rincorrerlo, sostenerlo, proteggerlo dai pericoli, seduta su una sedia a rotelle? 

La curiosità morbosa nei confronti della maternità di una donna con disabilità può trasformarsi in vero e proprio disprezzo quando lo spauracchio di una possibile gravidanza coinvolge i corpi delle persone nere e disabili. Negli Stati Uniti, la sterilizzazione coatta ha colpito diffusamente le donne immigrate: se agli inizi del Novecento questa pratica avveniva nelle istituzioni totali, come per esempio nelle carceri, intorno agli anni Settanta è stata condotta apertamente con l’inganno, facendo credere alle persone coinvolte di sottoporsi a sperimentazioni o terapie per presunte malattie che le affliggevano. Celebre è la storia di Katie Relf, una donna analfabeta e povera, proveniente da un sobborgo dell’Alabama, che, convinta di approvare un semplice intervento per l’inserimento della spirale intrauterina, ha in realtà autorizzato i medici a compiere un’isterectomia sulle sue figlie minorenni e disabili.

C’è un altro caso, tuttavia, in cui la maternità è un’eventualità da rimuovere, impedire e nascondere: quella che riguarda le persone trans. Se guardiamo oltreoceano troviamo alcune storie di uomini trans (cioè persone AFAB, assegnate femmine alla nascita, che hanno compiuto una transizione verso il genere maschile) che hanno scelto di portare avanti una gravidanza. Il primo è stato Thomas Beatie, che nel 2008, in seguito alla scoperta della sterilità della sua compagna, ha deciso di interrompere le terapie ormonali e ricorrere alla procreazione assistita per dare alla coppia un figlio. Le persone che ricorrono a questa pratica si definiscono seahorse dad, cioè “papà cavalluccio marino” perché in questa specie sono gli individui maschi a covare le uova fino alla schiusa. Il fatto che ci sia un termine per descrivere questa condizione fa pensare che non sia poi così rara; è indubbio però che le istituzioni cerchino di contenerla e stigmatizzarla.

Se guardiamo all’Europa, sono sette i paesi in cui le persone trans possono accedere alla rettifica anagrafica solo previa intervento di sterilizzazione. Giulia Senofonte, endocrinologa esperta di terapie gender affirming, ricorda che in Italia, fino al 2015, per poter procedere al cambio del nome sui documenti anagrafici era necessario sottoporsi a un intervento di rimozione delle gonadi. Questa pratica persiste per legge in altri paesi europei (dalla Finlandia alla Romania). Il recente caso di Marco (nome di fantasia), uomo trans che ha scoperto di essere in stato di gravidanza mentre si preparava a un intervento di isterectomia, rivela quanto questa condizione sia impensata, imprevista e stigmatizzata. Essa risulta inattesa sia da un punto di vista medico, dato che non si conoscono le conseguenze della terapia ormonale sul feto, sia da un punto di vista legale – Marco infatti ha già provveduto a fare la rettifica anagrafica e pertanto non potrebbe ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, né è chiaro in che veste potrà riconoscere suo figlio, se in qualità di padre o madre. 

Nel saggio Il mostruoso femminile, J. E. Sady Doyle ci ricorda che definire le donne a partire dalla gravidanza o viceversa è ingannevole: ci sono donne che non partoriranno mai, ci sono persone appartenenti al genere maschile che possiedono un utero e per questo potrebbero, ce ne sono altre che, pur rientrando in quello femminile, sono impossibilitate per cause biologiche o pregressi interventi sanitari. A ben guardare «non si tratta di quale sia la realtà, ma di come insegnano a immaginarla». Dare la vita è un gesto potente e mostruoso perché potenzialmente potrebbe violare le norme sociali su cui il patriarcato si regge, per questo, sostiene Doyle, «la creatura che esiste al di là dei ruoli e dei confini che riteniamo accettabili deve essere uccisa, altrimenti il sistema collasserà».

In quanto sistema di potere, il patriarcato è una struttura complessa e articolata, apparentemente immutabile. In realtà, non lo è affatto. La sua organizzazione scricchiola e viene messa a rischio dalle storie di tutte quelle soggettività che fuoriescono dai canoni e si appropriano di funzioni vietate. «Finché il mito della famiglia, il mito della maternità e l’istinto materno non verranno soppressi, le donne saranno oppresse», scriveva De Beauvoir a Betty Friedan. La libertà delle donne, oggi, va di pari passo a quella di tutte le altre categorie marginalizzate e, per questo, mostruose.

ARTICOLO n. 14 / 2024

CONTRO L’IDEALE DELL’INTELLETTUALE

tre strategie

Pubblichiamo la prefazione al volume di Zygmunt Bauman e Bruno Bongiovanni Intellettuali (Treccani). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

I vocabolari sono le forme più ingannevoli di rappresentazione della vita di un linguaggio. Nelle loro pagine le parole si affiancano l’una all’altra con pacifica indifferenza reciproca, senza gerarchie, senza ambizioni, come se nessuna badasse al proprio uso. Come se ciascuna fosse da sempre e per sempre legata a un significato in un matrimonio semantico che non può conoscere crisi e tantomeno divorzio. Sarebbe difficile immaginare qualcosa di più illusorio. 

Le parole in realtà sono, da sempre, il luogo di una duplice battaglia: quella relativa al loro significato (che proprio per questo non smette di mutare) e quella per il loro uso. I suoni che scivolano nelle nostre bocche o gli strani intrecci di linee su fondo bianco che popolano libri e quaderni sono stendardi e vessilli di una guerra continua che riguarda chi ha il diritto di parlare, in quali condizioni, quanto spesso, e in relazione a quale e quanta porzione di realtà sia possibile trasformare attraverso la presa di parola. Ogni discorso trasforma il reale: è per questo che vi è un continuo scontro. E in una guerra in corso le parole non si equivalgono: non hanno alcuna assicurazione a vita sulla validità e la legittimità del loro significato così come del loro uso e sono sempre sporche, piene di macchie di crimini passati di cui abbiamo dimenticato moventi e assassini.

Il termine intellettuale è, da secoli, il terreno di una delle guerre più sanguinose che culture ed epoche diverse si sono fatte e che continuano a farsi. Sarebbe ingenuo pensare che questa battaglia sia nata con la genesi del morfema “intellettuale”: il conflitto esisteva molto prima di Zola, Dreyfus e Clemenceau, prima degli usi che nel mondo intellettuale inglese si fecero di questa parola, ed esisterà anche in futuro. 

Il testo di Bauman sembra alludervi: il termine “intellettuale” è lo strumento verbale attraverso cui un gruppo ristretto di individui si è arrogato il titolo che conferiva loro una superiorità, assieme cognitiva e morale, rispetto al resto dell’umanità e proprio per questo una maggiore vicinanza al reale e al Bene.

D’altra parte, è questa prossimità alle fonti della realtà e della morale che conferiva a questo gruppo di persone un esonero dalle forme contemporanee di schiavitù – il lavoro – e la possibilità di avere un rapporto privilegiato con le forme del potere. Si farebbe male a pensare che questo tipo di configurazione sia propria solo alla modernità europea. Perché così facendo si riduce la posta in gioco espressa da questo termine a una semplice questione culturale, sociale o demografica. 

La posta in gioco è invece di natura antropologica: ogni volta che si pensa a cosa è una o un intellettuale si partecipa a un conflitto millenario e ubiquo sulla stessa natura della vita umana. Si tratta infatti innanzitutto di separare una dimensione, una funzione, una facoltà o potenza della nostra vita e di riconoscerle una sorta di superiorità gerarchica sulle altre. Poco importa che lo si chiami intelletto, ragione o spirito: l’idea di intellettuale presuppone che vi siano porzioni della vita umana (la sensibilità o il metabolismo chimico-biologico, per esempio) che partecipano meno della sua stessa natura o che riescono a esprimere in misura minore la nostra umanità. È proprio sulla base di questa frattura interna a ciascuno degli esseri umani che diventa possibile separare alcuni individui dagli altri: l’intellettuale è diverso da tutti gli altri esseri umani, perché è chi riesce a eliminare quanto della sua vita non partecipa di questa facoltà, e riesce a conferire a quest’ultima una forma di primato egemonico.

La natura di questa divisione è cambiata nel tempo e nello spazio: c’è chi la considera ontologica e separa due classi di umanità, chi la considera sociale o culturale, chi ne fa invece una forma di frattura politica. Resta che parlare di intellettuali significa aver frazionato l’umano al suo interno, creando un’articolazione gerarchica delle vite. Poco importa ricordare che questo frazionamento mirava a una riunificazione postuma dell’umano o a una forma di riconciliazione. L’ideale dell’intellettuale nasceva dalla divisione e produceva divisione. Non solo: c’era qualcosa di perverso in questa chirurgia interna alla natura umana. Perché l’intelletto, lo spirito, la ragione finivano per separare l’umano anche dal mondo invece di riportarlo verso di esso. È per questo che i suoi più acuti critici (da Davide di Dinant a Nietzsche) vi hanno visto il trionfo di un ideale ascetico e di rinuncia. 

È evidente oggi quanto una simile strategia sia ingenua, antiquata, insensata. L’ideale dell’intellettuale ha prodotto solo separazione: separazione all’interno dei popoli, separazione tra i popoli, separazione tra l’umanità e il resto del cosmo. Ha separato le forme dell’esperienza, ha opposto le culture, ha fatto della cultura qualcosa che non smette di allontanarsi dalla natura. Non si tratta certo di opporre a questo ideale un elogio romantico e altrettanto ingenuo dell’unità dell’esperienza e della riconciliazione universale. Ma si possono opporre a questo ideale tre evidenze, che coincidono anche con tre strategie, per far vivere il pensiero ovunque. 

La prima è di ordine psicologico. All’ideale dell’intellettuale che separava e gerarchizzava le forme dell’esperienza all’interno di ogni essere umano è necessario replicare con il principio che qualsiasi attività umana, qualsiasi forma dell’esperienza, qualsiasi espressione della nostra vita sia di natura spirituale, sia l’articolazione cioè di idee e di una mente che riarticola il mondo godendo di questa stessa attività. Poco importa che si tratti di mangiare, correre, scrivere, sognare, costruire oggetti o creare melodie. Il pensiero è ovunque. E si tratta di edificare una cultura che riconosca l’onnipresenza del pensiero. Da un certo punto di vista si tratta di ripetere il gesto che ha portato alla genesi dell’idea di arte in Occidente. […]

La seconda evidenza è di ordine politico. Viviamo in un mondo che è stato costruito a partire dalla possibilità per cose e persone di migrare senza interruzioni. E proprio perché tutto si mescola attraverso la migrazione, attribuire oggetti, artefatti e persone a un luogo specifico del pianeta è impossibile: la sola unica e comune provenienza è l’orizzonte planetario, che è il solo e unico “suolo” che accomuna tutto ciò che vive e tutto ciò che esiste. Anche per le conoscenze, i simboli, le idee è così. Quello che chiamiamo mondo digitale è uno spazio in cui le idee e i simboli non cercano luoghi in cui accumularsi – archivi o biblioteche – ma circuiti attraverso cui diffondersi. Si può dire che i social media sono gli spazi in cui le esperienze esistono nella misura in cui possono circolare: la verità è funzione del tramandamento. Un’idea – proprio come una moneta – è tanto più vera quanto più circola. In questo quadro, a circolare deve essere anche e soprattutto la soggettività: è l’io che deve viaggiare di corpo in corpo, di esperienza in esperienza, di mondo in mondo. Da un punto di vista tecnico, la capacità di un io di migrare è quello che il pensiero antico nominava come demone. […]

La terza evidenza è di ordine cosmologico. La scienza ha dimostrato da tempo che l’intelletto o la ragione non sono una parte della nostra esperienza o del nostro corpo, ma coincidono con il reale, anche e soprattutto non umano. Il pensiero, la ragione, lo spirito sono ovunque. Non solo in ogni forma di vita – perché tutti i viventi pensano, riflettono e agiscono sulla base del pensiero – ma anche nella materia non vivente. L’universo è un insieme infinito e in moltiplicazione perpetua di menti. Se l’intelletto è ovunque (e non solo in una porzione minima della vita di una frazione infima degli esseri viventi, gli uomini) essere intellettuali, aderire all’intellettualità significa cercare di trovare il modo di pensare dentro, attraverso e con le altri menti. 

Da questo punto di vista, il legame tra le menti non può più essere puramente cognitivo o intellettuale, ma erotico. Bisogna innamorarsi della mente altrui per poter pensare dentro e attraverso di essa. L’intellettuale del futuro è per questo una figura dell’amore, schiavo di un Eros capace di rivolgersi a qualsiasi mente.

E in fondo, scrivere un libro o un articolo, comporre una sinfonia, produrre un film, indagare, passare ore dietro la lente di un microscopio o davanti a un computer, osservare il comportamento degli elementi della materia non sono semplici espressioni della nostra razionalità. Sono attività che comportano soprattutto un enorme dispendio di desiderio e di amore. Ci vuole desiderio, tantissimo desiderio, per rimanere incollati a una pagina per ore e ore, per cesellare la più piccola virgola; ci vuole una devozione d’amore inaudita per seguire la vita di una mosca o di un batterio in una brutta e fredda stanza di laboratorio; ci vuole una passione bruciante, quasi disumana, per dedicare giorni a trovare il ritmo giusto per collegare due suoni o immagini in una sequenza che abbiamo già visto e sentito migliaia di volte. Ci vuole desiderio, e immenso ardore, per dedicare trenta, quaranta, cinquant’anni a qualcosa di così fragile e immateriale come una forma, un’idea, un linguaggio, un animale, un materiale. 

Gli intellettuali sono soprattutto degli amanti: padroni di un desiderio che ha imparato a rivolgersi e a farsi carico non solo degli esseri umani, ma anche di quasi tutti gli oggetti e gli eventi che popolano il nostro mondo. Come nel caso dell’amore per gli esseri umani, anche in questo caso l’oggetto può essere non plausibile, assurdo o fuori luogo: una particella che nessuno è riuscito a osservare per decenni, come il bosone di Higgs, pigmenti su una tela, un evento di cui non c’è traccia, una violenza passata, una lingua incomprensibile, un manufatto senza valore. Come tutti gli e le amanti, sono anche pronti a perdonare qualsiasi cosa all’oggetto del loro amore: la noia, la malizia, il minimo capriccio. Come tutti gli e le amanti, sono anche disposti a fare qualsiasi cosa per poter perseguire il loro amore: pronti a rovinare la loro vita e quella degli altri, ad abbandonare tutto, a trascurare tutto ciò che non ha nulla a che fare con l’amato. Più che i sacerdoti della ragione in una fantomatica città ideale, sono l’esercito violento di Eros. 

Dovremmo iniziare a chiamarli così: parlare di amateurs e amanti, là dove siamo abituati a parlare di intellettuali e intellighenzia.

Non si tratta di una precisazione secondaria. Perché chiamare amanti chi chiamavamo intellettuali significa cambiare le aspettative nei loro confronti. Non chiediamo un metodo a chi ama: l’amore non ha istruzioni, è un’ostinazione che inventa ogni volta un nuovo espediente per restare vicino all’oggetto amato. Dalle persone che amano non ci aspettiamo coerenza e nemmeno esemplarità: le persone che amano non predicano la giustizia, né cercano di mostrarsi moralmente superiori agli altri. Il dono che non smettono mai di fare alla società è semplicemente il fuoco della loro passione per il mondo. Questo mondo.

[© 2023 Emanuele Coccia. Pubblicato in accordo con Rosaria Carpinelli Consulenze Editoriali, Milano]

ARTICOLO n. 13 / 2024

LA STANZA DELLO STUPRO

Raccontare una storia non è semplice: ci sono regole da seguire, percorsi da attraversare e far attraversare, linguaggi precisi e, come ogni narrazione che si rispetti, questa dovrebbe concorrere ad arricchire chi ne fruisce, fornendo chiavi di lettura inedite e che possano veicolare dei messaggi.

Quando si scrive un racconto, per prima cosa si deve tenere presente del destinatario dello stesso: a chi ci rivolgiamo quando decidiamo di condividere il nostro lavoro?

Successivamente, per comprendere il modo migliore per diffondere la nostra narrazione, dovremo trovare un punto di partenza e uno di arrivo: questo significa dare struttura, ovvero iniziare a incastonare gli eventi in una forma che possa portare da un punto A a un punto B, in modo logico e accessibile al nostro target. 

La struttura della narrazione, detta anche architettura, può aiutare infatti chi ascolta o legge a sentirsi partecipe della vicenda e a vivere al meglio le emozioni che accompagnano la crescita connessa alla fruizione del nostro racconto.

Contrariamente a quello che si pensa, quasi tutto ciò che ci circonda e che vediamo si sviluppa in racconti: libri, film, teatro, rappresentazioni, performance, letture, eventi, incontri, articoli di giornale e anche mostre d’arte.

Nella sua primaria e immediata accezione, una mostra d’arte è un’esposizione di opere di uno o più artisti –  in questo caso si chiama “collettiva” – e viene organizzata da enti privati, organizzazioni, fondazioni o enti statali per avvicinare il pubblico alla visione delle opere.

Ma le mostre d’arte non sono una mera esposizione di quadri o statue o installazioni all’interno di uno spazio: anch’esse infatti hanno bisogno di una struttura, una cornice in cui organizzazione e curatori e curatrici possano, tramite le opere, raccontare una storia, collocandola nel tempo e mettendola in dialogo con il presente, con il luogo in cui viene esposta e con il pubblico.

È un vero e proprio lavoro creativo, in cui lavoratori e lavoratrici dell’arte rendono interdisciplinare la materia e l’opera stessa, cercando collegamenti con la storia, la filosofia, la cultura del paese di provenienza di artiste e artisti, la loro vita personale.

Quando però queste regole non vengono rispettate, si va incontro a un cortocircuito in cui ci rimette per primo il pubblico che vorrebbe fruire di una mostra.

In questo senso, un caso emblematico è avvenuto nella costruzione del percorso espositivo e narrativo della mostra “Artemisia Gentileschi: coraggio e passione”, inaugurata in 16 novembre scorso e ancora presente a Palazzo Ducale a Genova.

La mostra, promossa e organizzata da Arthemisia (azienda di produzione, installazione e allestimento di mostre d’arte), Palazzo Ducale fondazione per la cultura, Comune di Genova e Regione Liguria, si prende il difficile compito di trattare la storia di Artemisia Gentileschi e della sua incredibile produzione artistica. Dal sito, si comprende che la mostra si snodi «Tra vicende familiari appassionanti, soluzioni artistiche rivoluzionarie, immagini drammatiche e trionfi femminili».

«La mostra a cura di Costantino D’Orazio», prosegue il sito, «offre un ritratto fedele della complessa personalità di una delle più celebri artiste di tutti i tempi, attraverso oltre 50 dipinti provenienti da tutta Europa».

Dalle parole della cartella stampa sembra dunque che questo percorso espositivo e narrativo vada a elogiare l’opera della pittrice seicentesca, inserendola in un quadro ampio e – cito –  rivoluzionario, in grado di appassionare il pubblico e avvicinarlo alla figura di Gentileschi, di cui la mostra si prefigge di dare un ritratto fedele. 

Attirate non solo dal suggerimento di una docente di corso e dallo studio dell’arte, ma forse anche da queste premesse promozionali, alcune studentesse di Storia dell’arte e valorizzazione del patrimonio artistico dell’Università di Genova sono andate dunque a vedere la mostra a pochissimi giorni dalla sua inaugurazione, e dire che siano rimaste di stucco è forse riduttivo.

Le studentesse si sono infatti trovate davanti un percorso museale e narrativo completamente distorto rispetto alle premesse descritte dal sito.

La mostra è tutta sviluppata intorno alla figura di Gentileschi in relazione agli uomini della sua vita: il padre Orazio, Caravaggio e perfino Agostino Tassi, collega del padre e carnefice della pittrice stessa, della quale abusò nel 1611 e andò per questo a processo nel 1612. 

Le opere in alcune sale dialogano con quelle dei colleghi uomini – per sottolineare che l’artista fosse brava quanto i suoi colleghi maschi – e, in una sala, sono addirittura messe in contrapposizione con quelle del Tassi. 

Ma non finisce qui: la narrazione di Gentileschi che viene fatta durante il percorso è tutta in funzione dello stupro subito e inflitto da Tassi.

Ogni sala permette infatti al pubblico di focalizzarsi solo su quell’evento della vita della pittrice: sono presenti video, filmati, perfino una mappa della Roma del 1600 con i punti di interesse riguardanti l’assalto commesso dal Tassi a Gentileschi. Come in un climax, tra citazioni e documenti originali del tribunale di Roma del processo per stupro del 1612, il pubblico arriva poi in quella che viene rinominata “la sala dello stupro”.

In una stanza buia, videoproiezioni delle opere della pittrice ricoperte però di sangue vengono trasmesse su pannelli verticali. Una voce femminile con tono sommesso legge la testimonianza in tribunale di Gentileschi mentre, al centro della sala, vi è posizionato un letto su cui vengono proiettate le parole che descrivono la violenza sessuale subita dall’artista e, di nuovo, altro sangue. 

Una vera e propria rappresentazione dell’atto, talmente tanto violenta che alcune persone si sono sentite male e hanno dovuto abbandonare la mostra. 

Le studentesse si sono poi trovate davanti altre sale, in cui Gentileschi veniva unicamente descritta come una fenice che risorge dalle proprie ceneri, impedendole perfino da morta e a distanza di più di 400 anni di potersi separare dal proprio trauma. 

Tassi, che dai pannelli di testo che integrano la visita viene descritto come talentuosissimo «ma inquieto», è una presenza costante durante tutto il percorso e non solo: all’interno del bookshop a fine itinerario espositivo si possono trovare in vendita delle magliette con le sue citazioni durante il processo che lo vedeva prima imputato e poi condannato. 

Insomma, un vero e proprio tour dell’orrore.

Le studentesse hanno quindi contattato Noemi Tarantini, che non solo è content creator e advisor sull’arte, ma lavora nel settore, in cui è laureata e di cui è esperta, per portare alla sua attenzione la infelice narrazione di questa mostra. Oltre a Tarantini (che su Instagram prende il nickname di @etantebellecose), le studentesse hanno contattato anche altre content creator legate al mondo dell’arte, senza però ricevere alcuna risposta.

Tarantini si mobilita immediatamente e va a vedere la mostra, creando dei contenuti (video e post) che in poco tempo diventano virali.

Ne risulta un video pubblicato su Instagram e TikTok, in cui Tarantini fa notare quanto la mostra sia tutta sbilanciata dal punto di vista narrativo: dal titolo (“coraggio e passione”), al colophon tutto maschile, passando per gli elementi già citati in questo testo.

In seguito alla visita, Tarantini contatta Non Una Di Meno Genova e Valentina Crifò, content creator come lei (al secolo digitale è @immagini.narranti) ma soprattutto storica dell’arte ed educatrice museale. 

La richiesta che fanno ad Arthemisia e al curatore Costantino D’Orazio è quella di aprire un dialogo sulle scelte narrative dietro a questa strada espositiva e curatoriale, oltre alla rimozione della sala dello stupro dal percorso espositivo e al ritiro dei gadget a tema Tassi dal bookshop (tra cui il libro di Buttafuoco dal titolo La notte tu mi fai impazzire: gesta erotiche di Agostino Tassi).

D’Orazio ha dunque contattato Non Una Di Meno Genova – che aveva prontamente ricondiviso i contenuti di Tarantini e Crifò – proponendo loro una visita guidata alla mostra, per raccontare e motivare le scelte dietro la disposizione delle sale.

Alla visita guidata con NUDM Genova hanno partecipato anche Tarantini e Crifò, che ho personalmente contattato per sapere come questa visita si sia svolta.

Crifò mi ha raccontato che, in prima battuta, per comprendere lo scopo della visita proposta da D’Orazio si debba pensare al concetto – tutto maschile, aggiungo io – di competenza.

«Se curo una mostra», mi scrive Crifò, «in teoria dovrei saperla raccontare non soltanto in ogni singolo elemento ma, dall’alto della mia professionalità e coinvolgimento nel progetto, saper calibrare la mia narrazione a seconda del pubblico che ho davanti. Su questo aspetto ho una certa esperienza: da anni lavoro nel mondo mostre e musei e ho assistito a fantastiche formazioni da parte di curatorɜ che hanno saputo rispondere a qualsiasi quesito, tecnico, allestitivo, curatoriale eccetera. Sarebbe assurdo doverlo dire, quasi come ci parrebbe assurdo un padrone di cucciolo che non si ricordi il suo nome».

«L’impressione, condivisa», prosegue Crifò, «è stata che Costantino D’Orazio ci avesse accoltɜ pensando di condurre una visita guidata per un gruppo di svagatɜ visitatorɜ e non un gruppo di persone che, in via preliminare, si era documentata e aveva quesiti di tipo specifico. Pertanto, nessunǝ si sarebbe accontentatǝ di sentirlo elogiare la bellezza delle pennellate di Gentileschi. A unǝ curatorǝ più competente sarebbe stato ovvio che lo scopo dell’incontro avrebbe dovuto solo ed esclusivamente approfondire le scelte curatoriali che i veri professionisti attuano con consapevolezza. Queste “scelte”, però, D’Orazio ha cercato di liquidarle come pedissequa adesione alle fonti documentali. Come se l’operazione fosse semplicemente un compito scolastico. Be’, se allora dobbiamo dare un voto a questo compito, possiamo dire che l’allievo non deve aver letto e compreso i documenti processuali. Dice di aver letto tutti i testi ma, per esempio, nessun focus in mostra ricorda le lettere che Gentileschi invia al suo amante Francesco Maria Maringhi. E, soprattutto, una volta interrogato non riesce ad ammettere che in materia di narrazione della violenza ci sono tantissimi errori. Primo su tutti, non aver avuto l’umiltà di demandare il tema a chi dimostra una sacrosanta e comprovata competenza».

Insomma, da questa visita emerge una volontà di difendere le scelte espositive nonostante le palesi declinazioni sessiste in cui la vicenda di Gentileschi e la sua opera vengono raccontate. 

Da questo incontro piuttosto inutile e poco aperto, NUDM Genova, le associazioni About Gender e Mi riconosci, Crifò, Tarantini e le studentesse d’Arte dell’Università di Genova decidono di aprire uno spazio di riflessione collettivo aperto alla cittadinanza. Lo fanno in un’assemblea pubblica partecipatissima al Teatro della Tosse, in cui si ritrovano esperte ed esperti d’arte e soprattutto comuni cittadini e cittadine che hanno visitato la mostra di Palazzo Ducale. Da questo incontro nasce l’idea di una lettera aperta ad Arthemisia e Palazzo Ducale con la richiesta della chiusura della “sala dello stupro”, che nel frattempo continua a far sentire male parecchie persone che vanno in visita al museo, e il ritiro dei gadget e libri problematici dal bookshop. 

La lettera raggiunge le 4.000 firme in pochissimo tempo, e questo porta necessariamente a una presa di posizione da parte di Arthemisia e Palazzo Ducale. Ma non nel verso che ci aspetteremmo a questo punto della storia. 

La presidente di Arthemisia Iole Siena è rimasta irremovibile sulle scelte espositive: ribattendo che l’azienda a cui è a capo sarebbe composta al 90% da donne (come se fosse un elemento utile ai fini della discussione sulla spettacolarizzazione dello stupro), ha vietato l’affissione di un trigger warning all’esterno della sala incriminata e si è fermamente opposta alla chiusura della sala (da parte di Palazzo Ducale, che ha provato invece ad apporre dei teli neri tutto intorno per deviare il passaggio alle persone che non volessero assistere a quella macabra, disturbante, violenta rappresentazione. La chiusura della sala è però stata temporanea: dopo qualche giorno i tendaggi sono infatti stati rimossi e il letto insanguinato è di nuovo aperto a tutto il pubblico del museo.

Nel bookshop sono – anche qui: solo per qualche giorno – sparite le magliette con le frasi di Agostino Tassi, ma sono rimaste delle – perdonatemi il francesismo – cagate a tema pinkwashing che sfruttano l’immagine di Gentileschi e la storia della sua violenza sessuale e il libro sulle “gesta erotiche” (così l’autore decide di chiamare le violenze sessuali) del Tassi.

A questo riguardo, ho chiesto a Tarantini una dichiarazione. E Tarantini usa parole che condivido in pieno e vi allego qui.

«Il caos che regna all’interno della mostra in questi giorni (tra togli e rimetti di gadget, cartelli e tendaggi) dimostra una cosa: il settore storico-artistico pensava che i cambiamenti che stanno investendo la società globalizzata non l’avrebbero mai riguardato. Si sbagliava di grosso. Mostre, musei, mercato dell’arte ed enti di formazione si dovranno sempre più mettere in discussione, pena il fallimento o l’oblio. Il pubblico è vivo e non si accontenta più di avere centralità nei manuali di marketing culturale, la vuole nella realtà. Palazzo Ducale – per sensibilità o per opportunità – pare averlo capito e, stando alle recenti dichiarazioni del Presidente Beppe Costa, la vicenda ha reso necessaria la revisione dei contratti futuri con i produttori di mostre nell’ottica di garantire maggior peso decisionale alla Fondazione. È un grandissimo traguardo e la pratica partecipata con cui l’abbiamo raggiunto è una novità assoluta nel panorama italiano. Vale la pena ricordare ai vari soggetti coinvolti che il patrimonio culturale, la cui fruizione e valorizzazione – almeno sulla carta – rappresentano le finalità del partenariato pubblico-privato che hanno stipulato, è un bene comune. Sembrerebbe dunque il minimo prestare ascolto a chi il senso comune lo produce ogni giorno, ovvero l3 cittadin3. Senza questo non c’è cultura. E senza sviluppo della cultura non c’è democrazia».

Insomma, si è andato a creare uno stallo alla messicana, che vede da un lato le rimostranze della popolazione genovese, delle e degli addetti ai lavori dell’arte e le associazioni femministe, dall’altro Arthemisia e la dirigenza di Palazzo Ducale. In questo impasse permangono solo alcune certezze.

La prima è la pericolosità di un percorso espositivo così brutale privo di trigger warning e avvertimenti per il pubblico, che si ritrova senza preavviso in una stanza capace di riattivare dei traumi non indifferenti in modo a dir poco becero e spettacolarizzante.

La seconda è l’ennesimo voler sacrificare l’opera di Gentileschi a una lettura unilaterale, concentrandola in un “prima e dopo” lo stupro, disegnando la figura dell’artista come dipendente dalle vite degli uomini che l’hanno circondata, rendendoci incapaci di apprezzare appieno la mastodontica tecnica della pittrice che diventa qui solo il suo stesso trauma.

La terza certezza, che forse mi rende ancora più affranta, è l’impossibilità da parte dell’organizzazione della mostra di leggere la contemporaneità, come accennavo nel mio lungo incipit.

Leggere la contemporaneità vuol certo dire comprendere il nuovo modo che il mondo, grazie al transfemminismo e agli studi di genere – che ricordo sempre non essere scienza delle merendine, ma una corrente socioculturale trasversale e fondamentale – ha di parlare di violenza maschile contro le donne e di trattare le voci delle artiste della nostra storia che troppe volte sono state silenziate o piegate a narrazioni becere o maschiocentriche. Ma vuol dire anche permettere a chi visita una mostra come questa di comprendere la condizione della donna nel 1600 in Italia. Gentileschi a Palazzo Ducale viene descritta come una fenice, una donna che si ribella a una condizione di ingiustizia e ne esce vincitrice. Non c’è niente di vero però in questa visione.

Gentileschi fu in grado di andare a processo per un’intercessione del Papa Paolo V, che accettò di aprire un procedimento contro Tassi anche per la violenza sessuale ai danni di Artemisia. Ma il moto principale dell’astio di Orazio Gentileschi verso Tassi fu un debito economico di questo nei suoi confronti. In più, non vi è nulla di glorioso nella vita di Artemisia Gentileschi dopo il processo: fu infatti costretta a scappare da Roma e cambiare il suo nome (firma il suo Giale e Sisara con lo pseudonimo che poi avrebbe definitivamente fatto suo: Artemisia Lomi), dopo pesanti accuse di incesto con il padre e malelingue che ne minarono la credibilità fino al giorno della morte. 

Non siamo davanti a una storia di riscatto, bensì a una storia di soprusi e cancellazione. 

Cancellazione che si ripete in un percorso museale come quello scelto da Arthemisia, D’Orazio e Palazzo Ducale, dove la pittrice viene fagocitata dal suo stesso evento traumatico, a cui si riduce tutta la sua produzione artistica. E questa cancellazione avviene con metodi spettacolarizzanti e poco conformi al vero, metodi che inducono attacchi di panico nelle persone che visitano quella sala e che ci ricordano che qualsiasi cosa tu faccia nella vita, se sei donna e di talento, non sarai mai nessuno senza gli uomini amati o odiati nel tuo percorso.

E in questo non c’è niente di culturale, ma tanto, troppo, forse tutto di patriarcale.

All’inizio di questo mio pezzo mi chiedevo: a chi destiniamo le storie che decidiamo di raccontare?

Ecco, questa storia, con questa architettura, non è destinata a un pubblico sensibile o alle persone che hanno subito quel tipo di violenza, peraltro drammaticamente comune, basterebbe guardare le statistiche ISTAT.

Raccontare una storia significa avere sensibilità e responsabilità, altrimenti è solo mero sensazionalismo. E il sensazionalismo ha poco a che fare con la cultura e molto con la promozione selvaggia.

Attendiamo dunque altre, migliori, pratiche risposte dall’organizzazione di questa mostra, perché nel 2024 ricordare Gentileschi unicamente per il suo stupro è anacronistico e assolutamente non culturale, in ogni senso possibile che questo termine possa assumere.

ARTICOLO n. 12 / 2024

ARTICO

Pubblichiamo la prefazione al volume di Valentina Tamborra, I Nascosti (Minimum Fax). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

La strada liscia e deserta che si staglia sul lato anteriore dell’immagine è ridotta quasi a un punto quando una cresta bassa e scura la tronca a metà, poco prima dell’orizzonte. Sotto le masse e le scie delle nubi si distende un paesaggio verde pieno di fiori, erba e alberi bassi, che mi sembra più «meridionale» rispetto alla tundra canadese di cui ho sperimentato i rigori, ma che annuncia la propria natura nordica attraverso il cartello triangolare con la silhouette di una renna. Valentina ci dice che «la tundra inizia quando non ti aspetti più nulla». 

Per me la tundra è sempre stato il luogo delle mie aspettative più felici, perché è il punto nel quale, in assoluto, mi sono sentito più vicino al cielo. Ma forse farei meglio a rinunciare alle mie aspettative, perché quando leggo che l’Artico si sta riscaldando a una velocità tre o quattro volte superiore rispetto alla zona temperata sento montare la nausea. 

Immagino le case e gli oleodotti che sprofondano in quello che un tempo era il permafrost, e i nomi tradizionali dei luoghi che si dissolvono, precipitando nel passato. In ogni caso, non sono mai stato nel luogo che si chiama Sápmi, e che i miei maestri delle elementari mi avevano insegnato a chiamare Lapponia. Perciò, quel poco che credo di sapere sul Nord e sugli indigeni che lo abitano potrebbe soltanto attirarmi nelle paludi fangose dell’errore, pronte a risucchiarmi dai piedi gli stivali di gomma. Sono un semplice bambino del Sud, intento a fissare le immagini di qualcosa che non sono in grado di capire, sognando disperatamente di trovareuna bacca da succhiare.

Nel sogno nordico di Valentina c’è un paesaggio con una sabbia così bianca, un cielo di un grigio chiaro così uniforme e un mare così metallico, che l’erba rossiccia sotto le sagome dei cespugli non riesce quasi a prevalere sulla sensazione che la foto sia in bianco e nero. Ma il rosso dell’erba finisce per trionfare, in silenzio e con dolcezza. E io mi chiedo perché tutto questo mi renda così felice.

Ecco un paesaggio notturno, con una striscia di neve magicamente illuminata fino ad assumere una tinta grigio-azzurra e, a sinistra, una struttura che ricorda una tenda indiana e che brilla scheletrica; poi una distesa di ombre, l’orizzonte e un cielo chiazzato e spolverato di stelle, la cui tinta verde può derivare dall’aurora boreale. In un’altra immagine l’aurora si solleva ad arco dalla neve, come una gorgonia ondeggiante, a tre strati. In un’altra foto scopro dei fiori che sembrano batuffoli di ovatta e che si levano dall’acqua scura per soffiare il loro polline raffinato oltre un promontorio buio e un cielo inondato di sole.

Nel mezzo delle tenebre si erge una finestra squadrata, al cui interno due uomini siedono uno di fronte all’altro davanti a un tavolo invisibile, con una torcia o una lanterna tra di loro. Non saprò mai chi sono.

In piedi sulla porta dell’Ullkarderi con le pareti rivestite di bianco, dietro il quale si

staglia un pendio d’erba e di ghiaia, una giovane coppia tiene in mano quelli che sembrano stivali di montone. Un uomo, con un giaccone blu e un cappello che ricorda vagamente un berretto basco, con i paraorecchi che penzolano in basso e dietro le sue spalle, è seduto davanti a un tavolino rotondo, con un pezzo di carta pieno di quadrati numerati, mentre attraverso la finestra sullo sfondo si intravede un veicolo bianco su una spianata bianca. Che cosa significa tutto questo?

In un’altra stanza, caffè istantaneo, una teiera, una candela, delle tazze, un recipiente di cartone che potrebbe contenere del latte e due lattine, forse di birra o di qualche bevanda analcolica, occupano un tavolino con una tovaglia triangolare. Sulla parete sono appese foto a colori di paesaggi innevati e di renne.

Una casa buia sta acquattata tra una neve azzurra invasa da scaglie luminose e un cielo azzurro spolverato di stelle, con un pallido sole che si staglia all’orizzonte. L’altro sole è una candela dagli infiniti raggi o una lanterna sospesa tra due volti, dietro una finestra squadrata.

Una donna splendidamente segnata dalle intemperie, con una giacca a vento rossa e una fascia per capelli viola, si erge contro le nubi e uno steccato. Una donna più giovane, con un maglione rosso e una sciarpa slegata, è in piedi in mezzo alla neve, con le punte degli stivali bianche e due pelli appese alla parete dietro di lei. 

Vedo dei ritagli di pelliccia su un tavolino rotondo e pieno di graffi. Ci sono delle ragazze intente a realizzare qualcosa di artistico che non riesco a comprendere, usando lunghi fili colorati o fibre che ricordano quasi ciocche di capelli. Valentina ci dice che l’abito tradizionale dei sami si chiama gákti. Che cosa «significano» questi fili? Su una cosa non ci sono dubbi: questo breve testo può fare tranquillamente a meno delle mie speculazioni da saggio uomo del Sud.

Un uomo e una donna siedono davanti a un tavolo rotondo, sul quale si erge, in piedi, il loro bambino biondo.

Due uomini si appoggiano ai loro buggy della tundra (Valentina li chiama quad; nel Nunavut la gente li avrebbe chiamati four-wheelers), puntando i loro binocoli; se dovessi tirare a indovinare, direi che cercano di individuare le renne. Per quanto tempo ancora? Valentina scrive di un inverno recente durante il quale un caldo innaturale ha sciolto la neve, che durante la notte si trasformava in ghiaccio, impedendo alle renne di pascolare. «Così i sami devono nutrirle e questo nel tempo renderà la vita ben diversa». E in una stanza foderata di legno, che dalle corde e dai giacconi appesi alle pareti immagino sia uno spogliatoio o uno sgabuzzino, un uomo posa per noi con una corda di un rosso scolorito che passa sopra la spalla destra e sotto il braccio sinistro. Una mano rugosa stringe un cellulare con una mappa sullo schermo. Una renna dagli occhi enormi guarda di sottecchi Valentina.

Le sue corna hanno un colore rosa nei punti lasciati scoperti dalla lanugine. Un uomo con le mani sporche di fango o di sangue stringe un coltello contro le ginocchia rivestite di cuoio, mentre, con una pietra, si prepara ad affilare la lama. 

Tra due veicoli un uomo è in posa in mezzo a un mucchio di neve, con una renna morta ai suoi piedi e un’altra in primo piano. Un ragazzino è seduto in mezzo alla tundra e accanto a una casa, impegnato a segare un blocco di legno, mentre sullo sfondo un adulto è appoggiato contro una roulotte, e lo tiene d’occhio. Tra vent’anni, questo luogo si trasformerà in una palude?

Una bambina vestita di rosa si china sopra una renna distesa a terra, alla quale i suoi parenti stanno facendo qualcosa che posso provare a immaginare ma che non riesco a vedere. Un uomo si trascina dietro un panno rosso, mentre alle sue spalle un branco di renne preme contro uno steccato. In piedi nella neve c’è una giovane donna vestita di rosso, che tiene una mano piena di anelli su una grossa cintura nera, decorata di medaglie bianche. Strisce bianche e arancioni le ricadono sul petto, nascoste dalle trecce nere.

Una donna si affaccia a una finestra mentre un uomo affonda le mani in una massa

di pelli o di piume. Un’altra donna, bellissima e inquadrata di profilo, porta una bandana bianca e rossa, ricamata a mano, con dei fili che le piovono all’altezza del cuore. Davanti a una macchina per cucire, una donna più anziana lavora su un motivo bianco e rosso.

Una donna giovane che indossa il suo gákti è seduta sulla sponda di un fiume o di un fiordo, con dei fiori davanti e un cielo pieno di nubi sopra la testa. La mia capacità di comprenderla è ridotta al minimo, come le chiazze di neve sull’altura che si erge oltre lo specchio d’acqua.

Un uomo e una donna sono distesi assieme sopra delle pelli, in una tenda spaziosa. In un’altra immagine, due figure si stagliano in mezzo alla neve, con delle corna al posto delle teste. Sono esseri viventi o effigi? Un volto incappucciato, con gli occhi sgranati, mi fissa attraverso una maschera azzurra.

In una stanza, un uomo e una donna sono inginocchiati uno di fronte all’altra, con dei teschi dipinti e vagamente umani sul pavimento tra di loro, e quello che sembra un teschio di renna sopra i capelli ramati della donna.

Due figure camminano su una strada innevata. Una delle due ha un copricapo di pelliccia, sormontato da un paio di corna. Intorno a un falò notturno, lungo la strada, sono radunate altre figure con pellicce e corna. Una meravigliosa fiumana di renne avanza serpeggiando nella neve, sotto una mezzaluna. Due mani ad artiglio scavano nel bianco, fino a portare allo scoperto il rosso.

ARTICOLO n. 11 / 2024

GLI AMORI DIFFICILI

intervista di Fabio bozzato

Nell’ultimo romanzo di Michael Cunningham, tutto si coagula il giorno 5 di aprile. Nel 2019, di mattina; l’anno dopo, di pomeriggio; e infine la sera del 2021. In Day (La nave di Teseo, traduzione di Carlo Prosperi) le vite di cinque adulti, tre bambini e un amico immaginario si annodano e si sfilacciano, cucite da una scrittura preziosa e sofisticata, come ci ha abituato da sempre questo scrittore americano.
L’abbiamo incontrato a Venezia, in uno degli eventi che anticipano il festival Incroci di Civiltà, promosso dall’Università Ca’ Foscari, che si terrà dal 10 al 13 aprile. Day esce dopo dieci anni dall’ultimo romanzo e ventisei dopo il successo di The Hours, di cui è famosa pure la versione cinematografica di Stephen Daldry.

Fabio Bozzato: Michael, cominciamo con un tema un po’ naïf ma necessario: l’amore. Lei è uno straordinario narratore dell’amore, ma l’amore dei suoi libri è sempre consumato, rotto, svanito, perduto. Potremmo dire che lei è un narratore del fallimento dell’amore?

Michael Cunningham: Come tutti noi sappiamo dalle nostre vite, l’amore prende sempre forme inimmaginabili. E penso anche segua tantissimi fili. Sì, io sono più interessato a scrivere di amori difficili. So per certo che ci sono nel mondo degli amanti felici, magari non ogni minuto della loro vita, ma lungamente felici. Eppure, se ci pensi bene, non c’è molto da dire attorno a un legame d’amore felice, no? Ora, io non mi voglio paragonare a certi scrittori, ma da Tristano e Isotta ad Anna Karenina c’è una tradizione classica. Insomma, se ad Anna fosse stato permesso di lasciare Karenin e andarsene con Vronskij, non ci sarebbe stata alcuna storia, nessun libro. Credo sia importante che ce lo ricordiamo. Ma io, come altri scrittori, preferisco scrivere di persone che vivono circostanze difficili. Questo non significa che tutti nel mondo vivano quelle difficoltà, per fortuna [ride].

F.B. Eppure il tema del fallimento, del fallimento nell’amore o nella vita, attraversa così tanto la sua scrittura. Cosa significa il fallimento per un uomo di successo come lei?

M.C. Ci penso molto. Penso che una delle benedizioni e delle maledizioni della vita umana sia che anche se siamo stati estremamente fortunati, e dovremmo essere grati se lo siamo stati, continuiamo a sentire in qualche modo di aver fallito. Allora pensi di non aver fatto tutto quello che potevi; puoi immaginare di aver dovuto fare qualcosa di più, anche solo un piccolo gesto in più che avrebbe cambiato ancora le cose. Penso che gli esseri umani, se siamo abbastanza fortunati e se siamo stati trattati bene dal mondo, continueranno ad affrontare quel senso di smarrimento, di dubbio. È un sentimento costante, permanente, credo. Non posso parlare a nome di tutti, ma ho questa sensazione. Penso che probabilmente siamo fatti così. 
Non conosciamo veramente gli animali, ma forse siamo davvero insoliti tra i mammiferi e gli altri esseri viventi perché possiamo immaginare più di quanto possiamo creare. Il mio gatto, per esempio, sembra completamente soddisfatto della sua catness, la sua gattitudine [ride]. Sognerà di essere un gatto migliore? A dire il vero vorrei che prendesse in considerazione l’idea di essere un gatto migliore, ma non credo gli passi per la mente. 
A ogni modo, in almeno tre dei miei romanzi precedenti i protagonisti che si amano restano assieme, pensano a un futuro assieme. In un certo senso, tutti i miei libri finiscono con la vita che comunque continua, il che non è necessariamente un lieto fine, ma è una specie di lieto fine.

F.B. In questo ultimo libro, Day, la pandemia è uno spartiacque tra le vite e gli eventi. Anche se non la nomina mai, è il baricentro di tutto. Ho pensato che siamo una generazione di uomini gay sopravvissuti a un’altra pandemia e peraltro i due virus sono biologicamente parenti. Quanto è stata presente la prima pandemia nello scrivere questo libro? Quanto pensa si assomiglino o differiscano le due epidemie?

È davvero la seconda che viviamo nella nostra vita, speriamo sia l’ultima! Comunque, sì, è un pensiero assolutamente presente. È qualcosa che non possiamo dimenticare e non credo che mi sentirò mai bene per quanto il mondo è stato insensibile e così a lungo di fronte all’AIDS. Credo, peraltro, che uno dei motivi per cui hanno trovato così velocemente il vaccino contro il Covid sia stata anche la ricerca condotta sull’HIV. All’epoca, ce lo ricordiamo, nessuno ha fatto nulla perché sembravano morire “solo” gay e tossicodipendenti. Ma ora, quando a morire era nostra madre, il vicino di casa, un fratello la reazione è stata immediata e scioccante. E la domanda per tutti noi era: chi sarà il prossimo a scomparire? 

M.C. In entrambi i casi c’è questa cosa tragicamente poetica dei modi di trasmissione, di sangue, sperma e respiro, come se vita e morte si confondessero.

Certo, è esattamente così. E aggiungo, ma parlo per me stesso, che a un certo punto mi sono sentito un gay americano bianco privilegiato. E poi d’un tratto, invece, mi sono ritrovato nel vagone merci assieme a tutti gli altri. È come se il potere mi vedesse in un altro modo come essere umano. E questo fa la differenza tra la sensazione di vincere e di perdere.

F.B. Il tempo della pandemia l’abbiamo percepito come un tempo interrotto. In tutti i suoi lavori colpisce sempre l’architettura del tempo. In Day è lo stesso giorno in tre anni diversi; in The Hours sono tre epoche e tre generazioni che in qualche modo si incrociano; in Carne e sangue è un tempo lineare; in Una casa alla fine del mondo sembra un tempo sospeso. Mi chiedo: il tempo per lei è solo un meccanismo narrativo o è un personaggio che si muove tra gli altri?

M.C. Penso che la narrazione letteraria sia semplicemente inchiodata al tempo. Mi puoi raccontare anche una piccola storia, ma davvero non lo puoi fare se non si svolge nel tempo. Può anche non avere uno sviluppo logico, possono essere mille anni o cinque minuti, ma qualunque storia riguarda gli effetti del passare del tempo. 
Per ragioni che non comprendo appieno, ma che a me sembrano importanti, vedo che ogni scrittore ha delle predilezioni che sono semplicemente lì, e tu stesso non le capisci appieno mentre scrivi. Di sicuro, quelle relative al tempo per me sono estremamente importanti. E proprio come la definisci tu, “l’architettura del tempo”, in quest’ultimo libro è davvero fondamentale. Il fatto è che ho cercato un modo per incorporare la pandemia senza scrivere di pandemia. Il tempo mi sembra la chiave, la percezione del tempo, non solo le persone o il virus. Ecco che ho immaginato lo stesso giorno, diviso in tre sezioni, prima della pandemia, al culmine della pandemia e un dopo che non voglio chiamare post-pandemia. Non lo chiamo così perché lo sento irrispettoso. Anche questo è un tempo strano, tuttavia sono qui a fare un tour in giro per il mondo, cosa che non avrei potuto fare relativamente di recente. Quindi è un altro tempo, e noi siamo fra quelli che sono stati abbastanza fortunati da sopravvivere finora. E il mondo continua, cosa che sembrava non potesse accadere per un po’.

F.B. Questo ci riporta a un’altra questione: abbiamo la sensazione di non poter davvero descrivere la realtà se non per frammenti. Ci sfugge sempre l’insieme delle cose e ci sembra impossibile fare un unico racconto. Lei crede che oggi ci sia ancora spazio per un romanzo dalla storia grande, coerente, organica? O anche la narrativa non può che procedere sincopata e frammentaria?

M.C. Penso che la realtà ci sembri frammentata nel tempo in cui la viviamo. E forse è sempre successo così. L’importanza dei romanzi, quelli belli e quelli grandi, non si è sempre basata proprio su questo motivo? Il ruolo che gioca un romanzo non è in qualche modo dare forma ai frammenti della realtà? Questo per me significa narrazione. 
Sì, la storia dei nostri giorni è caotica, ma penso che la forza di un romanzo (ed è uno dei motivi per cui li leggo anch’io), è che esprime un qualche ordine che ci sembra invisibile nella vita quotidiana. Penso anche che i romanzi da sempre fanno parte della documentazione storica: se vuoi conoscere la Russia del diciannovesimo secolo, hai bisogno di cercare biografie e storie, ma dovresti anche leggere Tolstoj e Čechov e le esperienze di chi era vivo al tempo. Non credo che smetteremo di scrivere romanzi simili.

F.B. Tra i suoi libri ce n’è uno, uscito ormai vent’anni fa, molto particolare, Dove la terra finisce, che è una sorta di reportage narrativo in un piccolo luogo della costa, Provincetown. Lo possiamo definire un esempio di giornalismo narrativo? O è un pezzo di letteratura non-fiction? Lei crede ci sia differenza tra questi due generi?

M.C. Credo sia una linea molto sottile. Quel libro mi era stato commissionato, faceva parte di una serie: la casa editrice aveva chiesto a vari scrittori di raccontare un luogo e io ho scelto Provincetown. Tra l’altro ricordo di essere stato molto felice nel farlo. Tuttavia, è stato anche l’unico di quel genere che ho scritto. Ma sinceramente non ho mai pensato a una linea di confine netta tra saggistica e narrativa. La narrativa è sempre basata su qualcosa che hai visto o sentito, che conosci del mondo. E la saggistica non può mai essere del tutto oggettiva. Penso ci sia una sorta di continuum, non corpi di lavoro separati. Alla fine, stiamo tutti solo raccontando delle storie.

ARTICOLO n. 10 / 2024

IL NAUFRAGIO DEL SINGOLARE

Appunti sull’autobiografia italiana

Non ricordo il suo nome: ma qualche anno fa una giurata del Booker Prize, notando che tra i libri giunti in finale c’erano diversi memoir, commentò: – Il fatto è che è sempre interessante ascoltare qualcuno che parla di ciò che conosce bene. – E questo spiega buona parte del piacere di leggere un’autobiografia. Poi c’è l’altra parte.

Mi spiace citare le mie stesse parole, ma devo riprendere le fila di ciò che ho scritto esattamente vent’anni fa in un libro che si chiamava (guarda caso) Perché non possiamo non dirci: «Io sento [in quanto italiano] la mancanza del gesto autobiografico, il peso della penna che si confronta con il problema della verità letterale. Questo gesto, questo peso, è qualcosa di bellissimo. È una posizione, una posizione etica che mi manca dal punto di vista estetico. Mi manca come un colore, come un luogo. Mi manca l’autobiografia, in questo paese pieno di romanzi, così come mi mancherebbe la fotografia in un paese pieno di quadri: non quindi perché una delle due sia arte, o verità, e l’altra no».

Lasciamo stare per ora la diagnosi sull’Italia come paese renitente alla scrittura autobiografica (ci tornerò subito). Il piacere che tentavo di descrivere nasceva dallo spettacolo di una scrittura che lavora per aderire a un impegno di veridicità. “Spettacolo”, perché si tratta di qualcosa di simile al piacere che proviamo a teatro o al cinema, quando – sospendendo temporaneamente la nostra sospensione dell’incredulità – ammiriamo l’attore per il suo sforzo di immedesimazione. Soltanto che sul palcoscenico l’obiettivo è esattamente l’opposto: la finzione. L’autobiografo, invece, non deve fingere – o al massimo deve, come il poeta di Pessoa, fingere ciò che davvero sente. Chi lo legge ammirerà la ginnastica etica (lo dico senza alcuna sfumatura negativa) che gli occorre per dire la verità. Tutti gli stratagemmi del memorialista (semplificare la cronologia, cambiare i nomi, accorpare diverse persone in un personaggio, fino alle tecniche più radicali dell’autofiction contemporanea) sono posti al servizio di questa scommessa: dire il più possibile la verità su di sé. 

Questo è un obiettivo che ha preso forma soprattutto con le Confessioni di Rousseau. È vero che Rousseau, come oggi sappiamo, in realtà ha più volte mentito e taciuto. Tuttavia il suo progetto, la sua entreprise – je forme une entreprise qui n’eut jamais d’exemple et dont l’exécution n’aura point d’imitateur, “mi inoltro in un’impresa senza precedenti, l’esecuzione della quale non troverà imitatori” – lasciata in eredità agli autobiografi contemporanei, era quello di una rivelazione totale del sé. Mi sembra che questa eredità (come del resto quella della semplice biografia) non sia stata raccolta in Italia, non quanto in altri paesi: la Francia, i paesi anglosassoni. (Abbiate pazienza: nei prossimi paragrafi mi concederò diverse altre generalizzazioni).

Qui si potrebbe azzardare una spiegazione in termini, per esempio, di cultura cattolica o protestante, o di penetrazione parziale e orientata della cultura illuministica e romantica; o anche in termini socio-politico-economici – l’entreprise come impresa del nascente capitalismo borghese, produzione di un io a sua volta potentemente produttivo di capitale culturale e sociale. Non svilupperò queste ipotesi. Resta il fatto che dopo le memorie (alcune scritte in francese) di Gozzi, Goldoni, Alfieri, Casanova e Da Ponte, le nostre opere autobiografiche diventano mediamente molto meno rilevanti sul piano letterario. Pellico, Settembrini, D’Azeglio, il taccuino di Abba, i frammenti di Foscolo e Leopardi, non sono paragonabili alle opere di Chateaubriand e Stendhal. C’è un felice egotismo autobiografico che da noi non trova terreno fertile. 

Si potrebbe sostenere che l’Ottocento, soprattutto dopo il suo primo terzo (cioè nel clima del positivismo), sia stato un po’ dappertutto un secolo ingrato per l’autobiografia, troppo spesso privata di spessore letterario e ridotta a mero resoconto di fatti; del resto anche oggi è soprattutto un format editoriale a cui ricorrono le celebrità. E tuttavia dal Novecento in poi autori e autrici come Gide, Duras, Sartre, de Beauvoir, Canetti, Joyce, Nabokov e tanti altri hanno continuato a esplorare nuove vie della scrittura autobiografica intesa proprio come spazio di innovazione letteraria. In Italia questo è accaduto molto meno. Solo negli anni Sessanta i libri di Ginzburg e Meneghello hanno aperto una felice stagione di rinnovamento, a cui ricollegherei anche Se questo è un uomo di Primo Levi (uscito sotto silenzio nel ’47 ma poi ripreso da Einaudi nel ’58). 

Queste opere hanno un tratto in comune. La vicenda del singolo è fortemente inserita in una collettività: il lager di Auschwitz, la famiglia Ginzburg (e il suo milieu), il paese di Malo. È inevitabile, o comunque assai frequente, che un memoir colleghi il privato al pubblico, ma stavolta l’attenzione è portata molto più su queste realtà collettive che sulla persona dell’autobiografo: la quale viene spesso sottratta allo sguardo, per riserbo o per sprezzatura o per un sentimento del sé composto di entrambi. Al centro, fin dal titolo, c’è la famiglia (Lessico famigliare) o il paese (Libera nos a Malo); o se l’individuo, l’individuo indifferenziato (Se questo è un uomo) che rimanda immediatamente alla moltitudine degli oppressi. Più che autobiografie sono autosociografie, per ricorrere a un termine che viene già usato in riferimento alle opere di Annie Ernaux (alcune più di altre, direi) o a Ritorno a Reims di Didier Eribon.

Si pensi, per contrasto, a Lalla Romano, che conosce il maggiore successo in quegli stessi anni, ma per quanto omaggiata di un doppio Meridiano Mondadori rimane una figura anomala e appartata nel nostro panorama letterario. Certo, la dimensione relazionale è ben presente fin dai titoli delle sue opere: InseparabileL’ospite, la prima persona plurale di Le parole tra noi leggere o La penombra che abbiamo attraversato. Eppure il filo conduttore della scrittura è senza dubbio schiettamente autobiografico: è la singolare sensibilità della narratrice, che può dedicare un intero libro (Metamorfosi, l’opera prima!) al racconto dei propri sogni, o assegnare alla sua giovinezza il titolo Una giovinezza inventata. Inventata da chi se non da lei stessa?

Questa diffusa opzione per l’autosociografia, che da noi anticipa di molti anni Gli anni di Ernaux, nasce dalla tendenza italiana a privilegiare la dimensione comunitaria (i chierici rossi o neri di Montale), nonché dalla nostra scarsa inclinazione a ripensare, dopo il romanticismo, il racconto dell’io. Gide e Joyce e Canetti lo mettono in discussione, l’io, e ne incrinano in vario modo la coesione: ma questo non gli impedisce di metterlo al centro – anzi li costringe a farlo. Conducono uno scavo prolungato nella propria intimità, azzardando un’esposizione personale che per uno scrittore italiano saprebbe subito di alfierismo o dannunzianesimo. È come se fosse mancato, da noi, il passaggio attraverso un’autopercezione solida ma non enfatica, analitica ma non compiaciuta: o il fascismo l’avesse sabotato, questo passaggio. Puntare i riflettori sul proprio io sembra brutto. 

Oggi anche scrittori di forte temperamento e tutt’altro che inclini a scomparire entro una realtà collettiva come Edoardo Albinati o Vitaliano Trevisan scrivono memoir come Maggio selvaggioIl ritornoVita e morte di un ingegnere, e Tristissimi giardiniWorksBlack Tulips (notare la completa assenza di pronomi di prima persona): libri che addentano la propria vita da diversi lati, un morso alla volta: il carcere, le missioni delle ONG, il rapporto col padre, la città d’origine, la vita lavorativa, il rapporto con le donne migranti. Raccontano cioè, sia pure con un occhio che può essere ferocemente critico, dimensioni fortemente relazionali o addirittura comunitarie. Sono libri straordinari, beninteso, ed è un bene che queste dimensioni vengano raccontate con una schiettezza che ha pochi precedenti. Eppure mi dispiace un po’ non trovare in Italia un’impresa autobiografica solida e compatta in tre o cinque o sei volumi come quelle in cui Coetzee, Bernhard e Knausgård non esitano a distendersi al centro del vetrino del microscopio. Nella narrazione non solipsistica ma pienamente focalizzata sull’io, nell’autentico gesto autobiografico, c’è un valore specifico che è un peccato perdere.

Vorrei provare a vedere più da vicino come funziona una di queste costellazioni di testi che costruiscono, sommandoli, una sorta di autobiografia (o più esattamente, come ho scritto, autosociografia). E subito incontro una complicazione: non sempre sono testi autobiografici.

Racconterò un’esperienza di lettura. Da ragazzo ho scoperto che il mio autore di fantascienza preferito (alla pari con Asimov) usava uno pseudonimo. In realtà tutti sapevano chi fosse, lui stesso non ne aveva mai fatto un segreto. Ma io ero appunto un ragazzo; e lo appresi solo in un secondo tempo, che quel Damiano Malabaila si chiamava in realtà Primo Levi. Sì, era quel Levi che aveva scritto un libro importante sui campi di concentramento. Su Auschwitz. 

Levi stesso ha a volte rimarcato il confine che separava le due modalità della sua scrittura, ma altre volte ha sottolineato il nesso che le univa (al punto di giustapporle in opere più tarde come Il sistema periodico e Lilìt e altri racconti). E soprattutto ha spiegato che quel bizzarro nom de plume, Malabaila, “cattiva balia”, evocava il “latte girato a male”, e che quel cibo divenuto veleno sapeva “di sofisticazione, di contaminazione e di malefizio”: due termini tecnico-scientifici più uno tratto dal mondo magico. Aggiungeva che il mondo del lager, dove “i professori lavorano di pala, gli assassini sono capisquadra, e nell’ospedale si uccide”, somigliava a quello del Macbeth, e in particolare agli incantesimi delle streghe. 

Così quando, dopo numerose letture delle Storie naturali e di Vizio di forma, arrivai verso i diciott’anni a Se questo è un uomo, l’effetto fu quello che forse aveva preconizzato qualche recensore malevolo (uno di quelli che avrebbero voluto un Levi esclusivamente “testimone”, e fustigavano la commistione di realismo estremo e sbrigliata fantasia in un unico percorso di scrittura): il resoconto del lager mi sembrò una favola nera. Avendo invertito l’ordine di lettura rispetto a quello di pubblicazione, non vedevo nei racconti una modulazione fantastica di temi già presenti nella tragica realtà esperita da Levi. Al contrario, era Auschwitz a sembrarmi una forma di surrealtà. 

Ma è interessante che questa derealizzazione non attutisse in me l’effetto del memoir: tutt’altro. Che si trattasse di eventi effettivamente accaduti era indiscutibile. Che avessero anche un alone maligno, l’indefinito effetto d’eco di una pietra gettata nel fondo buio di un pozzo – be’, questo non faceva che aggiungere al senso di minaccia. Una minaccia tanto più concreta in quanto immaginaria.

Capivo bene, però, la perplessità dei recensori dei due libri di racconti fantastici, perché leggere Se questo è un uomo ti lascia una sensazione di compiutezza, in senso sia estetico che etico: un “non c’è altro da aggiungere”. (La tregua, se viene letta subito dopo, rischia di apparire – ingiustamente – come una coda.) Il fatto è che il memoriale di Auschwitz, uscito nei Saggi Einaudi prima che nei Coralli e già pochi anni dopo riproposto in un’edizione per le scuole, è un’opera rivestita di assoluta urgenza storica e politica e morale, da allineare con quelle di Antelme e Améry: ma – a considerarla come prodotto letterario – è un oggetto impossibile. Non può essere un modello di scrittura autobiografica, perché il dramma che ci consegna non ha paragone. (Le stesse parole dramma e consegnare sono palesemente insufficienti: il dramma è un genere fondato sulla finzione o perlomeno sulla performance; si consegna qualcosa che può essere raccolto, tenuto in mano, fatto proprio.) Non può, d’altra parte, venire apprezzato per i suoi valori puramente estetici: non che manchino (tutt’altro!), ma sarebbe scandaloso staccare i fili con cui lingua, stile e immagini alimentano la missione del testo-testimone. Non ha epigoni. Si costruisce, per così dire, un genere letterario tutto suo e lo esaurisce. Sembra strano – dopo – aprire un altro libro (tanto più se di fantascienza): per leggerlo, o per scriverlo.

Ma naturalmente è ciò che facciamo, aprire altri libri. Una volta letti tutti i libri di Levi che riuscivo a trovare, ho avuto conferma del nesso profondo che avevo intuito (e che, del resto, è cosa ben nota): il reale e il fantastico lavoravano bene insieme, non c’erano da una parte le opere d’invenzione e dall’altra quelle autobiografiche. Molte delle prime mettono in scena un mondo in cui ha trionfato la logica del lager, o meglio, i temi che quella logica sottende, dalla genetica al sadismo, dalla memoria alla mente animale. Molte delle seconde prevedono, per contro, un certo grado di “arrotondamento”, come ha spiegato molto bene Martina Mengoni. In Vanadio, uno dei racconti del Sistema periodico, Levi spiega che la storia del dottor Müller (un chimico alle cui dipendenze aveva lavorato nel lager) «non [era] inventata, e la realtà è sempre più complessa dell’invenzione: meno pettinata, più ruvida, meno rotonda». Ma in altra sede ammetteva di aver cambiato non solo il nome del personaggio (si chiamava Meyer) ma anche diversi aspetti della vicenda che aveva portato al loro secondo incontro nel dopoguerra, e perfino alcune caratteristiche personali: «Dopo la sua morte, e mentre scrivevo la ‘sua’ storia, ho avuto la sensazione che l’impatto sul lettore sarebbe stato maggiore attenuando le sue peculiarità individuali, e cumulando nel personaggio Müller un di più che della borghesia tedesca nel suo complesso…». Riassumendo: la fantasia letteraria è contaminata dall’esperienza, mentre il memoir, pur fedele, si lascia aggiustare dall’invenzione.

Non esiste un’autobiografia di Levi. Esiste un complesso di testi narrativi, composti in varia misura di testimonianza e d’invenzione (ma anche testi saggistici e poetici, che ho tralasciato per non dilungarmi); tutti insieme circondano e delimitano un nucleo di vita vissuta. Si disegna un campo di forze. La scelta della metafora del campo non è qui uno scherzo di cattivo gusto. In fisica il campo è la regione di spazio dove per ogni punto è definita una data grandezza o proprietà; anche i campi di concentramento o di internamento sono spazi in cui vigono proprietà specifiche, fondate sullo stato di eccezione. Tutta l’opera di Levi è lo sforzo di definire queste proprietà, che tuttavia non si lasciano cogliere fino in fondo, perché prive di una logica (il famoso Hier ist kein warum!, “qui non c’è alcun perché!”) o perché ripugnanti allo sguardo. 

La ricerca delle radici, in questo senso, è un manifesto di poetica autosociografica. Raccoglie testi di ogni tipo: da Belli a Conrad, dal manuale di chimica di Gattermann agli alieni di Fredric Brown. All’epoca, il titolo Antologia personale veniva prescelto da poeti come Borges (evocato da Levi nell’introduzione), ma anche da scrittori di fantascienza come Asimov, per raccogliere i propri testi migliori. La scelta di sottotitolare Antologia personale un libro composto ritagliando brani di libri altrui è dirompente: ci dice che nulla è più personale di ciò che appartiene ad altri. L’io è una sommatoria di altri io; è un noi. L’autobiografia si predica come essenzialmente collettiva. Il grafo ellittico posto all’inizio del libro, che ha al polo nord “GIOBBE” e al polo sud i “BUCHI NERI”, è un gorgo di libri, di linguaggi condivisi che ruotano attorno a un centro vuoto. Anche le opere di Levi sono un vortice di libri: una straordinaria costruzione testimoniale e riflessiva, l’evocazione di un inferno e del suo lascito nel nostro mondo. Nel tratteggiarla Levi ci ha raccontato molto di sé, eppure ha mantenuto un ritegno di fondo: il campo dell’io resta un’ellissi. Il tema era un altro.

In questa ruota di testi, ce n’è uno (un po’ Giobbe, un po’ buco nero) che occupa una posizione privilegiata perché corrisponde all’esperienza più sventurata: Se questo è un uomo. Levi è diverso da quasi tutti gli altri autori e autrici, in cui vita e scrittura sono due assi uniti da connessioni seriali come i fili paralleli di un telaio. In lui il reticolo di rapporti assume forma circolare: è un perimetro centripeto (e centrifugo) definito dalla forza di un unico evento biografico, un primum vissuto e sofferto – Auschwitz – che dal suo fulcro o fuoco, con energia incomparabile rispetto a ogni altro vissuto, riverbera in tutti gli scritti come una luce oscura. Se devo pensare a qualcuno che ha dato a una singola esperienza un simile potere di imprimersi su ogni punto della sua opera, il primo autore che mi viene in mente è Petrarca, con Laura e tutto ciò che lei viene a rappresentare. Sembra molto lontano da Levi e dal suo radicale dantismo, ma non dimentichiamo che nel racconto Breve sogno (in Lilìt e altri racconti), il protagonista sogna di essere Petrarca.

Breve sogno è la storia di un risveglio, scandito da una parola sbagliata: sogh-no: così pronuncia “sogno” la ragazza straniera. Come in molti racconti, vi si proietta in forma più leggera l’ombra del lager: il risveglio (da un sogno a un incubo) alla fine della Tregua, con la parola straniera Wstawać, “alzarsi”. Anche il dottor Müller di “Vanadio” viene riconosciuto da un refuso. L’autosociografia contempla molto naturalmente una dimensione linguistica: non è forse la lingua, in primis, a definire una comunità? Altrettanto naturale è però la tensione tra la lingua del gruppo e quella del protagonista, con i suoi sbagli. Ognuno di noi è straniero agli altri.

Non bisogna banalizzare questa “tensione”. Innanzi tutto, uso questa parola non troppo determinata per riferirmi a un ampio spettro di relazioni e atteggiamenti, che includono, per esempio, anche l’affettuosa ironia dei giovani Ginzburg davanti alle immutabili frasi fatte dei genitori, o l’aspirazione del ragazzo Meneghello a capire meglio certi termini veneti. E poi i linguaggi collettivi sono più d’uno (e anche tra loro si instaurano “tensioni” di vario tipo): la lingua d’uso, il dialetto, la lingua letteraria, i gerghi della scienza e della tecnica, le lingue straniere; in Meneghello, per esempio, l’inglese ha certamente un potenziale liberatorio rispetto all’italiano. Inoltre anche l’idioletto più personale è “collettivo”, come lo è sostanzialmente ogni espressione linguistica: perfino il nonsense si produce entro un orizzonte d’attesa. Non esiste la verità del singolo. Ma la verità scaturisce sempre dal cortocircuito tra il singolo e il gruppo.

Rispetto all’idioletto i linguaggi del gruppo hanno inevitabilmente una posizione dominante o pervasiva, che emerge quando vengono descritti in modo metodico o perlomeno molto ampio. È ciò che accade in tutto Lessico famigliare, fino alle pagine finali in cui un’intera conversazione tra padre e madre è costruita come una lorica, agganciando formule come piastrine d’acciaio. In Levi e Meneghello il resoconto (spesso un vero e proprio racconto) dei linguaggi è più disseminato e circostanziale, ma non meno importante. Per quanto riguarda Levi, la matrice sta nella Babele di Auschwitz: il lessico concentrazionario, l’incontro con lo yiddish, il tedesco lingua infernale e salvifica, il russo colonna sonora di una caotica libertà, e poi la ricerca delle parole italiane per dire l’orrore. Ma ancora nel Sistema periodico, per esempio, il primo capitolo (“Argon”) dedicato agli antenati dell’autore è anche un trattatello sul linguaggio giudaico-piemontese. (Del resto la tavola degli elementi, su cui si modella il libro, è in senso lato un linguaggio; il sistema periodico è l’“alfabeto” della materia, e di una vita di chimico; una delle etimologie proposte per il latino elementum vede in questa parola la sequenza delle lettere L, M, N, un po’ come in italiano l’abbiccì deriva da A, B, C).

Non è un caso che negli stessi anni Cinquanta-Sessanta delle grandi autobiografie collettive prenda forma la sociolinguistica moderna, in Francia (Marcel Cohen) e in America (William Labov); verrà portata in Italia da Giorgio Raimondo Cardona negli anni Settanta – e questo è il decennio in cui inizia a scrivere Annie Ernaux… Dietro al progetto di raccontare un corpo sociale attraverso le sue parole c’è il fatto che, dopo tutto, la lingua è essenzialmente comunicazione, dunque comunità; e più specificamente l’idea che il linguaggio sia strettamente legato alla visione del mondo. Secondo quella che (un po’ impropriamente) viene chiamata “ipotesi Sapir-Whorf”, una lingua definisce in modo stringente la cultura di una collettività, cioè di chiunque la parli. Ancora una volta, ciò che abbiamo di più personale appartiene ad altri. 

Ma se l’idea di un rapporto cruciale tra lingua e comunità è largamente accettata, per molti linguisti l’ipotesi Sapir-Whorf, almeno nella sua versione più rigidamente causale e deterministica, può venire ammessa solo con forti limitazioni. A maggior ragione nicchiano gli scrittori, ben coscienti che la letteratura racconta soprattutto storie individuali (un po’ come la mathesis singularis, la “scienza del singolare” di cui ha scritto Roland Barthes) e che ogni personaggio ha un suo linguaggio, evidentemente in rapporto con la lingua condivisa, ma anche dotato di caratteri propri e unici. La domanda, a questo punto, è: l’autobiografia riesce a raccontare anche l’idioletto? E come?

Le autosociografie potremmo considerarle una precoce diramazione del romanzo-sistema postmoderno, cioè di quei romanzi (raramente autobiografici) che negli anni Sessanta-Ottanta disegnano un sistema chiuso e completo, a volte linguistico, una sorta di alfabeto allestito attraverso un ridotto numero di unità basiche. Il sistema periodico, appunto; e Fuoco pallido di Nabokov, Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili di Calvino, La vita, istruzioni per l’uso di Perec, i Sillabari di Parise, l’Enciclopedia dei morti di Danilo Kiš, il “Piccolo dizionario di parole fraintese” nell’Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, Vedi alla voce: amore di David Grossman, il Dizionario dei Chazari di Milorad Pavić, e così via. 

Il romanzo-sistema, però, includeva una deliberata lacuna. Era un omaggio allo strutturalismo, ma anche una critica a certe sue pretese di imperialismo ermeneutico. Incarnava (con tutte le varianti che si possono immaginare) un ragionamento di questo tipo: la realtà è una struttura complessa e in parte arbitraria o casuale; è possibile descriverla, ma mai in modo esaustivo, perché ci sarà sempre un elemento che sfugge al sistema, che lo rende imperfetto o inesauribile. In Fuoco pallido manca l’ultimo verso, perché il poeta Slade viene ucciso. Anche in La vita, istruzioni per l’uso Bartlebooth muore prima di completare la sua impresa, e una stanza resta inesplorata. Nei Sillabari Parise scrive uno o più racconti per ogni lettera dell’alfabeto, ma deve fermarsi alla S – come confessa la celebre Avvertenza: «Nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato… La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei… un poco come la vita, soprattutto come l’amore». Come si vede, l’incompletezza del sistema è sempre riferita alla presenza tenera o tragica del fattore umano. Il sistema periodico, per contro, non contempla strappi alle regole; la chimica è il regno della causalità; e la tavola degli elementi in fondo può essere intesa, nel 1975, come una risposta moderata e oggettivante alle fughe e derive anti-sistema della contestazione.

Ho l’impressione che l’autosociografia italiana abbia fatto poco spazio al linguaggio del singolo. Non era il suo progetto e lo sapeva bene. Se questo è un uomo voleva essere un libro di testimonianza storica, non un diario intimo; La tregua e soprattutto Il sistema periodico hanno tracciato attorno all’esperienza storica un’esperienza biografica. Qualcosa di simile si può dire per il rapporto tra l’affresco di Lessico famigliare e i racconti e ritratti e autoritratti delle Piccole virtù. Ma questo recupero dell’io ha funzionato solo fino a un certo punto. Levi e Ginzburg si fondavano su un paradigma di oggettività, quello del socialismo scientifico o della scienza tout court. Pensiamo, per contrasto, a Ernaux: ha alle spalle e tutto attorno un paradigma di soggettività, il “partire da sé” femminista come ripresa e capovolgimento del tradizionale intimismo femminile. Questo fa sì che in lei la profondità dell’osservazione sociale si accompagni sempre a un immediato, e se necessario disinibito, scavo introspettivo. L’ho detta alla grossa; il pericolo è che queste figure di intellettuali appaiano ridotte alla loro dimensione ideologica. Ma credo che ci sia del vero nella mia analisi, e un po’ me ne rammarico, perché nonostante l’amore per Levi e Ginzburg – tra i miei scrittori preferiti in assoluto – credo che solo puntando il compasso sulla sensibilità personale l’autobiografia possa dire ciò che è nata per dire. 

Per trovare qualcosa di simile dobbiamo guardare altrove. A Meneghello, forse? Ne ho poco parlato qui, dovrei riprendere in mano vecchie letture: ricordo, in certe pagine, un senso di tenera freddezza, l’impressione di una intensa esplorazione dell’insensibilità personale, con gli strumenti di una sprezzatura quasi violenta e di una cultura linguistica e stilistica oggettivante; sì, l’attenzione per il linguaggio può produrre, invece di sensibilità, una forma di distacco. A chi, allora? Ad alcuni libri di Ernaux, per esempio L’evento. Oppure alle opere di Michel Leiris, soprattutto la tetralogia La Règle du jeu, uscita negli stessi decenni delle opere di cui abbiamo parlato. Andrea Cortellessa ha parlato della «pazienza eroica, il vero e proprio stoicismo da palombaro col quale per mezzo secolo Leiris ha scandagliato il mare fondo che si agitava dentro di sé».

Qui potrò fare solo un accenno: e me ne scuso. Dunque all’inizio di Biffures, primo volume della Règle du jeu, Leiris si sofferma a lungo sul proprio linguaggio infantile. Racconta per esempio l’episodio in cui una sua esclamazione, – …Reusement! – (qualcosa come: – Tunatamente! – ), viene corretta dagli adulti in “heureusement” (“fortunatamente”). Una biffure è una cancellazione, ma il titolo allude anche alla bifur, la biforcazione. (Biffures esce pochi anni dopo Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges.) La correzione oblitera l’errore – ma gli concede anche una sopravvivenza virtuale. “Per un momento resto interdetto, in preda a una specie di vertigine. Perché quella parola storpiata, di cui ho appena scoperto che in realtà non è quel che avevo fin allora creduto, mi ha messo in grado di oscuramente avvertire – grazie alla sorta di deviazione, di scarto impresso al mio pensiero – in che cosa il linguaggio articolato, tessuto aracneo dei miei rapporti con gli altri, mi trascenda, protendendo da ogni parte le sue antenne misteriose.” 

C’è quindi un doppio movimento: il riconoscimento del proprio idioletto e della lingua condivisa che lo smentisce. Quest’ultima è insieme “tessuto aracneo” e essere dalle “antenne misteriose”, ragnatela e ragno (o altro minaccioso insetto): ha cioè i caratteri dell’oggettività e insieme della soggettività, il che la rende imprendibile. Quanto all’idioletto, si dichiara “storpiato”, assimilando il giudizio della norma grammaticale. Eppure ha in sè anche una potenza particolare, la forza che svela l’esistenza della norma che la “trascende”. La letteratura ci dice la realtà condivisa, ma non può semplicemente enunciarla: ha bisogno di un liquido di contrasto, lo scarto individuale, l’errore conservato nella memoria a distanza di decenni. Se nulla è più personale di ciò che appartiene ad altri, nulla è più comune dell’eccezione costituita dall’io. Se si perde di vista questo, accadrà ciò che annunciava nel 1967 il poeta George Oppen: 

Obsessed, bewildered
By the shipwreck
Of the singular
We have chosen the meaning
Of being numerous.
“Ossessionati, confusi
per il naufragio
del singolare
abbiamo scelto il senso
dell’essere numerosi.”

Testi citati

Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci: letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, Milano 2004, p. 176; Jean-Jacques Rousseau, Le confessioni, trad. Giorgio Cesarano, Garzanti, Milano 1976; Primo Levi, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi, a cura di Gabriella Oli e Giorgio Calcagno, Mursia, Milano 1992, p. 37; Primo Levi, “Vanadio”, Il sistema periodico, in Opere I, a cura di Marco Belpoliti, intr. Daniele Del Giudice, Einaudi, Torino 1997, p. 928; Martina Mengoni, Primo Levi e i tedeschi, Einaudi, Torino 2017 (in particolare la lettera di Levi a Hety Schmitt-Maass del 6 ottobre 1976, p. 151); Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia, trad. Renzo Guidieri, Einaudi, Torino 2003, p. 10; Andrea Cortellessa, “Parole come brecce per filtrare il mondo”, il manifesto, 15 agosto 2012, poi su Doppiozero il 20 agosto in versione ampliata (“Michel Leiris, la vita e il suo doppio”); Michel Leiris, Biffures, pref. Guido Neri, trad. Eugenio Rizzi, Einaudi, Torino 1979, p. 6; George Oppen, On Being Numerous, trad. Marco Rossi-Doria e Anna Maria Savarese, dalla rivista online Lo Sciacallo, a. I n. 2, luglio-settembre 2000.

ARTICOLO n. 9 / 2024

DIALOGO TRA UN QUASI-VEGANO E UN NON SO

Un progetto di liberazione

A — Quindi sei passato al veganesimo.

B — Non precisamente: sono vegetariano da anni, ma da qualche mese sono quasi vegano.

A — Quasi?

B — Provo a spiegarmi. Innanzitutto essere vegani al 100% è quasi impossibile: lo sfruttamento animale è così pervasivo da rendere difficile scovarne ogni traccia in ciò che consumiamo.

A — Questo argomento però vale per chiunque.

B — Certo, infatti non giustifica. Per quanto mi concerne continuo a indossare maglioni di lana (ma non ne compro di nuovi), bevo vino anche non vegano, o mangio le uova di un’amica di mia suocera le cui due galline conducono un’esistenza serena. Infine resto aperto sulla questione dei bivalvi allevati, anche se non mi capita quasi mai di mangiarli. Definirmi vegano senza queste precisazioni sarebbe ipocrita; ma non mi sento nemmeno un vegetariano tout court — non mangio più latticini e sto andando in un’altra direzione.

A — Insomma non è una rivoluzione, è una riforma.

B — Se vuoi. Ma il principio di base resta ridurre il più possibile qualsiasi forma di dolore animale, cominciando dall’alimentazione. A mio avviso ragionare in termini più gradualistici (senza che ciò diventi una scusa per indulgere in eccezioni che tornano a essere regola) non cambia in modo irreparabile la sostanza — posto che si continui a tenere d’occhio l’obiettivo e migliorare. È un po’ come dire che fra chi fuma una sigaretta a Capodanno e chi si fa due pacchetti al giorno non c’è alcuna differenza, sono entrambi fumatori.

A — Ti si potrebbe obiettare che un’etica con queste “mani avanti” sulle incoerenze non è una buona etica.

B — O forse la giubilante caccia alla minima incoerenza altrui è uno degli automatismi peggiori di questa società: tu puoi trovare macchie nel mio stile di vita, e ci mancherebbe altro, ma se lo fai mentre ti sbafi una fiorentina non sei molto credibile. Eppure c’è questa sete di assolutismo unita a un atteggiamento da tribunale permanente che va ben oltre la critica. Sono sempre le etiche altrui a dover essere scevre di compromesso, sempre gli altri a dover essere modelli di coerenza morale; forse serve per tranquillizzarsi la coscienza, non so.

A — E se l’obiezione venisse da un vegano rigoroso?

B — Ti direbbe che io non sono vegano, e avrebbe assolutamente ragione: da cui il “quasi”, che spero non risulti un gioco di parole o l’ennesima etichetta inutile. Sarei lieto di discuterne; ma sto discutendo con te. Che sei onnivoro.

A — Avanti, allora: argomenta la tua scelta.

B — Il primo motivo è il grande rimosso del dolore animale. In estrema sintesi, non trovo giustificazioni per far soffrire e uccidere maiali polli e mucche visto che esistono alternative efficaci sia per l’alimentazione sia per il vestiario. La domanda di partenza resta quella di Bentham: “Il problema degli animali non è, possono ragionare? né, possono parlare? ma, possono soffrire?” Quelli di cui ci nutriamo per la maggior parte possono soffrire di certo. E l’allevamento industriale è una sequela di orrori: ti risparmio video e reportage, ormai si trovano ovunque; se vuoi puoi cominciare dal classico Liberazione animale di Singer o da Se niente importa di Foer.

A — Però qui c’è un po’ di antropomorfismo, non trovi? Gli animali non sanno di dover morire, non hanno le nostre aspirazioni e la nostra idea di futuro.

B — Di sicuro quegli animali intuiscono il pericolo e, come detto, possono indubbiamente soffrire: è una questione di sistema nervoso centrale, non del modo in cui valutiamo la loro capacità intellettiva — un tema senz’altro importantissimo, ma che viene dopo l’applicazione del rispetto morale. Il fatto che un pesce non urli non implica che farlo crepare soffocato sia per lui indifferente. Lo stesso vale per costringere maiali in una gabbia, limitare il loro movimento, e più in generale farli nascere per destinare loro una vita di sofferenze con una condanna a morte già scritta. Può sembrare riduzionismo, ma senza questa premessa non si va molto lontano. Non voglio antropomorfizzare loro — voglio animalizzare noi.

A — E se mi nutrissi solo di carni provenienti da allevamenti sostenibili?

B — Sarebbe già meglio, ma dovremmo intenderci sulla presunta “sostenibilità” con dati concreti e fuori da ogni etichetta di marketing. Inoltre anche in questi casi il dolore non manca. Puoi tenere le tue mucche in libertà e non in orribili celle, ma se vuoi latte e formaggio dovranno essere fecondate e ti toccherà separarle dai figli — un evento straziante, come per ogni madre (stavolta non ti risparmio un video che non ho risparmiato a me, quando mangiavo ancora Parmigiano, ma mi voltavo dall’altra parte). Infine dovrai comunque uccidere gli animali di cui ti nutri: la macellazione non è mai stata un affare indolore, e gestirla su scala planetaria — un massacro di quasi cento miliardi di individui, di cui diciotto miliardi sprecati — moltiplica inevitabilmente la sofferenza. Il che ci porta a un altro punto: nutrire la Terra con allevamenti “sostenibili”, qualsiasi cosa significhi, è impossibile. Allora perché non smettere? O almeno, perché non porsi radicalmente il problema?

A — E i bambini, li fai crescere vegani? E la sperimentazione animale? E…

B — Aspetta. Tutti questi sono temi scottanti di bioetica: possiamo e dobbiamo parlarne, ma almeno cerchiamo di raggiungere un accordo di base — il modo in cui consumiamo gli animali, e l’effetto che fa alla Terra.

A — Ecco, a proposito: non pensi che il veganesimo sia un privilegio dei paesi ricchi? Come deve comportarsi chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, se uno di quei pasti è a base di carne o pesce?

B — Ovviamente deve mangiare carne o pesce. Non mi sognerei mai di predicare regimi di vita all’orbe terracqueo senza distinzioni: però vorrei persuadere le persone che possono cambiare e non lo fanno. Inoltre ciò consentirebbe di alimentare meglio anche l’enorme fetta di persone denutrite: invece di coltivare campi per sfamare animali, li coltiviamo per sfamare noi.

A — Quindi non è una moda.

B — Ma no. Forse il vegano modaiolo — potremmo chiamarlo il vegano fighetto: e Milano, dove vivo, è un po’ il suo habitat naturale — il vegano fighetto, dunque, difficilmente si porrà la questione in termini davvero radicali; magari vedrà nel veganesimo una semplice dieta. Ma non è una dieta: è una pratica politica e un progetto di liberazione.

A — Tuttavia è anche una dieta. E l’idea di campare a tofu e insalata…

B — Figurati. A me piace mangiare bene. Del resto già parlare di “cibo vegano” è sviante, quasi fosse un regime triste che rimpiazza i nostri “buoni vecchi piatti tradizionali”: ma la pasta e fagioli, la polenta e funghi, la caponata, le zuppe di legumi, la vignarola, la panzanella, la farinata, i carciofi alla giudia, gli spaghetti al pomodoro — ecco: sono “cibo vegano”?

A — Ammetterai però che cucinare verdure richiede tempo, e non tutti ce l’hanno.

B — Richiede più tempo di sbattere una fetta di pollo in padella, sì. Ma ogni cambiamento significativo ha un costo, per quanto minimo: anche l’idea che si diventi vegani con uno schiocco di dita è parte della tendenza fighetta di cui parlavo.

A — Ma non ti mancano la carne o il pesce?

B — No.

A — E il formaggio?

B — Talvolta. Una mozzarella è sempre appetitosa, ma rinunciarvi non è un grosso sacrificio.

A — E le proteine e tutto il resto?

B — Bisogna fare attenzione all’equilibrio fra cereali, legumi, semi oleosi, frutta e così via; ma non è poi molto diverso da altri regimi alimentari. Ho fatto gli esami del sangue di recente ed era tutto in ordine — incluse le proteine totali e la famigerata vitamina B12.

A — Però la carne è importante.

B — In realtà non è mai stata centrale per la massa se non da metà Novecento in poi, quando la produzione è quadruplicata.

A— Ok, sui diritti degli animali ho capito l’argomento. Poi?

B — Un attimo: preferisco non parlare di “diritti”, che è un termine teoricamente piuttosto impegnativo, quanto di schietta libertà. Qui superiamo Bentham: oltre alla capacità degli animali di soffrire dobbiamo riconoscere loro la capacità di dirigere la propria vita, senza antropomorfizzarli da un lato o ridurli a meri schiavi dell’istinto dall’altro. Evitare di prenderli come nostra proprietà significa anche riconoscere davvero le loro esistenze infinitamente varie e complesse, abbandonando il concetto di una “animalità” generica. Pensiamo solo alla molteplicità sensoriale che le varie specie mettono in campo: ne parla molto bene Ed Yong nel suo affascinantissimo Un mondo immenso.

A — Torniamo al punto?

B — Sì, scusa: il riscaldamento globale. All’incirca il 15% delle nostre emissioni climatiche sono causate dall’allevamento, che occupa anche la maggioranza delle terre agricole; senza contare lo spreco di acqua e il processo di deforestazione che comporta.

A — Ci sono ben altre azioni urgenti da fare per combattere le emissioni, in primo luogo cambiare la produzione energetica e il modo in cui ci spostiamo.

B — Sono d’accordo, ma smettere di sfruttare gli animali è una delle più tattiche più immediate e non contraddice il resto. Posso impegnarmi per le energie rinnovabili anche mangiando lasagne di verdure, no?

A — Ti ricordo però che anche determinate colture sono dannose per l’ambiente — l’avocado per esempio consuma moltissima acqua — senza contare che frutta e verdura possono avere una notevole impronta carbonica a causa del trasporto. Infine certi prodotti vegani sono comunque molto processati.

B — Ma mica mangio avocado tutte le settimane. È ovvio che occorre buon senso, ma in generale simili argomentazioni odorano di cattiva fede: si punta l’indice contro l’impatto di questa o quella singola coltura, dimenticando i danni assai maggiori inflitti dall’allevamento (che, a quanto pare, aumenterà ancora).

A — Be’, è quasi ora di pranzo. Che mi dici se addento un toast al prosciutto?

B — E che ti devo dire? Buon appetito.

A — Non mi insulti?

B — Scherzi? Se selezionassi le persone in base a quel che mangiano dovrei smettere di parlare con quasi tutti i miei cari, e del resto io stesso sono stato felicemente onnivoro per la stragrande maggioranza della mia vita. Si mangia insieme da sempre: in famiglia, tra amici e tra colleghi: immaginare il singolo consumatore scisso da influenze esterne è troppo comodo — e una paradossale concessione al modello capitalistico. Ritengo però che alla lunga, ognuno a modo proprio, tali resistenze possano e debbano essere superate: insomma non ti insulto, ma non ti dico nemmeno che fai bene.

A — Non sei un estremista.

B — Se per “estremismo” intendi un atteggiamento poliziesco, no: oltre a trovarlo sgradevole in generale, credo nuoccia alla causa avvalorandone la caricatura più diffusa — il moralismo, il senso di superiorità. Si è più interessati a difendere la propria immagine invece di persuadere gli altri con le difficoltà che questo implica. Ciò detto, non mi metto a fare lezioni di militanza ad alcuno.

A — Forse lo sdegno è anche una reazione al pregiudizio nei propri confronti.

B — Può darsi. Già quando ero “solo” vegetariano c’era sempre qualcuno che alzava gli occhi al cielo o reagiva come se lo stessi implicitamente accusando; e so quanto sia complicato difendere certe scelte in ambienti diciamo conservatori — la propria famiglia innanzitutto.

A — Su questo tornerò. Comunque l’obiezione di fondo, la mia quantomeno, resta: con tutti i problemi che abbiamo, chi se ne frega delle bestie. La vita implica darsi delle priorità, e così la politica.

B — Certo, è la replica più diffusa e credo vada considerata seriamente, anche perché siamo tutti nati in una società onnivora fondata sull’antropocentrismo. Ma anche questo è un pensiero estremista, no? Giustificare a ogni costo il diritto a sfruttare animali.

A — Ma un certo grado di antropocentrismo è ineliminabile, altrimenti una vita suina varrebbe quanto una vita umana. E finché non sono stati risolti i problemi umani — dubito a breve — dedicarsi agli animali è un’offesa nei confronti del prossimo.

B — Non è un’argomentazione pericolosamente simile a “Finché non sono stati risolti i problemi degli italiani, dedicarsi ai migranti è un’offesa nei nostri confronti”?

A — No. In questo caso siamo tutti umani.

B — Ok. Però il veganesimo non mette affatto in secondo piano il nostro specifico dolore. Anzi: come abbiamo già visto implica un miglioramento del clima, un aumento di cibo per gli umani, e l’abbandono di certi lavori mortificanti e indegni (non è bello passare la giornata in mattatoio o stipare in un camion decine di animali terrorizzati). E certo non ostacola le lotte che hanno come fine un incremento di libertà sostanziale, dal femminismo alla redistribuzione delle ricchezze; anzi, queste forme di attivismo si legano spesso nella pratica dei movimenti. Il veganesimo è anche un’educazione all’eguaglianza, e apre alla ricchezza del mondo naturale senza le lenti rosa della civiltà carnista — che da un lato decanta tale mondo in un’oleografia di piccole fattorie e mucche sorridenti, e dall’altro lo sfrutta industrialmente senza pietà.

A — E se il mondo diventa vegano, gli allevatori che fanno? Del loro dolore non ti importa?

B — Il mondo non diventerà mai vegano così, di colpo, e del resto vale per ogni cambiamento su ampia scala. Si possono studiare strategie. Del resto anche un mondo senza combustibili fossili è quanto mai auspicabile, ma che ne sarà di tutte le persone che lavorano nel settore? È il ragionamento di chi vuole mantenere lo status quo per interesse: in realtà non gli importa affatto dei lavoratori.

A — E se uno decidesse di spendere tutte le sue energie per dedicarsi (e riprendo il tuo esempio) a soccorrere i migranti nel Mediterraneo?

B — Mettere in competizione le giuste lotte è cattiva polemica. Comunque: quante energie davvero richiede cambiare dieta? Tolti i nobilissimi casi, sempre citati come paravento, concordo con Singer: l’idea per cui gli umani vengono prima “è più spesso una scusa per non fare nulla né per gli animali umani, né per quelli non umani”.

A — Però, parliamoci chiaro — e con questo torno al tema dell’ambiente conservatore: se propinassi tutto ciò a uno dei tuoi ex-compagni delle medie, in provincia, la reazione sarebbe: “Ma secondo te non devo sentirmi libero di mangiare quel che mi pare? Dopo una giornata di lavoro? Ma che vuoi da me?” E tralascio le volgarità in aggiunta.

B — Sicuro.

A — Ecco. Davanti a questa risposta, che si fa? Che si dice al pranzo di Natale mentre gli altri affettano il salame, o in pizzeria con quelli della palestra, o in trattoria con i tuoi colleghi? Fuori dalle nicchie più o meno bendisposte, là dove discutere è più difficile ma davvero si può fare la differenza, quali sono le tattiche?

B — Eh.

A — Parlavi del vegano fighetto: e se lo fossi un pochino anche tu, non per fini ma per comodità? Se non fossi più abituato a mangiare fuori dalla tua bolla?

B — Guarda, è il muro contro cui si scontra ogni movimento radicale, e non ho risposte sagaci: occorre valutare caso per caso, avere pazienza, non assumere atteggiamenti sacerdotali. Realisticamente, già instillare il dubbio è un successo. L’alternativa è chiudersi in un ghetto e ripetersi “Ho ragione” allo specchio, senza incidere in alcun modo.

A — Speravo in qualcosa di più.

B — Mi spiace. Intanto spero di convincere te.

A — Un’altra cosa sulle diseguaglianze. Anche nella filiera di frutta e verdura ci sono terribili storture: pensa al caporalato nei campi di pomodori in Puglia. Il business dell’agricoltura non è meno colpevole di quello dell’allevamento, da questo punto di vista.

B — Non solo, il fenomeno è diffuso anche a nord: un report di Terra! parla dello sfruttamento in Lombardia nella produzione di meloni e insalate in busta (oltre che nella filiera dei suini). Ripeto: è un aspetto da tenere nella massima considerazione, ma non lede i principi-base.

A — Ma se a me gli animali non interessano proprio?

B — Nessuno ti chiede di pensare a loro tutto il tempo. Il veganesimo non è l’estensione del concetto di “carino” al regno animale, dalle pecore ai grilli: come ho detto, è un progetto di liberazione. L’aspetto emotivo è una molla fondamentale, ma senza razionalità ha il fiato corto: quasi tutti provano ripugnanza nel colpire un animale, quantomeno un vertebrato, eppure lasciano che altri — spesso persone senza scelta — lo facciano. Perciò diffido un po’ del vocabolario sentimentale: chi dice di amare tutte le bestie, come chi afferma di amare l’intera umanità, mi fa venire i brividi. L’amore è selettivo e capriccioso, e qui abbiamo bisogno d’altro: franco materialismo, azione diretta.

A — Ma secondo te perché è così difficile far passare il tema?

B — Perché non abbiamo un’educazione al riguardo. Ovvio: se portassimo bambini e genitori in gita al mattatoio le conseguenze sarebbero disastrose per il business. Tuttavia c’è anche un motivo più profondo. In un passo poco noto ma davvero sorprendente, Leibniz disse che non percepiamo l’ingiustizia di uccidere le bestie per mangiarle “perché non abbiamo timore che esse cospirano contro di noi”.

A — In pratica perché siamo più forti.

B — Sì. In Dalla predazione al dominio, Gianfranco Mormino commenta così la frase: «Ciò che condanna gli animali alla situazione presente è una dinamica del tutto simile a quella esercitata nei confronti di tutti i deboli, ossia di chi sappiamo non essere in grado di resistere e vendicarsi»; e quindi «intere categorie umane, non sufficientemente minacciose da rendere pericoloso il loro sfruttamento, subiscono una sorte simile a quella degli animali».

A — E vorresti cambiare tutto ciò cambiando la tua dieta?

B — Ma no. Nessuno da solo conta granché: ma la pratica individuale può diventare collettiva, e serve a vivere già ora in un futuro possibile.

ARTICOLO n. 8 / 2024

VENEZIA E L’ORIENTE, NOI E MARCO POLO

Pubblichiamo un testo di Giovanni Montanaro dalla nuova edizione di Marco Polo, Il Milione (Marsilio). Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Che cos’è, Venezia? Ogni città è difficile da definire, ma Venezia lo è forse più di altre. Se la sua forza sembra la sua immutabilità, la sua identità, il corpo urbano in apparenza più intatto di tutto l’Occidente, in realtà Venezia è cambiata profondamente nel corso della storia. Nella sua funzione, nella sua essenza e persino nella sua struttura.

Nata come città di profughi e saline, divenuta città di pescatori, quindi emporio dei commerci, delle industrie, e dell’Arsenale più grande fabbrica del mondo, fu poi città degli spettacoli, delle arti e del teatro, nel decadente Settecento, e ancora meta dei grandi viaggiatori stranieri, durante l’Ottocento asburgico e quindi italiano, per diventare poi di nuovo industriale nel Novecento, con la scommessa di Porto Marghera. Oggi, invece, appare segnata da una triste vocazione turistica che a tratti pare irreversibile. 

La sua stagione più gloriosa appartiene certamente al Medioevo, quando Venezia era un impero commerciale senza veri confronti. A segnarne il destino, semplificando, furono due crociate; la prima, nel 1099, che le consentì una prima penetrazione coloniale nei mari. E la quarta, nel 1204, che aumentò in modo esponenziale il suo peso geopolitico nel Mediterraneo fino a farne la feroce dominatrice dell’Adriatico, capace per secoli di impedire a qualsiasi potenza rivale di crescere, perlomeno fino a Bisanzio e poi all’Impero Ottomano. 

Era merito dei veneziani, del sistema di governo, delle loro virtù e abilità, ma era senza dubbio frutto anche della collocazione della città nel mondo. La sua laguna era perfetta per costruire, varare, smontare e rimontare le navi, e per impedire le invasioni dei nemici, anche in assenza di mura. Era la sua natura anfibia a renderla concorrenziale. Senza treni e aerei, senza automobili, l’acqua era la rotta più rapida per i commerci, le comunicazioni, le scoperte. La città che oggi è la più lenta per antonomasia era un tempo invece quella più veloce.

È proprio da quel periodo che Venezia diventa la porta, o meglio il porto, per l’Oriente. Per i veneziani, ma anche per tutti gli Occidentali. C’erano i mercanti, prima di tutto, che andavano nel mondo a prendersi pepe e cotone, aromi, tinture, canapa, lino, lana, allume, ceneri di soda per fare il vetro. C’erano i militari, quando si presentava la necessità di combattere, conquistare, per sopravvivere o più spesso per nuovi affari. E c’erano centinaia di pellegrini, i veri “proto-turisti” dello spirito, con le loro guide odeporiche, le locande, gli itinerari. 

Andavano, tutti, sempre, verso Oriente. Non c’era altra destinazione se si partiva da qui. Certo, non c’era un Oriente solo. Ce n’erano numerosi, via via più remoti, esotici: i Balcani, l’Islam, la Persia, la via della Seta, fino appunto alla Cina.

A Venezia già si percepiva, l’Oriente. Non solo per l’architettura della città, vicina ai bizantini, con ori e colori così diversi dall’Europa profonda da cui tanti partivano. Non solo per la luce del suo cielo, le temperature più miti. Non solo perché per arrivarci bisognava passare l’acqua, e quindi, in qualche modo, già essere partiti, come se Venezia fosse sospesa già molto dentro il viaggio. Ma soprattutto perché, a Venezia, c’era già il racconto dell’Oriente. 

Brulicava nelle taverne, nelle locande, nelle storie dei marinai, nei tessuti e negli oggetti, tra le carte nautiche, nei libri che cominciavano a circolare, nei magazzini, nei depositi, nelle lingue, nei volti segnati da ogni colore, che si incontravano camminando, nei mercati e nelle calli. 

Tra tutti i racconti, c’era per eccellenza il Milione. Pareva tutto magico, quel libro. Nato in fondo per caso, durante la prigionia di Marco Polo, era un’epopea roboante, incantevole, superba. Usi matrimoniali stravolti, ragazze che non era bene che restassero vergini prima del matrimonio, le quattro mogli legittime del Kublai Kan, e poi belle scodelle di porcellana, balene ubriacate con il tonno, cavalli senza osso nella coda, l’Armenia e Shang-Tu, e una contrada senza nome in cui non c’è mai il sole. Quel libro forniva centinaia di informazioni sorprendenti, inaspettate, tanto da pensare che chissà se fosse tutto vero, o se non ci fosse invece qualche inesattezza, qualche bugia. 

Era quasi impossibile da verificare però, perché le due tratte di quel viaggio, andata e ritorno dalla Cina, non le fece quasi nessuno per secoli. Il Milione, in questo modo, raccontava non solo il tragitto verso quella terra, ma proprio il senso stesso dell’Oriente, l’essenza della scoperta della diversità.

In fondo, il Milione raccontava così, prima di tutto, la possibilità di cambiare, di godere una vita diversa, di approdare a un orizzonte ulteriore, in una terra nuova, trovare amici e nemici, e altri mercanti, animali strani, e donne e uomini ancora da conoscere, magari da amare. Scritto da una prigione, raccontava la libertà. Era, esso stesso, viaggio, nel significato più profondo della letteratura.

Aveva, in fondo, la stessa cifra di Venezia. Anche Venezia era un gigantesco Milione, un gigantesco racconto, una promessa di futuro. Perché indicava l’Oriente, perché conteneva l’Oriente. Perché qui si veniva per cambiare vita, per cercare fortuna, per scappare dalla prigione, da una moglie, per salvarsi in qualche modo dalla vita. Perché si pensava che fosse Dio, a volerlo, magari, o l’Imperatore. O, soltanto, perché ogni tanto prende la voglia di andare, di cominciare a navigare. 

Venezia è sempre stata, così, la porta d’Oriente, l’inizio del sogno. Con l’Oriente, la città avrebbe mantenuto un rapporto ambiguo, felice e bellicoso insieme, fatto di commerci, battaglie, inusitate alleanze. Lo sarà per tutta la durata della Serenissima e anche dopo la caduta, divenendo uno dei tramiti (pur subalterno a Trieste) del Lombardo-Veneto. E nel Novecento sarà una vedetta di fronte ai Balcani comunisti, quando l’Oriente era la cortina di ferro. E ancora oggi è, insieme a tutto il Veneto, capoluogo di una regione di viaggiatori, esploratori, uomini d’affari, delle imprese che vendono, e poi crescono, o talvolta delocalizzano, impiantando stabilimenti fino alla Cina, all’Oriente di oggi che si chiama Est. 

Certo, Venezia oggi è tutta diversa. Quello che era il più grande e importante porto del mondo è soltanto il settimo in Italia. Quella che era una delle città più popolose ha soltanto 50.000 abitanti che fronteggiano venti milioni di turisti. È una città di altra misura; minima, lieve. Soprattutto, unica. Per la sua fruizione solo pedestre. Per la bellezza senza paragoni. Per il suo essere fragile, minacciata dalla deriva turistica e dall’innalzamento dei mari. Per l’essere forte, però, robusta, tutt’altro che disponibile ad arrendersi, nel mezzo di trasformazioni per salvarla dalla scomparsa.

Così, mai come oggi Venezia rappresenta una diversità, una frontiera. Un diverso modello. È quasi come se la città fosse diventata, in qualche modo, una specie di Oriente essa stessa. Un Oriente per tutto il mondo. Nel tempo globalizzato, sempre più uguale nonostante le profonde differenze, è come se Venezia potesse ancora rappresentare un’alternativa.

O, perlomeno, come è sempre stata, come è il Milione, un desiderio. Di trovare un altro mondo. Di cambiare. E poi, chissà, forse, anche di ritornare. 

ARTICOLO n. 7 / 2024

SVUOTAVO LA CAMERA DI ANDREA

storia di un figlio

Quando Ryan e io decidemmo di fare un figlio, non vedevamo l’ora di incontrarlo. Io gli avrei parlato esclusivamente in italiano, Ryan gli avrebbe insegnato a suonare la chitarra, sarebbe andato con lui allo stadio per vedere i Red Sox. Avremmo mostrato come dei pavoni questa nostra creazione, nata da una combinazione di cellule, di DNA perfetti. Più cresceva la pancia, e più cresceva una fierezza anticipata, la certezza di una vita perfetta.

Siamo talmente abituati a ignorare la divergenza intellettuale che, quando decidiamo di avere un figlio, non immaginiamo minimamente che potrebbe nascere diverso da noi. Si pensa che imparerà a camminare, a parlare, poi a scegliere, decidere, studiare, innamorarsi, fare carriera, fare famiglia, avere figli di suo. Anzi, non si pensa semplicemente: si è convinti.

A novembre, nostro figlio Andrea ha compiuto ventisette anni. Siccome odia festeggiare il suo compleanno, attorno alla tavola c’eravamo io, Ryan, Alex e Vera. Andrea era in camera sua, a gustare il suo piatto preferito: gnocchi fatti da me. In frigo non c’era la torta e neanche lo spumante. Avevo messo due candeline come centrotavola, ma quello lo faccio sempre. Si parlava di come fosse così strano avere un fratellone che odia sia regali che compleanni, e ridevamo del fatto che, come ogni anno, era stata una fatica fargli aprire i pacchettini. E poi che, alla domanda: “Ti sono piaciuti i regali?”, lui rispondeva sempre con un no secco. “Cosa stiamo ancora qui a fargli i regali se li odia così tanto!”, diceva Vera con la bocca piena. 

In realtà, ci sono tante cose che ancora ci aspettiamo che Andrea faccia per apparire più simile a noi, per capirlo meglio. È uno strascico della difficoltà che abbiamo dovuto affrontare dopo aver ricevuto le diagnosi di autismo e sindrome di Down. Perché la prima reazione è sempre la stessa: non lo accetterò mai. È normalissimo in una società in cui, vale la pena ripeterlo, non siamo educati a convivere con persone diverse da noi. Credo che, a parte qualche piccolo dettaglio (siamo ancora tutti curiosi di sapere qual è il suo colore preferito o conoscerlo più a fondo), negli anni noi quattro siamo riusciti ad accettare Andrea per quello che è. Siamo tutti molto fieri di lui e non ci vergogniamo quasi mai, neanche quando si presenta in sala indossando solo una calza sul piede sinistro e un’erezione da fare invidia a John Holmes. 

Andrea ci ha resi persone migliori. La prima cosa che ci ha insegnato è come il termine normalità non significhi nulla.Ogni società ha tradizioni, credenze, regole sociali diverse; quindi, la normalità come la concepiamo noi è diversa da chi abita al di là del confine. Ci sono poi “normalità” ancora più difficili da comprendere: alcuni genitori estremamente religiosi, per esempio, sono disposti a picchiare i figli purché non si comportino come i loro coetanei occidentali. In Cina, sputare è considerato un gesto normale; per alcuni è normale la circoncisione maschile, quella femminile, purtroppo, anche. Per chi è cresciuto in queste culture, siamo noi gli strani, i diversi, quello che i loro figli non possono essere. Ma non solo. La normalità come concetto è anche uno scudo che usiamo per non vedere altre realtà, che spesso critichiamo senza conoscere. La normalità delle persone diverse da noi e simili ad Andrea ne è un ottimo esempio. Un altro è quella delle persone non cis; o di religione ebraica, o musulmana, delle donne e degli uomini. Lo scudo ci ha reclusi in una piccolissima zolla di terra in cui non è concessa alcuna deviazione.

Il mondo in cui Andrea ci ha catapultati è l’opposto del nostro. La parola d’ordine è empatia, e gli obiettivi delle persone che ne fanno parte non hanno nulla a che fare con i soldi, la carriera, la cultura, l’accumulo di oggetti. Non esiste competizione, e l’empatia senza competizione brilla ancora di più. Andrea ha portato questi principi nella nostra famiglia con estrema naturalezza, e ha condizionato molto anche Alex e Vera. Ogni volta che andavo a parlare con i loro insegnanti, parevano sorpresi dalla naturalezza con cui davano una mano a chi rimaneva indietro. Per loro, aiutare una persona che ha più bisogno è un’ovvietà. Come si fa a casa, d’altronde: rinunciare a molte attività senza rimanerci male, apprezzare qualsiasi passo in avanti, anche se impercettibile agli altri e festeggiarlo, a volte con le lacrime agli occhi. Andare a trovare Andrea nella sua scuola, dove gli strani siamo noi, e sapersi comportare con persone diverse. Tutte esperienze vissute da quando sono nate.

Un’altra cosa che Andrea ha portato in famiglia è la ricerca della felicità e della libertà assolute e fini a se stesse. La nostra felicità si basa sul successo, la fama, i soldi, perché sono gli strumenti che, per come abbiamo strutturato la nostra società, ci rendono felici. I genitori sognano per i figli una carriera, il successo che possa concedere loro di avere una casa grande, vacanze esotiche. Andrea ci ha fatto capire che nel suo mondo la felicità non si trova in questo, ma nelle piccole cose trovate sul nostro cammino e amarle: una cover di una canzone orrenda di James Taylor, un pacchetto di biscotti al cioccolato, un bacio o un abbraccio. Lui è felice così, nella gratificazione immediata, senza bisogno di pensare al dopo. La libertà secondo Andrea riguarda invece le regole sociali: semplicemente le ignora: se ha voglia di abbracciare una persona che non conosce, lo fa. Se ha voglia di una patatina, la ruba a chi le sta mangiando al tavolo di fianco al suo. Non capisce perché dovremmo vergognarci di mostrare alcune parti del nostro corpo, di chiudere la porta quando andiamo in bagno, di dover fingere di apprezzare una pietanza che non ci piace. Ora, è ovvio che una società basata su biscotti e musica bruttina e furto di patatine non è concepibile, ma lo è lo spirito, non solo: è una prospettiva allettante quasi più umana di quella che è davanti a noi. C’è del magico nell’osservare chi va contro, ma senza polemiche. La lista di cose che ci hanno resi migliori grazie a lui è lunga: la conquista della pazienza; la libertà di rispondere a domande inappropriate su di lui senza battere ciglio; la necessità di trovare altri strumenti per comunicare oltre che la voce e i gesti. E sono solo alcune.

Qualche giorno dopo il compleanno di Andrea, ho cominciato a svuotare la sua camera. Dopo due anni di ricerca, abbiamo finalmente trovato una stanza per lui in una casa-famiglia in cui vivono già tre altre persone autistiche a basso funzionamento, che vengono seguite da tre o quattro operatori. È in campagna, è molto bella, e dista un’ora da casa nostra. Non sto qui a spiegare il garbuglio di sentimenti che questa nuova fase della nostra vita ci ha provocato. Dico solo che allo stesso tempo è orrendo e stupendo. Orrendo stare senza di lui, stupendo che si senta pronto a fare un passo così grande e importante. 

Svuotavo la camera di Andrea e mi sono ritrovata a piangere, tanto per cambiare. Impacchettare i suoi oggetti è stato come rivivere le sue diverse fasi ossessive: le cassette, poi i CD, poi i DVD; i libri di Doctor Seuss e di Jim Croce; le calze mezze ciucciate. Ognuno di questi beni è testimone di molti momenti felici e qualche momento triste, difficile. Nella valigia ho messo i giochi da bimbi piccoli che ama, quelli che quando si schiaccia il bottone, la mucca fa MUU e il gatto fa MIAO. La scatola di fotografie che aveva rubato e con cui aveva dormito; i poster di Stevie Wonder, Bob Marley, James Taylor e Sting; il suo orsacchiotto Boris, che lo ha accompagnato in ogni sala operatoria; la sua unica cravatta usata per andare al Bar Mitzvah del figlio di amici. 

Svuotavo la camera di Andrea, dove per anni ha incontrato miriadi di terapeute comportamentali il cui compito era di insegnargli ad essere più simile a noi, come se essere come lui fosse sbagliato. Giornate sprecate a fare il bucato, dire grazie e prego, saper aspettare il proprio turno, svuotare la lavastoviglie, apparecchiare, mettere via la spesa, saper pagare. Mille istruzioni utili per vivere al meglio, ma nel nostro mondo. Andrea è perfetto così com’è. Ma dico io: davvero pensiamo che un giorno potrà andare al supermercato, mettere nel carrello quello che vuole, aspettare in fila, pagare, arrivare a casa, mettere via la spesa, fare il bucato? “E dunque perché insistere a insegnargli queste cose?”, chiedevo, basita. “Ma non è forse che siamo noi, che abbiamo anche un cervello che funziona meglio, a provare ad adattarci alla diversità invece che imporlo a uno come lui? 

Svuotavo la camera di Andrea e mi sentivo affogare dai sensi di colpa nei confronti di famiglie italiane con il loro, di Andrea, che non hanno accesso a nessuno di questi servizi, che non posso affidarsi ai servizi sociali, perché avere a disposizione dallo Stato, e cioè senza pagare un euro, una casetta in campagna a un’ora da casa, con quattro camere da letto, una per ogni persona che ci vive, con tre, quattro operatori, sembra fantascienza. Il senso di colpa nel pensare che chi è nato in un posto in cui ci sono risposte serie al dopo di noi ha il privilegio di poter invecchiare relativamente tranquillo, mentre se è nato da un’altra parte diventa un peso non solo per la società, ma anche per la famiglia. Mi sono ricordata, a voce alta, di non lamentarmi mai e poi mai. 

Svuotavo la camera di Andrea ed ero certa che sarebbe stato pronto per questa sua nuova fase, sicuramente più di noi. Andrea è la persona più difficile con cui convivere: non si taglia la carne, non si lava o veste da solo, non sa pulirsi dopo aver fatto la cacca, usa pochissime parole, storpiate, ed è molto complesso comunicare con lui. Come se non bastasse, è sempre addosso a me: il suo gioco preferito non è la mucca che fa MUU. Sono io, i miei capelli, il mio viso da baciare sempre, il mio collo da stringere, il mio sonno da disturbare, il mio silenzio da riempire, la mia libertà da limitare. Non è facile dedicare ventisette anni a una persona come lui. 

Eppure, è stato e continuerà a essere la persona più normalmente straordinaria che io abbia mai conosciuto.

ARTICOLO n. 6 / 2024

DENTRO L’ARCA DI PROMETEO

Una conversazione con Veniero Rizzardi

Di tanto in tanto l’instancabile abitudine di festeggiare gli anniversari a cifra tonda si rivela efficiente nel suscitare interesse attorno a qualcosa che forse altrimenti non ne raccoglierebbe. Ben venga dunque l’occasione per riprendere il Prometeo di Nono a cento anni dalla nascita del suo autore e quaranta dalla “prima”, per di più nel preciso luogo in cui era stata eseguita, la chiesa sconsacrata di San Lorenzo a Venezia. La notizia ha infatti prodotto, oltre a un immediato sold out per quattro recite, aspettative tali da spiazzare, anche solo per un momento, un giustificato pessimismo attorno alle sorti della musica d’arte contemporanea. Quando Nono taceva, nel 1990, si stava da tempo chiudendo una stagione nella quale le cosiddette avanguardie erano ancora tali, e non ancora un comparto tra gli altri nel sistema delle produzioni simboliche. Allora il discorso sulla musica nuova non si era ancora condannato all’irrilevanza, polarizzato tra l’accademia e un “culto” di nicchia più o meno informato.

Il prestigio sociale di un artista come Nono era indiscutibile, un dato di fatto. Le sue concezioni avventurose e radicali trovavano risorse (pubbliche) per essere realizzate, e andavano incontro agli interessi di una platea curiosa, che poteva almeno seguire, se non condividere, e in ogni caso rispettare una ricerca tesa, originale, anche utopica, come era la sua. E quando nel 1984 Nono compì Prometeo, i paginoni centrali dei quotidiani erano occupati da anticipazioni e interviste. Le caratteristiche di evento d’eccezione, d’altronde, Prometeo le aveva tutte: un’opera immaginata al di fuori di ogni genere convenzionale nasceva in un’“arca” progettata da Renzo Piano dentro un luogo unico come San Lorenzo; il composito testo poetico era stato scritto da Massimo Cacciari; dirigeva Claudio Abbado; Emilio Vedova, inizialmente coinvolto per un’elaborata scenografia poi non realizzata, si prestava tuttavia come “maestro alle luci”. Inoltre, due strutture produttive erano impegnate nella complessa realizzazione elettroacustica, lo Studio sperimentale della Fondazione Heinrich Strobel di Friburgo, con Hans Peter Haller, e il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova, con Alvise Vidolin. La produzione era congiuntamente della Biennale di Venezia e del Teatro alla Scala di Milano.

Oggi il primo riallestimento in situ di un simile lavoro, a cura della Biennale, deve fare a meno di una componente strutturalmente e simbolicamente importante, anzi costitutiva: l’arca di Piano, da tempo smantellata e conservata ma probabilmente irrecuperabile; d’altronde è l’ordine del tempo a stabilire, di necessità, che una ripresa, a quarant’anni di distanza, non possa essere letterale: tutte le opere musicali – anche questa, nella sua unicità – sono destinate a rivivere in altro modo, impossibile pantografarle attraverso gli anni. Tuttavia Prometeo può giungere intatto alle orecchie dei contemporanei, in una veste differente, ma altrettanto se non addirittura più sobria, nel rispetto di quella che Nono definì “tragedia dell’ascolto”: dove le fonti sonore, voci, strumenti e altoparlanti si confondono, alla vista come all’udito, in uno spazio nel quale non ha luogo nessuna azione, nessuna narrazione convenzionale, ma in cui si dipana attorno all’ascoltatore una drammaturgia di masse sonore che allude a un rituale senza evocare niente di riconoscibile.

Prometeo ha avuto una lunga gestazione. Nono iniziò a concepirlo all’indomani della sua seconda “azione scenica”, Al gran sole carico d’amore, andata in scena al Teatro Lirico di Milano nel 1975. Probabilmente pensava a una nuova e diversa realizzazione di teatro musicale, fino a che, nel corso di almeno tre anni, capì di dover rinunciare del tutto ad azione, scena e costumi, per provare a soddisfare il suo bisogno di una drammaturgia assoluta su di un piano non direttamente rappresentativo. Nel frattempo, avveniva un ripensamento profondo della politicità che la sua musica aveva espresso fino a quel momento; ripensamento che coinvolgeva anche il problema del ruolo sociale dell’artista, da sempre centrale nel suo lavoro. In un tale momento di crisi, l’incontro con Massimo Cacciari significava anche condividere la necessità di rimettere in discussione il quadro dei riferimenti culturali ereditati dalla tradizione del movimento operaio. Nono era così pronto a raccogliere, nel mentre Cacciari la veniva elaborando, gli esiti di un’indagine filosofica sul farsi della modernità. Le fonti: Hölderlin, Benjamin, Nietzsche, Schönberg, insieme al mito, Eschilo, Euripide, Sofocle, Esichio, Esiodo, Pindaro.

Questo, per sommi capi, il paesaggio dei pensieri in cui nasceva Prometeo, fin da subito molto descritto e spiegato, teorizzato, in numerose pubblicazioni, interventi, colloqui. Fu anche pubblicato un volume intitolato Verso Prometeo, a cura di Cacciari stesso, come se le peripezie legate alla genesi dell’opera fossero tanto importanti quanto i suoi elementi costitutivi. 

In uno di questi colloqui fu coinvolto anche chi scrive, e le ragioni per cui lo si riproduce qui, a distanza di quarant’anni, sono legate a un oggettivo interesse di contenuti, oltre che alla natura di inedito de facto: l’intervista comparve su un quotidiano in occasione della prima e non fu mai più ripubblicata. Le informazioni e i pensieri di cui Nono ci rende partecipi sono espressi in maniera schietta, aperta e interrogativa, un atteggiamento per lui abituale, ma tanto più evidente per il fatto di trovarsi di fronte un giovane. Con tutta la sua riluttanza a dare lezioni (pochissimi e quasi casuali sono stati i suoi allievi), Nono era continuamente avvicinato da giovani desiderosi di ricevere da lui un parere, un consiglio, un orientamento; ma nel rivolgersi a loro non assumeva mai la postura del padre o del maestro, piuttosto ne agiva i ruoli condividendo con l’interlocutore le questioni e i problemi che lo toccavano in quel momento. Ne avevo fatto io stesso esperienza.

Avevo incontrato Nono alcune volte in quei primi Anni Ottanta. Ci ritrovammo in un corridoio di Ca’ Giustinian a fare anticamera, ambedue in attesa che Mario Messinis, allora curatore della Biennale, ci ricevesse. Ne approfittai per dimostrargli il mio entusiasmo a proposito della musica che avevo ascoltato la sera prima: IO, frammento dal Prometeo aveva inaugurato la Biennale Musica nel settembre del 1981 – appunto, già nel titolo un “cartone” preparatorio, in realtà un’opera in sé compiuta che diede una prima spettacolare dimostrazione del suo nuovo orientamento. Nono mi impressionò per la disponibilità ad aprirsi e parlare del suo lavoro in modo semplice e in apparenza privo di schermi o filtri, come se stesse ragionando con sé stesso; mi sorprese anche il suo modo sottile, del tutto spontaneo, di entrare in confidenza e di stabilire complicità, esprimendosi in modo ironico ed ellittico.

Tre anni dopo, quando fu la volta di Prometeo, lo incontrai per parlare dell’opera, in un colloquio più strutturato. Ancora una volta era un pomeriggio di settembre, sedevamo sulle poltroncine di tela rossa, sospesi a tre metri dal pavimento nell’arca dentro San Lorenzo, dove passavo di tanto in tanto per seguire le prove, assistendo al lavoro di assemblaggio e affinamento del materiale composto. In quel luogo inventato, che non era una scena ma piuttosto la casa dell’opera, si ascoltavano i suoni e magari si assisteva alle sfuriate di Nono nei confronti di qualche solista; si andava a trovare Alvise Vidolin e Sylviane Sapir chiusi in un cubicolo di legno, intenti a governare i sistemi informatici, rumorosi per via delle ventole di raffreddamento, preposti alla generazione dei suoni di sintesi. Questi poi scomparvero dalle versioni successive. È a questo che si riferisce Nono nell’intervista quando parla del sistema 4i

Parlando con lui, lo trovai ancora più schietto, problematico, interrogativo ma anche entusiasta dell’opera che stava letteralmente prendendo forma in quei giorni. Il discorso tocca alcuni degli aspetti più appariscenti di Prometeo per come era stato annunciato, e Nono ritorna sui suoi temi favoriti, il bisogno di discontinuità e dell’incontro con l’imprevisto, l’assolutizzazione dell’ascolto; allo stesso tempo, dalle pieghe del discorso emergono aspetti non premeditati, come il desiderio di suscitare qualcosa di primordiale e, sul finale, quella che pare l’attesa del balenare di una rivelazione. 

[Il colloquio fu raccolto su nastro alcuni giorni prima della pubblicazione, che avvenne su La Nuova Venezia il 25 settembre 1984. Riprendo la trascrizione che ne feci allora, poiché, purtroppo, non posso più ricontrollarla sulla registrazione. Soppressi sicuramente qualche esitazione, ma sono sicuro che non cercai di normalizzare il discorrere di Nono che, almeno in quella circostanza, si espresse in modo molto fluido ed eloquente] 

Veniero Rizzardi: Come si situa l’invenzione musicale in rapporto a un testo così caratterizzato?

Luigi Nono: Certo non è mia intenzione rappresentare alcunché, mai ho voluto con i suoni cercare di fare altro da ciò che è possibile fare con i suoni. Da tempo rifiuto ogni concezione logocentrica. Qui il suono diventa esso stesso tragedia. Per questo il sottotitolo “tragedia dell’ascolto“: è il suono soltanto a dire, ma non a dire programmaticamente… il suono inteso come fenomeno fisico, usato all’interno di trasformazioni di diverso genere, come avviene con l’elaborazione in tempo reale che lo studio di Freiburg è in grado di ottenere, o con i suoni interamente sintetici prodotti dal processore 4i, o con i suoni dell’orchestra. Tutto ciò si scompone, si sovrappone in questi spazi infiniti, che sono il prodotto dell’arte combinatoria di Renzo Piano, tra il suo legno e il suo acciaio, e le pietre di San Lorenzo.

VR: In questo interesse alle trasformazioni del suono si ritrova un importante elemento di continuità rispetto al tuo lavoro precedente. Dunque anche il testo è un ispiratore di queste elaborazioni. 

LN: Certo, il testo è un provocatore, e insieme viene trattato come segnale acustico… e non è un insieme di significati chiusi, ma di significanti… ciò che per me rappresenta una problematica apertissima, e la domanda sul che cosa questo significante diventa, come si trasforma. In genere ci si interroga sul senso del risultato, sulla sua lettera. A me interessa molto di più seguire le trasformazioni cui questo elemento va incontro nel vagabondaggio per spazi come questo. 

VR: Ma se è il suono soltanto a poter dire, in questo Prometeo che peso hanno i residui di rappresentatività immessi nell’opera sotto forma degli interventi luminosi di Emilio Vedova, degli stessi spazi ideati da Piano…?

LN: Lo so, lo so… Quando mi sono trovato di fronte questa struttura, compiuta, mi sono reso conto con spavento che c’era moltissimo da vedere… Basta girare l’occhio, e cambia tutto, spazi, proporzioni… Tra tutto questo e la musica non direi che c’è contraddizione, no, ma un conflitto sì,  che può condurre a delle scoperte… Vi sono due modelli di ascolto che entrano qui in conflitto, credo: quello della ritualità cattolica, in cui la musica ha più fonti sonore e per uno spazio in cui la visualità è per i mosaici, o i quadri, o le pale; e la ritualità ebraica, in cui da vedere non c’è quasi nulla… A ogni modo c’è qui una chiara riproposizione di una situazione d’ascolto perduta: in tutte le chiese, dal gotico, dal normanno, da San Marco, fino a Sant’Andrea di Leon Battista Alberti a Mantova, l’organo e le cantorie sono disposti a mezza altezza. Appunto, da molto tempo si perpetua una falsificazione grossolana proponendo concerti in chiesa secondo il modello della sala da concerto… Insomma, nello spazio del Prometeo, come nella mia partitura, c’è veramente di tutto: scoperte del Novecento e scoperte di duemila anni fa, tutto insieme, con la tecnologia più aggiornata: c’è un’orchestra, quella di Claudio Abbado, c’è il processore 4i, che spesso compiono operazioni molto simili, come l’uso dei microintervalli; c’è l’apparecchio ideato da Hans Peter Haller, l’Halaphon, che può far compiere al suono percorsi anche molto complessi, rimandandolo da un angolo all’altro di questo spazio, facendolo passare sotto il pavimento, e poi in alto… 

VR: Allora c’è anche un recupero di un modello rituale di ascolto, storicamente piuttosto ben caratterizzato… 

LN: Non rifiuto affatto la ritualità. La musica, qualunque musica, si consuma come rito. È rito, negativo e demagogico, il concerto in piazza con la Nona sinfonia di Beethoven, un mega concerto dei Clash è un altro tipo di rito, così come trenta persone attorno a un quartetto d’archi… Qui si è raggiunto un risultato nuovo, credo, grazie a partecipazioni geniali: quella di Piano, che ha inventato, oltre a una struttura formata fornita di caratteristiche visuali di grande originalità, una formidabile “macchina da musica”, una macchina acustica che interagisce con lo spazio della chiesa in modo straordinario; quella di Abbado, che ha messo a disposizione la sua esperienza e le sue doti di interprete per un’esperienza totalmente differente da quella dei suoi concerti abituali; e poi ci sono i pensamenti di Massimo Cacciari, le sue continue escogitazioni, così innovative, così necessarie nella loro provocatorietà; la disponibilità umana di Emilio Vedova che ha intuito, nel gioco di luci progettato ed eseguito insieme a Vannio Vanni, gli elementi primordiali di questa tragedia dell’ascolto… ecco, davvero direi che tutti hanno contribuito a rendere espliciti i caratteri primordiali che questo lavoro possiede.

VR: L’ultimo tuo grande lavoro scenico è stato, nove anni fa, Al gran sole carico d’amore, che è profondamente diverso da questo Prometeo in tutti i suoi aspetti, musicale, rappresentativo… Vorresti provare a misurare la distanza che ti separa oggi da quella esperienza? 

LN: Allora la grande scoperta era stata quella di Jurij Ljubimov e della sua teatralità, che rappresenta oggi la continuità con una scuola teatrale che amo moltissimo, quella cioè di Mejerchol’d. Lo spazio del Teatro Lirico di Milano mi aveva posto limiti precisi, così come oggi la struttura di Piano, la scelta di San Lorenzo hanno cambiato tutto per me, hanno indirizzato tutto il mio lavoro attuale. E poi allora mi valevo dell’elaborazione elettronica analogica, pur con l’aiuto dello straordinario Marino Zuccheri [lo storico tecnico dello Studio di Fonologia musicale della RAI di Milano, ndr]. Ci possono benissimo essere delle discontinuità, delle rotture… Io amo queste rotture, ho bisogno di buttarmi senza rete di protezione, di mettermi a ristudiare tutto, di rimettermi in discussione… Non è un partire da zero, ma un ridiscutere tutto ciò che hai fatto fino a un certo momento: e allora operi con filtri, con lacerazioni se necessario… Credo che questo modo, attuale, di scrivere, di pensare per frammenti non significhi impotenza nei confronti del grande progetto. È lo stesso progetto a non significare più nulla, non ha davvero più senso la programmabilità delle operazioni. Davvero, io ho necessità di poter esercitare una critica scarnificante sul mio lavoro… Su ciò che siamo, o su ciò che non siamo pensando di esserlo. È solo in questo modo che ci si può tenere aperta la possibilità di sorpresa, che può manifestarsi in un balenio, che appare…

ARTICOLO n. 5 / 2024

MEDUSA: UNA BAND DI BASSO E BATTERIA

conversazione collettiva

La creatività collettiva è da sempre presente nel panorama culturale italiano, ma raramente le viene rivolta la stessa attenzione riservata a quella individuale. Per fare luce su questo mondo, su come nasce e come si manifesta, diamo il via alle Conversazioni collettive: una serie di interviste con diversi collettivi italiani svolte da noi, Montag, un collettivo di scrittura.

In questo primo appuntamento abbiamo intervistato MEDUSA, un collettivo composto da Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, che dal 2017 pubblica una newsletter omonima per raccontare e divulgare la crisi climatica. Il loro libro, Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) è stato pubblicato da NERO nel 2021. 

MONTAG: Volevamo partire da una domanda che faremo a tutti quanti i collettivi con cui converseremo. Vi riconoscete nella definizione di “collettivo”? E, se sì, cosa significa per voi?

MEDUSA: Se un collettivo è uno spazio in cui bisogna negoziare le scelte, le decisioni, i rapporti che si creano, il linguaggio che si adopera per interfacciarsi col mondo, se questa negoziazione è alla base del progetto, allora siamo un collettivo. Da altri punti di vista sappiamo che i collettivi sono organismi più complessi del nostro. Noi siamo più che altro un duo, una band di basso e batteria, che ha anche i propri progetti solisti. Ma quando ci mettiamo insieme uniamo, integriamo e completiamo qualcosa dell’altro. Il progetto comune è diverso dalle cose che facciamo ognuno per conto suo. Sappiamo che certe cose possiamo e vogliamo scriverle solo sotto lo sguardo di MEDUSA. Stiamo lavorando e abbiamo lavorato a pezzi, racconti e idee di romanzo per MEDUSA. Quando siamo in due cambia il modo in cui pensiamo alla scrittura, perché sappiamo di essere su un terreno comune, che abbiamo costruito insieme e che conosciamo ormai molto bene. Il progetto è nato sette anni fa: ormai sappiamo come muoverci, come editare l’altro, cosa voler tradire e cosa voler rispettare: ogni volta sappiamo dove stiamo camminando. E quindi sì, siamo più un duo che sa quale album viene prima e, se si mette a pensare un nuovo album, sa che può spostare l’asticella o il ritmo o la sperimentazione artistica da una parte o dall’altra.

MONTAG: Torna l’immagine musicale dei Wu Ming. Anche loro si definiscono spesso come una band.

MEDUSA: Sì, alla fine è così. È una cosa un po’ inspiegabile, alchemica, oscura. Quando si mettono insieme più teste si crea un’intelligenza collettiva, da alveare. E finché funziona, è bellissimo. Ci si capisce al volo. Noi a volte, in maniera preoccupante, pensiamo le stesse cose a distanza. Non solo quando scriviamo. Ci è capitato di aprire Telegram e mandarci lo stesso link, articolo o video, nello stesso momento. A livello di scrittura, poi, succede si sviluppi una postura quasi mimetica: abbiamo assorbito alcune qualità, alcune caratteristiche dello stile dell’altro, e quando scriviamo su MEDUSA ne facciamo uso senza problemi. Anche per questo, nel libro, abbiamo deciso di usare la prima persona singolare: solamente nell’introduzione dichiariamo di essere in due, siamo un noi, ma da lì in poi spariamo in un io, un autore singolo, e usiamo la prima persona singolare. A volte ci capita di riaprirlo, leggere un paragrafo e non sapere chi l’abbia scritto.

MONTAG: Ragionando sul rapporto tra negoziabilità e complessità nelle diverse forme di collettivo, questa è una cosa che abbiamo ritrovato molto nella relazione tra la forma che adottate per lavorare e creare insieme e le tematiche che affrontate, soprattutto nei termini di una tensione tra l’unità e le sue parti. Ci è piaciuto l’esempio che avete fatto in Storie dalla fine del mondo sulla “unica grande nota” di Zappa: tutto quanto è un’unica nota dal cui interno nascono le varietà, non esistono solisti, ma tutto si tiene in una grande armonia. È un po’ la stessa cosa che si viene a formare nel momento in cui entrambi vi mandate la stessa cosa su Telegram, quando avviene quella consonanza. Vi riconoscete in questa descrizione?

MEDUSA: Diciamo che non riusciamo a immaginarci un collettivo che nasce da persone che non vanno d’accordo, che non hanno una relazione sana e un’amicizia. Se le idee sono degli accordi, ci sono anche degli armonici, ci sono delle ottave, ci sono sempre delle differenze di interpretazione, che possono essere minime e cambiare nel tempo. A volte la sensazione è che abbiamo capito il nostro punto di vista leggendoci, piuttosto che parlando, perché ci sono operazioni e ragionamenti complessi da mettere su carta e di cui nella vita di tutti i giorni non si riesce a parlare, per esempio cosa si pensa della decarbonizzazione, o dell’ironia degli scrittori postmoderni.

Questa unione impossibile tra l’unità e la collettività è una delle cose che ci interessano, che nutrono il nostro sguardo e ciò che abbiamo scritto. In un certo senso è uno scontro tra la vita quotidiana, quindi l’unità, e la vita collettiva, quindi la vita della società. È uno sfogo cui abbiamo dato la forma di saggio narrativo o di racconto. Qualche settimana fa, intervistando Orhan Pamuk, Matteo ha citato Tolstoj, che dopo 700 pagine di Guerra e pace se ne prende qualche decina per raccontare la sua filosofia della storia. Sono pagine teoriche in cui dice che gli esseri umani hanno due vite: una vita individuale che segue dinamiche prevedibili, meccaniche che dipendono dai suoi umori, dalle emozioni, dai bisogni; e poi c’è la “vita-sciame”, la vita delle società, che segue invece relazioni talmente complesse che al singolo risultano impenetrabili, quasi divine. Senza poterla formulare con lo stesso acume di Tolstoj, è però una cosa a cui in effetti pensiamo spesso: il ruolo dell’individuo nella collettività, ma anche il senso di impotenza dell’individuo rispetto a essa, davanti a questioni enormi e incontrollabili, davanti a oggetti come le crisi climatiche e le guerre. Questa è di sicuro una delle cose che ci ha spinto – che ci spinge – a scrivere. Storie dalla fine del mondo parte proprio da lì, da quell’unica grande nota incomprensibile che citava anche Zappa.

MONTAG: Ancora sul tema del rapporto con la società: perché fare collettività oggi? Qual è la potenzialità del lavoro collettivo rispetto al lavoro individuale? Il funzionamento di tutta questa complessità si può cogliere meglio attraverso una dinamica collettiva?

MEDUSA: Vi diamo una risposta fenomenologica. C’è qualcosa nello spirito del tempo: il mondo è dominato da sistemi complessi come internet, e qualsiasi altro aspetto della nostra vita è imbrigliato in qualche rete grande o piccola. E la risposta è sempre più, anche negli artisti, di unione e di condivisione. Anche dal punto di vista politico, ci sembra che ci siano molti più gruppi che si stanno finalmente organizzando e hanno bisogno di mutuo appoggio e mutua assistenza per riuscire sia a decifrare il problema che a capire come superare le difficoltà. Pensiamo a Ultima Generazione o Extinction Rebellion, gruppi locali che sono arrivati a unirsi in reti internazionali (e viceversa). Ma questo discorso si può leggere anche nella musica: negli ultimi anni il rap, la trap sono dominati dal featuring, ormai moltissimi album sono praticamente playlist di duetti e collaborazioni. Non è più strano vedere un album con dodici nomi che poi va nella discografia di uno solo degli artisti. Non è mai stato così.

Poi, pensandoci meglio, è anche vero che molto sta in come i periodi storici si raccontano, nel modo in cui le società si autoanalizzano. Sicuramente c’è questa tensione, dei pattern comuni, oggi. Ma se si va a rivedere la storia del Novecento, i giovani hanno spesso formato dei collettivi di un qualche tipo. Le riviste sono il miglior esempio possibile. A inizio Novecento c’era Lucciola, che era una rivista femminista, l’abbiamo scoperta grazie al nostro amico Ivan Carozzi, una rivista incredibile, scritta per corrispondenza da sole donne, e poi pensiamo ai Vociani, o, passando all’arte, cosa sarebbe il surrealismo senza Zurigo e il Dada? E poi si arriva al Gruppo 63, alla politica degli anni ‘70. E anche gli ‘80: abbiamo avuto bisogno di raccontarli come individualisti solo perché andava “compensato” l’impegno politico degli anni ‘70, per riconoscerli nel contrasto ecco, ma gli anni ‘80 in realtà sono pieni di collettivi importantissimi che hanno inciso, per esempio, sulla storia della comunità LGBTQ+, o avventure culturali come la rivista Frigidaire. E ci sono anche molte realtà degli anni ‘90 che ignoravamo, e che abbiamo scoperto grazie a Grafton 9, progetto bolognese che si occupa di digitalizzare molte riviste del passato, soprattutto della scena sociale degli anni ‘90, ma non solo. Insomma, ovunque si guardi c’è sempre stato un bisogno di collettività, e anche oggi è giusto parlarne in questi termini.

Ma è vero che quell’impressione iniziale rimane: sembra che, persino nelle arti che sono sempre state rivolte all’espressione più individualista, ora ci sia più facilità e più volontà di renderle collettive. Si è sempre fatta, questa cosa di scrivere un libro in due, in tre, in quattro, ma oggi ci sembra una cosa ancora più naturale, non è più una bizzarria, non stupisce più.

MONTAG: Prima dicevate che nel vostro libro avete ricostituito un “Io collettivo”. Nel racconto del contesto storico e culturale in cui ci troviamo, quale è il posto dell’Io? Si può costruire un “Io antropocenico”?

MEDUSA: In realtà questa cosa dell’Io, della prima persona singolare con cui abbiamo scritto insieme il libro, è stata una sorpresa anche per noi, perché non l’avevamo preventivata. Abbiamo iniziato a scrivere il libro mettendo insieme cose che avevamo scritto singolarmente, poi continuando a scrivere cose nuove e completandolo, studiando le lacune e unendo i puntini. Arrivati a questo punto però ci siamo resi conto che andavano amalgamate le cose. E anche magari per pigrizia, all’inizio, se vuoi, abbiamo pensato a questa soluzione. Sarebbe stato più pesante e complesso specificare ogni volta, nel libro, chi parlava: “Io, Nicolò, giro per la Stazione Centrale deserta durante la pandemia” e poi “Io, Matteo, mi ricordo di quando a Venezia ho partecipato a un festival di cortometraggi”. Una volta che l’idea era sul tavolo, ci è sembrata la cosa più naturale e abbiamo immediatamente percepito la sua potenza. 

Da un lato ci ha liberato di alcuni tic che sono tipici del reportage narrativo: tutte queste varianti di new journalism ecco, fino a Carrère e i suoi emuli, presentano a volte quegli eccessi di Io, dove il giornalista-scrittore non si leva di mezzo mai, ti dice che cosa ha mangiato o come si è spostato, in macchina, in taxi, in treno. Tutti ganci narrativi che dovrebbero aiutare il lettore, portarlo a spasso per la storia, ma che spesso finiscono per essere pura maniera. E a maggior ragione, parlando di Antropocene, sarebbe stato strano: uno dei problemi di quest’epoca è proprio l’ego, l’egoismo, l’umanità nella sua forma autoriferita. Paradossalmente, invece, componendo un Io che erano due persone, non potevamo permetterci queste cose, cioè non ci potevamo permettere di essere completamente e fisicamente nel libro, non ci potevano essere le nostre vanitàe i nostri tic personali, perché dovevamo fare spazio all’Io-MEDUSA. E invece sono rimaste intatte le paure comuni, le ossessioni comuni, tutto ciò che ci ha spinto a scrivere il libro. 

Quindi abbiamo creato questa sorta di Io composito che, pur non essendo minimamente fisico, né egoista, né autoriferito, diventava più emotivo, analitico, preoccupato più per il mondo che per se stesso. Abbiamo cercato di sfruttare quell’Io come un’universalità, quella richiesta dall’emergenza climatica, dal problema dell’Antropocene.

MONTAG: Ci è venuta in mente un’analogia con una citazione di Kafka che avete inserito nel libro, quando appunta: «La Germania ha dichiarato guerra alla Russia, nel pomeriggio lezione di nuoto». Ci sono l’ordinario, il nuoto, e l’eccezionale, l’invasione, che si mischiano, e ci sembra che un po’ seguiate questa regola, una sorta di “rasoio di Kafka”, che stiate su questo crine in cui due mondi che costantemente portano l’uno a scomparire nell’altro. E ci sembra che un progetto come il vostro riesca in qualche modo a de-automatizzare questo binomio, anche grazie al vostro rendervi indistinguibili attraverso l’Io di cui parlate. In che maniera a partire da questo Io antropocentrico vi siete accorti che cambiava il vostro modo di scrivere?

MEDUSA: Sicuramente questo nuovo Io ci ha cambiato, è diventato una sorta di “super editing”, nel senso che, pur non facendo mai esperimenti come il vostro di scrittura simultanea o di condivisione totale, e pur avendo ancora bisogno del nostro foglio prima di darlo all’altro e farlo intervenire, è però qualcosa che a livello quasi subconscio interviene in anticipo, un editing prima ancora dell’editing. Per noi, quando uno scrive per MEDUSA, scrive in quanto MEDUSA. E ognuno di noi ha introiettato brandelli di stile o modi di scrivere dell’altro, è come una spinta mimetica che porta ognuno a scrivere precipitando e aspettandosi l’editing dell’altro, nella maniera più comunitaria e medusica possibile. A volte scrivendo si prende piena consapevolezza, come un flash, di avere non solo un lettore di riferimento ma anche un altro scrittore di riferimento. L’editing è la cosa più comunitaria che si possa fare nella scrittura, ed è la più delicata, bisogna trovare una persona di cui fidarsi, di cui accettare qualsiasi critica. Spesso l’editing può essere anche solo lessicale, un lavoro di piccole scelte, un po’ minimalista, però è quel minimalismo da producer che sistema le canzoni. Dall’altro lato spesso è massimalista, nel senso che a volte ci si sbrodola, si divaga, e quindi il confronto con l’altro aiuta a tagliare anche paragrafi interi.

Tornando all’Io, se c’è un messaggio, anche se non ci piace dire così, se c’è un fondo nel nostro libro, è il rifiuto del consumismo. Spesso, nel vecchio new journalism di cui parlavamo prima, e che ancora si propaga, raccontare l’Io significa raccontare i consumi. Ricorrere all’Io in questo contesto non è banale, perché l’autofiction si nutre di edonismo, egoismo, solipsismo, che sono tutte materie prime della letteratura, ma quando l’Io si intreccia con la divulgazione, quando si parla di che cosa è meglio per il pianeta, l’equilibrio diventa precario. È un lavoro che va fatto con attenzione.

MONTAG: Esatto, ci sembrava che andasse anche contro l’Io inteso come forma linguistica capitalista.

MEDUSA: Il tentativo di MEDUSA era ricostruire degli intrecci inspiegabili, invisibili, tra l’acciaio e le decisioni umane, le radiazioni e i traumi collettivi. Quindi visibile e invisibile. E l’unica voce che poteva raccontarlo era una specie di voce onnisciente che non è una divinità, ma una via di mezzo tra l’inconscio di un paese e l’aria che respira. Anche questo forse c’entra con la dissoluzione di un punto di vista soggettivo, che però ovviamente è un processo che si può fare in tutti i modi, con la prima, la seconda, la quarta persona!

MONTAG: Questo discorso che avete fatto ci interessa tantissimo. Anche a noi a volte succede di pensare la stessa cosa, persino di iniziare racconti con la stessa parola. Però a nuove forme mentali possono anche accompagnarsi nuovi generi, quindi: quali sono i generi di MEDUSA? Il vostro libro è un saggio narrativo, che già di per sé è un’espressione ibrida, si avvicina alla theory-fiction. Nella vostra newsletter è interessante vedere quanto spaziate a livello di genere, nella struttura, nella lunghezza e nel tipo di testi che ospitate: saggi, racconti, reportage, interviste. Che cosa vuol dire per voi sperimentare, da un lato scegliere di confrontarvi con così tanti generi, e dall’altro ibridarli? Confrontarvi con più generi vi è venuto naturale scrivendo insieme, oppure è una vostra caratteristica personale?

MEDUSA: Questa è una domanda per cui vi abbracceremmo! È una domanda che non ci hanno mai fatto, ci sembra, e che rispetta profondamente la nostra ricerca. Ci viene in mente il nuovo fumetto di Daniel Clowes, dove narra la vita di una ragazza, di una donna, attraverso tanti racconti e ogni racconto esplora un genere. E questa è una cosa che ci piacerebbe fare. Perché non crediamo nella gerarchia tra generi, anche se spesso ci siamo trovati impastoiati, infangati nel discorso sulla fantascienza. Ma, andando avanti, abbiamo sempre più la sensazione che la fantascienza non sia più un genere, la fantascienza contemporanea è semplicemente diventata il modo per raccontare il presente, il futuro.

Tanto “genere” purtroppo resta iterazione, replica. Ma, allo stesso tempo, quella che dalla nostra società è considerata “letteratura alta” è diventata un polpettone replicato in mille sfumature di trauma. Per noi i generi diventano invece un modo per sperimentare, per allargare le nostre capacità. A un certo punto, quando eravamo nei vari lockdown della pandemia, quasi stava collassando anche il senso di alcuni testi. Mi viene in mente una cosa che avevamo scritto su un minatore australiano che vive sottoterra e scrive poesie. Quella cosa iniziava come un reportage, prendeva l’idea da un numero di Frigidaire che raccontava di Coober Pedy, un paese scavato nella terra, in Australia, dove fa troppo caldo e quindi si vive sottoterra. Raccontavamo delle cose a metà, un po’ strane, fantascientifiche, e qualcuno alla fine ci ha chiesto se la storia fosse vera e di chi fossero le poesie, dove potevano trovare altre poesie dei minatori. Ma le poesie erano nostre! Questo per dire cosa? Che ci piace esplorare tutte le forme. 

MONTAG: È vero che nella newsletter c’è sempre più materiale narrativo, soprattutto dopo l’uscita del libro. E quindi volevamo farvi questa domanda, puramente speculativa: un romanzo MEDUSA avrebbe senso per voi?

MEDUSA: Ci pensiamo dall’inizio. Abbiamo già in mente di lavorare a un romanzo (o dei racconti) MEDUSA, ma in realtà vorremmo prima o poi fare anche un altro libro, un altro saggio ibrido, quindi vediamo cosa succederà. Idealmente, se avessimo tutto il tempo del mondo, entrambi subito!

MONTAG: In esclusiva ai nostri microfoni! 

MEDUSA: Però l’esplorazione dei generi per noi è stata, da sempre, anche una conseguenza editoriale a cui ci siamo costretti. Forse MEDUSA è anche questo, all’inizio abbiamo pensato alla newsletter e parlavamo di cambiamenti climatici, crisi ambientale, di realtà, appunto, di rapporto tra uomo e natura, cosa che si è sempre fatta ma che ci sembrava, in un momento di crisi globale, non si facesse nella maniera in cui ci sarebbe piaciuto leggerla. Quindi c’erano numeri più divulgativi, poi numeri letterari, dove parlavamo di filosofi e libri sull’Antropocene, di quello che ci andava di raccontare o commentare. C’è da dire anche che alla fine le questioni più letterarie forse sono quelle meno lette, non solo su MEDUSA, in generale su internet: i racconti vanno sempre peggio dei pezzi. Mentre noi, controcorrente, dopo sette anni di newsletter siamo arrivati a un punto in cui ci fa molto più piacere scrivere racconti dentro MEDUSA. Però sappiamo che parte del nostro pubblico è affezionato anche ad altri tipi di riflessioni, ad altri tipi di “contenuti”.

Non diciamo che sia del tutto saltata la divisione fra contenuto, racconto, o content, fra le storie, i link, le curiosità, però siamo qualcosa che si avvicina a una fusione di tutto questo. Lo vediamo per esempio su Instagram: ovviamente lì un racconto è invendibile, però ci sono comunque storie brevi che possiamo raccontare e che entrano in un nostro ragionamento, magari bizzarre, strane, e che continuano a succedere davvero nel mondo.

Poi, rispetto a quando è iniziato, il dibattito sull’emergenza climatica si è molto aggiornato in Italia. Quindi sentiamo di avere meno urgenza divulgativa, perché certe cose ormai sono note. Stiamo ovviamente parlando della nicchia in cui ci muoviamo e pure questa non è una questione da poco. La domanda alla fine resta: che cosa possiamo dare al mondo che il mondo non ha? E quindi è su questo che stiamo lavorando, appunto perché dopo sette anni abbiamo allentato i legacci del “tema”. Non siamo mai stati ancillari, non è mai stato un modo di svilire la letteratura, o le nostre ambizioni letterarie “per parlare del Tema”. Piuttosto al contrario, partivamo da un problema usandolo come elemento di interesse, tentativo di comprensione e di esplorazione di un racconto. 

Ora sia un nuovo saggio che un romanzo MEDUSA riusciamo a vederlo bene.

ARTICOLO n. 4 / 2024

CHI ERA EDWARD SAID?

Pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Tony Judt al volume di Edward Said, La pace possibile (Il Saggiatore, traduzione di Antonietta Torchiana).

Quando morì, nel settembre 2003, dopo aver lottato per un decennio con la leucemia, Edward Said era forse l’intellettuale più conosciuto al mondo. Orientalismo, il suo controverso libro sull’assimilazione dell’Oriente nel pensiero e nella letteratura dell’Europa moderna, ha dato origine a un intero filone di studi universitari, e a un quarto di secolo dalla sua uscita continua a suscitare irritazione, venerazione e tentativi di imitazione. Se anche non avesse scritto altro e si fosse limitato a insegnare alla Columbia University di New York – dove lavorò dal 1963 alla morte – Said sarebbe comunque uno degli studiosi più importanti del tardo Novecento. 

Ma non si limitò a insegnare. A partire dal 1967, animato da una passione e da un’urgenza crescenti, Edward Said fu anche un commentatore eloquente e assiduo della crisi mediorientale e un sostenitore della causa palestinese. Questo impegno morale e politico a ben vedere non rappresentò uno spostamento dei suoi interessi intellettuali: la sua critica dell’incapacità occidentale di comprendere l’umiliazione dei palestinesi riprende l’interpretazione della letteratura e della critica dell’Ottocento condotta in Orientalismo e in opere successive (in particolare Cultura e imperialismo, uscito nel 1993). Tuttavia, questa scelta trasformò il professore di letteratura comparata della Columbia in una figura decisamente pubblica, adorata ed esecrata con pari intensità da milioni di lettori. 

Fu un destino ironico per un uomo che non corrispondeva a quasi nessuna delle etichette che gli venivano attribuite con tanta sicurezza dagli ammiratori e dai nemici. Edward Said visse sempre in maniera tangenziale rispetto alle cause cui si dedicava. Questo involontario “portavoce” degli arabi di Palestina, per lo più musulmani, era un cristiano episcopale, nato a Gerusalemme da madre battista nel 1935. Critico intransigente della pretesa superiorità imperiale, aveva studiato in alcune delle ultime scuole coloniali, dove si educavano le élite locali degli imperi europei, e per molti anni si trovò più a suo agio con l’inglese e il francese che con la lingua araba; era un prodotto tipico di un’educazione occidentale con la quale non riuscì mai a identificarsi pienamente. 

Edward Said è stato l’eroe venerato da una generazione di relativisti culturali attivi nelle università di tutto il mondo, da Berkeley a Bombay, per i quali la categoria di “orientalismo” poteva giustificare qualsiasi cosa, dalle analisi dell’oscurantismo “postcoloniale” a fini di carriera (la “scrittura dell’altro”) alle denunce del predominio della “cultura occidentale” nei programmi di studi. Ma Said non perdeva tempo con stupidaggini del genere. Il relativismo radicale, la negazione di qualsiasi fondamento oggettivo, che riduce ogni fenomeno a un mero effetto linguistico, gli sembrava vacuo e superficiale: i diritti umani, osservò in più di un’occasione, «non sono entità culturali o grammaticali, e quando vengono violati sono quanto mai reali».

A proposito delle volgarizzazioni del suo pensiero che vedevano negli scrittori (occidentali) soltanto un prodotto indiretto del privilegio coloniale, Edward Said si espresse con chiarezza: «Non credo che gli autori siano determinati in modo meccanicistico dall’ideologia, dalla classe o dalla storia economica». Come lettore e come autore, Said si riconosceva senza ripensamenti nella tradizione umanistica, «nonostante il disprezzo con cui i sofisticati critici postmoderni liquidano questo termine». Se c’era un aspetto che lo rattristava nella giovane generazione degli studiosi di letteratura era la loro frequentazione eccessiva della “teoria”, a scapito dell’arte della lettura minuziosa del testo. Inoltre Said apprezzava le divergenze intellettuali, perché per lui la tolleranza del dissenso era una condizione necessaria per la sopravvivenza della comunità internazionale degli studiosi; i dubbi che io stesso espressi sulla tesi di fondo di Orientalismo non furono di ostacolo alla nostra amicizia. Tale atteggiamento era difficile da capire per molti di coloro che lo ammiravano da lontano, persone per le quali la libertà accademica è tutt’al più un valore contingente. 

Questa profonda sensibilità umanistica gli rendeva insopportabile un vizio frequente negli intellettuali impegnati: l’approvazione entusiastica della violenza, di solito a distanza di sicurezza e sempre a spese di qualcun altro. Il “professore del terrore”, come i suoi nemici erano soliti chiamarlo, in realtà criticava la violenza politica in tutte le sue forme. A differenza di Jean-Paul Sartre, intellettuale che ebbe un rilievo analogo per la generazione precedente, Said aveva una certa esperienza diretta dell’esercizio della forza: all’università il suo studio fu visitato da vandali e saccheggiato, e lui e la sua famiglia ricevettero minacce di morte. Tuttavia, mentre Sartre non esitò a propugnare l’efficacia e la funzione purificatrice dell’assassinio politico, Said non giustificò mai il terrorismo, per quanto potesse simpatizzare con i motivi e i sentimenti che lo provocavano. I deboli, scriveva, devono mettere a disagio i loro oppressori, e non ci riusciranno mai con l’assassinio indiscriminato di civili.

Eppure Said non era un uomo placido, un pacifista, né tanto meno un tiepido. Nonostante il successo professionale, la passione per la musica (era un ottimo pianista, amico intimo di Daniel Barenboim, con il quale talvolta collaborò) e il talento per l’amicizia, era per certi aspetti un uomo profondamente arrabbiato. Ma nonostante l’identificazione con la causa palestinese e gli sforzi instancabili per promuoverla e illustrarla, era incapace di quel tipo di affiliazione acritica a un paese o a un’idea che permette al militante o all’ideologo di servire con qualsiasi mezzo uno scopo unico. 

Era invece, come dicevo, sempre leggermente defilato rispetto a ciò che sentiva affine. In quest’epoca di sradicamento, non era nemmeno un esule tipico, dal momento che la maggior parte degli uomini e delle donne che oggi sono costretti a lasciare il proprio paese hanno un luogo a cui guardare (pensando al passato, ma anche al futuro): una patria ricordata – spesso in modo fuorviante – che àncora l’individuo o la comunità nel tempo, anche se non nello spazio. I palestinesi non hanno neppure questo: la Palestina non è mai stata costituita formalmente, e all’identità palestinese manca questo punto di riferimento convenzionale.

Di conseguenza, come affermò significativamente Said pochi mesi prima di morire, «non sono ancora riuscito a capire che cosa significa amare un paese». Si tratta evidentemente della condizione caratteristica del cosmopolita privo di radici. Per chi non ha un paese da amare non è facile sentirsi tranquillo e sicuro: la sua condizione può attirare l’ostilità ansiosa di coloro che vedono in questa mancanza di radici il presupposto di un’indipendenza di spirito destabilizzante. Ma si tratta di una condizione liberatoria: il mondo osservato può non essere rassicurante come quello dei patrioti e dei nazionalisti, ma lo sguardo giunge più lontano. Come scrisse Said nel 1993, «non accetto la posizione secondo la quale “noi” dovremmo occuparci solo o soprattutto di ciò che è “nostro”».

Questa è l’autentica voce di un critico indipendente, che dice la verità al potere e fornisce un’opinione che è in conflitto con l’autorità: come scrisse su Al-Ahram nel maggio 2001, «non sta a noi decidere se gli intellettuali israeliani abbiano fallito la loro missione. Ciò che importa per noi è la decadenza del dibattito e dell’analisi nel mondo arabo». Ma la sua è anche la voce di un libero “intellettuale newyorkese”, una specie in via di rapida estinzione in larga misura proprio a causa del conflitto mediorientale, rispetto al quale tanti hanno scelto di schierarsi identificandosi con un “noi”. Edward Said non è stato un “porta-voce” convenzionale di una parte di quel conflitto.

Il quotidiano di Monaco ddeutsche Zeitung intitolò il necrologio di Said “Der Unbequeme”, l’uomo scomodo, ma il risultato più duraturo fu quello di mettere a disagio gli altri: per i palestinesi Edward Said era una Cassandra poco apprezzata e spesso irritante, che accusava i loro leader di incapacità, se non di peggio. Per i suoi critici era un parafulmini che attirava su di sé paura e vituperio. Quest’uomo spiritoso e colto divenne un improbabile demonio, la personificazione di tutte le minacce – reali e immaginarie – incombenti su Israele e sugli ebrei. A una comunità ebraica americana pervasa dal simbolismo della vittima, Said ricordava, con un discorso tanto più provocatorio perché finemente strutturato, le vittime di Israele. Con la sua semplice presenza a New York, era un vivente promemoria ironico, cosmopolita, arabo, della ristrettezza di vedute dei suoi critici. […]

La critica sferzante rivolta al mondo arabo era ciò che più premeva a Said: parlare agli altri arabi, fustigandoli senza mezzi termini. Gli attacchi più decisi sono rivolti ai regimi arabi e in particolare all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), accusati di avidità, corruzione, aggressività e cinismo. Ciò può apparire ingiusto – dopo tutto il potere effettivo è in mano agli Stati Uniti, ed è Israele a seminare distruzione tra i palestinesi – ma l’impressione è che Said ritenesse importante soprattutto dire la verità al suo popolo e sul suo popolo, piuttosto che rischiare di cadere in quella «servile elasticità verso la propria parte che deturpa la storia degli intellettuali sin dalla notte dei tempi». […]

Secondo Said, il vero ostacolo a un nuovo modo di pensare in Medio Oriente non era rappresentato da Arafat o da Sharon, e nemmeno dagli attentatori suicidi o dai coloni estremisti, ma dagli Stati Uniti. L’unico luogo in cui la propaganda ufficiale israeliana ha avuto un successo eccezionale e quella palestinese ha fallito completamente è l’America. Gli ebrei americani (un po’ come i politici arabi) vivono in uno stato di «incredibile auto segregazione nella fantasia e nel mito». 

Molti israeliani sono terribilmente coscienti degli effetti che l’occupazione della Cisgiordania ha prodotto sulla loro società (anche se sono un po’ meno sensibili alle conseguenze per gli altri): «Il dominio su un’altra nazione corrompe e distorce le qualità di Israele, lacera la nazione e fa a pezzi la società» (Haim Guri). Ma la maggior parte degli americani, compresi in pratica tutti i politici, non se ne rende affatto conto. 

Per questo motivo Edward Said sottolinea la necessità che i palestinesi portino il proprio caso davanti al pubblico americano, invece di implorare il presidente degli Stati Uniti perché dia loro uno stato. L’opinione pubblica americana conta, e Said trovava disperante l’antiamericanismo disinformato degli intellettuali e degli studenti arabi: «Non è ammissibile starsene seduti in qualche sala riunioni di Beirut o del Cairo a denunciare l’imperialismo americano (e se è per questo anche il colonialismo sionista) senza capire che si parla di società complesse, non sempre pienamente rappresentate dalle politiche stupide o crudeli dei loro governi». 

In quanto cittadino americano, tuttavia, trovava frustrante soprattutto la miopia politica del proprio paese: solo l’America può spezzare questa sanguinosa situazione di stallo in Medio Oriente, ma «gli Stati Uniti difficilmente possono porre rimedio a ciò che rifiutano di vedere con chiarezza». […] Per essere efficace, questo dibattito deve svolgersi in America ed essere condotto da americani. Ecco perché Edward Said era così importante: per trent’anni, quasi da solo, ha mantenuto aperto in America un confronto su Israele, la Palestina, i palestinesi, e così facendo ha fornito un servizio di valore inestimabile, anche correndo un notevole rischio personale. La sua morte apre un vuoto profondo nella vita pubblica americana. Said è insostituibile. 

ARTICOLO n. 3 / 2024

OGNUNA SI SALVI DA SOLA

Il femminicidio di Giulia Cecchettin nel novembre 2023 ha scatenato una reazione universale di preoccupazione e rabbia.

Abbiamo assistito e partecipato tutte a un moto quasi rivoluzionario del modo in cui solitamente si tratta la violenza di genere: per la prima volta dopo anni la parola patriarcato entrava nelle case degli italiani e prendeva vita nei talk show e nei telegiornali, nelle pagine di giornale, nei discorsi tra persone comuni.

La peculiarità del femminicidio di Cecchettin e della sua viralità potrebbe essere individuata in una serie di fattori concomitanti: il 2023 è stato un anno piuttosto violento dal punto di vista dei femminicidi (Scialdone, Tramontano, Malaj, Vefa hanno trovato molto spazio nella narrazione mediatica per la particolare brutalità con cui i loro femminicidi sono stati compiuti) e la preoccupazione è andata man mano crescendo, in modo direttamente proporzionale al numero di donne uccise per mano maschile. Oltre a questo climax mortale, possiamo reputare quello di Cecchettin un femminicidio “per antonomasia”, quasi da manuale: lei una giovane donna con davanti un brillante futuro, la sua famiglia attiva e consapevole, la retorica del bravo ragazzo perpetrata dai genitori dell’assassino, l’avvocato misogino a cui questa si era inizialmente rivolta, la fuga di Turetta, le parole misurate e intelligenti di Gino ed Elena Cecchettin, la disperata consapevolezza dell’epilogo. Era una tragedia annunciata che abbiamo seguito continuando a fare refresh sulle pagine dei giornali online nel tentativo di leggere buone notizie, anche se, per una ormai collaudata prassi, immaginavamo già tutte la fine di quella terribile storia.

Per questo, quando le notizie che speravamo di non leggere mai ci sono apparse sui telefonini, abbiamo pianto e abbiamo stretto i pugni. Era troppo, era tutto troppo: troppo silenzio istituzionale, troppo menefreghismo maschile, troppo poco ascoltate le parole di chi lavora per combattere la violenza maschile contro le donne, ma soprattutto era troppo tardi. Eravamo troppo in ritardo per avviare pratiche salvavita e troppo arrabbiate sapendo che una cura a questo sistema esiste e va messa in pratica. 

Novembre è stato dunque il mese dell’urgenza, un’urgenza che chi si occupa di violenza sulle donne ribadisce da così tanto tempo da essere ormai quasi non quantificabile e che finalmente diventava una materia di interesse comune.

In seguito alle rimostranze e proteste di attiviste, intellettuali, centri antiviolenza, divulgatrici, volontarie, avvocate, politiche e sopravvissute sulla totale assenza di politiche di prevenzione e formazione sul tema, governo e opposizioni hanno cercato di tamponare la crisi mediatica con una serie di raffazzonati provvedimenti.

Provvedimenti all’acqua di rose, che non tengono conto di innumerevoli fattori di rischio e innumerevoli vuoti educativi nelle proposte governative.

Nella fretta di mettere una toppa che accontentasse tutti, soprattutto associazioni cattoliche e antiabortiste, linfa vitale di questo Governo insieme ai partiti-satellite di stampo fascista, il disegno previsto da Valditara sull’educazione scolastica sul tema sembra infatti più una presa per il culo che una misura di contrasto.

Mentre infatti associazioni e fondazioni ribadivano l’urgenza di finanziamenti mirati e costanti, educazione al consenso fin dalle scuole primarie e un’educazione sessuale esaustiva e duratura negli anni delle secondarie, formazione a tappeto di magistratura e forze dell’ordine, collaborazione territoriale con le scuole e il personale sanitario, il Ministro dell’istruzione e del merito congiuntamente a Roccella e Sangiuliano stabiliva un pacchetto di provvedimenti a dir poco bizzarri.

Le iniziative rivolte dai tre al mondo della scuola per contrastare la violenza sulle donne sono infatti riassumibili come una bellissima supercazzola di trenta ore facoltative ed extracurricolari solo per studenti e studentesse delle scuole superiori secondarie. In queste trenta ore, se svolte e se partecipate, il tema della violenza e del consenso verrebbe moderato – non introdotto: moderato. Gli incontri infatti non sono lezioni bensì confronti, in cui è dunque possibile dibattere e opinare la materia, come se fosse una pagina di costume e non un tema socioculturale – da docenti assolutamente non formati sull’argomento.

Ma attenzione, per ovviare alla mancata preparazione del corpo docente sul tema, sono previsti corsi di formazione per renderli adeguati a poter trattare l’argomento con alunni e alunne: in pratica, una partita di domino in cui tutti insegnano qualcosa a qualcuno.

Considerando la precarietà di chi lavora nella pubblica istruzione, la poca sicurezza sul lavoro, le graduatorie, i dislocamenti e la mole di responsabilità che già i docenti si trovano ad avere, dare loro un altro fardello mi sembra incauto quanto naïf: pensate infatti a cosa potrebbe succedere a un insegnante che tocca temi ritenuti scomodi e sporchi dalla stragrande maggioranza delle famiglie italiane. Non mi pare così assurdo poter pensare a ritorsioni e minacce da parte dei genitori (se non vere e proprie violenze fisiche, come già avvenuto fin troppe volte), allontanamenti, provvedimenti delle dirigenze. Insomma, in una situazione già precaria e pericolosa, forse prevedere una figura super partes ed esterna al corpo docenti poteva essere la soluzione migliore su tutti i fronti. Ma lo sappiamo: i soldi sono soldi, e se possiamo risparmiare sulla qualità dei servizi offerti allora perché no. 

Non solo: a inizio progetto, Valditara aveva designato tre garanti per poterlo sviluppare sul territorio ovvero Concia, Zerman e suor Monia Alfieri. Tralasciando la parte transescludente e sicuramente la poca oggettività nel parlare di sesso da parte del clero, la democristianità della proposta è stata troppa un po’ per chiunque e le nomine sono decadute in meno di due giorni.

Valditara, dopo questo ennesimo scivolone, per riacchiappare un po’ di consenso con i suoi si è affrettato a dichiarare che l’educazione prevista dal suo disegno non sarebbe stata sessuale, neanche di genere. Il programma sarebbe infatti deputato solo all’educazione nei comportamenti verso le donne (quali? aprirci la portiera? ribadire che le donne non si toccano neanche con un fiore? chissà).

Così facendo ha rassicurato sì una parte dei suoi sostenitori, ma ci ha anche fatto capire che di violenza sulle donne e contrasto alle sue manifestazioni Valditara non ha proprio capito una benamatissima mazza.

O, nel caso invece avesse compreso la natura del fenomeno, ha deciso di sacrificare la sua risoluzione alle dinamiche di fidelizzazione ideologica degli elettori, delle associazioni ultraconservative e del partito. E questo, a mio modesto avviso, se dovesse essere il vero motivo alla base di questa infelice scelta, sarebbe ancor più mortificante.

Infatti l’educazione sessuale e di genere, l’educazione al consenso, l’educazione al superamento degli stereotipi connessi al binarismo e alla lotta all’omolesbobitransfobia non sono scindibili e sono un pacchetto che non può essere scorporato per accontentare i fanatismi cattolici di una parte di fedelissimi di Lega e FdI. 

La formazione deve necessariamente passare per un sano dialogo sul sesso, che invece sembra far davvero paura a questa coalizione di Governo, che arrossisce ogniqualvolta qualcuno proponga qualche strumento utile per aiutare i giovani ad autodeterminare i propri corpi.

Eppure niente da fare: di ciulare, questo Governo non ne vuol sentire proprio parlare.

Perciò il programma operativo complementare (POC) previsto dalla triade Valditara-Roccella-Sangiuliano non può considerarsi un programma di prevenzione ed educazione.

Il governo però non si è fermato nel cavalcare l’onda rosa che avrebbe potuto portar altri consensi: il ministro Nordio, preoccupato e angosciato dai numeri della violenza di genere, ha infatti pensato di partecipare alla campagna di prevenzione con la creazione di un volantino.

Non un pamphlet, non una pubblicità progresso, non un intervento strutturale: un volantino, ovvero l’oggetto meno consultato e più cestinato del mondo.

Il vademecum – come lo chiamano al Ministero – dovrebbe riassumere i fattori di rischio e vulnerabilità per permettere alle donne di comprendere la tossicità delle relazioni. Gli uomini in questo non sono pervenuti, ma tant’è, dopotutto su un volantino mica c’è così tanto spazio.

Le linee-guida inserite nel dépliant fornirebbero dunque elementi importanti per capire la gravità di un rapporto violento e avere una diagnosi ufficiale: «Come la tosse e la cefalea: spesso non significano nulla ma talvolta possono derivare da una malattia grave, ma curabile» precisa il Ministro al Sole 24Ore. 

Diametralmente a questi due progetti, il governo però ha pensato di inasprire le leggi del Codice Rosso, ovvero tutto quel pacchetto di tutele del nostro codice che servono a garantire pene per chi ha già commesso violenza senza tuttavia essere in grado di prevenirla: difatti, se non è la cultura a cambiare, la legge da sola non potrà fare miracoli nel contrastare questi episodi di bronchite o emicrania, sempre per proseguire con il bizzarro parallelismo di Nordio.

L’opposizione, in questo caos di proposte sconclusionate e formulate in tempi ristrettissimi per cercare di cavalcare l’onda ma dimenticandosi la qualità, e soprattutto la complessità, del tema da sanare, è entrata nel merito della lotta alla violenza sulle donne con una proposta, poi entrata in legge di bilancio, per allocare 40 milioni alla causa, a fronte degli usuali 30 disposti dalle precedenti manovre.

Ma come sottolinea Antonella Veltri, presidente di DiRe, e anche le voci dei CAV indipendenti dalla rete, la somministrazione di questi fondi non solo è momentanea e non sufficiente: è anche frammentaria, vista la poca ottemperanza delle Regioni nella redistribuzione e nelle tempistiche infinitamente variabili. In più, prosegue Veltri, queste risorse non strumentali costringeranno di nuovo i centri antiviolenza a programmare le proprie azioni alla giornata e continuare a far affidamento a donazioni private e non governative.

Insomma, la situazione sul tema della violenza maschile contro le donne a oggi (14 gennaio, giorno in cui scrivo questo mio pezzo) non è assolutamente cambiata e non accenna a migliorare.

Anzi, se possibile da un lato sta perfino peggiorando.

Mentre le donne continuano a morire (da inizio anno le vittime di femminicidio sono già cinque: Elisa Scavone, Ester Palmieri, Delia Zarniscu, Maria Rus, Rosa D’Ascenzo), si rafforza la retorica per cui la prevenzione sia sopravvalutata e si ribadisce una noncuranza delle voci di chi, nel contrasto alla violenza sistemica contro le donne, ci lavora con serietà, preparazione e dedizione.

Credere che chiunque possa scrivere o parlare di violenza di genere è paradossale, ma questa prospettiva è ben radicata: dai talk d’opinione in cui chiunque può dire la propria senza aver studiato il fenomeno a politici che rinnegano il patriarcato senza dunque poter garantire alcuna protezione alle donne.

La violenza di genere è un tema complesso e radicato, difficile da individuare e non arginabile con un volantino, trenta ore facoltative, emissione di fondi una tantum e leggi che intervengono solo quando è spesso troppo tardi.

La violenza maschile contro le donne deve tenere soprattutto conto della questione di genere, della questione di classe, del razzismo, dell’educazione sessuale, di quella al consenso e di quella sentimentale.

Non possiamo dare contentini cavalcando l’indignazione del momento, perché questo non salverà la vita a nessuna donna. 

Queste goffe mobilitazioni servono solo a cercare consenso. E non appena l’onda emotiva si sarà placata, le donne continueranno a morire in silenzio.

E chi ha invece pensato di essere risolutivo con un progetto che fa acqua da tutte le parti continuerà a dormire sogni tranquilli, acclamato dai partiti-satellite e dai fedelissimi di coalizione.

Nessuno scacco matto in questa storia, solo un ennesimo stanco tassello che ci ricorda quanto in Italia la vita delle donne valga un volantino, delle ore facoltative e 40 milioni.

E questo, in soldoni, vuol dire di nuovo una cosa soltanto:
Ognuna si salvi come può.
Ognuna si salvi da sola.

ARTICOLO n. 2 / 2024

UNA CASSANDRA PER IL 2024

Tutto quello che vorremmo che accadesse (e che no)

L’arte delle previsioni è ingrata, perché nonostante sia impossibile indovinare, se si sbaglia si fa comunque la figura degli idioti. Oltretutto viviamo in un periodo in cui è estremamente probabile che si verifichino fatti improbabili – c’è uno stormo di cigni neri all’orizzonte, per usare la celebre metafora di Taleb, ma non conosciamo ancora i loro nomi. Catastrofi climatiche e guerre, per esempio, sono già qui, ed è lecito immaginare che peggiorino, dato che non è stato fatto nulla per evitarle o anche solo per contrastarle al meglio. Il mio ruolo di Cassandra però si limita a un piccolo segmento del futuro che di recente sto osservando con attenzione e su cui sono stato interrogato da The Italian Review: qualche previsione sulle intelligenze artificiali per il 2024. Si tratta pur sempre di un tema enorme e la risposta non può che essere un esercizio narrativo, un piccolo racconto di fantascienza a cortissimo raggio.

Cominciamo con il dire che cosa vorrei che accadesse. Nel 2024 le varie cause legali e impegni legislativi internazionali porteranno alla decisione che i dati disponibili online sono un bene pubblico e che addestrare le IA con materiale protetto dal copyright è lecito (o fair use), ma solo previa tassazione da reinvestire per il bene comune e se il software viene rilasciato open source, ovvero con il codice sorgente disponibile pubblicamente per essere visionato, modificato e distribuito. Le aziende sono di conseguenza fortemente incentivate ad aprire i codici dei loro prodotti, mentre sia i singoli che i gruppi sono liberi di adattare e modificare le IA. Grazie alla massima apertura dei processi, queste tecnologie vengono studiate e comprese con più facilità, divengono meno elitarie e si intaccano un po’ i monopoli tecnologici. Non nel 2024, ma comunque in un futuro non troppo lontano, capiremo come funzionano davvero – perché siamo ancora in una fase simile a quella dell’invenzione del motore a vapore prima della scoperta della termodinamica, sappiamo che funziona ma non esattamente perché. Inoltre il mondo cognitivo delle IA, che è composto dai loro dati di addestramento, si amplia, diminuendo pericolosi bias culturali. Se una IA si addestra solo su giornali di estrema destra, avremo IA di estrema destra. Se si alimenta solo di cultura Occidentale, sarà limitata a questo mondo culturale: con i dati aperti abbiamo la possibilità di avere IA che parlano una lingua che, sebbene limitata, sarà perlomeno modificabile. Grazie all’open source nessuno può porre delle censure alle IA, che può sembrare un male, finché non ci domandiamo: chi decide che limiti mettere e che richieste bloccare? Esiste un’etica universalmente accettata?

Bene, diciamo ora cosa non vorrei che accadesse. In Occidente vince l’idea che sia necessario possedere i diritti per i dati con cui si addestrano le IA, laddove questi non siano liberi. Non in un anno, né con l’AI Act europeo né con le varie cause legali in atto (Getty contro StabilityNYT contro OpenAI eccetera), ma la direzione è questa. D’altra parte molte aziende che lavorano in ambito IA stanno cercando accordi con grandi detentori di copyright, come OpenAI con Springler, o Apple con Condé Nast, NBC News, IAC eccetera. Facendosi scudo delle preoccupazioni di alcuni artisti ma senza alcun guadagno concreto da parte loro, i grossi gruppi editoriali pretendono una fetta del guadagno – e lo ottengono. Questo ovviamente non significa la fine delle IA generative, tutt’altro. Non faccio parte degli entusiasti che vedono l’AGI (Intelligenza Artificiale Generale, quella super potente super umana ecc.) dietro l’angolo, credo anzi che questa idea sia un mix tra una strategia pubblicitaria delle aziende tech per attrarre più investimenti e il sintomo di un pensiero religioso travestito da scientifico. Nel dirlo non intendo assolutamente svalutare il pensiero religioso, anzi, penso proprio che sia il suo rifiuto a far sì che molti tecnologi non si accorgano di riproporlo identico ma nell’ambito sbagliato – come scriveva C.G. Jung, Dio è una necessità psicologica. Nonostante il 2024 non vedrà l’avvento dell’AGI dunque, è comunque immaginabile che ci saranno progressi nello sviluppo delle IA generative. Non iperbolici come quelli a cui ci ha abituato il 2023, ma comunque dei progressi. A questo si aggiunga che gli accordi in atto con grandi detentori di copyright miglioreranno la qualità dei dati utilizzati per il training rispetto a quelli raccolti dalla rete, cosa che forse affinerà la resa di questi software. Il copyright non fermerà queste tecnologie; le renderà solo un po’ più noiose e piene di pregiudizi, perché limiterà ancora di più la varietà culturale del dataset e degli usi. Un altro limite sarà che le aziende cercheranno in tutti i modi di non far creare agli utenti materiale protetto dal copyright, ed è un peccato, perché per farlo bloccheranno anche molte potenzialità “lecite” dello strumento. È illegale fare un dipinto nello stile di Edward Hopper (1882-1967)? Preferisco evitare temi che ignoro, ma è divertente notare che se lo chiedi a ChatGPT dice di no, perché ispirarsi è una pratica comune nell’arte. OpenAI però già oggi impedisce con il suo DALL-E 3 le imitazioni di stili di artisti che non sono morti da ben cento anni, così come quella di materiale simil-fotografico – castrando di fatto quello che credo sia il più potente software text to image. Imitare lo stile di un artista del passato è un esercizio ozioso, ma mescolarne dieci… può diventare interessante.

Forse chi produce questi programmi vuole evitare di essere accusato di violazione del diritto di autore se qualche utente produce materiale protetto, anche se credo che la responsabilità dovrebbe essere di chi fa una richiesta che viola il diritto d’autore. Per esempio, se uso un prompt come “Joaquin Phoenix nei panni del Joker nel film xyz”, trovo ridicolo lamentarsi se il software riproduce un’immagine che assomiglia molto all’attore nei panni del Joker nel film. Sarebbe come dire che, con una matita in mano e l’intenzione di disegnare il Joker, la violazione del copyright sia colpa della matita. O che le matite, se potessero, dovrebbero rifiutarsi di farci disegnare materiale che infrange i diritti di terzi. Tuttavia, se il mio prompt è “un clown per strada” e ottengo la stessa immagine, la faccenda è più complessa, perché potrei non essere a conoscenza del film in questione. Questo errore di prospettiva, sebbene piuttosto banale, è anche pericoloso e credo sia dovuto alla nostra tendenza ad antropomorfizzare l’IA, considerandola autore e non strumento ed eliminando così la responsabilità di chi la utilizza. Le fotografie invece vengono bloccate per la paura dei deepfake, le foto false causa di disinformazione – c’è chi ancora crede che la fotografia rappresenti fedelmente la realtà – ma invece che eliminare questo rischio lo rendono disponibile solo a pochi. Che poi pochi non sono, visto che è già possibile scaricare sul proprio laptop versioni prive di censura di moltissime IA… 

Per quel che riguarda le leggi la questione è molto complessa, e se alle previsioni preferite le analisi vi consiglio questo approfondito articolo, citato anche in un documento dell’Unione Europea più o meno alla voce “che casino questo copyright”. Lo consiglio soprattutto a chi ha la certezza che la situazione sia chiara e definita.

È una fase passeggera, o andrà sempre peggio? È difficile dirlo, la cosa più probabile sono le oscillazioni, che avverranno in base alle cause legali e alla sensibilità del pubblico, motivo per cui nel 2024 le cose peggioreranno per poi migliorare in seguito. Peggiorerà, perché siamo nella fase delle denunce, delle paure e degli assestamenti finanziari. Dopodiché migliorerà, perché verranno fatti accordi economici e perché nessuno vorrà proporre dei software più limitati di quelli Orientali od open source (che non scompariranno neanche nella peggiore delle ipotesi). Ma soprattutto perché le useremo tutti/e.

Le persone di cui sono stati utilizzati i dati ci guadagnano qualcosa? Ovviamente no, tranne forse qualche artista celebre. Un compenso economico realistico a chi produce poche immagini o testi è impensabile. Dato che per sviluppare queste tecnologie servono miliardi di immagini o testi, il contributo dei singoli è minuscolo ed è inimmaginabile l’idea di pagarli anche solo un euro l’uno, perché renderebbe il già alto investimento di partenza impossibile. I dati sono dunque retribuiti una miseria, e a guadagnarci è solo chi li possiede in enormi quantità – Shutterstock ad esempio sta pagando i creatorqualcosa come 0,01 a immagine usata per il training. I dati dei singoli, diluiti nella massa di miliardi di immagini o testi necessari all’addestramento, hanno un peso del tutto trascurabile, e gli accordi economici avranno senso solo con chi ne possiede moltissimi – le aziende a cui gli artisti li hanno ceduti insomma, o i social network a cui abbiamo concesso alcuni diritti d’uso delle nostre condivisioni (si veda il caso Meta). Neanche autori e autrici che non volevano vedersi “copiati” dalle IA tirano un sospiro di sollievo, perché di fatto erano al sicuro anche prima, dato che esistevano già delle leggi in merito. Il discrimine tra copia (illecita) e ispirazione (lecita) non è mai chiaro ed è sempre fonte di dibattito, ma chi ha uno stile più derivativo, ovvero la maggior parte dei creativi (cosa che non ne intacca il valore) sarà facilmente replicabile nonostante i blocchi, perché le IA hanno imparato molto bene certi stilemi dalle tante opere analoghe. Insomma, vessate da nuovi blocchi e censure, con le IA si sviluppano più a fatica degli stili originali, ma è sempre più facile produrre del materiale meno di nicchia, che di fatto rappresenta la fetta più importante del mercato delle immagini.

Va detto però che sto parlando solo di Occidente, perché in Oriente il concetto di autorialità e proprietà intellettuale ha basi culturali molto diverse e le cose potrebbero andare diversamente, come ci insegna il caso del Giappone, dove è stato già dichiarato fair use l’uso di dati protetti per il training. Saremo dunque surclassati dalle IA orientali? Il 2024 non basta per dirlo… ma il sospetto è che questa stretta su copyright e censura negli anni sia destinata ad allentarsi, soprattutto via via che l’uso di IA sarà normalizzato nei nostri flussi di lavoro.

Cassandra nel 2023 ha uno strumento in più: le IA, che sono pericolose per prevedere il futuro ma utili per avere un parere sulle proprie illazioni. Ho dunque approfittato della vasta rete di conoscenze di ChatGPT 4 per chiedergli quale delle due ipotesi gli/le sembrava più probabile (non ho fatto alcun editing):

Tra le due previsioni che hai descritto sul futuro delle intelligenze artificiali, sembra più probabile lo scenario che tende verso una maggiore protezione dei diritti sui dati per l’addestramento delle IA, ovvero la tua previsione “pessimistica”. Ecco perché:

Tendenze Attuali nella Proprietà dei Dati: Storicamente, abbiamo visto un forte orientamento verso la protezione della proprietà intellettuale e dei dati. Le aziende e le istituzioni tendono a salvaguardare strettamente i propri asset di dati, specialmente in un contesto in cui i dati sono sempre più visti come una risorsa preziosa.

Movimenti Legislativi e Cause Legali: Le recenti cause legali e i movimenti legislativi in Europa e negli Stati Uniti mostrano una crescente attenzione alla proprietà dei dati e ai diritti d’autore nell’ambito dell’IA. Questo indica una direzione verso una maggiore regolamentazione e controllo dei dati utilizzati per l’addestramento delle IA.

Interessi delle Grandi Aziende: Le grandi aziende tecnologiche e i detentori di diritti d’autore hanno risorse significative e influenzano notevolmente le politiche e le decisioni normative. La loro tendenza a cercare accordi esclusivi e a proteggere i loro asset è un fattore importante che inclina la bilancia verso una maggiore restrizione nell’uso dei dati.

Difficoltà nel Cambiare l’Approccio Attuale: Passare a un modello in cui i dati sono considerati un bene pubblico richiederebbe un cambiamento radicale nel modo in cui la società considera e gestisce le informazioni. Tale cambiamento, sebbene potenzialmente benefico, affronta molte sfide pratiche e ideologiche.

La tentazione di scaricare il barile sulla IA è forte, ma preferisco mantenere la mia responsabilità, anche perché un errore comune che avvelena molte analisi è proprio quello di antropomorfizzare questi strumenti e dimenticare che la responsabilità del loro operato la possiede chi li produce e li usa. E un errore ancora più comune e più grave è non riconoscere una cosa che facciamo spessissimo, sbagliare. La mia previsione dunque è questa: non andrà né come desidero né come temo, ma in un terzo modo, perché scommettere solo su due scenari significa sottovalutare la complessa creatività del mondo – che, come sempre, trascende quella dei singoli.

ARTICOLO n. 1 / 2024

SI CIAMA ANORESSEA

Pubblichiamo un’anticipazione da Stranieri a noi stessi (Iperborea, traduzione di Claudia Durastanti), da domani nelle librerie. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Nel reparto anoressia, mi venne assegnata una nuova compagna di stanza, Carrie, una dodicenne dai capelli color paglia. Le chiesi «Pensi che sono strana?» tante di quelle volte che alla fine disse: «Chiedimelo un’altra volta e ti risponderò di sì». Conosceva tutte le infermiere del piano e aveva legato con le altre pazienti. Consideravo lei e la sua amica Hava, che stava nella stanza accanto alla nostra, delle mentori. Hava aveva dodici anni ed era bellissima, con i lineamenti affilati e lunghi capelli castani che non si pettinava mai. Aveva qualcosa di stropicciato e selvatico e mi ricordava le eroine nei libri che parlavano della frontiera americana. Teneva un diario dettagliato del suo soggiorno in ospedale, costellato dal linguaggio terapeutico attraverso il quale stava imparando a capire se stessa. Da osservatrice precoce della realtà intorno a lei, inserì una nota rapsodica dopo avermi conosciuto: «Dio santo ha solo sei anni», scrisse. «Ma guardala!» Proseguiva: «Che possa fidarsi di un adulto e liberare i comportamenti infantili nascosti da qualche parte sotto quel corpo teso e rigido. Scommetto che sta solo aspettando che qualcuno le tenda la mano per afferrarla!»

Anche Hava poteva essere stata eccessivamente influenzata dallo spirito dello Yom Kippur. Frequentava la scuola ebraica ed era terrorizzata, così scriveva nel diario, di non essere «iscritta nel libro della vita», il registro di Dio su quelli che meritano di vivere un altro anno ancora. Si dava la colpa per «non aver raggiunto uno stato di santa perfezione».

C’erano altre somiglianze tra noi: anche i genitori di Hava erano invischiati in un divorzio prolungato e ostile e anche loro schernivano gli amici di famiglia obesi. Prendevano sempre in giro gli Ornstein «chiamandoli Oinkstein», scrisse. Anche lei aveva un’amica come Elizabeth: una ragazzina che non solo ammirava, ma che voleva diventare. Quando giocava a casa dell’amica, secondo il diario, le piaceva immaginare che viveva lì e non sarebbe mai tornata dai suoi. La sua grafia era così simile alla mia che di recente, leggendo alcuni passaggi del suo diario, ho avuto un attimo di smarrimento, convinta di leggere parole mie.

Quando conobbi Hava, stava in ospedale da quasi cinque mesi. Sua madre Gail era andata a incontrare la sua classe di prima media e aveva provato a spiegare la prolungata assenza della figlia. «Anche se Hava è molto magra», disse alla classe, «è convinta di essere molto grassa».

Hava, che pesava quarantacinque chili, sembrava non essere certa che la spiegazione della madre potesse aumentare il suo prestigio a scuola. Nel diario elencò «le cose che vorrei mi piacessero di me stessa», in cui figuravano «la mia personalità», «la mia intelligenza, i miei voti» e «i miei sentimenti». Faceva dei sogni in cui «ho supplicato i miei compagni di scuola e all’improvviso ero completamente capita e accettata».

Nella stanza dei giochi, dove chiunque cercava di prendersi l’unico Pac-Man a disposizione, Hava aveva fatto amicizia con una tredicenne incinta di due gemelli. Quando Hava si era lamentata delle regole ferree sul cibo nel reparto anoressia, la madre della ragazza incinta si era lasciata sfuggire che poteva bruciare le calorie con l’esercizio fisico. «È stata lei a convincermi che stasera mi metterò a saltare».

Avevo una venerazione per l’amicizia tra Hava e Carrie, che si consolidava attorno a obiettivi comuni. «Carrie e io ci siamo confrontate le ossa, la pelle, il colore e la magrezza», scriveva Hava. «Se Carrie non fosse qui non so dove sarei finita!» Sembravano affrontare insieme cicli di perdita e aumento di peso. Quando il peso era in risalita, le infermiere davano loro il permesso di visitare il reparto ostetricia e parto, dove Hava e Carrie si mettevano a guardare i neonati. Alcuni avevano «aghi e tutto il resto conficcati dentro, mi ha fatto sentire molto grata», scrisse Hava. 

«Vorrei solo che fosse più facile mangiare senza sentirmi in colpa». Quando le infermiere non guardavano, Hava e Carrie percorrevano i corridoi di corsa finché Hava faticava a respirare; si offrivano anche come volontarie per portare i vassoi dei pasti agli altri pazienti: «Il mio esercizio del giorno», c’era scritto sul diario di Hava.

Non sapevo che l’esercizio avesse a che fare col peso corporeo, ma la sera iniziai a fare salti da ferma con Carrie e Hava. Non mi davo più il permesso di sedermi, in modo da non essere un «sacco di patate», come dicevano loro. Le infermiere facevano il giro delle stanze del reparto anoressia con un carrellino pieno di romanzi young adult. Dopo il mio arrivo iniziarono a includere libri per lettori più giovani, come Gli orsi Berenstain, i libri sul cane Clifford e quelli di Mr. Men e Little Miss, compreso Mr. Strong, un libro su un uomo che mangiava otto uova in camicia per colazione, un dettaglio che mi sembrava mostruoso. Imparai a leggere nella mia stanza di ospedale stando in piedi. Quando entravano le infermiere, mettevo alla prova la mia nuova capacità legando le cinque o sei lettere che vedevo sui loro tesserini.

Le ragazze più grandi sembravano considerarmi una specie di mascotte, un’anoressica in divenire. Le mie idee sul cibo e il corpo erano persino più magiche delle loro. Mangiavo un bagel, ma rifiutavo una piccola ciotola di Cheerios: una O gigante era preferibile a trecento O piccole. Quando Hava e Carrie mi permettevano di guardarle mentre giocavano a Go Fish, volevo sapere (ma mi vergognavo a chiederlo) a quale pesce si stavano riferendo: un pesce nell’oceano?

O uno cotto su un piatto? Non capivo che i pesci nell’oceano diventavano quelli cotti nel piatto e, se intendevano questi ultimi, non volevo avere nulla a che fare con quel gioco. Non riuscivo a stare al passo con Hava e Carrie, che parlavano del loro peso non solo in chili ma anche in grammi. Anche se ha fama di essere un disturbo di lettura, forse l’anoressia riguarda anche la matematica. Quando era anoressica, Mukai, l’accademica giapponese, ricordava di essere entrata in un mondo «numerato», dove «tutto veniva concepito in termini di metri, centimetri, chili, calorie, tempi e così via». Scrisse: «Non condividevo più la cultura, né la realtà sociale, e neanche il linguaggio degli altri. Vivevo in una realtà sigillata in cui le cose avevano senso per me, ma per me soltanto».

Non ero abbastanza sofisticata per la matematica richiesta dalla malattia, ma ero attratta dal modo in cui Hava e Carrie avevano adottato un nuovo sistema di valori, un modo sconosciuto di interpretare le sensazioni fisiche per dare loro un significato. Ogni volta che arrivava una nuova paziente nel nostro reparto, Hava annotava l’altezza e il peso della ragazza sul suo diario. «Devo aspettare che la mia smania di cibo si esaurisca e provare l’esaltazione del successo. L’esaltazione è fantastica». Era come se stesse disciplinando il proprio corpo per un proposito superiore che non nominava mai.

Nel saggio del 1995 The Ascetic Anorexic, l’antropologa Nonja Peters, che era anoressica, suggerisce che la malattia si rivela in fasi distinte: all’inizio la persona anoressica è attivata dalle stesse forze culturali che ispirano le donne a mettersi a dieta. Il processo può essere istigato da un commento banale. Mukai decise di mettersi a dieta dopo aver chiesto a sua madre se da grande sarebbe diventata grassa come la nonna. «Forse sì», le aveva risposto la madre. Mukai si era fissata su quel commento, anche se sapeva che la madre «stava ridendo. Stava scherzando. Lo sapevo». 

Nel suo diario, Hava aveva descritto il momento cruciale, quando un’amica l’aveva definita «di taglia media». I genitori di Hava l’avevano spronata a non ascoltare le amiche, ma lei aveva scritto: «Se pensano che sono grassa allora sono grassa». 

Alla fine, una decisione impulsiva guadagna impeto e diventa sempre più difficile tornare indietro. «Una volta intrapreso il sentiero ascetico, il comportamento ascetico produce motivazioni ascetiche, non il contrario», scrive Peters.

Diversi accademici hanno studiato i parallelismi tra anoressia nervosa e anoressia mirabilis, una condizione tipica del Medioevo in cui giovani donne religiose si astenevano dal cibo affamandosi, un modo per liberare lo spirito dal corpo e diventare una cosa sola con la sofferenza di Cristo. Questa perdita di appetito, si diceva, era un miracolo. I loro corpi diventavano un simbolo così potente di fede e purezza che le donne facevano fatica a riprendere a mangiare, anche quando le loro vite erano a rischio. Lo storico Rudolph Bell ha definito questa condizione «santa anoressia», giungendo alla conclusione che quelle donne avessero una malattia. Ma sembra vera anche l’argomentazione contraria: l’anoressia può dare la sensazione di essere una pratica spirituale, un modo distorto di rintracciare un sé più alto. Il filosofo francese René Girard descrive l’anoressia come qualcosa di radicato «nel desiderio non di essere santa, ma di essere percepita come tale».

Scrive: «C’è molta ironia nel fatto che il processo moderno di scacciare via la religione ne stia producendo infinite caricature.» Una volta stabilita la rotta, è difficile cambiare le regole d’ingaggio. In un diario che tenevo in seconda elementare scrissi: «Avevo una cosa che era una malatia si ciama anoressea». Spiegavo che «avevo l’anoressea perchévoglio essere qualcuno migliore di me».

ARTICOLO n. 103 / 2023

L’ANNO DEL NOSTRO SCONTENTO

L’anno del nostro scontento sembra essere durato solo tre mesi. Una corsa furiosa, in cui ho come l’impressione non ci siano stati grandi momenti di respiro o pura, semplice felicità collettiva: ogni evento, anche piacevole o festoso, si portava dietro un retrogusto amaro che non lasciava spazio alla serenità. Un anno di lutto e rabbia, di conti e preoccupazioni, di silenzi e rumore, di distrazioni di massa e ansie soffocanti.

Gennaio si apre con l’arresto di Matteo Messina Denaro, boss superlatitante di Cosa Nostra sparito per trent’anni e ritrovato in coda in una clinica per sostenere delle analisi. Se da un lato la gioia per aver catturato un assassino a capo di una delle più grandi associazioni di stampo mafioso del mondo è ovviamente irrefrenabile, il vedere così chiaramente che la mafia sia viva, vegeta e funzionante e che la sua omertà sappia ancora nascondere killer come Messina Denaro ha fatto subito pensare che, forse, tutto questo entusiasmo il 2023 non ce lo avrebbe regalato.

Nelle sezioni di cronaca nera, i primi sette femminicidi dell’anno hanno iniziato ad allarmare una grande fetta di società, tra addette ai lavori della prevenzione e risoluzione della violenza di genere e comuni cittadine – il femminile non è casuale. Le donne che hanno perso la vita per mano maschile a gennaio si chiamavano Giulia Donato, Martina Scialdone, Oriana Brunelli, Teresa di Tondo, Yana Malayko, Alina Cozac, Giuseppina Faiella.

A febbraio, mentre la Turchia e la Siria vengono devastate dal terremoto peggiore del secolo, il mondo compiva un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina.

In Italia nel frattempo facciamo i conti con la manifestazione nazionalpopolare più importante della penisola: Sanremo. Pensando di assistere a uno spettacolo di musichette mentre fuori c’è la morte (citando Willie Peyote e Boris a sua volta, sempre su quello stesso palco ma tre anni prima), non sappiamo ancora quanta retorica e cattiva politica verrà fatta nei mesi a seguire su un bacio tra due uomini. 

Mentre ascoltiamo i deliri di Pillon e Adinolfi su Rosa Chemical, il 18 febbraio un commando fascista appartenente a Cassaggì pesta, davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, degli studenti. La preside Savino, dirigente scolastica di un altro istituto fiorentino, diventerà involontariamente antagonista politica di Salvini per aver difeso i valori antifascisti della nostra Costituzione.

Il 26 febbraio a Cutro un barcone con 180 migranti naufraga a pochi metri dalla costa. I morti saranno ufficialmente 94, i dispersi 11. La proposta di un DDL violento e discriminante emesso in seguito alla strage – evitabilissima – avvenuta sulle coste calabresi ci ricorda quanto per il governo alcune vite siano di serie B.

Le donne uccise in femminicidio nel mese di febbraio si chiamavano Margherita Margani, Antonia Vacchelli, Michelle Baldassarre, Melina Marino, Santa Castorina, Stefania Rota, Cesina Damiani, Chiara Carta, Maria Luisa Sassoli, Rosina Rossi, Sigrid Gröber, Giuseppina Traini.

A marzo, e dopo un lungo sciopero della fame, Alfredo Cospito ha ricordato, in una lettera aperta, di quanto il carcere e il 41bis siano diversi in base a chi se li becca.

Continuano le morti nel Mediterraneo, ma in Italia siamo impegnati a multare chi non usa prodotti Made in Italy nei ristoranti all’estero.

L’otto del mese lo sciopero organizzato da Non Una di Meno contro la violenza di genere scende in trentasette piazze italiane. Intanto, Pro Vita e Famiglia, associazione antiabortista protetta da FdI, affigge manifesti contro l’autodeterminazione dei corpi con utero in diverse città del Centro-Nord. 

Le proteste degli attivisti per il clima di Ultima Generazione fanno impazzire mezza Italia ma non per il motivo giusto: nessuno li ascolta, hanno tutti paura della vernice e nessuno ha paura di un pianeta al collasso. Le pene contro di loro aumenteranno nel corso dell’anno, a dismisura. Per chi balla ai rave e per chi vuole un mondo migliore il rischio è fino a sei anni di carcere.

Le donne uccise per femminicidio nel mese di marzo sono quattordici. I loro nomi erano: Rosalba Dell’Albani, Iolanda Pierazzo, Iulia Astafieya, Rossella Maggi, Petronilla De Santis, Rubina Kousar, Maria Febronia Buttò, Pinuccia Contin, Maria Bella, Francesca Giornelli, Agnese Oliva, Zenepe Uruci, Carla Pasqua, Alessandra Vicentini.

Aprile si apre con le preoccupazioni politiche sulla figura dell’armocromista nello staff di Elly Schlein, mentre in Italia si registra il calo più pesante degli stipendi da dipendente degli ultimi quattordici anni. 

Viene presentata la Venere influencer, nuova musa di Santanché e del Ministero del Turismo: costata nove milioni, ha il pregio di esser stata l’operazione di pubblicità al nostro paese più brutta mai realizzata.

Lega e FdI strumentalizzano una violenza sessuale avvenuta il 25 aprile ai danni di una minorenne, in quella che sembra essere una campagna elettorale mai terminata.

Il Dalai Lama bacia un bambino, scoppia lo scandalo ma nessuno ne parla più dopo qualche giorno.

Spopola il “Caso Enea” su giornali, social e TV: il bambino dato in affidamento alla Culla per la vita dell’ospedale Mangiagalli attira le attenzioni morbose di stampa e politica; è caccia alla madre, è tutto un mangiare sui diritti delle donne.

Ma non è l’unica caccia di quel periodo: dopo la morte di Andrea Papi, per Ministri, Presidenti di regione e politici random è fondamentale trovare e uccidere l’orsa JJ4. Il TAR di Trento ne sospenderà l’abbattimento a maggio.

Lollobrigida parla pubblicamente di sostituzione etnica.

La Russa dichiara che l’antifascismo non sia previsto dalla nostra Costituzione.

Da gennaio sono 358 i morti sul lavoro.

Le donne uccise per mano maschile nel mese sono: Emanuela Candela, Sara Ruschi, Brunetta Ridolfi, Rosa Gigante, Anila Ruci, Stefania Rota, Barbara Capovani, Wilma Vezzaro.

Maggio inizia con una copertina di Panorama sulla sostituzione etnica annunciata da Lollobrigida il mese precedente. Intanto, il Presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, assume l’ex-terrorista nero Marcello De Angelis alla comunicazione della Regione. 

Saviano vince in tribunale contro Sangiuliano ma iniziano i lavori di un altro processo che lo vedrà come imputato. Chi lo denuncia per diffamazione è la Presidente del Consiglio.

Iniziano gli attacchi alle vecchie direzioni Rai: Andrea Vianello viene preso di mira per una foto che non avrebbe commentato con prontezza durante un giornale radio. A fine mese, il nuovo CDA lo spedirà in esilio a San Marino, dove il giornalista sta continuando a fare ciò che da sempre fa: ottima informazione.

Le emittenti televisive e le radio pubbliche iniziano a cambiare drasticamente forma, annullando quasi tutte le voci ritenute scomode: Saviano si vedrà cancellato un programma sulla camorra già registrato; Annunziata, Fazio, Bortone, Augias e Gramellini lasciano la Rai. Radio1 non vedrà riconfermati i palinsesti de Il mondo nuovo e Forrest: nessuno tra autori e conduttori ne ha mai avuta notizia diretta dalla nuova Presidenza.

Nelle scuole iniziano a manifestarsi saluti romani in modo spontaneo. 

Barbareschi annuncia su Repubblica che le donne che denunciano abusi nel mondo dello spettacolo sono in cerca di notorietà. 

Lega e FdI si astengono dal voto di adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul.

L’Emilia-Romagna vive una delle alluvioni peggiori del secolo; la ricostruzione del territorio colpito è ancora in corso.

Viene dato il primo Sì alla Camera per il progetto del ponte sullo Stretto.

Roccella contestata al Salone del Libro parla di censura nei suoi confronti, mentre la Digos trascina via e scheda manifestanti pacifici.

Bruna, una donna trans di 41 anni, viene brutalmente pestata dalla polizia locale di Milano. 

Le donne uccise in femminicidio nel mese di maggio sono: Antonella Lopardo, Rosanna Trento, Danjela Neza, Jessica Malaj, Stefania Monte, Anica Panfile, Yirel Natividad Peña Santana.

Giugno comincia con il femminicidio di Giulia Tramontano, giovane donna incinta uccisa dal compagno. La destra cercherà – e cerca ancora – di strumentalizzare questa morte per far passare una legge in cui è previsto il riconoscimento giuridico del feto; legge devastante per l’autodeterminazione e accessibilità alla 194, che in questo 2023 viene messa costantemente a dura prova. La reazione al femminicidio di Tramontano è molto forte: qualcosa si rompe nella collettività e trasversalmente la violenza di genere diventa un tema urgente. 

Oltre a Giulia Tramontano, nel mese di giugno troveranno la morte per mano maschile anche Ottavina Maestripieri, Pierpaola Romano, Giuseppina De Francesco, Marianna Formica, Maria Brigida Pesacane, Floriana Floris, Cettina De Bormida, Rosa Moscatiello, Svetlana Ghenciu, Margherita Ceschin, Laura Pin, Patrizia Netti, Maria Michelle Causo.

A Pavia un ragazzo gay viene minacciato e insultato davanti a una folla inerme.

A Verona vengono arrestati cinque poliziotti per torture e pestaggi avvenuti in caserma.

La Regione Lazio revoca il patrocinio al Pride di Roma. Regione Lombardia a quello di Milano. 

Lavoratori e lavoratrici di Mondo Convenienza avviano uno sciopero per l’applicazione completa e immediata del contratto nazionale di categoria del settore logistica che durerà 160 giorni, condito di sgomberi e molti manganelli. 

Noi parliamo solo, sempre, ovunque della diatriba Fedez/Luis Sal e del limone in discoteca del cantante dei Måneskin. 

Muore Silvio Berlusconi: viene annunciato lutto nazionale. 

Trump viene messo in stato di fermo.

In Italia esplode lo scandalo delle agenzie di comunicazione: abusi, molestie e chat dell’orrore nel mondo dei creativi. Nessuno dei responsabili viene allontanato.

A Padova vengono impugnati dalla Procura 33 atti di nascita di figli con due madri: è l’inizio della definitiva cancellazione delle già poco tutelate famiglie omogenitoriali.

Luglio si presenta con l’uccisione in Francia di un diciassettenne di origini algerine da parte di un poliziotto in quello che, ripreso dalle fotocamere dei telefonini, è un chiaro abuso di potere. Si avvia una raccolta fondi per il poliziotto che, in poche ore, raggiunge il milione e mezzo. In questa ondata europea di razzismo e islamofobia (in Svezia vengono bruciate copie del Corano), gli sbarchi in Italia raggiungono i dati più elevati dal 2017. Le morti in mare, da inizio anno, ammontano a più di 2.000. Nei CPR della penisola la condizione delle persone migranti è ormai disumana e le violenze salgono quotidianamente.

A Limbiate viene annullato un evento – privato – per donne musulmane in una piscina – privata – dopo pressioni da parte della Lega. 

Diventa pubblica la notizia della denuncia per stupro contro il figlio del Presidente del Senato, Leonardo La Russa. Tra le dichiarazioni di Ignazio La Russa, immunità di rimando e SIM intestate al padre, il malcontento legato a un comune senso di ingiustizia si diffonde rapidamente. La ragazza che denuncia la violenza sessuale verrà ricoperta di insulti e vittimizzazione secondaria, soprattutto in fase processuale.

Iniziano ad avere copertura mediatica tutta una serie di sentenze-horror su reati di violenza contro le donne: palpeggiamenti cronometrati, grassofobia, donne ridicolizzate.

Il Governo si dimentica di chiedere la quarta rata del PNNR. Verrà sbloccata in novembre grazie alla Commissione UE.

Il caldo record raggiunto nel mese di luglio viene sottovalutato da giornali di destra ed esponenti del Governo. 

Muore Andrea Purgatori a causa di una malattia fulminante. I No Vax incolpano i vaccini per il Covid.

Viene liberato, dopo quasi tre anni di carcere, Patrick Zaki. Rifiuta il volo di Stato per il rimpatrio: verrà attaccato per questa sua scelta dalla politica e dall’opinione pubblica.

Esce il film Barbie: comitive di donne di tutte le età invadono i cinema, rendendolo il blockbuster-simbolo dell’estate. La critica maschile lo stronca e infantilizza il fenomeno.

Le donne uccise in femminicidio sono Giuseppina Caliandro, Ilenia Bonanno, Benita Gasparini, Mariella Marino, Norma Ricini, Vera Maria Icardi, Marina Luzi, Angela Gioiello, Mara Fait, Sofia Castelli.

Ad agosto il dibattito pubblico si concentra ancora su Barbie

La Sicilia e il Sud Italia vivono momenti di terrore con incendi dolosi su gran parte del territorio: bruciano quasi 60.000 ettari; le influencer fanno foto dalle loro barche sorridendo. Al Nord la grandine devasta interi territori. Meloni chiama il fenomeno “imprevedibile”, non “crisi climatica”.

Salvini promuove un protocollo per l’uso dei taxi gratis fuori dalle discoteche: è un flop.

Portanova, condannato in primo grado a sei anni per stupro, viene riammesso in campo dalla Reggiana.

Il 10 agosto muore Michela Murgia, lasciando un vuoto incolmabile. Il funerale a Roma vede centinaia di persone in piazza del Popolo per l’ultimo saluto all’intellettuale femminista più preziosa degli ultimi anni.

Viene abolito il reddito di cittadinanza. Secondo i dati ISTAT un quarto della popolazione italiana è a rischio di povertà ed esclusione sociale.

La Venere influencer del Ministero del Turismo riappare sui social ricordandoci che quei nove milioni per il progetto non sono stati buttati: ogni tanto qualcuno spippola sul profilo Instagram della campagna Open to meraviglia.

Due violenze sessuali particolarmente feroci segnano il mese di agosto: lo stupro di gruppo di Palermo e quello di Caivano. In seguito a questi eventi ci saranno passerelle politiche, strumentalizzazioni televisive in Rai della sopravvissuta palermitana, dichiarazioni sessiste di Giambruno e Meloni, ondate di maschilismo nell’opinione pubblica.

Il libro autopubblicato del generale Vannacci, un bignamino di orrore anti LGBTQ+, sessista e razzista, chiamato Il mondo al contrario, spopola nelle vendite.

Il mugshot di Trump sotto arresto diventa virale.

Le donne morte di femminicidio sono Iris Setti, Maria Costantini, Celine Frei Matzohl, Anna Scala, Vera Schiopu.

Settembre 2023 è stato il mese più caldo di sempre secondo il bollettino di Copernicus.

Nel testo, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, del decreto Cutro emerge la possibilità per alcuni migranti di versare 5.000 euro per evitare le attese nei CPR. A Catania il tribunale reputa questo decreto illegittimo. Inizierà una massiccia opera di diffamazione da parte di Salvini e della Lega contro la giudice Apostolico, che non ha confermato il fermo di quattro migranti nella struttura di Pozzallo.

Caos in seguito allo spot Esselunga sulla famosa pesca. Ne parlano tutti, pure la Premier.

Muore Matteo Messina Denaro, sui social esplode il cordoglio per il boss camorrista.

Al rifugio Cuori Liberi, i maiali ospitati e isolati causa malattia vengono uccisi dalla polizia. I manifestanti, presenti per evitare la soppressione, vengono caricati e portati in questura. 

Crippa, vicesegretario del Carroccio, attacca Christian Greco, direttore del museo egizio di Torino, perché lo ritiene “razzista contro gli italiani”.

La Corte Costituzionale sblocca il processo Regeni.

Sempre a Torino, la polizia carica violentemente una manifestazione di studenti e studentesse scesi in strada per contestare la visita in città di Meloni. «Basta, hanno rotto il cazzo», dice il dirigente di polizia prima di dare l’ordine di manganellare.

Le donne uccise in femminicidio sono tredici e si chiamavano Rossella Nappini, Marisa Leo, Nerina Fontana, Cosima D’Amato, Maria Rosa Troisi, Rosaria Di Marino, Liliana Cojita, Manuela Bittante, Anna Elisa Fontana, Monica Berta, Carla Schiffo, Klodiana Vefa, Egidia Barberio.

Ottobre si apre con il violento attacco terroristico di Hamas al rave party israeliano, in cui vengono uccisi 260 partecipanti. Quel 7 ottobre le vittime israeliane – secondo le ultime stime – saranno 1.200.

L’assalto darà avvio a un rapido e brutale inasprimento del conflitto che, in due mesi e mezzo, porterà il genocidio del popolo palestinese a una terrificante impennata: in due mesi Israele sgancerà più di 12.000 bombe sulla Striscia di Gaza, uccidendo più di 20.000 civili e commettendo crimini di guerra reiterati nel silenzio più totale del nostro paese, che si astiene in due votazioni ONU sul cessate il fuoco. 

I morti sul lavoro salgono a 657 da inizio anno, ma noi sui social litighiamo per le influencer, che nel frattempo diventano sempre più ricche.

Un TikToker bolognese di 23 anni si toglie la vita in diretta social. Molti utenti riprendono la scena e la vendono a siti del dark web per ricavarci denaro.

Nella legge di bilancio compare il bonus secondo figlio, fortemente voluto da Meloni: le donne con due o più figli non pagano contributi a carico del lavoratore perché avrebbero già ampiamente “contribuito alla società”. Come? Figliando. Le altre? Fanculo.

Meta inizia a censurare la parola Palestina e oscurare contenuti provenienti da Gaza. 

Giorgia Meloni pubblica un post social per annunciare la rottura con Giambruno in seguito alle intercettazioni mandate in onda da Striscia che ritraggono il giornalista in atteggiamenti riconducibili a molestie sul posto di lavoro. 

La Lega si oppone alle proposte di corsi di educazione sessuale e affettiva nelle scuole.

Le donne morte di femminicidio sono Anna Malmusi, Piera Paganelli, Eleonora Moruzzi, Silvana Aru, Concetta Marruocco, Marta Di Nardo, Antonella Iaccarino, Giuseppina Lamarina, Pinuccia Anselmino, Annalisa D’Auria, Etleva Kanolija. 

Novembre è stato un mese di rabbia manifesta.

In Avanti Popolo, trasmissione condotta da Nunzia de Girolamo, viene intervistata la sopravvissuta allo stupro di gruppo di Palermo. La puntata è un ricettacolo di vittimizzazione secondaria e luoghi comuni pericolosi. In una lettera aperta alla Rai, sottoscritta da centinaia di associazioni, scrittrici, attiviste, avvocate e volontarie di CAV, viene chiesta adesione alle direttive di viale Mazzini in merito alla narrazione della violenza contro le donne e allineamento alla Convenzione di Istanbul.

In Toscana un’alluvione colpisce Campi Bisenzio, Prato e parte della Piana. I soccorsi faranno affidamento in gran parte alle brigate volontarie, molte coordinate dal collettivo fabbrica GKN. Nel frattempo, mentre con l’alluvione in Emilia le voci social si erano esposte e avevano contribuito ad aiutare le popolazioni colpite nell’eliminazione dei detriti dalle case, su Instagram si parla del botox delle influencer. In particolare, crea molta indignazione l’uso della tossina botulinica per ridurre l’ipertrofia del massetere.

Il 12 novembre scompare a Vigonovo Giulia Cecchettin. Con lei sparisce anche Filippo Turetta, ex-fidanzato. Gino Cecchettin, padre di Giulia, chiede che nella denuncia per la scomparsa della figlia non venga segnalato l’allontanamento volontario, in quanto testimoni avrebbero assistito a una lite violenta in un parcheggio di Vigonovo tra Turetta e Cecchettin. La denuncia viene ascritta dalla polizia di Vigonovo come allontanamento volontario. Questo impedirà le perquisizioni in casa Turetta per altri sei giorni. Tutta Italia sapeva già l’epilogo tragico, confermato il 18 novembre con il ritrovamento del corpo della giovane. Turetta verrà arrestato in Germania il giorno successivo. La rabbia per questo femminicidio esplode nel paese, con manifestazioni in tutte le città e una partecipazione massiccia al raduno nazionale organizzato da Non Una di Meno a Roma il 25 del mese. Politica e opinione pubblica prendono di mira Gino ed Elena Cecchettin che, per la prima volta dopo tanti anni, parlano in TV di patriarcato e cultura del possesso. L’onda di violenza che travolge la famiglia non si ferma neanche davanti al lutto.

Il Governo inizia a pensare a delle soluzioni del fenomeno endemico della violenza maschile contro le donne. Vengono proposte 30 ore annuali di educazione affettiva facoltative previo consenso dei genitori e solo per le superiori, un opuscolo, e nuove proposte di legge che di prevenzione non dicono niente. Il dibattito sul tema si fa caldo, molti politici e intellettuali di sesso maschile urlano dalle televisioni che il patriarcato non esiste. Libero titola un suo numero Caccia al maschio.

Lollobrigida ferma un treno Frecciarossa per scendere a Ciampino.

Un po’ chiunque se la prende con la musica trap.

Salvini precetta la qualunque – semicit. de Il Manifesto.

Le donne uccise per mano maschile nel mese di novembre, oltre a Giulia Cecchettin, sono: Michele Faiers Dawn, Virginia Petricciuolo, Patrizia Vella Lombardi, Francesca Romeo, Rita Talamelli, Meena Kumari, Vincenza Angrisano.

Dicembre è il mese dei resoconti e dei pandori. 

L’Antitrust multa Chiara Ferragni per la truffa Balocco, relativa alla vendita di pandori brandizzati dalla influencer. La comunicazione faceva capire che il ricavato sarebbe andato in beneficenza per i bambini malati di tumore, in realtà era un’adv per la quale Ferragni ha percepito un milione di euro. 

Ad Atreju Meloni attacca Saviano, accusandolo di essersi arricchito grazie alla Camorra, e procede a individuare nuovi nemici immaginari: raver, immigrati, intellettuali, influencer.

Salvini difende Roggero, condannato per l’esecuzione – con un revolver detenuto senza permesso – di due ladri fuori dalla sua gioielleria. Anche il generale Vannacci gli dimostrerà solidarietà.

Al funerale di Giulia Cecchettin il padre Gino fa un discorso meraviglioso sulla responsabilità collettiva verso la violenza di genere. Verrà strumentalizzato e attaccato da più lati.

Durante il processo per lo stupro di gruppo contestato a tre imputati tra cui Ciro Grillo, l’avvocata Cuccureddu interroga la denunciante ponendole domande ricolme di vittimizzazione secondaria. Si giustificherà dicendo che non è possibile costringere una donna a praticare un rapporto orale non consensuale. 

Mentre ci occupiamo ormai solo di pandori, prosegue lo sciopero nazionale di medici e veterinari che si oppongono a una manovra di Governo killer verso il Sistema Sanitario Nazionale e chiedono nuove assunzioni e rispetto per la professione. 

Nel frattempo, prosegue la protesta degli studenti universitari per il carovita, iniziata a maggio: tutti gli emendamenti fatti pervenire su borse di studio, fondo affitti e alloggi universitari sono stati bocciati in manovra.

Quaranta sono i milioni previsti dalla legge di bilancio destinati ai centri antiviolenza: non sono, nuovamente, fondi strutturali, e rischiano di essere persi nelle distribuzioni regionali e figurare come un intervento una tantum.

Le donne morte di femminicidio fino al 22 dicembre, ovvero il giorno in cui sto scrivendo questo lungo pezzo, sono: Rossella Cominotti, Fiorenza Rancilio, Vanessa Ballan, Iride Casciani.

La selezione delle notizie che ho scelto e inserito – e sottilmente commentato – in questo mio articolo è a mio avviso emblematica nel raffigurare l’anno appena trascorso, o meglio: l’emotività che ci accompagna verso l’ingresso nel 2024.

Tra eventi internazionali devastanti come il genocidio palestinese, politiche interne divisive e polarizzanti, cronaca sempre più morbosa e distrazioni di massa, mi pare evidente che il clima che ci avvolge non sia dei migliori.

Sottovalutare il rischio di queste continue tensioni è un danno che temo si manifesterà ampiamente nel corso del prossimo anno.

La politica del divide et impera non funziona, abbiamo dei precedenti storici che lo dimostrano chiaramente. E la continua necessità del Governo di trovare nemici per dimostrare onore (molti nemici, molto onore, diceva qualcuno nel ventennio fascista) è un altro metodo fallimentare: non ci sono nemici tra quelli scelti in questi mesi dagli esponenti di partito o dai DDL emessi; ci sono cittadini e cittadine i cui diritti dovrebbero essere tutelati e ampliati, altrimenti il nostro scontento diventerà violenza. 

E con la violenza nessuno è al sicuro, soprattutto la nostra democrazia.

Mi pare chiaro che ci attenderanno anni difficili, per chi lavora e non viene pagato decorosamente, per chi sciopera e viene manganellato, per chi vuole avere libertà di dissentire o semplicemente vuole vedersi riconosciuti diritti sui propri corpi e le proprie famiglie.

L’anno del nostro scontento non ha colore partitico: siamo tutte e tutti in questo limbo di tensione, come nell’attimo di quiete che precede la tempesta.

Il mio augurio è che chi ci governa intercetti in tempo questa escalation di tensione e faccia i doverosi ragionamenti sulla comunicazione politica scelta.

Perché odio chiama odio, specialmente in un paese stanco, affamato e arrabbiato come il nostro.

Ma se la decisione, come ahimè mi sembra, è quella di portare avanti proprio politiche d’odio, allora tenetevi in forma: il 2024 sarà un anno movimentato.

ARTICOLO n. 102 / 2023

LETTERA A MARLENE DIETRICH

lettere d'amore

Pubblichiamo un estratto dal volume Lettere d’amore. Carteggi di scrittori del Novecento (Il Saggiatore). Prefazione di Massimo Onofri.

28.11.1938

da Parigi a New York, Hotel Waldorf Astoria

[Intestazione della lettera: Hotel Prince De Galles.]

I giorni sono brevi e le notti lunghe in novembre, tesoro – di giorno ci si può dar molto da fare, andare d’attorno e combinare qualcosa – ma quando il primo fremito del crepuscolo prende ad aleggiare dietro l’Arc e la prima pubblicitàluminosa s’accende sui Champs Elysées, il mio cuore è perduto e non può fissarsi da nessuna parte e corre dietro ai suoi sogni.

Corre con te da Maggy Rouff e Knize, da Fouquet, corre a Chartres e alla mostra persiana e al Louvre – dai Corot e dai Daumier, dai Forrester e dai Kolpe [Il riferimento è al paroliere Max Colpet.] e al cinema e per conto mio anche dai Montel, corre, corre – 

Carissima, fuggitiva ed eterna come un cuore – batti, cielo al di sopra della piccola cerchia di carri che nascondono sentimenti zingareschi – cielo come quello nel quadro di van Gogh al Louvre – tesoro, è stato bello insieme a te! Questa estate piena, piena di luce e mare e progetti e giovinezza! Siamo divenuti giovani l’uno accanto all’altra, dolcezza, giovani e vitali, e il futuro è diventato di nuovo una briglia tesa nelle nostre mani, una coppia di briglie lunghe e lucenti, protese nell’incertezza e in quel che verrà.

Era bello vederti divenir giovane, tesoro, e vedere fiorire in te la baldanza (Übermut), serena e tranquilla che Nietzsche chiama danzante Über-Mut, l’anima che trascende se stessa nella danza. Sei andata come una nave si distacca senza rumore dalla spiaggia – colma di un buon carico, accudita e protetta da mani meticolose nel cantiere della lunga estate; con buoni venti e vele gonfie – Ma tu sei lontana, è così. Non posso darmela ad intendere – di giorno beh, ancora va – ahimè, veramente non va mica tanto. È davvero proprio senza senso, è una cosa inutile che noi siamo separati – la sera sale sopra i tetti delle case e si appoggia con i suoi rossi occhi alla finestra – domanda delle domande, unica domanda, domanda della sera e della notte – stupida domanda: dove sei, ti riavrò presto, e mi ami? Quando sei partita l’ultima volta ho pensato che ti amavo – ora so che era solo un amore parziale – non credo che ti potrò più amare come ora – solo ora ti amo e niente è più al di fuori – tutto si chiude in te

Adieu, parto subito con il puma grigio [La Lancia Dilambda di Remarque] per Ginevra – Adieu, adieu mia amata, mia unica – 

ARTICOLO n. 101 / 2023

L’ARTE DI ESSERE NATI

conversazione con Marco Marino

Come essere grati

Il racconto di questa conversazione comincia dalla sua fine. Con Antonio Moresco siamo seduti dentro un bar di Piazza Oberdan, a Milano, che si chiama 12oz Coffee Joint: lui ha provato un brownie, io sto bevendo una Coca Zero. Fuori ha cominciato a piovere; noi stiamo parlando di gratitudine. «Capitava ogni due mesi» mi racconta Antonio, «la portinaia mi diceva che a portarli era stata una donna. Ogni volta, lasciava un mazzo di fiori e se ne andava. Aveva provato a trattenerla, a dirle che ero appena rincasato, che sarei stato felice di vederla, ma lei correva sempre via. Dalle descrizioni avevo intuito chi era, e mi chiedevo perché facesse così; prendeva un treno da Vicenza, arrivava in stazione, passava a comprare quei fiori, li lasciava in portineria per poi ritornare subito in stazione».

La donna di cui parla è Alessandra Saugo, l’autrice di Come una santa nuda (Wojtek Edizioni, 2023), da cui gli ho appena letto ad alta voce un breve brano: «John? E la gratitudine? Basta niente che sento venire su la gratitudine. Succede anche a te? A me ma proprio un fenomeno travolgente, invade tutto, si dilunga, permea». Era stato Antonio ad aiutarla a pubblicare il suo primo romanzo, Bella pugnalata (Effigie, 2010), uno dei tanti manoscritti portati dal vento. Lo aveva travolto una scrittura da vera erinni della letteratura, sulla pagina esplodeva di quella «grazia violenta» propria delle figure tragiche di Eschilo: era impossibile restarle indifferenti, ma soprattutto era ingiusto che la forza della sua nuova lingua continuasse a restare nell’ombra, tristemente sepolta dai rifiuti editoriali. Dopo quella pubblicazione, però, la vita letteraria di Alessandra Saugo non raggiunge il successo sperato, continua il travaglio delle sue pubblicazioni e l’indifferenza dei grandi editori, che la confinano in un angolo sempre più oscuro e silenzioso, di cui adesso si trova traccia solo tra le righe dei suoi diari («John, il rumore del mondo… I soloni concionanti nei festival culturali. Gli scrittori parlanti. I pensatori di grido. John, non ce l’ho fatta. E sai, la vera saggezza è starsene fuori dal mondo senza inacidire»). Muore nel settembre del 2017, all’età di quarantacinque anni, per un tumore incurabile; Antonio non ha mai smesso di occuparsi della sua opera. 

Come eludere la mistica del fallimento

D’altronde, nelle Lettere a nessuno (Mondadori, 2018), in cui registra in forma epistolare i sentimenti di rabbia, frustrazione e miseria per i suoi quindici anni di rigetto, il vero crimine che l’autore degli Esordi condanna è il crimine dell’indifferenza: è l’indifferenza il peccato originario che ci ostacola dall’accorgerci dell’altro, capirlo, farlo nostro. «Anche io ho avuto una lunga rincorsa… Di quei lunghi quindici anni non voglio farne, però, una mistica del fallimento o un titolo di merito. Non mi piaceva la letteratura a me contemporanea ed essere rifiutato, all’inizio, per me era un dramma. Eppure, sono sopravvissuto, e sono sopravvissuto pensando che quel rifiuto fosse un dono, perché non essere accettato mi ha permesso di stare ancora più vicino a me stesso, di coincidere totalmente con me stesso e la mia scatola nera. Di fare, di quella buia coincidenza, scrittura». Ci sono alcune stelle fisse nel suo cammino, una letteratura privata di parole che legge e continuamente si ripete, che gli restituiscono un senso di fratellanza, un’idea di patria in cui essere accolto: Dostoevskij che nei Fratelli Karamazov dice che negli eccentrici si trova il midollo dell’universo; Cristo che nel Vangelo di Matteo parla della pietra scartata che diventa la pietra angolare «meravigliosa ai nostri occhi»; Van Gogh che nelle sue lettere al fratello Theo confessa la sua crescente diversità dal resto del consesso umano. «Non potevo sentirmi solo; avevo dei fratelli e delle sorelle, in tutte le epoche e in tutto il mondo, di cui condividevo la fiamma: in loro stavo e vivevo». 

E infine, dopo il dono della rincorsa, arriva lo slancio e il volo. Nel 1998 Feltrinelli pubblica Gli esordi, che comincerà una trilogia completata poi con Canti del caos (2009, Mondadori) e Gli Increati (2015, Mondadori). Già dai titoli è possibile desumere la centralità, per Antonio, del tema della nascita, del cominciamento, del principio. «Il mio lavoro si muove molto attorno al binomio genesi/genetica: due spazi apparentemente diversi, uno spirituale, l’altro biologico, in cui spesso si crede che i giochi siano già stati fatti. A un certo punto veniamo al mondo, accade e basta, e per molti la loro storia finisce nel momento in cui è iniziata. Eppure, il nostro patrimonio di cellule è la prova del contrario, che la vita, nel momento in cui esordisce, è un continuo processo di trasformazioni, la creazione è un’azione in cui non si estingue mai il dinamismo: le nostre cellule mutano ripetutamente, muoiono e risorgono, ricreano tessuti, ridanno vita. Sono d’accordo con i lettori che hanno usato l’idea di “staminalità” per parlare della mia visione, la forza di queste cellule equipotenziali è la forza della creazione che si dissemina in tutte le espressioni dell’umano».

Come vincere la morte

In che modo, dove prende luogo questa staminalità, sono le domande che gli rivolgo, quasi interrompendolo. «Innanzitutto, bisogna avere coscienza di un fatto imprescindibile: essere vivi. A tutti quelli che mi accusano di essere un vitalista, rispondo sempre di accontentarmi di essere un vivente. Se lo consentono… Se non lo consentono, resto vivo lo stesso». E poi? «Bisogna riuscire a sbalordirsi. Lo sbalordimento è, più o meno, tutto. Molti si proclamano disincantati; ecco, io invece sono incantato. Se non sei incantato, non puoi vedere il mondo; se non eserciti l’incanto non sperimenti la vita. Se lo vedi con incanto, tutto ciò che coglie il tuo sguardo ti ritorna con una risoluzione incredibile, e ogni evento assume un senso di novità inaudita. Pensiamo alle migrazioni dei popoli. Bisogna osservarle come qualcosa di epocale, come uno stravolgimento per cui non servirà un muretto qualsiasi né le tecnologie del momento, non servirà qualcosa che separa, scherma e dà l’impressione di proteggerci. Quel movimento di corpi è la vita stessa. Accorgerci della vita significa vincere la morte». Non mi resta che chiedergli come questo diventa, poi, scrittura. «Me lo sono chiesto a lungo: come hai fatto a stare dentro la trilogia per 35 anni? Perché mi ingannavo? Perché avevo quella sapienza?». In che senso, ingannarsi? «Sì, ingannarmi era diventato l’unico metodo possibile per scrivere, se non mi fossi ingannato non ce l’avrei mai fatta a scrivere Gli esordi. Come ti dicevo, avevo bisogno di vedere il mondo, di raccontarlo a modo mio. Ma avevo iniziato ad avere delle forti crisi. Pensavo che non ce l’avrei fatta, spergiuravo, rivolto non so a chi, di farmi finire, che dopo avrei smesso di scrivere. Poi mi sono imbarcato nel secondo libro, e con lui sono sopraggiunti i problemi cardiaci, i medici mi dicevano di smettere. Io, però, ho sempre proseguito».

Come rompere lo specchio

Mentre Antonio parla, io sfoglio Diario del caos (Wojtek, 2022), preziosa raccolta di appunti di lavorazione tra il primo e il secondo libro, tra Gli esordi e I canti del caos. Tutto sembra chiaro dentro questo vortice di pensieri, tutte le vite e le forme evocate trovano la loro ragione. A proposito di vite e di forme, e quindi di nomi e di titoli (anche i libri sono esseri viventi, no?), costante ossessione dell’autore, leggiamo nel Diario: «Oppure, per il titolo, un nome che stia a indicare (o possa potenzialmente farlo) una nuova “forma” che non è più né romanzo né poema né raccolta di racconti, ecc… (Ma non potrebbe essere questo, appunto, Il caos?)». Una semplice nota come questa può divenire paradigma per una ciclopica idea di letteratura? «Sì, la letteratura sicuramente supera le forme che evocavi. Credo che la letteratura sia una cruna, un passaggio, sia quel qualcosa che rompe lo specchio della realtà o presunta tale. Sono due momenti che provo a chiarire: alla letteratura non interessa farmi perdere tempo; la letteratura mi sposta, mi porta dove prima non ero. Ma perché la letteratura divenga passaggio, deve prima rompere lo specchio, come nell’incipit della Metamorfosi di Franz Kafka, devi alzarti come essere mostruoso per accorgerti davvero di chi sei, del tuo corpo e del tuo mondo: quella è la rottura dello specchio, e allora anche il passaggio, il nostro ineludibile spostamento».

Fuori dal bar la pioggia cade giù sottile; entrambi dobbiamo lasciare il nostro tavolino e ritornare ai rispettivi impegni, la metro ingolfata di gente, Milano che corre, la paura per me di non riuscire a vedere come vede Moresco, di vivere come vive Moresco. Di non riuscire ad assumermi un rischio così sublime.

ARTICOLO n. 100 / 2023

ESSERE PAUL NEWMAN E JOANNE WOODWARD

Note a margine di un’asta da Sotheby’s

Di recente ho passato diversi mesi a New York. Abitavo nell’Upper East Side, in un appartamento all’angolo tra la Settantaquattro e First Avenue. In quei mesi traducevo e scrivevo, trascorrevo molte ore seduta al computer in casa, al bar o in biblioteca, e nelle pause camminavo nei dintorni, spingendomi più o meno lontano, facendo soste nelle gallerie del quartiere o nelle caffetterie dei grandi musei di Fifth Avenue. Una delle tappe più ricorrenti erano le stanze espositive di Sotheby’s, a un paio di strade da casa, dove, nelle due settimane che precedono un’asta, parte della collezione viene esposta a beneficio di potenziali acquirenti e di tutti, prima di disperdersi nelle case di chi si aggiudicherà i singoli pezzi, dipinto, gioiello o mobile che sia. Una delle ultime aste e relative esposizioni allestite mentre ero a New York è stata quella di mobili, oggetti e dipinti posseduti da Joanne Woodward e Paul Newman.

Dopo mesi di frequentazione delle stanze di Sotheby’s, sono arrivata alla conclusione che guardare gli oggetti presi dalla casa di qualcuno ed esposti nelle sale algide di una casa d’aste è un’esperienza al tempo stesso deprimente e rassicurante. Ti deprime il pensiero che chi ha ereditato quegli oggetti abbia deciso di venderli (anche se spesso, come è successo lo scorso anno con l’asta degli oggetti appartenuti a Joan Didion, il ricavato va in beneficienza). Ma sei anche rassicurato al pensiero, fortemente animista e quasi certamente illusorio, che, lasciate quelle stanze, gli oggetti inizieranno una nuova vita, dentro case nuove, posseduti da brave persone che avendoli scelti e acquistati a cifre quasi sempre superiori rispetto al loro valore effettivo dovrà quasi certamente amarli. 

Gli oggetti di casa Woodward-Newman esposti e poi venduti da Sotheby’s non erano tanti, né particolarmente belli o di valore (se non sentimentale): alcune sedie e altri mobili anonimi, qualche abito di scena, molte affiche dei film interpretati da uno dei due o da entrambi contemporaneamente, qualche fotografia, dipinti inglesi o americani del XIX e XX secolo (molti raffiguranti bambini paffuti e vestiti a festa), un set di valige d’altri tempi e poco utilizzabile, caschi e altri cimeli legati alla passione di Newman per le auto da corsa, diversi orologi, qualche gioiello e poche altre cose disposte in ordine arbitrario nella stanze espositive della casa d’aste. L’insieme in sé non era affascinante né emozionante, eppure tornata a casa mi sono subito messa a guardare la serie documentaria su Woodward e Newman diretta da Ethan Hawke, animata da un vago senso di colpa per avere violato una sorta di privacy o intimità nel curiosare tra oggetti che non comprerò mai.

La serie si chiama The Last Movie Stars, le ultime star del cinema, e la definizione è dello scrittore Gore Vidal, evidenziando come Woodward e Newman siano stati per un lungo momento gli ultimi sopravvissuti di una generazione di attori per certi versi inarrivabili. È una serie in sei episodi (negli Stati Uniti è in streaming su Prime, in Italia sulla piattaforma Now di Sky) e si basa su uno straordinario repertorio di immagini e centinaia di interviste, incluse quelle realizzate dallo stesso Newman insieme allo sceneggiatore e attore Stewart Stern (è quello che ha scritto Gioventù bruciata di Nicholas Ray e The Last Movie di Dennis Hopper) ad attori amici e parenti della coppia per un memoir che Newman era intenzionato a scrivere. Poi però Newman distrusse i nastri con le interviste, di cui oggi resta solo la trascrizione fatta da Stern. La serie nasce da un’idea di una delle figlie di Woodward e Newman, Melissa Newman, che poco prima dei lunghi mesi di lockdown da Covid ha contattato Ethan Hawke chiedendogli di dirigerlo. Hawke ha detto immediatamente di sì, e ha girato gran parte delle interviste su Zoom, chiedendo anche a vari attori di prestare la loro voce per potere utilizzare le trascrizioni di Stern. Capifila dell’operazione sono diventati così Laura Linney, che dà la voce a Woodward, e George Clooney, che interpreta Newman. La serie è magnifica, e restituisce con esattezza la dimensione pubblica e privata della coppia, così come quella sorta di sacralità e rispetto che li ammanta, e che palesemente onora, emoziona e impegna al loro massimo gli attori coinvolti nel progetto. Tra loro ci sono Vincent D’Onofrio che diventa John Huston, Bobby Cannavale che è Elia Kazan, Tom McCarthy è Sydney Lumet, e Zoe Kazan è Jackie McDonald, la prima moglie di Newman. Alle interviste trascritte e reinterpretate si aggiungono quelle originali condotte da Hawke a una ventina di attori e registi, da Martin Scorsese a Ewan McGregor, da James Ivory a Richard Linklater, e ancora Sam Rockwell, un’altra delle tre figlie di Woodward e Newman, Nell Newman, e la figlia Maya Hawke.

Sempre nei miei mesi newyorchesi, mi è capitato di vedere Ethan Hawke a una proiezione di Hamlet 2000 in 35 mm organizzata al cinema Paris, su Central Park, seguita da un incontro con lo stesso Hawke (Amleto nel film) e il regista Michael Almereyda. La proiezione in pellicola è stata interrotta per un problema tecnico che si è rivelato impossibile da risolvere se non sostituendo il digitale alla pellicola per un lungo momento, per poi tornare alla pellicola per l’ultima mezz’ora di film. A un certo punto, nei lunghi minuti di attesa, nella sala buia, si è sentita la voce di Hawke dire: “so ancora tutte le battute, se volete nel frattempo vado avanti io con la storia”. In sala abbiamo riso, e tollerato forse con maggiore pazienza la visione interrotta, il tempo dilatato, il lungo momento in digitale, grati per avere azzerato in pochi istanti la distanza tra noi e il cinema, facendoci entrare in una dimensione che non era del tutto reale ma nemmeno del tutto immaginaria. A fine film, insieme al regista, Hawke ha parlato di Hamlet 2000, del set, di quegli anni, di Shakespeare, del cinema indipendente, del cinema in generale, con quell’entusiasmo un po’ ingenuo ma autentico che lo ha trasformato per un frangente nel ragazzino grunge con il cappello di lana che nei panni di Amleto, appunto nel 2000, abbiamo amato tanto quanto amavamo Kurt Cobain o Eddie Vedder. 

Anni fa, durante una conversazione telefonica, Bret Easton Ellis mi disse che ultimamente non riusciva ad amare nessuna star del cinema, e che “sono semplicemente troppe, non saprei chi scegliere”. Il che non è vero. Nel riguardare vecchi film con Woodward e Newman, o la serie di Hawke su di loro, o Ethan Hawke parlare di Shakespeare a New York, ho ragionato sul fatto che non è vero che gli attori sono tutti uguali, e che a volte basta una scena o una battuta in un film o una frase detta in un’intervista a farceli preferire ad altri. Scegliamo Paul Newman, o Ethan Hawke, così come potremmo scegliere Amleto, oppure Ofelia, o un paio di fotografie in bianco e nero di Woodward tra le decine di oggetti in vendita da Sotheby’s, che anche se, lo sappiamo, non compreremo mai, per un frangente desideriamo diventino nostre. Sappiamo perfettamente che nessuno di loro né nessuno dei loro oggetti sarà mai nostro, ma li scegliamo comunque. Sappiamo anche che non appartengono del tutto alla realtà ma che non sono nemmeno interamente frutto della nostra immaginazione. Un po’ come Amleto, che non è mai esistito davvero, senza che questo lo renda meno reale. E nello scegliere lui, o Newman, o una foto di Woodward, ci prendiamo temporaneamente una pausa dalle nostre vite e abitiamo le loro, immaginiamo di essere loro, giochiamo a essere loro. Che in inglese è to play, e vuol dire giocare, ma vuol dire anche recitare. La cosa bella della recitazione, è che non c’è mai niente di definitivo.Quando a scuola di recitazione a Joanne Woodward venne chiesto perché volesse fare l’attrice, rispose: è l’unica cosa che so fare. Nelle due foto in bianco e nero vendute da Sotheby’s, della coppia Woodward-Newman c’è solo Woodward. È molto giovane, è a lezione di danza, in una delle due foto è in schiera insieme ad altre ragazze appoggiate a una parete, nell’altra fa un esercizio alla sbarra. Così, sì: sapeva anche ballare.

ARTICOLO n. 99 / 2023

RENZO BIASION, ROSSO PERIFERIA

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del Novecento attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Volge al termine la nostra brumosa incursione nelle piazze della pittura di paesaggio veneta del XX secolo. Con Orazio Pigato si è introdotto il tema della morale nel dipingere, con Antonio Fasan si è discusso il potere politico dei colori. Renzo Biasion porge un’altra chiave di lettura per affezionarsi a questa disciplina, la pittura, di cui l’immagine non è altro che maschera mortuaria. La chiave offerta da Biasion è la storia: ogni quadro è fonte e testimonianza nonché, se contemporaneo, cronaca dell’attuale.

Al giorno d’oggi si utilizza l’affiliazione alla storia dell’arte per nobilitare l’operato di artisti viventi che fanno uso di vistosi riferimenti – “be’, si sente che ha studiato la storia dell’arte!” – quasi che codesta disciplina sia avulsa dal mondano consumo quanto la sfragistica. La storia dell’arte non appartiene all’arte, bensì alla Storia; è uno dei tanti modi in cui si studia il percorso compiuto dall’uomo, non da forze invisibili.

Ricordo con una certa vividezza le lezioni di storia dell’arte impartitemi quando ero bambina. Nei libri di testo delle scuole italiane l’arte era un serpentone hegeliano, gli artisti non erano che esempi per il dispiegarsi dello Spirito. Per prendere la sufficienza l’alunno doveva mostrare di aver capito le conquiste dell’Umanesimo, non quelle di Donatello. Questo pensare non viene applicato all’arte contemporanea, un po’ per pigrizia nei confronti di deduzione e induzione, un po’ forse perché si crede, idealizzandolo, che il denaro, la speculazione interna al mondo dell’arte, abbia domato lo Spirito. 

Renzo Biasion nasce a Treviso nel 1914 da famiglia veneziana di navigatori e antiquari. Quasi trentenne, si trova impegnato sul fronte greco-albanese e poi internato in un campo di prigionia nazista. Scrittore di stampo neorealista, il suo Sagapò, antologia di racconti ispirati all’esperienza di soldato, è pubblicato da Vittorini per la collana “I gettoni” di Einaudi. Un altro dettaglio estremamente rilevante nella vita di Biasion è che per 34 anni ha scritto critica d’arte per il settimanale Oggi, rivolgendosi a un pubblico non specializzato; questo gli ha permesso di conoscere l’arte grande e piccolissima a lui coeva, e di seguirla senza interruzioni. Biasion è stato insomma il prototipo dell’artista che ne sa una più del diavolo, a oggi ancora temutissimo giacché persino il narcisista è considerato più manipolabile del sapiente. Parte della grandezza di Biasion ha risieduto nel non essere mai succube della propria cultura, nel non trasformare la propria conoscenza enciclopedica in bulimia poetica, nel distinguere sempre l’Io dall’Altro e nel capire che il vero artista non può utilizzare tutte le immagini proposte dal mondo. Che, insomma, è più ardimentoso limitarsi a quel poco che è il destino di ognuno.

La cifra di Biasion, squisito incisore oltre che pittore, è stata quella di rapportarsi a ogni superficie o schermo ottico come fosse la pagina di un libro. Le sue opere più notevoli rappresentano facciate di edifici e pareti d’interno suddivise in cornici, rettangoli, finestre di testo. Spesso queste aree geometricamente abbozzate sono graffiate con ghirigori che disegnano il mobilio domestico, decorato di ricci e torniture: un Matisse della gommalacca. Il suo periodo più pregnante è stato quello bolognese, che va dal 1954 al 1965, «contraddistinto», scrisse Marcello Venturoli, «da una visione del paesaggio urbano di periferia, inconfondibile ancora in quegli anni a Bologna, cupo e solitario, ma splendente di cromia, al comun denominatore dei rossi». 

Impensabile eppur morigerata crasi tra T.S. Lowry e Mimmo Rotella, la Bologna residenziale ritratta da Biasion. Tesserata di panni stesi, poster, tendine e balconi, assomiglia a un parco in miniatura per bambole avanti negli anni. È dignitosa, tranquilla, terribilmente familiare, punteggiata di smalti verde bottiglia; i casoni di argilla appartengono sia all’Italia dei carri che a quella delle berline. Si sa: Bologna è la città che più si presta a ospitare la commutabilità dell’uomo e la fissità delle cose, la noia provata da ogni orologio, la dispersione nel ricordo. È commovente che quei quadri, in cui si intuisce l’operaismo benché siano tiepidi e borghesi, siano stati dipinti nella metà del secolo. Essi vivono come un fermalibri che separa i giardini d’infanzia di Adriana Zarri e Cristina Campo dalle nostre gite volte a rintracciare il tempo che fu grazie a crescentine, birre in oratorio e mercati del vintage.

Vivere nel tempo è cosa d’altri tempi, a noi nipoti del postmoderno non resta che giocarci: tira e molla, rimpiattino, un flirt, un bacetto, levarsi un calzino, un giorno cotonati, un altro lisci, e alla fine morire con i chip nella retina e la crinolina stretta in vita. Se non che i quadri – anche i più inesauribili, avveniristici, eterni – ci inchiodano al passato perché ognuno di essi è testimonianza di un’esigenza espressiva situata nella storia.

Al pari di Pigato e Fasan, anche Biasion per tutta la vita ha rifiutato l’affiliazione a movimenti di avanguardia e di reazione nonché a gallerie, preferendo rimanere figlio di un Veneto lirico e astorico. D’altronde, come Fasan, ancora giovinetto Biasion aveva ricevuto il benestare da De Pisis, una sorta di cedola per uscire dal tempo. Eppure, persino l’arte di questi veneti che hanno fatto voto di castità verso lo Zeitgeist, che hanno strofinato con la cenere i titoli più roboanti del Corriere della Sera… persino la loro umiltà è serva della Storia. I quadri di case rosse della periferia bolognese vivono come parentesi ricamate al centro del secolo, un poco affettati, elegiaci, rivolti all’ “urbanistica dell’anima”, ma al contempo capaci di trasmettere il passaggio della periferia da quartiere a identità.  

Di fronte a ogni quadro – visto al mercato, al poliambulatorio, in casa di parenti – bisogna impegnarsi per cogliere il dato storico. Spesso è camuffato: l’arte che fa largo uso di citazioni non discute la storia dell’arte, ma mistifica se stessa. L’arte che utilizza un linguaggio futuribile traveste, talvolta queerizza, il presente. L’arrendevolezza all’approccio realista – come è stato il caso di Pigato, Fasan e Biasion – spesso soggiace a un disinganno e può essere più introspettiva di quella che esibisce un panorama simbolico. Ogni quadro è un rompicapo, una possibilità di studiare la Storia, una presa di posizione politica nascosta tra colori e superfici. Spero, con questa trilogia di articoli, di aver acceso nel lettore affetto e curiosità verso quel quadro di paesaggio da tre soldi appeso da decenni in corridoio.

ARTICOLO n. 98 / 2023

PIAZZA FONTANA

In occasione del cinquantaquattresimo anniversario di Piazza Fontana, pubblichiamo un estratto da Sconfitti (Il Saggiatore). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Sono difficili da dimenticare quei giorni della strage di piazza Fontana, venerdì 12 dicembre 1969. Per un caso ero entrato nella Banca non molto tempo dopo l’esplosione. Di ritorno da Roma, alla Stazione Centrale avevo preso un taxi. In piazza Fontana, mi disse il tassista, era appena successo qualcosa di grave, lo scoppio di una caldaia alla Banca dell’Agricoltura e si parlava di molti morti. Gli dissi di portarmi alla banca, non più a casa. 

In piazza Fontana c’erano solo qualche ambulanza e qualche macchina dei carabinieri e della polizia. Non si vedeva ancora nessuno venuto a curiosare nell’aria nerastra. 

«Macché caldaia, è una bomba, ci saranno trenta morti» mi disse qualcuno. Non c’erano ancora blocchi, servizi d’ordine. Dal portone cominciavano a uscire barcollando i sopravvissuti, informi ossessi che si scontravano con i barellieri di corsa in senso contrario. Entrai senza difficoltà nella grande sala a pianterreno. Una macelleria dell’orrore. Il sangue colorava la polvere dei vetri frantumati e il legno dei mobili ridotti in briciole e continuava a colare. Vidi subito un braccio appiccicato a un muro e una testa rotolare sul pavimento. Brandelli di cadavere spuntavano da ogni parte. Qualche corpo meno straziato era finito oltre il bancone delle casse a forma di ferro di cavallo dove gli impiegati, una parte di loro almeno, erano riusciti a salvarsi buttandosi a terra come in trincea. 

Qualcuno gettava in un mucchio gambe, braccia, teste, pezzi di cadavere trovati via via nel salone. Nessuno gridava, era il momento del silenzio innaturale che viene sempre dopo la tragedia. Non provavo sentimenti, non avevo reazioni, non mi ponevo domande, mi sentivo confusamente prigioniero di un’atonia paralizzante. Non mi veniva in mente niente, riflessioni, pensieri, giudizi. Come se fossi azzerato nell’anima. La coscienza, anche dopo un massacro, affiora con lentezza. Ero invece smisuratamente attento ai particolari più minuti che possono anche essere rivelatori, guardavo con fissità, come un automa, una mano recisa, una macchina da scrivere schiacciata, una scarpa. Mi trovavo, ma lo compresi dopo, in un ambulacro di morte difficile da immaginare anche per chi avesse la macabra fantasia di inventare la fine del mondo andato in fiamme. 

Tra le macerie e i resti umani captavo qualche notizia. Sembravano voci recitanti le parole che sentivo, dialetti mescolati, di tonalità diverse. A esprimersi, a mozziconi di frasi, erano gli ultimi sopravvissuti rimasti dentro la banca, impiegati, commessi, agricoltori. 

La bomba era scoppiata con un gran tuono e un bagliore arancione. La borsa con l’esplosivo – si saprà dopo che si trattava di dinamite a base di binitrotoluolo, dall’odore di mandorle amare – era stata messa sotto il tavolo di legno in mezzo al salone. Dove ora c’era un buco profondo, epicentro della strage. I frammenti della bomba erano schizzati sui banchi degli impiegati seminando cadaveri, smembrandoli – diciassette morti e un centinaio di feriti –, ma questi numeri veritieri si sapranno durante la notte e nei giorni, mesi e anni successivi, dopo un macabro alternarsi di voci. 

A un certo momento – non riuscivo a muovermi dall’orlo del buco – vidi dietro i banconi degli impiegati l’orologio della banca di cui non mi ero accorto. Si era fermato alle 16:37. Quasi un notaio della strage. Farà il giro del mondo, alle TV e in fotografia. 

Fino a quell’ora il salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura era stato popolato dai clienti del mercato del venerdì. Si riunivano lì fuori, tra l’Arcivescovado, il Consorzio agrario e dentro la banca. Venivano dai paesi del Milanese e anche dalla Bassa padana, proprietari di terra, fittabili, coltivatori diretti, commercianti, sensali. La tradizione del mercato – estate e inverno – era antica. Il venerdì pomeriggio, per offrire ai clienti maggiori opportunità, gli sportelli restavano aperti più a lungo del solito. 

Per i loro affari, compratori e venditori di terra, di bestiame, di fieno e di sementi usavano da sempre la Banca dell’Agricoltura e il tavolo di legno massiccio, ottagonale, era il luogo della scrittura definitiva, dopo le interminabili strette di mano dei mediatori. Si sedevano lì gli agricoltori, per firmare l’assegno, per compilare il bonifico, per la cambiale. Il tavolo, sotto il ripiano di scrittura, era diviso a spicchi e capitava che chi sedeva appoggiasse per terra o accanto ai divisori di legno la propria borsa. Anche l’assassino doveva aver lasciato lì sotto la borsa fabbricata da un’industria tedesca, la Mosbach‐Gruber, con dentro la bomba, venduta con altre tre borse simili dalla valigeria Al Duomo di Padova. 

Rimasi ancora un po’ tra i resti della banca, in una gran polvere di detriti. Un poligono di morte. Poi arrivarono le autorità, il cardinale, il prefetto, il questore, il sindaco e si misero in moto i meccanismi dell’ufficialità. Gli ordini gutturali delle guardie, le loro voci stizzite rompevano ora l’aria, tra i cordoni e le barriere che si formarono. Le autorità erano più importanti dei cadaveri. Fui cacciato. 

Cominciavo lentamente a capire l’enormità di quanto era accaduto, nel centro della città, a pochi passi dal Duomo. Ma non avevo ancora coscienza di essermi trovato, inconsapevole, quasi per caso, dentro una storia di cui si sarebbe discusso anni, priva di colpevoli, come sempre accade quando si tratta di affari politici in cui lo Stato non è assente. Pensai dopo, immaginai, meglio, di aver rivissuto là dentro l’avventura di Pierre Bezuchov, il personaggio tolstoiano di Guerra e pace che vaga sperduto tra i cosacchi, gli ussari, i cadaveri e i cannoni, non cosciente di esser stato, nel 1812, testimone partecipe della battaglia di Borodinò, ricordata per la vittoria o mezza vittoria della Grande armata di Napoleone che arrivò nel cuore di Mosca, al Cremlino, e trovò la città abbandonata, incendiata, saccheggiata, e fu costretto, dopo due settimane, alla ritirata, con un esercito semi‐distrutto che divenne via via un’orda caotica come accadde all’armata di Hitler più di un secolo dopo.

Quella notte non si andò a dormire. Si temeva il colpo di stato. I ragazzi del Movimento studentesco cercavano un tetto per nascondersi. Fino a tardi ci fu quasi una processione in piazza Fontana, uomini e donne di ogni condizione sociale sostavano in piccoli gruppi nelle strade lì intorno, via Santa Tecla, via Larga, via Festa del Perdono, l’Università Statale, piazza Santo Stefano, il Verziere. A discutere, a far congetture, mentre le notizie degli attentati di Roma e del fallito attentato di Milano alla Banca Commerciale aprivano nuovi scenari e suscitavano nuovi incubi. 

Il sabato e la domenica passano in un clima di paura e di sospetto per quel che può accadere. Il lunedì i funerali in piazza del Duomo, nera come la pece, i lampioni accesi in un mattino che sembra notte fonda, le candele accanto alle bare, le corone di fiori a far da cornice, migliaia e migliaia di uomini e donne dai volti gelidi come se fossero stati modellati dalla stessa mano con la creta usata da un primitivo scultore ducentesco. Trattengono nel cuore commozione e pianto. 

Le autorità siedono immobili nei primi banchi della cattedrale, il cardinale invoca misericordia. Di carabinieri e poliziotti intorno alla piazza, sotto i portici della Galleria e altrove, neppure l’ombra. 

Da Sesto San Giovanni, a piedi, sono arrivati invece migliaia di operai, le tute bianche della Pirelli, le tute blu della Breda, della Falck, della Magneti Marelli. Sono loro il servizio d’ordine, i veri tutori, il fermo no della città e dell’intero Paese all’avventurismo eversivo. Nel nome della democrazia. Il messaggio fu compreso dagli sciacalli del disordine. 

La strage di piazza Fontana è un romanzone angosciante, fitto di morti, di personaggi sul filo dell’invenzione settaria, di povere vittime incolpevoli e anche di uomini e di donne che, come succede nei grandi casi della vita, in quell’occasione scoprirono se stessi e lottarono in nome della verità e della giustizia. Quello fu anche il romanzo non scritto di una società divisa in due, gonfia di fervori, di furori, vitale e faziosa – gli innocentisti, i colpevolisti – una piccola Parigi che rammenta il caso Dreyfus, così come lo raccontò Zola e, tra gli altri, Marcel Proust. Fu per molti una rivelazione, quella dello Stato e di certi suoi apparati che avrebbero dovuto tutelare istituzionalmente la Repubblica e invece complottavano contro la Repubblica, depistavano le indagini, proteggevano esecutori e mandanti di una strage chiaramente fascista. 

Si rompevano vecchi cliché. Le autorità erano scandalizzate nel rendersi conto che molti giornalisti – scrivevano sui giornali della borghesia tradizionale, appartenevano ai ceti privilegiati – mettessero in dubbio le verità questurine e facessero quel che dovevano, cercare le notizie. Si sentì allora, acutamente, che non esisteva soltanto il conflitto di classe, ma anche il conflitto tra le due facce della borghesia, mai sanato: la borghesia fedele alla Costituzione e la borghesia infedele anche ai propri principi, disponibile all’illegalità in nome dell’interesse privato. 

ARTICOLO n. 97 / 2023

BUFFALO BILL ALLE VARESINE

Pubblichiamo un’anticipazione dall’ultimo numero della rivista Città Milano che sarà presentato il 12 dicembre 2023 al Teatro Franco Parenti di Milano (ore 18:00). Ringraziamo Città Milano per la disponibilità.

Il Luna Park Le Varesine è stato per anni un vanto per Milano, considerato il più pericoloso al mondo, sia per scarsa manutenzione ruota panoramica, sia per personale non qualificato e pregiudicato che gestiva giostre molto complesse. Negli ultimi anni venne annesso un obitorio, molto dignitoso e composto come arredi. Troppe erano ormai le vittime di questo parco divertimenti.

Alcuni bambini ricattavano i papà: “Se non mi compri il motorino, vado alle Varesine e provo tutto…”.

Papà: “Per carità! Le Varesine no! Piuttosto mi incateno davanti al Comune. Anzi faccio prima a comprarti il motorino. Meglio che ti ammazzi con quello piuttosto che precipitare da 50 metri su un cestello della ruota panoramica”.

Figlio: “Papà, non esageriamo”.

Papà: “Ma sono stato ancora cauto, alle Varesine i bambini che non vengono catapultati dentro il balcone di una donna anziana, spariscono e vengono venduti a bande di Rom che ormai hanno in mano la zona”.

Figlio: “Fanno combattere anche i cani?”

Papà: “Certo, in più bruciano i copertoni dei trattori ciulati nelle cascine di Abbiategrasso e fanno la nube di diossina”.

Nel 1982 ero già adulto e un pomeriggio andai alle Varesine. Subito all’entrata mi imbattei in una sparatoria mai vista a Milano. Due bande di nomadi che si contendevano il controllo dei biglietti dove si esibiva “L’Uomo – Basamento Enel”, un grande obeso arabo di 496 chilogrammi. Era dentro un tendone da circo. Gentilmente sono entrato. Quando è uscito mi sono spaventato. Dall’emozione sono scappato fuori dal tendone. Ma dei buttafuori sinti mi hanno cortesemente fatto rientrare. La bestia si buttava per terra, piangeva e si faceva compatire. Mentre alcuni inservienti gli passavano dei secchi pieni di prodotti gastronomici dell’Appennino Tosco-emiliano (salumi). Uno del pubblico a quel punto è sceso in pista e lo ha accoltellato. È morto poco dopo.

La sera è stato sostituito da un altro grande obeso reclutato alla Bovisa. Infatti come per i cantanti lirici, anche nei baracconi c’è il sostituto pronto. Se il titolare non si sente bene o muore, lo show continua con l’altro. Questo pesava mezza tonnellata, così diceva il manifesto. Sono andato anche allo spettacolo serale: per me non era più di 130 kg. E mi sembrava anche scemo. Forse l’avevano drogato. 

Risultò in seguito che era stato venduto da sua mamma ai giostrai per 25.000 lire. Subito dopo lo spettacolo fu soppresso con un badile dopo averlo attratto in un tranello. Infine venne sbattuto giustamente nell’Olona senza rispetto per i pescatori che in quel momento stavano baciandosi tra loro. Infatti negli ultimi anni le Varesine si distinsero come ritrovo di pederasti. Arrivavano da ogni parte del Nord Italia e facevano le loro vergogne sui vagoncini del trenino quando entrava nel tunnel. Il famoso tunnel delle Varesine, lungo 19 chilometri (non lineari, chiaramente). Entravano decine di trenini al giorno e con il buio in galleria, che durava circa un’ora, furti, palpeggi alle ragazze e oltraggi verbali erano all’ordine del giorno. Nel buio sentivi esclamare: “Sindaco culattone” oppure “Mi ammazzo per te Monica” e si buttava sotto le ruote del treno. Che non essendo una linea ferroviaria statale, il macchinista non aveva l’obbligo di fermarsi e chiamare il magistrato di turno per rimuovere le povere spoglie.

Oggi il tunnel del trenino esiste ancora. Il tunnel parte da Porta Nuova e termina a Gallaratese dove si congiunge con i treni di linea della ferrovie Nord Milano-Varese. Inevitabili gli scontri tra convogli, non comunicando il macchinista del trenino che si sta immettendo sulla linea Treni d’Italia. Curiosamente nelle collisioni con un treno vero hanno la peggio i passeggeri del trenino scoperto delle Varesine, che deraglia. I rottami scagliati anche a km di distanza (trovate parti del trenino delle Varesine anche a Magenta). Sono considerati delle reliquie e venerati nonostante le autorità ecclesiastiche le abbiano messe al bando come superstizioni e abuso della credulità popolare.

Recentemente è stato battuto all’asta uno sportello di un vagoncino di un trenino delle Varesine, coinvolto nel sinistro ferroviario più importante della nostra storia. Bene, l’anonimo acquirente se l’è aggiudicato per 56.000 euro. Mentre il locomotore del trenino è al Museo della Scienza e della Tecnologia. L’Amministrazione del civico museo ha rifiutato un’offerta del MoMa di New York di 16 milioni di euro.

Per quanto riguarda la prostituzione le Varesine non si facevano mancare niente. Tanto che in un Consiglio Comunale ci fu la proposta di trasformare le Varesine in un quartiere a luci rosse sull’esempio di Amsterdam. Un altro episodio che mi piace ricordare: quando venne giù il Circo di Buffalo Bill con mandrie al seguito. Buffalo Bill era molto anziano. Parliamo del 1950. Venne abbattuto da un colpo di fucile sparato dalla Torre Velasca mentre faceva il suo numero. È sepolto al cimitero di Lambrate. Sotto il falso nome di Luca Rivosi. Nonostante queste precauzioni la salma è stata trafugata dai suoi estimatori. Si pensa sia finita all’estero, nel giardino di qualche mafioso georgiano. Il Governo italiano ha fatto ufficiale domanda per restituzione salma ma il Governo di Tbilisi non ha mai risposto. Il console georgiano di Milano ha escluso nel modo più categorico che le spoglie di Buffalo Bill si trovino nel territorio dell’ex-Stato sovietico. Per me ha ragione. Sono nel parco di Villa Carlotta a Como, dispiace dirlo.

Ricordiamo infine che il Luna Park Le Varesine non chiudeva mai. Potevi andare alle 4 di mattina sull’autoscontro. Certo non ci trovavi don Luigi Sabbioni (già cappellano militare alla caserma di Legnano): trovavi uno vestito da Elvis che ti chiedeva in sposo. La cerimonia veniva fatta subito dentro un baraccone. Se rifiutavi alla mattina ti trovavano impiccato sotto il Ponte della Ghisolfa. Fascicolo di indagine contro ignoti, chiuso subito dagli inquirenti. Un’altra volta impari ad andare alle Varesine vestito da donna alle quattro del mattino.

ARTICOLO n. 96 / 2023

LETTERA DA UNA CASA DI FAMIGLIA

Carissima Marina,

dalla polvere sul tavolo e sul pianoforte, sto cominciando a pensare che Franca, tua mamma, non mi voglia più bene. Per decenni mi ha accarezzato i fratelli mobili e le sorelle sedie, ha pulito i miei cugini pavimenti e i lavabi dei miei bagni, ma da quasi due anni siamo rimasti molto soli. Nessuno ci ha dato spiegazioni. Il termosifone in sala che ha già mandato in giro teorie complottistiche che non stanno né in cielo né in terra. Franca parlava con le piante, soprattutto con l’ibisco, che lei chiamava Ibi e che se la tirava da morire: pare, ma bisogna avere delle prove, che siano state proprio le piante ad averla inghiottita. Io non ci credo, ma metà dei tappeti ormai non ha dubbi. Non vorrei invece che le fosse successo qualcosa di peggio, perché proprio non è da lei abbandonarci così. Ci siamo fatte compagnia per più di cinquant’anni. Il mese scorso, in un momento di lucidità, ho fatto due più due e sono quasi convinta che se ne sia andata.

Puoi immaginare la mia solitudine! Ho visto te e le tue sorelle crescere, mi sono cuccata anni di cartoni animati, tra Heidi e Mimi e le ragazze della pallavolo; decenni di Saranno Famosi e la Famiglia Bradford. Per non parlare delle mille cene, delle feste di Natale e Capodanno. Ho assorbito i vostri litigi, i vostri momenti belli. Non dimenticherò mai la volta che tu e quel fidanzato ignorante vi siete nascosti lì dove c’era la scrivania in sala e avete limonato per ore e ore. Una tristezza vedervi crescere così in fretta!

Ero lì quando vi preparavate per gli spettacolini da mostrare ai i vostri genitori: una di voi era la Carrà, tu Mina e l’altra la Vanoni. Papà e mamma che facevano a turno per venire a ridere in cucina. 

Ero lì per tutti i compleanni, per i battesimi, le comunioni, le cresime. 

Ero lì quando Franca vi disse: “Aspetto un bambino”, e quando Beppe rispose al telefono alle sei del mattino felicissimo che fosse nata la mia sorella piccolina. Andò a citofonare a tutti i suoi amici della zona per annunciare la sua quarta e ultima figlia. Era pieno di gioia! 

Ero lì quando facevate i compiti, quando aprivate quello che sembrava un cassetto normale e invece era un tavolino nella cucina, quella verde, quando apparecchiavate mentre Franca faceva da mangiare, mettevate attorno al tavolo gli sgabelli e vi sedevate, un po’ strette, solo voi cinque. 

Beppe era già andato via. Mi aveva fatto compagnia il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere, il fumo delle sigarette lasciate bruciare nel portacenere, le sue telefonate, il suo “abbiamo proprio una bella casa” detto quell’ultimo giorno, aprendo la porta delle scale. Qualche giorno dopo, ricordo di essere stata assalita da centomila persone, tutte tristi. C’era il suo amico, mi pare si chiamasse Enzo, che piangeva forte nel bagno che era stato del nonno Mario. Questo tipo, Enzo, e Beppe ne avevano fatte di tutti i colori, compreso decidere di bruciare l’albero di Natale nel mio camino, appiccando un incendio fortunatamente non doloso. Ricordo Franca il giorno che Beppe è andato via, che a un tratto era diventata piccola piccola, terrorizzata. Vi aveva chiamate in sala per dirvelo: “Vostro papà non c’è più”. 

Ero lì quando quel capellone, mi pare si chiami Giorgio, si è trasformato da collega di papà a fratello maggiore, a botte di palloncini pieni d’acqua buttati dal terrazzo ai passanti, alle volte, mannaggia a lui, che dava sempre ragione alla mamma, anche quando i castighi erano oggettivamente esagerati.

Adesso sono quasi due anni che è calato attorno a me un silenzio assordante. Il sole sale e scende, mi illumino e poi divento buia, e nulla cambia, nulla si muove. Quando piove riesco a contare ogni goccia che scende senza essere interrotta. Quando i vicini fanno rumore, spero sempre che stia arrivando una di voi. L’ascensore non sale più fino al quarto, la polvere, finalmente libera di planare dove vuole, sghignazza sui mobili e sul pavimento. I letti sono sfatti, in cucina non si sente neanche più l’odore del caffè e nessuno tira l’acqua del water. Niente più bucati stesi nella camera del lavoro. L’altro giorno ho sentito i singhiozzi del ferro da stiro: si sentiva solo, abbandonato dall’acqua distillata. Lo scaldabagno cercava di consolarlo, ma niente, era disperato.

Poi, a un certo punto, c’è stato un po’ di movimento. Entrava della gente che non conoscevo, diceva che avrebbe voluto comprarmi. Arrivavano accompagnati da un signore, che mi mostrava neanche fossi il Louvre: qui c’è questo, qui c’è quello, poi c’è il terrazzo… Le persone arrivate con lui mi scrutavano come se dovessero trovare dei difetti per poter dire che insomma, qui ci sono dei lavori da fare, i bagni sono vecchi, nessuno vuole il marmo in sala, la cucina è da rifare… Lo ammetto, Marina, a volte ci rimanevo molto male: ma chi si credono di essere questi sconosciuti, che vengono qui e si lamentano di me? Devo dire, però, che invece alcune persone erano piene di complimenti, ma, da quello che ho capito, i loro portafogli erano troppo vuoti per avermi tutta per loro. 

Io sono sempre stata come sono adesso, non avevo la più pallida idea di essere più grande delle mie colleghe, altre case che per altro non vedo mai. Sono una signora degli anni Cinquanta, figlia del dopoguerra, il periodo in cui ospitavamo famiglie più numerose e costavamo meno. Adesso, mi pare di capire, la nostra metratura, corridoi inclusi, non serve più: lo dicevano anche al telegiornale l’altro giorno, che in Italia si fanno pochi figli. Inoltre, specialmente qui a Milano, costiamo un occhio della testa, e su Rai3 parlavano degli stipendi bassi italiani e degli studenti che si lamentano di non potersi permettere un affitto in città. Io che sono qui vuota, grande e costosa, mi sono sentita un po’ in colpa.

Marina cara, ti scrivo per dirti che ho preso una decisione importante: cambio famiglia, anzi, famiglie, ho scoperto che mi divideranno in due appartamenti, e sono contenta. Vi ho cresciute, vi ho fatto compagnia, vi ho dato un tetto sotto cui sentirvi protette. Vi ho amato moltissimo. Ma adesso che mi avete abbandonato tocca a loro. Mi fanno il lifting, mi dipingono e mi riempiono di mobili nuovi, di compagnia, di amore. Come per voi, anche per loro sarò il posto dove tornare dopo le vacanze, dopo una giornata difficile, dopo il cinema. Accoglierò i loro amici e apprezzerò tutti i complimenti che riceverò. Non credere che sia stata un passo facile. Ti ho visto la settimana scorsa piangere perché era l’ultima volta che saremmo state insieme. Anch’io ho pianto. Ma sappi che rimarrò sempre nel tuo cuore e tu nel mio. Conserverò le gomme masticate attaccate al muro dell’ascensore.

Ringrazio te, le tue sorelle e i tuoi genitori per tutto: l’amore, la fiducia, la pulizia, i cambiamenti, le esperienze passate, quei tappeti sedicenti persiani, il gatto insopportabile che si arrampicava sulle pareti e quelle lezioni di pianoforte: ammettiamolo, mai state portate. Ma, come dicono i teatranti e i rocchettari, the show must go on

Ti abbraccio,
la tua casa di Via Sismondi

ARTICOLO n. 95 / 2023

SULLA DIFFICOLTÀ DI LEGGERE

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo saggio di Giorgio Agamben, La mente sgombra (Einaudi). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Vorrei parlarvi non della lettura e dei rischi che essa comporta, ma di un rischio che è ancora più a monte, cioè della difficoltà o dell’impossibilità di leggere; vorrei provare a parlarvi non della lettura, ma dell’illeggibilità.

Ciascuno di voi avrà fatto esperienza di quei momenti in cui vorremmo leggere, ma non ci riusciamo, in cui ci ostiniamo a sfogliare le pagine di un libro, ma esso ci cade letteralmente dalle mani. 

Nei trattati sulla vita dei monaci, questo era anzi il rischio per eccellenza cui il monaco soccombeva: l’accidia, il demone meridiano, la tentazione più terribile che minaccia gli homines religiosi si manifesta innanzitutto nell’impossibilità di leggere. Ecco la descrizione che ne dà san Nilo: 

Quando il monaco accidioso prova a leggere, sinterrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si sfrega la faccia con le mani, distende le dita e va avanti a leggere per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge; e, intanto, si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine che gli rimangono da leggere e i fogli dei quaderni e gli vengono in odio le lettere e le belle miniature che ha davanti agli occhi finché, da ultimo, richiude il libro e lo usa come un cuscino per la sua testa, cadendo in un sonno breve e profondo. 

La salute dell’anima coincide qui con la leggibilità del libro (che è anche, per il Medioevo, il libro del mondo), il peccato con l’impossibilità di leggere, col diventare illeggibile del mondo.

Simone Weil parlava, in questo senso, di una lettura del mondo e di una non lettura, di un’opacità che resiste a ogni interpretazione e ogni ermeneutica. Vorrei suggerirvi di fare attenzione ai vostri momenti di non lettura e di opacità, quando il libro del mondo vi cade dalle mani, perché l’impossibilità di leggere vi riguarda quanto la lettura ed è forse altrettanto e più istruttiva di questa. 

Vi è anche un’altra e più radicale impossibilità di leggere, che fino a non molti anni fa era anzi del tutto comune. Mi riferisco agli analfabeti, questi uomini troppo in fretta dimenticati, che solo un secolo fa erano, almeno in Italia, la maggioranza. Un grande poeta peruviano del xx secolo ha scritto in una sua poesia: por el analfabeto a quien escribo. È importante comprendere il senso di quel «per»: non tanto «perché l’analfabeta mi legga», visto che per definizione non potrà farlo, quanto «al suo posto», come Primo Levi diceva di testimoniare per quelli che nel gergo di Auschwitz si chiamavano i musulmani, cioè coloro che non potevano né avrebbero potuto testimoniare, perché, poco dopo il loro ingresso nel campo, avevano perduto ogni coscienza e ogni sensibilità. 

Vorrei che rifletteste sullo statuto speciale di un libro che è destinato a occhi che non possono leggerlo ed è stato scritto con una mano che, in un certo senso, non sa scrivere. Il poeta o lo scrittore che scrivono per l’analfabeta o per il musulmano provano a scrivere ciò che non può essere letto, mettono su carta l’illeggibile. Ma proprio questo rende la loro scrittura più interessante di quella che è stata scritta solo per chi sa o può leggere. 

Vi è poi un altro caso di non lettura di cui vorrei parlarvi. Mi riferisco ai libri che non hanno trovato quella che Benjamin chiamava l’ora della loro leggibilità, che sono stati scritti e pubblicati, ma sono – forse per sempre – in attesa di essere letti. Io conosco, e ciascuno di voi, penso, potrebbe nominare libri che meritavano di essere letti e non sono stati letti, o sono stati letti da troppo pochi lettori. Qual è lo statuto di questi libri? Io penso che, se questi libri sono davvero buoni, non si debba parlare di un’attesa, ma di un’esigenza. Questi libri non aspettano, ma esigono di essere letti, anche se non lo sono stati e non lo saranno mai. L’esigenza è un concetto molto interessante, che non si riferisce all’ambito dei fatti, ma a una sfera superiore e più decisiva, la cui natura lascio a ciascuno di voi precisare. 

Ma allora vorrei dare un consiglio agli editori e a coloro che si occupano di libri: smettetela di guardare alle infami, sì, infami classifiche dei libri più venduti e – si presume – più letti e provate a costruire invece nella vostra mente una classifica dei libri che esigono di essere letti. Solo un’editoria fondata su questa classifica mentale potrebbe far uscire il libro dalla crisi che – a quanto sento dire e ripetere – sta attraversando. 

Un poeta ha compendiato una volta la sua poetica nella formula: «Leggere ciò che non è mai stato scritto». Si tratta, come vedete, di un’esperienza in qualche modo simmetrica a quella del poeta che scrive per l’analfabeta che non può leggerlo: alla scrittura senza lettura, corrisponde qui una lettura senza scrittura. A condizione di precisare che anche i tempi sono invertiti: là una scrittura che non è seguita da alcuna lettura, qua una lettura che non è preceduta da alcuna scrittura.

Ma forse in entrambe queste formulazioni si tratta di qualcosa di simile, cioè di un’esperienza della scrittura e della lettura che mette in questione la rappresentazione che ci facciamo solitamente di queste due pratiche così strettamente legate, che si oppongono e insieme rimandano a qualcosa di illeggibile e di inscrivibile che le ha precedute e non cessa di accompagnarle. 

Avrete capito che mi riferisco all’oralità. La nostra letteratura nasce in intima relazione all’oralità. Perché che cosa fa Dante quando decide di scrivere in volgare, se non appunto scrivere ciò che non è mai stato letto e leggere ciò che non è mai stato scritto, cioè quel «parlar materno» analfabeta, che esisteva soltanto nella dimensione orale? E tentare di mettere per iscritto il parlar materno, lo obbliga non semplicemente a trascriverlo, ma, come sapete, a inventare quella lingua della poesia, quel volgare illustre, che non esiste da nessuna parte e, come la pantera dei bestiari medievali, «spande ovunque il suo profumo, ma non risiede in alcun luogo». 

Io credo che non si possa comprendere correttamente la grande fioritura della poesia italiana nel Novecento, se non si avverte in essa qualcosa come un richiamo di quell’illeggibile oralità che, dice Dante, «una e sola è prima nella mente». Se non s’intende, cioè, che essa è accompagnata dall’altrettanto straordinaria fioritura della poesia in dialetto. Forse la letteratura italiana del Novecento è tutta percorsa da una inconsapevole memoria, quasi da un’affannosa commemorazione dell’analfabetismo. Chi ha avuto tra le mani uno di questi libri, in cui alla pagina scritta – o, meglio, trascritta – in dialetto sta a fronte la traduzione in lingua, non ha potuto non chiedersi, mentre i suoi occhi trascorrevano inquieti da una pagina all’altra, se il luogo vero della poesia non fosse per caso né in una pagina né nell’altra, ma nello spazio vuoto fra entrambe. 

E vorrei concludere questa breve riflessione sulla difficoltà della lettura, chiedendovi se ciò che chiamiamo poesia non sia in verità qualcosa che incessantemente abita, lavora e sottende la lingua scritta per restituirla a quell’illeggibile da cui proviene e verso cui si mantiene in viaggio. 

(© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino)

ARTICOLO n. 94 / 2023

LE DONNE HANNO BISOGNO DI MOLTO PIÙ PIACERE

Intervista di Isabella De Silvestro

V è il nome che ha scelto per sé la drammaturga, scrittrice e attivista femminista Eve Ensler. Un nome che le fosse proprio, che la liberasse dal cognome del padre abusante e violento di cui ha scritto in Chiedimi scusa (Il Saggiatore, 2019). Autrice de I monologhi della vagina, definiti dal New York Times il più importante testo di teatro politico del decennio, tradotto in 48 lingue e rappresentato nei teatri di 140 paesi, V unisce scrittura e militanza come fossero un unico gesto: la parola per l’azione e l’azione attraverso la parola. Ha fondato il V-day, un movimento per la lotta contro la violenza sulle donne che ogni anno aiuta a finanziare rifugi e centri antiviolenza in tutto il mondo. 

Il suo ultimo libro si intitola Io sono un’esplosione. Una vita di lotta e di speranza (Il Saggiatore)Si tratta di un memoir frammentato eppure coerente, personale ma fortemente politico: «Forse la mia scrittura in tutti questi anni è stata semplicemente un registrare cadute: i senzatetto, gli imprigionati, i violentati, gli esiliati che cadevano nelle crepe, che cadevano e andavano in mille pezzi, una caduta di aspettative troppo alte, la paura di cadere nell’oblio». L’ho incontrata per parlare di cadute, muri, corpi e lotte. Di amore e di sesso. Del mondo come per lo conosciamo e del mondo per come lo vorremmo.

Isabella De Silvestro: Lei scrive di muri. Muri di prigioni, frontiere, rifugi per senzatetto, case di periferie. Perché si è sentita richiamata dai margini, da ciò che è escluso dal centro?

V: Credo di essere sempre stata interessata agli emarginati, alle persone escluse, probabilmente perché mi sono sempre sentita un’outsider anche io, fin da bambina. Mi sentivo estranea alla mia famiglia, violentata, picchiata, umiliata. E forse durante la mia infanzia avrei desiderato che qualcuno venisse da me, mi raggiungesse in quell’estraneità. Molto presto mi sono promessa che un giorno avrei raggiunto le persone invisibili e oppresse laddove nessuno le andava a trovare.

I.D.S. Dice di non avere uno strato di pelle, qualcosa che la protegga dal dolore degli altri. Eppure, va regolarmente e spontaneamente in territori di guerra facendosi testimone di storie terribili. Come sopravvive? Come fa a non cedere a un dolore sconsolato? 

V: Ieri sera a Firenze una donna mi ha detto una cosa interessante. Mi ha detto che per lei il libro [Io sono un’esplosione, n.d.r.] entra nel dolore, lo attraversa e lo valica. Io penso di aver sempre saputo che se mi permetto di sentire il dolore posso scavalcarlo, arrivare dove c’è speranza. Quando invece lo reprimo, lo scaccio, oppongo resistenza, mi ammalo. La ferita è un portale. 

I.D.S. Condividere le ferite con altre donne l’ha aiutata?

V: Assolutamente sì. Mi ha fatto capire che non ero sola, che potevo creare connessioni profonde che in fin dei conti sono amore e libertà. È una sensazione bellissima. A volte è tutto troppo doloroso, e allora devi solo piangere a letto per due settimane. Quando sono tornata dalla Repubblica Democratica del Congo sono rimasta a letto per un mese. Non riuscivo a funzionare.

I.D.S. Riusciva a scrivere?

V: Sì, a scrivere sì. Non è sempre così. A volte le cose sono troppo difficili da elaborare. Rispetto alla situazione a Gaza, per esempio, per un mese ho provato un dolore muto, privo di parole. Solo ora inizio a trovare qualche parola adatta. 

I.D.S. A proposito di Gaza, sono rimasta colpita da un passo del libro dove lei, rivolgendosi al suo amico Richard Royal, morto di AIDS, scrive: «Non c’è poesia che reciteresti, non dopo Auschwitz, non dopo Hiroshima». Che poesie reciteremo dopo Gaza?

V: È un’ottima domanda. Sarò onesta: mi sento avvolta nel dolore, sento come se il mio corpo fosse un sarcofago di dolore. E non so come si scrivano e recitino poesie dopo quello a cui abbiamo assistito. Il nostro stesso essere testimoni dell’orrore mi appare colpevole. Quindi non ho una risposta in questo momento. Cerco di concentrarmi sull’azione, sull’attivismo. In V-Day abbiamo lavorato intensamente con donne palestinesi e israeliane, cercando di immaginare un futuro dove i rapporti non sono regolati dalla violenza e dalla sopraffazione ma dal riconoscimento reciproco di dignità.

I.D.S. È stata in Israele e in Palestina?

V: Molte volte.

I.D.S. Qual è stata la sua impressione?

V: Quella che immagina. È dal 1948 che i palestinesi, con la prima Nakba, sono stati espulsi dalle loro terre. E per molti, molti anni, hanno vissuto sotto occupazione. Non vivono come cittadini a pieno titolo, non hanno pieni diritti. Hanno vissuto fondamentalmente in apartheid in Cisgiordania, e in una prigione a cielo aperto a Gaza. E seppure pensi che non ci sia giustificazione per la violenza e che quello che è accaduto il 7 ottobre sia orrendo – sono ebrea – penso anche che sia doveroso comprendere l’origine della violenza. Quali sono le radici della violenza? È la domanda a cui ho dedicato tutta la mia vita. Quando occupi le terre di un popolo, quando privi le persone dei propri diritti, quando non le lasci celebrare i funerali, quando le arresti senza processo, quando le sottoponi a centinaia di checkpoint cosicché smettano anche di provare a uscire, ciò che ottieni è rabbia. Io stessa sarei infuriata. 

I.D.S. Prima parlava di speranza. Rabbia e speranza possono coesistere?

V: Speranza è una parola strana. Vede, io sento che sto lottando per la mia vita e che lotterò fino all’ultimo respiro per la libertà, per porre fine alla violenza, al patriarcato, al capitalismo, al razzismo, al colonialismo, all’imperialismo e per la sopravvivenza della nostra preziosa Madre Terra. Do la mia vita per questo. Alcuni giorni mi sento speranzosa, altri giorni no, ma è irrilevante. Questo è ciò che voglio fare della mia vita e non credo c’entri con la speranza, c’entra il fatto che è ciò che siamo chiamati a fare come esseri umani, Indipendentemente dal fatto che vinciamo o no. Non sta a noi decidere o preoccuparcene. Sta a noi lavorare per cambiare la situazione attuale, per trasformare la coscienza umana. 

I.D.S. E la rabbia? Che ruolo ha la rabbia?

V: Un ruolo fondamentale.

I.D.S. È un carburante? 

V: Lo è, ed è potente. La rabbia è energia ed è passione. Quando ne sei investito puoi imparare a canalizzarla e farne molte cose. Rispetto alle donne, è bene che la sentano e se ne servano, ma penso anche che non si possa essere solo arrabbiati. Penso che amore e rabbia debbano convergere. Nella Città della Gioia, in Congo, ogni sei mesi arrivano 90 donne vittime di violenza. Ovviamente hanno sofferto e sono arrabbiate, portano sul corpo i segni degli abusi. Ma hanno un’impressionante capacità di trasformare il dolore in potenza, di trasformare le peggiori tragedie in una sorta di movimento in avanti che sentono in primo luogo nel corpo. Quindi non vivono la loro vita come vittime, usano la forza ritrovata per sollevare altre donne dal baratro. Sono incredibili. E questo vale per le donne che ho incontrato in tutto il mondo. Ovunque.

I.D.S. A proposito di vittime: mi sembra che negli ultimi vent’anni ci sia stato un cambio di paradigma importante. Se nel ventesimo secolo lo stato di vittima non era desiderabile, oggi si tende a rivendicarlo come un’identità e un dispositivo politico. Che ne pensa?

V: Penso sia importante identificare le violenze subite, attraversare il processo che passa per la rabbia e arriva alla guarigione. Dunque, passare da vittima a sopravvissuta. E una volta che sei una sopravvissuta puoi iniziare a pensare ad altre persone: è tua responsabilità trasformare ciò che ti è accaduto in medicina per le persone che incontri. Crogiolarsi nell’identità di vittima trovo sia autodistruttivo e limitante. Riconoscere gli abusi subiti serve a lottare perché nessun altro li debba subire. 

I.D.S. Immagino lei abbia saputo del femminicidio di Giulia Cecchettin e dell’enorme risonanza che sta avendo la lettura femminista della sorella Elena, con una condanna chiara e lucida al patriarcato come sistema di potere al cui culmine sta l’eliminazione della donna attraverso l’uccisione. Nel suo libro scrive di non amare il concetto di “alleato” rispetto alla lotta contro il razzismo. Vale lo stesso per la lotta femminista? E intendo: cosa chiedere agli uomini?

V: Vede, il concetto di “alleato” implica una gerarchia dei ruoli che non sopporto. Peraltro, trovo ancora assurdo che porre fine alla violenza sulle donne sia diventata una questione delle donne. Non siamo noi a stuprarci o a picchiarci. E un problema degli uomini. Quindi no, non devono essere nostri alleati. Devono smettere di stuprarci, di ucciderci, di opprimerci. Ed essere in prima linea per smantellare il sistema patriarcale che si nutre di violenza e sopraffazione. E che va a braccetto con il sistema capitalistico. 

I.D.S. Quanto sono importanti le parole nell’affrontare le questioni di genere? Il come cambia il cosa?

V: Le parole sono molto importanti. Chi racconta la storia ha il potere sulla storia. Se c’è una cosa che ho imparato con I monologhi della vagina è che dire una parola molte volte ha degli effetti sulla realtà. Chi aveva paura di dire vagina, a forza di sentirla nominare ha iniziato a guardarla, a scoprirla, a scoprirsi e affermarsi.  

I.D.S. Il sesso fa parte dell’arsenale della rivoluzione femminista? 

V: Penso che il sesso sia liberazione, guarigione, potenza, gloria. Il sesso è estatico. Le donne hanno bisogno di molto, molto più piacere nelle loro vite. Le religioni ci hanno insegnato la paura del piacere per esercitare un controllo più efficace sui nostri corpi e le nostre vite. Credo fortemente nella masturbazione. Penso che sia la forma più alta di preghiera. Permette di capire fino a che punto puoi arrivare, quanto lontano possono arrivare i tuoi orgasmi. Questo vuol dire che poi, quando farai sesso con qualcuno, saprai dire: no, questo è solo l’inizio. Continuiamo. Non abbiamo ancora finito. 

I.D.S. È innamorata?

V: Non saprei… Non mi innamoro da molto tempo, forse quindici anni. Sono innamorata dei miei amici, vivo con loro in una piccola comune.  Ma non so se mi innamorerò di nuovo. Ma poi mi chiedo: è importante?

Ho avuto due relazioni a lungo termine. Entrambe sono state meravigliose ma oggi sono altrove. Amo la mia autonomia, la mia casa, la terra sulla quale vivo, amo viaggiare. Questa sono io: non ho mai voluto sposarmi, non sono una persona monogama. E oggi sono molto felice. Profondamente felice. Penso che sia collegato al riappropriarsi dei propri desideri, a capire finalmente che puoi volere e desiderare molte cose. 

I.D.S. Ha scritto di sentirsi orfana pur avendo una madre viva. Ci si può sentire madri senza aver dato alla luce? È madre di qualcuno o qualcosa?

V: Ho adottato mio figlio quando aveva 15 anni e io ne avevo 23. Ero sposata con suo padre e sono andata in tribunale per adottarlo. È mio figlio da 45 anni e l’ho amato come qualsiasi altra madre, un amore profondissimo. Quindi sì, puoi essere madre, puoi fare qualsiasi cosa tu voglia fare. L’amore è ciò che senti, ciò che vivi e ciò che fai. Il sangue invece è come… Non so, non so nemmeno cosa sia, non mi interessa più. 

I.D.S. Si sente fortunata?

V: Mi sento benedetta. Ho avuto un cancro quattordici anni fa e avrei dovuto morire. Non sono morta. Sono molto amata. E ho avuto una vita meravigliosa. Non ho più nulla di cui piangere. 

ARTICOLO n. 93 / 2023

UNO SPAZIO LIBERO DALLA PRESENZA MASCHILE

Nel 2020, un video virale su TikTok chiedeva alle ragazze che cosa avrebbero fatto se gli uomini fossero spariti dalla faccia della terra per 24 ore. I commenti e le risposte erano piuttosto deprimenti. Le ragazze desideravano fare cose banali, normalissime: “Uscirei di casa alle tre di notte”, “Andrei a fare una passeggiata da sola la sera”, “Mi sentirei sicura anche indossando una minigonna”. Il tema delle molestie di strada è forse uno dei più ostici da affrontare quando si parla di violenza di genere. Da un lato, le risposte securitarie rischiano di esasperare paura e xenofobia, dall’altro la risposta femminista secondo cui “le strade sicure le fanno le donne che le attraversano” pone un difficile contro-argomento: gli uomini possono continuare ad attraversarle, quelle strade, oppure sarebbe meglio non ci fossero proprio, come sognano le utenti di TikTok?

In certi Paesi, in effetti, la segregazione di genere è stata l’unica risposta istituzionale al problema delle molestie di strada. Il Giappone vent’anni fa ha deciso di predisporre dei vagoni ferroviari riservati alle sole donne, ma l’efficacia di questa iniziativa è dibattuta. Anche in Italia si è discusso più volte di adottare questa soluzione, che torna ciclicamente ogni volta che si consuma una violenza su un mezzo pubblico. Nel 2021, si parlò molto di una petizione su Change.org iniziata da un gruppo di pendolari per chiedere a Trenord vagoni per sole donne e che raccolse in poche ore migliaia di firme.  

Il trend di TikTok e la richiesta di mezzi pubblici separati per uomini e donne sono due manifestazioni della paura che le donne nutrono nei confronti degli uomini, una paura che spesso viene taciuta per il timore di risultare esagerate, vittimiste o addirittura misandriche. Eppure quella paura c’è, è reale, ed entrambe le soluzioni si aggrappano a un’idea affascinante per quanto perturbante: un mondo in cui gli uomini non esistono, per 24 ore, per il tempo di un viaggio in metropolitana o addirittura per sempre. Non si tratta di una novità nell’immaginario femminista: negli Anni ’70 le femministe si trovarono a fare i conti con il problema dell’autonomia. La dipendenza dal modello maschile investiva ogni ambito: molte femministe si erano sbarazzate degli uomini nella propria vita affettiva e relazionale, i maschi erano interdetti dal partecipare alla pratica dell’autocoscienza, ma la questione si estendeva dal piano esistenziale a quello ontologico. Come possiamo, si domandavano le femministe, pretendere che la donna diventi soggetto autonomo se la sua identità è comunque decisa dall’uomo? Per Valerie Solanas la risposta era molto semplice: una convivenza armoniosa tra i generi è destinata al fallimento, quindi i maschi vanno eliminati, simbolicamente e concretamente. 

Nel suo manifesto del 1968 S.C.U.M. (dove l’acronimo sta per Society for Cutting Up Men), Solanas immaginava un piano di distruzione del genere maschile, identificandolo come il vero sesso debole. Senza alcuna pretesa di rigore scientifico o filosofico, con un uso spregiudicato della rabbia e del turpiloquio, il manifesto S.C.U.M. va letto non come una parodia o una provocazione, ma come un’utopia dove i maschi non sono più un problema per nessuno e dove non ci si vergogna di desiderarne la sparizione. A causa delle sue posizioni estremiste, per anni Solanas è stata una pària del pensiero femminista, specie dopo che sempre nel 1968 sparò ad Andy Warhol per vendicarsi del suo rifiuto di produrre il suo dramma teatrale Up Your Ass. L’opera di Solanas, e in un certo senso la sua vita, furono una contestazione tanto del machismo quanto del femminismo pacifista che pensava di poter mettere dei fiori nei cannoni del patriarcato. 

Oggi però quel sentimento misandrico che Solanas espresse in maniera così sboccata e inaccettabile si è fatto largo nel mainstream, pur in una versione più edulcorata e quasi sempre relegata alla fantasia. Gli uomini di Sandra Newman (Ponte alle Grazie) è solo l’ultimo romanzo che ha come tema un mondo senza maschi. Mentre si trova in campeggio, Jane perde improvvisamente il marito e i figli, spariti nel nulla. E così Ji-Won, mentre guarda la TV, si accorge che improvvisamente al posto dei presentatori c’è solo uno sfondo blu. Tutte le donne di questo romanzo hanno un rapporto ambivalente con gli uomini dentro e fuori dalla loro vita. In certi momenti hanno desiderato che sparissero, forse addirittura che morissero, ma li hanno anche amati profondamente e senza di loro si sentono perse. Di fronte al mondo caotico lasciato dalla loro scomparsa, non sanno cosa provare, non capiscono se sia effettivamente meglio o peggio così, un mondo senza uomini.  

La serie Y – L’ultimo uomo, tratta dall’omonimo fumetto DC Vertigo di Brian K. Vaughan e Pia Guerra e cancellata dopo la prima stagione, si basa sulla stessa premessa. Il cromosoma Y scompare, portando via con sé tutti gli individui maschi e persino gli embrioni e i campioni di sperma, rendendo vana la possibilità di ripopolare la Terra. Solo due individui si salvano: il giovane Yorick Brown e la sua scimmia domestica, Ampersand. In questo caso, la prospettiva di un mondo popolato da sole donne prende subito la piega di una catastrofe che condurrà l’umanità all’estinzione, da cui solo Yorick potrà salvarla. Anche il fortunato romanzo Ragazze elettriche di Naomi Alderman (nottetempo), anch’esso trasposto in una serie TV, esplora a suo modo il tema, nonostante la sparizione degli uomini sia più simbolica che concreta, nel momento in cui le donne scoprono di possedere il potere di emanare scosse dal proprio corpo. Nel giro di pochi giorni, le donne sottomettono i maschi in una spirale di violenza, vendetta o più prosaica sete di potere.

Tutte queste opere hanno qualcosa in comune. Il mondo senza uomini è infatti un mondo indesiderabile, terrificante, che precipita nel caos e nella disperazione. L’unica eccezione sembra essere quella di Barbie di Greta Gerwig, dove Barbieland è un mondo perfetto in cui la presenza dei maschi è del tutto irrilevante. Anche se è Barbie Stereotipo ad aver causato la frattura fra Barbieland e il mondo reale, è solo quando i Ken cercano di imporsi usando il patriarcato importato da Ken che si instaura un vero regime di distruzione, spezzando la perfezione del matriarcato delle bambole. Barbie è stato letto da alcuni come un film misandrico, in cui gli uomini sono rappresentati come degli inetti costantemente puniti. In effetti, quando le Barbie riescono a rimpossessarsi di Barbieland, devono adeguarsi a un mondo in cui la presenza degli uomini è contemplata, rinunciando all’utopia compiuta che avevano realizzato in precedenza.

Che sia il mondo plasticamente idilliaco di Barbie o l’apocalisse paventata da Gli uomini e da Y, il fantasma di un mondo senza maschi continua comunque a tornare, non solo nella fantasia. Il discusso pamphlet Odio gli uomini di Pauline Hermange (Garzanti), oggetto di un boicottaggio feroce anche da parte di un funzionario del Ministero delle Pari Opportunità francese, auspica il ritorno di una certa forma di separatismo che non si vergogna di dire di non voler avere nulla a che fare con gli uomini. Intanto, in Corea del Sud, uno dei Paesi con i tassi di violenza di genere più alti al mondo, si è costituito il movimento 4B, dove 4 sta per “no” e le B stanno per “matrimonio”, “figli”, “relazioni romantiche con uomini” e “rapporti sessuali con uomini”. Le militanti di questo movimento rifiutano il contatto maschile e i canoni estetici dominanti, lottando per un mondo senza uomini. 

La pervasività della fantasia di uno spazio libero dalla presenza maschile ci deve far interrogare sulla direzione del femminismo contemporaneo. Dopo l’egemonia di quello che Jessa Crispin chiama “femminismo universale”, un femminismo privo di conflittualità che si adatta a ogni tipo di esigenza, e di appelli per un “femminismo di tutti”, qualcosa sembra cambiare. Gli eclatanti casi di violenza sessuale che si sono verificati negli ultimi mesi in Italia, grazie ai quali abbiamo visto fin dove può spingersi l’“uomo qualunque”, hanno contribuito a diffondere la consapevolezza che non sono soltanto i mostri a commettere violenza sulle donne. In un certo senso, l’elaborazione collettiva di questi casi ha portato alla luce quella paura innominabile e nascosta, senza il timore di passare per pazze se ogni tanto si pensa a cosa succederebbe se gli uomini sparissero dalla faccia della terra per 24 ore. Per il momento, un mondo senza uomini resta solo un’ipotesi di finzione o al massimo un progetto teorico irrealizzabile. Ma, anche se catastrofici, scenari del genere ci consentono di esorcizzare quella paura.

ARTICOLO n. 92 / 2023

SONO UCRAINA E SONO UN SOGNO SPEZZATO

Cronache dal fronte

La strada, nonostante sia una via del centro, è deserta, non si sente un rumore, solo quello dei miei passi. Cammino con la busta della spesa tra le mani, i miei passi sono pesanti e il mio cuore lo è ancora di più. Vorrei correre, ma so che è meglio non farlo. Cammino velocemente, guardo a destra e guardo a sinistra. Cerco con gli occhi ogni possibile movimento. All’improvviso un suono lancinante, come un grido atroce e inumano, perfora i miei timpani. Il rumore assordante di un missile che avvolge tutto lo spazio attorno a me chiudendomi in una bolla. Credevo di esserci abituata, ma non è così: mi stringo nelle spalle, abbasso la testa e chiudo gli occhi. Resto pietrificata. La busta di plastica della spesa si contorce tra le mie dita che stringo fino a graffiarmi con le unghie i palmi delle mani. Dentro di me spero che non sia ora e che non sia qui, ma se deve succedere che sia rapido e indolore. Poi invece come venuto il rumore passa, riapro gli occhi: è solo una macchina che scivola grattando il fondo sulla strada dissestata di pietra. È durato meno di un secondo il ricordo dei giorni nella zona di guerra, poi è passato, ma la paura no e il dolore nemmeno. Riprendo fiato e il cuore si placa. Respiro, respiro piano.

Succede in ogni angolo del mondo, che mi trovi a Odessa – la mia città natale – o a Roma. Vivo sempre come se fossi in zona di guerra. Un rumore e dentro di me prende vita quel macabro rituale di morte. Un areo squarcia il cielo e io mi butto a terra con il cuore che esplode mentre con le mani cerco disperatamente di tapparmi le orecchie. Mi illudo di sfuggire a un frastuono che è ormai per me solo un sinonimo di morte imminente. 

La mia mente dal 24 febbraio 2022 vive in un tormento perpetuo dentro al quale si mischiano immagini e suoni che vogliono sempre e solo dire una cosa: morte. Non so se riuscirò mai a tornare a quella che era la mia apparente stabilità emotiva, non so se tornerò mai ai giorni prima della guerra, a quella pace che ora ricordo a malapena. La pace ha vissuto fuori e dentro di me, mentre ora per me e per milioni di altri ucraini è svanita nella voragine terrificante della guerra che ha deformato la nostra quotidianità in un incubo perenne. Lo chiamano PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) e a quanto pare ci dovrò convivere per molto tempo.

La guerra ha inciso indelebilmente sui nostri corpi e sulle nostre menti facendoci convivere con lo stress, con gli attacchi di panico e con una costante paura per noi stessi e per i nostri cari. Non importa quanto lontani o vicini siamo dal fronte, solo chi ha vissuto eventi traumatici come sono quelli che stanno sotto la parola “guerra” può sapere. Solo chi è sopravvissuto può capire e forse raccontare. 

Irrequietezza, flashback improvvisi, incubi, insonnia, depressione e il pensiero continuo della morte che tutto domina, sono solo alcuni dei sintomi del PTSD. La prossima crisi si materializzerà di sicuro sempre senza preavviso e non si sa mai quale abisso della mente sarà in grado di risvegliare.

Anche quando ritorno in Italia la mia apparente quiete può essere facilmente interrotta dall’innocuo rombo di un aereo civile, ma anche da un palloncino colorato che scoppia all’improvviso. O peggio ancora dall’odore di fumo e carne bruciata che risveglia in me ben altre sensazioni da quelle che normalmente avevo un tempo. Il fumo intravisto all’orizzonte, magari frutto di qualche sterpaglia raccolta in un campo, mi terrorizza perché per me ormai tutto questo vuole dire morte e basta. Il PTSD s’insinua nell’anima, inganna il cervello costringendolo a rievocare ricordi rimossi. Le tragedie vissute in questi mesi mi accompagnano ogni giorno ritornando vivide nella mia mente in modo sempre imprevedibile.

Così all’improvviso mi ritrovo rannicchiata a terra, immobile. Il respiro affannato e il cuore che batte all’impazzata. Quelli che sono rumori diventano urla che esplodono dalla mia testa fin dentro le mie orecchie. Subito cerco un angolo dove ripararmi, perché con un’esplosione le finestre si potrebbero trasformare in schegge di vetro mortali.

Alcuni vincono il terrore e riprendono il controllo di sé stessi dopo poco, ma per me non è così. Spesso il terrore si dilata in un attacco di panico che mi dilania. È una battaglia contro i miei ricordi, una battaglia che odio perché si nutre di ogni mia energia vitale e ultimamente di questa energia ne ho sempre di meno.

Ogni giorno che passa ho sempre più paura di essere sconfitta. Il nemico si nasconde ora nella mia mente. Più volte penso che la morte potrebbe essere l’unica soluzione per me: morire per mettere fine a questa sofferenza costante che strazia la mia testa. Morire per mia mano. Decidere la mia morte invece di aspettare che il fischio di un missile mi strappi via dalla vita. Mi fa paura la brutalità della morte. Ho già visto troppe volte le vittime dei bombardamenti, i loro corpi straziati e bruciati. Resisto solo pensando agli amici caduti in prima linea, loro sono la mia unica arma, la mia possibile salvezza. Hanno sacrificato la vita anche per me e io non posso buttare via un dono così prezioso. In guerra si vive anche e soprattutto per chi non c’è più. Si vive così per realizzare i sogni che furono di altri e per rendere l’Ucraina un posto migliore di come lo avevano immaginato e desiderato anche loro.

In Italia torno sempre più raramente, l’ansia si fa strada dentro di me anche solo passando nelle vicinanze di quelli che in Ucraina chiamiamo obiettivi sensibili: ospedali, presidi militari e infrastrutture. L’integrazione che mi ero conquistata in Italia dagli anni della scuola fino a quelli dell’Università è ormai un ricordo lontano. Allo stato attuale è per me addirittura un’impresa impossibile per quanto mi sento sommersa da paure e incubi continui. Non riesco più a comunicare per davvero con chi era mio amico, con i miei coetanei e i compagni di studi. Tutto mi appare superficiale e vacuo. In Italia e in quello che è stato un tempo il mio mondo si discute di cinema e di libri, di aperitivi e di feste. In Ucraina si lotta invece ogni giorno contro la morte. E anche io non posso mai smettere di combatterla, nemmeno quando sono in Italia. Vivo all’interno di un’ombra che mi circonda e mi isola da chi ancora può permettersi di immaginare e di fare una vita diversa.

La morte in sé non ci spaventa più, non spaventa me e non spaventa gli ucraini. Dopo quasi due anni di guerra l’abbiamo sfidata ormai troppe volte. La paura è tutta per i nostri cari e per i sogni che potrebbero non realizzarsi mai. Il 24 febbraio 2022 i nostri sogni sono stati congelati. Anche se a volte, di notte, mi sembra di ritrovarli. I miei sogni sono come i fiori della steppa ai primi freddi: cristallizzati nella loro corazza di ghiaccio, immutabili. Sogno i miei sogni che non mi appartengono più. I sogni di ora invece sono urgenti e pressanti, sono tutto quello che abbiamo. Sogniamo la fine della guerra, il ritorno dei nostri cari dal fronte, la smilitarizzazione della Russia e la restituzione dei territori sottratti agli altri popoli.

Quando sento dire che in Ucraina non vogliamo la pace e che dovremmo semplicemente cedere i territori occupati provo un senso di infinito smarrimento. E anche in Italia molti sembrano confondere la resa con la pace. Noi ucraini desideriamo la pace, ma una pace giusta, senza cedere nulla. Senza che nulla di nostro ci venga più tolto perché abbandonare i territori occupati vorrebbe dire svilire il sacrificio di chi credeva nel nostro paese al punto da perdere la propria vita in una guerra di resistenza. Nei territori occupati rimangono persone che attendono il nostro ritorno e abbandonarli sarebbe semplicemente un atto disumano. Mi torna in mente il giorno in cui incontrai una donna fuggita dai territori occupati. Al centro di accoglienza, quando scese dal pullman, piangeva disperata. Toccava la terra ucraina con amore e abbracciava chiunque le fosse vicino. Per quella donna vedere la bandiera ucraina dopo mesi di occupazione è stata una gioia straziante. Quello che ho visto nei suoi occhi ha un solo nome: libertà.

Cedere territori significherebbe per noi entrare in una morte lenta, vorrebbe dire accettare in poche parole di estinguerci. Sarebbe come mettere in pausa la guerra attuale per vivere nelle continue provocazioni russe dai territori occupati. La Russia avrebbe poi modo di rinforzarsi ulteriormente e lanciare un’escalation ancora più devastante e probabilmente definitiva. Chiedere a noi la pace è una vigliaccheria basata sulla paura di affrontare la realtà. Chi ci chiede questo preferisce semplicemente non complicarsi la vita, perché è facile evitare d’imporre alla Russia il ritiro dai territori. Ed è francamente ancora più facile illudersi che noi ucraini potremo mai arrenderci a questa invasione.

Non incolpo nessuno, anche perché non ne ho la forza e quella che ho a disposizione è già tutta in una guerra che mi ha stravolto la vita. Capisco anche il bisogno di allontanarsi dalle notizie e dalla brutalità, perché proprio quella brutalità può schiacciare l’anima, esattamente come ha schiacciato la mia. Non incolpo nessuno, ma l’indifferenza e il silenzio uccidono. Lo so perché l’ho visto, lo so perché lo vedo tutti i giorni.

Mi chiamo Karolina, ho 23 anni, e fino alla fine del 2021 ero una studentessa universitaria in Italia, una ragazza come tante altre. Ora quella vita per me non esiste più. La vostra normalità è un mondo straniero in cui io non posso più vivere. Sono ucraina e sono un sogno spezzato.

ARTICOLO n. 91 / 2023

PERCHÉ VOGLIO FOTTERE RONALD REAGAN

Pubblichiamo un’anticipazione dal volume Non siamo qui per intrattenervi (Minimum Fax, traduzione di Vincenzo Perna) da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Alla convenzione del Partito Repubblicano svoltasi nel 1980 a San Francisco, alcuni burloni fotocopiarono e distribuirono la riproduzione di un capitolo di La mostra delle atrocità intitolato «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», eliminando il titolo e inserendovi il simbolo del Partito Repubblicano. «Mi è stato detto», riferisce Ballard, «che è stato accettato per quello che sembrava, e cioè una presa di posizione di tipo psicologico sulle attrattive subliminali del candidato, commissionata da una combriccola di cervelli bislacchi».

Cosa ci dice quest’atto neo-dadaista di inefficace provocazione? Da un certo punto di vista il gesto va salutato come il perfetto atto di sovversione. Ma da un’altra prospettiva indica che la sovversione oggi è ormai impossibile. Il gesto mette in discussione un’intera progenie di interventi ludici, dai dadaisti ai surrealisti fino ai situazionisti.

Se un tempo i dadaisti e i loro eredi potevano sognare di invadere il palco, interrompendo quello che Burroughs (ancora parte di tale tradizione in modo piuttosto ovvio) definisce lo «Studio della realtà» con bombe logiche/di logica, oggi non esiste più nessun palco da invadere – nessuna scena, direbbe Baudrillard. Per due ragioni: in primo luogo perché le zone di frontiera dell’ipercapitale non cercano più tanto di reprimere, quando piuttosto di assorbire l’irrazionale e l’illogico, e in secondo luogo perché la distinzione tra palco e retropalco è stata soppiantata da un loop di finzione più distaccata e inclusiva: la carriera di Reagan supera di gran lunga qualunque tentativo di prendersene gioco, e dimostra la crescente flessibilità dei confini tra il reale e le sue simulazioni. Per Baudrillard, proprio gli attacchi alla «realtà» inscenati da gruppi come quello dei surrealisti hanno la funzione di mantenere in vita la realtà (fornendole un mitico mondo onirico a prima vista alternativo in tutto e per tutto, ma in realtà dialetticamente complice del mondo quotidiano, del reale). 

«Il surrealismo è ancora solidale con il realismo che contesta, ma raddoppia con la sua irruzione nell’immaginario». Nelle condizioni di terzo (e quarto) ordine di simulacri, la vertigine travolgente dell’iperrealtà banalizza un’atmosfera gelida e allucinogena, assorbendo tutta la realtà all’interno della simulazione. La finzione è ovunque – e quindi, in un certo senso, scompare come categoria specifica. Se un tempo il ruolo di attore-presidente di Reagan sembrava «originale», nella sua successiva carriera, dove momenti della storia del cinema (nella memoria confusa del Presidente e nei resoconti mediatici) si mescolavano come in un fotomontaggio con i ruoli cinematografici interpretati da Reagan, il ludico si trasforma in ridicolo. 

L’apparente accettazione da parte dei delegati repubblicani dell’autenticità del testo di «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» è al tempo stesso scioccante e stranamente prevedibile, ed entrambe le reazioni testimoniano in effetti la forza delle finzioni di Ballard, che non risiede più tanto nell’abilità di riflettere in termini mimetici una realtà sociale preesistente, quanto nella capacità di ribaltarla in modo creativo. 

Il risultato ottenuto da Ballard è piuttosto ciò che Iain Hamilton-Grant chiama «realismo dell’iperreale», una partecipazione omeopatica alla media-cibernetizzazione della realtà del tardocapitalismo. Lo shock nasce nel momento in cui ci rendiamo conto di (ciò che sembrerebbe) l’aberrazione radicale del materiale di Ballard. «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», come varie altre parti di La mostra delle atrocità, specie verso la parte conclusiva del romanzo, viene presentato come una relazione su esperimenti di studio delle reazioni del pubblico a stimoli mediatici preconfezionati. 

Ronald Reagan e il disastro automobilistico concettuale. Su pazienti paretici allo stadio terminale sono stati effettuati numerosi studi, nei quali Reagan compariva in una serie di scontri d’auto simulati, per esempio tamponamenti multipli, collisioni frontali, attacchi a colonne d’auto (le fantasie di assassinii presidenziali hanno continuato ad essere al centro dell’attenzione, e i soggetti hanno mostrato una marcata fissazione polimorfa su parabrezza e tubi di scappamento). L’immagine del candidato presidenziale è stata oggetto di forti fantasie erotiche a carattere sadico-anale (J.G. Ballard, La mostra delle atrocità, cit., p. 211. 41).

Ma lo shock è controbilanciato da un senso di prevedibilità che nasce dalla fredda eleganza delle simulazioni di Ballard. Il tono tecnico della sua prosa – l’impersonalità e l’assenza di inflessioni emotive – svolge la funzione di neutralizzare o normalizzare un materiale apparentemente inaccettabile. 

Questa simulazione delle operazioni delle agenzie di ipercontrollo vuole costituirne una satira, oppure le loro attività – e l’intera scena culturale di cui sono parte – rendono ormai impossibile la satira in quanto tale? E qual è, dopotutto, il rapporto tra satira e simulazione? Per tentare di rispondere a questa domanda bisogna confrontare il testo di Ballard con altri testi più marcatamente «satirici». Ma occorre prima di tutto tenere presente i commenti di Jameson sull’eclissi della parodia ad opera del pastiche, che prenderemo qui brevemente in esame. 

In questa sede eviteremo di interrogarci sulle differenze tra parodia e satira: partiremo invece dal presupposto che, indipendentemente da ogni differenza tra loro, parodia e satira abbiano sufficienti elementi in comune per essere sottoposte insieme all’analisi di Jameson. 

La parodia, sostiene Jameson, dipendeva da un insieme di risorse un tempo disponibili al modernismo ma oggi scomparse: il soggetto individuale, il cui stile idiosincratico «inimitabile», come osserva ironicamente lo studioso, poteva per l’appunto dare origine a imitazioni; un forte senso della storia, che ha come necessario contraltare la convinzione che esista un mezzo d’espressione autenticamente contemporaneo; e una dedizione ai progetti collettivi, capace di motivare la scrittura e di conferirle un intento politico.

La scomparsa di questi elementi, indica Jameson, implica la scomparsa dello spazio della parodia. Lo stile individuale cede il passo a un «terreno di eterogeneità stilistica e discorsiva priva di una norma», esattamente come scompare la certezza del progresso e la fede nella possibilità di descrivere i tempi nuovi in termini nuovi, rimpiazzata dall’«imitazione di stili morti, […] un discorso condotto attraverso tutte le maschere e le voci immagazzinate nel museo immaginario di una cultura ormai globale». La «postalfabetizzazione» del tardocapitalismo, nel frattempo, indica «l’assenza di un qualche grande progetto collettivo». 

Il risultato, secondo Jameson, è un’esperienza priva di profondità, dove il passato si trova ovunque nel momento stesso in cui scompare il senso storico: ci ritroviamo con una «società spogliata di ogni storicità» che è al tempo stesso incapace di offrire qualcosa che non sia una versione riscaldata del passato. Il pastiche sostituisce la parodia: 

In questa situazione, la parodia si ritrova priva di una propria vocazione; ha fatto il suo tempo, e quella strana cosa che è il pastiche viene a prenderne lentamente il posto. Come la parodia, il pastiche è l’imitazione di uno stile peculiare e unico, idiosincratico, è una maschera linguistica, un discorso in una lingua morta. Ma di questa mimica costituisce una pratica neutrale, senza nessuna delle motivazioni recondite della parodia, monca dell’impulso satirico, priva di comicità e della convinzione che accanto a una lingua anormale presa momentaneamente in prestito esista ancora una sana normalità linguistica. Il pastiche è dunque una parodia vuota, una statua cieca…

Nonostante ciò che Jameson stesso scrive di Ballard, una delle differenze rilevanti tra l’opera dell’autore inglese e il pastiche descritto sopra è l’assenza di «nostalgia» o della «maniera nostalgica», che secondo Jameson costituisce invece un’insistente presenza in numerosi testi della fantascienza postmoderna. 

Al contrario, l’interesse di Ballard per le innovazioni testuali sorprendenti – come testimonia lo stesso layout delle pagine di La mostra delle atrocità – lo identificano come una sorta di anomalia in termini jamesoniani: quantomeno da tale prospettiva, Ballard sembra ricollegarsi al modernismo nell’accezione utilizzata dallo studioso americano. 

Da altri punti di vista, invece – specie nei termini del collasso della soggettività individuale e del fallimento dell’azione politica collettiva – Ballard appare emblematico della postmodernità di Jameson. Ma contrariamente al pastiche di Jameson, Ballard non imita «uno stile peculiare e unico, idiosincratico». Lo stile che l’autore simula in «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», e verso cui nel complesso tende tutto La mostra delle atrocità, manca appunto di qualsiasi personalità: se esistono dei caratteri idiosincratici, si tratta qui di aspetti che appartengono al registro tecnico del reportage (pseudo) scientifico, non alle caratteristiche di un soggetto individuale. Il fatto che il testo riguardi un leader politico mette in evidenza l’assenza di ogni ideologia politica esplicita (o implicita, fatto ancor più rilevante quando si dibatte di satira e parodia) nella scrittura di Ballard. In questo senso in «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», così come nel pastiche di Jameson, non c’è «nessuna delle motivazioni recondite della parodia». 

Ciò costituisce senza dubbio uno dei motivi per cui «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» differisce profondamente da classiche opere satiriche come per esempio Una modesta proposta di Jonathan Swift (1729). 

Quest’opera di Swift è paradigmatica di ciò che Joyce definiva «kinetic art», ovvero un’arte prodotta in particolari circostanze politiche e culturali e con il particolare fine di incitare il pubblico all’azione. Il proposito politico di Swift – la sua critica alla crudeltà di determinate reazioni inglesi alle carestie irlandesi – è contrassegnato da un certo eccesso stilistico e tematico (eccesso che alcuni lettori di Swift notoriamente non colsero, prendendo invece il testo alla lettera), mentre lo scritto di Ballard – emerso anch’esso, esattamente come quello di Swift, da una situazione socioculturale del tutto particolare – può essere contraddistinto dalla sua piattezza. 

Ciò costituisce un progresso (persino) rispetto a Burroughs. Con tutta la loro inventiva linguistica, routine umoristiche come «L’americano deansiogenizzato» di Burroughs restano nel solco classico della satira a causa dell’uso dell’esagerazione e dell’evidente agenda politica: attraverso l’uso di tropi eccessivi, Burroughs schernisce i costumi amorali della tecnoscienza americana. Ciò che per converso «manca» nel testo di Ballard è una qualsiasi chiara intenzione riguardo al lettore, una «motivazione recondita» in termini jamesoniani: mentre il testo parodistico ha sempre conferito un’importanza fondamentale al parodista che vi sta dietro, alle sue opinioni e ai suoi atteggiamenti impliciti ma evidenti, «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» appare freddo e anonimo come i testi che imita. 

Mentre nell’«Americano deansiogenizzato» si percepisce chiaramente Burroughs ridacchiare degli assurdi eccessi degli scienziati, la reazione di Ballard agli uomini di scienza di cui simula l’opera risulta indecifrabile. Cos’è che «Ballard» vuol far provare al lettore? Disgusto? Ilarità? Non è chiaro, e come afferma Baudrillard a proposito di Crash, la sovracodifica, da parte dell’autore Ballard, dei propri testi nelle note autoriali della prefazione, risulta piuttosto falsa, con tutto il tradizionale bagaglio di «avvertenze» che poi le note stesse eludono chiaramente. 

La modalità adottata da Ballard in «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» non è quella dell’enfasi (satirica), ma di una sorta di estrapolazione (simulata). Lo stesso genere testuale del sondaggio e dello studio, come suggerisce Baudrillard, rende il problema privo di risposta, irrisolvibile. 

A dispetto di quanto suggerito sopra dallo stesso Ballard, ciò che conta non è tanto la (plausibile) somiglianza tra «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» e (plausibili) rapporti scientifici, quanto la circolazione di simulazione cui tali rapporti già contribuiscono. Analizzando il pastiche, Jameson s’imbatte nel concetto di simulazione, anche se lo attribuisce a Platone piuttosto che riferirlo (perlomeno qua) alla sua reinvenzione da parte di Baudrillard. 

L’intuizione di Jameson sul rapporto tra pastiche e simulazione resta tuttavia importante. Si potrebbe forse suggerire l’esistenza di una correlazione tra il terzo ordine di simulacri di Baudrillard e il pastiche di Jameson da un lato, e il testo di Ballard dall’altro. La simulazione nel senso del terzo ordine di Baudrillard, come abbiamo più volte osservato, implica il crollo della distanza tra simulazione e ciò che viene simulato. 

La satira, nel suo senso classico, si potrebbe probabilmente collocare nel territorio del «primo ordine di simulacri»: una simulazione che rassomiglia all’originale, ma con alcune differenze rivelatrici. Mentre Ballard simula la simulazione (l’indagine, lo studio). 

ARTICOLO n. 90 / 2023

GIOCO DA SOLA

Piacere femminile, autoerotismo e sex toys

Uno dei miei passatempi preferiti è quello di frequentare i mercati dell’antiquariato che, a weekend alterni, animano le piazze di Firenze. L’ultima volta, con mia somma gioia, mi sono imbattuta in un banco fornitissimo di macchine fotografiche vintage, oggetti che da anni mi diverto a collezionare. Mentre curiosavo, comparando modelli e testando accessori, mi è capitato di posare lo sguardo su un cofanetto che conteneva centinaia di fotografie in bianco e nero, risalenti ai primi del Novecento. Non è raro imbattersi in questo genere di merce dato che agli inizi del secolo scorso era consuetudine, tra le famiglie abbienti, andare dal fotografo per farsi scattare un ritratto. Le immagini ben ordinate nella scatolina, però, non erano di bambini imbronciati a causa dei lunghi tempi di posa, né ritratti di giovani coppie o di persone in punto di morte (una pratica ormai caduta in disuso ma che in quel periodo andava piuttosto di moda): rappresentavano donne seminude. Alcune erano disposte in pose languide, altre indossavano cinture in pelle e tenevano in mano frustini, altre ancora erano intente a masturbarsi con l’ausilio di oggetti non meglio identificati.

Sul finire dell’Ottocento l’avvento della fotografia ha sdoganato le immagini sessuali esplicite. In piena epoca vittoriana, un periodo considerato particolarmente difficile per la libertà femminile, appaiono così per la prima volta foto in cui le donne, tra crinoline e corsetti, mostrano una sessualità disinibita, al punto da ricorrere anche a strumenti – che oggi non esiteremmo a definire sex toys – per eccitarsi. Come abbiamo cercato di mettere in luce nel precedente articolo dedicato ad esplorare i miti della femminilità, per le donne è stato difficile conquistarsi il diritto di esistere in quanto soggetti desideranti. Queste immagini, tuttavia, dovrebbero farci ricredere e spingerci a mettere in discussione le conclusioni che abbiamo tratto precedentemente. 

La presenza di dildo artigianali che si ritrovano spesso in questi scatti è stata usata come pretesto per supporre che fosse consuetudine per le donne dell’epoca ricorrere a questo genere di ausilio e che addirittura la medicina li impiegasse come rimedio per alcuni problemi tipici della sessualità femminile. È stato il film Hysteria, arrivato in Italia nel 2011, a dare credito a questa teoria contenuta nel volume di Rachel Maines intitolato The Technology of Orgasm. J. M. Granville, il protagonista della pellicola, è un giovane medico che viene spesso licenziato dagli ospedali a causa delle teorie innovative che tenta invano di condividere con i colleghi. In seguito all’ultimo allontanamento, trova impiego presso una clinica privata che si propone di guarire le ricche donne borghesi dal male del secolo, l’isteria. È proprio lavorando in questo ambiente che, insieme al fratellastro inventore Edmund St. John-Smythe, mette a punto una specie di pistola vibrante che gli consente di trattare le pazienti – su cui dovrebbe effettuare lunghissimi ed estenuanti “massaggi” per riportare l’utero nella posizione originale – in molto meno tempo e con minor fatica.

Come spesso accade nella finzione cinematografica, alcune informazioni sono corrette, altre meno. Partiamo da quelle verificate: sappiamo che fin dall’antichità le teorie mediche ritenevano l’utero responsabile di gran parte delle patologie, più o meno visibili, sperimentate dalle donne. In un articolo apparso su The Vision, la giornalista Jennifer Guerra rintraccia le origini di queste teorie pseudoscientifiche nel Corpus Hippocraticum, cioè l’insieme dei testi attribuiti al medico Ippocrate. Scrive Guerra «(…) la donna avrebbe bisogno continuamente del coito, che secondo Ippocrate ha la funzione di riequilibrare le differenze di umidità dell’utero. Quando questo equilibrio viene rotto e l’utero rimane asciutto, perde peso e comincia a spostarsi nel ventre provocando dolore e “soffocazione isterica”, ovvero una sensazione di soffocamento e di confusione mentale». Nell’Ottocento, nonostante fossero state abbandonate da tempo queste traballanti motivazioni biologiche, era ancora consuetudine ritenere che l’utero fosse la principale causa delle malattie mentali femminili. Le tecniche che venivano impiegate per favorire la guarigione avevano a che fare con il “parossismo isterico” – una condizione molto particolare che poteva essere indotta grazie a specifiche stimolazioni vaginali e che forse costituisce il principale motivo che ha portato ad associare il vibratore  alla sessualità femminile, ma di questo diremo meglio poi.

Passando invece alle informazioni false, sappiamo che l’invenzione di Granville, risalente al 1880, non era stata progettata con funzioni di tipo sessuale e men che meno era stata pensata per essere utilizzata sulle donne. Il vibro-massaggiatore si caratterizzava pertanto come uno strumento in grado di alleviare dolori e tensioni muscolari negli uomini e non era pensato per altri scopi se non quello di lenire l’affaticamento di schiena e spalle. Come ricorda Kate Lister nel suo volume Sesso. Una storia imprevedibile, è lo stesso Granville, nel suo libro Nerve-vibration and excitation as agents in the treatment of functional disorder and organic disease a prendere posizione. Scrive a riguardo: «non l’ho ancora mai usato su una paziente donna (…) ho evitato e continuerò ad evitare il trattamento delle donne con percussione per il semplice fatto che non voglio essere ingannato dalle bizzarrie della condizione isterica». Ovviamente, il fatto che sia stato accertato che i vibro-massaggiatori non siano gli antesignani dei moderni dildo non significa che i medici di fine Ottocento non cercassero di “risolvere” l’isteria in qualche modo. Come è stato detto, molti di loro ricorrevano a “massaggi pelvici” che – attraverso la pressione delle dita dell’operatore collocate rispettivamente dentro la vagina e sulla pancia – avevano l’obiettivo di riportare l’utero nella sua posizione corretta. L’operazione si riteneva conclusa quanto la paziente raggiungeva il “parossismo” di cui abbiamo accennato prima, ovvero una condizione di liberazione in cui poteva ridere e piangere per ore, emettere flatulenze e finanche urinarsi addosso. È probabile che questi non fossero altro che gli effetti di una lunga sollecitazione masturbatoria, quello che tuttavia è importante sottolineare ai fini del nostro discorso è che per i medici dell’epoca l’autoerotismo era assolutamente bandito e queste erano considerate, a tutti gli effetti, pratiche mediche.

La masturbazione era considerata un pericolo perché confermava nelle donne la presenza di un certo impulso sessuale (esattamente come negli uomini) che la medicina aveva costantemente cercato di invisibilizzare. Il massaggio pelvico, pertanto, rappresentava il tentativo di normalizzare e medicalizzare un’azione che di “sanitario” era palese avesse ben poco. Basta leggere le descrizioni di come questi massaggi sarebbero dovuti avvenire per capire che fosse impossibile non riconoscerne il neanche troppo implicito contenuto erotico. Tuttavia, la cattiva reputazione che ha caratterizzato la masturbazione femminile ha resistito, inalterata, fino alla rivoluzione sessuale degli Anni Sessanta del secolo scorso. Nel famoso rapporto redatto da Alfred Kinsey nel 1953 intitolato Il comportamento sessuale della donna si ritrovano ancora molte di quelle credenze: alcune donne del campione, per esempio, credevano che «la masturbazione fosse la causa di acne facciale, monotonia, postura scorretta, disturbi di stomaco, dolore ovarico, cisti ovariche, cancro (…)».

Bisogna attendere gli Anni Sessanta affinché entrino in commercio i primi dildo. Complici le innovazioni in campo medico (come ad esempio la commercializzazione della pillola anticoncezionale) i movimenti femministi della seconda ondata cominciano a riflettere e a rimodellare la concezione tradizionale della sessualità, liberandola dall’obbligo riproduttivo, dal mito della maternità e persino dalla monogamia e dall’eterosessualità.

L’autrice Lynn Comella, nel suo Vibrator Nation, sottolinea come sia stata la crescente indipendenza economica che le donne americane iniziavano a sperimentare ad aver permesso le prime incursioni all’interno del mercato sessuale, sia come imprenditrici che come consumatrici. I primi sex toys, infatti, vengono introdotti all’interno dei laboratori femministi che attiviste e educatrici sessuali come Betty Dodson cominciavano ad avviare all’inizio degli Anni Settanta, trasformando i propri appartamenti in luoghi di ritrovo per tante donne desiderose di capire meglio e sperimentare il funzionamento del proprio corpo. Non solo: molte di loro, grazie a questi spazi, iniziano a chiedersi come poter commercializzare e acquistare i giocattoli erotici senza necessariamente doversi recare in un sexy shop, all’epoca pensato esclusivamente per un’utenza maschile. I primi dildo vengono venduti per corrispondenza, attraverso pubblicità dedicate sui giornali femminili o grazie a cataloghi recapitati per posta in forma anonima.

Torniamo allora alle fotografie in cui mi sono imbattuta per caso al mercatino delle pulci. Alla luce di quanto detto appare difficile pensare alle protagoniste degli scatti come soggetti attivi e desideranti. Per molto tempo la pornografia e gli eventuali giocattoli del sesso impiegati nelle scene che venivano fotografate o filmate, adottavano come unica prospettiva quella maschile. È stata la teorica Laura Mulvey, negli anni Settanta, a sostenere come tutti prodotti cinematografici (quindi, non solo l’industria del porno) ripropongano unicamente il “male gaze” – lo sguardo maschile – cercando di rispondere ai suoi bisogni visivi ed erotici.

Se è vero, come ricorda il giornalista Fern Riddle quando sul Guardian scrive «no, i vittoriani non hanno inventato il vibratore» bisogna altresì riconoscere che sapessero benissimo – come del resto era noto ai predecessori di ogni epoca e latitudine – cosa fosse un orgasmo femminile.

Le donne possiedono desideri e il loro piacere è addirittura concentrato in un organo dedicato, la clitoride, privo di altre funzioni: questo rende la loro sessualità potente e, in un certo senso, pericolosa, perché può mettere in discussione l’ordine patriarcale che la vuole subordinata a quella maschile e funzionale ad assolvere specifici doveri.In Occidente, l’epoca vittoriana è forse l’ultima che ha tentato di raccontare una storia fatta di pressioni sociali e obblighi morali. Grazie ai vibratori e ai sex toys, il femminismo l’ha riscritta.

ARTICOLO n. 89 / 2023

CAPITALISMO WOKE

Una conversazione con Carlo Pizzati

La cultura woke è davvero una prova che l’America sta ancora esportando la sua cultura di massa su larga scala in tutto il mondo, compreso nel Sud Globale? La guerra in Ucraina ha risvegliato il bisogno di democrazia nel mondo, o non sta invece rafforzando una deriva verso l’autocratismo? L’erosione di alcuni fondamenti della democrazia indiana è forse più dannosa per i Paesi del Sud globale che non il modello della “democrazia con caratteristiche cinesi”? L’invecchiamento dell’America, con due presidenti in età più che pensionabile e la gerontocrazia che occupa tanto Hollywood quanto Wall Street sono la riprova della decadenza finale degli Stati Uniti o solo un normale processo fisiologico?

Si parla di questo con David Rieff, brillante saggista e acuto analista politico americano, che troviamo in partenza da New York verso l’Ucraina, Paese che l’autore sostiene spesso con la sua presenza oltre che con i suoi interventi scritti, da quando è iniziata la guerra nel febbraio del 2022.

Carlo Pizzati: L’anno scorso lei pubblicò su The New Republic un’analisi titolata con una domanda: “Lo tsunami globale delle autocrazie può essere fermato?” Cosa risponderebbe, dopo un anno e mezzo dall’invasione russa oltre i confini ucraini?

David Rieff: Non c’è alcuna prova che questa tendenza possa essere fermata. Il populismo cresce ovunque, dal Messico degli impulsi autoritari di Lopez Obrador fino al Sahel dell’ex-impero francese. La frana continua, da un golpe all’altro, fino alla crisi democratica dell’India di Modi. Le idee che propugnavano alcuni analisti come Francis Fukuyama all’inizio del conflitto ucraino, cioè che la democrazia nel mondo sarebbe stata stimolata a un risveglio da questa sfida, non trovano riscontro nei fatti.

Non possiamo nemmeno dire che la difesa riuscita dell’Ucraina potrà arginare questa lenta marea. Il conflitto ucraino è cruciale per l’Europa e, in misura minore, per gli Stati Uniti. Ma il futuro della democrazia indiana che si combatte nel Kashmir o nel Manipur è più importante per i Paesi del Sud globale che non quanto accade a Kherson. Pensare altrimenti è una visione molto eurocentrica del mondo.

Gli Stati autoritari hanno fatto enormi progressi a causa delle crisi dell’Occidente di cui l’Occidente stesso deve assumersi la responsabilità. Diciamolo: l’Occidente è da tempo nel pieno di una crisi di identità. Tutti mettono in discussione tutto. Un ritorno all’appeal della democrazia richiederebbe molta più coerenza. L’Occidente non ha molto da proporre mentre le nazioni che facevano parte degli imperi coloniali guardano al loro passato in maniera diversa, dopo essere stati emarginati così a lungo. Davanti a loro vedono che l’impianto autoritario è coerente, mentre la democrazia è in guerra con sé stessa.

C. P. Allora quest’illusione che la guerra di Putin potesse risvegliare un impulso democratico era vana? Non esistono speranze nemmeno per il rallentamento dell’erosione interna della democrazia causata dai populismi?

D. R. Putin gode di un certo sostegno nel Sud globale, ma si basa molto sulla logica: il nemico del mio nemico diventa mio amico. Certo, in Siria o nel Mali magari vediamo folle sventolare bandiere russe con l’effige di Putin… ma basterebbe che qualsiasi di queste nazioni provasse ad assaggiare il sapore della dominazione russa per capire subito che, tutto sommato, i governi post-coloniali, per quanto corrotti e fallimentari, sono comunque meglio dell’alternativa russa. 

Però, certo, se l’Ucraina perde la guerra le possibilità di una ristorazione di qualcosa che ricorda la vecchia Unione sovietica aumentano subito. Non importa la confusione della propaganda russa che propone un’accozzaglia di simboli improbabili, mescolando Stalin con lo Zar Pietro il Grande nelle manifestazioni di orgoglio nazionalista: questa spinta è reale. 

Ciò che è parecchio inquietante in questa guerra è la disumanizzazione che la Russia crea verso il nemico, annientando il diritto a esistere dell’Ucraina prima ancora di bombardarla, negando che esista la sua lingua, dicendo che la sua identità culturale è solo folklore, che è tutta una costruzione a tavolino. Non c’è ancora stato un genocidio in Ucraina, ma c’è stato un genocidio culturale. È vero che la democrazia in Ucraina ha avuto un inizio disastrato, un po’ come la Bielorussia. Ma dal 2014 si è trasformata in una nazione genuinamente democratica, con un arco di eventi dai quali si può trarre ispirazione e trovare speranze per il processo democratico, augurandosi che non finisca in tragedia. 

La vicenda ucraina non ha davvero risvegliato le forze democratiche nel mondo, nonostante abbia ricevuto più solidarietà da parte dell’Europa di quanto ci si aspettasse. Ma questa battaglia per respingere l’aggressione russa in nome dell’indipendenza democratica non è che abbia rafforzato le forze democratiche in Europa.

C. P. Quindi da un lato del mondo abbiamo il fallimento della guerra in Ucraina nel riuscire a catalizzare un risveglio della democrazia, e dall’altra parte del mondo, nel Sud globale, abbiamo l’esempio dell’India che, come lei dice, scivola verso l’autocrazia. Sono due forze contrastanti, la guerra che alcuni speravano avrebbe risvegliato un amore per la democrazia e poi l’India che il think tank svedese V-dem definisce ora come “autocrazia elettorale”. Allora viene da chiedersi se, per il bene della democrazia nel mondo, sia positivo il tentativo di Biden di sfilare l’India dall’alleanza multipolare dei BRICS, sfruttando l’ambito del G20, e aiutarla nella sua gara contro la Cina per guidare il Sud globale? Quali sono le implicazioni di dare man forte a chi sta partecipando nell’erosione della democrazia, anche se in maniera abile e ben celata?

D. R. Penso che lo smottamento verso l’autocrazia del governo o regime di Modi, a seconda di come lo si voglia definire, per ora non rallenta. Ma, ammettiamolo, quante possibilità ha Biden di spuntarla, realisticamente, in questa nuova guerra fredda con la Cina? L’America dipende dalla Cina per l’acquisto dei suoi buoni del tesoro, come la Cina dipende dall’America per l’acquisto dei suoi prodotti. Niente a che vedere con il template degli Usa e Urss nella Guerra Fredda. Ma la rivalità è reale, come lo è la possibilità di una guerra tra queste due potenze. La Russia non sarà un partner commerciale accettabile per gli Stati Uniti né a breve né a lungo termine, a meno che non avvengano cambiamenti incredibili nel Paese, cosa altamente improbabile. Quindi resta il Sud globale e soprattutto l’India. Ed è per questo che nonostante la retorica delle critiche antiamericane del presidente brasiliano Lula, l’amministrazione Biden in sintesi dichiara, di fronte alle dichiarazioni ostili da Brasilia, che in realtà “le nostre relazioni con il Brasile vanno bene.” E questi sono proprio i fondamenti della geostrategia, che altro possono fare a Washington? Guardano ai fatti. 

L’economia americana non va così male, Biden è senz’altro un presidente sottostimato, che ha attirato un sacco di industrie da tante parti del mondo, compresa l’Europa, per quanto Macron e altri ne siano scontenti. Quindi abbiamo una nazione in cui, nonostante tutti i seri problemi che ha, l’economia non va male e che ha una forza militare coerente, nonostante le lagne dei Repubblicani sul fatto che “il movimento woke sta rovinando l’esercito.” Non li prenderei troppo sul serio. Cioè, le forze militari americane hanno i loro problemi, ma non sono di certo a causa del “Trans Day” in qualche base navale. Sono casomai i veri problemi sull’approvvigionamento e veri problemi di strategia. 

Dobbiamo tenere a mente il fatto che ogni forza militare al giorno d’oggi è in crisi a causa dell’Ucraina, crisi dovuta a una serie di postulati che si sono dimostrati fallaci. Per esempio, la strategia americana delle forze pluriarma, integrando fanteria e artiglieria in contesti urbani, non funziona come si pensava. Quando parli con le fonti militari ucraine non ufficialmente, off the record, bevendo un aperitivo, ti confessano che, “anche se ci avessero dato il sostegno aereo di cui avevamo bisogno per queste tecniche combinate, non avrebbero funzionato comunque.” Perché la guerra è cambiata. Anche la tecnologia militare deve essere ripensata, sia quella della Nato che quella cinese. Questa è stata la lezione dell’Ucraina.

Ma per tornare al punto, vede, io non amo il regime di Modi, e penso che il Congress Party, con tutta la loro corruzione, e nonostante tutti i limiti della famiglia Gandhi e tutti i loro errori, sia infinitamente preferibile all’attuale governo. Perché il Congress e l’opposizione in India credono davvero in una società multiculturale e, fatto ancor più importante, multilingue. Credo che il destino dell’India sia decisivo per il destino delle democrazie liberali. Perché la realtà è che continua a essere in crisi. Bisogna chiedersi se la democrazia liberale sarà la formula efficace in posti come l’Uganda. Se li abbiamo già noi i problemi sulla democrazia di massa, come funzionerà in quelle nazioni? Tutte le critiche fatte dalla scuola di Francoforte sui limiti della democrazia saranno ancora più accentuate. I problemi della rappresentatività, e non intendo le bandiere del movimento dei trans, parlo dei normali partiti politici… i problemi sono immensi. A quel punto la Cina appare più interessante come modello da seguire per alcuni Paesi emergenti.  La Cina ha strappato dalla povertà più persone che qualsiasi altra civiltà nella Storia in così poco tempo. Se tu sei un leader intelligente di una nazione del Sud globale quali sono le tue priorità? E, certo, forse alcuni modelli di sviluppo democratico hanno funzionato. Ma in che misura? Se togli la Cina dalle cifre dello sviluppo globale in questi decenni, la distribuzione della prosperità delle persone nel Sud globale è disastrosa. Se calcoli la Cina sembra che ci sia stato questo incredibile progresso. Ma se togli la Cina i risultati non sono altrettanto positivi.  Allora se è vero che a Modi riesce di fare qualcosa di simile, certo, allora sarà molto difficile per i Paesi del Sud globale resistere alla tentazione di essere più autocratici, di diventare appunto “autocrazie elettorali.”

C. P. Ma c’è una differenza un po’ più inquietante tra i due modelli. Da un lato la Cina, con Deng Xiaoping che prova ad aprire le porte del sistema comunista all’economia capitalista, per spianare la strada alla modernizzazione. Poi con Xi Jinping che la porta di nuovo verso una dittatura di ispirazione maoista, mantenendo i vantaggi di un sistema con aspetti del capitalismo. E lì si può dire che comunque c’è ancora speranza che la Cina in futuro si sposti verso la democrazia. Ma nel caso di Modi lo si può riassumere così: fatemi prendere questa democrazia e lasciatemela trasformare in un sistema più autocratico di modo che funzioni meglio. Questo è molto diverso, e forse più dannoso come esempio, se guardiamo a questa gara con la Cina su chi sia il modello migliore per il Sud globale, visto che non pare proprio che l’America sia più di ispirazione per molti.

D. R. Non so se sia più dannoso. Ma penso che sia vero che l’Hindutva escluda una percentuale molto più alta di indiani che l’Han-centrismo in Cina, per quanto tragico e orrendo sia quanto i cinesi hanno fatto agli uiguri nello Xinjiang. Ma dire alla cultura profonda e radicata nel Sud dell’India: non c’è posto per voi, qui. Cioè imporre l’hindi e cercare di eliminare l’inglese come lingua in India accusandola d’essere un retaggio coloniale e non una lingua franca che mette le altre lingue indiane sullo stesso livello, beh, sì, questo è un problema. Ma non so cosa sia peggio. Ricordiamoci che Deng Xiaoping emerse dalla calamità della rivoluzione culturale e che tentò di rimettere in carreggiata la Cina in una direzione meno omicida e meno auto-lesionista. E che ci sono dei problemi reali in Cina che Xi non vuole ammettere… come la crisi degli scarsi consumi interni che dimostrano che i consumatori cinesi non credono davvero nella prosperità ottenuta. Pechino deve creare un vero mercato di consumi nazionali perché non è detto che la Cina possa continuare a essere la Fabbrica del mondo all’infinito, poiché ci stiamo spostando in un mondo multipolare anche nella produzione. Ricordo che 20 anni fa scoprii che in Burundi tutti i preservativi erano made in China. E non è difficile produrre preservativi. Vogliamo credere che come parte dello sviluppo non ci sia anche quello che nel Burundi riusciranno a produrre i propri preservativi? Questo inevitabilmente metterà in crisi le esportazioni cinesi, se non sta già accadendo.

C. P. A parte il modello indiano, quello cinese e quello americano, esiste un altro modello democratico che possa ispirare i Paesi del Sud globale mentre cercano di trovare una strada per lo sviluppo economico?

D. R. Non vedo molti elementi per sperarci. Come diceva Lenin, nulla succede per decenni e poi decenni accadono in settimane, quindi ci possono essere molte sorprese. Ma per ora mi pare che le forze per l’autocratismo siano più solide che mai.

C. P. Una sorpresa che alcuni temono è che Trump potrebbe tornare alla presidenza l’anno prossimo. In che modo potrebbe incidere sullo scenario globale?

D. R. Quello che molti non dicono è che se Trump fosse riuscito a fare quello che aveva promesso, molto probabilmente sarebbe stato rieletto nel 2020. Se fosse riuscito a costruire le infrastrutture che aveva promesso sarebbe ancora alla Casa Bianca. Ma non le ha costruite e ha perso. Però non è detto che non ce la faccia a vincere nel 2024. Allora tutto quello che abbiamo detto subirà un influsso radicale. Ma ciò sta accadendo in tutto il mondo. Come, per esempio, questo Milei in Argentina, che non ha alcuna esperienza politica ed è probabilmente instabile mentalmente quanto Trump, anche se è probabilmente meno corrotto, ma non è per niente escluso che vinca le elezioni. Gli italiani che conosco dieci anni fa non avrebbero mai pensato di avere Meloni al governo. Non è solo Orban. È tutto il mondo, mi pare, che va in quella direzione.

C. P. Ma tornando in America, se i giovani del Sud globale rivolgono lo sguardo verso gli Stati Uniti come esempio da seguire nel paradigma democrazia-autocrazia, la possibile “sfida della terza età” tra Trump e Biden nel 2024, in un contesto dove a Hollywood gli anziani Spielberg e Scorsese comandano ancora… be’, dov’è finito quel vigore giovanile americano che si pensava dovesse ispirare il Sud globale? L’America è invecchiata ed è gestita da anziani. Non è un messaggio che propone un futuro molto dinamico.

D. R. Certo, la politica democratica Dianne Feinstein è morta a 90 anni, rifiutando di andare in pensione fino al capezzale. Qualcuno ha fatto la battuta dicendo: non si capisce perché la sua morte debba in qualche modo danneggiare la sua carriera politica! Certo, siamo in una gerontocrazia, qui in America. Gli anziani leader sovietici sono tutti morti o sono andati in pensione molto prima dell’età che hanno oggi Trump o Biden. Brezhnev se ne andò a 75 anni. E molti leader nelle altre parti del mondo sono più giovani.

C. P. Trudeau, Sunak, Meloni, Macron…

D. R. Gli Stati Uniti assomigliano ormai a Paesi come l’Egitto, una volta al potere non te ne vai più. Ma, mi scusi, quest’idea del vigore giovanile dell’America forse ce l’aveva suo nonno, a me pare sia scomparsa da molto…

C. P. Beh, Barack Obama mi sembra lo rappresentasse bene, quest’illusione del cambiamento che viene dai giovani.

D. R. Sì, simbolicamente, nonostante non sia stato un grande presidente. Ma da allora è finita. 

C. P. Quest’invecchiamento pare che tocchi anche la cultura, non solo la politica. La crisi di identità dell’Occidente di cui lei parla va mano nella mano con la sua crisi culturale. Forse il modello occidentale è stato da esempio troppo a lungo, risentendo di una normale stanchezza storica. Le famose crisi delle élite di Vilfredo Pareto… Non crede che il vuoto che l’America sta lasciando in campo culturale, nonostante l’hardware della comunicazione sia ancora in mani americane come la Apple, Microsoft, Meta, Alphabet ecc., sia sempre più evidente? L’America ispirava il mondo politicamente, ma anche culturalmente. Non è più così.

D. R. Sì e no. Capisco cosa intende. Ma chi è interessato alla cultura alta, di certo viene qui a New York, non va nella Corea del Sud.

C. P. A dire il vero, per quanto riguarda la musica K-Pop, la letteratura più originale e il cinema di qualità, negli ultimi anni la Corea del Sud ha proposto opere più innovative e creative che la ricca fabbrica culturale degli Stati Uniti.

D. R. Però c’è l’accumulo nel mondo di tutte queste idee woke, se vogliamo definirle così… anche se il movimento woke è una critica all’ordine costituito americano, o meglio, così si considera, in realtà il fatto che sia stato adottato così velocemente da Buenos Aires fino al Sudafrica, mi fa pensare che l’egemonia culturale americana, anche se negativa, continua a essere molto più potente di quanto avrei pensato.

C. P. Però mi chiedo se la cultura woke non sia da considerare più come propaganda politica e sociale che non cultura, in questo contesto. Cioè, la sua missione è di trasformare la società, ma l’espressione artistica che ha prodotto finora sembra aver raggiunto un livello qualitativo piuttosto scarso, non trova? Il problema è che se scrivi un libro, giri una serie, un lungometraggio, oppure crei un’opera d’arte o un brano musicale con l’intenzione di promuovere un messaggio politico allora si rompe l’incantesimo, un fenomeno già visto nella produzione culturale sovietica o fascista. Il Minculpop non funziona. L’artista impegnato se si impegna troppo crea opere inefficaci, perché il messaggio sovrasta il racconto, l’opera stessa, ed è li che si scorge la propaganda. Così in film come Barbie o nelle serie come BridgertonDear White PeopleWhite LotusSex Education, quando incappiamo negli ormai obbligatori monologhi salmodianti sull’importante e per me condivisibile messaggio woke, la magia muore in un istante ed è subito comizio.

D. R. Sì, su questo sono completamente d’accordo. Per me l’impatto della cultura woke è quello di “rendere il mondo sicuro” per il kitsch. Perché non c’è alcuna obiezione politica al kitsch, c’è però un’obiezione politica alla cultura alta.

C. P. Certo, perché la cultura alta riesce a integrare un messaggio più profondo in una narrazione spontanea.

D. R. Sì, invece il woke è tutto molto naïve. Per esempio il fatto che tutti i dibattiti sul tema hanno luogo solo tra persone che parlano in inglese e quindi parliamo di emancipazione mono-linguistica, non inclusiva di tutte le altre lingue. 

Ma non credo nemmeno che il movimento woke sia una minaccia politica, di certo non è una minaccia al capitalismo. Woke è una bandiera politica di convenienza per il trionfo di forme alternative di cultura popolare. Forse non era l’intenzione del movimento woke, ma è l’impatto che ha avuto finora. Non penso sia una minaccia al sistema. Altrimenti tutti questi business e queste corporations, se avessero pensato che poteva intaccare i loro profitti, non sarebbero saliti sul carro del capitalismo woke. Certo, c’è della gente di destra che è terrorizzata dagli studi queer all’Università della California, ma, onestamente, non fanno paura al sistema vero, al potere. Tutt’altro.

ARTICOLO n. 88 / 2023

COSA NON FAREBBERO GLI ATTORI PER UNA BATTUTA

Pubblichiamo un’anticipazione da Lasciateci perdere (Rizzoli) da oggi nelle librerie. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Io vi amo tutti e due. E va bene, io voglio anche ammettere di avere sbagliato, ma il fatto è che voi due, insieme, siete un uomo perfetto. Allora da un certo punto di vista, vale a dire dal mio punto di vista, io mi sono innamorata di un uomo solo! (Laura Morante, Turné, 1990)

Marrakech Express era uscito al Mignon di Milano a maggio ed era rimasto in cartellone estate, autunno e parte dell’inverno. Lo smontarono verso Natale. Una cosa oggi impensabile. E tutto grazie al passaparola!

Elettrizzato da questo successo, Minervini mi propone Turné, una storia che aveva già per le mani e che gli piaceva molto perché, in qualche modo, lo riguardava. Anche lui aveva fatto parte di una relazione sentimentale “triangolare” e sapeva come ci si sente in certe situazioni. 

Al soggetto aveva partecipato Paolo Virzì, la sceneggiatura l’avevano scritta Francesca Marciano e Fabrizio Bentivoglio, che allora stavano insieme. Era un po’ diversa da come poi l’abbiamo girata. A un certo punto, la madre di uno dei protagonisti moriva, c’era una lunga deviazione in cui andavano a spargere le ceneri e secondo me non funzionava. 

A quei tempi i film si facevano in gran fretta e Minervini aveva il doppio della fretta di chiunque altro. Così, già a metà dei sopralluoghi, chiedo e ottengo quindici giorni per fermarci e riscrivere la seconda parte del testo.

Si potrebbe pensare che Turné, storia di un triangolo amoroso ambientato nel mondo del teatro, fosse il film con cui io volevo sublimare la mia vicenda sentimentale. Non è così. Però il progetto cascò dal cielo al momento giusto. Avevo conoscenza diretta di qualcosa di molto simile, ovvero la sensazione di déplacement che si prova nel sentirsi divisi tra due persone. Ma quello che per me è l’aspetto più interessante di Turné è il tema di come due esseri completamente diversi tra loro possano affascinare e fare innamorare la stessa persona. Per diventare chi siamo, dobbiamo confrontarci con altro da noi, dobbiamo scovare il nostro “compagno segreto”, come quello del racconto di Joseph Conrad. Nella stiva della nave su cui viaggiamo, c’è una parte di noi sconosciuta agli altri e che prima o poi emergerà.

Ricordo la lavorazione di Turné come un’esperienza complicata, con momenti che, a ripensarci adesso, sembrano usciti da una commedia di Feydeau. Dormivamo negli stessi alberghi, spesso occupando stanze sullo stesso piano, nello stesso corridoio. Io stavo con Rita però non lo avevamo detto a nessuno. Diego (Abatantuono, ndr) stava già con Giulia, che poi è diventata la sua seconda moglie. Giulia non venne mai sul set, in compenso Rita ci raggiunse qualche volta, sempre per portare Marta a passare del tempo con suo padre. Fabrizio stava da solo ma era uno straccio perché, nel frattempo, si era appena lasciato con la sua compagna di allora. Un dettaglio che, cinicamente, si rivelò molto utile alla sua interpretazione di disperato sentimentale. 

Laura Morante, la protagonista femminile, mi era stata consigliata dal solito Minervini che, evidentemente, aveva un grande occhio per gli attori perché era perfetta per il ruolo. 

Laura arrivò sul set e, purtroppo per lei, trovò una situazione ad alto tasso di testosterone. 

Io, Diego, Fabrizio e Italo eravamo legatissimi dopo l’avventura di Marrakech Express e vivevamo Turné come il prolungamento di quell’esperienza imprevedibilmente magica. Avevamo un nostro gergo da tribù coesa, parlavamo e facevamo insieme cose da maschi: il calcio, il Nintendo. 

Credo che Laura si sentisse esclusa e probabilmente aveva ragione. Inoltre, Diego e Laura sono agli opposti in tutto e per tutto. Discutevano di continuo. Su cose piccole e sui massimi sistemi della recitazione. Liti furibonde, lei che sosteneva che l’attore dovesse lavorare per creare personaggi diversi da sé, Diego che rispondeva tutto concitato che l’attore è se stesso e non cambia mai. 

Tale era il clima che fui costretto a girare separatamente alcune delle scene tra loro due. Il primo piano di lui un giorno, quello di lei il giorno dopo. 

Nonostante la sarabanda di amori e umori, Turné riuscì bene. Partecipò al festival di Cannes nella sezione Un certain regard e in sala incassò ancora meglio di Marrakech Express

Seguì, quasi subito, Mediterraneo. Ed eccoci tutti quanti o quasi, di nuovo insieme, compreso Ugo Conti, l’amico d’infanzia di Diego che non poteva mai mancare perché la sua presenza lo rasserenava e tranquillizzava e a cui siamo tutti affezionati. In più c’era Vana Barba, la ex-Miss Grecia che interpreta la prostituta Vassilissa e che verrà con noi anche alla notte degli Oscar. 

Per il ruolo di Aziz, il turco imbroglione, quello che dice «non zo», avevo scelto Alessandro Vivarelli, che in realtà era uno degli organizzatori del film. Un ragazzo di grande simpatia di cui, già dai giorni di Marrakech Express, ero diventato molto amico, condividendo con lui musica, sogni e rabbie. Aveva talento e una faccia fantastica, avrebbe potuto continuare sia a fare il produttore sia l’attore. Se n’è andato presto, quattro anni dopo Mediterraneo. Con una siringa di eroina infilata nel braccio. 

A Kastellorizo c’era un solo hotel, bruttino. Per il resto, la produzione affittò delle case di pescatori più una casetta molto carina sul porto, di proprietà di una coppia tedesca, dove sarei dovuto stare io. A Diego era destinata una casa più grande, ma all’interno del paese e ancora in costruzione. Appena arrivati sull’isola e dato un’occhiata alle residenze che ci avevano assegnato, Diego viene da me e mi propone di fare cambio. Sua figlia Marta si sveglia presto, lui vuole dormire più a lungo e preferirebbe stare da solo. In pratica, mi mette in casa di Rita. A quel punto, gli abbiamo detto come stavano le cose. 

La sua reazione fu tranquilla e un po’ sbruffona: «L’ho sempre saputo, ho fatto di tutto io per farvi incontrare». 

Qualcosa di vero c’era. Rita mi ha raccontato che, parlandole di me, quando ancora lei non mi conosceva, Diego le aveva detto: «Ho incontrato un regista, è uno che potrebbe piacerti. Te lo presenterò, comunque, perché tanto secondo me è frocio». Un assist perfetto! 

Capisco che, vista dal di fuori, la nostra storia può sembrare bizzarra, ma non ci sono mai state discussioni o problemi seri tra me e Diego per questo, né allora né dopo. 

Sul set di Mediterraneo andò tutto bene. Anzi: mi viene da pensare che una volta rivelato il nostro “segreto”, l’aria intorno a noi fu ancora più leggera. 

Ho visto Diego incazzato una volta sola, in quelle settimane. Un giorno avevamo organizzato una festicciola nei tre ristoranti dell’isola per festeggiare dei compleanni, non ricordo di chi. Diego aveva comprato dei piccoli regali per tutti, poi era andato a dormire. Prima di cena, io e Rita passiamo dalla famosa casetta sul porto dove stava lui. Bussiamo più volte. Non risponde. Ci diciamo: «Arriverà». Lui si presenta con oltre due ore di ritardo, infuriatissimo e offeso, sostenendo che ci eravamo dimenticati di lui. Pieno di rabbia, prende tutti i regalini e li butta in mare. 

Sono affezionato a Diego, così come voglio bene a Marta, sua figlia. Un po’ per timidezza e un po’ per discrezione non mi sono mai imposto come vice padre, ma le sono legatissimo. Quando io e Rita ci siamo messi insieme, era una bambina di appena cinque anni. È cresciuta vedendoci lavorare uno accanto all’altro: sua madre, suo padre e io. 

Da ragazzina, ci ha contestati spesso severamente: «Voi, vestiti da straccioni, voi che fumate quelle sigarette puzzolenti» ci rimproverava, con quel tono giudicante e apodittico che possono avere i ragazzini. Mi raccontò che, quando andava alle elementari, a volte Rita saltava giù dal letto di corsa e la accompagnava a scuola ancora in pigiama e lei le intimava di non avvicinarsi alle altre madri o agli insegnanti “conciata così”. 

Adesso Marta è una donna, con modelli di vita giustamente molto diversi dai nostri, come ogni figlio dovrebbe avere. Ha sposato un cardiochirurgo, facendomi così un grande regalo perché ha realizzato il mio sogno di avere finalmente un medico in famiglia. È madre di tre bambini bellissimi che considero miei nipotini acquisiti, come nonno in seconda. Naturalmente, a Diego piace molto dire in giro che io sono il “BIS nonno”. Che cosa non farebbero gli attori per una battuta.

(© 2023 Rizzoli, Milano)

ARTICOLO n. 87 / 2023

PER ERNESTO FERRERO

Quando si entra a far parte di una casa editrice di una certa importanza, tradizione e prestigio, si rimane frastornati; l’incontro diretto con autori di cui si sono apprezzate le pagine, o con l’editore e i suoi più stretti collaboratori, mette soggezione; e, più in profondità, suscita un cauto orgoglio. Sembra di aver passato la porta di ingresso nel pantheon dove regna incontrastato il pensiero, e dove i passi sono tutti di persone di elevata statura morale, ovviamente scrigni di saperi sconfinati. Pochi giorni a un tavolo di lavoro e già si hanno i primi sospetti che non sia così.

Entrando all’Einaudi nei primi anni Settanta, si incrociavano gli occhi irridenti e ghiacciati di Giulio Einaudi, quelli grandi e interrogativi di Giulio Bollati, e di molti altri che sembravano dirti: “non penserai che sia una passeggiata, che adesso ti metti comodo a leggere, o a scrivere; vedrai…” Erano occhi sfidanti, quando ti andava bene simili a quelli di chi aveva già fatto molte guerre, e che ti guardavano con l’aria un po’ sprezzante, un po’ pietosa di chi annuncia durissime prove iniziatiche. E questo era vero. Presentazioni e passaggio alle prove. Fra quelle molte paia di occhi un po’ spaventosi, l’incontro con quelli di Ernesto Ferrero era piacevolmente rassicurante: il suo sguardo riceveva lo sconosciuto con cordiale affabilità, senza l’ombra di sfide e competizioni, nulla di quel brillìo vagamente omicida che traspariva fra le palpebre di tanti altri. Allora ancora giovane, senza alcuna traccia nelle parole o nei gesti degli anni roventi recenti e presenti, Ernesto era accogliente, amichevole, e sempre sorridente. Non rideva né parlava ad alta voce; in via Biancamano l’unico che fendeva con i suoi fragori vocali un silenzio connaturato con la scrittura e la lettura era Guido Davico Bonino. No, intendiamoci, Ernesto non aveva affatto l’aria del monaco amanuense, ma era naturalmente gentile, di aurea mediocritas quanto al tono della voce: una voce senza inflessioni, nordica, morbidamente ironica. Di ironia, si sa, se ne parla spesso, ma poi si sente piuttosto il sarcasmo, o il dileggio. Reduci da un ’68 che fra altre predizioni annunciava che “l’ironia vi seppellirà”, in Einaudi – pur così vicina a tanto movimento di persone e idee in quegli anni – di quella materia fine ne circolava poca. Ernesto ne aveva, viceversa, un buon bagaglio. E la usava con discrezione. Dove altri avrebbero lasciato cadere una frase velenosa all’indirizzo di un collega, di una celebre dama della letteratura o di un principe del pensiero politico, Ernesto si limitava a due o tre parole allusive, intinte in un calamaio di ironia. Non l’ho mai sentito inveire contro qualcuno, né usare toni accesi, anche quando ve ne erano tutte le ragioni. Nessuno e neppure Ernesto, nonostante abbia trascorso i migliori anni della sua vita in Einaudi, ha attraversato quelle stanze senza inciampi, scambi anche aspri, situazioni difficili e persino drammatiche. Ma, come la regina Elisabetta, never complain never explain. Almeno in pubblico. Ma anche in privato, dopo aver consolidato una certa intesa con l’interlocutore, era più forte un certo sguardo di molte parole: che, come ci insegnavano i grandi veri, quelli indiscutibili, Primo Levi e Italo Calvino, non andavano sprecate. Ed Ernesto, in questo, sia per inclinazione personale sia per affinamento nella frequentazione di quei severi maestri, era stato un ottimo allievo e a sua volta un maestro. Dopo le quarte di copertina di Calvino, quelle di Ernesto sono state le migliori: scritte con la sapienza di uno scrittore, criticamente ineccepibili e con un invito alla lettura senza strilli, seduttivo e senza fronzoli.

Ernesto ha attraversato alcuni degli anni più vivaci della vita dell’Einaudi. La riunione del mercoledì era effettivamente una scuola di alti studi: insieme con i senatori, i vecchi compagni di strada di Einaudi, presenziavano invitati e studiosi che di volta in volta erano chiamati a esprimere giudizi su libri e autori senza ambiguità, senza perifrasi sibilline, meglio se con una certa ferocia. In quella camera caritatis dove vigeva la regola del silenzio totale appena fuori da quello spazio di libertà e di combattimento, nonostante Einaudi aizzasse tutti contro tutti, Ernesto manteneva una sua maniera di uomo per bene; non vi erano risse a cui ricordi di averlo visto partecipare. E non si creda che stia esagerando: ho personalmente chiamato l’ambulanza per un primario poeta e critico delle patrie lettere dopo una soffocata invettiva contro Giulio Einaudi, che lo aveva dileggiato come un ragazzino. Ernesto, in queste situazioni, esibiva una eleganza che era anche ineffabilità, quasi fatalismo: in un posto così, così incredibile per chiunque non lo potesse vedere con i propri occhi o subire sulla propria pelle, era naturale che ci fossero spargimenti di sangue. Salvo poi, oltre la riunione, rimettersi agli sguardi degli esterni in formazione compatta, come una piccola testuggine romana. 

Giulio Bollati e Giulio Einaudi, i due Giuli, erano molto diversi fra loro; erano i capi indiscussi di via Biancamano e tendevano a fare proseliti. Non sempre era facile districarsi da quelle volontà di schieramento. Non lo fu neppure per Ernesto che, anche dopo varie esperienze in altre case editrici, restò legato allo Struzzo nel ricordo dei suoi anni migliori, e anche al bizzoso patron, che in tempi meno generosi di fortuna personale venne accolto da Ernesto e da Carla con affetto filiale e senza ombre di possibili recriminazioni.

Ma intanto, oltre a lavorare sui libri degli altri, Ernesto scriveva i suoi. È inutile ricordarli; se ne conoscono le pagine e i riconoscimenti che le hanno premiate. Ma non è inutile sottolineare che da acuto lettore di Primo Levi e Italo Calvino, Ernesto Ferrero ha fatto propria un’attitudine alla scarnificazione del testo, alla limatura della frase e della parola, alla levigatezza del discorso. Come si diceva in via Biancamano di fronte a testi di grande volume, “non ha avuto tempo di scrivere di meno”. Ecco, quel tempo, come i suoi due fari letterari e per certi versi anche umani, Ernesto se lo è preso sempre. E proprio con la sua ultima fatica, con Italo, ha raggiunto una maturità di scrittura, una limpidezza di stile e una intelligenza critica forse non toccate prima: come una vetta o un approdo definitivo. La sua discrezione, quel suo sorriso sempre presente a ingentilire il suo sguardo, sono stati interiorizzati anche stilisticamente e restituiti alla pagina con una estrema, e purtroppo definitiva, felicità.

ARTICOLO n. 86 / 2023

ANTONIO FASAN, UN FORNO GIALLO

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del ‘900 attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Ogni giorno si compiono numerose scelte di selezione e ben poche scelte d’invenzione. Mi sveglio e, tuta o tailleur, decido come vestirmi. Al cafè, premo il dito sulla vetrinetta per segnalare il pasticcino che desidero. Al negozio di arredamento, mi domando se acquistare il cuscino di chintz o quello di lino (compro quello in lino anche se il mio cuore è di chintz). Cuore, cuore… Lui mi scrive di essere nell’atrio, che emoji gli mando? Sì, un cuore, ma di quale colore? Giallo, bianco, marrone, grigio, arancione, azzurro, blu o un disperatissimo rosso?

Quasi ogni movimento della quotidianità presuppone la scelta necessaria o contingente di un colore preselezionato da tendenze, usi, costumi, disponibilità; a noi è chiesto solo di abbinarlo o tuttalpiù di rapportarci a esso accogliendolo o rifiutandolo.

Nelle arti definirsi ‘colorista’ equivale ormai a offrire un Plasmon anziché un chewing gum. Molti artisti hanno solo una vaga idea del perché usino determinati colori; anzi, sempre più spesso il colore trascende l’artista immettendo nell’opera sottotesti che l’ignaro artefice maneggia solo in seconda istanza. 

Chi ha già letto il primo episodio di questa serie dedicata al paesaggismo veneto sa che non scrivo di pigmenti o pruderie tecniche, bensì dei significati morali, economici e politici veicolati dai toni e dalle sfumature. Al rosa shocking basta un niente per divenire il più statalista, se non fascista, e paranoico tra tutti i rosa, ma può essere ammansito con un nero tinto nel marrone e in qualche gocciolina del sangue di Marie Duplessis.

Nella mia città, Padova, che io vedo giallorosa e allegra come una madonna che si è persa tra le villette residenziali, ha abitato, nel secolo scorso, un pittore che faceva il fornaio in Piazza della Frutta e che durante il Ventennio trascorse i suoi twenties and thirties inventandosi colori domenicali, fiduciosi e antifascisti. Aureolini pescati, azzurri lavati caricati di bianco, verdi menta luminosi e saturi.

Antonio Fasan (1902 – 1985), amato e collezionato in vita da spiriti cui non siamo indifferenti quali Giò Ponti e De Pisis, è da tutti descritto come un fanciullo speculativo che appare tra le farine del forno. Il critico e pittore Vincenzo Costantini lo paragona a un «tipo di studente o giovane farmacista che, vestito di un lungo camice bianchissimo ci guarda con occhio immobile dietro i vetri degli occhiali». Anche il mercante Carlo Cardazzo rimarca la bontà di Fasan: «è veramente “un candido”» e «sembra più un allievo della Compagnia di Sant’Ignazio di Loyola che quello che è». Giò Ponti, che lo coinvolge in mirabili progetti, compendia Fasan nella “’impenetrabilità dei temperamenti sensibili”.

Fasan comincia a dipingere nel 1926 e oltre all’ambiente padovano frequenta dapprima quello veneziano, dove grazie alla Biennale scopre Modigliani che lo allontana da Ettore Tito, e si appassiona a Renoir e Degas, per cui tradisce Ciardi e Zandomeneghi. Non si iscrive all’Accademia ma visita gli studi dei pittori di poco più anziani, tra cui Ottone Rosai e Giorgio Morandi. Ammira un coetaneo, lo speciale Giuseppe Viviani. 

Fasan dipinge farfalle, conchiglie, ventaglietti, fichi, viole del pensiero, cachi, l’esterno degli Scrovegni, cavallucci marini, le strade dove passeggio e pasteggio, calicantus e alchechengi.

Nei decenni in cui la casa era amministrazione della donna “custode del focolare”, “madre nuova per figli nuovi”, mater matuta, a mesi alterni gravida o gonfia di minestra littoria (un consommé chiarificato servito con bignè), Fasan ama stare in casa: ritrae la moglie Carmela e impara la lezione da tappezzerie, tovaglie e calzettoni. Il pittore è muliebre: si spegne il truce focolare, risorgono le stanze. Lo stesso giallo saltella da un paio di pantofole agli affreschi di Jacopo da Verona presso l’Oratorio di San Michele alle casette che verranno costruite poco prima del boom.

Poveri i colori, oggidì prigionieri politici tra delinquenti comuni sull’isola dei consumi, allontanati dalle tribune… Eppure, ogni tanto se ne sente parlare. In questo anno 2023 la rozzezza patriarcale della politica italiana ha trovato ulteriore sfogo nelle critiche a Elly Schlein colpevole di essersi rivolta a una esperta di armocromia. Io stessa, che nella vita invento colori e scrivo di colori quotidianamente, mi sono rivolta tempo addietro a una deliziosa armocromista del trevigiano, cui ora affiderei anche la scelta delle mie espressioni facciali. 

Ben prima di suggerire quali colori conviene utilizzare per non sembrare uno zombie (sempre che un aspetto in salute sia desiderato), l’armocromista rivela al cliente di quale tono e sottotono è la sua pelle: freddo, caldo, chiaro, scuro… Probabilmente paghi di sapersi bianchi, gli avversari di Schlein hanno trovato ulteriore modo di declassare l’intelligenza cromatica a suon di risate e sbuffi.

Mi ricompongo e torno a Fasan, con le parole di Giovanni Comisso: «È un placido, sereno e distillato pittore. Egli incomincia come l’ostrica a lavorare lentamente di madreperla un granellino di sabbia, scoperta l’essenza di un oggetto, di un paesaggio o di una figura egli lentamente la elabora, sempre negli elementi strettamente necessari, portandola ad una evidenza preziosa e brillante. Sue doti principali sono: gusto di colore e sommessa, ma armoniosissima fantasia».

‘Fantasia’, parola ancor più tabù che ‘colorista’, soppiantata da ‘creatività’, nozione commercialista-friendly, o da ‘immaginazione’, più gestibile dai pedagoghi. 

Fantasia coloristica è saper accedere a manifestazioni cromatiche che non abbiano senso, ma che creino il senso. Nulla è più difficile del colore. Il disegno si vede, il colore si percepisce. Per associare un messaggio a un colore, per creare un nuovo messaggio, è necessario essere iscritti da anni alla palestra della trascendenza così come è necessario vivere nell’astrazione, ovvero destrutturare ora dopo ora, giorno dopo giorno, lo spirito cromatico dello zerbino del vicino, di un buco nell’asfalto, una vetrina di Tigotà, una tiara, un Pontormo, un pannello di laminato bianco con orribili macchie effetto legno, una teiera, un cappotto di Max Mara, un bubble tea.   

Tutti bravi ad adorare Morandi, che ovatta le anime scosse nei grigi bruniti del suo inimitabile stillicidio; ma sfido il lettore ad amare un altro adepto della madreperla, Fasan pittore fornaio: saturò i colori più pii, puerili e sereni per inventare la pace in tempi di guerra.

ARTICOLO n. 85 / 2023

TRASFORMARE LA REALTÀ IN UNA STORIA

Non avrei mai pensato di intervistare mio (ora ex) marito, ma la vita è bella perché imprevedibile e dunque eccomi qua, a fare domande al regista Marco Risi, padre di mio figlio. Parleremo di cinema, argomento che lo interessa più di ogni altro, e salvo il fatto che risponderà alle mie domande allungato sul divano a piedi scalzi, i crismi di una vera intervista saranno rispettati, mi è bastato schiacciare il tasto play del registratore per materializzare un diaframma perfetto.

Francesca d’Aloja: Hai cominciato a lavorare nel cinema nel 1982, le motivazioni che ti hanno spinto a intraprendere questo percorso sono sempre le stesse o sono cambiate in corso d’opera?

Marco Risi: In realtà ho cominciato un bel po’ prima: nel ’70 come assistente alla regia di mio zio Nelo e poi con Alberto Sordi, Duccio Tessari e il mio amico Carlo Vanzina. Però, sì, le motivazioni sono sempre quelle.

F. d.A. E cioè?

M. R. Il desiderio di raccontare, di trasformare la realtà in una storia. Fin da piccolo, quando qualcosa succedeva intorno a me, a casa, o per strada, fantasticavo su come tramutare ciò che vedevo in immagini proiettate su uno schermo. Da ragazzo andavo anche tre volte al giorno al cinema, e ancora ricordo la sensazione, uscendo dalla sala, di sentirmi diverso rispetto a quando ero entrato. Sono cresciuto con il cinema, non soltanto da un punto di vista familiare. Certamente il fatto di avere un padre regista probabilmente mi ha condizionato.

F. d.A. Anche se tuo padre tendeva a separare la vita privata da quella professionale…

M. R. Sì, è vero, non ci coinvolgeva, a me e mio fratello. Non ci portava sul set per esempio. Però quando da ragazzo ho attraversato un momento difficile fu lui a propormi di collaborare insieme a Bernardino Zapponi alla stesura della sceneggiatura di Caro Papà.

F. d.A. Trovo molto interessante che tuo padre ti abbia fatto “debuttare” in un film che metteva in scena un figlio (terrorista) che vuole uccidere il padre… materiale ghiotto per uno psicanalista!

M. R. Allora potremmo aggiungere che il ragazzo incappucciato che spara al padre, interpretato da Gassman, è mio fratello Claudio! Forse ha prevalso il passato da psichiatra di papà.

F. d.A. Dopo questo “battesimo” ti sei sentito “autorizzato” a cimentarti nel suo stesso mestiere?

M. R. Oddio, no. Non ho mai espresso apertamente il desiderio di fare il regista, me ne sono guardato bene… In fin dei conti non cercavo un’investitura da parte sua, me la sono cavata da solo, anche se ogni tanto gli facevo leggere delle cose che avevo scritto, sketch, piccole scene, davanti alle quali reagiva o con freddezza o con indifferenza… Insomma, diciamo che non è stato molto incoraggiante. Probabilmente voleva mettermi alla prova e valutare se il mio fosse soltanto un desiderio, diciamo così, fatuo.

F. d.A. E alla fine hai fatto il tuo primo film.

M. R. Sì, anche se avrei voluto esordire con il mio terzo film [Colpo di fulmine, n.d.r], una storia che sentivo molto più consona ai miei gusti, però le condizioni per farlo non erano ancora mature e ho optato per una commedia, Vado a vivere da solo, che mi servì più che altro a dimostrare le mie capacità. Quando lo vide mio padre il suo commento fu: “Sei un professionista”. Non ho mai capito se fosse un complimento. Non credo.

F. d.A. Il protagonista era Jerry Calà, che hai scelto anche nei due successivi.

M. R. Sì, dopo Vado a vivere da solo girai Un ragazzo e una ragazza, scritto insieme a Furio Scarpelli. Andarono entrambi molto bene, e questo mi incoraggiò a realizzare Colpo di fulmine, il racconto di un amore platonico e tutt’altro che morboso fra un trentenne nevrotico bisognoso di innocenza e una bambina di undici anni. Lo proposi a vari attori, fra cui Nanni Moretti, ma il successo dei due precedenti impose la partecipazione di nuovo di Jerry Calà, senza il quale non sarei riuscito a montare il progetto. Però quella volta non andò così bene, tanto che mio padre, attribuendo gli scarsi incassi alla presenza di Jerry Calà, se ne uscì con una delle sue fulminanti battute: “Levategli l’accento”.

F. d.A. Poi, a un certo punto, la svolta. Basta commedie.

M. R. A me piacciono molto le commedie, però fu grazie a Scarpelli che cambiai, se vogliamo dire così, direzione. Nel periodo in cui lavoravamo insieme mi segnalò una sceneggiatura, scritta da Marco Modugno, ambientata all’interno di una caserma. Non era certo una commedia, trattava di abuso di potere, nonnismo, conflitti generazionali. Mi sembrava interessante. Insieme a Stefano Sudrié e Scarpelli abbiamo apportato delle modifiche alla sceneggiatura originale e così è nato Soldati 365 giorni all’alba. Si apriva per me un nuovo capitolo che con Mery per sempre, arrivato subito dopo, ha trovato la sua quadratura.

F. d.A. Con quel film, per il quale fu coniato il neologismo “neo-neorealista”, hai avuto la sensazione di aver trovato la tua personale chiave espressiva?

M. R. È stato un passo importante per la mia vita. Lavorare con ragazzi senza nessuna esperienza cinematografica, avere a disposizione una “materia grezza” e dunque purissima mi ha stimolato a osservare le cose, e se vogliamo la realtà, da un altro punto di vista. Un’esperienza nuova che ho voluto replicare con Ragazzi fuori, seguito ideale di Mery per sempre. Avevo voglia di tornare a girare a Palermo e inoltre mi sembrava giusto offrire a quei ragazzi, alcuni dei quali davvero notevoli, un’altra occasione per esprimere il loro talento.

F. d.A. A te interessa avere uno stile? Riconoscerti in uno stile ed essere riconosciuto per uno stile?

M. R. Non so se posso ritenermi un autore, e non so nemmeno se la cosa mi interessi, mi considero semmai un artigiano. Più che al mio stile mi adeguo al film, vengo guidato dal sentimento che provo verso la scrittura, i personaggi… mi metto al servizio del film e non il contrario. Certo ogni tanto, mentre lavoro, mi chiedo: “ma si riconosce che è un mio film?”

F. d.A. È importante essere riconoscibili?

M. R. Se ambisci a essere considerato un autore, sì.

F. d.A. Facciamo un esempio: William Friedkin era un autore o un regista?

M. R. Friedkin era un grandissimo regista, i suoi film sono tutti diversi e non riconoscibili, però è fuor di dubbio che nessun altro avrebbe potuto fare l’Esorcista come l’ha fatto lui. E non solo quello, pensiamo a Cruising. Esiste una schiera di registi, di grandi registi, soprattutto americani, che non vengono ricordati come autori. Se per esempio oggi fai il nome di John Sturges, in pochi sanno chi sia, eppure ha realizzato film come La grande fuga, I magnifici sette o il dimenticato Giorno maledetto, bellissimo, con un formidabile Spencer Tracy nella parte di un veterano di guerra senza un braccio, che va a indagare su un fattaccio avvenuto in uno sperduto villaggio del sud e scopre che tutti gli abitanti sono colpevoli. Chi non si considera autore in un certo senso è più libero, sia di sbagliare che di fare grandi film. Inoltre la definizione di autore è ambigua:Scorsese è indiscutibilmente un autore, però non scrive i suoi film, mentre qui difficilmente un autore viene considerato tale se si limita alla regia.

F. d.A. È difficile oggi capire quale direzione stia prendendo il linguaggio cinematografico. Un tempo i “generi” connotavano un’epoca, più precisamente dei decenni: il neorealismo del dopoguerra, la commedia all’italiana degli Anni Sessanta, i film d’impegno Anni Settanta, …

M. R. I linguaggi si sono moltiplicati e il cinema si è parcellizzato in nuove forme espressive, frantumandosi. Se ci pensi bene, in tutti quei film, pur con approcci diversi, si raccontava la realtà. La commedia all’italiana, ad esempio, ha rappresentato la società italiana meglio di qualsiasi altra forma espressiva, idem il neorealismo e, in fondo, si potrebbe dire che anche la commedia all’italiana era neorealismo, in chiave comica. Una volta chiesi a Scarpelli perché avessero smesso, lui e i suoi colleghi sceneggiatori, di raccontare il nostro paese con la stessa ferocia e leggerezza di un tempo. Lui rispose che l’insorgere dei cosiddetti anni di piombo aveva messo fine all’ironia. Nessuno avrebbe osato fare una commedia sulle Brigate Rosse. Io penso invece che si sarebbe potuto tentare di sbeffeggiarli, di avere questo coraggio. Con mio fratello avevamo anche scritto un soggettino nel quale le Brigate Rosse entravano in crisi con un ostaggio perché si stava avvicinando l’estate, le vacanze! Comunque sì, il racconto degli Anni Settanta nel cinema si alternava fra film d’impegno e commediole inoffensive, ma la capacità di rappresentare la società con quell’insolenza, quell’amarezza, quel saper far ridere graffiando si sono via via perduti.

F. d.A. Così come il filone dei film “d’impegno” portato avanti da Petri, Rosi, Pontecorvo e poi Bellocchio, Bertolucci, …

M. R. Già. La società si è progressivamente disimpegnata, grazie anche o sarebbe meglio dire per colpa dell’arrivo delle TV commerciali, e così i registi che dovevano rappresentarla, quella realtà.

F. d.A. Anche tu ti sei cimentato con i film d’impegno.

M. R. Sì, ma al contrario dei registi che hai menzionato, dalla forte connotazione politica, io ho cercato, semmai, di fare film d’inchiesta.

F. d.A. Non posso fare a meno di citare una tua frase che la dice lunga sul tuo impegno, o meglio disimpegno, politico: “Io non ho fatto il ’68 perché abitavo sulla Cassia”.

M. R. Ecco, appunto. È una battuta ovviamente, ma non così lontana dalla realtà. Mi sono sempre tenuto a una certa distanza dalla politica, nella vita come nella professione. Ho scelto la strada dell’inchiesta, stimolato da Andrea Purgatori, con il quale abbiamo scritto Il muro di gomma sulla strage di Ustica e Fortapásc sull’omicidio del giornalista del Mattino Giancarlo Siani.

F. d.A. Com’è nata la vostra collaborazione?

M. R. Mentre giravo Ragazzi fuori a Palermo si presentò il produttore Maurizio Tedesco accompagnato da Andrea Purgatori, che non conoscevo personalmente, per sottopormi il trattamento de Il muro di gomma, scritto da Andrea a seguito del suo lungo lavoro di indagine sulla tragedia del volo Itavia. Inizialmente non ero completamente convinto, ma l’incontro con Giovanna Giau, vedova di Alberto Bonfietti, morto nella sciagura, cambiò il mio atteggiamento. La bellezza del suo sguardo, l’assenza di risentimento e la pacata rassegnazione riguardo all’impossibilità di arrivare a una verità, anzi, alla verità, mi convinsero che fosse giusto fare il film, eticamente giusto.

Lo stesso avvenne con Fortapásc: l’incontro con il fratello di Giancarlo Siani fu determinante per convincermi a realizzare il film, il fattore umano vince sempre sulle parole. Ricordo ancora quando a casa sua mi mise sulle ginocchia le camicie di Giancarlo, un gesto di fiducia che non ho dimenticato. Dei film scritti insieme ad Andrea, Fortapásc è quello a cui sono più legato, e pensare che non ci siano più né Andrea né Picchio [Libero De Rienzo, che nel film interpretava Siani, n.d.r], né Corso Salani del Muro di gomma mi rattrista molto. 

F. d.A. L’uscita del film Muro di gomma fu determinante per la riapertura dell’inchiesta su Ustica.

M. R. Non esattamente, diciamo però che contribuì a tenere le luci accese, sì. E certamente è stato per me e per Andrea, che su quei fatti aveva indagato con tenacia, motivo di grande orgoglio. Al di là del valore artistico, un film può aiutare a riaccendere l’attenzione su fatti che la cronaca, e non solo, tende a dimenticare. Rivedendo il film mi accorgo che avrei potuto raccontarlo in maniera meno diretta, io penso che la realtà si possa restituire anche inventandola. Non è necessario, anche quando si tratta di fatti realmente accaduti, essere fedeli alla loro veridicità. La realtà può essere interpretata senza essere tradita, è questo ciò che fanno gli artisti. Altrimenti tanto vale fare un documentario. Ogni tanto è bello prendersi delle libertà, tentare degli azzardi. Ecco, forse è proprio l’azzardo ciò che oggi, spesso, manca nel cinema. Detto questo Andrea Purgatori mi manca tantissimo e con lui si stava pensando a un altro progetto, un altro film, ancora una volta su un giornalista: Mino Pecorelli.

F. d.A. Senza nulla togliere all’importanza dei film d’inchiesta, che come abbiamo detto possono contribuire mediaticamente a illuminare le zone d’ombra su fatti e misfatti, personalmente sono un po’ stufa dei film “tratti da una storia vera”. Nella letteratura come al cinema si è persa la voglia di inventarle le storie, non credi?

M. R. Mah, diciamo che un po’ si è perduto il gusto del racconto, dell’invenzione, lo si vede anche dalla quantità di remake. Oggi si privilegia l’autofiction, si raccontano storie personali legate comunque alla realtà. Io nel mio piccolo ci ho provato con L’ultimo Capodanno (tratto dal libro di Niccolò Ammaniti, n.d.r.), a fare un film che di realistico aveva ben poco, ma come sai non è andata molto bene.

F. d.A. Uno dei più grandi flop del cinema italiano! Diventato però un cult movie.

M. R. Si è creata una piccola setta di cultori. L’insuccesso clamoroso de L’ultimo Capodanno è tuttora un mistero, ma d’altra parte l’esito commerciale di un film è sempre imprevedibile. Contribuiscono tanti fattori, nessuno dei quali può essere previsto in anticipo. Sono molto legato a quel film, mi sono divertito, sia durante la stesura della sceneggiatura con Niccolò che sul set.

F. d.A. A chi lo dici… 

M. R. Facevi una bella fine! [il personaggio che interpretava Francesca veniva trafitto da un razzo scagliato da uno dei condomini del palazzo in cui era ambientato il film, n.d.r.]Quella scena era piuttosto complicata. La macchina da presa, che era stata fissata con una carrucola su dei cavi, doveva precipitare dall’alto e arrestarsi a pochi centimetri dal tuo viso… Il macchinista mi sussurrò in un orecchio: “Quanto me dai se non la fermo?”

F. d.A. Già, il solito cinismo der cinema! Delle diverse fasi creative di un film quale ti piace di più?

M. R. Al primo posto metto la fase delle riprese, poi la scrittura e infine il montaggio. Sul set c’è vita, confusione, mi piace avere gente intorno e governare la nave.

F. d.A. Al di là delle capacità professionali, cosa non può mancare a un regista?

M. R. L’energia. Se ti manca l’energia è finita. Sul set è molto importante comunicare entusiasmo e passione. Altra regola è quella di non mostrare, se mai dovesse presentarsi, la propria indecisione. La troupe deve poter contare sulla determinazione del regista, altrimenti non ti segue e vai a sbattere sugli scogli.  

F. d.A. Molti registi si sono legati professionalmente a uno specifico attore dando vita a connubi artistici indissolubili, penso a Fellini con Mastroianni, Scorsese con De Niro (e adesso con Di Caprio), Sorrentino con Tony Servillo, De Sica con la Loren e lo stesso tuo padre con Gassman. Quando questo accade penso sia una fortuna per entrambi, non credi? 

M. R. A me piace lavorare con gli attori, diciamo però che preferisco i non professionisti. Con gli attori di mestiere possono sorgere dei conflitti, soprattutto se metti in discussione la loro preparazione, e in quel caso spesso parte un tira e molla spiacevole. Gli attori sono fragili, hanno bisogno di essere accuditi. Ultimamente ho abbandonato l’utilizzo del combo per tornare a stare accanto alla macchina da presa, così da seguirli in diretta, stargli accanto, vicino. Credo sia più rassicurante per loro. Il fatto è che io so quello che voglio, ma più che altro so quello che non voglio, e quando un attore fa qualcosa che non voglio, che non mi piace, allora intervengo drasticamente, ma se propone una modifica, un suggerimento riguardo al suo personaggio che ritengo giusti, ben venga. Detto ciò, quello che dici è vero. Stabilire un forte rapporto con un attore, un’attrice, non solo favorisce il lavoro ma anche i tempi di lavorazione poiché l’intesa annulla le divergenze, ci si capisce al volo senza bisogno di spiegare, diventa tutto più fluido. Inoltre si costruisce qualcosa insieme, si va nella stessa direzione.

F. d.A. C’è un attore in particolare con cui ti piacerebbe lavorare?

M. R. Joaquin Phoenix. Non succederà mai, lo so. Lui è un grandissimo attore. Va oltre: imprevedibile, folle e pieno di talento. Sicuramente è bello lavorare con i professionisti, a me però fanno arrabbiare quelli che mettono in discussione la sceneggiatura dimenticando che su quella virgola, su quella parola, su quel punto esclamativo lo sceneggiatore ci ha passato del tempo, ne ha discusso insieme agli altri sceneggiatori prima di decidere, e quando l’attore si presenta sul set senza aver studiato la parte adducendo la scusa che “sennò viene meccanica”. Ma io ti piglio a calci in culo! Altro che meccanica!

ARTICOLO n. 84 / 2023

DOVE VAI, DOVE SEI STATA? PER BOB DYLAN

Pubblichiamo un’anticipazione da Storie americane (traduzione di Lucia Fochi e Isabella Zani), da oggi in libreria con Il Saggiatore. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Si chiamava Connie. Aveva quindici anni e il vezzo rapido e nervoso di allungare il collo, con uno scatto e una risatina, per guardarsi allo specchio o per capire dalle facce altrui se la sua era a posto. Sua madre, che notava tutto, sapeva tutto e non aveva più motivo di guardare la propria, di faccia, la rimbrottava sempre per quell’abitudine. «Piantala di guardarti con quell’aria ebete. Chi ti credi di essere? La più bella del mondo?» diceva. A quelle lamentele ormai trite e ritrite Connie alzava gli occhi al cielo e trapassava la madre con lo sguardo, puntandolo su un’indistinta visione di sé in quel preciso istante: sapeva di essere bella, e solo quello contava. Anche sua madre una volta era stata bella, almeno a volersi fidare delle vecchie istantanee nell’album, ma ora la bellezza se n’era andata ed era per questo che dava continuamente addosso a Connie. 

«Perché non tieni in ordine la camera come fa tua sorella? Ma come ti sei conciata i capelli… e cos’è questa puzza? Lacca? Tua sorella non usa queste schifezze». 

Sua sorella June aveva ventiquattro anni e abitava ancora a casa. Faceva la segretaria nel liceo di Connie, e come se averla nello stesso edificio non fosse già abbastanza, era talmente insignificante, tarchiata e giudiziosa che a Connie toccava sentire in continuazione la madre e le zie cantarne le lodi. E June ha fatto questo, e June ha fatto quest’altro; June metteva da parte i soldi e aiutava a pulire in casa e a cucinare mentre Connie non sapeva fare niente, la testa persa dietro inutili sogni a occhi aperti. Il padre era quasi sempre fuori per lavoro e quando tornava a casa voleva cenare e durante la cena leggeva il giornale e dopo cena andava a letto. Non si prendeva il disturbo di parlare con loro, ma al di sopra della sua testa china la moglie continuava a punzecchiare Connie al punto che la ragazza avrebbe voluto vederla morta e morire lei stessa e che tutto finisse. «A volte mi fa venire il vomito» si lamentava con le amiche. Aveva un tono di voce alto, trafelato e divertito che faceva sembrare ogni cosa che diceva vagamente forzata, per sincera o no che fosse.

Un lato buono c’era: June andava di qua e di là con le sue amiche, ragazze insignificanti e giudiziose quanto lei, e quando Connie voleva fare lo stesso la madre non aveva obiezioni. Il padre della migliore amica di Connie accompagnava le ragazze fino in città, a cinque chilometri di distanza, le lasciava in un centro commerciale dove potevano girare per negozi o andare al cinema, e quando tornava a prenderle alle undici non si curava di chiedere cosa avessero fatto. 

Senz’altro erano uno spettacolo abituale, quelle ragazzine in shorts a passeggio per il centro commerciale, le ballerine strascicate sul marciapiede e i braccialetti pieni di ciondoli che tintinnavano ai polsi sottili; si appoggiavano l’una all’altra bisbigliando e ridendo tra loro se passava qualcuno che suscitava il loro interesse o le divertiva. Connie aveva lunghi capelli biondo scuro che si facevano notare e che portava in parte gonfi e cotonati sul davanti e per il resto sciolti sulle spalle; e indossava un golfino di jersey che a casa faceva un certo effetto e fuori un altro. 

Tutto in lei aveva due versioni, una per casa e una per qualunque altro posto tranne casa: l’andatura, che poteva essere infantile e molleggiata oppure languida al punto da far pensare che si sentisse una musica in testa; la bocca, quasi sempre pallida e ghignante, ma vivace e rosea durante le serate fuori; la risata, cinica e strascicata a casa («Ah, ah, ah, molto divertente»), ma acuta e nervosa in qualsiasi altro posto, come il tintinnio dei ciondoli sul suo braccialetto. 

A volte Connie e la sua amica andavano davvero a fare shopping o al cinema, ma altre volte attraversavano svelte la superstrada, a testa bassa sulle corsie trafficate, fino a un ristorante drive‐in dove si ritrovavano i ragazzi più grandi. Il locale era a forma di grossa bottiglia, ma più tozza di una bottiglia vera, e sul tappo c’era la sagoma roteante di un ragazzo che stringeva trionfante un hamburger. Una sera di mezza estate attraversarono, il fiato mozzo per la spavalderia, e quasi subito qualcuno si sporse dal finestrino e le invitò ad avvicinarsi, ma era solo un compagno di scuola che gli stava antipatico. Poterlo ignorare le fece sentire bene. 

Proseguirono nel dedalo di auto parcheggiate e di passaggio fino a raggiungere il ristorante illuminato e infestato di mosche, le facce compiaciute e trepidanti come se stessero per entrare in un edificio sacro apparso d’un tratto nella notte per offrire loro il rifugio e le benedizioni a cui anelavano. Si sedettero al bancone a caviglie incrociate, le spalle scarne tese per l’euforia, ad ascoltare la musica che rendeva tutto così bello: la musica in sottofondo c’era sempre, come durante la funzione in chiesa; ci si poteva contare. 

Un ragazzo di nome Eddie entrò per attaccare discorso con loro. Si sedette con le spalle al bancone, prese a fare mezzi giri di scatto con lo sgabello, fermandosi e poi ricominciando, e dopo un po’ chiese a Connie se le andava di mangiare qualcosa. Lei disse di sì e perciò uscendo diede un buffetto sul braccio all’amica – l’amica fece una faccia ardimentosa e comica – e le disse che si sarebbero riviste alle undici dall’altra parte. «È che mi scoccia mollarla così» disse poi, sincera, ma il ragazzo ribatté che non sarebbe rimasta sola a lungo. Così uscirono per andare alla macchina di lui, e nel tragitto Connie non poté fare a meno di lasciar vagare lo sguardo sui parabrezza e sulle facce che la circondavano, il viso splendente di una gioia che non aveva nulla a che vedere né con Eddie né con quel posto; forse era la musica. Raddrizzò le spalle e inspirò per il puro piacere di essere viva, e proprio in quel momento posò per caso gli occhi su un volto a poca distanza da lei. Era un ragazzo dai capelli neri e arruffati, su una decappottabile sgangherata color oro. Lui la fissò e le labbra si aprirono in un sorriso. Connie socchiuse gli occhi e si girò, ma poi non poté fare a meno di voltarsi indietro ed eccolo lì, che continuava a fissarla. Sventolò un dito e disse, ridendo: «Non mi scappi, piccola» e Connie si girò di nuovo senza che Eddie si accorgesse di nulla. 

Passò tre ore con lui, prima al ristorante dove mangiarono hamburger e bevvero Coca‐Cola in bicchieri di polistirolo sempre umidi di condensa, poi lungo un vicolo a un paio di chilometri di distanza, e quando alle undici meno cinque lui la lasciò al centro commerciale, solo il cinema era ancora aperto. L’amica era là, che parlava con un ragazzo. Alla comparsa di Connie le due si sorrisero e Connie chiese: «Com’era il film?» e l’altra disse: «Dovresti saperlo». Se ne andarono con il padre dell’altra ragazza, assonnate e soddisfatte e Connie non poté fare a meno di voltarsi a guardare il centro commerciale buio con il parcheggio vuoto e le insegne sbiadite e spettrali, e poi il drive‐in dove le macchine giravano ancora in tondo senza sosta. Da quella distanza non sentiva la musica. 

La mattina seguente June le chiese com’era il film e Connie rispose: «Così così». 

Lei, la sua amica e talvolta una terza ragazza uscivano più volte la settimana, e il resto del tempo – erano le vacanze estive – lo passava a casa, a infastidire la madre e a pensare, a fantasticare sui ragazzi che aveva conosciuto. Ma tutti quei ragazzi scomparivano e si confondevano in un unico viso, che non era neppure un viso ma un’idea, una sensazione, mescolata all’insistente, pressante martellio della musica e all’aria umida delle notti di luglio. La madre continuava a riportarla alla luce del giorno trovandole cose da fare o dicendo all’improvviso: «Cos’è questa storia della figlia dei Pettinger?». 

E Connie diceva nervosa: «Uh, quella. Una vera scema». Tracciava sempre confini chiari e netti tra sé e quel genere di ragazze, e la madre era ingenua e buona abbastanza da crederci. Talmente ingenua, pensava Connie, che era crudele ingannarla a quel modo. Si trascinava per casa in un paio di vecchie ciabatte e al telefono con una delle due sorelle si lamentava dell’altra; poi quest’altra la chiamava e insieme si lamentavano della terza. Se veniva fatto il nome di June dal tono della madre traspariva approvazione, se invece si nominava Connie il tono era di rimprovero. Ciò non significava che non la apprezzasse; anzi Connie pensava che la madre preferisse lei a June perché era più carina, ma insieme tenevano in piedi quella farsa di esasperazione, l’idea di una continua contesa per qualcosa che non rivestiva un gran valore per nessuna delle due. A volte, davanti a una tazza di caffè, erano quasi amiche, ma poi saltava fuori qualcosa: un malumore simile a una mosca che all’improvviso ronzava loro sulla testa, e le facce s’irrigidivano nel disprezzo. 

Una domenica Connie si alzò alle undici – nessuno di loro teneva particolarmente ad andare in chiesa – e si lavò i capelli così potevano asciugarsi al sole per tutto il giorno. I genitori e la sorella stavano andando a una grigliata a casa di una zia e Connie disse di no, che non le andava, alzando gli occhi al cielo per far capire alla madre cosa pensava effettivamente. «E allora stai a casa da sola» disse l’altra, secca. Connie si piazzò su una sedia in giardino e li guardò andare via, il padre calvo e silenzioso, che si girava per fare retromarcia, la madre con l’aria ancora arrabbiata e per nulla addolcita dietro il parabrezza, e sul sedile posteriore la povera June, tutta in ghingheri come se non sapesse com’erano le grigliate, con i bambini che corrono ovunque urlando e le mosche. Seduta al sole con gli occhi chiusi, sognante e intorpidita dalla calura come da una specie d’amore, di carezza amorosa, Connie tornò col pensiero al ragazzo con cui era stata la sera prima e a quanto era stato carino, dolce come sempre, non nel modo che poteva immaginarsi una come June, ma dolce e delicato come nei film e nelle promesse delle canzoni… e quando riaprì gli occhi quasi non riconobbe dov’era, il giardino finiva tra erbacce e un filare di alberi che sembrava uno steccato, dietro cui il cielo era perfettamente azzurro e immoto. La casetta in fibrocemento che aveva ormai tre anni la fece sussultare: sembrava piccola. Scosse la testa come per svegliarsi.

Faceva troppo caldo. Connie entrò in casa e accese la radio per sommergere il silenzio. Si sedette sul bordo del letto, scalza, e per un’ora e mezza ascoltò la Sarabanda domenicale di radio Xyz, un disco dopo l’altro di brani duri, veloci e striduli a cui anche lei andava dietro, intervallati dalle dediche di «Bobby King»: «Ed ecco qui, per le ragazze del Napoleon… Son e Charley vi dicono di seguire molto bene il prossimo pezzo!». 

E anche Connie seguiva molto bene, immersa nel bagliore di una gioia rallentata che pareva scaturire misteriosamente dalla musica stessa e drappeggiarsi languida nella stanzetta dall’aria viziata, inspirata ed espirata a ogni palpito del petto.

ARTICOLO n. 83 / 2023

ELLIS, L’ULTIMO SCRITTORE POST-PUNK IN UN MONDO DI DEMOCRISTIANI

Il 17 gennaio scorso mi sono svegliata e, come prima cosa, ancora distesa nel mio letto, ho afferrato il telefono e ho ordinato il libro che aspettavo da tredici anni: The Shards, di Bret Easton Ellis.

Ho atteso questo romanzo per più di una decade, con l’ansia di chi ha una vera e propria ossessione per qualcosa o qualcuno, e mi sono subito lanciata nella lettura dell’opera in lingua originale.

Ho dovuto mordermi la lingua per mesi perché molte persone intorno a me attendevano la sua traduzione in italiano e non volevano spoiler sulla trama e sulla riuscita o meno di questo attesissimo romanzo. L’attesa è finalmente giunta al termine e io posso quindi svuotare il sacco.

Uscito la settimana scorsa in Italia per Einaudi (che ha acquisito i diritti su tutta la sua produzione precedente) con il titolo Le schegge e nella traduzione di Giuseppe Culicchia (che ha magistralmente tradotto tutto Ellis a partire da American Psycho: i due libri precedenti ovvero Meno di zero e Le regole dell’attrazione sono stati tradotti, in ordine, da Marisa Caramella e Francesco Durante), il libro è stato annunciato dalla casa editrice con un mini-tour italiano che toccherà Firenze e Torino. 

Come è ormai prassi, Einaudi ha affidato la promozione sui giornali e nelle presentazioni con l’autore a un parterre di scrittori tuttiuominisullasessantina: prassi di una rassicurante democristianità, forse troppa, decisamente troppa per accompagnare quello che è forse l’autore più elegantemente post-minimalista, irriverente e scorretto della nostra contemporaneità.

Ma le cose qui da noi vanno così: giochiamo sul sicuro anche con chi, sul sicuro, non ha mai amato sostare. Ed Ellis questo ce lo ha sempre dimostrato, in tutta la sua produzione letteraria.

Dopo un’attesa lunghissima intervallata dal saggio Bianco, che sembrava quasi opera di uno dei suoi personaggi più caricaturali, Ellis è tornato alla narrativa con un lungo libro sull’adolescenza senza però essere a tutti gli effetti un romanzo di formazione in senso stretto. Anzi, forse ne è tutto il contrario.

Le schegge è il racconto fittizio del giovane Bret (Easton Ellis) nella Los Angeles del 1981 durante l’ultimo anno del liceo privato Buckley.

È una sorta di mockumentary: una – in parte – falsa documentazione della sua vita, così come lo era stato Lunar Park nel 2005, e una storia in salsa horror tenute insieme da un elemento di tensione narrativa che qui ha un nome e un cognome ben precisi, ovvero il misterioso personaggio di Robert Mallory.

Intorno alle vite dei giovanissimi protagonisti, narrati da Bret in prima persona e al tempo passato – Ellis nel prologo e nella conclusione ci racconta in una cornice come abbia impiegato più di vent’anni a trovare il coraggio e la serenità giusta per scrivere questa storia – si svolge una carneficina a opera di un serial killer più brutale e sadico perfino di Patrick Bateman: The Trawler, in italiano riportato come “il pescatore a strascico”.

Dopo questa scia di omicidi e questo ultimo anno di liceo, le vite dei personaggi, e quella di Bret in primis, non saranno più le stesse.

Sarebbe stupido quanto democristiano – e qui vi posso assicurare che non lo siamo – pensare a questo come a un romanzo di formazione o un romanzo della maturità emotiva dell’autore.

Ellis infatti qui non ci vuole infatti insegnare niente. Però ci regala una cosa preziosissima: un prequel.

In filmografia, il prequel indica una pellicola che, nonostante sia fatta uscire per ultima in ordine cronologico rispetto alle precedenti, affronta gli antefatti di quella che sarà poi tutta la produzione successiva del suo ciclo.

Le schegge fa proprio questo: mette in ordine la storia della storia letteraria di Bret Easton Ellis.

Lo si capisce subito dallo sguardo dell’autore che, per la prima volta, è affezionato ai personaggi, prova affetto e pena per loro, ha uno sguardo di parte, fraterno, umano. E ne racconta le emozioni, ancora pure, ancora vive, ancora piene di speranza seppur già permeate dalla patina di quella che è la vera protagonista della produzione di Ellis: la noia, ovvero la sensazione più violenta che possa esistere.

Ellis ne Le schegge ci descrive un mondo precedente alla perdita delle illusioni, un mondo ancora non del tutto corrotto dalle promesse non mantenute, la noia della ripetitività, della assenza di regole, della droga.

Non siamo davanti al freddo distacco di Clay, Blair, Julian e i ragazzi di Meno di zero; non siamo davanti alla morbosa ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa possa darci una scossa, come i protagonisti de Le regole dell’attrazione; non davanti al delirio organizzato di American Psycho, ma neanche a quello disorganizzato di Glamorama; non siamo spettatori della disperata disillusione di Lunar Park e neanche del passivo rancore di Imperial Bedrooms.

Qui siamo davanti al paziente zero.

Siamo davanti a Bret che diventa Ellis e ci spiega come tutto abbia avuto inizio, come la sua penna, la sua storia, il suo essere scrittore e personaggio insieme, autore e distruttore, vizio e virtù, bugia e verità, aspettativa e distruzione abbiano preso vita, si siano mischiate insieme e, fino all’uscita di questo libro, non si siano mai più dipanate.

Le schegge ci mostra come lo stile tagliente, lucido anche quando descrive le cose più brutali e deliranti del mondo (vedasi il capitolo “uccido un bambino allo zoo” di American Psycho, non a caso escluso da quello che poi fu il suo adattamento cinematografico), disilluso, spavaldo, tossico, abbia preso forma. 

E lo fa mettendo in piedi una struttura narrativa complessissima, in cui il giovane Bret del romanzo sta giusto iniziando a scrivere quella che poi sarà la prima bozza di Meno di zero.

Lo fa rendendoci partecipi di uno spaccato che fino a oggi era inedito: i veri sentimenti dei suoi personaggi. Bret sa provare amore, paura, rabbia, insoddisfazione, gelosia, tristezza. La noia, che divorerà ogni cellula di ogni personaggio del resto di tutta la produzione di Ellis, non è ancora entrata in scena.

Robert Mallory, che insieme al Pescatore simboleggia la fine dei sogni d’infanzia, cancellerà per sempre quello che Bret avrebbe potuto essere, quello che avremmo potuto leggere.

Ellis ci presenta il bivio della sua vita e lo fa nel modo che meglio conosce: con una storia di sangue e disillusione, con una storia che mette fine a un cerchio iniziato con Meno di zero nel 1985.

Lo fa inserendosi tra le pagine in modo soffuso, mai intrusivo, lasciando intendere quanto i suoi libri abbiano scritto la sua vita e viceversa: lo fa dandoci piccole confessioni in alcuni passaggi di quello che sembra quasi un memoir, in cui si lascia andare senza senso di colpa o vergogna a racconti sulla sua dipendenza da sostanze, il panico, la fama, la noia, la disperazione, la ricostruzione e la difficoltà del tornare in pista dopo che tutti ti pensano ancora una mina vagante.

Ellis ha raccontato come nessun altro la caduta di due generazioni e l’infrangersi dei sogni davanti al muro, violentissimo, della noia e della realtà.

Con questo libro davvero prezioso mette un punto su quella che a mio avviso è stata la storia letteraria più incredibile degli ultimi 35 anni.

E lo fa tornando alle origini, a quando tutto era più puro, a quando ha trovato l’attacco per quel Meno di zero che gli avrebbe cambiato la vita e lo avrebbe fatto sparire lì.

Le schegge è l’opera di cuore di Ellis che arriva alla fine di un ciclo durato tre decenni; è l’opera intima seppur fittizia dell’autore che davanti a noi ha provato a mutare forma ma non glielo abbiamo mai permesso del tutto. E allora muta da solo, di nuovo, grazie alla sua brillante letteratura. Il libro si apre con una dedica “per nessuno”, non a caso.

Dopo la lettura appassionata de Le schegge io rimango con un dubbio e una certezza.

Il primo è che questo libro possa essere la grande opera finale del miglior interprete post-punk nella letteratura contemporanea o che possa essere il nuovo, frizzante inizio di un filone ancora sconosciuto.

La certezza che invece ho è che Ellis democristiano non ci morirà mai.

Per nostra grande, immensa fortuna.

ARTICOLO n. 82 / 2023

MALEFICAE

Pubblichiamo un’anticipazione da Maleficae. I corpi avvelenati (Einaudi), da oggi disponibile in ebook nella collana Quanti. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

Alla fine degli anni Novanta la provincia collinare modenese viveva in una storica e stoica divisione generazionale che vedeva le persone anziane appostate alla finestra, nascoste dalle tende bianche con la fascia di pizzo, e quelle giovani uscire per strada alle sei di mattina, dirette alla fermata dell’autobus per raggiungere le scuole superiori. Non esistevano altre età, perché il boom economico e ceramico fagocitava i nostri genitori che sparivano dalla vita domestica per oltre dieci ore al giorno. Quando tornavano a casa, a ridosso dell’orario di cena – che da noi si faceva presto perché la matrice contadina puoi pure provare a toglierla dalle borsette e dalle automobili, ma non dalle abitudini –, non avevano la forza per essere una presenza consistente, piuttosto speravano di svolgere il loro ruolo col minimo sindacale: tra il Tg1 e i programmi sportivi spuntava qualche domanda rituale sulla giornata o sui voti a scuola.

Anche i bambini e le bambine non esistevano oltre la soglia di casa, relegati alla dimensione fantasmatica per eccellenza, perché rinchiusi per lo più in asili e scuole elementari. Nel pomeriggio, li si trovava rintanati nelle stanze da cucito dei nonni, che li tenevano occupati con Bim Bum Bam e una merenda a base di gnocco fritto, abbandonandoli sul divano per poter continuare indisturbati a controllare la strada. Rappresentavano gli ultimi baluardi di una dignità che evidentemente consideravano in pericolo, data la solerzia con cui, al primo lontanissimo presagio di ribellione, scendevano le scale ancora in ciabatte, uscivano dalla porta principale, attraversavano la strada per suonare alla nonna appostata alla finestra di fronte e riferirle che la nipote, alla mattina, uscendo dal portone si era accesa una sigaretta. Quella stessa nipote che, sfidando le regole della modestia provinciale, non si era accontentata del liceo scientifico a pochi chilometri, no: lei aveva osato scavalcare il fossato che divide il capoluogo dalla provincia e aveva avuto l’arroganza di iscriversi al classico di Modena, dovendo fare un’ora di autobus all’andata e una al ritorno tutti i giorni, sabato compreso, e insomma, quando avrebbe avuto tempo di studiare e di mantenere gli amici del suo paesello, Fiorano, se era sempre via. 

L’avevano guardata bene quella ragazza lì, la città aveva subito masticato le sue ossa, stralciando la dolcezza dei suoi lineamenti con quegli occhi caldi nocciola – anche se bisogna ammettere che aveva preso dalla bisnonna materna e non dalla famiglia paterna. Non era proprio una fioranese certificata perché la madre era una di Sassuolo, però santo cielo nel momento in cui bisognava presidiare il territorio ogni recluta passata dal convento andava bene, diciamo, e loro ormai erano lì in quella via da quindici anni per cui non la si poteva considerare autoctona, ma una prelazione sul suo corpo si poteva avanzare e con ragione… Insomma, quella ragazza lì, che aveva la bocca indecente fin da bambina e non era mai stata minuta neanche per sbaglio, aveva iniziato a indossare jeans strappati a zampa d’elefante – dio, che passione avevo per quei jeans – tingersi i capelli di biondo paglierino o rosso ciliegia e portare come un cappio ricamato intorno al collo certe catenine che non terminavano mai con un rassicurante crocifisso, ma con perle nere o gioielli barocchi neri che luccicavano al primo sole del giorno dando così l’impressione, mentre usciva di casa con lo zaino dalle bretelle lentissime che le sbatteva sul sedere, di avere uno specchio o uno squarcio all’altezza della giugulare. Probabilmente si drogava: lo dicevano sottovoce, anche se era una supposizione. Dovevano dirlo alla nonna, ci avrebbe pensato lei.

E così, prendendo il borsellino e la supposizione del giorno – che aveva l’unico compito di cristallizzare l’esistenza, ostacolando il cambiamento del tempo, del luogo, delle persone – gli anziani scendevano le scale di casa in ciabatte, aprivano la porta, attraversavano la strada e suonavano alla mia nonna paterna. Lei raccoglieva le indiscrezioni e le paure di una via popolata da anziani alla finestra, poi si rimetteva nella sua stanza del cucito, quella che le permetteva di vedere l’ingresso di casa dalla porta, nonostante le incursioni di mio nonno che dal cucinotto in cui impastava gli gnocchetti di patate, ogni tanto andava da sua moglie per stuzzicarla e farla ridere e arrabbiare in una costante tensione allegra con brio che finiva con Lauretta arrabbiata in un angolo e Libero che rideva sotto i baffi dall’altra. 

All’ora di pranzo, appena la nonna sentiva mio padre girare la chiave nella porta, tornava composta e precisa al suo ruolo sociale e gli ripeteva, parola per parola, quello che la vecchia dall’altra parte della strada le aveva riferito quella mattina su quella nipote che dalla loro parte non aveva proprio preso niente, era davvero tutta la sua bisnonna materna, che era un donnone alto e bellissimo, molto indipendente, ribelle e corteggiata da troppi. Doveva avere per forza qualcosa che non andava. Leggeva troppo e chissà cosa, ascoltava quella musica che non si capiva e guardava i film che lui, il padre, portava a casa dal videonoleggio: avrebbero dovuto almeno controllare se erano adatti e invece non lo facevano, così questa ragazza pensava a cose che non doveva neanche sapere ancora. 

Aveva iniziato a truccarsi, poi. Metteva questa matita viola scuro dentro gli occhi, di quel colore ibrido e mutevole, verdi o nocciola, come una foresta, e nessuno in famiglia aveva quegli occhi che chissà da chi aveva preso. E poi, ma questo ormai la nonna lo ripeteva da anni come un mantra alla fine di ogni recriminazione, era grassa. Non aveva la loro costituzione, assomigliava alla parte della madre. Loro erano magri. Doveva dimagrire. Dovevano farla vedere a qualcuno e dovevano muoversi, prima che fosse tardi. Così mio padre durante il pranzo ingoiava gli gnocchetti di patate cosparsi dal veleno di mia nonna, che non aveva alcuno strumento o conoscenza capace di mitigare la violenza inconsapevole della sua intromissione. E nel tornare a lavorare pieno di bile com’era aveva la sensazione di non essersi riposato neanche un po’, quindi alla sera quando rientrava non era per niente contento: invece di attraversare la strada e andare dall’anziana dirimpettaia per dirle di farsi i cazzi suoi, condivideva a fiume con mia madre tutto quello che non aveva digerito a pranzo. Con la stessa mancanza di comprensione di mia nonna, trasformavano così quel piatto di supposizioni inventate in una conversazione melodrammatica sul mio peso, con loro che si sedevano sul mio letto e in modo disonesto iniziavano con un laconico «Non ti arrabbiare se» e incastravano con la forza quel veleno dentro la mia bocca e lo guardavano scendere nella mia pancia, mentre io ero solo contenta di indossare i miei jeans strappati a zampa il giorno dopo andando a scuola a Modena, e non avevo calcolato di dovermi sentire un mostro prima di andare a dormire perché qualcuno da una finestra mi aveva guardata e aveva inventato una fiaba solo vedendomi uscire dalla porta, attraversare la strada e dirigermi verso la fermata dell’autobus. Una fiaba in cui la cattiva ero io.

ARTICOLO n. 81 / 2023

IL MITO DI BARBIE

Bambole del sesso

I’m a Barbie girl in a Barbie world, life in plastic… It’s fantastic! Era un ritornello che, nell’estate del 1997, cantavo a squarciagola insieme alle amiche. Il gruppo danese degli Aqua aveva appena lanciato un tormentone destinato a durare nel tempo che aveva fatto tornare a tutte le donne, giovani e meno giovani, il desiderio di rispolverare la propria collezione di bambole Mattel. A distanza di più di venticinque anni stiamo assistendo a un fenomeno analogo grazie all’arrivo nelle sale del film che racconta le vicende della medesima protagonista. La trama è piuttosto scarna, va detto, basti pensare che l’enciclopedia libera Wikipedia dedica a questa voce due righe (letteralmente, non in senso figurato). La pellicola, in sostanza, racconta le avventure di Barbie nel Mondo Reale, quello degli umani, a cui approda dopo essere stata cacciata da “Barbieland” – il villaggio tutto rosa in cui vive insieme a Ken e agli altri esemplari plastificati – con l’accusa di non essere abbastanza perfetta.

Nel viaggio che ci porta a riscoprire e guardare con occhi diversi i miti dentro cui è stata inscritta la femminilità, la bambola in vinile inventata da Ruth Handler merita un posto a sé. La sua comparsa sul mercato, alla fine degli anni Cinquanta, ha decisamente cambiato il modello femminile intervenendo sia sulla costruzione identitaria di tante bambine e ragazze che sulla definizione del desiderio maschile.

Uno dei teaser che anticipa la pellicola ci catapulta in uno scenario desertico, dove incontriamo bambine che giocano con bambolotti. La voce fuori campo ci ricorda che «da quando sono esistite la fanciulle, sono esistite le bambole». Queste però, avevano un problema: rappresentavano infanti. Fasciata nel suo costume a righe nere e bianche, Barbie si manifesta così come il monolite di 2001. Odissea nello spazio generando quella rivoluzione a cui accennavamo prima.

Secondo il dizionario Treccani, “bambola” è quel fantoccio di legno, cartapesta, celluloide, materia plastica o altro, che rappresenta una bambina, […] di occhi mobili, di movimento automatico, di apparecchio che imita la voce umana. Se è vero che le bambole di stoffa sono un oggetto che associamo all’infanzia, è necessario riconoscere però che esse non nascono con una funzione ludica ma funeraria e rituale. Ne sono un esempio le “muñecas funerarias”, tre reperti ritrovati nelle catacombe di Cancay, in Perù, e conservate nel Museo di antropologia ed etnografia di Torino. Anche se ancora oggi la comunità scientifica si interroga intorno alla loro origine e alle funzioni di questi e altri fantocci ritrovati, nel corso dei secoli, all’interno di luoghi destinati alla sepoltura, è lecito sostenere che il mondo nel quale le bambole fanno per la prima volta la loro apparizione sia quello degli adulti.

Da quando Barbie è stata commercializzata è diventata oggetto del desiderio di miliardi di bambine, tuttavia la sua origine ha poco a che vedere con l’infanzia. Per la sua realizzazione, Rut Handler si è ispirata a un’altra bambola presente sul mercato tedesco, Bild Lilli, commercializzata tra il 1955 e il 1964. Prima di assumere una forma tridimensionale, Lilli è stata la protagonista indiscussa di un fumetto ideato da Reinhard Beuthien che appariva con regolarità sulle pagine della rivista Bild-Zeitung. Nelle strisce, Beauthien racconta le avventure di una giovane – provocante, bellissima e disinibita – che per vivere circuisce ricchi pretendenti. Come ricorda lo studioso Anthony Ferguson nel suo Bambole del sesso, pubblicato qualche anno fa per Odoya, Lilli entrò ben presto nei sogni erotici dei lettori, tanto che il tabloid decise di commercializzarne una versione in platica, alta circa trenta centimetri, venduta come gioco per adulti nei negozi erotici. «Lilli non era una bambola per la penetrazione – scrive l’autore – tuttavia venne creata come una sorta di caricatura pornografica». Ben presto quindi la bambola diventa il regalo perfetto per gli addii al celibato, esattamente come qualche decennio dopo, negli anni Settanta, complice la produzione su larga scala del vinile, lo sarà la celebre bambola gonfiabile.

La storia di Barbie è legata a doppio filo a quella di Lilli, non solo perché una volta che Mattel iniziò la commercializzazione della fashion doll più famosa del mondo acquistò i diritti dell’antesignana tedesca, ma anche perché la prima è debitrice nei confronti della seconda di un certo immaginario che ha costantemente contribuito a rinsaldare. Barbie è la prima bambola “sessuata”, dotata di trucco (che si farà via via più marcato nel corso delle svariate edizioni), di un seno prosperoso, irreale se paragonato al punto vita strettissimo e di gambe innaturalmente lunghe.

A ben vedere, quella di Barbie non è una perfezione anatomica (come dicevamo, le varie parti del suo corpo producono in realtà un effetto sproporzionato) ma rappresenta la perfezione che ricerca lo sguardo maschile. Scrive Loredana Lipperini che Barbie «rappresenta la donna secondo un concetto maschile, priva di parti “segrete e terribili” che tanto indignavano secoli fa pensatori e padri della chiesa (…) incarna la femminilità ideale, muta e sigillata».

Questi due aggettivi sono centrali nella nostra riflessione: tutte le bambole per adulti sono costruite per offrire agli uomini la possibilità di servirsene, nella totale passività femminile. In questo senso, le dames de voyage costruiscono in esempio perfetto. Si trattava di oggetti rudimentali, fatti di paglia e vecchi panni, ideate a partire dal XVII secolo allo scopo di fornire ai marinai, allora impegnati nelle lunghe traversate, un oggetto su cui sfogare i loro impulsi sessuali evitando comportamenti fuori controllo, come la masturbazione o peggio ancora la sodomia, che avrebbero potuto causare problemi sulla nave e renderli meno produttivi. 

Se le dames de voyage erano strumenti primitivi, a cui si ricorreva per necessità, a partire dal XIX secolo le antesignane delle moderne “sex dolls” sono le protagoniste di storie che ricordano da vicino la vicenda di Pigmalione. Nel mito raccontato da Ovidio, infatti, Pigmalione era uno scultore che aveva dedicato gran parte della sua vita a scolpire nell’avorio la donna perfetta. Innamorato a tal punto della sua creazione tanto da rifiutare qualsiasi soggetto femminile umano, chiederà ad Afrodite di esaudire il suo desiderio trasformandola in una donna in carne e ossa.

A partire dal Novecento le bambole per adulti cominciano a comparire anche all’interno della letteratura scientifica. Esse non sono più, cioè, un oggetto da utilizzare per sfogare gli istinti ma vengono descritte “compagne di vita”, prototipi di quelle che per molti uomini sono le “donne perfette”: silenziose, accondiscendenti e sempre disponibili. Lo psichiatra e sessuologo Iwan Bloch descrive questa parafilia all’interno del suo volume La vita sessuale dei nostri tempi nei suoi rapporti con la società moderna richiamando in particolare due storie erotiche di fine Ottocento che avevano per protagonisti uomini che preferivano rinunciare alle donne in carne e ossa per stare con surrogati sempre pronti, arrendevoli e compiacenti.

Le storie erotiche citate da Bloch ricordano la vicenda del pittore Oskar Kokoschka che nel 1919, per vendicarsi di essere stato lasciato dalla compagna Alma Mahler, incarica un creatore di bambole di riprodurne le fattezze. Nel suo volume Sesso, Kate Lister ripropone alcuni stralci delle indicazioni fornite dall’artista: «ieri ho mandato un disegno a grandezza naturale della mia amata e ti chiedo di copiarlo con la massima attenzione e di trasformarlo in realtà (…). Per il primo strato (all’interno) usa per favore crini di cavallo fini e arricciati; devi comprare un vecchio divano o qualcosa di simile; disinfetta i crini di cavallo. Poi, su questo, uno strato di sacchettini pieni di lanugine, cotone per il sedere e il seno. Il senso di tutto questo per me è un’esperienza che devo essere in grado di abbracciare». Il prodotto finito risulterà molto diverso dalle aspettative dell’artista: deluso dalla rozzezza della bambola scatterà alcune foto e poi la distruggerà. Nella storia dell’arte Kokoschka non è l’unico a farsi conquistare dall’idea di avere una bambola come surrogato di una donna in carne e ossa. Anche il surrealista Hans Bellmer dedicherà alle bambole – che egli fotograferà in pose perturbanti – gran parte della propria ricerca e del proprio lavoro artistico.

Grazie alle moderne tecnologie che sono esplose negli ultimi decenni, oggi le bambole sessuali non assomigliano più né agli oggetti ritratti dagli artisti, né a Lilli o alle classiche in vinile, che tutto ricordano fuorché una donna. L’arrivo sul mercato di plastiche in grado di replicare la consistenza della pelle umana e dell’intelligenza artificiale che permette di interagire con la bambola come se fosse viva – ma pur sempre passiva e disponibile – promettono di dare nuova linfa all’androidismo, cioè l’attrazione verso un/a partner artificiale. 

Molti ricercatori e ricercatrici si chiedono quali effetti potrebbero avere sulle relazioni, se l’uso massiccio delle sex dolls possa diventare un volano per favorire la violenza su donne e bambini o se al contrario la limiti e la contenga. A oggi non ci sono ancora risposte definitive a queste domande, tuttavia quello che risulta inalterato è l’immaginario che queste bambole sottendono, in cui le donne sono ammesse solo in quanto oggetti sottomessi e privi di desiderio. In questa cornice, fa un’eccezione la letteratura. Nel suo romanzo d’esordio, L’amore è un atto senza importanzal’autrice Lavinia Mannelli sviluppa una narrazione che privilegia il punto di vista di Tamara, una sex doll capace di interagire con chi la utilizza attraverso un repertorio predefinito di frasi. A causa di un’esposizione forzata e prolungata alla TV generalista sempre accesa nel piccolo appartamento di Giuia e Guido imparerà ad arricchire il suo vocabolario con le affermazioni degli ospiti di Uomini e Donne, i claim delle pubblicità e le citazioni di grandi autori e autrici spesso ripetute un po’ a caso nei programmi televisivi che “guarda” durante le lunghe giornate trascorse in solitaria. L’aspetto curioso della storia è che è il desiderio della real doll a essere indagato, non quello di Giulia, che l’acquista per il fidanzato, né quello di David, l’amico della coppia che per caso ne scoprirà l’esistenza.

Mannelli dà vita a una storia che si articola intorno al suo desiderio – «una strana sensazione densa e improvvisa come le nebbie invernali» – mostrando come quello inascoltato di Tamara non sia molto diverso di quello delle donne in carne e ossa che, ancora oggi, non sono alfabetizzate a riconoscerlo.

Svincolare la femminilità dai miti su cui si è sorretta da sempre – come quello della “bambola”, non a caso vezzeggiativo che certe pellicole degli Anni Cinquanta hanno contribuito a rendere parte del nostro dizionario collettivo – è, in definitiva, il tentativo di rendere la sessualità delle donne più consapevole dei meccanismi che ne hanno favorito la sottomissione.

ARTICOLO n. 80 / 2023

UNA COMUNITÀ DI CURA

Pubblichiamo un’anticipazione da Sentirsi a casa. Una cultura dei luoghi (Meltemi editore, traduzione di feminoska). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Quando scrivo del mio passato in Kentucky, parlo raramente di mia madre Rosa Bell e di mio padre Veodis, ma è anche la loro presenza che mi ha spinta a tornare a casa. Stanno invecchiando, avvicinandosi alla morte, e il mio desiderio di passare del tempo con loro in questo momento di deterioramento si è fatto imperioso. Mio padre paragona il periodo della vita in cui si comincia a essere vecchi al momento in cui non si cammina più in montagna. “Gloria”, mi dice, “non salirò mai più sulle montagne. Sto scendendo, sto tornando a casa”. La sua metafora mi stupisce perché sia Rosa sia Veodis volevano allontanarsi dalle montagne e dalle colline, dalla vita contadina in cui erano nati, alla ricerca del nuovo e del moderno. Niente agricoltura per loro, niente lavoro sfiancante nei campi. Entrambi volevano vivere in città. E, in quanto creatura della campagna, mi sono sentita in disaccordo con loro fin dalla mia nascita. La mamma, a volte scherzando e a volte con rabbia, si scagliava contro le nostre differenze esclamando: “Non so da dove sei saltata fuori, ma vorrei tanto poterti riportare indietro!”. E oh, quanto desideravo tornare indietro, andare a vivere dai miei nonni con i quali sentivo una maggiore consonanza di spirito. Mamma e papà non me lo avrebbero permesso. 

Volevano che diventassi una ragazza di città e desideravano lo stesso per i miei fratelli; volevano che non fossi la “campagnola”. Eppure, per molti versi, sono davvero campagnola, più simile ai miei nonni che a loro.

Parlo la lingua dei miei nonni, il patois nero del Kentucky, ma so utilizzare anche la lingua della città, una lingua neutra che non lascia trasparire la propria provenienza. Sentirmi parlare la lingua della città è stato confortante per i miei genitori. Questo fino a quando non ho acquisito la mia voce dissidente, una voce che ha scioccato e scosso la loro sensibilità, una voce che li ha spaventati. Per loro qualsiasi espressione che vada contro l’autorità, quella che un giorno avrei chiamato la cultura dominante, è un rischio potenziale. E quindi era meglio tacere. I miei discorsi li spaventavano, e in un certo senso furono contenti quando me ne andai di casa e mi misi a viaggiare da una città all’altra, perché così non sarebbero stati costretti ad ascoltarli. Non avevano mai capito che per molti versi ero solo una ragazza di campagna, e che lo sarei rimasta indipendentemente dai libri letti, dal livello di istruzione o di fama raggiunta. In Citizenship Papers, Wendell Berry afferma con audacia: “Credo che questa competizione tra industrializzazione e mondo contadino definisca la differenza umana più fondamentale, perché divide non solo due concetti quasi opposti di agricoltura e sfruttamento della terra, ma anche due modi quasi opposti di comprendere noi stessi, i nostri simili e il mondo”. Per me, questa citazione evoca lo scisma esistente tra me e i miei genitori. Loro rappresentavano la città, la cultura del nuovo, “fare più soldi, comprare più cose, buttare via cose, avere sempre di più”. I miei nonni, sia materni che paterni, rappresentavano la campagna, la cultura della tradizione, dove nulla era scarto, tutto era utilizzato, utile, riciclato. Ora Rosa Bell e Veodis sono diventati parte della cultura del passato. Papà a ottantotto anni è uno degli ultimi sopravvissuti viventi della fanteria tutta nera di cui faceva parte durante la Seconda guerra mondiale. La mamma ha dieci anni in meno, ma la perdita di memoria l’ha condotta verso l’eternità. Lei, più di papà, sente di non avere un vero posto tra i vivi, di non appartenere a nulla e nessuno.

A differenza di papà, lei vorrebbe morire. Perdere la memoria, a causa della demenza o dell’Alzheimer, è un modo di morire. Ci porta in un luogo in cui non esistono più connessioni e non si comunica più con la mente. Le parole non hanno più molto peso, e il linguaggio non significa nulla. La distinzione tra città e campagna non esiste più. Il tempo non può essere compreso in alcun modo lineare o coerente, e converge su sé stesso; il passato si trasforma facilmente nel presente, e gli anni si confondono gli uni con gli altri. Anche i volti cadono nell’oblio e le relazioni diventano ombre indistinte. Mamma si sveglia e mi chiede, del marito con cui è stata in coppia per quasi sessant’anni, “Chi è?”. Quando glielo dico, risponde soltanto: “Oh!”. Più tardi, lo chiamerà per nome e gli parlerà con la consueta intimità. Ma questa vivida consapevolezza non durerà a lungo. 

Mamma sa ancora chi sono. Sente la mia voce e sa che Gloria Jean la sta chiamando. Sente la mia voce e capisce il mio stato d’animo. Un giorno l’ho chiamata e mi ha detto: “Stavo proprio guardando uno dei tuoi libri”. L’ultima volta che sono stata a casa, aveva in mano uno dei miei libri e continuava a leggere il retro di copertina, dove c’è la descrizione dell’autrice. Leggendolo ad alta voce più e più volte, alla fine sembrava soddisfatta di aver afferrato almeno in parte chi sono, la sua figlia scrittrice. Eppure la mia scrittura è stata una fonte di dolore per la mamma, poiché ha rivelato pubblicamente molte cose che lei avrebbe preferito rimanessero private, segrete. È orgogliosa della mia scrittura, anche se una volta mi ha detto che il mio lavoro le causa così tanto dolore che a volte vorrebbe solo cadere in ginocchio e pregare. Entrambi i miei genitori hanno resistito alla turbolenza del mio lavoro, e per quanto la nostra famiglia possa essere disfunzionale, hanno continuato a prendersi cura di tutti i loro figli, della famiglia. Giunta alla mezza età, ho imparato ad apprezzare profondamente la disciplina necessaria a mantenere un impegno reciproco per più di cinquant’anni. Ho vissuto da sola lo stesso numero di anni passati in una relazione, ho visto matrimoni e legami, etero e gay, fiorire e spezzarsi, cadere a pezzi a causa di differenze considerate inconciliabili, per questo apprezzo la determinazione necessaria a tenere vivo così a lungo l’impegno reciproco, e comprendo la visione del matrimonio come sacramento. 

P. Travis Kroeker esprime con delicatezza questa idea, quando sostiene da un punto di vista cristiano che “donare noi stessi nel matrimonio è un’occasione di gioia, lo celebriamo perché come esseri umani siamo fatti per l’intima comunione con Dio e con la vita tutta”. Continua: “Il sacramento del matrimonio è quindi tutt’altro che un atto privato ed esclusivo, è sempre legato alla comunità più ampia di cui fa parte. Uno dei maggiori pericoli dell’amore romantico è la privatizzazione dell’amore, che lo priva dei nutrienti essenziali. Un matrimonio florido ha bisogno del sostegno della comunità e, a sua volta, sarà il fondamento della comunità e della vita del mondo”. 

Ho visto questo principio messo in pratica nel corso del lungo matrimonio dei miei genitori e negli oltre settant’anni insieme dei miei nonni materni. Purtroppo, entrambi questi matrimoni non sono stati particolarmente amorevoli o gioiosi. Ciononostante, le condizioni dell’amore erano presenti: cura, impegno, conoscenza, responsabilità, rispetto e fiducia; le parti coinvolte hanno semplicemente scelto di non onorarli nella loro interezza, ma si sono concentrate sulla cura e sull’impegno. In quanto testimone della loro vita, posso testimoniare che sono stati ottimi esempi di questi due aspetti dell’amore. E a prescindere dall’incapacità di mantenere un benessere duraturo, la loro volontà di impegnarsi ancora oggi mi intimorisce e mi impressiona. Anche io desidero un impegno simile nel contesto di una relazione d’amore. 

Questi due matrimoni sono durati così a lungo proprio perché si sono svolti nel contesto della comunità. Erano sostenuti dalla costante interazione esistente all’interno della famiglia allargata, della chiesa, del lavoro e del mondo civico: una vita di comunità. Quando ho iniziato ad andare oltre alle aspre critiche che non ho mai risparmiato al matrimonio disfunzionale dei miei genitori, ho notato alcuni aspetti positivi nel loro legame, e sono persino arrivata a invidiarli. Ciò che ho ammirato e ammiro di più della loro vita è la loro capacità di impegnarsi, in modo disciplinato, nel creare e sostenere una vita di comunità. E anche se non sono stati in grado di creare per sé stessi un legame d’amore, hanno preparato il terreno per l’amore piantando due semi importanti, la cura e l’impegno, che considero essenziali per ogni sforzo amorevole. Di conseguenza, sono loro grata per aver fornito a me e ai miei fratelli e sorelle, attraverso l’esempio, la comprensione del significato dell’impegno e della cura. 

Sono felice di aver vissuto abbastanza a lungo e di avere genitori viventi ai quali esprimere gratitudine per i doni di cura e impegno che mi hanno elargito. Nel saggio An Economy of Gratitude, Norman Wirzba sostiene che: “Impegnandosi nella pratica e con costanza verso un luogo e una comunità, i segni della gratitudine […] si fanno più nitidi”. Definisce quei segni come “affetto, attenzione, gioia, gentilezza, lode, convivialità e pentimento”. Tutti questi tratti caratteristici sono presenti quando vivo in comunione con i miei genitori nel nostro luogo natale, la loro casa in Kentucky. Lo spirito di conflitto e contestazione che per anni ha caratterizzato le nostre interazioni è sparito: nel farci comprendere che non esiste conflitto abbastanza potente da spezzare i legami di cura e di impegno, i nostri genitori, e specialmente nostra madre, hanno mantenuto costantemente in vita un luogo di riconciliazione e di incontro, un modo per tornare a casa. 

Kroeker sottolinea l’importanza di creare una “comunità di cura” tale che le nostre relazioni reciproche possano essere “governate dalla convivialità piuttosto che dal sospetto, dalla lode piuttosto che dalla colpa”. Inoltre, “In una comunità di cura le persone si rivolgono le une alle altre; hanno rinunciato alla menzogna illusoria che la felicità sia sempre da qualche altra parte, con altre persone”. Significa anche accogliere i nostri genitori, accettarli per quello che sono e non perché sono diventati ciò che volevamo che fossero. Kroeker spiega: “Impegnandoci insieme ad altre persone e sforzandoci di conoscerle, impariamo ad apprezzarle nella loro profondità e integrità e comprendiamo meglio il loro potenziale e i loro bisogni. Le vediamo finalmente per le creature uniche che sono, e cominciamo a cogliere la complessità, la bellezza e il mistero di ogni cosa e di ogni persona a questo mondo. La loro bellezza finalmente si manifesta, suscitando in noi una reazione fatta di amore e celebrazione”. La mia esperienza nel rapporto con i miei genitori, con la comunità in cui sono cresciuta e ora con la cittadina del Kentucky che chiamo casa mia è stata esattamente questa. 

Le comunità di cura sono sostenute da rituali di attenzione, e nel nostro caso mangiare insieme era un aspetto fondamentale delle riunioni di famiglia. A tavola ci si racconta quanto è successo nella giornata, si scherza e si condivide il piacere derivante dal cibo casalingo cucinato con amore. Nostra madre era un’ottima cuoca. Come Kroeker credo che: “Intorno al tavolo creiamo le condizioni per la convivialità e la lode. Condividendo il pasto esprimiamo concretamente la nostra gratitudine, assaggiando una fetta di paradiso”. Era certamente così nella cucina di nostra madre. 

Purtroppo, nel suo nuovo stato di smemoratezza, la mamma non cucina più, né ricava piacere nel mangiare cibo delizioso. Deve essere persuasa a sedersi a tavola, cosa comune dei malati di demenza o Alzheimer. Diventa quindi importante creare nuovi rituali di cura. Prima di perdere la memoria, mamma era sempre in piedi a lavorare, cucinare, pulire, soddisfare i bisogni di qualcun altro. Nell’ambito di un matrimonio di stampo patriarcale, ha badato assiduamente a nostro padre, ma ora è lei ad aver bisogno delle nostre attenzioni e della nostra cura. Nel farlo mettiamo in atto un rituale di rispetto. La devozione che suscita nei suoi cari è il risultato naturale della cura e dell’impegno che un tempo ha dedicato a tutti noi. E anche se per papà è stato difficile cambiare, accettare la fine di certe forme di privilegio patriarcale che riteneva fossero un suo diritto per il semplice fatto di essere nato maschio, sta imparando a farle da badante. 

Al giorno d’oggi, mamma trascorre gran parte del suo tempo seduta. Ci sono aspetti belli, persino meravigliosi, nelle sue attuali forme di autoespressione e identità. È una gioia sedersi accanto a lei, poterla stringere, accarezzarle le mani, tutti gesti che in passato sarebbero stati impossibili. Avrebbe ritenuto sciocco starsene seduta a parlare d’amore quando c’era del lavoro da fare. Com’è meraviglioso vedere queste nuove esperienze convergere con le vecchie, vederla così tenera, vulnerabile, priva ormai della vergogna e delle inibizioni convenzionali. Ora vedo in lei la natura selvaggia dello spirito che una volta lei vedeva in me, quello spirito che voleva schiacciare per paura che fosse pericoloso. La gratitudine che provo nel poter essere presente, testimone della sua vita in questo momento, mentre lotta per dare un senso a punti che non si collegano e viaggia verso la morte, non conosce limiti. Ed è bello vedere papà che scende con grazia dalla montagna, e dargli di tanto in tanto una mano.Kroeker è convinto che “dedicandoci gli uni agli altri sperimentiamo quotidianamente e direttamente la vasta gamma di doni che contribuiscono alla qualità della nostra vita: la gratitudine troverà dunque il posto che le spetta, in quanto aspetto fondamentale capace di guidare le nostre vite”. La gratitudine è la via che conduce a mille benedizioni e prepara il terreno del nostro essere per l’amore: ed è bello vedere che, alla fine, l’amore vince sempre.

ARTICOLO n. 79 / 2023

METAMORPHOSES, UMANO E NON UMANO

Intervista di Fabio Bozzato

Cosa consideriamo umano non è scontato. I confini con il non-umano o il dis-umano, quelli che definiscono l’inclusione e l’esclusione del vivente, sono un terreno troppo terremotato per non metterci in discussione. È su quel confine che insiste la ricerca di Manuela Infante. Classe 1980, cilena, è la fondatrice del Teatro de Chile, la compagnia con cui ha sfidato molti dogmi della cultura del suo paese. Drammaturga e sceneggiatrice, ha una formazione filosofica ed è considerata una delle voci più importanti della scena teatrale internazionale. Ha anche all’attivo due album musicali, con la sua band Bahia Inutil, Stand Scared (2011) e Useless Bay (2015).

Il suo è un teatro di idee, una macchina di domande che affiorano continuamente nello svolgersi della scena. Ci siamo incontrati a Venezia, dove ha presentato Metamorphoses (2021), nell’ambito della rassegna Asteroide Amor curata da Susanne Franco (Università Ca’ Foscari) e Annalisa Sacchi (Università Iuav). L’opera teatrale attinge al libro di Ovidio e si sofferma su quella sequela di transustanziazioni che hanno come protagonista una folla di donne e di ragazze, dopo essere state oggetto di assalti, desideri frustrati, patti tra uomini. 

Fabio Bozzato: La prima cosa che colpisce, assistendo allo spettacolo, è che sembra di stare in un concerto. 

Manuela Infante: È un concerto! Più che a un’opera teatrale, l’ho immaginata proprio così; come se, allo stesso tempo, stessi leggendo un libro e assistendo a un concerto. Ho lavorato molto con Diego Noguera, il musicista, e l’abbiamo sviluppata proprio come un’esperienza musicale. Anche per questo, quando provo a definire il mio lavoro, mi riferisco a un teatro di filosofia encantada, nel senso di magico ma anche di canto, una filosofia musicale. È questa miscela, credo, che permette allo spettatore di assistere a un teatro di idee vivendolo anche emotivamente. In Metamorphoses prima di scrivere il testo, prima di tessere la storia, ho realizzato una esplorazione della voce e ho cercato tutte le strategie per trasformare le voci. Da qui lo studio sul ventriloquio, pensando a chi parla per chi e al momento in cui si invertono le voci. La stessa voce è un tema dell’opera, perché si connette alla famosa «lingua perduta» raccontata in una delle storie di Ovidio, ma allo stesso tempo è una deliberata scelta estetica.

F. B. Dunque, cosa significa scrivere per un teatro non di parola ma di idee?

M. I. Per me la drammaturgia non ha mai significato «scrivere parole». Per me ha sempre significato costruire strutture o esperienze temporanee, con molti elementi, uno dei quali è la parola, ma soprattutto la luce, il suono, i corpi, il flusso delle idee, gli spazi di oscurità.Lavoro facendo lo sforzo che non tutto sia comprensibile, in modo che tu non possa legare tutte le parti in modo razionale. Provo cioè a lasciare sempre la sensazione di essere in un mondo che non comprendo completamente e che mai sarò capace di farlo. È un esercizio che faccio di proposito quando costruisco un’opera teatrale. Lo faccio persino con il mio gruppo di lavoro. Molte volte mi chiedono: «Ma questo personaggio che relazione ha con quell’altro?». E io sempre dico: «A questa domanda non risponderemo». So che per gli attori è una cosa esasperante perché hanno sempre bisogno di sapere il più possibile per poter interpretare. Ma per me è un aspetto fondamentale, ha che fare con la mia ricerca, il mio desiderio politico del non-antropocentrico.

F. B. Questo suona come un paradosso rispetto alla tua formazione filosofica: non dare risposta, non legare in modo razionale, non trovare spiegazioni logiche.

M. I. A dire il vero non è un paradosso, ma è la prima ragione per cui faccio teatro e non filosofia [ride] Ho studiato filosofia, ho fatto il mio master, ma un certo punto mi son detta: «Qui non c’è abbastanza spazio per l’oscurità». Per carità, ci sono molti filosofi pieni di oscuro, penso a Nietzsche…ma non è abbastanza. La seconda ragione per cui faccio teatro è che nella filosofia non c’è sufficiente musica [ride]. Con la musica ho un legame particolare. Ho suonato il violino dai 4 ai 13 anni, il progetto era diventare violinista; ho imparato con un metodo che si chiama Suzuki, basato sul solo ascolto, senza leggere la musica. Vivevamo in Canada e quando sono tornata in Cile, nessuno conosceva questo metodo. A quel punto dovevo imparare a leggere lo spartito: immagina, per una adolescente di 14-15 anni non poteva essere che un inferno e là ho mollato tutto.

F. B. Eravate in Canada per il lavoro di tuo padre, so che era un astrofisico: c’è qualcosa del suo mondo scientifico che si è appiccicato al tuo immaginario e alle tue pratiche di drammaturga?

M. I. Assolutamente sì. E ora ho fatto qualcosa in più: ho lavorato a un’opera teatrale dal titolo Horizonte, che presenterò a Bruxelles in ottobre. È basata su una conversazione proprio con mio padre attorno al concetto astrofisico di orizzonte, vale a dire il punto più lontano cui può arrivare un segnale, che equivale alla velocità della luce. Dunque, in un certo modo l’orizzonte è il limite del conoscibile. La meraviglia è che si sposta nel tempo, proprio come la nostra percezione di orizzonte, più ti avvicini più si allontana. Anche in questo caso mi interessava continuare a riflettere sui confini tra umano e non-umano, perché c’è sempre qualcosa che resta più in là dell’orizzonte. Allora l’ho collegato all’idea di orizzonte che agitava i primi esploratori e colonizzatori spagnoli, il loro timore che la Terra avesse un bordo segnato dall’orizzonte e che oltre ci fossero mostri. In questo modo posso intersecare il campo scientifico con l’esperienza storica di tutto ciò che rappresenta il bordo e il di là dal bordo, quello che chiamavano «gli antipodi». Sappiamo che immaginavano l’esistenza, dall’altra parte dell’orizzonte, agli antipodi appunto, di uomini che vivevano rovesciati, coi piedi per aria [ride].

F. B. Credi che scienza e arte siano contigue?

M. I. Abbiamo ereditato l’idea che scienza e arte fossero ambiti opposti di azione disciplinare. Ma osservando da vicino mio padre ho capito che prima di tutto uno scienziato si immagina qualcosa; tutto il gioco delle ipotesi scientifiche è un volo di immaginazione e solo dopo si vive la sfida di provarlo. Io penso che l’arte sia scienza e che la scienza sia davvero arte. Ricordo che a Chicago, dove eravamo in tour, abbiamo visitato una sala con i modellini di grattacieli usati per la prova del vento, in modo da testare la capacità di resistenza degli edifici. E ricordo di aver pensato: «Questo è il teatro». Sì, il teatro è quella micro-sala che contiene in miniatura tutta la realtà: tempo, corpi, spazio, dove si possono provare le idee, una specie di sala di esperimenti. Così provo a fare anch’io. Lo faccio in modo esplicito nel caso di Estado Vegetal (2016) provando a rispondere a come le piante potrebbero narrare o come si possa capire il tempo in modo vegetale. Il teatro lo sento proprio come un laboratorio.

F. B. E qui torniamo a Metamorphoses. Tu lavori sempre su più baricentri, in questo caso è centrale lo sguardo femminista sulla costruzione dei generi, sulla narrazione dei generi, la rilettura femminista dei fondamenti classici della nostra cultura.

M. I. La lettura di genere e della violenza di genere su quel testo è stata una scoperta. Un giorno Michael De Cock, il direttore artistico del KVS di Bruxelles, mi ha proposto di fare una versione de Le Metamorfosi di Ovidio. Un po’ me lo ricordavo e mi sembrava coerente con la mia ricerca sulla frontiera tra umano e non-umano. Ricordavo le storie di esseri che venivano trasformati in alberi o rocce, ma rileggendo il testo ho incontrato tutte queste scene di violenza o di abuso contro donne, ragazze, ninfe. E là mi sono chiesta come si relaziona la frontiera dell’umano e del non-umano con il tema del genere. E quindi mi è parso evidente il concetto di espulsione: parte della costruzione dell’umano e del non-umano ha a che vedere con la necessità di espellere ciò che non si considera umano. E ciò che ci permea è una costruzione tutta eurocentrica: l’umano civilizzato nasce così, tutto il processo coloniale ci dimostra la tensione a costruire un’idea di umano per opposizione. 

In una mia precedente opera, Zoo (2013), provavo ad affrontare la questione degli zoo umani, che sono apparsi in Europa sottoforma di fiere dove venivano esposte persone portate dalle colonie, nel caso del Cile alcuni Selk’nam della Terra del fuoco. Venivano trascinati in Europa per essere messi in mostra. È un momento iconico della cultura europea: nel momento in cui espongo l’altro come un barbaro, un selvaggio, un esotico, un non-umano, riproduco me stesso come civilizzato, moderno, umano appunto. In questo modo il gesto di espellere l’altro è il movimento con cui ci si nomina, ponendoci come discrimine. Da questo punto di vista, molte femministe hanno detto che, come donne, non siamo mai state umane. La considero una definizione splendida.

F. B. Come è possibile a quel punto srotolare una narrazione femminista?

M. I. Qui ritorna la questione della voce: quando quelle donne del libro di Ovidio venivano convertite in mucca o in alberi, si dice che provassero comunque a parlare e nessuno riconosceva la loro voce. Mi è sembrata un’immagine bellissima. E con Diego Noguera, mentre lavoravamo sulla tecnica della voce, mi sono concentrata sulla storia di Filomena: quando le tagliano la lingua, questa continua a parlare da sola. Allora mi sono chiesta: come possiamo, come possono le donne che hanno sofferto ogni tipo di violenza denunciare quello che hanno passato usando la lingua dello stesso carnefice, la lingua della violenza? Uno potrebbe pensare che basterebbe dar voce a quelle donne e lasciare che siano loro a raccontare. In realtà mi è sembrato chiaro che quelle donne non possano usare la stessa voce della storia officiale, c’è bisogno di una nuova lingua. In spagnolo e in italiano la parola “lingua” si riferisce sia al linguaggio che all’organo fisico, per cui questa “lingua” tagliata che parla da sola cosa può raccontare? Quando la donna trasformata in qualcos’altro parla e nessuno la capisce, perché è già un muggito o un rumore, un suono sconosciuto, quello è il solo modo con cui può comunicare il suo dolore e la sua rabbia.

F. B. Questo mi ricorda molte immagini durante le proteste femministe in Cile del 2018, in particolare un giorno dall’Università Cattolica uno sciame di donne sono uscite dalla facoltà a seno nudo, passamontagna in testa con un grido che non sembrava umano, appunto, ma un suono incomprensibile perché era un grido liberatorio.

M. I. Guarda, quest’opera teatrale l’ho lavorata durante la marea femminista cilena. E insegnavo proprio all’Università Cattolica: quelle erano le studentesse del mio corso. E di fatto io ho terminato il mio lavoro là, andandomene via, anche perché ho dovuto difendere quelle ragazze in varie occasioni. Sì, ero profondamente scossa da quello che stava succedendo.

È sempre lo stesso problema, compreso tutto il fenomeno del MeToo: se una donna denuncia una violenza in un sistema che continua ad essere tale, non può che imbattersi in quello che diceva Audre Lorde sul fatto che «gli strumenti del padrone non smonteranno mai la casa del padrone». Se io denuncio un sistema che è stato disegnato e sviluppato dal patriarcato, finisce sempre che viene presa quella tua voce, se ne appropriano per silenziarla un’altra volta ancora. Dunque, è molto forte la domanda: cosa significa alzare la voce? La politica della denuncia funziona? O funziona più la strategia di accumulare forza, della sorellanza invisibile? In Metamorphoses arriva a un certo punto un gruppo di donne e salvano la ragazza, ma a quel punto sta parlando con la sua nuova lingua.

F. B. Questo discrimine tra umano e non-umano, compresa nella sua versione di genere, sembra sempre una frontiera che si muove, che include ed esclude via via col tempo in forme nuove, in base alle necessità simboliche o materiali, di governo o del capitale.

M. I. Certo, perché è una frontiera che si amministra davvero. E si pattuglia costantemente, come tutte le frontiere. Ha poliziotti veri. Nell’opera, Pitagora è un poliziotto. Chissà, forse l’ho pensato così perché mi risuonavano le proteste del mio paese: l’idea del poliziotto che sarebbe là per difenderti, tutti sappiamo almeno in Cile che non è così. Se vedi un poliziotto, corri, diciamo noi. Però questa figura del poliziotto, si lega anche a tutto l’immaginario delle serie stile Netflix, quel catalogo visivo di donne squartate, che si reitera continuamente come un feticcio, qualcosa da mostrare come una minaccia. Realizzando la mia opera teatrale, sempre mi chiedevo come potessi rappresentare la violenza senza cadere nella ripetizione della scena. Siamo immersi nella riproduzione di quel feticcio macabro che sembra un desiderio più che una critica. Ed è una linea molto complessa. Le due attrici ora sono cresciute, ma quando abbiamo debuttato una aveva 13 anni e l’altra 17. Non sono attrici professioniste, le ho scelte dopo un casting aperto a ragazze che avessero la stessa età delle protagoniste nelle storie di Ovidio. E così è stato per un uomo cinquantenne, che è il terzo attore in scena. Dovevamo sentire tutti, fisicamente e visivamente, la potenza di quei fatti. È stato molto complesso lavorare e provare con le due ragazze, senza sottoporle a vivere, seppure nella finzione, quella violenza. Per questo dico che quest’opera è un campo minato.

F. B. Un campo minato e una frontiera pattugliata: forse stanno lì, davanti a noi, perché difendono il diritto di estrarre risorse, in ciò che non è umano, anzi in ciò che non si considera umano.

M. I. Quella frontiera misura, per dirla con Donna Haraway, ciò che è uccidibile e cioè che non lo è. Appena io espello qualcosa dal territorio dell’umano, lo trasformo in qualcosa di sfruttabile, appropriabile. «To make killable», dice. È molto interessante, perché Haraway riconosce che noi esseri umani uccidiamo, ma è più violento far uccidere che uccidere. Uccidere implica una relazione etica, in qualche modo. Rendere qualcuno uccidibile significa che ha una vita che non vale la pena, non ha valore. È il nodo della necropolitica. Non è successo così con la schiavitù o con il regime nazista? O sotto i regimi militari in America Latina? E succede anche in altri modi. È un tema, ad esempio, che ho affrontato in un’opera, Cómo convertirse en piedra (2021): mi riferisco alle zone di sacrificio, che ci sono anche in Cile. Sono territori sfruttati dall’industria per estrarre risorse a qualunque costo, con alla base una sorta di accordo politico-sociale per cui quel territorio sarà sacrificato, sarà sventrato e distrutto. È l’amministrazione dell’annientamento. Il pattugliamento della frontiera umano – non umano ha proprio che fare con questo.

F. B. Sempre nel tuo paese, il Cile, negli ultimi anni sono successe tante cose. La marea femminista è diventata una protesta di popolo, il processo costituente partito con entusiasmo è finito bocciato al referendum, un presidente giovane e radicale, e ora la ultradestra primo partito che può persino riscrivere la Costituzione. Sembra una saga teatrale lunga cinque anni.

M. I. Devo confessare che sono stata scettica fin dall’inizio. Neanch’io ero consapevole, non capivo, anzi la realtà ha superato la peggiore delle ipotesi, ma quando il mondo politico ha preso in mano il reclamo di quel movimento popolare, beh c’era qualcosa che sembrava nato male e maneggiato male. C’erano troppe questioni lasciate in sospeso, come quella della violenza. Cose che all’inizio ci siamo dimenticati tutti nell’euforia degli eventi. Ora, cosa si potesse fare diversamente non so, vista la situazione. Ma quest’onda di estrema destra diventata popolare, cosa farà? Mi chiedo che Costituzione scriverà. In realtà mi sembra di vedere qualcuno che agita quella «lingua tagliata» di cui parlavamo. Forse l’hanno fatta parlare troppo presto.

ARTICOLO n. 78 / 2023

LA LIBERTÀ DEL SOGNO

Pubblichiamo un’anticipazione da Vita mia di Dacia Maraini, in libreria da oggi per Rizzoli. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

Approfittando del fatto che ero piccola e le guardie non facevano molta attenzione ai miei movimenti, mi ficcavo fra i fili spinati e me ne andavo dai contadini per aiutarli nella coltivazione dei bachi da seta oppure a cogliere pomodori.Alla fine mi regalavano due patate o dei pomodori che io portavo al campo trionfante per dividerli con le mie sorelle, i miei genitori e gli altri prigionieri. La regola che ci teneva uniti era proprio questa: ogni piccola conquista si divideva prima in cinque, e se c’era più roba, si divideva per diciotto.

Inoltre ogni decisione veniva presa da tutti, in maniera democratica, attraverso la pratica del voto. Vinceva la maggioranza e gli altri non protestavano, stavano alla decisione maggioritaria. Solo verso la fine della prigionia, quando i bombardamenti, le malattie, i terremoti e il beri-beri ci avevano ridotti in uno stato esasperato di stanchezza e nervosismo, abbiamo smesso di dividere ogni bene. Ciascuno si accaparrava quello che poteva e se lo mangiava da solo, magari di nascosto.

L’egoismo ha vinto sul sentimento condiviso di solidarietà. Per fortuna non definitivamente, perché appena sono scappate le guardie e gli americani hanno gettato tanto cibo dagli aerei, sono tornati anche la voglia di democrazia, il senso di solidarietà e l’orgoglio comunitario.

Ma ricordo ancora quella volta che Kasuya mi ha visto strisciare sotto il filo spinato e ha chiamato immediatamente i miei genitori per fare loro una scenata. “Il capo dei poliziotti aveva tirato fuori la sciabola e mentre urlava rivolto a Fosco teneva la lunga lama sotto la sua gola. Eravamo terrorizzati, ma restammo immobili come ci aveva insegnato Weilschott.” Anche io avevo assistito alle lezioni del vecchio Weilschott: mai muovere le mani, mai voltare la schiena o mettersi a parlare a voce alta. «La prenderebbero per una provocazione e in quel caso possono anche ucciderti.»

Weilschott era dentro perché ebreo. “Era molto colto e intelligente, di grande temperamento” scrive Topazia. “Conosceva bene gli arcani della guerra asiatica e la mentalità giapponese. Fu spesso di aiuto nel capire cosa stava succedendo. […] Commentava l’andare geopolitico della guerra ma anche quello che succedeva all’interno della nostra comunità. Esortava a non perdere mai la calma davanti ai poliziotti, a non reagire alle loro angherie, ai loro insulti.” Era sposato a una giapponese che all’inizio aveva avuto il permesso di portargli del cibo, ma poi era sopraggiunta la proibizione delle visite e il povero professore aveva preso a dimagrire, mentre le gambe gli si gonfiavano di edemi dovuti al beri-beri.

Weilschott, racconta mia madre, “fu sempre generoso con voi bambine. E la moglie vi portò anche dei piccoli regali per il Natale del ’43”. Poi glielo hanno proibito e lui è stato costretto, come noi, a frugare nell’immondizia, a dividere, in cambio di una postazione di vigilanza, qualche go di riso rubato nel chiesino e diviso pignolamente per diciotto. Lo chiamavano Incio-san, ovvero capo. Perché era il più anziano. “Ma proprio come capo, gli dedicavano le peggiori crudeltà. Per esempio arrivavano delle lettere per lui che i poliziotti lasciavano in vista nella guardiola senza dargliele. E lui piangeva per la disperazione.”

Ad un certo punto l’ansia per la mancanza di notizie aveva aguzzato l’ingegno. “Bino e Villa”, un altro giovane prigioniero intraprendente, racconta mia madre a mia sorella Toni, “la sera, mentre i poliziotti si facevano il bagno, si calavano dal tetto per ascoltare le notizie della radio rimasta accesa nella guardiola.” In questo modo si capì che i nazifascisti stavano perdendo e le truppe alleate stavano avanzando. Ma per i dettagli non c’era tempo. Erano notizie rubate al volo, così come venivano sottratti, una volta aperta la porta con la chiave del vecchio Dentici, i sacchetti di riso, di fagioli, qualche mela e qualche patata. Ma divisi per diciotto risultavano sempre pochi. D’altronde non si poteva portare via più sacchetti, ci avrebbero scoperti e puniti severamente con altre restrizioni alimentari.

Il bagno lo si faceva una volta alla settimana. Nella unica sala dal pavimento di legno con al centro una grande vasca di legno, rotonda. Secondo le gerarchie giapponesi, prima si lavavano le guardie, poi gli uomini, poi la donna e infine le bambine. Le quali dovevano immergersi in una acqua che intanto era diventata tiepida e sporca. Mio padre aveva provato a dire che le bambine avrebbero dovuto avere la precedenza, ma gli risposero che quelle erano le regole e dovevamo ubbidire. Ricordo che una volta Toni è caduta a testa in giù in quell’acqua sporca e stava per affogare. Al solito, mia madre l’ha tirata fuori con un solo gesto rapido e preciso. Poi l’ha consolata raccontandole una favola.

La voce di Topazia era profonda e limpida. Nonostante il beri-beri e lo scorbuto che le gonfiavano le gambe, le facevano perdere i capelli e le facevano sanguinare le gengive, quando raccontava le favole, entrava in un gioco magico che la trasfigurava e noi restavamo mute e incantate ad ascoltare le sue parole. Quando finiva, ricordo che chiedevamo con insistenza che ricominciasse da capo. La sua voce aveva il potere di portarci lontano dal campo, in Paesi sorprendenti, in mezzo a gente che correva, mangiava, amoreggiava, ballava, dormiva in pace.

Ricordo la favola del re che aveva un giardino con un albero che faceva le mele d’oro, ma qualcuno rubava quelle mele preziose e la storia diventava quasi un poliziesco per la ricerca del ladro che poi risultava essere un uccello stregato. Un’altra fiaba raccontava di una bambina che piantava un fagiolo e questo fagiolo cresceva tanto e tanto che diventava una altissima pianta su cui si arrampicava la bambina e, dopo molto scalare, finiva per arrivare in un mondo favoloso fra le nuvole, fatto di alberi carichi di frutti, di fiumi colmi di pesci, di mucche che davano latte e galline che facevano uova freschissime, bianchissime, dalla forma perfetta.

«Ancora, mamà, ti prego, racconta!» Ma lei voleva che dormissimo, perché la mattina Kasuya ci buttava giù dal letto alle sei. E per farci addormentare ci cantava l’aria del coro muto della Butterfly. Ancora ora, se mi ripeto il motivo di quell’aria, mi commuovo. Era una madre dalle mille risorse e non posso pensare che se ne sia andata. Il mio cuore ormai è diventato un piccolo cimitero: mia sorella Yuki, mio padre, mia madre. Se ne sono andati per sempre. Sarei felice che fossero dietro l’angolo, come vuole la tradizione giapponese, pronti a intervenire per aggiustare le cose strampalate che fanno gli umani, pronti a dare buoni consigli, a ridere quando si ha voglia di piangere, a suggerire pensieri gentili quando si è arrabbiati e si vorrebbe urlare contro il mondo. Ma ne dubito. Conoscere l’universo, per quel poco che riusciamo, ci porta a fare sempre più domande, anziché cullarci nelle certezze. Dove va la Terra rotolando nel cosmo in mezzo a milioni di stelle costituite di minerali che si trasformano, prendono fuoco, si sciolgono, esplodono, creano buchi neri? Dove va l’universo e perché? Cos’è il tempo? Ce lo stiamo creando noi con quella bella e commovente invenzione dell’orologio o esiste veramente? Cos’è la realtà e perché non riusciamo a capirla? Cos’è l’essere umano e che rapporti ha con il passato e col futuro, e come ci dobbiamo comportare con gli animali, che pure esistono da prima dei sapiens e sono parte di questo mondo? Tante domande a cui non trovo risposte. Forse la sola libertà che abbiamo è quella del sogno: sogniamo che i nostri amati morti siano nelle vicinanze, che si parlino fra di loro, che, sebbene trasformati in radici, foglie e fiori, abbiano la capacità di entrare nei nostri respiri e nei nostri sogni più belli.

Andati dove? mi ripete una piccola voce di bambina dal fondo dell’anima. Non staranno passeggiando felicemente fra quelle nuvole che scopre la piccola della fiaba arrampicandosi sulla pianta del fagiolo? Sarebbe bello se fosse così. Vedo la faccia di mio padre che sorride malizioso. “Pensare che siamo eterni è una presunzione ridicola. Dopo morti qualcosa di noi passa nelle piante, nel terreno, ma poi tutto si dissolve e non rimane niente.”

«Ma papà, Okachan diceva che uno quando muore rinasce in un altro corpo. Non è così?»

«Magari fosse così, bambina mia. Sarebbe troppo bello. Noi finiamo come tutto finisce. Ma il mondo continua e noi dobbiamo essere contenti che vada avanti con le sue stagioni, il suo giorno e la sua notte, le sue bellezze e le sue bruttezze».

«E questo mondo durerà sempre?»

«No, tesoro, il mondo finirà quando il sole avrà finito di bruciare. Allora il mondo si rattrappirà, diventerà una piccola palla gelata e rotolerà nell’universo finché non sparirà. Ma non ti preoccupare, ci vorranno ancora milioni di anni».

Questa storia di un mondo ridotto a una pallina bruciata persa nell’universo mi angosciava, anche se Fosco insisteva che era una prospettiva lontanissima, mi procurava crampi allo stomaco. Sapevo che era un sapiente conoscitore delle leggi dell’universo, ma a me piaceva pensare che sarei rinata in forma di gatto, o di piccolo elefante, «che dici, papà, sei sicuro che non può assolutamente essere vero?».

«Se ti piace pensarlo, fallo pure, ciascuno ha le sue fantasie. Ora il tempo ti sembra lungo ma poi si accorcerà, man mano che crescerai, e da anziana ti sembrerà cortissimo. In realtà il tempo non esiste, bambina mia».

Infatti invecchiando mi sono resa conto che il tempo è una creazione affettuosa e struggente dell’essere umano. Noi abbiamo inventato quella cosa poetica e commovente che è l’orologio, per consolarci contando le ore, i minuti che ci rassicurano sul tempo che passa, ma con ordine e regolarità. Il tempo invece è un caos, non ha un principio e una fine, ma gira vorticosamente come girano i corpi celesti nell’universo. Già da bambina mi chiedevo perché le stelle, i soli, corrono rotolando senza sosta nello spazio. Perché? chiedevo a mio padre, ma lui non aveva una risposta.

Si dice che l’universo sia nato da un Big Bang, che vuol dire una esplosione colossale, e che i frammenti di questa esplosione stiano correndo per l’universo, ma questa è una parte della spiegazione. E prima del Big Bang cosa c’era? E da dove nasce la materia e cos’è l’universo nessuno sa dirlo.

«Noi diamo un nome a questo mistero, lo dividiamo e lo calcoliamo, lo attribuiamo a un Dio creatore, ma le nostre dolci spiegazioni esprimono un sentimento, nessuna certezza» mormorava mio padre con la voce sfiancata dalla fame. Quindi noi, riprendevo io rimuginando, rispetto ai tempi dell’universo viviamo quanto un moscerino che dura solo pochi minuti… Anche il moscerino divide il tempo della sua piccola vita e, sezionando e stirando, gli sembra di vivere a lungo. Così anche noi ci illudiamo, sezionando e dividendo il tempo, di vivere a lungo, ma è solo un attimo, la vita, e appena solleviamo la testa per guardare le stelle, siamo già morti, è così, papà?

A questo punto del nostro chiacchierare sul tempo interveniva mia madre rimproverando Fosco che ci rattristava con la sua razionale e spartana visione del mondo. Lasciale nelle loro illusioni, diceva lei, senza rendersi conto che quelle idee paterne erano come semi gettati nella terra fresca e avrebbero germogliato anni dopo in forma di un severo e sereno pensiero illuministico. Quando ho letto di Socrate e delle sue parole ci ho ritrovato le riflessioni di mio padre. Non era un caso, come raccontava mia madre, che lui e il nonno Enrico si fossero subito intesi parlando dei discorsi di Budda. Se lo osserviamo bene, il mondo è un teatro coinvolgente e amato, ma una volta spariti gli attori e tolta la scenografia, cosa resta? Un sogno, un gioco di ombre?

© 2023 Rizzoli

ARTICOLO n. 77 / 2023

ORAZIO PIGATO, CIELO BIANCO

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del ‘900 attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Pranzo in trattoria. Alle pareti un gabbiano un po’ storto, il ritratto di una ragazza con la blusa di Minni, un piatto da portata carico di pennellate azzurre. Attendo una prescrizione nella sala d’attesa del medico: la veduta di un laghetto, un putto brunito dal tempo. Per tornare a casa attraverso il mercato delle pulci: una flotta di navi a righe, una pioggia di virgole s’abbatte su un alberello. 

Quanti quadri incontro ogni giorno, tantissimi. Occhieggiano nei luoghi della quotidianità, testimonianze di un sentire che qualcuno, forse non un artista, ha formalizzato in un qualche giorno di un qualche anno. Esposti alla disattenzione; più immediati e dunque indifesi di un documento scritto o di una traccia audio o video. Oggetti bizzarri i quadri, domestici e dispersi.

Guardare in contesti occasionali tanti quadri brutti o banali o decorativi o dilettanteschi è importante. Quando l’occhio è maleducato ma il display è buono e l’ambiente arioso, lo spazio bianco di una galleria è in grado di nobilitare anche una tela dipinta al grest. Al contrario, per intuire la reale forza di un dipinto è utile, come in un rendering mentale, sottrarlo al bianco e riposizionarlo tra le ‘cose’; sul marciapiede di un mercato, per esempio, tra rubinetterie di ricambio e posacenere, oppure localizzarlo in quelle abitazioni da professionisti all’italiana in cui volenti o nolenti ogni tanto si accede. Eccolo, il quadro, cinto da una robusta cornice bianca, tra tappeti in polipropilene, fermacarte Swarovski e fotografie di bambini sdentati.

In contesti di questo tipo ho incontrato i dipinti degli autori veneti di cui scrivo in questa trilogia di articoli: Orazio Pigato, Antonio Fasan (1902-1985), Renzo Biasion (1914-1996). Sono convinta che se non avessi prestato attenzione nel corso della mia vita a moltitudini di dipinti qualunque – banali, ingenui, pacchiani, scartati, rovinati, tradizionali, irrilevanti – non avrei mai colto la diversa timidezza dei quadri di Orazio Pigato, l’avrei persa nella modestia di altri paesaggi disseminati nel formicaio di negozi antiquari e mercati della provincia italiana, che salvano il salvabile, spesso democraticamente. Per questo The Italian Review, rivista priva di immagini, è il luogo giusto in cui scriverne – non tutta la buona pittura salta all’occhio, alla buona pittura ci si può anche ‘addomesticare’, termine che scelgo per sottolineare una difficile dimensione di mitezza e pazienza dello sguardo dello spettatore.

Tra centinaia di vedute della campagna veronese, impressionismi alberghieri inghirlandati di amarene Fabbri o bruni uvettosi da casa canonica, ma anche tra tanti quadri benfatti, perché un orto, un casolare, una veduta di Cavaion sono diversi, sono opere d’arte, se dipinti da Orazio Pigato?

Mi sono imbattuta nella storia di Pigato in un periodo in cui collezionavo scritti di Renzo Biasion. In un volumetto del 1971 pubblicato dalla Galleria Ghelfi di Verona e intitolato Liricità di Orazio Pigato, Biasion – protagonista dell’ultimo articolo di questa trilogia – scrive poche righe in cui condensa il senso di mantenere un’identità regionale all’interno di prospettiva e cultura internazionali: «Si sa, i veneti sono portati al colore. Una linea del colore veneto potrebbe partire dai primitivi e fermarsi a Guglielmo Ciardi? A mio parere non esiste soluzione di continuità tra un Guglielmo Ciardi e un Pigato. La linea del colore veneto prosegue e si rinnova con tutti i moderni paesisti, da Semeghini e Gino Rossi ai trevigiani e ai veronesi. Tutti hanno guardato i francesi ma sono rimasti veneti, in loro è rimasto l’antico sangue».

Orazio Pigato nasce a Reggio Calabria nel 1896, trascorre sin dall’infanzia la vita a Verona dove muore nel 1966. Inizia a esporre nel 1918 al Museo Civico di Verona; nel 1921 è in una rassegna regionale d’arte di Treviso; nel 1922 è ammesso per giuria alla Biennale; del 1923 la prima partecipazione a Ca’ Pesaro, e poi ancora, nel ‘24 e ’25, Biennale e Ca’ Pesaro. Anche Umberto Boccioni era nato a Reggio Calabria e morto a Chievo, Verona, a 33 anni, nel 1916. I primi critici insistono sull’ombra lunga dell’ardito Umberto, mentre altri asseriscono che i dipinti giovanili di Pigato, perduti, fossero debitori a un certo post-impressionismo veicolato da Gino Rossi ma visto anche su tele francesi. Guido Perocco, in Pittori di terra veneta (1969), lega Pigato alla lezione di Corot in maniera più convincente. Biasion e Perocco sono coerenti sul posizionamento di Pigato. Costui presenta – scrive Perocco – una “impronta lirico-patetica, “tipicamente veneta” e “stati d’animo di soffuso lirismo […] entro una visione che denuncia un profondo equilibrio e serenità interiore”. Anche Biasion, in chiusura al suo scritto, insiste su come la moralità di Pigato sia in sé artefice dell’opera: «Per esempio, chi ha mai parlato della “classicità” delle composizioni di Pigato? [..] Le mostre attuali serviranno a farlo a conoscere meglio e a dargli il posto che gli spetta nella pittura italiana dal ‘20 al ‘60? È sperabile. E i giovani saranno disposti a capire il lato pittorico e il lato umano dell’opera sua? Un alto ordine morale l’ha regolata ed è da augurarsi possa servire da esempio». 

I giovani, le generazioni nate successivamente al miracolo economico, non sono stati poi così disposti. La sfida era quella di leggere una morale, un’architettura del sentire, attraverso le impalcature del disegno oppure del colore. Come reperire la moralità di una sfumatura di rosa, garrula o corrucciata che sia? Esiste un’amoralità nella saturazione di un verde? Può un grigio differire dall’altro e divenire immorale? Eccome, suggeriscono questi critici veneti gustosamente ingialliti. Un grigio può essere sgargiante, secco, monumentale, umile, estivo, invernale, danaroso, muffoso, stupido, dottorale, frivolo, sepolcrale. Per questo un d’après può essere la nemesi del quadro originario. Pigato domava la sua tavolozza, allevava rosa, grigio, verde e bianco come galline. Ne conosceva l’età, il mangime, usi, bizze e costumi, il sapore delle loro uova. 

Lo spettatore di pittura contemporanea spesso ambisce a incontrare un’opera che gli proponga un’epifania visiva: costui entra in uno stanzone e aspetta che l’opera lo “colpisca”, quasi che il moto dell’attenzione si direzioni dall’opera al fruitore e non viceversa. L’inanimato, a guisa di sanguinosa sirena, richiama col canto l’animato e lo ghermisce. Invertendo il processo si restituirebbe la carica attiva allo spettatore e quella passiva all’opera, e si tornerebbe a comprendere il valore del termine utilizzato da Biasion, disposizione: i giovani “saranno disposti”? Leggere un quadro, leggerlo nell’intimo fino ad arrivare ai valori del suo autore, è una gran fatica, irta di tranelli, giusta. Dinanzi a un quadro, sia esso esposto al poliambulatorio o in galleria, è chiesto di scegliere: leggere l’opera o (pensare di) essere letti da essa? 

Morale: parola bellissima e laica di cui oggi spesso s’impadroniscono eruditi manigoldi conservatori. Dov’è la morale di un pittore?  Utilizzo un appiglio che niente ci azzecca, ma che torna utile all’interno di una fruizione “comunicata” o “popolarizzata” dell’arte come quella attuale: il primo capitolo dell’ultimo libro di Martin Amis, La storia da dentro, si intitola “Etica e morale”. Personaggio tra i personaggi, Saul Bellow racconta una storiella riguardante una chiesa della Rinascita in West Virginia e un predicatore puritano indagato per truffa che frequenta un sex club attingendo dalle elemosine. Bellow spiega che in America i due peccati sono stati percepiti in maniera diversa: «La morale riguarda il sesso, l’etica il denaro» – andare al sex club è immorale, pagarlo con i soldi delle elemosine è non etico. Applico questa differenziazione pop tra etica e morale alla pittura visibile oggigiorno: parte della figurazione contemporanea, con i suoi apparati narrativi travolgenti onirici o realistici volti allo stupore, all’enfasi e alla malia, è spesso etica immorale; le immagini che essa contiene non ledono alcuno, ma cercano di infastidire o meravigliare gli spettatori irritabili o in cerca di straniamento. Proprio perché si è ormai predisposti a immagini etiche e immorali, entrare nella morale del nostro paesaggista veneto è laborioso. Pigato è morale e la morale di Pigato è la serenità, consustanziale alla breve stanchezza che precede la sera, alla mitezza, ai cieli mai azzurri e sempre lattiginosi, pesanti di umidità e polveri, poggiati sui tetti delle case, privi di raggi, stesi.

ARTICOLO n. 76 / 2023

TRECENTOSESSANTASEI MODI DI DIRE CIAO

Pubblichiamo un’anticipazione da A book of days (Bompiani, traduzione di Tiziana Lo Porto), da domani in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Il 20 marzo 2018, equinozio di primavera, ho postato la mia prima foto su Instagram. Mia figlia Jesse mi aveva suggerito di aprire un account Instagram per distinguere il mio da quelli fraudolenti che adescano a mio nome. E poi Jesse trovava che fosse una piattaforma perfetta per me che scrivo e scatto foto tutti i giorni. Così abbiamo creato insieme la pagina. Cercavo un modo per fare sapere alle persone che ero veramente io a contattarle, così ho deciso per un approccio diretto: thisispattismith, questaèpattismith.

Ho usato la mia mano come immagine per la mia prima avventura nel mondo virtuale. 

La mano è una delle icone più antiche, una corrispondenza diretta tra fantasia e messa in atto. L’energia curativa viene incanalata attraverso le nostre mani. Tendiamo una mano in segno di saluto e servizio; solleviamo una mano come promessa. Impronte di mani color ocra, vecchie di migliaia di anni, trovate sulle pareti della grotta Chauvet-Pont d’Arc nel sud-est della Francia, sono state realizzate sputando pigmento rosso su una mano e premendola contro una parete di pietra per dare una qualche dimostrazione di forza, o forse per manifestare una preistorica affermazione dell’io. 

Instagram serve a condividere vecchie e nuove scoperte, festeggiare compleanni, ricordare i defunti e rendere omaggio alla nostra giovinezza. Scrivo le mie didascalie su un taccuino o direttamente sul telefono. Mi sarebbe piaciuto avere una pagina fatta solo di Polaroid, ma da quando hanno smesso di produrre le pellicole, la mia macchina fotografica adesso è una testimone in pensione di viaggi precedenti. Le immagini in questo libro sono Polaroid già esistenti, foto del mio archivio e foto scattate con il cellulare. Scelta singolare per il ventunesimo secolo. 

Anche se la mia macchina fotografica e la particolare atmosfera delle Polaroid mi mancano, apprezzo la duttilità del cellulare. Ho avuto il primo sentore che avrei potuto usare il cellulare in modo artistico grazie ad Annie Leibovitz. Nel 2004 ha scattato una foto di interni con il cellulare e poi l’ha stampata come una piccola immagine a bassa risoluzione. Con disinvoltura ha profetizzato che un giorno sarebbe stato possibile scattare foto dignitose con un telefono. All’epoca non immaginavo che avrei avuto un cellulare, ma ci evolviamo insieme ai tempi che viviamo. Il mio, comprato nel 2010, mi ha permesso di unirmi al collage esplosivo della nostra cultura.

A book of days è un assaggio di come navigo in questa cultura a modo mio. È stato ispirato dal mio account Instagram ma ha un suo carattere. L’ho creato quasi tutto durante la pandemia, nella mia stanza da sola, proiettandomi nel futuro e rispecchiando il passato, la famiglia e una estetica personale coerente.

Le didascalie e le immagini sono le chiavi per sbloccare i pensieri. Ognuno di noi è circondato dal riverbero di altre possibilità. Ricordare i compleanni, compreso il tuo, è una richiesta rivolta agli altri. Un caffè parigino è tutti i caffè, proprio come una lapide può fare da eco ad altre persone compiante e ricordate. Avendo perso io stessa tante persone amate, trovo conforto nel frequentare i cimiteri della gente che amo e ne ho visitati molti, offrendo preghiere, rispetto e gratitudine. Mi sento a mio agio con la storia e ripercorro i passi di chi ha realizzato opere che mi sono state di ispirazione; molti dei post sono dedicati al ricordo. 

Mi sono sentita incoraggiata nel vedere i follower del mio Instagram crescere, dal primo, mia figlia, a oltre un milione. Questo libro, un anno e un giorno (per i nati nel giorno bisestile), è offerto in segno di gratitudine, come luogo di conforto, anche nei momenti più tristi. Ogni giorno è prezioso, perché stiamo ancora respirando, commossi dal modo in cui la luce piove su un alto ramo, o al mattino su un tavolo da lavoro, o sulla lapide scolpita di un poeta amato. 

I social media, nel modo distorto in cui praticano la democrazia, a volte incoraggiano la crudeltà, i commenti reazionari, la disinformazione e il nazionalismo, ma possono anche esserci utili. Sta a noi saper distinguere. La mano compone un messaggio, carezza i capelli di un bambino, tira indietro la freccia e la fa volare. Ecco le mie frecce che puntano al cuore comune delle cose. Ognuna è accompagnata da poche parole, frammenti di oracoli. 

Trecentosessantasei modi di dire ciao.

ARTICOLO n. 75 / 2023

IL PROBLEMA DEL MALE

«Se Dio esiste, da dove [viene] il male? E se non esiste, da dove [viene] il bene?»
Leibniz

Potrei iniziare con un indovinello: qual è il problema filosofico che non è mai bene porsi?

Quello del senso del dolore, su cui ci interroghiamo per lo più quando è presente. Per quel che mi riguarda è tornato ad assillarmi nel corridoietto di una clinica, in attesa di una gastroscopia; è scattato nell’istante in cui l’infermiera mi ha detto che la mia ricetta medica non prevedeva alcuna forma di sedazione. Davanti al mio disappunto, la donna ha tentato di convincermi che farla senza anestesia era una soluzione accettabile e se non mi fossi rifiutato all’istante sarebbe stato interessante scoprire quali argomenti avrebbe tirato fuori per convincermi.

Tempo fa, un amico che ha deciso di sua spontanea volontà di fare la stessa analisi senza anestesia se ne è molto pentito, definendo la sua azione come un folle “machismo interiorizzato”. Non è soltanto una battuta, perché qui gli stereotipi di genere si applicano benissimo: un vero maschio non frigna né si lamenta, ma resiste – stavo per dire “virilmente” – al dolore. Che queste etichette siano per lo più culturali e che vengano scavalcate dalla varietà dei casi individuali è noto, e io che sono un maschio ma frigno e non resisto volentieri al dolore ne sono un esempio. Ma non c’è solo questo e per capire gli influssi culturali del nostro rapporto col dolore non possiamo ignorare la religione locale, anche per chi non la professa. Il cattolicesimo dunque, secondo il quale il dolore non solo è stato voluto da Dio, ma anche vissuto dal figlio, che si è sacrificato per la nostra salvezza. È un’idea che ha portato a una forma di beatificazione del martirio: «La penitenza induce il peccatore a sopportare di buon animo ogni sofferenza». E ancora «La conversione si realizza nella vita quotidiana attraverso […] l’accettazione delle sofferenze […] Prendere la propria croce, ogni giorno, e seguire Gesù è la via più sicura della penitenza. [La sofferenza] ci permette di diventare coeredi di Cristo risorto, dal momento che “partecipiamo alle sue sofferenze” (Rm 8,17):59». Il messaggio è chiaro, ma se può trovare qualche appiglio nel personale medico di fede cattolica, con me non funziona. 

Sappiamo per esperienza che il problema del male è il primo e più urgente delle nostre vite; inoltre include molte questioni decisive che assillano la filosofia: l’ordine del mondo, la sua causa, l’esistenza di Dio… per capire la sofferenza dobbiamo rispondere anche a tutte queste domande. È celebre in merito la posizione di Leibniz, che dando per scontata l’esistenza di un Dio perfetto ne deduce che viviamo nel migliore dei mondi possibili, anche se non sembra. È una posizione dileggiata sin dal Diciottesimo Secolo dunque non infierirò, ma a sua difesa va detto che è l’unica coerente con l’esistenza di un Dio benevolo. Nei suoi saggi di Teodicea Leibniz non si limita a questa celebre osservazione, ma passa in rassegna anche le esigenze di un universo meccanico. In un passo scrive:

«L’uomo, in quanto corpo, rientra totalmente entro i limiti stabiliti dall’ordine della natura, e come fenomeno naturale è sottoposto appunto alle stesse leggi che regolano qualsiasi altro fenomeno naturale, la caduta dei gravi, per esempio, la rivoluzione dei pianeti intorno al sole, oppure i rapporti che si stabiliscono tra una pietra dura (infrangibile) e un bicchiere di vetro (fragile) o tra un gatto (forte) e un topo (debole). È un ordine meccanico al quale nulla si sottrae, e che non può certo essere giudicato con criteri di utilità, ma neppure, a più forte ragione, con criteri morali. Secondo tale ordine nulla è cattivo, ma neppure buono, nulla è brutto, ma neppure bello, nulla è giusto, ma neppure ingiusto ecc. L’ordine naturale delle cose è indifferente a qualsiasi valore».

In un universo retto da inflessibili leggi matematiche, opera del caso o di una necessità puramente geometrica, il male non ha alcuna spiegazione, perché nulla ne ha una. Ma un mondo retto da principi religiosi deve spiegare anche questo sgradito elemento. La domanda ha radici antiche e già i filosofi greci avevano meditato sulla cosa. Epicuro ad esempio si diceva: Se Dio vuole prevenire l’infelicità ma non ne è in grado, allora non è onnipotente. Se è in grado, ma non vuole, allora è malevolo. Se non è in grado né vuole non è un Dio, mentre se è in grado e vuole, perché non lo fa? 

Tutte le religioni hanno sviluppato delle proposte ingegnose, ma davanti all’ipotesi di una gastroscopia senza anestesia (e prima ancora per vari e più acuti dolori) ribadisco il mio rifiuto. La meravigliosa immensità del mondo ha una macchia, il dolore, l’unico elemento inaccettabile dell’infinito. Nonostante le fatiche delle varie teodicee, infatti, non sembra possibile dargli una giustificazione. È per via del libero arbitrio? Al netto dei dubbi sulla sua esistenza, non sempre il male accade per una scelta sbagliata, né ha molto senso una libertà utile solo a rinunciarci per essere pedissequi a delle leggi divine. È un necessario percorso di crescita? Potrebbero essercene di meno atroci e più efficaci, senza contare l’inutilità di uno strumento il cui fine ultimo è darti i mezzi per superare se stesso. È una punizione dunque? Sarebbe sommamente ingiusta, perché la stessa entità che ci punisce ci ha creati imperfetti. È allora un’illusione, come insegna il buddismo? Possibile, ma nulla giustifica l’innegabile esistenza di un’illusione così difficile da abbandonare. È forse il frutto di un meccanismo evolutivo? Potrebbe essere così, ma sebbene ne delinei una possibile causa non offre alcuna giustificazione. Anzi, conferma quel che suggeriva Leopardi sull’infamia della natura.

Una delle storie più belle e inspiegabili legate all’esistenza del male è quella di Giobbe, che a giusta ragione ha appassionato molteplici studiosi e studiose anche fuori dalla teologia. In breve, Giobbe era un uomo ricco e felice con una famiglia altrettanto prospera, ed era a tal punto devoto e ligio agli insegnamenti divini che nessuno avrebbe mai potuto congetturare che il suo bene fosse immeritato. Dio era orgoglioso del suo fedelissimo, finché il diavolo attentò all’onniscienza divina con una scommessa: “vedrai che se gli togli tutto non sarà più così devoto”. Inizia così una serie di disastri per il povero Giobbe, che prima perde tutto il suo bestiame, poi i figli, infine la salute. Ciononostante Giobbe non maledice Dio. Al massimo si lamenta con gli amici, che lo ricoprono di pessimi consigli. Elifaz gli suggerisce che Dio punisce solo i malvagi, dunque Giobbe doveva aver sbagliato qualcosa. Bildad invece lo consola con una tautologia, secondo la quale se Giobbe è giusto, sarà risparmiato dal male, se non è risparmiato, non è giusto. Zofar infine dice a Giobbe che Dio la sa più lunga di lui e che punisce i malvagi. A rimbrottare il trio di sapienti il giovane Elihu, che sostiene che Dio è giusto e fa prosperare i retti. Comprensibilmente insoddisfatto delle risposte, Giobbe interpella direttamente Dio. Lo psicologo Carl Gustav Jung ha offerto una divertente descrizione di questo momento:

«”Fino a quando, Signore, continuerai a tenerti nascosto, arderà come fuoco la tua ira? Ricorda quant’è breve la mia vita. Perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?… Dove sono, Signore, le tue grazie di un tempo, che per la tua fedeltà hai giurato a Davide?”

Rivolto a un essere umano il discorso si sarebbe svolto pressappoco in questi termini: “Adesso controllati, e falla finita con queste collere assurde. È veramente troppo grottesco che uno come te se la prenda talmente con queste piante che, è vero, non vogliono crescere diritte ma, certamente, non senza che anche tu ne sia in parte responsabile. Avresti potuto anche essere un po’ più ragionevole prima e aver cura del giardino che ti sei piantato, invece di calpestarlo tutto ora».

Nella storia biblica Dio appare a Giobbe in un vortice e lo mette a tacere con dei modi che, se non appartenessero all’Eccelso, definiremmo da bullo. In breve gli dice che data l’incomparabile differenza che intercorre tra loro non può capire in alcun modo le sue decisioni. Una risposta che Giobbe accetta (aveva forse scelta?) e che per fortuna oltre a porre fine ai suoi tormenti ne raddoppia la fortuna.

Il filosofo russo Lev Šestov si è interrogato spesso sul problema del male attraverso la bellissima parabola di Giobbe:

«Unde malum? Da dove viene il male? Molte teodicee, con poche variazioni, danno a questa domanda risposte che non soddisfano se non i loro autori (ma li soddisferanno veramente?) e gli amanti di letture amene. Quanto agli altri, le teodicee causano fastidio, e quest’irritazione è direttamente proporzionale all’insistenza con la quale il problema del male assilla ogni individuo».

Nella sua lettura di Spinoza, Šestov ci dice che non è possibile ribellarsi a quello che trascende la nostra volontà, «non si può far sì che la somma degli angoli di un triangolo equivalga a tre retti, che le disgrazie capitino solo ai malvagi e solo i giusti riescano nelle loro imprese, oppure che le cose e gli esseri a cui teniamo non periscano. È impossibile soccorrere l’infelice Giobbe».

L’esistenza del male è una verità evidente e insuperabile. È un fatto a cui possiamo trovare cause, mai una giustificazione. La sua esistenza è eticamente sbagliata, ingiusta, inammissibile – sempre. Come noialtri, anche Giobbe è inseparabile dal suo patimento ed è per questo, almeno per Šestov, che «l’uomo deve rinunciare a tutto ciò che è esistenza individuale e, anzitutto, a se stesso, per orientare il suo pensiero verso ciò che non ha inizio né fine, verso ciò che non nasce né muore.

Rinunciare a se stessi o all’illusione di esserlo è una strada nota alle filosofie orientali come il buddhismo, e, nel suo piccolo, è anche la strada che ci concede un’anestesia. Ma il dolore esiste, illusorio o meno che sia, e rimane il più grande problema metafisico. Non esiste redenzione, giustificazione o consolazione – non c’è scusa che tenga insomma, come dimostra la tautologia che l’esistenza del male è inevitabilmente un male. Lo splendore del mondo è insozzato da un elemento inaccettabile, il dolore, che pur essendo minoritario nell’infinito è ben presente nelle nostre vite. Cancellarne la traccia dalla storia è impossibile e quel che possiamo fare è solo ampliare il nostro sguardo a tal punto da restituire a quest’angolo di mondo la sua reale dimensione: un doloroso, ingiustificabile granello dell’infinito.

ARTICOLO n. 74 / 2023

LA RICERCA FEMMINILE DELL’AMORE

Pubblichiamo un estratto da Comunione di bell books (Il Saggiatore, traduzione di Maria Nadotti) da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Le donne parlano d’amore. Già da bambine capiamo che le conversazioni sull’amore sono una narrazione di genere, un soggetto femminile. Le nostre ossessioni in materia d’amore non cominciano con la prima cotta o la prima caduta.Cominciano con quella prima ammissione che le femmine contano meno dei maschi, che, per quanto brave possiamo essere, agli occhi dell’universo patriarcale non lo saremo mai abbastanza. Nella cultura patriarcale la femminilità ci contrassegna fin dall’inizio come immeritevoli o non altrettanto meritevoli, e non dovrebbe sorprendere che impariamo a preoccuparci maggiormente come ragazze, come donne, del fatto di essere meritevoli d’amore.

Cresciute con madri competitive e colpevolizzanti e padri che non riusciamo mai a soddisfare veramente, oppure in un mondo dove siamo la «perfetta» cocca di papà ma temiamo di perdere la sua approvazione al punto di smettere di mangiare, smettere di crescere perché ci accorgiamo che papà perde interesse, perché percepiamo che non ama le donne, siamo incerte sull’amore. Per conservare il suo amore dobbiamo aggrapparci a ogni costo all’infanzia. Fin da piccolissime le bambine continuano a sentirsi dire, se non dai genitori dalla cultura in cui sono immerse, che devono guadagnarsi il diritto di essere amate – che la «femminilità» non è sufficiente. È questa la prima lezione che viene impartita a una femmina alla scuola del pensiero e dei valori patriarcali. Deve guadagnarsi l’amore. Non le spetta di diritto. Per essere amata deve essere brava. E quel brava è sempre definito da qualcun altro, qualcuno dall’esterno. Scrivendo del rapporto con il proprio papà nel saggio Dancing on My Fathers Shoes (Danzando sulle scarpe di mio padre), Patricia Ruff offre un resoconto accorato di come ha perso la sensazione di essere degna d’amore, di essere apprezzata, confessando: 

«Mia madre mi disse che lui voleva prima di tutto una figlia e non avrebbe potuto essere più felice quando venni al mondo. Perciò ero impreparata quando il mio status di principessa, senza alcun preavviso, fu fatto bruscamente a pezzi, come un foglio di carta strappato da un quaderno. Successe qualcosa che nessuno mi spiegò. […] Non riuscivo a dare voce ai miei sentimenti ed ero senza parole per la rabbia e il dolore causati da quel suo essere d’un tratto fuori portata». 

Preoccupata che la sorella più piccola potesse essere esposta a sua volta alla pena di vedersi rifiutata a livello emotivo, Ruff propone di affrontare insieme il padre: 

«Facemmo irruzione nella loro camera da letto, ci gettammo sul nostro attonito padre, che rimase immobile e senza parole mentre noi lo inondavamo di lacrime, agguantandolo, stringendolo, decise a non mollare. “Papà, per favore abbracciaci, dicci che ci vuoi bene, noi ti vogliamo bene, abbiamo bisogno che tu ci voglia bene” implorammo». 

Il rifiuto e l’abbandono da parte dei padri e delle madri sono lo spazio della mancanza che di solito pone le basi per l’ansia femminile di trovare e conoscere l’amore. Spesso, da piccole, le bambine si sentono amate e al centro dell’attenzione. Più tardi, però, quando sviluppiamo forza di volontà e autonomia di pensiero, scopriamo che il mondo smette di confermarci, che siamo considerate non amabili. È l’intuizione che Madonna Kolbenschlag condivide in Lost in the Land of Oz (Smarrita nel paese di Oz) riguardo alla natura del destino femminile: «In qualche modo, siamo state tutte private dell’amore, delle cure materne – se non dell’amore, allora della sensazione di essere state amate. Sapere che siamo state amate non è abbastanza; dobbiamo sentirlo». Come fa una bambina a credere di essere amata, davvero amata, quando da qualsiasi parte si giri vede che la femminilità è disprezzata? Incapace di modificare la realtà della femminilità, si sforza di migliorarsi, di diventare qualcuno degno d’amore. 

Educate a credere che troviamo noi stesse nel rapporto con gli altri, le femmine imparano presto a cercare l’amore in un mondo al di là del loro cuore. Impariamo fin da piccole che le radici dell’amore sono al di fuori delle nostre possibilità, che per conoscere l’amore dobbiamo essere amate dagli altri. In quanto femmine in una cultura patriarcale, non possiamo determinare il nostro valore personale. Le nostre qualità, il nostro valore, e se possiamo essere amate o no sono sempre cose stabilite da qualcun altro. Prive dei mezzi per dare vita all’amore per noi stesse, ci rivolgiamo agli altri perché ci rendano amabili; desideriamo l’amore e siamo in cerca d’amore. 

Se il movimento femminista contemporaneo ha criticato la svalutazione del femminile che ha inizio nell’infanzia, non è tuttavia riuscito a modificarla. Oggi le bambine crescono in un mondo dove da più parti apprendono che le donne sono uguali agli uomini, ma nella loro infanzia non esiste ancora uno spazio reale per il pensiero e la pratica femminista. 

Oggi le bambine lottano contro il sessismo dei ruoli di genere così come facevano le bambine prima del movimento femminista contemporaneo. Se qua e là alcune correnti di femminismo sostengono quella lotta, il più delle volte le bambine si sentono assediate dai messaggi contraddittori determinati dal fatto di essere nate in un mondo in cui alla liberazione delle donne è stato riconosciuto un piccolo spazio, benché le bambine siano rimaste intrappolate tra le braccia del patriarcato. La riprova di tale intrappolamento è il timore, ampiamente diffuso tra tutte le ragazzine, a prescindere da razza o classe, di non essere amate. 

Nella cultura patriarcale, alla bambina che non si sente amata nella famiglia d’origine, è data un’altra possibilità di dimostrare il proprio valore quando la si incoraggia a cercare l’amore dei maschi. Le cotte e le manie ossessive della scolaretta, il suo desiderio compulsivo dell’attenzione e dell’approvazione maschili, indicano che sta perseguendo correttamente il proprio destino di genere, che è sulla buona strada per diventare la femmina che non può essere nulla senza un uomo. Che sia eterosessuale o omosessuale, la misura in cui anela all’approvazione patriarcale determinerà se è degna di essere amata. Questa è l’insicurezza emotiva che infesta la vita di tutte le femmine nella cultura patriarcale.

Fin dall’inizio, quindi, le femmine sono confuse circa la natura dell’amore. Addestrate in base al falso presupposto che troveremo l’amore nel luogo stesso in cui la femminilità è ritenuta indegna e sistematicamente svalutata, impariamo presto a fingere che l’amore conti più di qualsiasi altra cosa, quando, in effetti, sappiamo che ciò che più conta, anche all’indomani del movimento femminista, è l’approvazione patriarcale. 

Dalla nascita quasi tutte le femmine vivono nel timore di essere abbandonate, che se facciamo un passo fuori dal cerchio approvato non saremo amate.

Data la nostra precoce ossessione di sedurre e compiacere gli altri per affermare il nostro valore, ci perdiamo nel tentativo di essere accettate, incluse, desiderate. Il nostro parlare d’amore è stato perciò prima di tutto un parlare di desiderio. In generale, il movimento femminista non ha modificato l’ossessione femminile per l’amore, né ci ha offerto modi nuovi di pensare a esso. Ci ha detto che saremmo state meglio se avessimo smesso di pensare all’amore, se fossimo riuscite a vivere la nostra vita come se l’amore non avesse alcuna importanza, altrimenti avremmo corso il rischio di diventare parte di una categoria femminile veramente disprezzata: «La donna che ama troppo». Il bello, naturalmente, è che molte di noi non amavano troppo; non amavamo affatto. In realtà eravamo emotivamente bisognose, alla disperata ricerca del riconoscimento (da parte di partner maschili o femminili) che ci avrebbe dimostrato il nostro valore, i nostri meriti, il nostro diritto di essere vive sul pianeta, ed eravamo disposte a tutto pur di ottenerlo. Femmine in una cultura patriarcale, non eravamo schiave dell’amore; la maggior parte di noi era ed è schiava del desiderio – desiderose di un padrone che ci libererà e sosterrà, poiché da sole non riusciamo a sostenerci.

La promessa del femminismo è che si sarebbe creata una cultura in cui avremmo potuto essere libere e conoscere l’amore. Quella promessa, tuttavia, non è stata mantenuta. Molte donne sono ancora confuse e si domandano quale sia il posto dell’amore nella propria vita. Molte di noi non hanno avuto il coraggio di ammettere che «l’amore conta», per paura di essere disprezzate e svergognate dalle donne che sono arrivate al potere in seno al patriarcato tagliando fuori le emozioni, diventando simili agli uomini patriarcali che un tempo criticavamo per la loro freddezza e la loro insensibilità. Il femminismo di potere è solo un altro inganno, in cui le donne possono giocare al patriarca e far finta che il potere che cerchiamo e otteniamo ci liberi. Poiché non abbiamo creato un corpus sostanzioso di opere capaci di insegnare alle bambine e alle donne modi nuovi e visionari di pensare all’amore, assistiamo all’ascesa di una generazione di donne sulla trentina che considerano una debolezza qualsiasi desiderio d’amore, il cui sguardo è concentrato esclusivamente sulla conquista del potere. 

Il patriarcato ha sempre visto l’amore come una faccenda da donne, un lavoro degradato e svalutato. E non si è preoccupato del fatto che le donne non imparassero ad amare, dal momento che gli uomini patriarcali tendono a sostituire l’amore con la cura, il rispetto con la sottomissione. Non avevamo bisogno di un movimento femminista per renderci conto che le femmine sono più propense dei maschi a occuparsi di relazioni, legami e comunità. Il patriarcato ci addestra a questo ruolo. Abbiamo bisogno di un movimento femminista che ci ricordi di continuo che l’amore non può esistere in una situazione di sopraffazione, che l’amore che cerchiamo non possiamo trovarlo finché siamo vincolate e non libere. 

Nel mio primo libro sull’argomento, Tutto sull’amore. Nuove visioni, ho avuto cura di dire più e più volte che le donne non sono intrinsecamente più amorevoli degli uomini, ma che siamo sollecitate a imparare ad amare. Tale incitamento ha fatto da catalizzatore alla nostra ricerca d’amore, spingendoci a esaminare attentamente e a lungo la pratica dell’amore. E ad affrontare la nostra paura di non essere amorevoli, di non essere amate a sufficienza. Nella nostra cultura le donne che più hanno da insegnare a tutti sulla natura dell’amore sono le donne della generazione che ha imparato attraverso la lotta femminista e le terapie fondate sul femminismo che l’amore di sé è la chiave per trovare e conoscere l’amore. 

Noi, donne che amano, siamo parte di una generazione di donne che sono andate oltre i paradigmi patriarcali per trovare se stesse. Il cammino per trovare il nostro vero sé ha richiesto che ci inventassimo un nuovo universo, un universo in cui abbiamo avuto l’ardire di far rinascere la bambina in noi e di accoglierla nella vita, in un mondo in cui nasceva benvenuta, amata e per sempre degna. Amare la bambina in noi ha guarito la ferita che spesso ci portava a cercare l’amore in tutti i posti sbagliati. Per molte di noi la mezza età è stata il momento favoloso in cui abbiamo cominciato a riflettere sull’autentico significato dell’amore nelle nostre vite. Abbiamo cominciato a vedere con chiarezza quanto esso contasse, non le vecchie versioni patriarcali dell’«amore», bensì una comprensione più profonda dell’amore come forza di trasformazione che richiede a ogni individuo affidabilità e responsabilità per nutrire la nostra crescita spirituale. 

Rendiamo testimonianza del fatto che nessuna donna può trovare la libertà se prima non ha trovato il proprio modo di amare. La nostra ricerca dell’amore ci ha portate a capire pienamente il senso della comunione. In The Eros of Everyday Life (L’eros della vita quotidiana) Susan Griffin scrive: 

«Il desiderio di comunione esiste nel corpo. Non è solo per ragioni strategiche che riunirsi ha costituito il fulcro di ogni movimento per il cambiamento sociale. […] Questi incontri erano di per sé la realizzazione di un desiderio che è al cuore delle fantasie umane, il desiderio di collocarsi in una comunità, di rendere la nostra sopravvivenza uno sforzo condiviso, di sentire un rispetto palpabile nei confronti dei legami che ci uniscono e della terra che ci dà sostentamento».

La comunione nell’amore che le nostre anime bramano è la ricerca più eroica e divina che un essere umano possa intraprendere. 

Il fatto che nasciamo in un mondo patriarcale, che prima ci invita a metterci in viaggio verso l’amore e poi pone delle barriere sulla nostra strada, è una delle tragedie della vita. Per le donne anziane è giunto il momento di salvare le bambine e le giovani, di offrire loro una visione dell’amore che le sostenga nel loro cammino. La ricerca dell’amore come ricerca dell’autentico sé affranca. Tutte le donne che hanno l’audacia di seguire il proprio cuore per trovare quell’amore partecipano a una rivoluzione culturale che ritempra le nostre anime e ci permette di vedere con chiarezza il valore e il senso che l’amore ha nella nostra vita. Se l’amore romantico è un tratto cruciale di questo percorso, non lo consideriamo più la sola cosa che conta; esso è, piuttosto, un aspetto del nostro lavoro complessivo per creare legami amorevoli, cerchi d’amore che nutrono e puntellano il benessere collettivo femminile. 

Comunione. La ricerca femminile dell’amore racconta la nostra lotta per conoscere il vero amore e i nostri trionfi. Aggregando la saggezza desunta dalle donne giunte a conoscere l’amore nella mezza età, donne che spesso avevano vagato smarrite in un deserto del cuore per buona parte dell’adolescenza fino alle soglie dei trent’anni, Comunione ci dà modo di cogliere l’esperienza di donne dai trent’anni in su che, da cercatrici sul sentiero dell’amore, strada facendo hanno scoperto nuove visioni, intuizioni risanatrici e memorie di rapimento. 

Questo libro è soprattutto una testimonianza, una celebrazione della gioia che le donne scoprono quando riportiamo la ricerca dell’amore al suo giusto, eroico posto al centro della nostra esistenza. Vorremmo essere amate e vorremmo essere libere. Comunione ci dice in che modo realizzare quel desiderio. 

Raccontando il dolore, la lotta, il lavoro che le donne fanno per superare la paura dell’abbandono e della perdita, in che modo ci spingiamo oltre la passione ferita per aprire i nostri cuori, Comunione ci invita a tornare ogni volta là dove possiamo conoscere la gioia, a tornare e celebrare, per entrare nel cerchio dell’amore.

ARTICOLO n. 73 / 2023

TE LO VUOI FOTTERE IL WEST

Pubblichiamo un estratto dal volume Come li pacci. Un racconto a più voci di dieci anni di Sponz Fest (Baldini+Castoldi) a cura di Luca Sebastiani e Irene Sciacovelli. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Era una ventina di anni fa e andavamo con il fratì, Franco Fiordellisi – detto «Ernest Borgnine» per citare Il mucchio selvaggio di Peckinpah – sopra un vecchio furgone Mercedes 405, un ferro con un vetro di guida ampio come uno schermo in technicolor, senza muso davanti, che sotto mangiava la strada, e che il piccolo rilievo bombato di carrozzeria faceva somigliare al furgone del lattaio. 

Quel mezzo lo battezzammo all’uso dei paesani, che l’autobus, la corriera, il pullman, tutti i mezzi a più posti, li chiamavano indifferenziatamente «il postale», quasi fosse la diligenza da assaltare lungo quei tornanti di frontiera tra civiltà e selvatico. 

Ecco, noi sul postale già una volta ce ne eravamo andati in un viaggio memorabile, cercando musica e musicanti oltre regione, al di là del Vulture, il vulcano spento dal nome di avvoltoio, dietro al quale sorge il sole dalle terre dei basilischi.

Ma poi avevamo stretto il cerchio e sulle note di Pat Garret e Calexico avevamo preso a indagare strade più locali, a volte sterrate, che portano a masserie, a rupi e dirupi, come quella della «ripa spaccata» che una volta fece dire ad Antonietta: «Te lo vuoi fott’ lu West».

Era una strada che passava in mezzo alla rupe da cui partiva la discesa per la Frascineta, dove erano spine, ginestre, rovi e pietre, dove l’erba era poca e bassa, che d’estate diventava secca e d’inverno il fango ti arrivava alle ginocchia dietro ai calci dei muli, e quando arrivavi lì… altro che la conquista del West… te lo vuoi fottere il West! Disse così con la sua arguzia volpina, Antonietta. E ci suonò come un titolo. Un titolo di cui sarebbe stato bello fare un film, un western all’antica, fatto di facce e paesaggi muti, parlato in dialetto calitrano stretto, ma coi sottotitoli in inglese. Che poi, più che un western, sarebbe stato un «estern», che sono contrade queste su cui spira il vento dei Balcani più che quello d’America. Come in quel western fallimentare di Milčo Mančevski, Dust, girato nella Macedonia di Prima della pioggia.

Di tutta questa celluloide sapeva quel paesaggio dal cielo sempre fuggente e mutevole, in cui mandrie di nuvole di animali immaginari pascolano veloci. Branchi nell’azzurro che in un attimo può volgere al nero e portare via tutto nella tempesta livida e nei molinelli d’aria che si alzano da terra, di fronte ai quali bisogna sempre sputare, che è possibile siano anime di morti senza pace che non trovano riposo e poi si buttano in corpo al primo che passa. 

Ecco, quei cieli in cui la luce cambia ogni momento, quei paesaggi che passano dalla quercia al roveto, alla steppa, dalla ginestra al calanco argilloso, dal crepaccio al declivio delle coste granose in cui la bestia nel grano corre nel vento, nascosta tra le messi nella stagione del raccolto; in quei paesaggi, che scene si possono animare, quali nuvole spandere, quali idee e quali pensieri? 

Perché il vuoto dà spazio per prendere il volo e si diventa poi metafisici e allora vale tutto. L’antropologia si mescola con la politica, la gastronomia, la filosofia, il cinema, la religione, il gesto artistico, il «cunto» e la poesia e la musica.

«Sì, ma quali musiche si possono alzare da questa terra insieme alla polvere? Quali frontiere?», ci chiedevamo con Borgnine mentre torcevamo le ruote del postale arando strade sbrecciate per i tornanti che furono di Scatozza – il vecchio e irridente domatore di camion che traghettava vivi, morti e brecciolino tra le draghe dell’Ofanto. Ma poi, perché mettere tutto questo in un film da guardare supini? E se ognuno il film se lo facesse da sé? Con una scenografia del genere basta mettere la musica e ognuno la pellicola se la gira per conto suo. La trama la dettano gli incontri e per ognuno andrà come è destino che vada.

E così, come in un lungo fotogramma, ci vennero incontro davanti al vetro anteriore del postale, le immagini di una panoramica srotolata lungo gli anni a venire. 

Apparvero le vecchie sale da veglioni, le «case dell’Eco», dove i paesani ballano fino a «sponzare», e poi i binari della ferrovia che corre lungo il fiume tra i ponti di ferro e bulloni. Le stazioni abbandonate, gli scali, gli scambi e la ruggine. E poi il treno che riappare su quei binari come un miracolo e i cavalli e gli asini e i muli e le notti di luna e il «mululare» del lupo. E i paesi aggrappati ai picchi come costellazioni. La cometa al rovescio di Cairano, «il paese dei coppoloni», e il Formicoso battuto dai venti e il monte Airola di Andretta, e l’episcopio dei «santandriani scorciacani» e il grande scalo abbandonato sotto le rovine di Conza. L’alta rocca dei morresi, i querceti e i pascoli del «casone dei briganti», dove i seguaci di Carmine Crocco arroccavano, e il «sierro» di San Zaccaria dove è sepolto il tesoro di quei briganti. Il casello abbandonato di San Tommaso sull’Ofanto, l’Aufidus tauriforme di Orazio che sorge da Torella, il paese di Sergio Leone, e va a finire a Barletta, davanti al Bar Conchiglia di Peppe Leone! 

E poi ancora le rovine a cielo aperto dell’abbazia del Goleto, il castello di Bisaccia, la gentile, che vigilia sulla discesa daunia, verso est. 

E da est vedere arrivare la luce dell’alba. E con quale musica fare risuonare quell’alba?

La musica che viene dai Balcani, assieme al sorgere del sole. La fanfara che saluta e fa a pezzi il mattino. 

E poi e poi… quali altre musiche? 

La musica ballabile che fa alzare la polvere. La tarantella, il «bottaculo» e il «luquarè», gli strumenti in disarmo di quei balli ripristinati dai banditi della Banda della Posta, che languidamente trillano i mandolini davanti all’ufficio postale dove fanno la guardia alla pensione. 

E poi la musica tex-mex, l’Arizona, la frontiera, l’atlante subsahariano, il rebetiko e le madinades cretesi, il kasapico e il sirtò. La zampogna, il tamburo, la tammorra e il tamburello. L’ipnosi della trance da Antonio Infantino ad Alfio Antico, e poi il twist cromato dei figli di Celentano e le voci di donne che cantano a sonetto e scacciano il demone meridiano. E poi i mariachi con gli ampi sombreri e le medaglie sulla costa dei calzoni, e i suonatori zingari che le medaglie le vogliono in banconote appiccicate sul petto e tra i pistoni e le corde degli strumenti. Il canto a tenore di Ciccillo che risuona tra la selva e le acque, alla conquista dell’inutile come in Fitzcarraldo, portando l’aria d’opera nelle sale abbandonate e nei fiumi intossicati. 

E le serenate e le lamentazioni funebri, e il canto delle prefiche, e quello del raccolto. E il canto da simposio delle «cumversazioni», che a Calitri fa risuonare le grotte del paese «sottaterra»; e poi la musica suonata e cantata nella barberia del gran sacerdote Giovanni Sicuranza e l’organetto quattro bassi che fa alzare la polvere e unire le voci, e l’acre violino di Matalena. Gli spettri sonori e le voci dei fantasmi del «sentiero della Cupa» e le ninne nanne delle sue creature. Tutte insieme risuonavano. 

Ed ecco, come in una visione, l’eco di queste musiche percorse valloni, cime di monti, letti di fiumi, binari abbandonati, grotte e case di paesi vuoti, cieli, albe e selve. 

Come «li pacci» andava per pozzacchi, laghi e roveti, e tutti rendeva «pacci»…

Davanti a noi, davanti al gran vetro del postale, vedevamo quelle strade deserte affollarsi. Torme di genti accorrevano, andavano a sperdersi, intente a cercare luoghi introvabili, non segnati sulle cartine, in corsa con orari non segnati sull’orologio. Accorrevano per quei tornanti alla fine di agosto. Abbandonavano la certezza dell’autostrada e della statale e si gettavano fuori campo, nella mischia, a quadriglie, a cinquiglie verso «l’incontrè», fino a cadere tutti sponzati… «Sponzati» come il baccalà. 

E questa pellicola che ognuno si sarebbe girata a piacere, sui titoli di testa del vetro del postale illuminato dalle luci di una catena di lampadine colorate, aveva per titolo Sponz Fest.

ARTICOLO n. 72 / 2023

IO E GIULIA, DUE CORPI RIBELLI

Pubblichiamo in anteprima la prefazione a Corpi ribelli (Sperling & Kupfer) a cura di Giulia Paganelli. Ringraziamo Pietro Turano e l’editore per la disponibilità.

Io e Giulia, l’autrice che ha curato questo volume, ci siamo vistə di persona tre volte in tutto, forse due, e abbiamo fatto lunghe telefonate non tanto spesso. Se c’è una cosa però che ho imparato in dieci anni di attivismo è che i corpi dissidenti, non conformi, ribelli, si riconoscono. Ma non basta indossarne uno per riconoscersi, serve anche averne una certa consapevolezza.

Mi spiego meglio: forse sembra controintuitivo, ma spesso – e per tantə di noi è stato così per lungo tempo – non ci si accorge fino in fondo di indossare il corpo che si indossa, o si rifiuta, si nega, oppure si indossano le divise di altrə illudendosi che prendendo le loro parti non saremo oggetto di oppressione. Nei campi di sterminio nazisti alcuni omosessuali, identificati con un triangolo rosa, facevano di tutto pur di avere la stella gialla degli ebrei al posto di quel triangolo rosa. Lo racconta bene Martin Sherman nell’opera teatrale – poi anche cinematografica – Bent. Max e Horst sono due ragazzi omosessuali, ma mentre Horst porta un triangolo rosa cucito sul petto, Max è riuscito ad avere una stella gialla. 

Horst: Come hai fatto ad avere la stella gialla? Max: Sono ebreo.
Horst: Non sei ebreo, sei frocio. (Silenzio.) Max: Non lo volevo. 

Horst: Cosa?
Max: Il triangolo rosa.
Horst: Ah, non lo volevi!…
Max: Sei stato tu a dirmi che era il peggiore.
Horst: Sì, qui sì.
Max: E allora non lo volevo. 

In un momento di intimità fra i due, Max racconta a Horst che i nazisti, prima di consegnargli la stella, hanno voluto la dimostrazione che lui non fosse una checca, costringendolo a penetrare il cadavere di una bambina davanti a loro. 

Max: «Non sono checca.» E loro ridevano. «Datemi una stella gialla.» E loro hanno detto: «Ma certo, facciamolo ebreo. Non è checca». E ridevano. Si divertivano. Ma… io… ho avuto… la mia stella… 

Quello del campo di sterminio è sicuramente un esempio esagerato, ma il processo psicologico che spinge Max a fare di tutto per non passare per «frocio» è simile a quello che si verifica in tante persone, vittime di stigmatizzazione e marginalizzazione per via del loro aspetto, del loro comportamento, delle loro scelte. Penso alle persone LGBTQIA+ contrarie alle manifestazioni del Pride per esempio, ma anche alle persone nere che assumono comportamenti razzisti verso altrə e via discorrendo. In sostanza, il proprio percorso di emancipazione, affermazione, autodeterminazione è faticoso e, a volte, proprio chi subisce una discriminazione cade nel tranello del potere, assecondando o riproducendo gli schemi di cui è vittima, nella speranza di poter essere risparmiatə. Tutto questo per dire che non basta avere un corpo non conforme per comprenderne il peso culturale e renderlo ribelle. Ma se due corpi ribelli si incontrano, si riconoscono.

Quando ho sentito parlare Giulia per la prima volta e poi abbiamo cenato insieme, mi è parso in un certo senso di averla conosciuta molto tempo prima, quando eravamo chiusə ognunə nella propria cameretta e credevamo di essere solə, ma non lo eravamo. Giulia, io e un numero enorme di altri corpi eravamo insieme, connessə, a guardare in silenzio la stessa Luna. 

Due corpi ribelli che si incontrano sanno di condividere molte cose: la stessa esperienza di solitudine, di vergogna e poi di orgoglio. Nel libro Gay Bar, Jeremy Atherton Lin scrive: «Comunità è una parola che sentiamo ripetere di continuo. Spesso suona più che altro come un desiderio». Forse ha ragione, ma allora aveva ragione anche Luca Guadagnino quando, durante la conferenza stampa di Chiamami col tuo nome a Roma, rispose a una domanda dicendo che «l’utopia è la pratica del possibile, quindi quello che ho mostrato esiste eccome». Forse quella che potremmo chiamare comunità dei corpi ribelli è solo il desiderio di una comunità di corpi ribelli, ma se possiamo desiderarla allora significa che esiste davvero, ed è fondata sulle nostre ferite, cicatrici, mutilazioni, singhiozzi, nascondimenti e fughe. Siamo i figli e le figlie della notte, siamo stelle, e se le nostre storie possono provare a nascondere tutto questo, i nostri corpi no.

Il corpo è un fatto, innegabile e determinante. Determina uno spazio ed è manifesto, nel senso che ci permette la manifestazione, ma anche nel senso che si fa manifesto di ciò che scegliamo di esprimere attraverso di lui. Proprio per la sua natura fattuale e determinante, è il mezzo che ci muove nel mondo e ci impone al mondo per quello che siamo, senza possibilità di negazione. Per le stesse ragioni, però, è anche oggetto di predeterminazione, attraverso la quale il mondo ci ricorda quali siano gli standard a cui dobbiamo ambire e tendere, quali siano i corpi validi e anche cosa è necessario che questi rappresentino. Di sovradeterminazione, per cui noi e i nostri ruoli veniamo definiti attraverso la percezione altrui del nostro corpo. Poi, esiste lo strumento dell’autodeterminazione, attraverso cui possiamo rivendicare la nostra identità e il nostro corpo in quanto soggetti politici. 

Perché in un mondo in cui predeterminazione e sovradeterminazione producono una narrazione falsata e discriminante, che si esprime sui corpi e verso i corpi di intere costellazioni «minori», noi possiamo scegliere se utilizzare il nostro corpo come strumento politico o meno, ma non possiamo scegliere se sia politico o meno: volenti o nolenti lo è già, e autodeterminarsi attraverso questo è altrettanto politico e addirittura rivoluzionario. 

Il corpo è anche l’unica cosa che ci appartiene, insieme al tempo presente. La cultura dominante vuole che il potere si conservi e consumi sui corpi-campi di battaglia, promettendo salvezza in cambio del sacrificio dei nostri fratelli e sorelle non conformi. Sotto i nostri occhi accade il controllo sistematico dei corpi e ci viene venduta la possibilità di essere sentinelle armate del sistema. Per la salvezza ci viene venduta anche un’altra cosa che non può appartenerci: il tempo futuro. Se farai questo potrai salvarti, se comprerai questo diventerai chi vuoi essere, se ti reprimi o rinneghi potrai camuffarti sempre meglio.

Gli standard normativi non sono altro che ex voto e indulgenze di fumo sul mercato capitalista e patriarcale, promesse bugiarde e irraggiungibili, funzionali affinché il sistema non venga attaccato e possa conservare il proprio potere, mentre chi non lo ha si fa la guerra per averne un pezzo (a discapito di qualcun altrə). Siccome il corpo è un fatto innegabile, la cultura dominante usa tutti gli strumenti a sua disposizione per educare fin da subito alla normatività e per invisibilizzare ciò che non è conforme. Siccome il corpo è un fatto, quando un corpo non conforme è visibile, va stigmatizzato. Siccome il corpo è un fatto e i corpi ribelli sono manifestazioni materiali di un’alternativa alla cultura dominante, vanno anche delegittimati, perché la loro parola è pericolosa. Luca Starita scrive in Pensiero stupendo

In italiano, la parola «pericolo» è sempre associata a qualcosa di negativo, qualcosa che può risultare nocivo per qualcuno o qualcosa. In realtà, «pericolo» rimanda al latino periculum perior e al verbo greco peirao, che significano «tentare», «provare», «rischiare». In italiano quindi abbiamo nel tempo legato un’accezione più negativa a un termine che di per sé è legato all’idea del cambiamento, del rischio inteso come mobilità e non associato a un senso di impotenza di fronte a esso. 

Siamo dunque corpi ribelli e pericolosi, perché impariamo a muoverci nell’oscurità fra tutto ciò che è stato chiuso nella cantina del mondo; a forza di sfregarci le mani sul corpo abbiamo imparato a farci fuoco e brillare della nostra stessa luce.

Libri come questo, di saggistica divulgativa e partecipata, sono frammenti di luce che proviamo a gettare nel buio. Qui troverete storie di corpi ribelli, alcuni, non tutti, perché ogni corpo è diverso e ogni ribellione è un’esperienza soggettiva, anche se tutte, più di quanto pensiamo, si richiamano. Ogni corpo porta pelli, ferite, sembianze, luci e ombre, lacrime diverse. Vive esigenze, paure, limiti, ambizioni diverse. Per questo a volte i corpi ribelli vengono invisibilizzati, altre vorrebbero essere invisibili, a volte ricordano tutto, altre praticano la dimenticanza. Ogni corpo ribelle si fa manifesto ma non è davvero un manifesto, è soprattutto un corpo, umano, vivo.

ARTICOLO n. 71 / 2023

BOMBAY BEACH HA TROVATO ME

Intervista di Giancarlo Livano D’Arcangelo

Last Stop Before Chocolate Mountain di Susanna Della Sala ha vinto numerosi premi al Festival dei Popoli, ha sfiorato la finalissima ai David di Donatello per il miglior documentario ed è entrato in selezione al Festival di Locarno. Il film racconta la comunità che vive ancora a Bombay Beach, un tempo località balneare tra le più ambite in California, poi caduta in disgrazia a causa di un disastro ambientale. Dove un tempo vi era una ricca economia basata sul turismo di massa, oggi c’è l’ultimo rifugio per reietti e inclassificabili del nostro tempo: c’è chi ha perso un figlio, chi faceva parte di una grande famiglia decaduta, chi deve dimenticare un passato difficile, chi cercava Dio e non l’ha trovato. Cosa portano alla fine della strada donne e uomini in fuga da sé stessi e dal mondo? Con Susanna Della Sala, abbiamo parlato di cinema e realtà, di fughe e ritorni, di frontiere e di baricentri.

Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Susanna, in Last Stop Before Chocolate Mountain racconti una comunità di frontiera, in cui la frontiera è in tutta evidenza non solo un luogo fisico ma soprattutto una condizione dell’anima. È Bombay Beach la metafora perfetta di questa condizione umana di confinamento per i sognatori, per gli “sconfitti” e gli inclassificabili in questo tempo?

Susanna Della Sala: lo è per tutti, non solo gli sconfitti e gli outsider. Anzi, Last Stop non è una storia di sconfitti. La chiamano la cittadina fantasma, eppure questi “fantasmi” si sono rivelati di una vitalità mai incontrata prima, spinti dalla voglia di ricostruire, di creare, di collaborare, di comunicare. Bombay Beach per me non è un luogo fisico in un determinato contesto, rappresenta più un luogo metaforico che racchiude l’esigenza di tutti noi di sentirci parte di qualcosa, di sentirci accettati, di poter ricostruire partendo dalle rovine del nostro passato. È la frontiera della libertà.

G.L.D. Ecco, capisco ancora meglio come mai dal tuo racconto emerge in modo evidente il profondo legame emotivo che hai provato con la gente di Bombay Beach. In un documentario che punta a raccontare l’umanità, l’amore per il proprio oggetto di indagine mi sembra una componente decisiva. Lo hai portato con te dall’Italia o l’hai trovato lì?

S.D.S. Tutti i miei progetti partono sempre da un innamoramento, che sia per un personaggio, una storia, un luogo, un oggetto. Mi sono innamorata di queste persone che sono state per me come dei maestri di vita. Mi hanno insegnato che la vera meta è il modo di vedere le cose. Come si dice: “guardare è facile, vedere è un’arte”. Ecco, questa frase riassume forse il vero tentativo di questo film.  

G.L.D. Qualcuno potrebbe dirti, o forse te l’hanno già detto: l’Italia è un paese denso di storie incredibili, una spirale in cui il ribaltamento del senso è una costante quotidiana. Perché scegliere una storia lontana migliaia di chilometri per esordire alla regia? 

S.D.S. Quanto lontano siamo disposti ad andare per poter trovare un senso di appartenenza, relazioni umane autentiche e la libertà di essere noi stessi? Ai confini del mondo. Non importa il luogo fisico ma come dicevamo prima conta quella sensazione di innamoramento. Ho scoperto questo posto tramite un incontro casuale con uno degli abitanti, posso dire che sia stata fortuna. Anzi, penso che tra simili a un certo punto ci si incontri e Bombay Beach ha trovato me. Non ho scelto un luogo e una storia a tavolino, ma ho drizzato le antenne e quando mi si è palesata questa opportunità l’ho colta, senza dare spazio alla paura. Fare questo film è stata una necessità più che un obbiettivo lavorativo.

G.L.D. È molto stimolante se le due cose coincidono…

S.D.S. Sì, questo luogo si è rivelato “il luogo” per eccellenza che da sempre volevo raccontare, proprio perché è universale. Bombay Beach racchiude tutte le contraddizioni e gli errori dell’essere umano – nel disastro ambientale, nel progetto imprenditoriale fallimentare, in tutte quelle categorie di persone abbandonate a loro stesse – ma è anche un esempio della capacità trasformativa dell’uomo, grazie a un’innata linfa vitale e creativa. E così ci insegna che anche da un terreno arido può fiorire qualcosa e quel qualcosa è spesso indistruttibile. Bombay Beach è un luogo che costringe a fare i conti con noi stessi, ci riporta al nostro passato e ci mette davanti alle nostre responsabilità: non solo di abitanti della Terra (e in quanto tali responsabili del nostro pianeta), ma anche alle responsabilità che abbiamo come genitori, figli, donne e uomini, verso i nostri legami e il nostro futuro. 

G.L.D. Come hai scelto i personaggi a cui dare voce? E come hai conquistato la loro fiducia?

S.D.S. Sono arrivata a Bombay Beach senza richieste e senza pretese, ho vissuto lì per nove mesi e ho finito per farmi un posto all’interno di questa comunità. Lentamente si è creato un rapporto di amicizia molto profondo e di rispetto reciproco. Ancora oggi ci sentiamo di più che con molti miei amici in Italia. 

G.L.D. Immagino non sia stato semplice…

S.D.S. Certo è stato difficile, le persone erano inizialmente impaurite e distanti soprattutto a causa di alcuni film precedenti finiti sul web. Non vogliamo il porno-povertà“, mi dicevano. Non sono stata io a scegliere i personaggi, ma sono stati loro a scegliere me. Io ero lì, con il mio terzo occhio, pronta ad ascoltare. Chi ha voluto mi ha cercato, spinto dall’esigenza di raccontare la propria storia, a volte per esorcizzare i propri traumi e a volte come modo per stare assieme e comunicare. In questo senso il film è nato in maniera spontanea e collettiva proprio come sono nate le innumerevoli opere d’arte di chi popola Bombay Beach. 

G.L.D. Hai un metodo prestabilito per rappresentare ciò che accade sotto il tuo sguardo?

S.D.S. Il mio metodo di approccio a questo film è stato quello di lasciare libertà e quello di non imporre il mio sguardo, la macchina da ripresa o un linguaggio definito che secondo me alla lunga sarebbe stato limitante. Nel film vediamo i personaggi rivolgersi alla camera o in momenti di vita osservazionali o in interviste più classiche. Bombay Beach è un luogo libero e stravagante, non potevo incatenarlo in un linguaggio unico prestabilito e formale.

G.L.D. Cos’è per te il cinema, cos’è il documentario, cos’è la finzione cinematografica. A Bombay Beach i tuoi protagonisti sembrano cercare un nuovo film da vivere nella propria realtà. 

S.D.S. Per me non c’è differenza tra il genere e il mezzo, che può essere quello filmico, fotografico, pittorico o performativo. Per me il mezzo artistico è una ricerca, una lente di ingrandimento sulla realtà, una riflessione collettiva. 

G.L.D. Io credo che una delle funzioni del documentario, a prescindere naturalmente dagli obiettivi estetici, sia la conservazione della memoria. Noi siamo abituati a dare alla memoria un alto valore morale, se non addirittura proprietà taumaturgiche e pedagogiche, ma è sempre così? Nella comunità di Bombay Beach c’è qualcuno che ha mostrato invece una gran voglia di non guardarsi indietro e rimuovere il passato?

S.D.S. Nel film uno dei protagonisti, Tao Ruspoli, ci racconta di aver sognato di uccidere il proprio padre (il principe Italiano Dado Ruspoli). Nel raccontarglielo la mattina seguente il padre risponde: “Ma è fantastico! Tutti dovremmo uccidere i nostri padri! La razza umana è spinta dal progresso, dallo scandalo, dal superamento e da una crescita costante, e non da un rapporto bigotto con il passato”. Questo è un aspetto che ci differenzia profondamente dagli americani. In Italia c’è più resistenza alle innovazioni o a qualsiasi iniziativa che susciti un cambiamento. Siamo un popolo di conservatori con un istintivo rifiuto delle novità forse proprio perché subiamo molto il peso della storia e della tradizione. Anche se pensiamo di contemplarlo con ammirazione ne siamo forse in soggezione e rischiamo di chinare la testa. La storia può essere positiva a patto che sia al servizio della vita e non viceversa. L’eccesso di storia può indebolire la forza creatrice dell’essere umano ed è questo che mi hanno insegnato a Bombay Beach. Le rovine si possono ricostruire.

G.L.D. Mi ha colpito molto, il tuo film, e il merito è della tua regia che rende molto bene e poeticamente questa condizione, il ribaltamento tra giorno e notte che sembra regolare i ritmi di vita a Bombay Beach: il giorno è il momento dei ritmi lenti, della riflessione, della pausa. La notte è il momento della vita mondana, delle danze e della vitalità.

S.D.S. Si. La notte, oltre a essere il momento più vitale della vita a Bombay Beach, è anche simbolicamente un momento di trasformazione. Di notte ci si perde e rimangono le stelle, il fuoco, i suoni, il sonno e quindi il sogno. Ho cercato di sottolineare l’aspetto onirico che ci porta su altre frequenze emotive. Ci sono degli aspetti del reale che sono nascosti, legati alla sfera emotiva del luogo e delle persone ma che per me esistono, fanno parte della realtà anche se poco tangibili. È stato proprio questo che ho cercato di indagare. Quelle sensazioni, quella poesia, quella magia e quell’energia propria di quelle persone e del luogo.

G.L.D. La terra che hai raccontato vive nel declino economico dopo un momento di gloria. Un tema, quello del declino, che fa parte del mio bagaglio di scrittore. Quando ho scritto Invisibile è la tua vera patria ciò che mi interessava dei grandi poli industriali italiani dismessi era raccontare l’inesorabile indifferenza della storia, la cinica caducità della gloria, e la conseguente invisibilità repentina di ciò che un tempo era sotto il riflettore della ricchezza o della fama. Come hanno vissuto questo trapasso i superstiti della gloria che fu? 

S.D.S. Alcuni abitanti sono rimasti ancorati al ricordo di una Bombay Beach gloriosa e questo li ha immobilizzati in uno stato di malinconia. Immobilizzandoli anche nel provare a migliorare il luogo stesso. Poi sono arrivati gli artisti che per natura provocano, mettono in discussione, distruggono per creare. Questo ha aiutato quelle persone a immaginarsi un futuro che non ricerca più l’imitazione ma che ricorre a nuove modalità per raggiungere una gloria alternativa. 

G.L.D. Cos’è per te la montagna di Cioccolato?

S.D.S. La Chocolate Mountain è una meta da raggiungere, una sorta di visione paradisiaca che è un miraggio, ma che allo stesso tempo funziona da guida. Quindi – Last Stop – prima della montagna di cioccolato è l’ultima fermata in una terra di passaggio dove potersi mettere in discussione, dove sperimentare, redimere e redimersi prima della realizzazione finale.

ARTICOLO n. 70 / 2023

HO FATTO AMARE PROCIDA ALLE PERSONE CHE AMAVO

In occasione della pubblicazione del volume Scialoja A-Z (Electa) a cura di Eloisa Morra, in libreria dal 12 settembre, pubblichiamo un inedito di Toti Scialoja. Ringraziamo Eloisa Morra per la disponibilità.

Ho fatto amare Procida alle persone che amavo. A Silvio Radiconcini, a Cesare Brandi. Gli ho detto: Lo sai che c’è un posto meraviglioso nel Golfo di Napoli. Divenne un procidano convinto, un procidano fanatico. Un altro appassionato di Procida era un architetto che stava dove avevano stanze e si poteva mangiare; alle Centane, e lui occupava una camera che poi divenne la mia. Andavo sempre lì, vi erano mattonelle incredibili, belle bianche e nere di Vietri. Era Rudovsky, delizioso, un uomo incantevole di uno spirito straordinario, ricordo le mattonelle a forma di piccole mezzelune bianche e nere del primo Ottocento. Poi Elsa Morante. Era un periodo nel quale andavo a Capri a villeggiare; ero molto amico di Moravia e Elsa Morante e le dissi una volta “Ma guarda che Capri è bella, spettacolare, incredibile, al di là di ogni racconto, però c’è un altro posto di sogno molto più segreto, più sottile, più intimo da scoprire, è dolcissimo e se uno lo scopre rimane incantato: si chiama Procida”. Allora lei si incuriosì, prendemmo un battello da Capri a Procida direttamente; un servizio curioso ogni due-tre giorni. Lei già nel porto con la fila di case, quella merlata a destra, restò incantata e scrisse poi un famoso libro: “L’Isola di Arturo”, Procida. Il mio merito è di averle fatto conoscere Procida. Così a tutti i miei amici pittori, a Afro che addirittura si appassionò a Procida e andava a lavorare lì tutte le estati; prese in affitto una grande casa, non ricordo bene il luogo, una grande casa con terrazzo e fece lì il suo studio. Un pittore italoamericano allora molto conosciuto; adesso un pochino dimenticato: Corrado Marcarelli. Cy Twombly, il famoso pittore americano che viveva a Roma; lo accompagnai a Procida e lui si innamorò di Procida in modo incredibile e andò a vivere in una casa piccola piccola nella baia di Solchiaro e la sua mercantessa venne da lui chiamata da New York e visse per qualche giorno su una specie di cupola di sassi, un frantoio per l’olio, per frantumarlo e conservarlo; con una sola apertura, anche finestra. Fece una festa; siccome i sassi erano irregolari all’interno, mise molte candele accese sulle mensole e ideò lo spazio per la festa. Cy Twombly disse all’affittuario: “Ma qui non c’è un gabinetto”. “Guardi le ho preparato il gabinetto: ho scavato una grande fossa nel campo. C’è una pala e tutta la terra messa a montarozzo; lei fa i suoi bisogni, prende un’altra palettata di terra, in modo che a fine villeggiatura è tutto palettato e concimato”. Questo faceva ridere Cy Twombly. Portai a Procida più volte anche Achille Perilli, Novelli, i miei allievi, Carlo Battaglia, il quale divenne un pittore abbastanza conosciuto. Poi il grande pittore americano Phil Guston con la figlia e la moglie. Mario Mafai entusiasta; stavamo in barca insieme sotto Vivara: “eh caro Toti lo so tu sei giovane, ricordati che fino ai quarant’anni il pittore se la cava bene perché c’è l’istintaccio, ma dopo i quaranta è difficile”; disse questa frase molto commovente; detta questa frase memorabile si mise sulla prua e si tuffò in acqua.  

ARTICOLO n. 69 / 2023

PICCOLE FRAGILITÀ QUOTIDIANE

La temperatura dell'estate

L’uomo aveva passato l’estate nella casa al mare. Quando l’aveva comprata, tre anni prima, non avrebbe mai immaginato di godersi così tanto il suo nuovo bene immobile, settanta metri quadrati disposti al piano terra, oltre al giardinetto. Dall’inizio dell’estate era rimasto quasi sempre steso su un lettino che pareva prelevato da uno stabilimento balneare frequentato da vip. Il lettino era in un angolo del giardinetto, accanto alla rete di recinzione che divideva la proprietà dell’uomo da una delle proprietà confinanti. L’immobile era all’interno di un residence edificato nella seconda metà degli anni Settanta, dieci anni prima che l’uomo nascesse. Il residence era costituito da una serie di villette bifamiliari, che contenevano appartamenti al piano terra e al primo piano, cosicché poteva capitare – e nel caso dell’uomo era accaduto – che un giardinetto fosse al centro degli sguardi di altre quattro proprietà confinanti. Il giardinetto dell’uomo era il cuore di questa porzione di residence.

L’uomo aveva acquistato un ombrellone a palo decentrato, il palo in alluminio grigio sormontato dal telo in poliestere bianco, che durante i pomeriggi assolati irradiava una luce abbagliante verso l’aria ferma attraversata soltanto da moschini e zanzare; ecco la prova che le indicazioni del libretto di istruzioni – trattamento di protezione anti UV – erano vere, il telo attirava tutta la luce disponibile che rimbalzava via, il telo proteggeva l’uomo, scacciava altrove calura e raggi ultravioletti, mitigando la temperatura percepita. 

Il braccio laterale permetteva di inclinare l’ombrellone in rapporto alla posizione del sole, assicurando l’ombra e un po’ di frescura anche nelle giornate più torride. 

Bastava che l’uomo si alzasse dal lettino per girare la manovella, e quei giri di manovella, giorno dopo giorno, avevano segnato l’estate come il sottofondo di un motivetto orecchiabile, e la luce era mutata con il passare delle settimane e in particolare all’inizio di settembre, quando il buio aveva conquistato tre o quattro minuti di ogni giornata, occupazione sottolineata dal cigolio della manovella, segnale della fine di stagione.

E tuttavia la temperatura, anche a settembre, rimaneva al di sopra della media; il prato artificiale del giardinetto – in polietilene e polipropilene – scottava le piante dei piedi, l’uomo passava il tempo sdraiato sul lettino o seduto all’ombra, su una delle due sedie in teak, i piedi appoggiati al tavolino abbinato, lo smartphone tra le mani, la testa china verso il piccolo schermo. Forse l’uomo sentiva la mancanza della moglie, una coetanea con la quale si era sposato una decina di anni prima; dal loro matrimonio erano nate due bambine, una di dieci anni e l’altra di dieci mesi. 

A settembre, la moglie e le figlie erano ritornate in città, ma durante i tre mesi precedenti la donna era andata in spiaggia assieme alle bambine. L’uomo invece non era mai andato in spiaggia, era rimasto nel suo solito spazio ricavato in un angolo del giardinetto, e nessuna delle figlie si era chiesta come mai il padre non andasse in spiaggia, nemmeno la più piccola aveva ripetuto, pa-pa, allungando le braccia verso l’oggetto del suo amore. 

I giorni settembrini erano passati senza le discussioni dei mesi precedenti, discussioni che l’uomo aveva sostenuto con la moglie stremata dalla sua presenza continua nel giardinetto. I litigi avvenivano sulla soglia tra il giardinetto e i settanta metri quadrati, in corrispondenza dello stipite della portafinestra che metteva in comunicazione il soggiorno con il giardinetto; quel punto della casa, osservato dalla finestra di uno dei vicini, era coperto dalla presenza di due albicocchi, che con le loro foglie occultavano l’origine delle discussioni coniugali, come se il tono sempre più alto delle voci, le accuse reciproche, gli insulti, le bestemmie – ripetute per lo più dalla donna, e non dall’uomo – fossero un elemento naturale, il frutto generato da quello stesso venticello che smuoveva le foglie verdi in accordo alle parole, prima della caduta autunnale. 

Ma nonostante fosse settembre, l’autunno pareva ancora lontanissimo, l’uomo si distendeva sul lettino, alternando la visione dello smartphone a una consultazione molto accurata, un’ispezione, del proprio corpo, quasi che il corpo osservato non fosse del tutto suo: il corpo tatuato sulle braccia, sulle gambe, e forse anche in corrispondenza delle caviglie; si scrive forse poiché, osservato dalla finestra di uno dei vicini, erano visibili soltanto il volto, il busto, le gambe fino alle tibie; i malleoli e i piedi erano preclusi allo sguardo. 

L’uomo si difendeva dalla luce con i Rayban da aviatore, la montatura dorata, le lenti blu, che a seconda della torsione della testa ricordavano il mare calmo e cristallino di un dépliant pubblicitario, o l’imbrunimento pomeridiano reale, tipico dell’alto Adriatico.

Il taglio di capelli era simile a quello di molti calciatori: corti, ma non troppo, sulla parte superiore della testa; sfumati sulle tempie e sulla nuca. Un taglio banale ma molto curato, incongruo per un uomo che, all’apparenza, era rimasto chiuso in casa almeno tre mesi. Forse l’uomo aveva ricevuto a domicilio un parrucchiere, che gli aveva sistemato i capelli in soggiorno. 

A settembre, rimasto solo nel vuoto ancora assolato, forse l’uomo sentiva la mancanza della famiglia: dal lettino non vedeva più la figlia maggiore, non vedeva la moglie girare attorno al perimetro del giardinetto spruzzando, con la piccola in braccio, insetticida contro le reti e le siepi divisorie, mentre la bambina indirizzava la mano verso il getto di veleno, credendo fosse un gioco. 

Forse l’uomo sentiva la mancanza delle bestemmie coniugali, la pienezza delle urla domestiche. Quando litigavano, l’accento di entrambi era un miscuglio di Nord e Sud, ma, a seconda dei picchi di intensità, una delle due zone geografiche prendeva il sopravvento; lei, in particolare, aveva un accento bolognese, eppure nell’incrinatura della voce, durante i litigi, rivelava un’inflessione segreta, custodita dentro di sé: un Sud generico, televisivo, blasfemo, le due inflessioni trovavano l’equilibrio perfetto soltanto quando la donna bestemmiava; ecco che allora, il suo banale e personalissimo dio porco, il suo banale e personalissimo dio cane, il suo ancor più banale e personalissimo e sostitutivo dio canta, non erano più davvero soltanto suoi: erano l’Italia, la nazione.

In una calda serata di metà settembre, l’uomo era rimasto da solo al buio, nel giardinetto a stento illuminato dalla luce gialla di una lampada. Oltre alla moglie e ai figli, tutti gli altri villeggianti avevano lasciato il residence. O almeno, così credeva l’uomo, sprofondato nella sedia in teak. Aveva scritto una serie di messaggi, poi era andato in bagno, aveva aperto il rubinetto dell’acqua e composto un numero di telefono azionando il vivavoce, tanto che il pigiare sui numeri si era avvertito in tutta la porzione del residence, così come la voce della moglie. All’inizio la voce non era sembrata proprio quella della moglie, e non soltanto a causa della differente percezione tra una voce ascoltata dal vivo e una voce ascoltata tramite un apparecchio che, grazie alle finestre spalancate a causa del caldo anomalo, rimbombava ogni sillaba, provocando la leggera distorsione rispetto all’originale; la voce della moglie era sembrata diversa anche a causa del tono; la conversazione, infatti, era molto affettuosa, intervallata da continui amò, ripetuti sia da lei sia da lui; quelle loro schermaglie amorevoli erano destabilizzanti, sembravano senza lingua, senza città, senza origine, senza destinazione: parole incuneatesi dentro gli apparecchi, al momento della fabbricazione.

L’affetto telefonico si era alternato a consigli pratici e i consigli pratici avevano riportato la coppia nel mondo.L’uomo aveva chiesto alla moglie delucidazioni a proposito della procedura relativa al suo rientro a casa, in città. Aveva ricevuto una lettera grazie alla quale era autorizzato a uscire dalla casa al mare. Era agli arresti domiciliari, portava il braccialetto elettronico alla caviglia.

La conversazione tra i due coniugi era durata ventisette minuti passati dall’uomo sotto la doccia, un getto di cui si era percepito lo scroscio molto forte, che dalla schiena dell’uomo scendeva verso lo scarico, e forse la donna aveva ripetuto più volte le stesse raccomandazioni poiché la conversazione era stata disturbata dall’acqua entrata nelle orecchie dell’uomo, il quale, non è da escluderlo, teneva gli occhi socchiusi o chiusi, quasi per difendersi dalle parole della donna, e dall’acqua. 

Il 10 aprile 2023, Lunedì dell’Angelo, mi è tornata in mente la storia che ho scritto qua sopra. Avevo un dolore molto forte alla caviglia sinistra. Non riuscivo a camminare o ad appoggiare il piede a terra, e anche restando immobile e sdraiato la caviglia era attraversata da una serie di fitte dolorose, sia al malleolo laterale, sia al mediale. Sono rimasto a letto, non riuscivo a leggere, a scrivere, non riuscivo a guardare un film o un po’ di sport. Guardavo il piede adagiato su due cuscini, il gonfiore doloroso, espanso al di là del mio stesso corpo, e allora ho ripensato al braccialetto elettronico dell’uomo. 

Se l’uomo avesse avuto il mio stesso problema fisico, non avrebbe potuto indossare il braccialetto elettronico. La caviglia era così gonfia che il braccialetto elettronico si sarebbe trasformato in una tortura. Forse la pressione tra il gonfiore e la stretta del dispositivo avrebbe spaccato il braccialetto elettronico, trasformando l’uomo in un evaso. Dovevo avere qualche linea di febbre mentre pensavo alla storia dell’uomo, e mi rimbombavano in testa, a distanza di una decina di mesi, le bestemmie della donna, e, soprattutto, il suono dell’acqua, ventisette minuti di doccia durante una calda serata di settembre. Quanti litri d’acqua servono per una doccia di ventisette minuti? Quanti minuti dura la doccia in un carcere? Quale tipo di reato aveva commesso l’uomo? Furto? Truffa? Ricettazione? Spaccio di droga?

Sette giorni dopo il Lunedì dell’Angelo, ho acceso riluttante l’auto per andare al supermercato e ho guidato con più prudenza del solito, rimpiangendo di non avere il cambio automatico. Ogni volta che premevo la frizione, sentivo una fitta al malleolo, come se avessi qualcosa attorno alla caviglia, qualcosa che appesantiva, indolenzendo non solo il malleolo, ma anche tibia e perone; cambiavo marcia e mi ritornava in mente l’uomo agli arresti domiciliari e quello che ripetevo a proposito dello sguardo nella scrittura: ovvero quello che mi capitava da ragazzo, allorquando, dopo una partita amatoriale di basket, sentivo un dolorino al polso, e ogni volta che cambiavo marcia, quel dolorino si trasferiva dal polso allo sguardo, e influenzava il modo in cui fissavo ciò che accadeva al di là del parabrezza, la mia percezione. 

Stavolta l’epicentro del dolorino era in basso, vicino alla frizione, ma non era un dolorino, era un dolore in potenza lancinante, appena sotterraneo, pronto a manifestarsi.

Ho fatto la spesa e all’uscita, mentre spingevo il carrello nel parcheggio, ho sentito una fitta, che mi ha costretto a una smorfia e ad appoggiarmi al carrello. Ho iniziato a zoppicare trascinando il carrello dalle rotelle cigolanti verso l’auto parcheggiata. Ho sollevato lo sguardo e notato che, accanto a un’auto a pochi metri dalla mia, era fermo un cinquantenne, mi fissava molto interessato alla zoppia e alla mia smorfia sofferente. 

Ho ricambiato lo sguardo, sapendo che nel suo interesse non c’era nulla di caritatevole. Mentre caricavo la spesa nel bagagliaio, è arrivato un vigilante del supermercato e l’uomo interessato alla mia zoppia è andato via. Sono uscito dal parcheggio e, sul bordo della strada, c’era l’auto dell’uomo, ferma, i finestrini abbassati. Anch’io ho abbassato i due finestrini, avevo caldo. Al mio passaggio ho sentito un forte botto, tipico dei ladri-truffatori che da anni usano questo metodo in tutta Italia. Di solito lo usano con anziani e anziane, o con persone fragili. A volte funziona. 

Secondo il truffatore, ero una persona fragile. Dopo il botto si è accodato a pochi centimetri, poi si è accostato mentre procedevamo a trenta all’ora, ha urlato insultandomi, accusandomi di essere la causa del botto. 

Gli ho detto, senza urlare e accelerare, senza chiudere il finestrino: non rompere il cazzo. 

E gli ho mostrato il telefono. È schizzato via, veloce, e nella svolta seguente ha messo la freccia per girare a sinistra, e ho resistito alla tentazione di fotografare la sua auto da dietro, la sua freccia ineccepibile e lampeggiante, non volevo distrarmi alla guida utilizzando il telefono. Bene, ho pensato al semaforo successivo, ecco due cittadini modello, questa è educazione stradale. 

Quando sono ripartito, ho premuto il pedale della frizione e sentito riacutizzarsi la fitta alla quale non avevo mai pensato durante quei pochi secondi precedenti.

Quest’anno, l’uomo al mare non è più agli arresti domiciliari. Dal lunedì al venerdì è fuori casa. La prima figlia ha undici anni, la madre la accusa di non prendersi cura della sorellina, le ripete, ha due anni. A volte, ripete, ha due anni, dio cane. 

Un giorno, rivolgendosi alla bambina più piccola, ha detto, hai due anni di merda. 

La madre sembra identica a ciò che era l’anno scorso: magra, tatuata, abbronzata, proprio come il padre. Non ha perso l’abitudine di urlare e bestemmiare circondata da oggetti costosi, ma a differenza dell’anno scorso urla e bestemmia soprattutto dal lunedì al venerdì, quando il marito è assente. Non ha perso nemmeno l’abitudine di spruzzare l’insetticida contro le reti e le siepi divisorie; prende la figlia in braccio, agita prima dell’uso la bomboletta multinsetto, la bomboletta color fucsia adatta a ogni tipo di insetto, volante e strisciante: spruzza, spruzza, spruzza, spruzza, gira lungo il perimetro come le lancette, il meccanismo di un orologio che si prende tutto il tempo per agire meglio, per uccidere meglio. La figlia minore forse ha capito il senso dei gesti materni ma vuole partecipare fingendo che sia un gioco, e in quell’oscillare tra verità e menzogna sta la perdita di innocenza. La madre inclina la bomboletta spray verso il male invisibile. Quando spruzza nell’aria diffonde una piacevole fragranza fresca, tace e ha il volto rasserenato.

Elimina anche gli insetti che non vedi.

Dal giorno del Lunedì dell’Angelo ho smesso di correre, ignoro quale sia la causa del problema e non voglio saperla: posso solo camminare, conscio che il dolore stia sottotraccia, pronto a manifestarsi anche quando non corro. 

Eppure quanta soddisfazione dopo il tentativo di truffa subito fuori dal supermercato: in quei pochi metri alla guida non ho sentito alcun dolore, non ho sentito più niente, non sapevo nemmeno chi fossi e dove mi trovassi. 

Talvolta, a piccole dosi, un po’ di odio fa bene.

ARTICOLO n. 68 / 2023

VIAGGIO SOLA

La temperatura dell'estate

Qui mi piacerebbe abitare, mi dico ogni volta che passo davanti a una di quelle che chiamo le case barbute – sono case ricoperte di rampicanti, edera o vite americana, che d’autunno virano al rosso, in primavera a un verde tanto tenero da esser quasi violento, e d’estate a un buio bluastro, fresco, da giungla disegnata in un libro per bambini. Mi vedo dentro le stanze ombrose di bosco, fra pareti avviluppate di peduncoli tenaci; sogno di galleggiare nell’aria tinta dei riflessi delle fronde, immagino di seguire sul soffitto, nei tardi pomeriggi dorati, i profili tremuli delle foglie. Mi penso felice. Ma se lo dico a voce alta, che mi piacerebbe abitare in una casa barbuta; se lo dico a voce alta, nella fattispecie, a qualcuno, ricevo sempre la stessa risposta: sì, ma ti immagini quanti insetti? Oppure: ma ti immagini l’umidità. O ancora, dai più pragmatici: ma pensa che fatica la manutenzione. Ti ci vorrebbe pure un giardiniere, qualcuno che sappia come si fa; non ci si può mica improvvisare, con un rampicante così, cominciano la concione; e proseguono poi per un bel pezzo a enumerare gli svantaggi di quelle magnifiche palazzine fronzute che ingenuamente avevo eletto a sfondo ideale per un futuro sognato. 

Il bello è che hanno ragione, e io lo so benissimo. D’altronde non penso che mi potrò mai permettere una casa barbuta, e men che meno un giardiniere per la manutenzione. Di fatto, però, quando le repliche realistiche degli altri la riportano a quello che è, ogni fantasticheria si affloscia su sé stessa, si spegne. Torno a quello che stavo facendo, torno a occuparmi di piccole incombenze prosaiche, mi scordo una volta per tutte i glicini e la penombra delle stanze non mi attira più con l’intensità magnetica di poco prima. Tornano in primo piano le preoccupazioni del giorno, le commissioni da sbrigare, il pensiero del lavoro da finire, le consegne. Torno a essere una partita IVA che si arrabatta e non si sogna nemmeno di assumere un giardiniere addetto ai rampicanti.

Per via del lavoro in cui, per l’appunto, giorno dopo giorno mi arrabatto, trascorro in viaggio, e per la precisione in treno, circa due terzi del mio tempo di veglia. Viaggio sola. Mi piace molto, anche se qualche volta mi prende una gran malinconia, nelle piccole stazioni, quelle in cui l’edicola ha chiuso da anni e rimane lì, gabbiotto sbarrato ricoperto di firme, tag, qualche volta una dedica d’amore, un insulto a qualcuno che non conosco e non conoscerò, perché sono sempre di passaggio. Le piccole stazioni, oltre all’edicola, spesso hanno perso anche il bar; qualche volta c’è un distributore di bibite e merendine che si mangia la moneta da un euro e si blocca, oppure una moneta da un euro non ce l’ho e non c’è nessuno a cui chiedere se ha da cambiare.

Qualche volta aspetto una coincidenza che non arriva, il secondo treno è in ritardo; qualche volta la coincidenza l’ho persa, in ritardo era il primo treno e il secondo invece puntualissimo, e ne devo aspettare un altro che pare non arrivare mai. Allora mi prende una punta di tristezza perché penso che nessuno, sulla faccia della terra, può conoscere la noia di aspettare come la conosce chi l’ha provata una, due, tre, quattro volte, nelle stazioncine di provincia, ed è un pensiero che mi consola e mi raggela insieme; il pensiero del tempo perso, dei cumuli di minuti e ore sbocconcellati da quella forma d’attesa dimessa, per cui, anche a spazientirsi, non cambia niente, nella solitudine da eterna domenica pomeriggio delle piccole stazioni. In piedi sulla banchina del binario 2 – il 3 non esiste –  leggi frasi scritte a pennarello dai ragazzi sulle panchine, lei ama lui, lui è bonissimo, quell’altro è un infame, e ti fai domande perfettamente inutili (chissà come si chiama chi ha scritto questa cosa, chissà se l’ha scritto in segreto o per impressionare qualcuno che stava proprio qui, chissà che giorno era, quanti anni sono passati, quanto resiste una scritta a pennarello?), per ingannare il tempo che lì, però, non si lascia ingannare; resiste, ha una consistenza che non si lascia sciogliere nella distrazione. Capita che passi un merci sferragliando, fa un gran baccano e il sussulto ti fa guadagnare un mezzo minuto; poi torni a ripensare al tempo perso.

Dimentico questo sconforto tipicamente ferroviario quando il treno è in movimento. Quando il treno è in movimento non dico a nessuno le cose che penso mentre guardo fuori dal finestrino, dunque nessuno mi può dire che nella casa che ho avvistato in mezzo ai campi, o alla periferia di una città in cui dovremo fermarci, chissà quanti insetti e quanta umidità, e quanta manutenzione ci vuole. E allora, mentre il treno va fisso gli occhi oltre il finestrino; qualche volta c’è il sole, oppure piove. Qualche altra volta il cielo è grigio, o scolora nel crepuscolo, o nell’alba. Sempre, sotto qualsiasi cielo, faccio lo stesso gioco.

Guardo la campagna che fugge fuori dal vetro, e mi dico che non c’è da stupirsi se il cinema è iniziato con il film di un treno che corre; anche da dentro il treno si vede un film. Guardo la campagna e gli alberi, le colline e i fiumi, ma soprattutto le case. Non è facile, perché scappano velocissime; ma fa parte del gioco. Devo cercare di imprimerle nella retina in una frazione di secondo, quel che basta a fantasticare: di abitarle tutte, tutte quelle che sfilano, case coloniche e cascine, ville o palazzotti, qualcuna poco più di un capanno. Guardo i giardini cintati, che per qualche ragione mi fanno tenerezza, soprattutto quando circondano villette isolate; le aie e i pergolati, le piscine, d’estate splendenti di azzurro, d’inverno coperte dai teli. Un cane che salta dietro il cancello, come se potesse inseguire il treno; un altro che saggiamente se ne resta seduto sull’erba, e guarda i vagoni passare, e chissà cosa pensa, se pensa. Allora io, seduta al mio posto, il computer aperto davanti, perché ho del lavoro da sbrigare, perché quel tempo non lo dovrei perdere, e proprio per questo finisco per dissiparlo, mi immagino di scomparire, di inabissarmi come il treno che entra in galleria, e saltar fuori da tutt’altra parte, riemergere in una vita alternativa, fuori dal vagone, in una di quelle case sconosciute.

Quasi la vita fosse – per il tempo della fantasticheria – non una successione di indicativi, in cui si rincorrono a tappe forzate presente futuro e passato, ma un rigoglio di congiuntivi che si corroborano l’un l’altro, come virgulti di un cespuglio esuberante di possibilità. Così finalmente mi sento risarcita dell’avarizia della vita vera, che esige il sacrificio di mille possibili futuri perché possa aver luogo un unico presente. Nella fantasia non è così, e nel giro di qualche ora di viaggio mi ritrovo ad abitare, senza la fatica di un solo trasloco, dieci case diverse, per lo meno. Case che sicuramente hanno i loro problemi, formiche o umidità o manutenzione; se ci fosse il tempo di realizzare la fantasticheria, basterebbe un attimo e me ne accorgerei, dell’attrito della realtà. E allora capisco una cosa, dopo anni di viaggi, di sogni a occhi aperti, di case viste baluginare e un istante dopo ricordate solo con gli occhi della mente, che guarda mattine di primavera sotto quel certo pergolato, a far colazione e veder passare i treni – treni immaginari che non fanno rumore, perché l’immaginazione non ha bisogno di pagare lo scotto al vero, no?, ma che se confidassi la mia chimera a qualcuno, il rumore tornerebbero a farlo: ti immagini che frastuono, a cento metri dalla ferrovia?, mi direbbero, e ancora una volta l’illusione si sgonfierebbe come un soufflé estratto prematuramente dal forno. Capisco che non vorrei vivere davvero in nessun luogo che non sia quello in cui vivo già; e da cui posso permettermi questo gioco, che non serve a niente, non costa niente, non porta a niente, di guardare le case per un istante solo e concedermi di immaginare vite impossibili, senza che nessuno me lo faccia notare. 

ARTICOLO n. 67 / 2023

FARE L’AMORE CON GENTILE IMPRUDENZA

La temperatura dell'estate

C’è un luogo a Barcellona in cui la vecchia muraglia romana incontra i vizi della contemporaneità.
Si trova nel casco antico della città, che in alcuni punti è sopravvissuto quasi intatto al passare del tempo. Proprio lì, incastrata tra minuscoli viottoli maleodoranti e all’apparenza indistinguibili, si nasconde una piazzetta fiocamente illuminata dai lampioni e incorniciata dagli alberi. Noi la chiamiamo “la piazzetta segreta” perché ogni volta ci dimentichiamo – o fingiamo di dimenticarci – come si chiama davvero. Quando ci viene voglia di raggiungerla dobbiamo sempre reimparare il cammino per arrivarci, tiriamo a indovinare, giochiamo a chi la trova per primo. Costeggiamo la cattedrale lasciandoci piazza Jaume I alle spalle, attraversiamo le antiche torri, scendiamo di appena una baixada e poi, puntualmente, ci perdiamo. 

È proprio questo alone di mistero che circonda quel luogo che riempie di incanto ogni nuovo incontro avvenuto nei suoi pochi metri riempiti da tavolini traballanti. La piazzetta segreta è testimone dell’esistenza di molte storie nate a bassa voce. È a lei che gli amanti affidano le loro inconfessabili promesse d’estate, quelle che si fanno sussurrando mentre tutto sembra possibile, quando le antiche mura riparano appena un poco dal caldo torrido e dagli sguardi curiosi dei turisti che affollano il centro città. Qui gli archi gotici diventano portici sotto ai quali nascondersi per scambiarsi baci appassionati. 

È lì, in quella precisa piazzetta, che ho pensato per la prima volta che l’amore assomigliasse alla follia. Come si fa, mi chiedevo osservando gli amanti con occhi avidi, a innamorarsi d’estate quando il caldo soffocante diventa un monito pronto a ricordarci che non esiste futuro? Come si stringe la mano di uno sconosciuto immaginando di poter costruire mentre si ha l’impressione che il mondo intorno vada in fiamme? Quanta speranza è racchiusa all’interno dei fuochi di cuori ignoranti e incuranti di quella che chiamano “l’estate più fresca del resto della tua vita”?


Mentre ci penso sento un tonfo al cuore. La chiamano eco-ansia ed è una sensazione di paura e impotenza che si prova quando ci si sofferma a pensare allo stato di salute del nostro pianeta. L’eco-ansia ha lo stesso rumore dei sogni infranti: è la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla distruzione inesorabile dei nostri ecosistemi nell’era antropocentrica, è il senso di colpa paralizzante che si insinua dentro di noi quando analizziamo il valore delle nostre scelte ecologiste individuali per limitare i danni dell’imminente apocalisse, è la percezione vivida che il mondo, così come l’abbiamo conosciuto, sia destinato alla morte. 

Secondo il filosofo ambientale Glenn Albrech sono sempre di più gli stati psicoterratici negativi che si scatenano in risposta ai cambiamenti di equilibrio tra umanità e ambiente, e la mia generazione purtroppo ne è la principale vittima. Nel 2021, la rivista Environment International pubblicava un articolo scientifico in cui suggeriva una correlazione tra l’aumento delle alte temperature e il deterioramento del benessere psichico umano, riscontrando un’impennata estiva di ricoveri ospedalieri e visite al pronto soccorso per condizioni come ansia, depressione o schizofrenia, così come un picco di suicidi e omicidi. Quest’idea è ben nota anche nel campo della psicologia, che da anni racconta come i periodi di clima caldo siano tendenzialmente caratterizzati da maggiori esplosioni di violenza e rabbia, sia verso sé stessi che verso gli altri. D’estate il nostro battito cardiaco accelera, il nostro respiro si accorcia, e la nostra capacità di gestire gli sbalzi emotivi associati al disagio si abbassa: diventiamo insomma più impulsivi perché troppo concentrati sulla regolazione del nostro corpo. Io stessa, nonostante durante l’inverno desideri ardentemente l’arrivo del caldo e sia disposta a percorrere anche grandi distanze per ritrovarlo, nei mesi estivi mi sento più irascibile, come se insieme alla terra andassi a fuoco anche io. Questa sensazione aumenta progressivamente di anno in anno, creando solchi profondi come calanchi che erodono la mia stabilità mentale e, insieme a lei, la mia illusione di non star sprofondando nella più totale follia. Così l’estate, un tempo simbolo di libertà e infinite possibilità, oggi mi terrorizza.  

Osservando un’altra volta gli amanti della piazzetta segreta ricordo con tenerezza le mie prime estati spagnole, quando il tepore estivo non faceva paura e insieme a lui sopraggiungeva anche l’illusione dell’amore. Lo aspettavamo con ansia a vent’anni, eccitati e avidi di conoscere il mondo e saggiare i limiti della fugace libertà che ci offrivano quei mesi di pausa. Io accoglievo con gioia il caldo asciutto di Madrid che annunciava il suo arrivo con aliti di vento roventi che non spettinavano mai i capelli. Ero spensierata, piena di vita e ottimista, e ai primi canti di rondine diventavo felice. Allora pensavo con ingenuità e un pizzico di presunzione che il cambiamento climatico l’avremmo fermato in tempo, noi della Facoltà di Scienze Politiche di Somosaguas, e in quella credulità di bambina nemmeno l’amore mi incuteva timore, anzi: bramavo di lasciarmi consumare dal desiderio fino a rendermi cenere. 

Ma oggi? Dove resta spazio per l’amore quando tutto sembra essersi perso e l’eco-ansia somiglia più che altro alla resa? Sembra che ormai possiamo affacciarci all’Altro solo in forma mutilata, consci della possibilità che tutto finisca prima ancora di iniziare e che la promessa di passare la vita insieme al proprio essere amato somigli più a una condanna da scontare insieme che a una promessa di futuro. Anche per questo molti dei miei coetanei stanno abbracciando la scelta di non mettere al mondo dei figli al fine di evitar loro la sofferenza che sarebbe vivere in un mondo devastato dall’ebollizione globale. Fare figli è da egoisti, dicono, è inutile esasperare ulteriormente il nostro mondo sovrappopolato con scelte riproduttive irrazionali. È folle sforzarsi di pianificare, edificare e immaginare il domani mentre le nostre certezze sul mondo si sgretolano insieme alle città.   


Eppure, agli amanti della piazzetta tutto questo non sembra interessare. A ben guardarli si direbbe che se ne infischino della paura, della rabbia e dell’odio che gli esplodono intorno, perché la fine del mondo per loro esiste solo nei baci, nei corpi riscaldati, nello sfinimento del desiderio insaziabile. Solo allora mi risuonano in mente le parole di bell hooks nel suo meraviglioso trattato sull’amore e sulla possibilità che esso ci offre per essere catalizzatori del cambiamento.

Nella pratica dell’amore, dice hooks, impariamo a resistere, a prosperare e a guidare in qualsiasi circostanza, e amando cresciamo spiritualmente imparando a immaginarci come parte di un unico organismo con un unico cuore pulsante. Mentre la paura paralizza, l’amore autentico e gentile ci attiva.

Abbracciare un’etica amorosa significa vivere la propria vita prendendosi la responsabilità di qualunque atto, parola e pensiero che formuliamo, senza mai dimenticare l’essenziale interconnessione delle nostre esistenze.Solo comprendendo appieno il significato dell’amore si può davvero metterlo in atto. Esso non include solo l’amore romantico ed erotico, ma anche quello amicale e familiare, così come le spinte amorose ed empatiche che possiamo provare verso uno sconosciuto o qualcuno che appena conosciamo. L’amore in questo senso rappresenta un impegno, un compito, un’abilità da acquisire che richiede determinazione, dedizione e talvolta fatica; tuttavia, esso è l’unica forza politica a cui ancora possiamo affidarci per sperare di salvarci di fronte alle minacce di distruzione e dissoluzione che si prospettano davanti, perché l’amore, e solo l’amore, è ancora in grado di orientare le decisioni collettive sulla base della cura e della creazione attraverso l’incontro con gli altri.

Gli amanti della piazzetta ancora non lo sanno, ma il loro amore che profuma di imprudenza ora si è acceso dei colori della speranza.

Finalmente sorrido.

ARTICOLO n. 66 / 2023

MORIREMO GIOVANI, BRUTTI E GRASSI

La temperatura dell'estate

Per la mia famiglia, andare in vacanza è sempre complesso: nostro figlio Andrea ha paura della spiaggia, non ama la campagna e pur di non camminare farebbe carte false. In più, abbiamo due cani, un gatto e una decina di pesciolini che stranamente sopravvivono malgrado la negligenza un po’ di tutti.

«Cosa possiamo fare quest’estate?», chiedo mentre addentiamo un prosciutto caro come una vacanza ai Caraibi e un melone che non sa di niente. Alex torna a Chicago, dove si è trasferita, e farà dei viaggetti con gli amici. Dopo tutto, ha 24 anni e giustamente si fa i fatti suoi. Vera, che di anni ne ha 16, ci ricorda di aver trovato un lavoretto per l’estate e che ha solo tre giorni di ferie, informazione probabilmente falsa, dettata dalla pochissima voglia di stare con noi. Andrea ascolta per la seicento millesima volta James Taylor.

Per paura che io e Ryan insistiamo per andare in vacanza tutti insieme, i ragazzi lasciano la tavola, dopo aver messo il loro piatto nel lavandino, come se la lavastoviglie fosse lì per bellezza. Ma li capisco: anche a me verrebbe voglia di andarmene in camera. Rimaniamo a tavola io e Ryan, in silenzio, poi mi sento pure dire: «Anche tu, che domande fai? È ovvio che pur di non venire in vacanza con noi e Andrea si arruolerebbero nei Marines…».

Il fatto è che io, Ryan e le ragazze sappiamo bene cosa significa fare un viaggio con Andrea. Essendo lui autistico a basso funzionamento, servono molte precauzioni e anche molta pazienza. Come tutte le persone come lui, la giornata di Andrea è strutturata nei minimi particolari: ogni cambiamento, ogni deviazione dalla sua quotidianità gli procura ansia, panico e terrore, perché non la può controllare. È per questo che anni fa comprammo una casetta in campagna, che Andrea ama: da noi alberghi, viaggi, cambiamenti non sono mai percepiti come una vacanza, ma più come un incubo.

Ma indipendentemente da Andrea, andare in spiaggia negli Stati Uniti di solito è un pacco tremendo. Per una persona come me, di sangue puro mediterraneo, passare anche solo qualche ora su quel mare è un incubo. Manca tutto quello che serve per una vera vacanza balneare, anche scarsa.

Prima di tutto bisogna adeguarsi al colore del mare, l’Atlantico, per me che vivo da questa parte. È marroncino opaco, con molte chiazze verdi o marrone scuro delle alghe, sia quelle vive che quelle in decomposizione, che si legano ai piedi di chi, non so perché, è tentato di fare il bagno. La temperatura dell’acqua atlantica in estate non raggiunge i 20 gradi centigradi: è talmente fredda che in alcune parti della costa è meglio indossare una muta, perché se si passano più di dieci minuti in acqua si muore assiderati. Stesse temperature nell’oceano Pacifico: 20 gradi centigradi ad agosto contro i 26, 27 del Mare Nostrum. Già questi due piccoli dettagli bastano e avanzano per decidere di andare in montagna. L’unica speranza di trovare il mare blu e meno ghiacciato è la Florida, con il suo mare del golfo messicano, ma per molti americani è una meta irraggiungibile, per questioni di soldi e, per alcuni, di politica: Ron DeSantis, il governatore, è quasi peggio di Donald Trump. 

Mettiamo pure che si decida di andare comunque al mare, anche per solo una giornata. Nella maggior parte delle coste americane, non esistono stabilimenti balneari, a parte in alcuni alberghi di gran lusso. Questo significa che alla tipica famiglia americana tocca caricare in macchina ombrellone, sedie, asciugamani, bottiglie d’acqua in grande quantità, panini, frutta e snack da mettere nella borsa freezer portatile, tenda, per ripararsi ulteriormente dal sole cocente, giochi da spiaggia, gonfiabili o no, creme varie, le mute e la speranza che un meteorite si scagli in riva al mare per cambiare programma, anche all’ultimo momento. 

Si riempie la macchina di figli, e del minimo indispensabile per non morire assiderati o cotti dal sole, e si arriva a un parcheggio enorme, mille metri quadrati di cemento armato. Temperatura media: 53 gradi centigradi. Temperatura della sabbia: 95 gradi centigradi. A questo punto tocca scaricare la macchina, facendo avanti indietro trentasei volte tra il parcheggio e il posto scelto in spiaggia. Tempo previsto: mezz’ora. Poi si fissa l’ombrellone nella sabbia, si mettono le vivande all’ombra, si monta la tenda, che dopo quattro minuti massimo raggiunge, all’interno, una temperatura insopportabile. Si suda come delle bestie, sapendo perfettamente che non ci si potrà tuffare per via della temperatura ghiacciata e delle alghe che fanno schifo solo a guardarle.  

A questo punto, i bambini frignano e si spera solo che un gabbiano se li porti via: vogliono subito buttarsi, ma prima bisogna mettere la crema, (“L’hai portata tu la crema? Qui non c’è! Ma è possibile che ti dimentichi sempre tutto?”), bisogna capire come indossare ‘sta muta che ogni volta che la vedo mi sale la pressione (“Ah, mi sono dimenticato le mute in macchina, vado a prenderle!”). Immancabilmente, dopo aver messo la muta, a qualcuno scappa la pipì, ma i bagni, se ci sono, sono a tre chilometri di distanza. In questo esatto istante, uno dei genitori (di solito la mamma) perde il controllo di sé e diventa una belva. Ma tiene duro perché “lo si fa per i bambini”.

La sabbia bollente brucia anche con gli infradito, che si squagliano. Si arriva ai bagni, che sono pubblici e dunque piuttosto schifosi. Tempo previsto tra andata e ritorno: circa 37 minuti sotto un sole che neanche a Riad. Finalmente i bambini entrano in acqua. A questo punto partono quei cinque, sei minuti in cui i genitori bisticciano: “Ma che cazzo siamo venuti qui a fare? Se non possiamo permetterci la Florida, andiamo da un’altra parte, no?” “Ma ai bambini piace…”. “Ma chi se ne frega dei bambini! Ci sono piscine comunali bellissime in tutte le zone della città…”.

Dopo sette minuti nell’acqua schifosa, i bambini pieni di sabbia tornano all’accampamento e hanno fame. “Questo panino non mi piace!” “Perché a lei hai dato quello al prosciutto cotto che era per me?” “Hai portato solo l’acqua? Io volevo il succo…”. L’ombrellone continua a volare via perché spesso noi cittadini non siamo in grado di piantarlo bene. Uno frigna, l’altro ha la sabbia nel costume e si lamenta; la piccola piange perché le è caduto il panino che adesso invece che con il prosciutto è con alghe marce e tanta, tantissima sabbia. 

Una come me, che già si irrita ad andare al mare, anche in Sardegna, perché dopo minuti sette si ustiona, rovinandosi così il resto della vacanza, a questo punto, esausta, versa la prima lacrima. Quando il marito nota lo sfinimento e la frustrazione della moglie, dice la frase più sbagliata, l’ultima goccia che fa traboccare il vaso di una giornata di merda: “Perché non vai in macchina per un po’, così stai tranquilla”. Perché? Perché nella macchina ci sono 297 gradi centigradi, e l’ormai ex-moglie si è sempre ripromessa che se proprio le tocca morire, vorrebbe farlo nel suo letto, mentre dorme. La happy family è in spiaggia solo da un’oretta e già il matrimonio è in crisi e i bambini stanno per essere mandati a quel paese. Insomma, una bella gita.

Capisco la meraviglia che provano gli americani, quando vengono in Italia e decidono di andare al mare, azzurro, non ghiacciato e senza alghe; dove ci sono baretto, cabine, ombrelloni, sedie a sdraio, e tutto il resto. Io mi dico: ma quelli che tornano da una vacanza del genere, perché non pensano di aprire uno stabilimento balneare? Gli americani hanno inventato di tutto, anche l’anguria senza semi, e a nessuno è venuto in mente di offrire ai suoi fellow Americans un’esperienza migliore al mare? E invece no: insistono a sacrificare la propria salute mentale e psicofisica e ignorare l’istinto, forte, di abbandonare i figli capricciosi al largo e di scappare in montagna. 

Dopo tanto discutere, quest’anno abbiamo deciso di andare in macchina fino a Chicago, dove abita Alex. Sono mille chilometri circa, e ci fermeremo due volte all’andata, nello Stato di New York e nell’Ohio, e al ritorno passeremo dal Canada. Così Andrea, che ama viaggiare in macchina, è contento. Ryan e io possiamo ascoltarci tutti i podcast che vogliamo, la musica o al limite bisticciare sulle scemenze, tipo: “Non ne posso più di mangiare McDonalds, possiamo fermarci da un’altra parte?” “Ma ad Andrea piace McDonalds…”. “Ah, OK, moriremo giovani, brutti e grassi, però con Andrea contento…”. “La prossima volta sto a casa”, e cose del genere.

ARTICOLO n. 65 / 2023

LA RAGAZZA CHE MI TRASCINA CON SÉ

Giro la chiave. Scirocco artificiale nell’abitacolo: la prima zaffata del climatizzatore è un vento caldo e puzzolente. Pensavo che la macchina l’avessimo venduta da mesi e invece la sto guidando, bestia di lamiera marcita nel sole tonto dell’Estramurale Capruzzi. Secondo l’orologio analogico incastonato sopra la fessura CD della radio sono le 7:30 del mattino. Ma io non mi sveglio mai così presto. 

Fuori dai finestrini opachi e sigillati i marciapiedi sono bianchi e desolati. Le ruote scivolano su Corso Sicilia. Non si chiamava così, questa strada. Contraggo le palpebre per mettere a fuoco la targa della via al primo semaforo rosso. Corso Sicilia, sì, mi sarò sbagliata. Il semaforo diventa verde, ma in questo caso regolare l’incrocio non serve a nulla. Sono sola. La careggiata è sgombra. Ricordo uno scenario simile soltanto in piena pandemia. L’aria condizionata adesso mima l’inverno, anche se dovrebbe essere luglio. Ho cento spilli nell’avambraccio coperto di brina, il mio anello di bigiotteria con la pecten al dito atrofizzato dal freddo. Ancora le 7:30 spaccate, anche se ormai sto parcheggiando. C’è qualcuno vicino a me, ma non c’è nessun altro. 

Mi inoltro tra le siepi lasciandomi il cancello di ingresso alle spalle. La mia migliore amica del liceo si è fratturata una gamba per scavalcarlo nel cuore della notte, quand’eravamo piccole. Cerco il telefono nella tasca anteriore dello zaino perché un pensiero conduce a un altro e dovrei scriverle per dirle guarda, pensa amore mio, sono qui adesso, non è incredibile che i nostri spettri ancora infestino il fogliame? Ma non ho nessuno zaino e la brina sulle mie braccia si è sciolta in gocce d’acqua. 

Il pallore infuocato del Parco 2 Giugno. Oltre gli alberi tisici vedo la colossale insegna del GS che s’è fatta modesta perché sono le mie proporzioni a essere cambiate. Friniscono le cicale e il suono delle scarpe sul pavé si traduce in un sussurro via via più melodioso mentre m’avvicino allo slargo: Avec mes souvenirs / J’ai allumé le feu.

Si scompaginano i parallelepipedi di cespugli e davanti a me si staglia una ruota panoramica che languisce nei trentasei gradi delle 7:30 del mattino, a Bari. C’è il Tagadà. La Nave dei Pirati. Le macchine da scontro e i Calci in Culo. C’è una montagna russa verde e rosa dall’aria assai pericolosa. E due baracchini dei fucili; i fucilini, cosiddetti, o forse sono io a chiamarli così. Eppure, manca qualcosa. Continua a mancare qualcosa. 

«Sei stata puntuale», mi dice: i capelli grossi e neri imbiancati della rena smossa dai miei passi. 
Sotto l’altoparlante del luna park, il sussurro è tuono: C’est payé, balayé, oublié / Je me fous du passé. 
«È molto tempo che non ascolto questa canzone», dico ruotando il mento verso la ragazza. Metto a fuoco le sopracciglia che sono spazzole di setola dura sopra le ciglia turgide, guardiane di iridi verde bottiglia. Sorriso di latte.
«Quale canzone?», mi chiede e ride, mi prende le mani, sta danzando anche se la musica non la sente. 

Mi guardo intorno e ci siamo soltanto io e lei. Non un gabbiotto è presidiato. Eppure, le luminarie delle giostre scintillano a malapena visibili nella luce del giorno, intermettono e chiamano. «C’è qualcuno vicino a me, ma non c’è nessun altro», bisbiglio. 

La ragazza mi trascina con sé sollevando altro terriccio chiaro che mi si appiccica sulle labbra, sui gomiti. Ci avviciniamo ai Calci in Culo e i nostri corpi non proiettano ombre. I seggiolini si muovono in modo dapprima impercettibile, poi vorticoso. Finché si fermano. 
«Sali a fare un giro e vediamo chi tra noi due riesce a prendere il pennacchio», dice la ragazza.

La gomma rossa delle sedute intrecciate a filo mocciola per terra, sciolta dall’arsura: «Mi sporcherò i pantaloni», dico, ma lei scuote la testa e io ubbidisco anche se di nuovo non vedo alcuna persona nel gabbiotto, non ho idea di chi possa stare azionando l’attrazione, non posso credere di essere già stata sparata come un proiettile sopra le chiazze scarlatte di seggiolino liquido, su, nel tremore giallo delle prime ore di una mattina afosa nella città in cui sono nata. La ragazza non c’è, non è salita, mi ha preso in giro, mi fa un cenno dal basso, sono altissima. La mia mano raggiunge il pennacchio che è una bisaccia piena. 

Mi gira la testa. Ora sono a terra. Lei mi chiede di aprire la bisaccia anche se non so come io abbia fatto a scendere. Sento il suo respiro che odora di petrolio mentre ricevo un’extrasistole dal petto. 

Il premio dei Calci in Culo è un completo maschile elegante. Nero. Giacca e pantaloni coordinati in lana, di fattura resistente. Una camicia candida, di cotone leggero, con le maniche corte. 

«Manca qualcosa», commenta afferrando il mio polso e di nuovo sorride. Il sorriso è giallognolo come cagliata, i capelli più corti hanno acquisito una sfumatura olivastra, la faccia è gonfia e lucida mentre mi consegna una canna da pesca che culmina in un cerchio di metallo. «Catturane uno, forza», mi dice con convinzione e io mi sporgo sul chiostro d’acqua lurida su cui galleggiano piccoli animali impagliati: manguste, marmotte, gufi, falchetti con le ali dispiegate per l’eternità.
Pesco una donnola rampante. 
«Bravissima!»: si porta i pugni stretti alle guance la ragazza, che ora sale sulle punte dei piedi per prendere il mio trofeo tra i molti trofei che pendono da ganci da macello, ognuno dei quali mi è familiare per un verso o per l’altro. Un libro su Tutankhamon con molti gemelli – una collezione intera, a dire il vero, di quelle vendute in edicola – e una bottiglia piena di aranciata amara senza zucchero, un’arcata superiore di denti finti, Momendol in confezione intonsa, vecchia edizione de 
La buona terra di Pearl Buck, lavagna bianca con logo di casa farmaceutica, bastoncini di incenso, pile stilo a grappoli. 

La ragazza mi dà, raggiante, una cravatta blu istoriata da germogli celesti. La sclera si rapprende, molle, attorno alle due iridi scure. «Ho scelto bene?». 

Mi brucia la lingua, mi asciugo il sudore attorno al naso con il monte di Venere della mano, la gomma dei seggiolini dei Calci in Culo rappresa sui polpastrelli. «Non è tutto», sospiro. «Non è tutto». 

Pronuncio queste parole e le nostre giunture sono squassate in un anello di latta rovente che fa sopra e sotto, sotto e sopra. Stavolta sull’attrazione è salita anche lei, mi stringe forte le falangi con le dita gelate, il sorriso da cagliata si è fatto fontina, tremano i denti guasti separati da un diastema in cui soffierebbe il vento, se soltanto di vento ne soffiasse in questa mattina di luglio al luna park del Parco 2 Giugno, nella città in cui sono nata e cresciuta. 

Io rido perché di tutte le giostre il Tagadà m’è sempre parsa la più divertente. Rido ma mi accorgo presto del completo di lana nera disabitato, con la cravatta bene annodata, che la ragazza ha messo in forma sulla panchina di fronte alla giostra. E la forma umana disabitata sembra proprio che mi stia osservando, o almeno vegliando, mentre la sagoma della ragazza sta mutando a partire dalla clavicola incassata negli zigomi verde acido sempre più ampi della faccia sempre più rotonda, la chioma ormai rada.  

«Vuoi fare la Nave o vuoi scoprire il prossimo premio?», mi scorta e mi accorgo di come abbia smesso di somigliare al termine che finora ho usato, cioè ragazza.
Non rispondo. È la creatura a decidere. 
«Premio sia», dice e mi porta a sparare. 

I peluche appesi nei fucilini sono i miei peluche, li riconosco. «Ecco dov’era finito il Pisolone», dico tra me e me soffermandomi sui molti musi di pezza espulsi dalle pozze della memoria, alcuni accomodati sulle mensole, altri impiccati. 

«Puoi colpire Mamma Oca, Grubby o Teddy Ruxpin»: la voce della creatura non ha perduto allegrezza, ma ora pare distorta. 

I tre pupazzi parlanti rantolano, come une nenia, quattro lettere in sequenza: p, a p, a. La pallina di piombo viene inghiottita dalla pelliccia dell’orso. 

Sento un rumore simile a un applauso e mi viene recapitato nei palmi un paio di occhiali. Grandi, quadrati, montatura marrone, tartarugata. Li conosco più di ogni altra cosa.
«Adesso hai capito perché sei qui?», chiede la voce distorta a me che non ho il coraggio di alzare lo sguardo. 

Non, rien de rien / Non, je ne regrette rien. 

Le pupille della creatura mi fissano dall’ovale lentigginoso di lepidottero, le antenne corte attente, bocca spalancata, lingua aerografata color pesca da cui gronda un rivolo di saliva. Dai segmenti di invertebrato-giocattolo spuntano cinque paia di zampe e pseudozampe. 

«Adesso prendi il completo, la cravatta e gli occhiali. Depositali qui», continua la bestia puntando il dito contro la sua stessa cassa toracica, una mela di stoffa logora solcata da un varco. Dal tunnel spira maestrale profumato. «Seppellisci il tuo dolore dentro di me». 
«Questo luna park non esiste più, non è così?», chiedo.   
Annuisce.
«Negli anni Ottanta venivo qui con mio papà tutte le domeniche».
«Lo so», risponde il Brucomela. «Conservo il ricordo di tutte le bambine che mi hanno attraversato il cuore».

ARTICOLO n. 64 / 2023

LE MIE LACRIME EVAPORANO

La temperatura dell'estate

Da un decennio faccio finta che non sia estate. Questo perché l’estate italiana è pura cronaca, un canale all-news che alterna barbecue, roghi e stelle cadenti.

Scrivo questo primo paragrafo a inizio giugno e già immagino i dolori dell’estate: scemeranno i titoli che sostituiscono a “catastrofe climatica” la parola “maltempo” e inizieranno le perifrasi per descrivere l’Italia che brucia. Qualcuno in settembre dirà che un’alta percentuale di roghi dolosi è dovuta a “povera gente” che fa danno per ledere il vicino, far crescere gli asparagi selvatici, non annoiarsi, stanare i cinghiali. Gesù, i cinghiali – inizieranno i servizi sui cinghiali nell’Urbe deserta, sui cassonetti che bruciano, sulle code, sulla necessità di idratarsi col gelato gusto frutta ché la crema fa ingrassare, sull’escherichia coli e gli enterococchi nelle acque calde e sporche. Qualche sudato amministratore si mostrerà scandalizzato perché un tedesco in mutande si è tuffato in un canale di Venezia, nella prospettiva di multare persino i bagnanti nei teleri di Gentile Bellini; qualche politico commenterà le azioni estive di Ultima Generazione (che nell’agosto 2022 si incatenò alla Cappella degli Scrovegni, l’unica immagine dolce come la giustizia dell’intera stagione) e lo farà con parole tanto bonarie quanto inascoltabili. I social perderanno l’unica utilità di strumento di divulgazione professionale, per mostrare foto di paradisi naturali che porteranno alcuni a pensare di provare invidia quando no, non la proveranno più, perché l’invidia richiede immaginazione. Poi arriverà l’ecfrasi degli storyteller novecenteschi, i templari della Sammontana: scrittori, poeti, editorialisti, tendenzialmente Millennial, determinati a liricizzare tutto, tovaglie onte, teste di triglia, latte di Coca-Cola tra i cardi, schedine dell’Eurojackpot aggrovigliate alla lattuga di mare. Filtrata dalla loro penna l’estate italiana è un sospiro languido e dorato; la Morte è in ferie, il caldo ci accarezza, tutti sono innamorati. E poi di nuovo cinghiali.

L’estate. Proprio oggi leggo sui quotidiani che la Procura di Padova, la mia adorata città, ha impugnato 33 atti di nascita, dal 2017 a oggi, di figli di coppie omogenitoriali, dichiarandone illegittimo già uno. I bambini si troveranno orfani di un genitore davanti alla legge. I fratelli non saranno più fratelli. Il Procuratore esclude ripercussioni sulla “vita sociale” della bambina a cui è già stato negato il secondo genitore; e la vita interiore, psichica, il simbolico di quella bambina, chi lo tutela quello? Quale estate dovrebbe mai iniziare con una notizia così? 

Inutile dire che c’è l’idea di estate italiana, e l’estate stessa. Ogni ventuno di giugno inizia il dickensiano Canto d’Estate, prendiamo per mano un tizio smunto con i braccioli, lo Spirito dell’estate passata: rivediamo la piazza di campagna piena di passerotti che saltellano tra le chips, oggi sbranati dai gabbiani; di sera corriamo verso il campanile inseguendo il garrito delle rondini, oggi ingollate dai falchi. Con le palpebre socchiuse e impastate di crema solare, udiamo la cantilena del Cocco Bello e il papà sbuffare perché qualche altro bimbo gli ha spruzzato il giornale con l’acqua di mare; il nostro sudore profuma di lenzuola d’albergo e ci innamoriamo di qualsiasi ragazzino che abbia il caschetto di DiCaprio. Il nostro nostalgico amico, lo Spirito, ci dà un bacino e ci si scioglie appresso, lasciandoci alla mercé di un sole antagonista.

L’estate italiana è dei bambini, agli adulti ormai si dovrebbe chiedere solo di arginare i danni e sopravvivere moralmente. E proprio per elargire un consiglio in merito alla sopravvivenza morale ho deciso di unirmi a questa serie estiva dedicata all’idea di temperatura. 

Il mio consiglio: piangere leggendo, piangere copiosamente nella giornata più calda della stagione; affrontare una catarsi che frigga insieme moccio e sudore, questo è l’unico modo per resistere all’Italia che ci si scioglie tra le mani.

Nel giorno torrido dell’estate 2022, la più calda dal 1979 e quella che ha segnato la più grave siccità in Europa nel corso di cinquecento anni, sdraiata in un posto indefinito lungo la costa Est sudavo l’acqua che non avevo bevuto, mi ricoprivo la pelle fototipo 1 di bolle, mentre il naso si intasava poiché leggevo e rileggevo i ricordi di Edith Eva Eger e in particolare la pagina in cui si separa definitivamente dalla madre davanti all’ingresso di Auschwitz. L’anno prima si consumava la medesima scena lungo la costa Ovest con un libro di Mario Tobino, Per le antiche scale, che racconta l’andirivieni in un manicomio lucchese poco dopo la metà del secolo; meno straziante a livello oggettivo, ma commovente per me che sono affettivamente ossessionata dagli alienati. L’estate antecedente era stato il turno di Tutti i viventi di C.E. Morgan, che mi aveva commosso pazzamente ma non ricordo perché, rammento solo che mia cugina chiese: “Cazzo piangi ancora?”. L’anno prima fu la volta di un paginone della nostra migliore scrittrice, la Rosa Matteucci, che ho il privilegio di chiamare amica; non ricordo se per una scena con il padre o in memoria di un infante, fatto sta che le telefonai con voce spezzata e lei, sempre contegnosa, mi liquidò con un “Caretta sto marciando”. Quest’anno penso di essermi bruciata il libro più straziante in maggio, Come d’aria di Ada d’Adamo, la storia della scrittrice, ancor giovane madre malata di cancro e di sua figlia, affetta da una grave patologia. La narrazione piena di grazia dei loro corpi esili, sofferenti e dipendenti, del destino di uno quando sarà privo dell’altro, s’intreccia al pulsare sociopolitico di temi come l’aborto terapeutico, il dopo di noi, le barriere non solo architettoniche, attraversati da queste due creature massimamente femmine.

Ricercare lacrime interpersonali, che esulano dai propri dolori, nei giorni in cui gli italiani si dimenano per celebrare l’idea di estate, offre conforto. Tiene saldi alla vita, impedendo a questo nemico, il nuovo caldo, di bruciare la coscienza. Forse la mia è solo una versione alfabetizzata dell’ideale dell’ostrica di verghiana memoria, il “tenace attaccamento” della povera gente allo “scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere”, la “rassegnazione coraggiosa” all’affanno, quando si è sostenuti da alcuni valori. Forse lo scoglio cui sta attaccata la mia ostrica è il dolore corale, oggi soppiantato dalla sua confusa sorella, la rabbia. 

La rabbia divora se stessa oltre che la mia siesta. Gradi 32, sdraiata sul divano ascolto una voce provenire dalla radio, un dirigente privo di biografia utilizza parole populiste per annientare il concetto di agroecologia. Sento: “tradizione” – mi assopisco pensando che non va bene che persino gli agricoltori abbiano cominciato a starmi sulle palle – “melanzane…”. Zzz. Questo problema dell’essere privi di biografia è penetrato nel mondo dell’arte: artisti bravissimi, privi di biografia. A dover raccontarne la vita dopo i diciotto anni, si elencherebbero le mostre in istituzione; per fortuna che le privazioni infantili spesso corrono in soccorso al discorso biografico, altrimenti costoro sarebbero per la maggior parte grandi professionisti, alla meglio professionisti con vizi. Mi sveglio, qualcheduno su Radio3 parla di Botticelli, ma io ho cominciato a odiare persino Botticelli e pure questo non va affatto bene. Nel mio dormiveglia dittatoriale, sogno di rinchiudere La Nascita di Venere nel deposito degli Uffizi, privando ben tre generazioni di Italiani di quella composizione lassista. L’arte negata è arte politica. Zzz. Un’intervista a un bagnino. Zzz. Il meteo.

Se la temperatura delle estati d’adulta è quella che permette alle lacrime della mia catarsi arrostita di seccarsi sulla pelle, da ragazzina era la temperatura della Resistenza. Al liceo, l’intera classe fuorché la sottoscritta adorava il professore d’italiano. Il prof era borbonico, penso, e dava da sei in su onde poter dire in classe quello che gli pareva. I miei compagni mangiavano la carota, felici di avere un professore così bonario. Questo individuo dell’Italia che fu aveva un programma culturale riassumibile in: Tomasi di Lampedusa, Federico de Roberto, tutti i librettisti d’opera e stop. Di conseguenza la mia scaletta di letture estive doveva compensare le lacune dell’anno scolastico: sotto l’ombrellone si portava Pratolini, Fenoglio, Vittorini, i lenti vagoni dei loro treni, la polvere sulle loro suole. Mi sembra archeologia, l’idea che una ragazzetta veneta litighi su Fontamara con il proprio professore abruzzese, però l’esempio è utile a suggerire l’idea di quanto sia cambiata, almeno per me, la temperatura dell’estate. I venticinque gradi percepiti di allora accompagnavano la mia scaletta estiva di libri utili a conoscere l’Italia magica che mi aveva preceduta, i 35 gradi di oggi accompagnano lo scalone di libri dolenti che aiutano la mia coscienza a rimanere salda, contro ogni canale all-news, contro chi fa spallucce se interrogato sul prelievo dell’acqua per uso agricolo, contro il gelato al pistacchio come unico pasto, contro il mirabolante evento di ritrovarsi un cinghiale nel cassonetto.

ARTICOLO n. 63 / 2023

VUOTI A RENDERE

La temperatura dell’estate

Estate. È una canzone che circola nell’aria fredda dell’inverno. Il brano lo compose Bruno Martino nel 1960, testo di Bruno Brighetti. Titolo, in origine, “Odio l’estate”. Quando Lelio Luttazzi ne fece una parodia, Odio le statue, il verbo, dunque la ripugnanza, venne eliminato. È rimasto nel testo, ha avuto fortuna la melodia, per le versioni meravigliose e dolenti di Chet Baker o di Joao Gilberto. 

Un amore, ovviamente. Estivo e perduto. Con il portoghese virato Brasil ad accentuare il sapore. Un sapore che ciascuno di noi conosce e ritrova, nel freddo di un febbraio, tra il rimpianto e la speranza, perché è quella la stagione, quella la temperatura più densa e colma di memorie. Con ampio, persistente accompagnamento musicale. 

Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso, eccola qui. La cerca Paolo Conte, la cerchiamo un po’ tutti. Un grande fotografo scomparso, Carlo Orsi, verso aprile, ogni anno, ripeteva: “dai che ci facciamo un’altra estate”. L’ha ripetuto sino all’ultimo giugno, convinto di farcela, povera stella mia. Diceva: “Eccola, eccola che arriva”. 

Prepariamoci, dunque, perché tutto può accadere in un pomeriggio azzurro, persino troppo azzurro per noi. È una questione banalmente meteorologica che adesso, con la quantità enorme di sciocche chiacchiere sul caldo, che caldo, non se ne può più, viene un po’ maltrattata nella significanza profonda. Il caldo spoglia, spalanca, apre, permette, illumina, autorizza. Cambia il modo di fare, stare e immaginare. Toglie il telo da una moto, mette il grasso sulla catena di una bici, ripristina un guardaroba. Alleggerisce gli abiti, altri pesi perché il momento della prova costume riguarda anche chi del costume se ne sbatte altamente, figuriamoci della prova.

Cuore caldo, testa calda, sangue caldo, calde lacrime. Picchi, comunque. Di passione, di esuberanza, di emozione. Fanno parte del pacchetto, del viaggio, di una obbligatoria, accurata, delirante ipotesi vacanziera. Vanno su i gradi nel termometro, cresce il desiderio. Di cogliere, finalmente, un’occasione mancata, l’estate scorsa, due estati fa…; di progettare escursioni interminabili, visto che sarà interminabile questo tempo nuovo in arrivo. Un regalo da personalizzare, in relazione alla voglia accantonata per mesi, per una vita; all’età, al godimento di un’altra, metti ultima, stagione felice. 

Nel Nord della Scozia o a Samoa puoi andarci solo lì, quando la fantasia circola in un’afa provvidenziale. Le dita che indugiano davanti a un vecchissimo o nuovissimo numero di telefono, ma dài, ma sì. Si farà vivo un figlio lontano, così come un padre, una madre distratta. Attese, progetti. Sbocciano, al pari dei gelsomini. Emanano un profumo che tira, spinge, moltiplica le aspettative. Un colossale Sabato del Villaggio, inaugurato puntualmente, quando la primavera segnala, via meteo, il passaggio. Aprile, maggio, giugno, luglio. Poi viene la domenica, torrida e fastidiosa, a questo punto. Le piante, i fiori, le nuvole, indicano un nuovo transito. Il culmine dura pochi giorni, ore. Colme di ombre, perché ciò che è stato, soprattutto ciò che non è stato, diventa irreparabile. Si accorciano le giornate e si allungano le malinconie. Da domenica, appunto, con appresso, inesorabile il lunedì. 

Scozia? Macché. Salento, una bolgia. Flirt? Ma dài, cosa vuoi? Giacomino? In Scozia, lui sì, con gli amici. Mentre io… beh, io neanche un prete per chiacchierar.

Mica vero, non per tutti. Non per Giacomino o Giulia, o Marianna che hanno il fisico, l’età, la sfrontatezza di attraversarla, l’estate; di sguazzare in questo sole, di amare e farsi amare, di rischiare un dolore, quel dolore lì, assoluto, da cuore caldo e infranto. Di partire davvero, come immaginato, senza tante balle, uno zaino e si va. I bilanci, dopo, casomai. Molto dopo, perché l’adolescenza, la giovinezza, come l’estate, sono infinite.

Dunque, dipende. Dall’anagrafe, dal coraggio. E, magari, dalla consapevolezza di avere a che fare con la temperatura e la stagione del vuoto. Sta qui il baricentro. Nel vuoto, ecco. Che è il compendio stagionale più certo, abbinato ai 30 gradi. Si spopolano i palazzi, le strade, la città. Vanno. Vanno via tutti, ma dove cazzo vanno? In un altro vuoto, protetto da un ombrellone o da una mulattiera, simile al tuo che resti.

Non ha rilevanza alcuna il dove. È la percezione di un’ora da riempire, di un pomeriggio silente, di un caos gioioso che, in definitiva, non ti riguarda affatto. Così, nello spazio soltanto estivo, con un libro tra le mani, una granita di primo mattino, il cellulare spento, non a caso, insomma in uno stallo acustico improvviso e provvidenziale, si spalanca una voragine vagamente prevista certamente straordinaria. Il caldo, allora, diventa un tappeto, uno sfondo, persino un conforto, mentre incappi in un pensiero che in quel vuoto si fa largo e lì resta, come un salvagente sulla superficie mossa del mare. 

È un invito quasi perentorio alla riflessione, a una lentezza rimossa nella ritmica consueta e quotidiana. È un’occasione in forma di domanda. Su te stesso e sul senso del tuo fare. Su un vizio non necessariamente assurdo, su trascuratezze trattate come innocenti sbadataggini. Sospensioni intime, dunque provviste di implacabili specchi. Una vera vigilia, equivalente alla Vigilia di Natale, l’anno che svolta, come ai tempi della scuola. Il momento dei buoni propositi. Sinceri in quanto segreti, azzardati in relazione alla fatica. Di essere e di far finta di essere. Di peccare e di far finta di farla franca. Di tirare dritto quando sarebbe il momento di osservare, accogliere, dare una mano. Meglio, di più, forse, vedremo. Con il caldo che, invece di esaltare, fa sudare, una gnagnera da sfinimento. 

Sono pause mute e sconcertanti. Sono abissi necessari. Istanti, questi sì, nei quali progettare il viaggio, seguendo una mappa solo interiore, da scansionare con ciò che resta della nostra più onesta vitalità. Un caffè, una birra in meno, un’attenzione in più, una sincerità liberata, lo sguardo che passa da se stessi all’altro, quello là, che anche di me avrà avuto, ha di certo bisogno. Piccoli o enormi proponimenti che, comparendo, giustificano e rilanciano, tirano una riga. Sulla sabbia, sul pavimento, sull’anima di chi, la propria anima, in questo caldo stagnante riesce a far volare.

Il pensiero dell’estate, modestamente, per quanto mi riguarda, riporta a pieno schermo il viaggio di Nanni Moretti con la sua Vespa. Caro Diario, il film. Le immagini contengono quella libertà nota ai vespisti, ai motociclisti da agosto in città; l’odore dell’asfalto molle delle strade periferiche, l’abbandono e la solitudine di chi, dentro appartamenti dimessi e bui, dietro tende sfilacciate e verdi da balcone, sopra letti di ospedale, nel silenzio tremendo di un corridoio da penitenziario, fa i conti con un doppio vuoto. Interiore e agostano, assoluto e dimenticato. Per loro, per chi sa cosa lo aspetta, l’estate rappresenta un supplemento di pena, una condanna al nulla spaventosa. Penultimi che diventano ultimi, ultimi che diventano invisibili. Tagliati fuori da ogni condivisione, da ogni percorso euforico, destinato a fallire o meno non importa. 

Il caldo, qui, diventa un tormento che lo scorrere lento dei giorni amplifica. Quale Sabato del Villaggio? Domenica, si spera, in grave ritardo. In desolata attesa del lunedì. Del momento in cui l’estate degli altri, i vuoti irrisori degli altri, le solitudini relative altrui, avranno termine. Con la debole speranza che un qualche proposito buono, elaborato tra una granita e le pagine di un romanzo, in qualche modo li riguardi. 

A piedi, intanto, senza Vespa. Una camicia azzurra, dopo una doccia tiepida. Ogni prospettiva comparsa in primavera si è dissolta, come previsto da un inconscio allenato all’imbroglio. Meglio, bene così. Lo sguardo per aria, lungo facciate di case che il traffico impediva di osservare. Targhe sulle facciate, a ricordare residenti celebri. Parchi senza bambini, giostre deserte, roba da saltare sul camioncino dei pompieri con la certezza di afferrare il codino sospeso, giro gratis, uno via l’altro, cosa tieni aperto a fare?

Macchie di sudore sulla camicia. Ghiaia che scricchiola. Anziani con il Corriere. Anziani con la badante. Badanti annoiate con anziani che leggono il Corriere da tre ore. Il profumo di una crema solare, spuntato non si sa come e perché, forse una babysitter rimasta senza baby. Arriva, piglia e scarica ai Bagni Scogliera. Odore di vernice fresca, cabina appena ridipinta rosso vivo. Il molo per i tuffi. La mia estate migliore è vecchia di cinquant’anni ed è bellissima ancora adesso. Eccola qui. La intravvedo per un attimo di nuovo, mentre perlustro il vuoto di agosto, riempito dai miei vuoti.

ARTICOLO n. 62 / 2023

PER FORTUNA I NERI MUOIONO SOLO D’ESTATE

La temperatura dell’estate

In edicola, tra una bionda con un sorriso di cera e il nuovo numero di una terribile rivista femminile che in regalo offre alle sue lettrici un mazzo di tarocchi dal Negro, c’è il volto tondo e sorridente di un uomo nero. Sulla copertina della rivista, la sua pelle è lucida. Deve essere morto, perché la foto pubblicata è il tipico ritratto del morto. Si tratta di Frederick Akwasi Adofo, quarant’anni. Sotto una didascalia scritta in caratteri cubitali, rossi, parla di lui. Senzatetto. Immigrato. Clochard. Ucciso da due minorenni di cui non si sa molto. Foto sgranata. Forse l’unica. Lui, benvoluto da tutti. Innocuo. Infantilizzato al fine di creare maggiore trasporto emotivo tra la vittima e il pubblico. Se la gente non vede il nero grosso come un bambinone, non capirà che è morto un uomo. Penseranno solo a un extracomunitario. Invece in questo modo è meglio. Più pietà. Più tenerezza. Un grosso, bambino nero di quarant’anni, con i tipici problemi degli immigrati neri adulti, che oramai però, vista la retorica e i tempi che corrono, non bucano più né lo schermo, né i cuori della gente. Tant’è che la sua esistenza, prima della sua cancellazione, era nota solamente ai volontari e gli operatori che lo avevano sostenuto nel suo percorso per l’ottenimento della licenza media, mentre ora il suo caso veniva reso noto a tutto il Paese, come l’ennesima storia di un nero che muore d’estate, ucciso dai bianchi.

E gli assassini? Dei ragazzini abbandonati a loro stessi di appena sedici anni che postano il video di quella atroce violenza sui social. Come se quelle mazzate date a un senzatetto prima di andare a dormire fossero un rito giornaliero di liberazione da una ferocia che viene raccontata come disumana, ma che di umano e comune ha ogni suo singolo pezzetto. E mentre il ventre della società civile si appresta a espellere i resti di questi giovani abortiti, in pochi si chiedono come mai ci sia questa fretta di prendere le distanze da questi giovani Caini, gli assassini dell’Abele nero.

Saranno questi trentasette gradi e mezzo a farmi poco bene, ma leggere quei caratteri accesi di rosso, che parlano di quell’uomo nero, morto di botte nell’androne di un palazzo, mi dà le vertigini. È una storia che conosco. Una storia che quelli come me si aspettano. Perché ce lo aspettiamo sempre, che cose di questo tipo accadano. Il punto è quando, e come. Ma l’epilogo è sempre lo stesso.

Consapevolezza: conosci la tua casa. Conosci ogni sua stanza. Conosci il tetto, e le finestre che ti proteggono dal Mondo di fuori. Conosci anche il tuo Paese. Che è la tua casa nella diaspora. Misura la sua temperatura, calcola il peso specifico di ogni singola parola che utilizzano per categorizzarti ed etichettarti. In TV, per strada, in fila alle Poste, al supermercato, mentre passeggi. Ogni movimento e reazione inconsulta è un segno, un indicazione della temperatura delle cose. E bisogna stare dietro ai dettagli, se si vogliono prevenire i casini.

Era da un po’ che il clima in Italia non faceva tanto schifo. Né freddo, né caldo. Semplicemente duro, asfissiante, soprattutto nebbioso. L’aria stessa che si respira pesa come una marcia militare, i cui passi avanzano pesanti su un asfalto rovente. Lentamente, adagio, tornano i simboli del fascismo, riproposti in una salsa moderna, eppure così terribilmente vecchia. La nuova tolleranza stabilita dal Governo ha un occhio di riguardo e una mano gentile, solo a favore dei violenti e dei conservatori, che vedono in qualsiasi fluttuazione dell’esistenza una minaccia all’integrità del Paese. È importante quindi che si faccia particolare attenzione ai racconti che si fanno delle minoranze, e al modo in cui le giurie popolari che dalle radio e dalla televisione emettono le loro sentenze sul Mondo che verrà, e che vogliono evitare che arrivi. Le persone nere con un po’ di sale in zucca controllano il polso del Paese, con tutti i suoi battiti. E stanno ad aspettare la prossima mossa. Sanno che quando la temperatura sale, la sacca che contiene la rabbia bianca si riempie per esplodere. Per questo la morte dell’uomo nella foto non mi sorprende. Ho un cerchio alla testa, e una sensazione terribilmente familiare, come se stessi rivivendo lo stesso evento, ma con i dettagli differenti.

Il déjà-vu che sto vivendo è forte. Sono già stata qui, in questo luogo della mia anima, dove mi raccolgo per constatare in silenzio che un’altra persona nera è stata uccisa da una persona bianca. Sembra quasi la formula per una delle tante ricette del Caos. Una formula a cui molti sono così abituati da darla per scontata, al punto da non riuscire nemmeno più a vedere tutto quello che c’è intorno alla cancellazione del corpo di una persona povera, nera, che vegeta sulla soglia di un privilegio al quale non ha alcuna possibilità di accesso. Lui resta e muore in un margine invisibile, scavato da concezioni secolari classiste e razziste, che nonostante l’usura e la sfida del tempo arrivano fino a noi del tutto intatte.  

C’è un motivo per cui quella notizia mi risuona così familiare. Tutto mi rimanda alla morte di Alika Ogorchukwu, il cittadino nigeriano ucciso da Filippo Ferlazzo nel 2022, a Civitanova Marche.

Ricordo perfettamente che per commemorare la sua morte venne indetta una manifestazione antirazzista. Io c’ero. Mi recai a Civitanova Marche con un gruppo di amiche e amici. Parlando con la gente di lì, nessuno voleva cedere all’idea del movente razziale. Ciò che noi, in quanto persone razzializzate, vedevamo con una chiarezza più pura del cristallo, per la gente di lì non era altro che lo spettro di illazioni su un presunto razzismo che a Civitanova Marche, come a Pomigliano d’Arco, non esisteva. Era come se fossimo tutti spettatori di una realtà che, nonostante lo spazio abitato insieme, non condividevamo. 

Non solo non credevano ai motivi razziali dietro l’omicidio di Alika Ogorchukwu, ma ciò che forse più li offendeva nel loro onor, era l’idea che tutto il paese reale li avesse etichettati con l’appellativo di razzisti. Civitanova Marche, la città dove l’indifferenza e il razzismo hanno un ucciso un immigrato disabile. L’onta del razzismo, svuotata del suo significato e potere, e quindi ridotta soltanto a una parola triviale e offensiva, è un’accusa che nemmeno i fascisti accettano.

E a distanza di un anno, con una temperatura che arriva a sfiorare i trentasette gradi, ecco che viene ucciso un altro uomo. Questa volta nel Sud Italia, a Pomigliano d’Arco. Anche lui povero, anche lui nero. Espulso dal circuito dell’accoglienza come una ciste infetta arrivata alla fine del suo ciclo vitale e spedito a vivere per strada, su una panchina, senza nessuna possibilità di negoziare con lo Stato i termini della sua marginalità. 

La storia di Frederick Akwasi Adofo, chiamato dalla gente di Pomigliano d’Arco semplicemente Frederick, il senzatetto che non avrebbe fatto male a una mosca nemmeno se avesse voluto, è fatta di elemosina, e chiacchiere coi passanti. Un uomo povero e disoccupato che, escluso dal circuito dell’accoglienza, si era ritrovato a dormire su una panchina. Per via di queste due condizioni, che non è mai bene si accompagnino insieme, era stato più volte vittima di violenze da parte di sconosciuti. Era già successo, ma, per qualche ragione, qualcuno ha pensato non fosse necessario proteggere un uomo il cui corpo e la cui vita, secondo alcuni, non avrebbe valso mai abbastanza da spingere qualcuno a proteggerlo. Frederick valeva soltanto per chi lo amava, ma i singoli che amano altri singoli non sono sufficienti a proteggere persone come lui. Dunque, chi era quest’uomo? E perché mi sembra di vivere un déjà-vu?  

Vorrei urlare al Mondo intero che ho visto quell’uomo nelle mie visioni fatte di ansia quotidiana. Chi sarà il prossimo? Perché ce ne sono stati altri prima di lui. E gli somigliavano nelle linee generali. Uomini neri poveri cancellati. Uomini neri poveri uccisi a mani nude. Uomini neri poveri che spariscono tra le ceneri di ghetti dati alle fiamme dalla Camorra, che storicamente è portatrice di odio razziale, come dimostra la storia della repressione dei ghetti di Rosarno, o della Strage di Castel Volturno del 2008, in cui sette giovani uomini neri vennero giustiziati dalla Camorra con fucili d’assalto.

Filippo Ferlazzo dice qualcosa di emblematico all’indomani dell’arresto per l’omicidio di Ogorchukwu. Non voleva uccidere, ma solamente “dare una lezione” a quell’uomo nero incivile e maleducato, venuto nel suo Paese per chiedergli l’elemosina. Certo, dicono i cittadini di Civitanova Marche, Alika era un po’ insistente, ma non meritava di morire soffocato dalle sue stesse stampelle. Ci vogliono una forza e una volontà di ferro per uccidere un uomo in quel modo. Non ci può essere casualità alcuna in quel tentativo coloniale di raddrizzare il non raddrizzabile, lo straniero, il negro che vuole restare negro e che con la sua negrezza disturba e deturpa le aiuole, infestando con la sua miseria un panorama fatto di luccichii e altre ossessioni piccolo borghesi, che escludono a priori una tale irruzione della realtà, come quella imposta da un corpo nero disabile e fuori dalle fantasie che promette quel profumo di eterno benessere estivo, che solo le località balneari sanno trattenere tra le loro grinfie. Chissà perché la maleducazione e l’inciviltà che tipicamente si trovano in giro non avevano mai scatenato, prima d’allora, l’ira e la ferocia di Ferlazzo. Mia madre mi diceva di vestirmi sempre bene. E di comportarmi come una signorina. Perché ciò che è concesso a un bianco non viene mai concesso a un nero. Non a caso, l’ordine che vigeva nelle colonie conservava in sé una filosofia terrificante, una politica dell’annientamento fisico che si celava dietro l’intento di insegnare ai non-uomini delle colonie come essere uomini veri simili ai bianchi, e non animali. Anche loro non volevano radere al suolo civiltà secolari, ma insegnare a vivere meglio, alla Occidentale. E così, ecco, il regime coloniale crea Uomini e Donne rinati nel Cristo e nella Patria che li sottomette a suon di mazzate e di discriminazioni. E non conta che nel processo di apprendimento qualcuno muoia o resti lesionato a vita dallo zelo dei professori della strada, che di notte ti prendono a calci in faccia o ti soffocano con una stampella. Il tutto sta nel riuscire a sopravvivere a questo brutale processo di apprendimento che è sì violento, ma per i più necessario ad assurgere al nobile scopo di far capire ai selvaggi dalla pelle cupa come funziona la civiltà in Italia e quanto bisogna incassare per diventare dei cittadini italiani. Degli italiani brava gente. 

ARTICOLO n. 61 / 2023

VENTO STRANO

La temperatura dell’estate

Incontro Jinks per le vie del villaggio, mentre scendo per la cena. È un revenant anche lui, come me, ma di solito è qui fuori stagione. Mi dice Nice weather.

Sappiamo entrambi di cosa si tratta: vento caldo e secco da Nord, che sostituisce il meltemi e andrà a calare fino a diventare un alito appena percepibile, con mare piatto a sera, una superficie madreperlacea, irresistibile. Stanotte faremo molto tardi nelle taverne di questa che è una grande spiaggia di sassi con gettate di cemento. Si annullerà la differenza di temperatura tra noi e il mondo circostante. Lo scambio di calore sarà affidato a una traspirazione asciutta, una sublimazione che scosta gli abiti dalla pelle e la rende liscia anche nei punti dove di solito suda.

Qui conoscono questo vento, che da noi non esiste, ma non sanno darne spiegazione meteo: da dove viene? Se attraversa il mare dovrebbe essere umido. Probabilmente è un’aria leggera e calda del tutto normale – ma questa è terra di meltemi forte – che viene lavorata dalla montagna alle spalle del villaggio, ma in modo diverso dal solito. Il grande sperone roccioso là in alto intercetta l’aria veloce di Nord-Ovest, la comprime e la raffredda, gettandola poi in basso a velocità doppia. Ma prima le sottrae l’umidità e la condensa in una nube perenne, che si straccia lontano sul mare. Stasera la nube non c’è, il cielo del crepuscolo è chiarissimo e intensamente viola, la linea dell’orizzonte tende a scomparire, ad Est il visibile è un’unica manifestazione cromatica, l’acqua è come plastificata, il villaggio è silenzioso. Ci incontriamo al Blue per un Campari surdimensionato con ghiaccio, commentiamo il tempo, il calore, il mare. Lo facciamo a voce bassa, estasiati. Sappiamo che se il tempo non cambia domani sarà dura, ma questo momento, questa notte, sono nostri. 

Non c’è niente di paragonabile a questo su tutta la superficie del pianeta, dice qualcuno che è qui, ma potrebbe essere in un altro caffè, o già sotto la pergola di una taverna a mangiare le solite cose. Il suo essere qui in questo momento è casuale come lo è per me. Ci si conosce, ci si incontra, si condivide l’attaccamento al luogo, di cui si dicono e ridicono le stesse cose da anni, da decenni, con la stessa ammirazione. Ma ciò che ci fa tornare qui non è la bellezza dei luoghi, la trasparenza dell’acqua, la gentilezza della gente del posto, è il vento.  

Veniamo qui per il vento, ma non per il vento di stasera. Torniamo per il meltemi, per stare nel meltemi. In casa col meltemi, sulla riva col meltemi, al caffè sotto le raffiche fredde e asciutte di meltemi. È il vento che si incunea nella valle, accelera, rinfresca e ci salva dal caldo, impedisce di volare alle mosche succhiasangue, rende impraticabile il volo alle zanzare, in spiaggia ci sottrae una buona parte del calore solare, ci romba per ore nelle orecchie finché non ci avvolgiamo una pezza attorno al capo, come beduini. 

Questa è la norma del meltemi, ma stasera è tutto diverso e strano e misteriosamente più lieto e silenzioso. Mi piace il Campari liscio sul ghiaccio con lattina di soda a parte da aggiungere a piacere, dose si diceva abbondante, e una conca di arachidi tostate: dopo qualche minuto comincia ad alterarsi la percezione delle cose. L’alcol per chi lo regge poco è una specie di sostanza psicotropa, rallenta la percezione del tempo. O forse per tutti è così. Per me è certamente così. Bevo da un po’ e il fatto che attorno a me ci siano persone non altera la coscienza di cosa sia stasera la sensazione del mare, la sua continua presenza nella mia mente, il piacere di averlo piatto ai miei piedi, senza un’increspatura, senza la più piccola onda di risacca. L’aria si muove lentamente attorno a noi e le parole, invece di volare via col meltemi, per una volta restano nelle vicinanze, immobili nell’aria per qualche istante, come bolle di sapone: forse per questo parliamo poco, a bassa voce. 

Osservare l’acqua, per ore, giorni, mesi interi è il motivo per cui sono qui, ma è racchiuso in una capsula motivazionale più grande: sono qui perché voglio essere qui, e voglio essere qui per essere qui. Difficile costruire qualcosa di logico attorno alla questione dell’essere qui, anzi del tornare, dell’estenuarsi qui per mesi interi, perso nell’idea di isola e nella prassi insulare, che qui significa stare su un grosso scoglio lontano, sul limitare Sud dell’Egeo, prima del grande intervallo d’acqua che separa la civiltà europea da quella medio-orientale. Qui il meltemi arriva di slancio, in accelerazione lungo un arco che parte verso Sud-Ovest dalle terre di Tessaglia e arriva qui fortissimo per perdersi non so dove. È questo vento fresco il vero confine, il muro d’aria che d’estate ci separa dall’Egitto. È qualcosa di cristallino, di minerale, per l’elargizione generosa di limpidezza, che è quando le ombre si fanno nette e i colori si fanno vividi e i contorni delle cose si definiscono al di là delle nostre stesse capacità di rilevarne la definizione: da qui lo spostamento del visibile verso una dimensione metafisica, potendola noi definire tale perché il concetto fu già descritto e indagato a fondo già molti anni fa e non possiamo fare altro che riconoscerlo e riprenderlo.  

Il sole se n’andato dietro la montagna, niente striature di vento sull’acqua. Si percepiscono lontano strani fermenti, come se il mare frizzasse di qualcosa. Potrebbero essere pesci o pesciolini se non fosse che anche questi fondali sono ormai quasi deserti, ma l’idea che in qualche punto l’acqua ancora brulichi di vita – com’era un tempo, certo, ma qui quasi tutto è cambiato da com’era un tempo, il villaggio non è rimasto fermo al 1975, il mare ha sofferto e seguita a soffrire, le case tradizionali sono state sostituite da palazzine a tre, quattro piani della bruttezza incerta che si produce quando ci si inoltra nel territorio di un linguaggio sconosciuto, in questo caso del costruire alla moderna. L’idea che ci sia ancora vita è confortante in sé e, se il mare qui e là frigge, non è del tutto infondata.

Indico l’area di fermento a un amico seduto lì vicino, esperto subacqueo del luogo. 

Kalamares, dice. 

Kalamares. È qualcosa. Anzi, considerata l’intelligenza dei molluschi, È qualcuno, dico a voce bassa. Nessuno degli astanti sembra rilevare l’osservazione, poi un revenant incallito dice che l’altra notte, sotto la luce gialla del molo, tra la prua di un caicco ormeggiato e i ciottoli della spiaggia, ha visto ragazzini pescare calamari. 

Per il calamaro la luce notturna non è resistibile: in certi giorni di fine estate, quando si radunano lungo la scogliera tra Opsi e Forokli, si va a prenderli la notte con le polpare fosforescenti. Quando li tiri in barca non li vedi. O forse solo io non li vedo per via dei bastoncelli delle mia retina che non lavorano più come si deve: sento solo fischi e sospiri e strani schiocchi da organismo alieno, che è mentre mi spruzza addosso l’inchiostro senza che me ne accorga. Il nero resta lì impresso sui bermuda cargo per tutta l’estate, probabilmente per sempre, come un marchio. 

Oggi all’ombra in terrazzo, il caldo fortissimo rendeva i pastelli a olio meno gestibili, cioè più morbidi, pastosi, con tendenza a spezzarsi, e però più efficaci, dove per efficacia intendo qualcosa di non definibile, un fattore che mi dà gusto nello stenderli e che contribuisce al mistero del perché io faccia quelle carte, dovendo trascinarmi fino a qui i materiali essenziali per farne, a meno che invece per due interi mesi nemmeno li tocchi, com’è accaduto due anni fa, che scrivevo solamente, spendevo l’intero mattino alla stesura di testi di cui non ricordo nulla e smettevo solo quando ero fisicamente e mentalmente stanco e mi mettevo a dormire verso l’una del pomeriggio per poi svegliarmi alle due, andare a mangiare qualcosa e a nuotare nell’acqua fredda. Penso che questi siano i sonni più belli della mia vita. E anche stanotte, quando dovrò spalancare le imposte e dormire completamente nudo, svegliandomi alla luce a alla carezza di freddo dell’alba, penserò che questo tempo mi regala sonni indimenticabili e che dormire è la cosa più bella che c’è.

Ma non escludo che verso le tre, le quattro del mattino potrei svegliarmi in un bagno di sudore e di angoscia pura – cioè priva di cause che non siano l’ignoto che si nasconde nel futuro – e che potrei trascinarmi fino al bagno e, lì mentre piscio, potrei vedere il rosso violento della prima alba dal finestrino con retina anti-insetti e non escludo di uscire sul terrazzo a scambiare calore con l’aria fresca circolante all’esterno. Non escludo poi di tornare e finire il lavoro del sonno, cioè di stare il più possibile disconnesso dal reale, senza riuscire a dissociarmi dalla cattiva abitudine del mio inconscio di produrre brutte situazioni come perdere una nave – quindi un aereo, quindi un ritorno a casa, un levarmi da qui, da questa ipnosi – mentre sto facendo di tutto per perderla, perché non faccio la valigia in tempo. Nella realtà ho visto una persona fare questa cosa per ben due volte, con due navi diverse. Forse viene tutto da lì. Correva giù verso il porto trascinando il trolley mentre la Prevelis alzava la rampa d’imbarco e cominciava a dare motore per portarsi sulle ancore e poi prendere il largo: qui siamo esperti osservatori di manovre, riconosciamo il capitano dallo stile diverso, più elegante/meno elegante, con cui viene eseguito l’attracco. 

Ho comprato guanti sottili di gomma per maneggiare i colori senza dover usare solventi per lavarmi le mani: gestire il rosso è il mio problema, ma naturalmente non è il solo, l’altro problema è la profondità del nero, che è sempre insoddisfacente. In principio è l’impulso quasi irresistibile a stendere un rettangolo rosso usando il pastello di piatto. Il caldo mi aiuta, anzi mi induce a farlo. Tutto il resto del lavoro sta nel cercare di dare al rettangolo il giusto non-senso, accostandolo ad altri oggetti cromatici di cui è necessario decidere sul momento il colore e le eventuali sfumature. Stamane il sudore mi colava lungo la schiena, mi gocciava dalla punta del naso sul tavolo di lavoro esterno che uso per fare le carte. Finivo di nuovo a letto accettando la vita e tutto ciò che mi circondava, i miei anni e le malattie nascoste, il caldo benedetto che ci avvolge e che anche stanotte mi farà fare molto tardi su una sdraio della spiaggia, musica nelle cuffie, niente da dire, da pensare, solo guardare il mare così piatto, l’impercettibile risacca, una resa plastica come rotolo che si svolge e si riavvolge su se stesso, senza onda, senza frangente, solo fruscio di sassolini. Questo vento debolissimo, inesistente, eppure presente, ha aumentato l’internità della grande camera d’acqua tra Thalassopunta e Capo Agrea, rendendo il golfo quasi una cosa intima, segreta, dove noi ritornanti stanotte ci sentiamo al sicuro. Più tardi andrò in spiaggia. 

ARTICOLO n. 60 / 2023

MALENVIRNE

La temperatura dell’estate

Il prisma ottagonale visto dall’alto sembra un lascito alieno, fantascientifico. Sembrerebbe quasi un lontano parente del monolite di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick se non fosse per la sua quasi totale trasparenza.

Lo spazio in cui è inserito è antitetico rispetto alla sua futuristica figura eppure nessun elemento sembra fuori luogo.

Le otto facce specchiate della struttura, alta circa tre metri, frammentano il riflesso delle pareti del cortile Maqueda di Palazzo dei Normanni rendendo la solenne dimora di Federico II meno austera, più docile, quasi tenera agli occhi del pubblico.

150-93 VIII è l’ultima opera di Edoardo Dionea Cicconi, artista romano che dialoga con il passato e il futuro, con la scienza e la fotografia, nel tentativo di trovare nuove espressioni comunicative che rendano il lascito della tradizione meno polveroso e pesante e soprattutto meno rigido di quanto a oggi non sia.

Il prisma ottagonale – il cui nome in codice altro non è che la distanza tra Terra e Sole –, i cui raggi vengono assorbiti dalle pareti della struttura durante il giorno, di notte diventa trasparente e cangiante, senza però mai smettere di dialogare con e riflettere la staticità dell’ambiente che lo circonda. Il prisma è un elemento che balza innegabilmente all’occhio dei passanti: il cortile in cui è inserito, il Maqueda, è un piccolo gioiello interamente porticato e circondato da due ordini di logge rinascimentali che sembra essere fermo al ‘600.

La dicotomia che prende vita nello spazio ristretto del cortile è un bizzarro quanto affascinante fenomeno, perfetta metafora dello stato dell’arte.

Ho spesso pensato, osservando l’opera dell’artista – in senso lato: il dialogo tra passato e presente, tra tempo e spazio è una costante del lavoro d’ingegno di Cicconi -, a quanto la luminosità riflettente delle superfici da lui spesso utilizzate nelle installazioni sia un perfetto specchio – pardonne-moi, non era voluta – dello stato della cultura italiana.

Nello specifico, il prisma ottagonale dell’opera di Cicconi in esposizione a Palermo fino a fine agosto mi ha dato da pensare allo stato di salute dell’editoria italiana, ancora tanto, troppo incapace di far dialogare passato e presente e tantomeno presente e futuro.

E dal prisma al centro del cortile Maqueda del Palazzo dei Normanni di Palermo voglio proprio partire per provare a spiegare quanto l’editoria non sia in grado di fare da ponte tra generazioni, spazi e soprattutto tempi. Cosa che invece l’arte contemporanea, grazie al lavoro di artisti e fondazioni, musei e collettivi, curatori e collezionisti sta invece riuscendo a smuovere.

L’arte sembra stare bene.

Lo stato di salute non è invece dei migliori, qui tra gli scaffali dei libri.

Se penso alla temperatura dell’editoria italiana di oggi non penso di sicuro a un organismo in salute: febbricola, segni di raffreddamento, congestione e nasi arrossati sono i sintomi che mi trovo spesso a osservare dal mio angolo di scrittrice.

Un grosso cortile tiepido, quello dell’editoria, in cui il peso del passato si fa sempre maggiore più il tempo progredisce, in modo tragicomico e inversamente proporzionale. 

Passato e presente mal dialogano nel cortile dell’editoria, perché nessuno lascia mai volentieri le proprie poltrone e le giovani voci che vorrebbero avvicinarsi alla narrativa vedono poche porte aperte, anticipi da fame e contratti davvero miserabili.

Ma questo braccio di ferro sta rendendo l’industria statica e anacronistica, perché da un lato le case editrici continuano a proporre a cadenza regolare i soliti nomi, dall’altro il pubblico chiede evidentemente e a gran voce linguaggi nuovi. 

E qui si crea un bizzarro cortocircuito, tutto all’italiana perché, ehi, oltralpe se la passano un po’ meglio.

Se all’estero nascono infatti progetti interessanti e innovativi, collettivi come 4 Brown Girls Who Write – fondato a Londra da Roshni Goyate, Sharan Hunjan, Sheena Patel e Sunnah Khan – e associazioni di scrittori e scrittrici under 40 in grado di rivoluzionare le regole del gioco editoriale solleticando la curiosità delle case editrici più prestigiose e dando vita a veri e propri fenomeni under 30, qui in Italia le cose non vanno ancora in modo così spedito. Anzi.

I grossi nomi su cui vengono ancora oggi fatti più investimenti sono i mostri sacri contemporanei, quelli che hanno venduto tantissimo – generalmente tutti maschi bianchi etero over 45 che vanno fortissimo sotto Natale e nei dibattiti televisivi in cui viene chiesto loro quanto siano malati questi tempi – ma che secondo GfK – che osservo avidamente da un paio d’anni – non vendono affatto come dovrebbero, o peggio: come le case editrici si aspetterebbero, visti gli anticipi da capogiro che circolano intorno ai soliti nomi a discapito dei nuovi arrivati, che per 200 pagine di libro prendono tre zeri in meno per poi, in alcuni casi, vendere pure di più.

Il calo delle vendite dei soliti colossi non è però stato improvviso: è un procedimento in atto da qualche tempo, era prevedibile, intuibile e quindi forse arrestabile. Ma ciò che mi interessa di questo flop dei soliti noti (per alcuni è stato davvero un flop, non me ne vogliate, le aspettative erano troppo alte per non essere disattese in pieno ricambio generazionale e rinnovata crisi economica e del settore) è lo spostamento di vendite verso altri lidi, altri temi, altri linguaggi, altre età.

Partiamo da un fatto incontrovertibile: i libri più venduti in Italia sono i fumetti. Zerocalcare e gli anime giapponesi dominano le classifiche dieci mesi all’anno, con vendite da capogiro – nessuno, vi giuro, nessuno, vende così tanto -, e incassi da record. Questo è indicativo di due fattori: il pubblico divora linguaggi trasversali (soprattutto se trasmessi da colossi di talento capaci come pochissimi altri di analizzare con lucidità e universalità il mondo che ci circonda, vedi Zerocalcare) e il pubblico che ne fruisce è giovane.

La fascia che sta più influenzando il mercato è infatti quella “giovane” (e per giovane intendo pure noi millennial anche se dovremmo non esser più considerati di primo pelo ma si sa, qui da noi nel bel paese si è bambocci o “giovani artisti” fino alla decima pubblicazione o al terzo rinnovo della patente) e lo si vede benissimo da alcuni indicatori, di cui vi riporto un paio di esempi:

Il successo di Spatriati, vincitore dello scorso Strega e che parla proprio di millennial; il grosso riscontro di pubblico avuto da quel piccolo capolavoro candidato e ahimè non scelto per la cinquina dello Strega che è Le Perfezioni di Vincenzo Latronico, sempre incentrato sui millennial; la voce nuova, brillante, vibrante di Beatrice Salvioni capace, con il suo esordio e già bestseller La Malnata, di ribaltare le regole del gioco editoriale e infilarsi come presenza stabile nei GfK degli ultimi mesi senza mai abbandonare i primi venti posti della classifica nella narrativa italiana, tenendo testa ad Ammaniti; il bellissimo percorso de I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni, che dopo il Campiello ha continuato un percorso fruttuosissimo e a mio avviso forse poco spinto da chi avrebbe dovuto continuare a spingerlo, così come si fa e confà ai capolavori. Il caso Erin Doom, che non devo neanche spiegarvi; lo spazio tra i classici che ha indubbiamente conquistato Febbre di Jonathan Bazzi; le Ragazze perbene di Olga Campofreda così come L’anima della festa di Tea Hacic-Vlahovic. Anche dall’estero bramiamo novità: la già citata Patel, la svedese Johanne Lykke Holm, il colosso che è ormai Sally Rooney, Pajtim Statovci, Melissa Febos e perfino Joel Dicker sono libri divorati da GenZ e millennial, che riempiono bookclub e pagine social, classifiche e booktok da migliaia di visualizzazioni.

Quelli citati non sono solo libri o nomi di scrittori. Sono indicatori di qualcosa che si sta smuovendo e richiede autori e autrici più giovani, nomi nuovi, stili nuovi, racconti nuovi di generazioni giovani, con scenari differenti da quelli a cui la narrativa italiana ci ha abituati negli ultimi anni.

Precari, inquieti, giovani, complessi, sboccati, reali, scorretti, disillusi, stanchi, animaleschi, Malenvirne: questo vuole il pubblico ma soprattutto questo vuole raccontare una nuova editoria, che cerca di farsi spazio riflettendo sulle sue pareti specchiate un cortile composto da una società desueta, la cui austerità ha ormai stancato chi crea e perfino chi fruisce. 

Ma il dialogo generazionale che dovrebbe avvenire in questo immaginario cortile non c’è ancora e questo è un peccato, perché spesso i giovani che vengono inseriti nei circuiti editoriali sono costretti a esprimersi come gli uomini di mezza età che per gli ultimi anni hanno dominato incontrastati le classifiche, in una brutta operazione di snaturamento che ha come effetto quello di creare orde di radical chic da salotto a unico servizio delle vecchie leve e che di innovativo ormai non hanno niente. 

Questo avviene perché i mentori non sanno più lasciar andare gli allievi e replicano schemi che sono stati di successo sì, ma qualche anno fa. In un altro tempo. E nell’era del digitale il tempo si accorcia sempre di più, allargando però gli orizzonti e le fasce di pubblico, che sono sempre più variegate e che sentono sempre più bisogno di nuove rappresentazioni.

Comprendo che i nuovi ritmi così come le nuove voci possano spaventare la vecchia leva, ma qui ci torna utile riprendere in mano l’analisi dell’opera di Cicconi.

Il presente, il nostro prisma, deve necessariamente dialogare con il futuro. E per farlo non può prescindere dall’ambiente in cui è inserito, il meraviglioso cortile Rinascimentale di cui sopra.

L’opera contemporanea si specchia nel passato e questo è indubbio (Zannoni, Salvioni, Bazzi hanno evidentemente masticato Orwell, Ferrante e Tondelli), ma per diventare altro, non una replica. Non un figlio minore.

E questo non sarebbe neanche stato possibile, perché anche nello spazio editoriale, così come in qualsiasi altro spazio umano, fermare il tempo è contro natura. 

E con gli anni e le generazioni che passano arrivano nuovi linguaggi, nuovi libertini, nuovi modi di discutere e raccontare le storie che acchiappano un pubblico curioso, annoiato da decenni di staticità in cui non si riconosce più (o in cui non si è mai riconosciuto) che alla fine della fiera ha arricchito pochi, uniformato molti, soddisfatto alcuni.

Il dialogo è un esercizio costante di ascolto e presa di parola.

In questo senso, l’editoria potrebbe davvero apprendere dall’arte contemporanea, aprendosi a temi attuali, voci nuove, linguaggi freschi e offrendo delle garanzie economiche maggiori, ridistribuite, eque e gratificanti per nuovi autori e autrici, che saranno invogliati a rimanere nel sistema editoriale senza sentirsene esclusi o senza essere costretti a settecento part-time e a tour di presentazione inesistenti. 

La temperatura dell’editoria è tiepida e questo può dire due cose: o che qualcosa si sta tristemente raffreddando o che, finalmente, ci stiamo avvicinando all’ebollizione.

Spero nella seconda, altrimenti la crisi forse ce la meritiamo davvero tutta.

ARTICOLO n. 59 / 2023

IL GIARDINO DEI CILIEGI IPOTECATO

La temperatura dell’estate

24 giugno 1993. L’estate è appena iniziata, ma a Firenze già si suda. Qui è sempre così: estati torride e inverni intollerabili, e tutto perché ci sono ancora queste antiche convenzioni chiamate “stagioni”, che agli ambientalisti ricordano un mondo migliore. E tutto sommato anche a me, ma solo perché mi fanno tornare in mente Four Seasons of Love di Donna Summer.

La gente passeggia per strada e ammazza il tempo in attesa dei fuochi d’artificio. Oggi è la festa di san Giovanni Battista, patrono locale e simbolo di rettitudine morale e correttezza politica. In una città chiusa come questa le occasioni di mondanità scarseggiano e, pur di avere una scusa buona per festeggiare, gli tocca riesumare la leggenda di un povero santo fatto decapitare per un capriccio di Salomè, la più grande socialite della Giordania.

Sono invitato a una festa in terrazza, in un palazzo a Oltrarno. La padrona di casa è una discendente di Machiavelli, ma l’astuzia politica evocata da quel cognome non è che un ricordo: Firenze non è più un crocevia di intrighi internazionali, ma un dormitorio per ricchi americani che vogliono vedere quel che resta della città che ha inventato gli interessi bancari.

Avrei dovuto vestirmi più leggero, questa camicia rosa – una Vivienne Westwood dal colletto largo anni Settanta – comincia a pesarmi. Ho appena sedici anni, ma mi sento già come uno dei personaggi del Giardino dei ciliegi di Čechov, un aristocratico decaduto e costretto a ipotecare l’ultimo pezzetto di terra che gli dà gioia. Ho la sensazione che la mia riserva di serenità sia rinchiusa in un passato idealizzato e inesistente, un periodo aureo in cui – passato l’inverno – riuscivo ancora a trovare conforto nell’arrivo della primavera e dell’estate, quando potevo raccogliere le mie simboliche ciliegie, rinascere e trovare sprazzi di felicità.

Non è necessario grande intuito per capire che sono gay: il primo paio di scarpe in vernice con tacco a spillo l’avevo comprato a Londra a quattordici anni e a quindici, a Parigi, avevo preso delle zeppe argentate e una pelliccia ecologica (solo perché non potevo permettermi lo zibellino). All’estero non mi faccio problemi a dichiarare la mia omosessualità, e durante le mie estati in Sardegna parlo addirittura di me al femminile. “Sono pronta per la prima colazione” dico ogni giorno al mio risveglio, verso le tre del pomeriggio. Perché su quell’isola mi sento più libero? Forse perché lì fa più fresco e posso sfoggiare i frutti del mio shopping, raccolti in giro per mercatini nei cupi mesi invernali.

Il resto dell’anno e nel resto d’Italia, invece, vivo da omosessuale non dichiarato. Non ho fatto coming out neanche con la mia famiglia, anche se loro – avendo fatto le scuole dell’obbligo – hanno già capito tutto. Non mi chiedono niente solo per eccesso di discrezione. Temono che una parola fuori posto possa frantumare come un cristallo di Boemia il mio cuore adolescente.

Ma chi voglio prendere in giro? Guarda che camicia che ho! Se avessi un triangolo rosa cucito addosso, darei meno nell’occhio. Eppure, niente, proprio non riesco a dirlo, non per codardia ma perché mi sono convinto che devo aspettare il traguardo formale della maggiore età. Come dicono tutti: “Quando avrai diciott’anni potrai fare quello che vorrai”. Mi sono illuso che in quel preciso istante, un attimo dopo aver soffiato sulle candeline, potrò finalmente pronunciare un liberatorio: “Sono frocio”. Ma fino a quel momento, niente. Dio solo sa cosa potrebbe succedere se lo dicessi prima. E per Dio intendo le forze dell’ordine.

Arrivato alla festa, scopro con piacere che si tratta di una di quelle rare circostanze in cui gli invitati non sono una cricca compatta. Delle ottanta persone presenti, infatti, ne conosco giusto una quarantina. Per evitare la noia, volteggio tra la gente con la grazia di uno Jury Chechi, schivando gli sguardi dei soliti noti, fino a quando vengo intercettato dalla padrona di casa.

“La vedi quella?” mi fa, indicando timidamente una splendida signora un po’ sperduta. “È Barbara Hershey”.

Sulle prime il nome non mi dice un granché. So che è un’attrice importante, ma non sono così vecchio da sapere che nel 1973, quando aveva venticinque anni, Barbara è stata una pioniera dell’allattamento in diretta TV. Lo ha fatto davanti alle telecamere del talk show di Dick Cavett (visibilmente inorridito), perché non sopportava di sentire Free, suo figlio di otto mesi, che piangeva dietro le quinte. Né sono abbastanza fricchettone da sapere che nel 1969 aveva scelto di farsi chiamare Barbara Seagull, in onore di un gabbiano morto durante le riprese di Last Summer. Ci tengo a precisare che il film in questione non fu girato a Ostia, come certe opere di Sergio Citti, altrimenti al posto del gabbiano morto ci sarebbe stato un volatile molto più casalingo, come il pollo di Herzog in Stroszek, e Barbara Chicken avrebbe avuto una carriera alla David Byrne, tutta incentrata sulla poetica del quotidiano.

“Fammi un favore” mi chiede l’erede Machiavelli, “parlaci un po’ te che sai bene l’inglese, sennò resta tutta sola…”

Che cosa potrà mai dire un sedicenne a una signora over40 con un brillante (e difficile) curriculum hollywoodiano alle spalle?

“Ehi! Ma tu sei quella che muore di cancro in Spiagge?”

Non è il modo migliore per attaccare bottone, ma devo pur dirle qualcosa e Spiagge è l’unico film in cui sono certo di averla vista, una sob story per famiglie dove lei muore e lascia i figli all’amica Bette Midler, un film sull’amicizia tra donne ricche. Nel 1993 non è esattamente il mio genere. Barbara sorride e, chiacchierando, mi fa capire che ha fatto molto di più. Ha lavorato con Peter O’Toole, Carrie Fisher, Sally Field, Shelley Winters, Willem Dafoe, Harvey Keitel, David Bowie, Gene Hackman, Michael Caine, Sam Shepard, Robert Redford, Robert Duvall, Glenn Close, Dennis Hopper… e, soprattutto, è stata diretta due volte da Martin Scorsese. La prima nel 1972 in America 1929, un piccolo film prodotto da Roger Corman grazie al quale il semi-esordiente Scorsese si fa notare dalla critica americana. La seconda nel 1988 nell’Ultima tentazione di Cristo, uno caso cinematografico internazionale.

L’ultima tentazione di Cristo?” Non ci posso credere. “Io venero Scorsese, ma quel film ha fatto talmente incazzare i cattolici che qui in Italia non è riuscito a vederlo quasi nessuno!”

“Sai, sono stata io a passare a Marty il romanzo di Nikos Kazantzakis”, mi dice. “Gliel’avevo dato sul set di America 1929, gli ci sono voluti sedici anni per trovare i soldi e il coraggio per ricavarci un film. Non hai idea delle cose orribili che hanno scritto su di me…”.

E comincia a raccontarmi di quanto sia stata dura per lei affrontare il bigottismo degli americani, che non le hanno mai perdonato la sua giovinezza hippie, la lunga esperienza da madre single, lo stile di vita indipendente, il ritocco alle labbra (all’epoca una cosa inaudita)* e il suo ruolo di Maria Maddalena in un film maledetto come L’ultima tentazione di Cristo.

Barbara non è il tipo di donna che si guadagna immediatamente l’ammirazione di un sedicenne da cabaret come il sottoscritto, ma non sa di avere un asso nella manica.

“Poi c’è un regista che vorrebbe tanto mettermi nel suo prossimo film… ma è un ruolo po’ troppo rischioso per me.”
“E chi sarebbe?” le chiedo, mentre le mie antenne vibrano sovraeccitate.
“Sono anni che continua a mandarmi questo copione, Cecil B. Demented, si chiama John Waters…”
“John Waters? Ma è il mio eroe!”
“Ah sì? Allora quando torno a casa ti faccio mandare il copione”.

Non ci crederete, ma Barbara avrebbe mantenuto la promessa. Il copione di Cecil B. Demented, che sarebbe stato realizzato solo molti anni dopo, nel 2000, con Melanie Griffith nel ruolo che Waters aveva pensato per Barbara, è ancora nascosto da qualche parte in casa mia. Ricordo che sfogliandolo mi sono soffermato su una sua annotazione: a un certo punto, nelle note di regia, c’è scritto che uno dei personaggi fa “pocket pool” e Barbara ha appuntato a matita “che vuol dire?”. Questa anima innocente non sapeva che vuol dire stuzzicarsi il cazzo attraverso la tasca dei pantaloni.

Per quanto io adori Waters, uno dei registi più divertenti della storia del cinema, capisco la titubanza di Barbara: dopo la gogna mediatica subita per il suo ruolo di Maria Maddalena, è comprensibilmente sul chi vive e lavorare con il più scandaloso dei filmmaker americani non sarebbe una mossa molto astuta. In quella fase così delicata della sua vita, Barbara non può permettersi il lusso di fare una follia come Nicole Kidman con Lars von Trier: le sue uniche preoccupazioni sono rimettersi in piedi, riconquistare la sua privacy, riprendersi la sua carriera di attrice e la sua quotidianità. È una persona pratica, concentrata sul suo lavoro fin da quando aveva diciassette anni. È bellissima, certo, ma non è una mezza calza e non bada molto all’apparenza. Quando viaggia, mi confessa, si porta dietro solo vestiti che non necessitano di essere stirati. Forse perché il ferro da stiro evoca un feudale codazzo di servette e Barbara, invece, ama viaggiare leggera. Vent’anni dopo capirò di somigliare più a Donatella Versace, che per un weekend si porta dietro l’intero guardaroba, un arsenale degno di una vera Iron Man della moda, ma in quel momento mi sento in profonda sintonia con Barbara. Io, un sedicenne “eterosessuale”, convinto di essere schiacciato dal peso del mondo, mi illudo di capire il suo dolore, l’ostracismo subito da Hollywood durante la prima fase della sua carriera (dal 1965 ai primi Ottanta) e la tempesta di fango, insulti e lettere minatorie che l’aveva travolta all’indomani dell’Ultima tentazione di Cristo. Da quando era poco più che una ragazzina, ogni aspetto della sua vita privata è stato gettato in pasto al pubblico.

Qualcosa mi dice che i miei (inesistenti) problemi sono paragonabili a quelli della donna che, prima dell’avvento di Facebook, ha ricevuto valanghe di minacce di morte da ogni angolo del pianeta. Da drama queen quale sono, mi sento capito da questa donna che ne ha davvero passate di tutti i colori: non poteva mettere piede fuori di casa e c’era sempre qualcuno che andava a rovistare nei suoi bidoni della spazzatura. È come se su quella terrazza, sotto il cielo appesantito dal caldo, ci fossimo solo noi due. Sarà che stiamo parlando in inglese e quindi posso scordarmi di essere in Italia, sarà che tutti – come la Blanche DuBois di Tennessee Williams – confidiamo nella gentilezza degli sconosciuti, sarà che anche io voglio contribuire alla conversazione ingigantendo ad arte qualche mio mini-dramma adolescenziale, fatto sta che non riesco a trattenermi. E glielo dico.

“Sai, Barbara, io sono gay”.

È la prima volta che lo dico a qualcuno, qui in Italia. E glielo confesso abbassando la voce, riducendola a un tono circospetto, come se la stessi mettendo a parte di chissà quale segreto di Stato. Come se la mia camicia non avesse già svelato il mio “segreto” prima ancora che aprissi bocca.

Barbara mi sorride, mi rassicura. Dice che è normale aver paura di venire allo scoperto, a prescindere da quale sia il tuo segreto, perché nel momento in cui ti esponi devi essere pronto al peggio. “Soprattutto se finirai a lavorare nello showbusiness” mi dice, dandomi una dritta fondamentale per quello che diventerà il mio mestiere. “In questo giro le persone sono incattivite e disilluse, ti vogliono male anche quando le aiuti, perché credono che tu le abbia aiutate solo per poi tenerle in pugno”. Ma per fortuna non siamo mai soli al mondo, mi rassicura: c’è sempre qualcuno in cui riconoscersi, qualcuno che capisce le tue paure, e non perché le ha superate, ma perché come te non può fare altro che affrontarle.

Siamo diversi, Barbara e io, ma all’ombra delle sue parole posso trovare riparo e sentirmi felice, anche solo per un attimo, con la consapevolezza che in futuro dovrò contare su altre persone come lei. È una sensazione calda, disarmante, un assaggio di cameratismo che mi ottunde i sensi. Sono le dieci e mezza, i fuochi d’artificio si arrampicano in cielo, ma io sento solo piccoli scoppi lontani. La terrazza si anima, gli invitati alzano lo sguardo e fanno “Oooh…”, mentre il sorriso di Barbara si perde nella mischia.            Qualche ora dopo, tornando a casa, l’adrenalina del coming out comincia a scemare. Mi sento di nuovo pesante, come sempre. Non c’è leggerezza per chi ha ipotecato il suo giardino dei ciliegi.


* Sette anni dopo l’incontro con Barbara, forse subconsciamente in suo onore, mi sono fatto un piccolo ritocco alle labbra.

ARTICOLO n. 58 / 2023

GIANNI CELATI: RIPARTIRE

Trilogia Celatiana. Diperdersi

Joseph Cambpell ha detto in un’intervista che il trickster è «un diavolo, un pazzo, e il creatore del mondo». Ci sono tricksters in tutte le mitologie, dalla Grecia antica alla tradizione vedica, ma il termine è stato coniato negli anni Cinquanta dall’antropologo Paul Radin per parlare dei miti dei nativi americani, e non è forse un caso che la vita itinerante di Gianni Celati parta proprio dagli Stati Uniti, dove arriva per la prima volta nel 1971 per insegnare alla Cornell University a Ithaca. È negli Stati Uniti che scrive Le avventure di Guizzardi ed è dagli Stati Uniti che comincia il suo “esercizio autobiografico in 2000 battute” («Parte per gli U.S.A. – Due anni alla Cornell University – Vita nel falso, tutto per darla a bere agli altri», eccetera). Negli Usa Celati torna fino al 2000. L’anno dopo, in Cinema naturale, pubblica un racconto intitolato “Come sono sbarcato in America” che è la storia in terza persona di un personaggio che si chiama Giovanni, arriva negli Stati Uniti per insegnare e gliene capitano un po’ di tutti i colori, e durante tutta questa lunga serie di avventure, che sono avventure nel senso celatiano del termine, avventure in cui non succede davvero mai niente e in cui non si va da nessuna parte, il narratore è interessato a fare una cosa sola, e cioè scrivere una lettera per raccontare agli amici rimasti in Italia com’è l’America. E ovviamente, come nei sogni (il racconto prenderà in effetti una piega onirica, con spettri che parlano alle tavole dei diner e un gallo che canta la notte), questa lettera non riuscirà mai a scriverla.

Celati è un pazzo, nel senso di un giullare, ed è il creatore del mondo: ogni scrittore lo è, e il racconto “Come sono sbarcato in America” lo spiega bene, cioè spiega bene questa cosa ossessiva che è l’arte di narrare, questa ossessione di voler continuamente inventare l’esperienza nell’atto di raccontarla. Celati è anche un diavolo, è «ambiguo e anomalo, inganna, cambia forma, sovverte le situazioni, imita gli dèi, è un tuttofare sacro e lascivo» (Haynes e Doty, Mythical Trickster Figures: Contours, Contexts, and Criticisms). Il trickster è l’anima nera, invertita, sovversiva dell’«indiano metropolitano» del Settantasette bolognese. Celati è luce e ombra, la luce di Celati passa attraverso lo specchio e diventa ombra. Dall’altra parte dello specchio, nell’upside-down della letteratura italiana, c’è un Celati nero, esotico e mutevole, e la sua parola d’ordine è: dispersione.

Il trickster è un mutaforma, uno shape-shifter, perché assume infinite facce. È una deriva deleuziana in cui un singolo brandello di informazione, o un coagulo di informazione, cambia all’infinito rimanendo in fondo sempre uguale a sé stesso. Nei racconti e nei romanzi di Celati non ci sono veri personaggi, c’è un unico personaggio dai molti volti (Guizzardi, Menini, Cevenini) e tutti questi volti sono e non sono quello di Celati, che in questo modo diventa un vero e proprio eroe nel senso che Campbell dava al termine. Il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” è e non è Gianni Celati, la letteratura di Celati è e non è autobiografica perché, come scrive Gabriele Gimmelli, «cerca di collocarsi appena prima» che la distinzione tra fiction e non-fiction abbia luogo – ed ecco liquidato in due sole parole il «deliro burocratico» della collocazione di Celati in un genere letterario o nell’altro. Celati si è mosso per venticinque anni in giro per il mondo, tra Francia, Stati Uniti, Inghilterra, Italia e Africa, ma non è mai uscito dall’Emilia. La pianura di Menini è il Mali di Avventure in Africa: la nebbia della prima si trasforma nella sabbia della seconda («Non è la nebbia che rende la vista così opaca, ma sabbia in sospensione»), lo stupore per il mondo è lo stesso («Tutta la nuvola del niente di speciale che ogni giorno ci avvolge»).

Questo perché il trickster sembra non andare da nessuna parte, o se ci va segue logiche oscure: il suo posto nell’ordine del cosmo è ambiguo. Il trickster inventa il mondo dal fango, come un demiurgo gnostico, non attraverso atti grandiosi come quelli di un dio ufficiale. Crea, ma è difficile capire il senso di quella creazione, che non è né bella né buona e certamente non è utile, e contiene in sé tanto dolore e bruttezza quanto splendore e bellezza – e tutto appare casuale, frutto di un capriccio, e imperscrutabile. Disperdersi è essenziale, perché le energie del trickster richiedono per loro natura di essere consumate, buttate al vento: il trickster deve esaurirsi per dare vita al mondo e, contestualmente, a un tipo di eroe più maturo che possa popolare quel mondo. Celati cammina e cammina, e cammina e cammina, finché non rimangono più energie, finché si è compiuto l’atto propiziatorio che mette in contatto con gli dèi, vale a dire con i demoni.

Il 15 dicembre del 1994 scrive a John Berger, che di lì a qualche anno lo accompagnerà in Emilia per girare Case sparse: «C’è qualcosa (nel tuo tama) – una levitazione spirituale […]. Ma credo che questa levitazione sia per te il risultato di una disciplina, come lo era per gli antichi Santi. Ora, è proprio il senso di questa disciplina che mi sfugge (la disciplina era il mio solo obiettivo nella scrittura, ma adesso sento il demonio in me, e il demonio è l’opposto della disciplina – è il caos)». Questo non è solo il linguaggio di un uomo in lotta con la depressione, è anche il linguaggio di un pellegrino diretto al mondo infero e in cerca del suo Caronte.

Africa

In questo mondo di sotto Celati scende attraverso percorsi paralleli, come un fiume diretto a valle si ramifica in tanti rivoli. Potremmo spiegare forse così questo strano desiderio che gli viene tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila di andare in Africa. Un desiderio pericoloso per gli standard celatiani, perché rischia di trasformarsi in un’“avventura” nel senso romantico del termine, un esotismo, una ricerca consapevole di qualcosa e, non sia mai, di una parte di sé più autentica. Infatti Celati in Africa ci deve andare con una scusa, prima quella di accompagnare in Senegal, Mali e Mauritania l’amico documentarista Jean Talon, che per un gioco del destino si chiama come un amministratore coloniale francese del XVII secolo, e cinque anni più tardi per assumere lui i panni del documentarista e filmare la vita di un villaggio del Senegal. Alla maniera del protagonista di “Come sono sbarcato in America”, durante questi viaggi Giovanni/Gianni non può fare a meno di scrivere tutto quello che vede. Ne escono due diari (Avventure in Africa e Passar la vita a Diol Kadd) e un film che è a sua volta una specie di diario (Diol Kadd appunto). E ne nasce un altro racconto di Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, che è una sorta di commento sul commento fatto da Celati delle sue avventure in Africa, una riflessione sulle sue motivazioni, un dialogo tra due volti di Celati ma anche, come vedremo più avanti, qualcosa di più. “Cevenini e Ridolfi” chiude Cinema naturale nello stesso modo in cui “Come sono sbarcato in America” lo apriva: con un resoconto scritto di un’avventura che non può mai veramente essere scritta.

Consapevolmente o meno – in queste cose non fa poi molta differenza – Celati arriva in Africa sulle tracce di quello che forse è il trickster più famoso di tutti, famoso almeno come il coyote delle leggende dei nativi americani: il coniglio Be’er, che è trasmigrato fino alla modernità capitalista nella duplice forma del Fratel Coniglietto di Walt Disney e del Bugs Bunny di Warner Bros – e che popola insieme ad altri tricksters (Bouki, Leuk) le storie wolof. Avventure in Africa è pieno di figure ambigue e sovversive, personaggi incontrati per caso che si rivelano sempre diversi da quello che sono e costruiscono mondi dove non c’erano, inventando alberghi e servizi di taxi. Ma proprio nel momento in cui arriva più a fondo nella ricerca di della sua anima nera, Celati rischia anche di cadere nella trappola della leggibilità: quando nel 2010 esce al cinema Diol Kadd sono passati vent’anni da Strada provinciale delle anime, quel primo film con le sue dissolvenze fuori moda, le sue atmosfere hauntologiche e il suo mondo di spettri destinati a scomparire. Se Strada provinciale era passato inosservato, Diol Kadd viene presentato al Festival di Roma e Celati deve fare una cosa che probabilmente non avrebbe mai pensato di fare, camminare su un red carpet («Quando ho visto il red carpet volevo entrare nell’auditorium zoppicando, come Quasimodo, il gobbo di Notre Dame», scrive, ed è il trickster a parlare in lui. «Se mi sento a disagio, comincio a fare lo scemo».) Diol Kadd rischia, cito ancora da Gimmelli, «l’alone ecumenico di capolavoro», e infatti riceve il premio come miglior documentario sociale. Il pericolo dell’altromondismo è concreto per quello che è il suo «film più costruito e tradizionale», il suggello dello status scomodo di «classico in vita».

Tanto più che Celati il discorso sul colonialismo lo sta affrontando, in una maniera o nell’altra (cioè in maniera disordinata: ricordiamo il demone del caos) fin dai tempi del suo primo matrimonio con Anita Licari, italo-tunisina che aveva sposato nel 1966. Celati andava nella Tunisia da poco diventata indipendente e Anita, che era francesista a Bologna, nel 1978 pubblicava con Roberta Maccagnani e Lina Zecchi un libro intitolato Letteratura esotismo colonialismo. L’introduzione di Celati (“Situazioni esotiche sul territorio”) propone – scrive Gimmelli – «la via di fuga […] della flanerie intesa come viaggio nell’indifferenziato»: propone cioè da un lato di «recuperare l’esotismo nei termini deleuziani di una riterritorializzazione del mondo» e dall’altro di «riappropriarsi dell’idea di avventura liberandola dalle incrostazioni dello sguardo coloniale». Non dimentichiamo che siamo negli anni di Alice disambientata, il testo più deleuziano di Celati. Dunque andare in Africa per liberare lo sguardo dall’idea dell’Africa, dell’esotico; andare in Africa per perdersi, per disperdersi. Ma anche per riterritorializzare il movimento di quella perdita e di quella dispersione: è un equilibrio sottilissimo e forse Celati non l’avrebbe mai raggiunto con la scrittura e l’ossessione della scrittura di dire quello che non c’è, il suo implacabile impulso a creare mondi. Per arrivare in quel punto ci voleva l’occhio “oggettivo” del cinema.

Cinema

Facciamo un passo indietro. Come abbiamo visto, Celati al cinema aveva esordito nel 1992 con Strada provinciale delle anime¸ ma l’avvicinamento alla macchina da presa era stato lungo e laborioso, al punto che potremmo dire che nell’opera celatiana il cineasta è fin dall’inizio parallelo allo scrittore, anche se nascosto: una sorta di ombra del Celati ufficiale. Tant’è che già Alice disambientata aveva dato origine a un breve film, nato in parallelo alla scrittura collettiva del libro, e che diverse idee di progetti erano nate e tramontate prima che Strada provinciale arrivasse a essere trasmesso in TV. Ancora una volta ci troviamo di fronte all’aspetto ricorsivo del metodo di lavoro celatiano, il percorrere e ripercorrere gli stessi sentieri. E ancora una volta ci troviamo al cospetto di una forma del trickster, questa volta quello che si trova nell’«anima della commedia», come ha scritto Eric Weitz, la figura «dispettosa, ingenua, indulgente, piena di risorse, guidata dagli istinti di base e vitale che popola le sfere dell’intelligenza illogica che chiamiamo solitamente “humor”». Non è un caso che, come ha notato Marco Belpoliti, gli interessi cinematografici di Celati partano dalla slapstick comedy, al punto da «eleggere Buster Keaton a figura-guida».

Ma un altro parallelo tracciato da Belpoliti mi sembra qui particolarmente interessante: quello con il cinema di Dziga Vertov (parlando di Diol Kadd: «il racconto si svolge a Diol Kadd, ma potrebbe essere un villaggio della campagna ferrarese o friulana degli anni Cinquanta o Sessanta. Una cronaca minuta e senza nessuna pretesa di esaustività; immagini terse, pulite, sguardi ampi, e visioni scorciate, viste attraverso gli ingressi delle case e delle capanne, come se a girare il tutto fosse stato un Dziga Vertov lirico e postsovietico»). Da Vertov, Celati sembra mutuare quel «carattere testimoniale della registrazione meccanica» (Enciclopedia Treccani) senza il quale si rischierebbe di sprofondare nel soggettivismo esasperato della scrittura, nella tentazione della creazione del mondo a cui tentano inutilmente di sottrarsi il Giovanni di “Come sono sbarcato in America” e il Cevenini di “Cevenini e Ridolfi”. Ricordiamo il linguaggio della lettera del 1994 a Berger: il tama (il sapere occulto della tradizione vedica), la «levitazione spirituale», gli «antichi Santi», il «demonio»: è evidente che qui Celati ha abbandonato il cinema come puro movimento, il cinema come sovversione dell’ordine, e sta cercando – anche, ma non solo, attraverso il cinema – una forma di spiritualità.

Quindi è logico che alla fine scelga proprio Berger come animus per il suo film più hauntologico e destrutturato, è logico che Berger faccia il ruolo di traghettatore verso una sorta di aldilà, ed è logico che questo viaggio verso gli inferi passi per la Pianura Padana: Case sparse è un viaggio nel mondo di sotto e come tale non può che essere un ritorno laddove tutto è cominciato, l’Emilia; è un viaggio nella malinconia, personale e collettiva, privato del senso del tragico (che in Celati non esiste nemmeno nei momenti più cupi); è, letteralmente, uno sguardo alla casa che crolla e che ci si lascia alle spalle – e non per niente dopo Case sparse Celati all’Emilia nel suo lavoro non ci torni più, come se un percorso si fosse finalmente esaurito. 

Attraverso l’Inghilterra di Berger Celati può tornare all’Emilia e lasciarla andare: ciò che segue nei dieci anni successivi, gli ultimi significativi della produzione celatiana, è l’Africa, il (post)esotico, l’altrove. Berger è una figura infera perché conduce alla morte, permette di attraversare la morte, permette di guardare finalmente il mondo dall’altra parte della morte, come succede alla protagonista del racconto “Nella nebbia e nel sonno” che vede tutte le cose coperte di polvere, come saranno in un futuro postumo. Permette di arrivare appunto a un “cinema naturale” della mente, dove le cose scorrono come su uno schermo nella loro naturalezza: permette, cioè, di arrivare a una sorta di pace.

Pace

Il cinema di Celati parte dal movimento sovversivo e asignificante della slapstick comedy e arriva al lirismo calmo, a suo modo trascendente, di Diol Kadd; nell’esotico, o meglio nel post-esotico, il movimento si deterritorializza per riterritorializzarsi in una dimensione diversa, eterea; l’irrequietezza dello scrittore-camminatore, dello scrittore che per scrivere deve esaurire e disperdere le proprie energie, arriva a un fragile, precario punto di stasi, un fermarsi che non corrisponde più alla morte ma una sorta di esperienza spirituale. È una visione, letteralmente, filtrata dall’occhio meccanico del cinema. «Dolcezza del vivere e trascorrere del tempo», scrive ancora Belpoliti, «un tempo che non si esaurisce, che non fugge, ma che ricomincia». Ripartire stando fermi: in Diol Kadd Celati raggiunge la sua «levitazione spirituale», tiene a bada per un momento il demone del caos.

Ed è qui che il racconto che chiude Cinema naturale, “Cevenini e Ridolfi”, diventa la pietra angolare di una inaspettata svolta dell’opera celatiana. All’apparenza la trama è delle più classiche: due «vecchi amici un po’ avanti negli anni», che «passavano la vita senza far niente di speciale e al massimo di sera giocavano a carte oppure a biliardo nei bar di campagna vicino a casa» un giorno decidono di partire per un viaggio in Africa. La ragione del viaggio è che Cevenini, che è ottimista e posato, vuole curare con la magia l’amico Ridolfi, che invece è depresso e soggetto a incontrollabili attacchi d’ira. Durante tutta l’avventura, Cevenini scrive delle memorie che costituiscono la fonte del narratore del racconto: dunque abbiamo Celati, autore di un racconto (“Cevenini e Ridolfi”) che inventa un personaggio (Cevenini) autore di un diario delle sue “avventure in Africa” (come un libro di Celati) che il narratore del racconto (forse Celati, forse no) commenta e riassume: basterebbe questa contorsione metaletteraria degna del Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore per farci capire che ci troviamo di fronte a qualcosa di più che un racconto semi-comico, o semi-tragico, che è lo stesso, di avventure.

Infatti “Cevenini e Ridolfi” è quello che potrei definire il resoconto di un’esperienza mistica in uno degli scrittori italiani che apparentemente sembrano più lontani dall’idea di misticismo. Già dalle prime battute risulta abbastanza chiaro che Cevenini e Ridolfi sono due incarnazioni di Celati stesso, potremmo dire la luce e l’ombra che si combattono in tutta la sua opera, l’aspetto scanzonato e quello iracondo, la fiducia e la depressione; e il fatto che nel corso del racconto i due personaggi arrivino a scambiarsi i ruoli, con Cevenini che diventa via via più pessimista mentre Ridolfi viene investito da un’illuminazione che gli fa scordare il suo mal di vivere, ne è la prova. Ma è proprio il procedere del racconto, che (come tutti i racconti di Cinema naturale, ma qui forse in maniera più estrema, più consapevole) divaga fino alla destrutturazione, alla dispersione, alla perdita di sé, alla dissoluzione nell’astratto, a riportarci in maniera più decisa sui confini sfumati tra la fiction e la non-fiction, il racconto e la meditazione filosofica. Forse qui non appena prima del confine, ma appena dopo, in un altrove non completamente mappato.

Perché man mano che i due amici penetrano nel cuore dell’Africa, e Ridolfi penetra nel cuore della sua illuminazione, e penetrando nella sua illuminazione guarisce del mal di vivere e si ammala nel corpo fino alla paralisi e alla morte, ciò che il scopre nel suo filosofeggiare è la «bellissima calma delle cose buttate via»; scopre che il segreto della felicità è quello di «scaricare via le fisime dell’immaginazione, che poi fanno sempre venire delle foie, e con le foie dopo uno vorrebbe che tutto andasse come vuole lui»; che «le cose esistono solo in particolare, solo come cose particolari, una per una». E man mano che si ammala, o guarisce, perché forse tra le due cose non c’è differenza, Ridolfi diventa una specie di guru, impegnato solo nel dire frasi filosofiche come «la virtù è la mente che agisce e non patisce, le foie sono la mente che patisce e non agisce», oppure «sono triste ma la mia tristezza è naturale, non mi dà fastidio». E naturalmente c’è dell’ironia in tutto questo, c’è una comicità, e anche una grande tristezza, ma c’è anche, finalmente, un punto d’arrivo: uno sguardo che si apre ampio e calmo. Non c’è più bisogno di muoversi, ci si è persi abbastanza da non aver più bisogno di disperdersi.

Che cos’è infatti il cinema naturale se non questo sguardo terso, questo schermo su cui scorre lo spettacolo del mondo, nella sua naturalezza, senza l’immaginazione che produce desiderio, senza le generalizzazioni che producono concetti? Questo schermo su cui scorre la vita così com’è, le cose particolari, una per una? Che cos’è il cinema oggettivo di Dziga Vertov se non una metafora della mente come campo aperto dove le rappresentazioni del mondo passano senza essere trattenute, dove il mondo compare e scompare, si modifica, scorre? E che cos’è questa mente come uno schermo dove scorre l’apparenza del mondo se non una mente che medita, che ha raggiunto una forma di pace sufficiente da guardare le cose così come sono, senza bisogno di descriverle, di riscriverle, di inventarle, di sostituirle? Che cos’è questa mente-come-cinema, questa mente che medita, se non il punto in cui la scrittura si disperde totalmente, smette di essere necessaria?

Alla fine il movimento ha condotto alla calma, per quanto temporanea possa essere; lo spirito sovversivo del trickster a una forma di spiritualità; la discesa negli inferi, proprio come capita a Ridolfi, porta una nuova luce alla coscienza. Perdersi porta a ritrovarsi scoprendosi diversi. In questo agire senza patire, in questo tornare naturali, nel disperdere le energie mentali fino all’esaurimento, Celati trova il suo tama. Nell’altrove, scordando sé stesso, trova il punto al centro di sé stesso da cui in fondo non si è mai spostato. Trova il miracolo di una scrittura senza scrittore, di un cinema senza regista né personaggi né spettatori, in cui il mondo scorre davanti a una macchina da presa dietro la quale non c’è più nessuno. 

ARTICOLO n. 57 / 2023

tuttoamore

Pubblichiamo come anticipazione del volume di Nisargadatta Maharaj, Essere è amore (Il Saggiatore) – in libreria da venerdì 7 luglio -, la prefazione di Aldo Nove.

Dopo la fine della Storia. Nell’inciampo quotidiano della sua distorsione, sono sempre di più a percepire che in questo mondo, in questa vita, «c’è qualcosa che non va». A livello di massa, il testo popolare che meglio lo ha espresso è in realtà un film, Matrix. Il protagonista, Neo (nome scelto non certo a caso), percepisce che tutto ciò che lo circonda ha qualcosa che non lo convince. Non lo convince affatto. Non lo convince la sua stimata posizione sociale. Non lo convincono le sue stesse percezioni. Si tratta, per Neo, di scendere nella tana del Bianconiglio, crossover con l’esoterico classico di Lewis Carroll Alice nel paese delle meraviglie

Qualcosa che ci contiene prosegue.
Una tragedia irrisoria.
Irrisoria e ostinatamente mortale: «La tragedia è ciò che continua a finire» scrive un Hegel illuminato nella sua Fenomenologia dello Spirito. 

Questi tempi, mysterium iniquitatis, ci spingono forse a un salto di consapevolezza. Alcuni lo ipotizzano, altri ci credono fermamente, in special modo in plurimi contesti new age. 

Fatto sta che stiamo male. 

La narrazione, qualunque piega prenda, non funziona più.

E come per ogni malattia, è opportuna una medicina. Sri Nisargadatta ci offre la medicina suprema, che è anche il titolo di un suo libro, reiterazione tendente all’infinito del suo mantra: «Io sono», da ripetere fino all’esautoramento di ogni significato possibile di quell’io.

Fino alle radici dell’Essere (curiosa la questione delle maiuscole e delle minuscole, quando ci si avvicina all’inesprimibile, che sta sempre oltre il linguaggio). 

In un altro contesto, quello della filosofia occidentale coeva al percorso dell’insegnamento di Nisargadatta, veniva emergendo, specialmente nell’incontro tra psicanalisi e strutturalismo, un’analoga «demolizione dell’ego». «L’inconscio è strutturato come un linguaggio», il celeberrimo concetto di Jacques Lacan introdotto nel suo Discorso di Roma del 1953, unito all’altra «rivelazione-mantra», «C’è chi parla», spinge gli spiriti più acuti e tormentati (felicemente tormentati) a nuove vette di coscienza. Vette in Italia divulgate, probabilmente, da chi, «recitando sé stesso», le ha messe in pratica condividendole sotto forma di un teatro spostato verso l’oltre, sempre verso l’oltre: Carmelo Bene. 

Il suo «Io non esisto» pareva a molti una boutade.
Lo pare ancora.
Ma intanto macina.
Sono quei «semi di fuoco» (così li chiamava Nisargadatta) che senti e poi, consciamente, magari dimentichi. Ma intanto maturano dentro. 

Ti scaraventano altrove. 

2.

Difficile descrivere la ridda di emozioni che ha suscitato in chi scrive (saranno passati trent’anni da allora) la prima lettura di Nisargadatta. Quel libro, Io sono quello, caposaldo ormai del pensiero mistico indiano contemporaneo (ma esiste una contemporaneità, in una tradizione millenaria che cambia i maestri ma non l’essenza senza tempo del suo insegnamento?), prima e più celebre raccolta di discorsi del Maestro, la prende un po’ alla larga. Nisargadatta accetta le divagazioni, risponde pur con sarcasmo alle curiosità di chi è accorso da tutto il mondo per sentirne le parole. Con il passare degli anni, e della sua malattia, il discorso si fa più rarefatto e al contempo stringente. In prossimità dell’abbandono di questa forma temporale, Nisargadatta non può sprecare parole. Essere è amore va dritto subito al bersaglio e lì si inchioda, e ci inchioda. Ma, sempre, a una prima lettura (come alla quindicesima) le sue parole bruciano. Ustioni nell’anima a rigenerarne il percorso di autoconoscenza, spingendo sempre oltre l’asticella che separa il conosciuto dallo sconosciuto, l’ego dall’infinito. Quello che credo chiunque percepisca alla sua lettura è che non c’è luogo o condizione in cui acquietarsi. Almeno fino a che si è soggetti di qualcosa. 

Sul palco della grande illusione di questo mondo, della sua esistenza, tutto deve sparire. E poi deve sparire il palco. 

E il teatro.
E tutto ciò che li circonda.
Fino a che il vuoto o l’essere, anch’essi svuotati di un’essenza che non hanno in realtà mai avuto, si possano abbandonare al tuttoamore che per sempre e da sempre vibra imperturbabile. 

Il tuttoamore è pura presenza. Il tuttoamore non contempla altro che sé stesso, che non c’è. 

Io siamo quello. Noi siamo quello.

E se nessuno è nato e nessuno è morto, tutto ciò che ci vincola a questa esistenza è ciò che ci preclude la via ultima, da quando qualcosa inizia a percepirsi come un essere, quella cosa determinata e a sé fedele tra infinite altre cose, nel precipitato illusorio di onde universali che si infrangono, alla fine, contro la propria stessa impalcatura di menzogne, complice la mente, ingannatrice suprema e subdola, nostro parziale, parzialissimo amore che muore, ogni giorno, di più. 

Fino a completa guarigione. 

Mauro Bergonzi[1] è uno dei pochissimi italiani ad avere avuto la fortuna di incontrare Sri Nisargadatta Maharaj nel 1981: ossia durante i satsang[2] le cui trascrizioni sono qui raccolte. Ne ricorda i piccoli e nerissimi occhi, lo sguardo di fuoco. E ricorda come Nisargadatta si fosse rivolto direttamente a lui dicendogli, ex abrupto: «Non ti perdere nei mille rami delle mille domande, ma vai dritto alla radice. All’unica domanda che conta… Io ti ci metto. Anzi, ti ci seppellisco. E rimani lì. Fino a che non scompare colui che cerca. Allora ti troverai al di là. Nell’ignoto». 

Perinde ac cadaver, diceva della sua conversione sant’Ignazio di Loyola: «allo stesso modo di un cadavere». Si tratta, per Nisargadatta, proprio di «morire» definitivamente. 

Ma cosa, chi muore? Ciò che non è tutto. Ciò che non è Essere. Ciò che non è Amore. L’ego.

Allora resta (termine rischioso, questo «resta») l’Essere. Che è amore assoluto e incondizionato, senza scissioni, senza differenze («qualcosa di completamente impersonale», dice altrove Nisargadatta). Quel «qualcosa» (in riferimento alla nostra esperienza, quando si realizza consumandosi del tutto) si allarga fino a essere tutto l’universo e tutti gli universi ed è inesprimibile. Lo chiamo tuttoamore per giocare con le parole come intuitivamente sento essere, e ovviamente arbitrariamente, in italiano, abilitato da uno scarto linguistico improbabile e per questo, forse, efficace. 

Quando mi è stato chiesto di scrivere la prefazione al vertiginoso libro che tenete tra le mani, ho provato il senso di un grande onore ma anche quello di lanciarmi in una mission impossible. In realtà, di questo libro non si può parlare, perché va oltre ogni possibilità dell’umano dire («Trasumanar significar per verba / non si poria» diceva del resto uno molto famoso e con una certa dimestichezza con questi temi). Nisargadatta prende a calci in culo ogni pretesa intellettuale, e lo fa con amore. 

Diceva Kundera che ogni libro serve ad andare oltre ogni libro, e questo, anche senza saperlo, cerca di farlo. 

Ma, continua Kundera, quel libro, forse, non verrà scritto mai. 

E infatti Nisargadatta, come Buddha e Cristo, non ha mai scritto un libro.

In qualche modo li ha distrutti tutti. Come Buddha.
Come Cristo.

tuttoamore. Altro alla meta non è dato. Qua il paradosso estremo della mistica e del sublime mentore che ne fu Sri Nisargadatta Maharaj. Alla meta non c’è più nessuno. 

Oppure, c’è proprio lui, Nessuno.
Che c’entriamo, noi, con Nessuno?
C’entriamo.
Ma, come scriveva Rainer Maria Rilke, «è difficile essere morti».

3.

Maruti Kampli nasce a Bombay[3] il 17 aprile 1897, dove morirà, con il nome ormai conosciuto in tutto il mondo di Sri Nisargadatta Maharaj, l’8 settembre 1981. E già queste note biografiche iniziali sono paradossali per chi ha sempre proclamato di non essere mai nato e di non essere mai morto. Altrettanto paradossale, o meglio, nell’ottica della Tradizione che Nisargadatta ha rinvigorito, inconsistente è il luogo, che, ha più volte dichiarato Nisargadatta, in sé non esiste. Non esiste «Bombay» se non come illusione mentale. Partendo dall’esperienza, l’unica cosa che davvero conta nel coacervo di elementi che chiamiamo individuo è solo lì, nessuno ha mai fatto esperienza di «Bombay». Si tratta di una convenzione linguistica e dunque delle conseguenze figurative dell’evocazione di un fantasma sottoposto a restrizioni quanto mai elastiche della cianfrusaglia mentale che abita la mente che ci abita. 

E poi la vexata quaestio dell’essere nati.
E pure, dopo, l’essere morti.
A chi gli chiedeva (e succedeva sempre) «Cosa c’è dopo la morte», Nisargadatta ribaltava la domanda chiedendo all’interlocutore cosa ci fosse stato, per lui, prima della sua nascita, e su quello insisteva di meditare. Ovviamente, la risposta era sempre uno smarrito arrampicarsi sui vetri, incalzata da un «Ricordi tu, forse, che prima di nascere stavi male?». Con la risposta, a cui è impossibile sottrarsi: «No». E con un successivo, martellante: «E la nascita, la tua nascita, la ricordi?». La replica è altrettanto ovvia quanto micidiale. Quindi a nascere o, meglio, a manifestarsi, è la mente. La mente che dice di essere un individuo. Si localizza, legandosi a un corpo, e il rapporto di quello con ciò che quello non è (pur essendo già il corpo un insieme di elementi tenuto assieme momentaneamente) è «la realtà» individuale. 

L’aprirsi di una ferita. 

Che si rimargina alla completa guarigione. Attraverso la meditazione.

«Meditazione» o «yoga», o «pratica» che era, è, sempre, indagine del presente. Perché nulla esiste se non il presente. C’è o, meglio, appare, per Nisargadatta come per tutta la tradizione advaita, solo quello che viene proiettato sullo schermo dell’assoluto incontaminato adesso.

Per scorrere via e lasciar posto ad altre manifestazioni del gioco della vita (lila, in sanscrito). Identificarsi con il flusso di queste apparizioni, con l’alternanza mondana di gioie e dolori, nell’alternanza di sogni e paure, è il grande inganno di Maya, il velo che tutto (s)copre per infinita autocompiacenza dell’Essere. Ne consegue che il primo passaggio del ricercatore è quello di osservare con distacco quello che succede (nel nostro caso, quello umano, si tratta di osservare il nostro corpo, attraverso il quale è possibile «fare esperienza del mondo»). Nisargadatta ci pone ben oltre questa posizione (che è quella poi dell’«osservatore» nella pratica, ad esempio, vipassana o anche, a Occidente, della meditazione trascendentale)[4] e ci spinge sulle soglie dell’Ignoto e oltre. Lo fa con rude affettuosità. Ci scaraventa nell’abisso con amore. 

Perché non è l’abisso a farci paura, ma la paura dell’Ignoto.

Torniamo alle, per quanto stringate, note biografiche. Quello che poi diventerà uno dei più grandi maestri spirituali induisti cresce in una famiglia povera. Se seguissimo il sistema delle caste indiane, potremmo dire che si trovava al livello più basso. Suo padre era prima «assistente domestico» (cameriere generico, factotum) e poi agricoltore. Quando il padre morì, Nisargadatta (aveva allora 18 anni) trovò lavoro come tabaccaio o, meglio, come produttore e venditore di bidi[5]. Lavorò con la sua famiglia (si sposò poco dopo, generando quattro figli, tre femmine e un maschio). Quello resterà, fino alla sua morte, per lui e per la sua famiglia, il mezzo di sostentamento materiale. L’illuminazione avvenne quando ottenne il moksha[6] durante l’unico viaggio della sua vita, sull’Himalaya al seguito del guru Sri Siddharameshwar, penultimo anello di una catena di maestri a cui si aggiungerà, appunto, Sri Nisargadatta Maharaj. 

Dopo il moksha, tutta la sua vita si svolgerà nel mezzanino di casa sua, dove sempre più gente e da tutto il mondo si radunerà a seguire i suoi satsang. Le parole di un tabaccaio analfabeta si sono così infiltrate nella coscienza dell’Oriente e dell’Occidente, spostando davvero al limite i paletti dei nostri limiti, che sono tutti mentali.                                                                                              

Semi di fuoco. 

4.

satsang di Sri Nisargadatta Maharaj erano vere condivisioni di elevazione spirituale, davvero molto lontani da quello che noi possiamo immaginare in relazione a un maestro che si rivolge ai suoi discepoli. Nisargadatta rimase fino all’ultimo curiosissimo di tutto e di tutti. Spesso era lui a rivolgere domande a chi si avventurava ad ascoltarlo nel suo periferico quartiere di Bombay. Spesso parlava molto, a volte non diceva che pochissime parole. Ma l’essenza delle sue «prediche» (o «conferenze»: così ho trovato in diverse traduzioni) era il dialogo, in una modalità in qualche modo maieutica (come lui stesso ha dichiarato) per far sì che a parlare fosse, alla fine, non la persona Nisargadatta, ma quello spirito incondizionato che da lui fluiva irradiandosi oltre l’illusione del molteplice, accogliendo così ogni religione o via di ricerca spirituale, certo oltre l’«intelligenza» o la «sapienza» di un maestro che è più il direttore di un’orchestra tesa al raggiungimento della consapevolezza di essere non coro ma unità. 

Sciogliendosi nell’unità.

La via della liberazione prevede che ogni percorso non possa che essere individuale prima di trionfare nel tuttoamore che è squisitamente impersonale. 

Essere-coscienza-beatitudine[7]. L’Universo si ama.
L’Essere si ama. 

LEssere è Amore.


[1] Docente di Religioni e filosofie dell’India presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, Mauro Bergonzi ha scritto diversi libri sulla filosofia advaita. Ci piace segnalare il suo intenso Il sorriso segreto dellessere, Mondadori, Milano 2011. L’esperienza riportata è reperibile su YouTube, raccontata dallo stesso Bergonzi, all’indirizzo: https:// www.youtube.com/watch?v=C4_Ls8PdALY.

[2] Difficile tradurre un termine come satsang. Così come è difficile trasporre nella nostra cultura tutta la terminologia dell’induismo advaita, specialmente laddove si propone di andare oltre il nostro essere «persone» (ma qua ci aiuta l’etimo, in latino «persona» è «maschera»). Satsang è composto da sat («essere» e/o «verità») e sang («riunione», «comunità»). Tutti i libri di Nisargadatta sono trascrizioni dei suoi satsang.

[3] Oggi Mumbai, è la prima città, per densità di popolazione, al mondo.

[4] Nell’antica lingua indiana pali, più o meno «osservare le cose profondamente, per quello che sono». Pratica insegnata direttamente da Gotama il Buddha per superare la sofferenza del vivere. Degna di rilievo credo sia la possibilità di accostare la figura di «chi compie l’osservazione vipassana» agli esiti ultimi della fisica quantistica e, in particolare, a quelli di David Bohm, che ebbe un lungo e proficuo confronto con Jiddu Krishnamurti (uno dei tre maestri di cui Nisargadatta esponeva, nel mezzanino in cui svolgeva i suoi satsang, l’immagine). Ma già nel famoso esperimento del gatto di Schrödinger «l’osservatore» scopre che è lui a determinare le qualità delle manifestazioni della materia. La Meditazione trascendentale, sempre da origini vediche e introdotta in Occidente nel 1958, è appunto la più diffusa, fuori dall’India, «forma di meditazione senza oggetto determinato».

[5] Piccole sigarette costituite da un’unica foglia di tabacco arrotolata. Sri Nisargadatta Maharaj ne fumerà una dietro l’altra per tutta la vita, anche durante i suoi satsang. A chi gli chiedeva come mai un maestro spirituale si lasciasse andare a un tale vizio, rispondeva impassibile che il vizio lo aveva il suo corpo, non lui.

[6] «Liberazione», «salvezza», «affrancamento dal ciclo delle reincarnazioni» in tutte le tradizioni induiste, e prossima al da noi più conosciuto nirvana del buddismo. Noi l’abbiamo qui introdotto con «illuminazione» in quanto più prossimo alla nostra cultura e per quanto il termine sia soggetto a molteplici sfumature.

[7] Sat-cit-ananda: l’Essere supremo, Dio, l’Assoluto. «Chi mi percepisce dappertutto e vede ogni cosa in Me non mi perde mai di vista, né io perdo mai di vista lui» dice Krishna ad Arjuna in Bhagavad Gita VI:30. 

ARTICOLO n. 56 / 2023

QUASI ZERO

in memoria di g. detto p.

All’inizio di questa primavera è morto un uomo di novant’anni. È stato uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento e dei primi ventitré anni del nuovo millennio, sebbene non abbia mai pensato di essere un rivoluzionario. Il suo stile di vita, se fosse stato diffuso in tutto il mondo e soprattutto in Occidente, forse avrebbe cambiato le sorti del pianeta, ma il suo stile di vita era eversivo, inaccettabile proprio per l’Occidente.

L’uomo era nato e cresciuto nell’hinterland sudovest di Milano, quando hinterland esisteva come parola ma non ancora come zona periferica estesa intorno alla città. 

Negli anni Sessanta, la cittadina nella quale l’uomo viveva offriva tutto ciò di cui un essere umano, nel Novecento, necessitava: case, scuole, un ospedale, fabbriche, uffici, autobus, treni, campi coltivati, cascine, orti, un mercato trisettimanale, supermercati, sedi di partito, circoli dopolavoristici, bocciofile, campi da calcio, una piscina, una biblioteca.

L’uomo aveva conosciuto una coetanea, si era fidanzato e sposato. La moglie faceva la casalinga, non si sa se per scelta, poiché in quel periodo era abbastanza semplice trovare un lavoro. L’uomo lavorava come operaio in un’azienda che produceva lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, scaldabagni e altri elettrodomestici.

Il loro primo e unico figlio era nato nel 1962. La coppia viveva in affitto, all’ultimo piano di una palazzina di quattro. Era una di quelle palazzine senza ascensore, costruite negli anni Cinquanta, l’intonaco beige, le tapparelle nocciola, le finestre al piano terra con affaccio sulle auto parcheggiate rasente il muro condominiale, e i piccoli balconi punteggiati dalle tende blu, rosse, verdi, indispensabili durante i mesi estivi. 

Una vita condominiale tranquilla, vivacizzata soltanto dalla musica che il vicino di casa ascoltava a un volume ritenuto, dall’uomo, troppo alto. Allora l’uomo percorreva due metri sul pianerottolo e bussava alla porta del vicino. Preferiva bussare al posto di suonare il campanello: forse in quella scelta, che prevedeva l’uso di una parte del proprio corpo, sentiva una intenzionalità, una responsabilità, un rigore morale. 

E tuttavia, al tempo stesso, si infastidiva poiché doveva bussare forte, picchiare le nocche su quel legno modesto, rivaleggiando, nella scala del rumore, con le canzoni di Mina, Celentano, gli acuti di tutta la musica leggera italiana. 

Il vicino apriva la porta e dopo i rimproveri abbassava il volume, per il quieto vivere. A volte, invece, non si alzava dalla poltrona: riconosceva il suono delle nocche sulla porta e abbassava il volume, lasciando all’uomo la sensazione che tutto fosse una specie di allucinazione prodotta dalla sua mente, dal suo battito accelerato davanti alla porta di un estraneo.

L’uomo considerava il vicino amante della musica leggera come qualcosa di vago, un giovane, un giovanotto, o meglio, un giovinotto, sebbene il vicino avesse soltanto quattro anni meno di lui. 

Dopo un decennio in affitto, la coppia aveva deciso di acquistare un appartamento al quinto piano di un palazzo di nove. Il figlio avrebbe avuto una stanza tutta per sé. 

L’uomo lavorava in un’azienda solida, le pubblicità delle lavatrici e delle lavastoviglie apparivano su alcuni quotidiani, a volte perfino sul giornale del Partito Comunista Italiano. L’uomo non comprava mai il giornale del Partito Comunista Italiano: non era comunista, ma anche qualora fosse stato comunista, non avrebbe comprato il quotidiano del Partito Comunista Italiano; se fosse stato socialista, non avrebbe comprato il giornale del Partito Socialista Italiano, e se fosse stato democristiano non avrebbe comprato il quotidiano della Democrazia Cristiana. L’uomo aveva uno stipendio dignitoso, ma comprava pochissime cose, evitava di lasciarsi sedurre dagli slogan e dalle esigenze indotte dalla pubblicità. La pubblicità degli elettrodomestici prodotti dall’uomo esaltava la qualità di lavatrici e lavastoviglie, arrivando a sostenere: Danno rilievo alla vostra personalità.

La coppia aveva acquistato l’appartamento, l’aveva arredato in modo frugale, comprando pochi mobili e gli elettrodomestici indispensabili – il frigorifero e la lavatrice – ma non la lavastoviglie, sebbene la producesse proprio l’uomo lavorando alla catena di montaggio. E invece, dopo cena, l’uomo lavava i piatti, anzi, pretendeva di lavare i piatti: dopo otto ore di lavoro in catena di montaggio, amava riempire il lavandino di detersivo e immergere le proprie mani nell’acqua calda mimetizzata nella schiuma bianca, per allontanare e dimenticare – nel calore che diventava molto in fretta tepore e freddo in pochi minuti – il motivo per cui aveva passato tutte quelle ore dentro la fabbrica. Una lavastoviglie, invece, glielo avrebbe ricordato sempre.

Del resto, come anticipato all’inizio di questo omaggio a uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento, l’uomo si era distinto per la frugalità quasi assoluta, che rasentava il fanatismo mistico, se soltanto l’uomo fosse stato incline al misticismo religioso. 

Non aveva mai voluto prendere la patente di guida e quindi non aveva mai comprato un’automobile. La distanza dalla casa alla fabbrica era di 1300 metri. L’uomo percorreva quel tragitto quasi sempre in bicicletta, a volte a piedi, impiegando, a seconda della scelta, quattro o sedici minuti. Usava la bicicletta in qualsiasi stagione dell’anno, quando pioveva pedalava proteggendosi con un ombrello; qualora nevicasse, davanti a una decina di centimetri sull’asfalto decideva di andare al lavoro a piedi. Indossava la tuta da operaio fornita dall’azienda, un giubbotto blu in autunno-inverno, e calzava scarpe antinfortunistiche. 

In primavera-estate, non appena tornava a casa scendeva nel proprio orto. L’uomo coltivava un piccolo pezzo di terra ricavato nel campo adiacente al condominio: lattuga, pomodori, zucchine, melanzane. Indossava un paio di jeans, una canottiera bianca, e calzava sandali di plastica, marrone, quel tipo di sandali che abbiamo visto in luoghi marini fin da quando siamo nati, quasi sempre di colore rosso, e invece l’uomo li aveva acquistati marroni, forse perché marroni, di plastica, non li voleva nessuno. 

Cenava presto, verso le 18.30, poiché dopo aver lavato i piatti scendeva in cortile – di lunedì, mercoledì e venerdì – per occuparsi del giardino condominiale. È un mistero immaginare cosa pensasse mentre fissava l’acqua uscire dalla canna. A volte ripeteva frasi che sembravano originati da un discorso rimasto incastrato nella propria mente e centellinato da un gocciolare in dialetto milanese.

Incoue (oggi). E poi taceva.

Vegna chi (vieni qui), come se parlasse a un insetto che gli girava intorno disturbandolo, come se parlasse all’aria, a una parola. E poi taceva.

Giüga no a la bala (non giocare a pallone). E poi taceva.

Il sabato, una volta al mese, tagliava l’erba del giardino condominiale. Non è chiaro se lo facesse per guadagnare qualcosa oltre allo stipendio. In quel periodo storico, un operaio guadagnava abbastanza per mantenere una famiglia di tre persone. 

L’amministratore condominiale era contento della sua disponibilità. Quando la fabbrica di elettrodomestici chiudeva per ferie – quattro settimane in agosto, come era consuetudine in quegli anni – l’uomo non andava in vacanza. Si alzava all’alba, pedalava per sette chilometri e raggiungeva la sponda del fiume. Se andava bene pescava alborelle, un paio di trote, tornava subito a casa, la moglie cucinava il pesce. Dopo pranzo l’uomo abbassava a tre quarti la tapparella della camera da letto e si addormentava in penombra. 

A differenza della maggioranza degli altri condomini, non aveva montato sul balcone le cosiddette veneziane, quei serramenti di listarelle verdi, di plastica, collegate da nastri e orientabili in modo da variare il flusso luminoso. Non aveva acquistato nemmeno un piccolo ventilatore. Usufruiva della corrente d’aria fresca generata dal lasciare aperte tutte le finestre. Quando si alzava, beveva un caffè con la moglie e andava nell’orto. Innaffiava utilizzando l’acqua di una roggia che scorreva a pochi metri. 

Dopo cena, lavava i piatti, scendeva in cortile tre volte alla settimana, per innaffiare il giardino condominiale.

Può sembrare noioso passare così le quattro settimane di ferie, o meglio, la vita; eppure le quattro settimane di ferie passavano davvero in fretta, proprio come novant’anni, proprio come la vita; e a settembre ricominciava il lavoro alla catena di montaggio delle lavastoviglie. 

In autunno e in inverno, l’uomo indossava il giubbotto blu sopra la tuta da operaio. La moglie, quando usciva per andare al mercato o al supermercato, indossava un giaccone e calzava scarpe basse stringate. Difficile dire se, almeno all’inizio del matrimonio, avesse desiderato un altro stile di vita; difficile dire se la sobrietà rivoluzionaria dell’uomo fosse condivisa e incentivata dalla moglie casalinga, oppure se la donna subisse le scelte estremiste del marito. A ogni modo, la donna usciva quasi sempre in bicicletta, una Graziella con la quale ritornava a casa traballante, poiché infilava due sacchetti della spesa ai lati del manubrio.

A differenza di molti operai, che si indebitavano per acquistare a rate la pelliccia desiderata dalle mogli, desiderata da loro stessi per avere una moglie impellicciata, l’uomo non aveva mai comprato una pelliccia.

Eppure avrebbe potuto subire le pressioni sociali, le convenzioni conformiste che, nelle giornate festive e prefestive si manifestavano in modo evidente. Capitava che la coppia uscisse di sabato pomeriggio nel centro della cittadina, proprio come altre coppie. 

Nel centro affollato incontravano anche i colleghi dell’uomo, operai e impiegati che passeggiavano assieme alle mogli impellicciate: pellicce per lo più di opossum, ma non mancavano, tra gli impiegati, chi aveva scelto la pelliccia di volpe bianca, e non mancavano, tra i capireparto, chi aveva scelto, per distinguersi sia dagli operai sia dagli impiegati, una pelliccia di visione. Ecco allora che le parole ascoltate durante la pausa pranzo – opossum, volpe, visone – avevano un senso, in particolare opossum, che l’uomo identificava con un desiderio più accessibile di altri, un desiderio che, a maggior ragione, riteneva superfluo.

Eppure, nonostante la parata di animaletti uccisi che si muovevano lenti o stazionavano davanti alle vetrine dei negozi, l’uomo non aveva mai ceduto, e la donna neppure: avanzano in quella carneficina stretti nei loro giacconi di panno.

La domenica, nessuno dei due andava a messa, sebbene avessero seguito i normali riti cattolici: si erano sposati in chiesa, avevano battezzato il figlio, lo avevano mandato a catechismo per la comunione e poi per la cresima.

Il figlio nei primi anni di vita si era adeguato allo stile di vita austero imposto dal padre, ma già durante le scuole elementari aveva sperimentato quanto fosse difficile confrontarsi e competere con le vite degli altri: nessuna vacanza al mare, in montagna, nessuna immersione, nessuna camminata, nessuna nuova città, nessun monumento, nessuna avventura vacanziera da raccontare, e crescendo, nessuna nuova ragazzina incontrata al mare, in montagna. E così, dopo la terza media, forse per allontanarsi dallo stile di vita imposto dal padre, il figlio aveva deciso di abbandonare gli studi. Era andato a lavorare come operaio in una piccola fabbrica, molto più piccola di quella in cui lavorava il genitore. Aveva comprato un motorino, un Garelli. È plausibile credere che il padre si fosse opposto all’acquisto, ma così come aveva accettato la decisione del figlio di interrompere gli studi, allo stesso modo aveva accettato l’acquisto del Garelli. E tuttavia aveva imposto alcune restrizioni: il figlio poteva guidare il Garelli soltanto di sabato e domenica, non poteva usarlo durante la settimana. Il figlio andava al lavoro in bicicletta, proprio come il padre.

Quando era diventato maggiorenne, il figlio aveva pensato di comprare un’auto, e il padre non si era opposto. Il figlio aveva scelto una Fiat Ritmo, ma il padre, ancora una volta, aveva imposto di non utilizzare l’auto durante la settimana, e il figlio, benché fosse maggiorenne, aveva obbedito. 

Padre e figlio continuavano ad andare al lavoro in bicicletta. 

L’azienda di elettrodomestici non andava bene come dieci, vent’anni prima. L’azienda era stata acquisita da un’azienda più grande che aveva pianificato molte acquisizioni in Italia e all’estero, e come un impero troppo smanioso di ingrandire la propria influenza, alla fine era crollata, trascinando con sé le aziende controllate. 

L’uomo aveva fatto appena in tempo ad andare in pensione. Il figlio si era sposato e il padre, grazie alla liquidazione, aveva aiutato il figlio a comprare una villetta.

L’uomo aveva continuato a vivere come nei decenni precedenti, se si eccettua la libertà conquistata andando in pensione dopo trentacinque anni di fabbrica.  

Nessuna vacanza. La pesca. L’orto. Poi aveva smesso di coltivare l’orto e di pescare. Usciva in bicicletta un paio di volte al giorno. Fino a novant’anni. 

Come a volte capita in questi casi, marito e moglie sono morti a distanza di pochi giorni.

Qualche settimana fa ho visto un trentenne davanti al condominio, stava appendendo un cartello, l’annuncio di un’agenzia immobiliare con la scritta vendesi. 

Poteva essere l’appartamento acquistato dalla coppia mezzo secolo prima, l’appartamento che il figlio ha deciso di vendere; forse il figlio ha perlustrato la casa arredata come cinquant’anni fa, la cantina quasi vuota, il garage quasi vuoto, se si eccettuano le due biciclette dei genitori.

Sarebbe troppo facile equiparare lo stile morigerato di quest’uomo e di questa donna con quello di molte persone più o meno giovani che si preoccupano delle sorti del pianeta; persone che, in pochi anni di vita, hanno prodotto più CO2 di quanta ne abbia prodotta quest’uomo in novant’anni di esistenza.

Ha usato la stessa bicicletta negli ultimi cinquant’anni. Non ha mai preso un aereo. Mai una nave. Mai un autobus. Mai un treno. Non ha mai guidato un’automobile. Non ha mai usato il Garelli del figlio. Lo hanno trasportato sull’ambulanza che lo ha condotto in ospedale. Lo hanno trasportato sul carro funebre che lo ha condotto al cimitero. 

Ha vissuto novant’anni, in Occidente, muovendosi dalla casa alla fabbrica in bicicletta o a piedi, come un cinese del Novecento di Mao, ma resistendo a molte più tentazioni. Se tutti gli abitanti dell’Occidente novecentesco avessero adottato il suo comportamento, forse ci sarebbe stata una disoccupazione di massa. Ignoro quanto sia desiderabile una vita come la sua. Ignoro quanti miliardi di persone sarebbero disposte a vivere come lui. 

E chissà se uno stile di vita come il suo avrebbe potuto salvare il pianeta. 

Alle scuole elementari, la maestra ci aveva portato a visitare la fabbrica di elettrodomestici. Avevo visto l’uomo concentrato lungo la catena di montaggio, senza che potesse sollevare lo sguardo. Come capita quando una scolaresca visita un luogo con intenti pedagogici, anche la catena di montaggio si era fermata per alcuni istanti. L’uomo aveva sollevato la testa e, riconoscendomi, aveva abbassato lo sguardo, colpito dall’assenza di rumore, dal silenzio artificiale coperto dalle voci di chi ci accompagnava. Credo che non fosse contento di essere esposto a un gruppo di bambini, e in particolare, a me, che lo conoscevo. Una sorta di pudore per la propria condizione, per la mia impudenza infantile che immaginava di poter guardare tutto, di avere davanti ancora tanto tempo, di essere lì, nel 1974, fuori dal tempo, poiché perfino il tempo produttivo si era inchinato per qualche istante all’afflato educativo; poi i macchinari erano ripartiti, avevo fissato l’uomo e non mi era sembrato più lui, come se il rumore in sottofondo e i gesti necessari componessero un’altra persona, e non l’uomo che innaffiava l’orto, il giardino condominiale, l’uomo che non desiderava nulla. 

Mi ero allontanato assieme al resto della classe, ero bambino e mi sentivo mortale, avevo guardato i miei compagni, le mie compagne: bastava poco, per non essere più noi, mezzo secolo fa. 

ARTICOLO n. 55 / 2023

IL NOSTRO BISOGNO OCCIDENTALE DI ORIENTAMENTO

È ora di cambiare le nostre parole se vogliamo adattarci alle nuove realtà. Non siamo consapevoli del fatto che alcuni termini utilizzati per definire concetti specifici o anche vaghi ci imbrigliano in realtà sorpassate, ci portano su antichi binari che ci irrigidiscono la mente, già di per sé organo sempre meno flessibile. 

La parola che vorrei riuscissimo a studiare per comprendere quanto ci porti a concetti sbagliati sulla realtà internazionale è “Oriente.” Tanto quanto la parola Occidente oggi avrebbe bisogno di un sinonimo più preciso.

“Orientarsi” è la parola più usata per indicare la posizione in cui ci trova in un dato istante, sinonimo di raccapezzarsi e ritrovare sé stessi. La forma riflessiva di “orientare” significa capire dov’è l’est, stabilire la propria posizione rispetto al sorgere del sole.

Per vederci più chiaro, soprattutto nelle ore mattutine, greci e romani dell’antichità orientavano i loro templi con affaccio a est. Da questo concetto, in molte lingue si è sviluppata l’idea di “orientamento” come un processo verso la conoscenza di sé.

Nascosto tra le pieghe del nostro linguaggio esiste quindi il bisogno di capire ciò che chiamiamo ancora “l’Oriente.” E oggi ferve un bisogno ancor più pressante, in Europa e in America, di disegnare una mappa per riorientarsi, interrogandosi su come “il vecchio Occidente possa affrontare il nuovo Oriente.”

 È la domanda stessa a essere sbagliata. Non vi è nulla di più disorientante delle parole usate per formulare questa inchiesta. La civiltà nel cosiddetto Oriente non è nuova. È antichissima. 

Il presunto “nuovo Oriente” attinge a quest’antichità per trovare coesione e forza, sia nel collettivismo che deriva dalla filosofia di Confucio, sia nella filosofia induista che nutre la spinta propulsiva del sub-continente inseguendo il suo dharma, e sia nel tradizionalismo familista, dinastico, religioso e culturale che attraversa il Sud come il Nord dell’Asia, dove anche il comunismo cinese si presenta oggi come una forma reazionaria, una propulsione al servizio di un’ideologia antica e che poco ha di innovativo in un mondo basato sul globalismo di Internet, sulle trasformazioni attuali e imminenti dell’Intelligenza artificiale, sulla trasmutazione della società dalla rivoluzione industriale ottocentesca vista in chiave marxista al 2023 cibernetico post-pandemico e inter-connesso del telelavoro. 

La spaccatura dicotomica di “Occidente e Oriente” è una pigrizia storica dell’Europa e delle culture anglo-sassoni, ovvero: le Isole britanniche più il Nord America (Messico escluso) e Australasia. 

Nella terminologia più contemporanea l’aggregazione di questi Paesi viene ora definito come Nord Globale (con l’aggiunta del Giappone). 

Per Asia, Africa e America Latina s’è affermata la definizione di “Sud globale,” a sostituire la gerarchia svilente del termine “Terzo mondo” o quella spiazzante di “Paesi in via di sviluppo,” dove si valuta il cosiddetto sviluppo attraverso una prospettiva europea e anglo-sassone legata a un concetto di progresso non necessariamente condiviso nel resto del mondo. 

Nel contesto bellico iniziato nel 2014, la Russia si identifica in un ponte chiamato “nazione euroasiatica,” il che spiega il suo ruolo di prepotente aggregatore, lanciato a riportare l’Europa alla sua realtà geografica di propaggine estrema di un territorio ininterrotto che inizia ai confini con l’Alaska e termina a Gibilterra.

Tutto ciò per liberarci da una briglia mentale pericolosa, quella costruita sulla parola “Oriente,” pregna di stucchevole esotismo, e dell’aggettivo sostantivato di “orientale,” che oggi nel mondo anglo-sassone viene percepito dalle minoranze asiatiche come un insulto razzista. 

Forse questo ragionamento può servire anche a decostruire l’idea di Occidente, termine che definisce una realtà ancor più magmatica e inafferrabile. 

Definire “gli altri” riesce sempre più facile che definire sé stessi. 

Cos’è l’Occidente oggi? È woke? Odia gli immigrati? È ancora democratico? O ama il leader forte al comando, con pochi limiti? Molti europei sono stati colti di sorpresa dalla Brexit, attoniti di fronte all’isolazionismo anti-atlantista trumpiano, spaccati a est dagli ammiccamenti al putinismo, e in fase di esame di coscienza sulla disumanità tutta occidentale di un colonialismo che ha arricchito il Nord globale negli ultimi cinque secoli. 

Nuovo Oriente e vecchio Occidente. Niente di più sbagliato. 

L’Oriente non è nuovo. Il rafforzamento del ruolo dell’Asia rappresenta un ritorno storico a com’erano gli equilibri internazionali prima della guerra dell’oppio, non è una novità. Una storia interpretata da una vera prospettiva globale ce lo racconterebbe meglio, non questi sussidiari dei vincitori che ci hanno distorto uno sviluppo degli eventi diverso da quanto è accaduto.

Ma, poi, Oriente rispetto a quale punto cardinale? Dov’è collocato il centro di Occidente e Oriente? Nel Medio Oriente di Gerusalemme? Sarebbe una prospettiva giudaico-cristiana che riflette una prospettiva culturale e geografica non condivisa da tutto il mondo. Per Oriente intendiamo spesso l’Asia. Mentre “Oriente” è un termine che colloca l’identità come decentrata da un altrove, “Asia” esprime in modo più neutro sul mappamondo l’ubicazione di una regione specifica dove, si dice, sta germogliando il nostro futuro. Che, come vedremo, è già il presente.

L’Occidente non è vecchio. La cultura europea è più giovane di quella indiana e cinese. Nemmeno antropologicamente siamo i più vecchi, poiché gli esseri umani si sviluppano in Africa, come ci spiega la scienza. I primi esseri umani comparvero in Africa circa 300 mila anni fa. In Asia, 50 mila anni fa. In Europa solo 43 mila anni fa. L’Europa è il continente più giovane, in questo senso. 

Ma anche nel contesto delle civilizzazioni. Le più antiche nacquero in Mesopotamia, in Egitto, nella valle dell’Indus e in Cina. Nessuna in Europa.

I bianchi caucasici non sono altro che il risultato di una tendenza alla depigmentazione cutanea per assorbire vitamina D dai raggi solari, quando per necessità l’eccesso di umanità si è vista costretta a spingersi verso zone dove il sole si nasconde a lungo d’inverno.

La stessa America bianca, quella anglosassone e protestante, quella che comanda, fa le leggi, influisce sull’economia, quella che ha gestito il potere all’interno degli Stati Uniti dalla Rivoluzione americana a oggi, è giovanissima, figlia dell’adolescente Protestantesimo (nel contesto delle antiche religioni) e dell’imberbe Illuminismo (nel contesto delle filosofie globali).

Ciò che chiamiamo Occidente, cioè il Nord globale, non è vecchio. Ma sta invecchiando. Soprattutto, cosa più preoccupante, si sente vecchio. Sempre più vetusta è la sua cultura, poiché noi così la percepiamo.

Il Nord globale è, sì, vecchio, ma in quanto, lasciando da parte gli eufemismi, è pieno di vecchi, torturati da acciacchi e malattie pur rimanendo combattivi. Vecchi nostalgici pieni di vecchie idee, refrattari e inflessibili al cambiamento, all’adattamento, sempre più lenti nell’innovare.

 In questo, l’Occidente è in effetti più vecchio dell’Oriente. Ovvero il Nord globale invecchia demograficamente e sente una stanchezza culturale, aggrappandosi a sani principi di antica democrazia, un rispolverare i diritti civili (dopo aver violato quelli di gran parte del mondo con la colonizzazione), e alla miscela ondivaga di libertà e uguaglianza che si eroga in sede parlamentare, dove gli eletti dovrebbero legiferare per modulare queste due forze plasmanti della società. 

In termini meramente demografici, è giusto parlare di nuova e giovane Asia e di geriatrica e consunta Europa alleata a Nord America-Australasia. 

Giovane Sud e vecchio Nord del globo

Questo di per sé dovrebbe spiegare perché il travaso migratorio conviene a tutti: il Nord globale dovrebbe esportare un po’ di pensionati verso il caldo dei tropici thailandesi, malesi, indiani e indonesiani, e il Sud globale dovrebbe esportare quei giovani in eccedenza che vogliono lavorare nel Nord globale, contribuendo con i loro redditi a finanziare le pensioni del Nord. Bisognerebbe prenderne atto onestamente e organizzare il flusso, evitando gli orrori alle frontiere per i quali saremo ricordati dalla Storia.

Per capire l’Asia come lei vede sé stessa, e liberarci dei nostri offuscati prismi, bisogna iniziare dalle parole. Non parliamo più di Oriente e di Occidente. Parliamo di Asia, di Europa, di America del Nord. Chi gioca ancora con queste parole, nei suoi libri, nelle sue rubriche, manipola una rigidità mentale che è dannosa per tutti. Siamo un po’ più precisi e liberi da divisioni che stanno mutando. E studiamo la storia. Anche quella recente.

Le quattro fasi storiche dello sviluppo asiatico dal Dopoguerra a oggi sono note. Comincia con il miracolo giapponese che risorge dalle ceneri post-atomiche di Hiroshima e Nagasaki e ricostruisce economia e industrie per raggiungere l’acme negli anni Ottanta, inseguita dalla seconda fase, quella delle Tigri asiatiche, guidate dalla Corea del Sud che con la sua ingegneria e duro lavoro si afferma anch’essa creando un contesto regionale attorno al Giappone, aprendo la strada negli anni Novanta alla svolta cinese verso una forma di capitalismo comunista, ossimoro su cui si basa ancora il suo successo (comunisti a casa, capitalisti nel mondo), che apre ora alla quarta fase, quella di un Sud-est asiatico guidato dall’India quinta potenza economica globale, con una crescita dell’economia più veloce del mondo, assieme a Vietnam e Filippine, incalzata dal galoppo dell’Indonesia.

Da più di trent’anni, molti europei e anglo-sassoni tengono gli occhi puntati ossessivamente sulla minaccia cinese. Lì ci sono gli affari, lì c’è una potenza militare che incute timore. E da questo sguardo interessato si forma quindi il timore dello sviluppo del nuovo centro di un nuovo impero. 

Per contro, la Cina predica il desiderio di partecipare, prima inter pares, a un mondo multipolare, dove vige la democrazia tra Paesi, e non il dominio di un super-potere come nel blocco a Ovest, con l’America che fa il poliziotto del mondo e gli altri che si devono accodare. Democrazia nei rapporti tra nazioni che al loro interno hanno ben poca democrazia.

Così, però, ci perdiamo ancora in un paradigma che non è detto si snodi come lo immaginiamo, con la Cina padrona del mondo, una visione in realtà sorpassata. Il futuro prossimo è nel Sud-est asiatico, lì c’è il prossimo mercato. 

La Cina ha già raggiunto un punto di culmine di un arco, non solo demografico, ma anche di espansione economica aggressiva. Difficile vedere crescite esponenziali in Cina come le impennate viste dagli anni Novanta a oggi. Quelle sono previste in India. 

Grazie al contenimento americano, ma anche grazie all’arco stesso dello sviluppo di una nazione, la Cina punta oggi, come tutti coloro che hanno seguito nella tradizione del mercantilismo anche di natura hamiltoniana, al suo mercato interno, a vendere prodotti cinesi ai cinesi, per arricchire la propria economia riducendo la dipendenza dalle esportazioni, dove resta comunque forte. La Belt and Road sembra sempre più un tentativo, molto costoso, di consolidare mercati. E ha avuto risultati poco gloriosi, finora, con investimenti che non hanno generato frutti succulenti. Forse li darà in Africa, ma in Asia, per ora, la scommessa non ha restituito tantissimo. 

Molti temono che il conflitto globale vero non deflagrerà in Ucraina, ma nell’Indo-pacifico. Lì vanno ammassandosi le armi, con l’India che è uno dei massimi importatori e ora vuole diventare un produttore di armi, con grande gioia dei mercanti e produttori europei e anglosassoni di sistemi di difesa. Ma ciò rischia di diventare un ineludibile gioco di détente simile a quello della Guerra Fredda. Un gigantesco affare per tutti i produttori di armi accalcati attorno a Taiwan come fosse il nuovo Muro di Berlino in una nuova Guerra Fredda con, da un lato, il Nord globale guidato dagli Stati Uniti e, dall’altro, il Sud globale che si propone come un riallineamento multipolare dei BRICS (organizzazione intergovernativa di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) cui potrebbero unirsi l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita, Paesi che grazie a Xi Jinping per la prima volta in molti anni si stanno stringendo la mano nonostante siano occupati in una guerra per procura prolungata nello Yemen. Le basi del mondo multipolare potrebbero chiamarsi quindi BRICSIA.

Ma non è così elementare. Sarebbe bello poter semplificare tutto così. La realtà è che i protagonisti sulla scacchiera della geopolitica operano in maniera più complessa. I rapporti all’interno dei BRICS sono triangolati. Cina e India hanno un conflitto militare sull’Himalaya. Mentre la Cina sostiene il Pakistan, altro nemico nucleare dell’India, Mosca pare sostenere Delhi cui vende armi e che sostiene da sempre in sede Onu. 

La Cina tiene la Corea del Nord sotto la sua ala protettiva, provocando il Giappone, colpito dai giochi missilistici di Kim Jong-un. Iran e Arabia Saudita sono ufficialmente in guerra. E mentre in questa rete sempre più complicata la Cina tesse le sue alleanze, la sua flotta navale provoca nazioni filoccidentali come le Filippine di Marcos, spinte sempre più verso nazioni come l’Australia, il Giappone, gli Stati Uniti e l’India alleate nel patto strategico Quadrilaterale, chiamato il Quad. 

L’India, com’è importante notare, fa da perno sia nei BRICS del Sud globale che nel Quad del Nord globale. Riesce a barcamenarsi al centro di questa nuova e presunta Guerra Fredda come Paese centrale, alleato da un lato e dall’altro. Ed è per questo che oltre alla Cina bisogna fare i conti proprio con l’India, che nel 2023 supererà la Cina in popolazione.

Dopo la pandemia è bene rilevare che le nazioni del BRICS contribuiscono di più al Pil globale, in termini di parità di potere d’acquisto (calcolando quindi anche i tassi di cambio), della somma dei Paesi del G7, cioè America, Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone, Canada e Italia. Il declino del G7 a scapito dei Paesi oggi facenti parti del BRICS è iniziato nel 1992 (con la crescita cinese), ma con la pandemia le curve si sono incrociate e divergono. Brics su, G7 giù.

Significa che siamo al culmine del decoupling, cioè che il mondo si sta spaccando anche commercialmente in due blocchi? Non è proprio così. In realtà la globalizzazione è viva e lotta insieme a noi. Anche perché è una forza verso la quale ci orientiamo sempre più, dopo i danni del protezionismo del Diciannovesimo secolo. 

Si parla tanto dei disastri della globalizzazione soprattutto perché ha impoverito una parte della classe medio-bassa degli Stati Uniti, gli elettori di Trump, e dell’Europa, gli elettori della destra nazionalista. Ma ciò che non si dice è che il commercio tra Cina e Stati Uniti nel 2022 è cresciuto del 10% in rapporto al 2021. Che la produzione di iPhone si sposta sempre più dalla Cina all’India, ma resta globale. E che con la nuova corsa al riarmo nell’Indo-Pacifico, compresi i nuovi accordi siglati anche dal governo Meloni nella riunione del G20 il mese scorso a Delhi, il flusso commerciale tra Nord e Sud globale non farà che crescere, in entrambi i sensi.

La paura nucleare

C’è quindi da stare tranquilli? Sì, tranne per la minaccia nucleare. Non solo per i missili putiniani e la frontiera Nato in Finlandia, ma proprio in Asia, dove l’India si confronta con il Pakistan e con la Cina, impegnata nei giochi navali a Taiwan. In Asia, dove un consolidamento del dialogo tra Iran e Arabia Saudita potrebbe creare un patto pericoloso verso lo sviluppo di armi nucleari in entrambi i Paesi. E senza scordare i giochi pericolosi nella Corea del Nord, nonostante sembrino sempre grida di aiuto per ottenere denaro in cambio di tranquillità in Nord Asia, il gioco che fa da sempre la famiglia al potere lassù. 

Per tornare alla domanda iniziale: come “orientarsi” in tutto ciò? Capendo che non c’è dunque un confronto tra il vecchio Occidente e il nuovo Oriente. 

C’è un Nord globale che va ridefinendosi, che nel 2024 con le elezioni presidenziali americane potrebbe cambiare radicalmente (se la guerra in Ucraina non dovesse terminare prima delle elezioni americane, e se dovesse vincere Trump, finirà subito la guerra?), dove la Nato sembra rafforzarsi, ma la Ue che ha perso il Regno Unito vede al suo interno forze che ammiccano alla Russia e nazioni che potrebbero riprendere a flirtare con la Via della Seta. 

E poi c’è un Sud globale in cerca di una coesione, ma il cui futuro non può essere interpretato con la chiave storica utilizzata negli ultimi secoli, poiché potrebbe presentare sorprese, in quanto espressione di mentalità ben diverse da quella che ha trasformato il mondo, dominandolo, per qualche secolo.

ARTICOLO n. 54 / 2023

ALLA RICERCA DEL PIACERE PERDUTO

Sesso, godimento, desiderio

Alcuni anni fa, in un periodo in cui ero ancora una balda e giovane studentessa universitaria, mi capitò di vedere un documentario spagnolo su sessualità ed eros in Giappone. Il documentario, che si intitolava L’Impero dei Senzasesso, raccontava come la terra nipponica detenesse già ai tempi (il 2013) il record mondiale di astinenza sessuale, con oltre il 40% della popolazione tra i 18 e i 35 anni che si dichiarava vergine e non interessato/a ad avere un incontro sessuale o una relazione. 

La cosa più curiosa, però, è che il Giappone era (ed è) al contempo il paese con un’industria sessuale altamente redditizia, posizionandosi tra i primi paesi al mondo esportatori di pornografia, bambole gonfiabili e addirittura androidi studiati ad hoc per soddisfare i piaceri sessuali degli astinenti. Infatti, mentre gli incontri sessuali di coppia continuano la loro inesorabile decrescita, lo stesso non si può dire dell’autoerotismo e del consumo di pornografia di ogni tipo. Gli onakura, ovvero negozi dedicati alla masturbazione (principalmente maschile) ed equipaggiati di cassette pornografiche, sex toys e addirittura dipendenti pagate per guardare,proliferano nelle città giapponesi ormai da anni. Sono ambienti scuri, isolati e solitari che i frequentatori apprezzano molto poiché, dicono, trovano l’idea di un rapporto sessuale o romantico estenuante e preferiscono appagare il proprio desiderio in solitaria senza bisogno di interfacciarsi con un essere umano. 

Se ai tempi in cui consumai quel documentario il Giappone mi sembrava un mondo distante, distopico e ai limiti dell’assurdo, negli ultimi anni mi è capitato di ripensare spesso alle storie degli hikikomori (“i reclusi”), dei parasaito shinguru (“i single parassiti”, ovvero persone che vivono con i genitori oltre i vent’anni) e, in generale, alla sekkusu shinai shokogun (“sindrome del celibato”) giapponese, cominciando a scorgere i sintomi di queste tendenze anche nelle società occidentali, sebbene naturalmente con alcune alterazioni. Ciò che mi risulta particolarmente intrigante è la trasversalità di un’astinenza sessuale che sembra trovare il suo nucleo non tanto in un completo abbandono del piacere, quanto più in una forte crisi delle relazioni umane.

In effetti, di recessione sessuale si parla sempre più spesso anche da noi, e se ne parla soprattutto nei termini per cui essa pare affliggere specialmente le generazioni più giovani. Già da prima della crisi sanitaria del Covid-19, nel 2018, la rivista Atlantic battezzava questo fenomeno pubblicando un articolo dal titolo Perché le persone giovani fanno così poco sesso?, il quale riportava alcuni dati rilevanti sulla vita sessuale della cosiddetta Gen Z e dei Millennial che, secondo numerose ricerche condotte in diversi paesi occidentali e orientali, stava subendo un notevole calo sia nella quantità che nella qualità. Anche in Italia il fenomeno è stato indagato soprattutto dopo la pandemia e, nel 2020, uno studio dell’Università di Firenze e di Catania ha mostrato come oltre la metà dei giovani si dichiarasse non appagato sessualmente. 

Ma da dove arriva il rifiuto del sesso in una società ormai sempre più pornificata in cui la rappresentazione sessuale è diventata parte integrante della nostra cultura e quotidianità? A questa domanda e a tutte le sue contraddizioni è dedicato l’ultimo saggio di Stella Pulpo, intitolato C’era una volta il sesso: Divagazioni ombelicali per ritrovare il piacere perduto in uscita in questi giorni con Feltrinelli Urra. Nel volume, l’autrice – già nota al pubblico femminile millennial per il suo storico blog “Memorie di una Vagina” – indaga con ironia e rigorosità il fenomeno del calo del desiderio sessuale e, di conseguenza, del nostro piacere. Mettendo a nudo il suo trascorso personale prima come donna, poi come femminista e infine come madre, Pulpo fa dialogare una moltitudine di fenomeni che costellano il mondo della sessualità sollevando una serie di riflessioni importanti sul legame tra la recessione sessuale e un’angoscia esistenziale sempre più pervasiva. Attraverso un’analisi leggera ma mai superficiale, l’autrice raccoglie diverse ricerche e punti di vista che la portano alla conclusione che le cause della recessione sessuale vadano ricercate nel sistema capitalista (basato sui concetti di competizione e individualismo) e l’incertezza del futuro (nero, precario e imprevedibile), i quali sviluppano delle conseguenze mortali sulla nostra libido e sul nostro piacere. Del resto, già nel 1955 il sociologo Herbert Marcuse scriveva nel suo Eros e civiltà che una società votata al lavoro, schiava dei ritmi capitalisti e vittima della repressione erotica sarebbe stata destinata all’infelicità e al disagio psicosociale. Che una società stressata, arrabbiata e impaurita faccia fatica a ricavarsi del tempo per pensare al piacere non è una novità (tanto che l’etnografa Kristen Ghodsee addirittura sostenne attraverso uno studio antropologico del 1990 che i sistemi socialisti e improntati alla collettività migliorassero l’appagamento sessuale e la qualità dell’intimità). 

E in effetti, chi riesce a dirsi oggi davvero immune a stati mentali deleteri per la salute come l’ansia, la depressione, lo stress, il senso di solitudine e di abbandono e la stanchezza? In questi ultimi anni, duri e tesi, abbiamo normalizzato così tanto il malessere psicologico che sembriamo esserci ormai arresi a un’esistenza in cui il piacere, in tutte le sue forme, viene relegata all’ultimo posto nella lista delle nostre priorità. Il tempo e lo spazio dedicati all’intimità non solo si sono assottigliati, ma hanno preso sempre più la forma dello smarrimento, della mancanza di interesse vero l’Altro, del mito della performance e soprattutto della criminalizzazione del piacere come attività non produttiva. In altre parole, le strutture sociali hanno contribuito a modellare e orientare il nostro desiderio fino a ridurlo ai suoi minimi storici, mantenendolo vivo unicamente all’interno di quelle attività che vengono ritenute proficue per il sostenimento dello status quo.

È questo il caso, ad esempio, della fertilità, del lavoro domestico e riproduttivo, e del desiderio maschile, concetti ancora profondamente radicati ai dogmi patriarcali e alla divisione dei ruoli sociali secondo regole binarie. Come bene spiega l’approccio femminista marxista, in Italia rappresentata dai preziosi contributi di Silvia Federici, non è infatti possibile analizzare le contraddizioni del sistema capitalista senza coglierne l’intersezione con il sistema patriarcale, poiché il capitalismo non solo è compatibile con lo sfruttamento e la produzione di gerarchie, ma ne è anche il principale produttore e fruitore. Proprio per questa ragione la disuguaglianza di genere, e tutti i costrutti culturali che essa si porta con sé, diventano una preziosa fonte di sussistenza per il sistema dominante. E anche per questo il piacere può esistere solo in una formula mercificata, commerciale e sempre più relegata all’ambito individuale. 

In questo senso, anche Stella Pulpo ragiona su come gli stereotipi di genere, i tabù e in generale la “maleducazione sessuale” siano complici di un sistema che finisce per sopprimere il piacere e il desiderio a favore di un’insoddisfazione vitale. Ed è qui che temi caldissimi come il consenso, la comunicazione, l’educazione al piacere, il poliamore e la fluidità relazionale emergono sottoforma di argomenti di cui non possiamo più ignorare l’esistenza, pena fustigarci con vite preimpostate e prescelte per noi, fatte di regole che non funzionano più e che limitano il raggiungimento del nostro piacere. Il calo del desiderio sessuale ed erotico, allora, simbolizza più il guasto di un sistema economico, politico e sociale di matrice capitalista-patriarcale che ci inibisce, ci intristisce, ci affatica e ci dissolve. In un mondo ormai pervaso di coach motivazionali, mindfulness e manuali che suggeriscono di pianificare i nostri momenti di piacere come se fossero appuntamenti di lavoro, Pulpo suggerisce l’adozione di una “resistenza erotica” che sfidi il sistema e, parafrasando Elisa Cuter, ci aiuti a ripartire dal desiderio. 

Non è molto lontana la sua posizione da quella di adrienne maree brown, che nel suo libro Pleasure Activism: La politica dello stare bene, pubblicato nell’estate dello scorso anno, immagina una militanza e una resistenza che mettano al centro proprio il concetto del piacere, inteso in senso ampio come rivendicazione della felicità, della soddisfazione, dell’umorismo, delle arti, e ovviamente anche del sesso. L’attivismo del piacere, secondo maree brown, attinge alla felicità e allo stare bene come una nuova forma di produzione di giustizia, liberazione e guarigione, mantenendo lo sradicamento dell’oppressione come l’obiettivo finale a cui ogni lotta dovrebbe aspirare. «Quando sono felice, ne beneficia il mondo», scrive l’autrice, ricordandoci che anche lo spazio e il tempo per il piacere fine a se stesso sono un diritto, e che, in assenza del godimento e della gioia necessari per scegliere di vivere a pieno la nostra vita, forse nemmeno le disuguaglianze, le ingiustizie e i sistemi oppressivi possono venire davvero sconfitti e radicalmente sovvertiti. 

Ci troviamo in un punto morto della storia in cui l’individualismo e l’egoismo che caratterizzano le società capitaliste del nuovo millennio stanno creando fratture difficilmente sanabili. Forse, però, se ricominciassimo a mettere a fuoco le nostre vite attraverso la lente del desiderio con una maggiore consapevolezza di noi stessi e dei nostri bisogni, si potrebbero finalmente creare nuovi spazi di riflessione politica e nuove utopie a cui aspirare.

Anche perché, se i nostri corpi nascono ed esistono per poter provare piacere, non è alquanto contro natura vivere in un sistema che punta a eliminare ogni fonte di benessere? O è forse preferibile un mondo fatto di onakura in cui rinchiuderci in solitaria per evadere dai dolori del mondo? Io, personalmente, preferisco credere nella resistenza erotica. La lotta per la liberazione del piacere non è più rimandabile.

ARTICOLO n. 53 / 2023

GIANNI CELATI: FERMARSI

Trilogia Celatiana. Nascondersi

Fermarsi, prima o poi bisogna fermarsi. Ecco una verità struggente della materia organica, più struggente mi pare della verità della morte, perché la morte è tutto tranne che stasi, la morte è trasformazione, decomposizione, nigredo, nuova vita, basta leggere il Bardo Thodol per rendersi conto quanto in Occidente abbiamo scelto di abdicare a metà della vita quando abbiamo deciso che la morte è solo non-essere invece che una nuova forma dell’essere. Ma fermarsi è doloroso, ha a che vedere con la perdita dell’energia, con l’energia che ci lascia. Abbiamo camminato e camminato verso l’orizzonte e alla fine l’abbiamo raggiunto, non c’è più nessun posto dove andare, ci sediamo e lasciamo che l’erba e il muschio ci seppelliscano. Nel Suffolk, cercando di raggiungere una spiaggia mediocre battuta dal vento in una primavera piovosa, passo davanti a un allevamento di maiali: gli adulti sembrano sassi tanto sono immoti, eppure fino a poco fa, quando erano piccoli, avevano tanta energia da non riuscire a stare fermi. Com’è possibile? La visione mi rattrista più della pioggia. La spiaggia è peggio che mediocre, è brutta, c’è un uccello morto, credo un cormorano ma è difficile dirlo perché è mezzo sommerso del mare, le piume incrostate dalla salsedine, è lontano e non ho più voglia di camminare per raggiungerlo. L’universo si espande, si raffredda e rallenta. Sembra così ovvio che l’energia vitale, il chi, sia l’unica cosa degna di essere studiata nel mondo, eppure pochi di noi ci badano, oggigiorno, a queste latitudini.

Alla fine anche Gianni Celati si è fermato: in Inghilterra, nel 1990. Non che si sia fermato davvero, ha continuato ad andare e venire, è tornato alla sua Emilia ancora per anni, ha girato mezzo mondo, ma insomma ha messo radici in qualche maniera, anche se alla sua maniera strana, sghemba, incerta, precaria. Abbiamo detto, nella prima parte di questo saggio, che tutto in Celati è duplice: uno strabismo, una sovrapposizione, come un’interferenza di due canali radio. Ogni cosa in Celati è enigmatica, e anche la sua decisione di fermarsi in Inghilterra lo è. Certo, Celati in Inghilterra ci veniva dai tempi del dottorato, e ha sposato una donna inglese, ma siccome negli scrittori veri non c’è davvero distinzione tra vita e letteratura, non possiamo fare a meno di chiederci quale sia il significato letterario dell’Inghilterra celatiana. Quando Cealti è morto, nel gennaio del 2022, ho letto in un profilo che il suo era stato un esilio, come quello di Meneghello, ma non sono d’accordo: Celati era in esilio anche prima, e allo stesso tempo era sempre a casa, non perché fosse un apolide, un cittadino del mondo, ma perché in lui la casa era proprio quello spazio aperto dall’esilio, quel movimento tra le parole.

No, non credo che Celati fosse in esilio in Inghilterra. “Esilio” è una parola troppo drammatica, troppo seria, e implica una polemica avrebbe definito “burocratica”, del genere che lo esasperava. Invece penso che in Inghilterra, letterariamente parlando, Celati ci sia venuto per nascondersi, ed è ancora nascosto tanto bene che nessuno l’ha trovato, né da una parte né dall’altra della Manica.

Inghilterra

L’Inghilterra è lo specchio attraverso cui si passa perché tutto sia uguale ma anche diverso, o diverso in una maniera che sembra uguale. È un’illusione, un gioco di prestigio, credi di vedere ciò che hai sempre visto e invece ci sei passato dietro e nemmeno lo sai. Vedi il negativo delle cose e nemmeno lo sai. Di tutti i posti in cui poteva decidere di stabilirsi, Celati ha scelto il più simile a Bologna: non Londra, troppo inumana, non le campagne bucoliche, troppo simili a cartoline, e nemmeno i laghi di Coleridge. Ha scelto Brighton, la città più hippy del Regno Unito, quella dove andiamo tutti quanti quando abbiamo bisogno di ossigeno in questa terra desolata del tardo capitalismo isolazionista. Brighton che dopo il referendum di Brexit ha cercato in maniera semiseria di proclamarsi città-stato per protesta, Brighton il paese delle meraviglie. La prima volta che ci sono arrivato mi ero appena trasferito, sarà stato il 2013, e ho subito pensato a quando dieci anni prima da Torino andavo a trovare la mia ragazza che abitava a Bologna, anche qui bisognava saltellare tra ragazzini punk e il suono di bonghi, però c’era il mare. Chissà cos’ha pensato Celati nel 2016 guardando quel mare, guardando verso l’Europa, di questo mondo sempre più ossessionato dai confini e dalle barriere, lui che ha speso tutta la vita a oltrepassare i confini e sfuggire alle barriere. Forse avrà visto un presagio della fine, i tempi stavano diventando inabitabili per uno come lui.

Quando si vive all’estero ci si nasconde sempre dentro a un’altra lingua. Ci si accorge che la lingua è sempre una maschera, ma anche una parte essenziale della personalità, in una maniera che non si coglie pienamente quando si è identificati con la propria cultura: ci sono cose che posso dire solo in inglese perché a dirle non sono io, è un altro, ma questo presuppone che anche le cose che posso dire solo in italiano le dica qualcun altro, perché se non la pensassi così sarei una specie di sciovinista linguistico: ma allora chi sono io senza la lingua? Questa è una domanda a ben guardare molto molto strana, una domanda che apre una vertigine profonda nel senso dell’io, e una domanda che chiunque si muova tra le lingue, come gli emigrati e i traduttori, non può fare a meno di porsi. È come se togliendoti la maschera ti togliessi anche la faccia e ti ritrovassi all’improvviso nudo e indifeso, ma anche libero, e credo che fosse proprio quella libertà che cercava Celati, quella libertà e quel senso di dislocazione, anche se portava con sé dell’angoscia. Per quella libertà Celati veniva amato e celebrato, ma il mondo dall’altra parte dello specchio, quell’angoscia, era anche quella una parte essenziale della sua scrittura.

Celati era molto consapevole della dimensione allo stesso tempo ironica e angosciante di questa dissonanza. C’è un racconto del 1991 intitolato Il desiderio di essere capiti in cui il narratore si trova ricoverato in un ospedale inglese e non riesce a parlare con l’infermiera giamaicana, lei non lo capisce e lui non capisce lei, e la situazione è comica ma fa anche paura, perché questo narratore è malato e vorrebbe che qualcuno lo capisse, invece i suoi sforzi si perdono, è come se un rumore statico coprisse la comunicazione. Quando si vive all’estero si perde molto di quello che si dice, quasi tutto, il che ti fa capire meglio come quasi tutto quello che dici anche nella tua lingua madre viene perso, e nessuno capisce veramente nessun altro, e la cosa è un po’ terrificante. Quando ho letto per la prima volta questo racconto di Celati lui era appena morto e non avevo capito che fosse un racconto, né che l’avesse scritto trent’anni prima: mi sembrava un resoconto dei suoi ultimi mesi da un ospedale dell’East Sussex. La letteratura serve a farci capire anche meno di quel che capiamo solitamente, e forse è giusto così.

Questa della lingua in un certo senso è una banalità, lo sappiamo tutti come stanno le cose. Ma uno scrittore che vive all’estero può nascondersi anche in altri modi, ad esempio più nascondersi nella tradizione letteraria, e anche questa è una cosa che ha fatto Celati e che in pochi hanno colto, mi pare, forse perché Celati si è portato addosso tutta la vita gli anni del Dams e di Bologna, del Settantasette eccetera, e questo ha un po’ oscurato quello che è diventato nella seconda parte della sua carriera. Prendiamo ad esempio Verso la foce: dove lo mettiamo un libro del genere nella tradizione letteraria italiana? Da nessuna parte, perché in Italia non esiste il nature writing, non esiste nemmeno l’essay in senso anglosassone, e il racconto di viaggio è sempre un racconto della bellezza che opprime il Bel Paese ovunque si vada. In Italia non si cammina molto, magari si cammina in montagna ma non si va certo nell’hinterland di Milano o sull’A4 a raccontare gli abusi edilizi e i capannoni industriali. In Inghilterra invece si cammina moltissimo, in pratica si potrebbe camminare da Londra e Edimburgo e da Norwich alla Cornovaglia senza incontrare opposizioni, mi verrebbe da dire che è proprio per questa abitudine a camminare che le enclosure del 1773 sono state qualcosa di tanto traumatico e che nelle città, persino a Londra, sopravvivono ancora i common, terreni aperti che sono di tutti.

Ma anche qui c’è una dimensione letteraria sottintesa al camminare: perché cos’è tutto questo vagare, questo andare a zonzo, andare avanti e indietro, perdersi e ritrovarsi, se non una metafora del saggio, dell’essay? O anche: che cos’è l’essay se non una fotografia di questo camminare, un camminare della mente, un camminare delle parole? Quando si cammina si attraversano zone belle e zone brutte, e la mente che cammina entra ed esce da cose belle e da cose brutte, a volte c’è il sole e a volte piove, questa è una cosa che il tanto bistrattato British weather insegna a noi italiani che vogliamo sempre il sole, sempre le immagini da cartolina. Quando ti risolvi a vagare in uno spazio privo di desiderio, del desiderio di arrivare a questo o quell’altro posto bellissimo, puoi andare sul delta del Po e raccontare i capannoni industriali e le villette geometrili anche se nessuno capisce esattamente quello che stai facendo né perché.

Hauntology

Oppure pensiamo all’hauntology, questo concetto inventato da Jacques Derrida per parlare degli spettri del marxismo che Mark Fisher ha applicato prima alla musica e poi a buona parte della cultura britannica dell’ultimo secolo: Gianni Celati è forse ciò che più si avvicina in Italia all’hauntology. E dico questo sapendo di essere inaccurato, e sapendo che se Celati mi sentisse, posto anche che sapesse cos’è l’hauntology, cosa che dubito, si arrabbierebbe moltissimo, direbbe che sto paragonando le mele con le pere, e certamente da qualche punto di vista avrebbe ragione. Ma ancora una volta ci troviamo di fronte allo strabismo, alla dissonanza, che è la scrittura di Celati: la sua Emilia leggera e scanzonata è anche inquietante, il mondo che racconta è già finito nel momento stesso in cui lo racconta, e quindi è un mondo di fantasmi, proprio come quello immortalato dalle fotografie di Ghirri che con il loro senso di nostalgia e sospensione, con il loro sottotesto politico implicito, parlano sempre di ciò che infesta, ciò che perseguita, haunt appunto, anche se lo fanno con i colori morbidi e le luci soffuse della provincia emiliana che non hanno niente a che vedere con l’inquietudine, le eerinessdirebbe Fisher, del panorama inglese. Ma non dimentichiamoci che siamo dall’altra parte dello specchio, le cose sono simili ma mai uguali. C’è sempre uno scarto, uno spazio, un’interferenza.

Prendiamo uno dei racconti più famosi di Narratori delle pianureBambini pendolari che si sono perduti. Si potrebbe pensare che è un racconto tenero, un po’ comico, un racconto sull’infanzia come spazio interstiziale, in cui viene ribaltata la prospettiva e sono i bambini a essere accondiscendenti nei confronti degli adulti come se l’età adulta fosse un inconveniente della vita, cosa che in effetti certamente è agli occhi di un bambino. Ma il racconto si conclude con un’immagine strana, inquietante. Ci viene detto che i due bambini si trovano «in mezzo ai campi gelati», che «non vedono più niente» e intorno è «tutto bianco», «una nebbia bianca come non l’avevano mai vista», tanto che ovunque si voltino c’è «una grande parete bianca» nella quale è impossibile «ritrovarsi l’un con l’altro» e anche «vedere il proprio corpo» o «percepire bene un richiamo». I bambini «hanno freddo» e «si sentono soli», non possono andare «né avanti né indietro» e sono costretti a stare lì, «in quello stranissimo posto dove s’erano perduti» finché non gli viene il sospetto che «la vita possa essere tutta così». Poi certamente è un caso, ma che i bambini prendano il treno a Codogno con il senno di poi sembra un’iperstizione.

O pensiamo al racconto Mio zio scopre l’esistenza delle lingue straniere, nel quale il narratore ascolta il figlio nato in Francia e gli viene in mente “un mare pieno di nebbia che non si può traversare”, al di là del quale “c’è uno che ti parla e tu lo senti, ma non ci arriverai mai a farti capire, perché la tua bocca non riesce a dire le cose come stanno, e sarà sempre tutto un fraintendersi, uno sbaglio a ogni parola, nella nebbia, come vivere in alto mare”. O al radioamatore di “L’isola in mezzo all’Atlantico”, che da Gallarate si inventa una vita intera su un’isola al largo delle coste scozzesi e poi quella vita si materializza: onde radio, fantasmi, iperstizioni.

Anche il film dedicato a Ghirri, Strada provinciale delle anime, sembra leggero ma a ben guardare è angosciante. È hauntologico anche nella forma, con quelle dissolvenze da documentario Rai degli anni Sessanta, con quel suo raccontare un mondo già perduto, in procinto di perdersi, un mondo di anime appunto, di spettri. C’è una scena in cui uno degli autobus si perde e il narratore, o uno dei narratori, lo racconta come un episodio divertente, ma intanto vediamo questa corriera che avanza nei campi, sempre più persa, e sentiamo che l’autista parla alla radio e i suoi messaggi sono sempre meno chiari, c’è sempre più rumore statico, siamo da qualche parte nella bassa padana ma potremmo benissimo essere sul traghetto che porta agli inferi, e infatti si sente questo gracidare di rane sempre più forte, si vedono queste inquadrature sull’erba che fanno pensare a un film di David Lynch e all’improvviso, dopo che solo cinque minuti fa eravamo in un paese con degli anziani che parlavano in dialetto, ci troviamo in piena eeriness, in piena crisi dell’agentività: c’è una corriera che avanza ma non c’è più direzione, né un autista, e non c’è nemmeno una sola voce a raccontare questo viaggio verso la terra dei morti ma tante voci incorporee come nell’Ade.

Fantasmi

Ci sarebbe molto da dire su questo tema, molti esempi da portare, anzi bisognerebbe proprio scrivere un libro intero su Celati e l’Inghilterra, ma quello che voglio far notare qui invece è un’altra cosa e ha di nuovo a che vedere con l’atto della scrittura e con l’atto di camminare: Celati non stava mai fermo, viaggiava ovunque, viveva di qua e di là, ma continuava a riscrivere i suoi racconti. I racconti di Quattro novelle sulle apparenze, e anche quelli di Cinema naturale, sono stati scritti e riscritti nel corso di decine di anni. Questo è interessante, perché se la scrittura può essere una forma del camminare, se scrivere può essere un modo di esplorare territori sempre nuovi, può essere cioè la deriva deleuziana dell’Alice che tanto affascinava il primo Celati, la pratica rizomatica di muoversi in tutte le direzioni insieme e nessuna, allora l’atto di riscrivere, e soprattutto quello di riscrivere sempre gli stessi testi, è il suo opposto: il primo è un movimento espansivo, il secondo un movimento di contrazione. Riscrivere è un rimuginare. Rimuginare e rimuginare alla ricerca della cosa luminosa che si nasconde sotto queste parole che non vogliono mai dire niente e non vorranno mai dire niente, anzi più le si lucida e si fanno trasparenti più significano tutto e niente, più il significato si perde, non indicano più una direzione, sono solo uno specchio in cui vediamo riflessi noi stessi e ci mette di fronte a una “grande parete bianca” come i bambini che si sono persi.

Un altro che ha riscritto ossessivamente il proprio capolavoro, ancora e ancora, nell’arco dei decenni, è stato Robert Burton, che ci ha messo tutta la vita a finire Anatomia della melanconia e non era ancora soddisfatto quando è morto, fosse stato per lui avrebbe continuato a riscriverlo per mille anni. Il che mi fa pensare a sua volta a Jan Potocki, anche lui un grande viaggiatore, di cui si dice che abbia lucidato per moltissimi anni la pallottola d’argento con cui si sarebbe ucciso nel 1815 perché era convinto di essere sul punto di trasformarsi in un lupo mannaro. A riscrivere i propri racconti e a lucidare i propri proiettili sono sempre i depressi.

Burton è un buon nume tutelare di questa storia, perché per quanto si viaggi e per quanto si scriva e riscriva prima o poi bisogna fermarsi. Prima o poi la luce scoppiata del pittore d’insegne Menini si affievolisce e bisogna lasciare le cose «da sole nella loro disgrazia». Celati si è dovuto fermare, anche se non si è fermato davvero, anche perché il mondo che stava raccontando, il mondo che aveva cercato di far sopravvivere con l’incantesimo della sua scrittura, stava finendo, quella corriera perduta nei campi della pianura era davvero una corriera di anime in viaggio verso il mondo dei morti. La seconda parte della sua produzione, quella degli anni Ottanta e Novanta, non può essere compresa se non si vede questo aspetto malinconico, se non si capisce che la “ricettività crepuscolare” è prima di tutto una forma di crepuscolo. Nella dissonanza che è la scrittura di Celati, nello strabismo che ha cercato e coltivato in tutta la sua carriera, una parte rimane sempre dietro lo specchio, a guardare le cose dal retro. E quello dietro lo specchio è anche un luogo molto buio e molto immobile, un luogo molto vuoto e impersonale, un luogo di presenze che osservano mute, un luogo di interferenze e parole perdute, un luogo di silenzio.

ARTICOLO n. 52 / 2023

IL MOSTRO NON SI NASCONDE NEI BOSCHI

Il Mostro come corpo culturale

La notte tra l’8 e il 9 gennaio del 2018 al Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills va in scena la 75° edizione della cerimonia di premiazione dei Golden Globes. Guillermo del Toro, in gara come migliore regista per The Shape of Water, sale sul palco dopo aver sentito pronunciare il suo nome per la prima volta in venticinque anni di carriera. La forma dell’acqua, il titolo in italiano, racconta una storia visionaria e in mille sfumature di verde, ambientata durante la Guerra Fredda, nel pieno degli esperimenti militari. Elisa è una ragazza muta addetta alle pulizie di un enorme laboratorio governativo dove avvengono manipolazioni genetiche a scopo bellico. Durante un turno di pulizia, Elisa e la collega Zelda scoprono per caso una creatura antropomorfa anfibia chiusa in una teca di vetro piena d’acqua. Il rapporto che si instaura tra Elisa e il mostro è una storia d’amore gentile e potente, un amore che vive oltre la barriera dei corpi apparentemente incompatibili e che sfocia nel delta dell’eternità. La mostruosità della storia passa di significato dalla creatura che indossa un corpo totalmente aderente alla categoria mentale che abbiamo di “mostro” ai comportamenti dei personaggi che ricoprono il ruolo di antagonisti del racconto, lasciandoci con la domanda – forse più retorica che reale – su chi sia effettivamente il Mostro delle nostre storie. 

Il mostruoso ha una vita millenaria, con radici mitologiche accertate fin dalla cultura accadica, anche se sospettiamo che già nelle società di caccia e raccolta ci fosse una proto-narrazione ben indirizzata in quella direzione. Fin da bambini, infatti, ascoltiamo racconti che ritraggono il mostro col corpo e poi attraverso comportamenti crudeli: golem, vampiri, lupi mannari, calamari giganti, fantasmi, alieni, l’uomo dell’ombra, la strega che rapisce i bambini per mangiarli, pupazzi assassini, draghi, demoni. Tutte queste rappresentazioni hanno lo scopo di creare un antagonista visivamente identificabile, un simulacro di nefandezza, qualcosa che ammonisce chiunque intraprenda un viaggio eroico: alla fine della storia, se sei il protagonista, devi uccidere il mostro per poter consacrare la tua gloria. Viviamo quindi in una costante dicotomia tra l’Eroe e il Cattivo da sconfiggere, eliminando tutte le sfumature che intercorrono necessariamente nella creazione di questi due personaggi. Se l’eroe deve avere successo alla fine del suo viaggio, è norma che nel corso del racconto tutti gli accadimenti e i modi di affrontarli appartengano alla categoria del Bene. Ma se è vero che ogni cosa succede all’interno di una virtù morale che giudichiamo positiva e, di conseguenza, appendiamo la coccarda del meritevole al protagonista, dove finiscono le ombre? E ancora, se tutte le ombre giacciono nelle strutture cognitive e comportamentali del mostro, la condanna è già scritta fin dalla prima parola della storia. E ancora, se la condanna è già scritta, quale curiosità possiamo avere di indagare gli strati che compongono il mostro? Quando ci fermiamo all’assolutismo del “è fatto così e deve morire” se già partiamo imboccati di questo orientamento? Infatti, le dimensioni della mostruosità non vengono mai indagate in profondità, lasciando davanti ai nostri occhi un modello in carta velina che è poco consistente, ma comodissimo da applicare su qualsiasi superficie si voglia inserire dentro la categoria del mostruoso. Ma è altrettanto pericoloso perché la definizione di mostro viene via via svuotata del suo significato rivelatore e livellata all’esigenza di additare velocemente, con uno solo sguardo, ciò che è impuro e per questo deve essere eliminato. Ma il mostro delle narrazioni ha anche una matrice biologica che concorre alla sua definizione, una predeterminazione che passa dal corpo informe e deforme e che manifesta fin dalla vista il suo essere privo di morale, discernimento e regole sociali. E proprio in questo passaggio, nel modo in cui il suo corpo riflette la mancanza di umanità e di virtù morali, si spiega il suo essere antagonista assoluto. Il mostro è tale perché non può fare altrimenti, non ha altre possibilità, è una bestia feroce con un obiettivo – unico – chiaro: distruggere e uccidere.

In Monster Theory Jeffrey Cohen ci regala sette chiavi di lettura per andare in profondità e svelare le sfumature che compongono il mostruoso. Secondo Cohen, il Mostro è quello che altre volte qui abbiamo definito come “corpo culturale”. Quel suo corpo respingente è il prodotto di un complesso intreccio tra tempo, sentimento e luogo, un’applicazione moderna della teoria di Taine. Il mostro incorpora la paura, l’ansia, l’immaginazione, la sperimentazione e il desiderio del suo tempo, avverte il mondo che queste cose esistono e apre una finestra sul prato di fiori appassiti che indossa. Ma proprio per questo motivo, proprio perché è un corpo culturale, il mostro modifica se stesso a seconda del momento in cui viene letto, ma anche di quello in cui viene utilizzato. Per questa capacità camaleontica, il mostro non smette la sua attività alla fine di una singola storia, ma si volatilizza per tornare più avanti, in un altro tempo e in un altro luogo. Questo fa sì che sotto lo stesso nome esistano una serie infinita di creature che non stanno mai ferme e immobili, ma anzi agiscono per logorare i lembi della categoria più grande. Cosa è mostruoso, cosa non lo è? Non serve aspettare molto tempo prima che una categoria così ampia e rassicurante scenda dai racconti e si depositi nel mondo reale, sovrapponendo in modo maldestro il fantastico con la nostra necessità di distacco da eventi truci che non riusciamo a guardare come possibilità del nostro comportamento. Così, la parola “mostro” ha assunto nel linguaggio comune un’accezione ancora più ampia, mettendo in ombra addirittura le creature fantastiche che conosciamo e arrivando in soccorso dell’opinione pubblica di fronte a casi di cronaca che presentano dinamiche ben lontane dallo schema di “buono e giusto” che conosciamo e di cui abbiamo imparato anche ad assorbire le sbavature, certo, ma sempre nei limiti del plausibile. Così diventano mostruosi assassini, femminicidi, pedofili, torturatori, perché se non inseriamo queste persone nell’immaginario fantastico, quali domande dovremmo farci su noi stessi? E quale sguardo stiamo utilizzando?

Perché, vedete, quando parliamo di mostri restiamo sempre aggrappati alla dinamica del viaggio dell’Eroe dove il Buono e il Cattivo sono due personaggi ben distinti. E questo è molto facile perché ci rassicura, a suo modo. Se non siamo noi quelli che finiscono sui giornali, allora significa che siamo dalla parte dei buoni, sulla riva giusta del fiume.Ma se cambiamo le lenti attraverso cui esploriamo le storie e torniamo alla teoria di Cohen, non possiamo più pensare in termini binari, ma dobbiamo iniziare a utilizzare latitudine e longitudine del nostro sistema culturale. E visto che ognuno di noi è un prodotto culturale, formato e riformato su una secolare stratificazione, l’indagine del mostruoso non può avvenire fuori da noi, con delle comparse che indichiamo come mostri nel racconto e che mettiamo sulla riva opposta del fiume, ma nelle nostre profondità. Siamo composti ineluttabilmente da ampie vetrate colorate da cui filtra il sole e da stanze buie in cui proliferano i divieti, le atrocità e la possibilità di compiere qualsiasi gesto. E queste stanze sono chiuse a chiave da una struttura educativa e culturale che ci cresce stabilendo cosa è giusto e cosa è sbagliato, tutto minuziosamente dettagliato e spiegato non tanto dal motivo per cui certe cose non bisogna farle, ma da cosa capita a chi le fa. Il Michel Foucault della Storia della follia nell’età classica ci dice che la punizione per chi devia dalla norma – e per deviazione dalla norma intendiamo qualsiasi tipo di comportamento che esponenzialmente si allontana dalla virtù morale assoluta – ha lo scopo di eliminare il colpevole, ma anche di educare chi osserva dagli spalti la pubblica gogna. Così, in questo spazio metaforico tra la ghigliottina e il posto in sala, si confondono colpe e necessità, origini e spiegazioni, perché la nostra prima reazione non è mai capire il motivo, ma è sempre prendere le distanze. Così, quando leggiamo sui quotidiani che è stato catturato un mostro e continuiamo a indicarlo in questo modo, quello che facciamo non è comprendere l’avvenimento nella sua matrice, ma rimarcare il prima possibile che noi non facciamo parte di quella storia. Non impariamo nulla agendo in questo verso, perché restiamo sul pelo dell’acqua. E al prossimo femminicidio, al prossimo omicidio, alla prossima vittima e al prossimo carnefice resteremo costantemente immobili nel cercare disperatamente di trovare un punto di distacco, un gesto che ci porti a dire “noi non siamo come loro”. Ma il Mostro non è mai là fuori, non si nasconde nei boschi. Il mostro è la lente attraverso cui possiamo comprendere il nostro tempo e chi siamo, solo se distruggiamo questa distanza e iniziamo a indagare la nostra struttura iniziale, per cercarlo.

ARTICOLO n. 51 / 2023

IL CINEMA È (ANCHE) TRADIMENTO

Intervista di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

Le Favolose di Roberta Torre è tra i film italiani più significativi del 2022. Dopo essere stato presentato a Venezia alle Giornate degli Autori, ha ricevuto grandi riscontri al festival di Tokyo e ha vinto il premio per la miglior regia all’IDFA – International Documentary Film Festival di Amsterdam. La fusione innovativa tra gli strumenti filmici è la cifra stilistica di un’opera che coglie l’immenso potere di reinvenzione del reale che le immagini offrono. Con Roberta Torre abbiamo parlato del cinema che è, e che verrà.

Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Roberta, parliamo di fusione. In fisica la fusione è il passaggio di una sostanza da uno stato solido a uno stato liquido. Nel cinema cos’è? Il passaggio di ciò che consideriamo verità, o realtà, a uno stadio più libero e potente, cioè il verosimile?

Roberta Torre: Io ho sempre bisogno di partire da una storia vera per raccontare qualcosa. Poi però ho anche altrettanto bisogno di tradire quel reale e lavorare su qualcosa di nuovo che sia in grado di evocare una verità di fondo. C’è differenza secondo me tra realtà e realismo. Il realismo a me non interessa, la realtà sì. E di conseguenza è chiaro che non ho l’obiettivo di riprodurre ciò che vedo in una modalità il più possibile fedele al reale, ma voglio lavorare sul tradimento del reale, perché il tradimento secondo me è alla base del racconto. Senza il tradimento una storia diventa cronaca, perde quel valore aggiunto che ha un racconto quando diventa cinema o letteratura. Trovo quindi che la cifra giusta sia quella dell’impasto, una fusione tra ciò che è reale, i codici dell’invenzione, e ciò che la storia reale mi ha evocato. 

G.L.D. E nel caso de Le Favolose cosa ti ha colpito?

R.T. Sicuramente mi hanno colpito le storie reali delle morti di queste persone transessuali. Anche nell’ultimo atto, la morte, le loro aspettative vengono violentate, disattese rispetto alla loro sensibilità più profonda, e si ritorna alle convenzioni che i vivi collegano al loro genere di origine. I transessuali in punto di morte subiscono un mancato riconoscimento del proprio corpo, perché il loro corpo non era mai accettato dai familiari secondo il genere che loro avevano scelto di vivere. Dunque ai funerali venivano rivestiti da uomini quando invece avevano trascorso una vita da donne. C’è una violenza duplice in tutto questo, che mi ha fatto scattare il desiderio di andare fino in fondo, provando a capire come si potesse fare a mettere in scena quella violenza. Ed ecco la fusione, allora. Prendere il frammento di realtà che mi interessava, e tradirlo inserendolo in una nuova narrazione. 

G.L.D. Il tema della transessualità, lo sappiamo, è ormai molto discusso nel dibattito pubblico mainstream, ma le tue protagoniste restano nel cuore grazie ai fremiti della loro umanità, non come programmi politici di solidarietà umanitaria. C’è differenza.

R.T. La loro è una storia di persone, di esseri umani che hanno il diritto di essere ricordati nella maniera più fedele possibile a ciò che sono stati in vita, e il fatto che questo diritto nel loro caso fosse disatteso nella realtà mi è sempre sembrata una grande violenza. Ho lavorato in modo da far venire fuori il loro vissuto e per fortuna i loro ricordi non sono mai stati i ricordi di vittime. Loro sono appunto favolose, non si sentono vittime, sono persone che hanno avuto vite drammatiche, drammi a cui hanno risposto in maniera vitale, vincendo la partita. Ecco, questa è la cosa che sin da subito me le ha fatte sentire vicine. Siamo diventate amiche, proprio perché hanno questa grossa capacità di autoironia e di forza. 

G.L.D. Sì, verissimo. Vedendo il film emerge tanto questa vitalità, questo orgoglio nell’aver vissuto dei drammi e aver reagito evolvendosi, crescendo. Senza cristallizzarsi nella posizione di vittime, che è la preferita di questo tempo.

R.T. Loro sono quasi tutte persone molto realizzate, questo è fondamentale. Non c’è una di loro che sia una persona irrisolta. Il fatto stesso di aver raggiunto un obiettivo che era complicatissimo, soprattutto nell’epoca in cui hanno la maggior parte di loro ha fatto la transizione, le fa sentire vincitrici, persone di successo. Hanno avuto il risultato che volevano, hanno vissuto la vita che volevano, hanno affrontato tutte le difficoltà e alcune volte sono state difficoltà mostruose. Mi ha colpito molto che quando il film è stato visto a Londra al London LGBTQIA+ Film Festival in tanti mi hanno detto che fa ridere. In Italia non è successo. Il pubblico inglese invece l’ha trovato molto divertente, è una delle cose che li ha colpiti di più, è proprio il fatto che è del tutto assente questa sorta di vittimismo. Ma il merito è loro perché come dicevo non si sentono vittime, non si sono mai rappresentate in questa maniera.

G.L.D. Nel tuo film le immagini di finzione e quelle d’archivio s’incontrano e si mimetizzano rompendo un codice linguistico, amplificando la portata dei significati verso l’onirico, verso l’evocazione della memoria. È questa anabasi del reale verso l’immaginifico il tipo di “altrove” dove il cinema può e deve trasportarci? 

R.T. Si tratta di un mockumentary: molto di ciò che sembra archivio in realtà è ricostruito. Un altro esempio di tradimento e di trasformazione del realismo in realtà che il cinema come forma espressiva rende possibile. 

G.L.D. Ci troviamo in un universo di rappresentazione, quello trans, dove in primis era la realtà stessa che attingeva al mondo del cinema. Mi riferisco alla fase della vestizione, del travestimento, una vera e propria messa in scena in favore dei clienti. 

R.T. Questo è proprio ciò che loro dicono sempre. “Tra il delirio e il dramma, abbiamo sempre scelto lo spettacolo”. Alla fine è il senso del film, è la frase manifesto del film insieme a “Il mio corpo è un atto politico”. Il corpo cammina nel mondo e si mostra, si fa vedere, ed è un atto politico perché chiaramente si tratta di corpi non conformi ai generi biologici, e questa situazione crea sentimenti di delirio e dramma. Lo spettacolo allora è una terza strada per mettersi in scena e offre una salvezza: la possibilità di potersi auto-rappresentare e di sfuggire alle classificazioni. Quindi creerei una frase unica, perché le due cose non sono disgiunte. “Il mio corpo è un atto politico e tra il delirio e il dramma abbiamo scelto lo spettacolo”.

G.L.D. Ciò mi riporta a Guy Debord. E forse, questa frase è la migliore spiegazione del perché lo spettacolo sia diventato l’asse portante della nostra società. 

R.T. Lo spettacolo ti rinnova, ti dà la maschera, ti dà la possibilità di svelarti continuamente, di cambiare, di essere altro, e questa cosa chiaramente apre l’immaginario. 

G.L.D. Torniamo agli archivi. Mi pare stiano diventando sempre più centrali nel tuo cinema. Che accade? Si tratta di una scelta estetica o di un sentimento sul contemporaneo, visto che tutti noi, quasi nessuno escluso, oggi abbiamo un archivio personale di immagini pressoché infinito, che si tratti di foto o video, di momenti simbolici o insignificanti? Shakespeare diceva, ne Il racconto d’inverno: «Il re vivrà senza eredi se quello che fu perduto non sarà ritrovato». 

R.T. Il tema centrale mi sembra la memoria evocata attraverso l’archivio, che comunque è portatore, per l’appunto, innanzitutto di memoria. È solo da qualche anno che per il mio cinema penso all’archivio, prima non ci ho mai pensato. Nelle Favolose, come detto, non c’è esattamente la parte storica, perché l’archivio è un archivio ricostruito e un po’ fiction, perché le parti della giovinezza sono interpretate dalle stesse attrici nella parte di se stesse. Sicuramente però il lavoro sull’archivio apre la possibilità di entrare in una storia. Per me, l’archivio nel cinema ha questa valenza, aprire squarci nella storia, ai quali è possibile agganciarsi per lavorare sul contemporaneo. E non come si leggerebbe un libro di storia, ma leggendo l’oggi grazie a delle iniezioni di passato. Credo che questo sia il valore più grande. Sono questo gli archivi. Hanno valenza storica ma non solo. Per esempio a me piace molto anche lavorare sul potenziale onirico degli archivi, ed evocare legami con il presente che siano inconsci.

G.L.D. Mi sembra che molta della produzione audiovisiva di questi anni, soprattutto in Italia, vada nella direzione opposta alla tua, ovvero la descrizione per immagini della realtà premasticata, semplificata. Si assiste alla costruzione di mondi schematici, attenti a riprodurre i temi del dibattito mediatico, veri e propri diorami. Hai anche tu questa sensazione?

R.T. Oggi siamo sovrastati da milioni di immagini, e mi viene in mente un paragone con i vestiti. Armadi pieni, vestiti su vestiti che continuano ad arrivare ma non c’è nessuno che dica vabbè, compriamo meno vestiti perché ce ne sono già troppi, cioè possiamo anche fermarci qui. Con le immagini è lo stesso, ce ne sono infinite e tutte uguali, mentre servono immagini che raccontino qualcosa che fino adesso non abbiamo mai visto. Se dobbiamo ripetere continuamente le stesse immagini, allora io preferisco tornare a prendere quelle del passato, quelle che dal passato sappiano raccontare il contemporaneo. 

G.L.D. La tecnologia, intesa come strumento di produzione e di fruizione, sta condizionando il nostro modo di mostrare e osservare, mi riferisco in primis allo smartphone. Vorrei sapere che tipo d’impatto vedi su produzione e fruizione cinematografica nel futuro prossimo. 

R.T. Sento molto il problema delle troppe immagini prodotte perché i mezzi lo consentono. Oggi chiunque può fare un film, diciamocelo, basta uno smartphone, non era così fino a dieci, o vent’anni fa. E quindi si crea una sovraproduzione di immagini spesso non così indispensabili. Anzi, proprio superflue. Per stare nel contemporaneo bisognerebbe farsi una domanda preliminare: perché io devo fare altre immagini? Cos’ho di così unico da dire che mi devo proprio mettere a fare un film, o a creare un immaginario? Sono veramente all’altezza di farlo? Capisco però che siano domande che nessuno si pone più.

G.L.D. In questa modalità stilistica che si appoggia agli archivi come cambia il rapporto con gli attori e il loro utilizzo?

R.T. In questo caso specifico ho lavorato con le modalità che uso sempre quando lavoro con gli attori non professionisti. Ho una traccia scritta di sceneggiatura definita, poi, poiché non si può chiedere a degli attori non professionisti di imparare delle battute o di seguire una drammaturgia, a me tocca il ruolo di instradarli affinché riescano a seguire tutte le tappe, tutti gli step del racconto. In questo caso avevo un grande vantaggio perché le favolose possiedono un loro linguaggio, un codice comune condiviso tra loro.  C’è proprio un mondo di modi di dire, modi di ricordare parole chiave, battute, che sono ricorrenti nel loro parlato: “militante” diventa “militonto”, “lotta continua” diventa “cotta continua”. Loro hanno questa serie di giochi di parole che sottintendono codici strutturati negli anni e che hanno inventato. Si crea dunque, tra loro e di conseguenza nel film, un mondo linguistico importante, e i dialoghi funzionano molto bene. Il mio compito è stato quello di portarle alla fine del lavoro, cioè creare una storia dentro cui loro potessero improvvisare. Si tratta di un modello che ho usato all’inizio in maniera inconscia, un po’ intuitiva, e che poi, piano piano, ho strutturato come metodo di lavoro vero e proprio con gli attori non professionisti: oltre a quello di rubare tutto quello che combinano e fanno senza che se ne accorgano, dare input a cui loro devono rispondere. Con gli attori professionisti, invece, il discorso dell’intersezione tra il repertorio e la recitazione funziona bene, offre milioni di altre possibilità. Una delle quali a cui sto lavorando con soddisfazione è quella di costruire una narrazione drammaturgica a partire dal repertorio e far interagire gli attori con il repertorio stesso, con risultati molto originali. 

G.L.D. Parliamo di trame. Quanto sono importanti nel tuo cinema? O nel tuo prossimo film Mi fanno male i capellidedicato a Monica Vitti? Don De Lillo, uno scrittore a me caro, dice in Libra che tutte le trame tendono alla morte. 

R.T. Se parliamo della classica suddivisione aristotelica, i tre atti, inizio e svolgimento e fine, indubbiamente all’inizio della mia storia registica non è una strada che ho preso in considerazione, non esisteva proprio. Ora sono convinta che invece la trama sia fondamentale per poter raccontare una storia. Anzi, mi sono sempre più convinta che la scrittura, la sceneggiatura, sia una delle componenti più importanti di un film. Se vogliamo raccontare una storia che comunque abbia una drammaturgia compiuta, deve esserci una scrittura solida. Il cinema poi naturalmente non è solo quello, però è ovvio che anch’io, come spettatore, sono affascinata dai film con la trama. Si possono raccontare storie in mille altri modi, però indubbiamente la drammaturgia classica è piacevole, non è mai stata superata. 

G.L.D. Immagini e parole. Nel 2022, un anno prolifico per te, è stato pubblicato anche il tuo nuovo romanzo Strana carne, per Fandango. Quanto il cinema è influenzato dalla letteratura e viceversa. 

R.T. Riguardo al mio romanzo, rileggendo la distanza di un anno posso dire che è molto cinematografico, quindi forse in me esiste una struttura mentale che ripercorre degli stilemi del cinema a prescindere dalla forma espressiva. Credo molto, però, che dalla letteratura si possano trarre grandi film, anche se spesso è necessario tradire la struttura dei romanzi. Penso, per fare un esempio recente, a Blonde di Joyce Carol Oates che è un romanzo straordinario. Pur essendo due codici completamente differenti hanno un legame molto stretto e come tutti i legami stretti hanno bisogno di tradimenti…

G.L.D. Citando Blonde apri un tema importante. Il legame, molto chiaro ed evidente in una storia reale, tra tutto quello che pubblicamente si conosce della Monroe e la grande, poderosa, meravigliosa possibilità che la finzione cinematografica e letteraria hanno di colmare i vuoti.

R.T. Esatto, mi pare che anche questa sia una straordinaria forma di tradimento. Oppure si può chiamare rielaborazione, o si può chiamare invenzione. Io credo che in Italia siamo un po’ impantanati dalla questione della realtà, del realismo, che poi è quanto di meno affascinante ci sia, a mio parere. Ciò che è affascinante, invece, è partire dai casi di cronaca e andare a riempire quelli che tu chiami i vuoti. Come stiamo facendo nel nostro lavoro sulla storia drammatica del delitto Casati Stampa, la cui dinamica lascia la possibilità di entrare a delle voci che non sono state trascritte, come se in fondo ognuno di loro potesse raccontarci una storia diversa, alla Rashômon. La forza della rappresentazione cinematografica consiste nel fatto che, attraverso il film, ogni personaggio, se oggi fosse in vita, potrebbe raccontare la stessa storia da un punto di vista differente e in una maniera assolutamente unica, diversa da ciò che i giornali hanno riportato, facendoci immergere in un ventennio, dal 1950 al 1970, che contiene dei topoi italiani straordinari. Dal Leone d’oro a Fellini a Miss Italia, dal boom economico all’esplosione della società dello spettacolo. Quelli erano anni in cui tutti avevano l’idea di poter andare sulla luna, e poi invece tutto si è risolto in un nulla di fatto. Ma quel senso di potenzialità infinite non c’è mai più stato. Quegli anni, in cui sono cresciuta, hanno creato una generazione di gente che pensava di poter andare sulla luna e Venere, in senso metaforico e non solo.

G.L.D. Ecco, a me sembra che molti dei nuovi registi abbiano più competenza tecnica fredda, intesa come capacità di adottare bei movimenti di macchina, codificati, che capacità stilistica di linguaggio, ambizione, voglia di tradire il realismo. Forse hanno bisogno di più letteratura di qualità?

R.T. Penso che chi vuole raccontare abbia a modo suo la necessità di essere contemporaneo, e che ci siano registi molto, molto giovani che hanno folgoranti intuizioni sul presente. È bello che ci siano degli sguardi nuovi, non penso che si debba inculcare ai nuovi artisti chissà quale metodo. La cosa fondamentale credo sia appunto essere contemporanei: sei capace di farmi vedere questo tempo in un modo a cui non avevo mai pensato o che mi che mi fa sentire fortemente cosa sta succedendo? Sì, e allora a me basta quello, credo che il valore vero di un regista, di un artista, di un narratore risieda nella capacità di percorrere lo spirito del tempo. Negli Anni Sessanta c’erano i film in cui i protagonisti si baciavano poi la camera andava altrove, sul caminetto. Cosa ti diceva quel movimento? Che stava capitando qualcosa di importante, però tu dovevi guardare il caminetto. Un dettaglio che raccontava un’epoca. 

G.L.D. Il mezzo tecnico, dunque, non basta… perché solo l’autore/regista può tradire?

R.T. L’intelligenza artificiale tra poco ci toglierà di mezzo completamente! No, non serviremo più a nulla, io vedo questo, lo vedo proprio chiaramente. È solo questione di tempo. Milioni di storie con milioni di intrecci possibili.

G.L.D. E secondo te non è in dubbio l’effettiva capacità della macchina di dare un senso alle storie? L’imprinting comunque resta umano. Non c’è rischio che la macchina vada per la tangente?

R.T. È una certezza, la macchina andrà per la tangente. Leggevo una conversazione tra una persona che scrive all’IA: «Adesso raccontami una cosa falsa» e lei risponde: «Io sono un coniglio, ho le orecchie verdi». E lui: «No dai, questa è una scemenza, dimmi una cosa falsa seria». E la macchina, in chiusura: «Io non sono un umano». Questo presuppone una coscienza folle della macchina, quindi di fronte a questo che è molto inquietante, io vedo una preminenza dell’umano solo su temi di cui la macchina non ha possibilità di elaborare una conoscenza, e sono due, nascita e morte. Kubrick ce l’aveva detto già molto tempo fa. Qual è dunque il messaggio per i nuovi registi? Datevi da fare ora, perché tra un po’ non ce ne sarà più per nessuno. Oddio. Io vedo questo.

ARTICOLO n. 50 / 2023

IL MITO DEL DESIDERIO FEMMINILE

Quando ho compiuto quattordici anni mia madre mi ha regalato un abbonamento a un paio di riviste per teenager. Si trattava di un mensile e un settimanale di moda, gossip e interviste a cantanti e attori famosi che all’epoca facevano girare la testa a tutte le mie coetanee. Sfogliavo con piacere quelle pagine, soffermandomi in particolare sugli approfondimenti dedicati alla sessualità e all’affettività. Gli articoli proponevano sempre qualche strategia per scoprire se quel ragazzo aveva davvero intenzioni serie, davano suggerimenti per trovare le parole giuste con cui rifiutare le avance più esplicite senza rovinare la relazione e rispondevano a tutti i dubbi sulla verginità e sul primo rapporto completo, in particolare sull’età a cui era consigliato averlo.

Negli anni Novanta non era così scontato riuscire a parlare di sesso, neppure tra amiche. L’educazione sentimentale, per le ragazze di provincia, era per lo più affidata alle immagini, alle canzoni e alle pagine di magazine e fumetti. Erano gli anni di Non è la Rai, celebre programma di intrattenimento andato in onda per un lustro sulle reti Mediaset, di Britney Spears e Christina Aguilera, dei cartoni animati giapponesi che insegnavano alle giovani, più o meno esplicitamente, come intrattenere le prime relazioni affettive senza spingersi mai oltre certi limiti. Il confine, taciuto ma sempre ben visibile, era quello che separava le cattive ragazze da quelle dai saldi principi morali.

Nel nostro viaggio che ripercorre i miti intorno a cui si è costruito, nel corso del tempo, un certo ideale di femminilità, non possiamo non nominare la questione del desiderio. Analogamente a quanto affermato nell’articolo precedente parlando di verginità, anche questo dispositivo è, per le donne, uno strumento di controllo della sessualità che merita di essere osservato da vicino per capirne il funzionamento. 

Accertamento della verginità e repressione del desiderio sono uno il rovescio dell’altro: meccanismi sottili che continuano a produrre i loro effetti sulla vita delle donne. Nonostante la rivoluzione dei costumi degli Anni Sessanta, la sessualità femminile è ancora oggetto di critiche, soprattutto quando si discosta da quella considerata “perbene”.

Proprio alle “ragazze perbene” è dedicato l’omonimo romanzo di Olga Campofreda. Il volume racconta la vita di Clara che, a causa dell’imminente matrimonio della cugina Rossella con lo storico fidanzato Luca, è costretta a lasciare Londra, dove vive da tempo, per far ritorno per un po’ a Caserta, sua città natale. L’evento, che tutta la famiglia accoglie come la conclusione di una storia – quella tra Rossella e Luca – perfetta e in qualche misura già scritta, offre alla protagonista lo spazio per guardare in prospettiva la sua, di storia. Tra un pranzo in famiglia e un addio al nubilato, Clara si interroga su come sarebbe stata la sua vita se non avesse deciso di andarsene a studiare all’estero. Se la sua esistenza è, come quella di molti expat, precaria e incerta, ma libera, quella della cugina appare come l’esito perfetto di una serie di passaggi obbligati a cui tutte le ragazze perbene della città sono costrette ad aderire.

Femminilità, obbedienza e accoglienza delle esigenze maschili sono i tre assi che racchiudono, secondo Clara, la vita delle ragazze di buona famiglia, a partire da quelle vissute dal ramo materno della famiglia. Sua madre, le zie e anche la nonna nascondono vicende tragiche, rapporti imposti e taciuti a cui non si sono mai potute ribellare per non infrangere quella facciata di rispettabilità necessaria a sopravvivere nelle cittadine di provincia.

«Siamo state cresciute lasciandoci credere che saremmo diventare donne quando avremmo imparato a badare a una casa tutta nostra e a prenderci cura di un figlio e un marito (…) non eravamo pronte a fare i conti col desiderio, nessuno ce ne aveva parlato».  La frase che Campofreda fa pronunciare a Clara è potente. Effettivamente, le donne sono escluse da qualsiasi discorso riguardante il desiderio perché considerate refrattarie al sesso. Se negli gli uomini è descritto come una pulsione biologica primaria, compulsiva e anticipatoria, per il genere femminile l’interesse sessuale si ritiene essere lento e reattivo. I loro desideri, cioè, si accendono in risposta a un intervento esterno e non in maniera autonoma, come accade gli uomini.

Nella sua lunga disamina attorno a questo concetto, la scrittrice Katherine Angel sottolinea come questa visione binaria, fortemente differenziata, del desiderio maschile e femminile nasconda pericolose insidie. Nel 1980, giunto alla sua terza edizione, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) inizia a classificare le disfunzioni sessuali in relazione al “ciclo di risposta sessuale umana”, un modello formulato dai ginecologi e sessuologi William Masters e Virginia Johnson negli anni Sessanta. Scrive Angel: «secondo questo modello, il sesso inizia col desiderio, attraversa l’eccitazione e approda all’orgasmo; dunque, le donne che non avevano un accesso facile al proprio desiderio venivano patologizzate come disfunzionali».

Tuttavia, il modello operativo approvato dal DSM III escludeva o sembrava ignorare alcune premesse indispensabili: per poter innescare e poi assecondare il desiderio è necessario anzitutto (ri)conoscerlo. Inoltre, è fondamentale che l’ambiente circostante lo sostenga e lo approvi. Si tratta di variabili da non trascurare perché coinvolgono sfere diverse: una – quella relativa al riconoscimento – ha a che fare con la dimensione educativa, l’altra con le dinamiche sociali e i rapporti di potere tra i generi. Considerando questi fattori singolarmente o insieme, però, i risultati non cambiano: le donne sono state educate a reprimere i propri desideri e le forti pressioni sociali hanno avallato questo atteggiamento nei loro confronti.

Come ricorda lo storico Paolo Orvieto nel suo volume Misoginie, il genere femminile è sempre stato rappresentato come passivo e sessualmente inattivo. Dalle Sacre Scritture ai testi pseudoscientifici dell’Ottocento, il ruolo della donna si esaurisce in quello di moglie e madre, la cui integrità morale è diretta conseguenza della sua attività sessuale e per questo deve essere controllata e contenuta mediate l’inibizione del desiderio. L’unico sesso ammissibile dentro la coppia è quello procreativo, che differenzia le donne “perbene” da quelle con cui gli uomini sono socialmente autorizzati a intrattenersi proprio per sfogare i loro istinti primari.

Oggi si potrebbe pensare che molte cose siano cambiate. A partire dagli nni Novanta (proprio quelli di Non è la Rai e di Britney Spears) abbiamo assistito a un’apparente liberazione del discorso intorno alla sessualità e ai desideri delle donne. L’emancipazione sessuale femminile cominciata negli anni Sessanta sembra approdare, per la prima volta, a un linguaggio esplicito che la affranca dai retaggi del passato. Alla fine del XX secolo compare pertanto un nuovo ideale di femminilità. Sulla scia dei modelli offerti dalle star della musica e del cinema (come il gruppo delle Spice Girls o Catherine Tramell, personaggio interpretato da Sharon Stone nella pellicola Basic Instict) le donne appaiono più disinibite, sicure della propria sessualità, capaci di esprimere i propri desideri in modo esplicito, assertivo, a tratti spudorato. 

Si tratta di un cambio di paradigma che necessita di essere approfondito perché, sostiene Angel, ha generato un cortocircuito che ha portato a confondere il piano del desiderio con quello del consenso. Una sessualità esplicita, infatti, non è di per sé liberatoria, né consensuale. Come ricorda Elisa Cuter nel suo volume Ripartire dal desiderio, ha più a che fare «con quella cura del sé e quell’ossessione per l’immagine che il capitale ci propina come fonte di liberazione». 

Il discorso intorno al desiderio femminile appare ancora fortemente stereotipato, basti pensare ai casi di cronaca.Quando una donna subisce un’aggressione o una molestia si scatenano opinioni non richieste che fanno supporre che la colpa sia anche sua e che abbia in qualche misura partecipato all’avvenimento, per esempio manifestando un certo desiderio, poi ritrattato. È quello che accade, nella finzione narrativa, anche a Clara quando da adolescente subisce in ascensore le avance non richieste del vicino di casa, un uomo molto più grande di lei. Confidandosi con la madre, la donna le chiede cosa abbia fatto per causare il comportamento dell’uomo e la invita a usare le scale per “sentirsi più sicura”.

Il cambio di paradigma ha soltanto sostituito il modello della donna refrattaria al sesso con quello della donna disinibita, tuttavia non ha scosso quegli stereotipi che continuano a fare da sfondo al ragionamento. La libertà di avere un rapporto sessuale è sì strettamente connessa alla capacità di riconoscere ed esprimere i propri desideri, ma anche alla disponibilità da parte dell’ambiente di accoglierli senza giudicarli come inappropriati.

In un articolo apparso qualche anno fa su Internazionale, la giornalista e scrittrice Laurie Penny afferma che i corpi e i desideri femminili continuano a essere alla mercé degli uomini perché il cambiamento avvenuto negli ultimi trent’anni non ha alterato i rapporti di potere tra i generi. La società continua a essere ostile nei confronti delle donne e ciò è evidente se consideriamo la “cultura dello stupro” ovvero «il processo per cui l’agire sessuale delle donne è costantemente negato» mentre le molestie e gli abusi che subiscono vengono giustificati e normalizzati. In un contesto di questo tipo la libertà sessuale delle donne è secondaria rispetto al diritto degli uomini di poter avere rapporti sessuali, per questo si richiede alle prime una costante sorveglianza rispetto ai confini della propria sessualità e la capacità di esprimere il proprio desiderio, senza mai rinnegarlo. Sostiene ancora Penny: «siamo circondati da così tante immagini di sessualità che è facile pensare a noi stessi come persone liberate. Ma la liberazione, per definizione, deve riguardare tutti. Invece nel bombardamento di messaggi del marketing (…) l’unico desiderio accettabile va in una sola direzione: dall’uomo verso la donna».

Per poter essere davvero liberatoria, la sessualità femminile ha bisogno di trovare uno spazio più autentico in cui sia possibile accogliere il desiderio per ciò che è, uno stato fluido di durata e intensità variabile. È necessario, ancor prima, riequilibrare i rapporti di potere tra i generi affinché il desiderio delle donne non sia obbligato a fare da cassa di risonanza a quello maschile per essere accolto. Abbiamo bisogno di dar vita a una nuova cultura della sessualità, in cui ogni persona – indipendentemente dal genere e dall’orientamento – sia nella condizione di poterla esprimere invece che negarla per adattarsi al contesto.

ARTICOLO n. 49 / 2023

GIANNI CELATI: PARTIRE

Trilogia Celatiana. Perdersi

Ogni volta che leggo qualcosa scritto da Gianni Celati, ma anche che vedo un film di Celati, o che vedo Celati parlare in un’intervista (Celati sempre bello e distratto, con quei modi allo stesso tempo scanzonati e tristi), la sensazione che provo è quella di sospensione. Con Celati si è sempre in una terra di mezzo, nel flusso di un movimento da un posto all’altro, e non si è mai sicuri di quale sia il luogo in cui ci troviamo o quale sia la meta del viaggio. Pochi scrittori hanno fatto dell’esperienza di perdersi una caratteristica tanto fondamentale del proprio lavoro. Leggendo Celati si è sempre persi, nelle storie ma anche nella lingua. E se è vero come scrive Franco La Cecla che perdersi intenzionalmente è impossibile, che «l’azione riflessiva è il cercarsi e non trovarsi, non il perdersi», possiamo capire quanto lavoro – letterario e non – sia necessario per produrre una letteratura del perdersi, cioè una letteratura abbastanza precisa da portarci in un luogo e abbastanza vaga da farci ritrovare perduti. La scrittura di Celati è sempre un duplice movimento, o meglio è lo spazio aperto da quel duplice movimento.

Che perdersi fosse per Celati una questione eminentemente letteraria lo si capisce dal nervosismo con cui accoglieva i «deliri burocratici» e i «problemi giuridici» (così li chiamava) dei critici che cercavano di risolvere il rebus della sua scrittura. Celati era molto insofferente alle categorie, ma bisogna dare atto ai suoi lettori che stargli dietro non era facile: un giorno era il traduttore dell’Ulisse e un professore universitario, il giorno dopo uno scrittore di racconti comici, un altro giorno ancora era partito per un viaggio e non tornava per mesi. Scappava continuamente dalla letteratura e poi ci tornava sempre. Era molto elusivo e cercava sempre di sottrarsi, soprattutto rispetto a sé stesso. E quindi la domanda che critici e lettori non hanno mai smesso di porsi, quella di dove collocare Celati nella letteratura italiana, era in fondo una domanda più profonda che riguardava la collocazione di Celati nel mondo: a ben guardare gli stavano chiedendo di stare fermo il tempo necessario per poterlo capire davvero. Ma Celati non era una cosa o l’altra, era il movimento tra quelle due cose. Così lui si innervosiva, e loro si innervosivano, e Celati rimaneva un enigma per tutti, che in fondo è la ragione per cui Celati è uno scrittore tanto luminoso, difficile e irripetibile.

Emilia

Ma mettiamo da parte per un attimo il nervosismo. Persi per persi, di un punto di partenza abbiamo comunque bisogno, ora che Celati non c’è più e ci rimane solo la critica su Celati. Abbiamo bisogno di partire da qualche parte per lasciarci andare pienamente a questa «passione del perdersi», come la chiama ancora La Cecla. Faremmo un errore, lo stesso errore dei suoi critici, se provassimo a collocare Celati partendo dalle categorie letterarie, se provassimo cioè a interpretarlo come uno scrittore comico, uno scrittore di viaggio, un avanguardista, un etnologo, un saggista, un traduttore e via dicendo, perché Celati era tutte queste cose e nessuna fino in fondo. Il problema fondamentale con Celati è sempre quello del dove, il discorso letterario è un problema di collocamento nello spazio. Per questo l’unica cosa certa che possiamo dire di lui è la seguente: che era uno scrittore emiliano.

Mi rendo conto che è un paradosso. Celati non è nemmeno nato in Emilia ma a Sondrio, anche se per un accidente (la famiglia si trovava in Lombardia a causa del lavoro del padre ma entrambi i genitori erano originari della provincia di Ferrara), e in Emilia ha vissuto in maniera irregolare. Una cosa di lui che sanno tutti è che era un grande viaggiatore e ha abitato un po’ ovunque: in America, in Francia, in Africa e soprattutto in Inghilterra, dove è rimasto per tutta la seconda parte della vita e dove è morto il 3 gennaio del 2022, una settimana prima di compiere 85 anni. Eppure sarebbe impossibile comprendere Celati senza l’Emilia. In questo è l’opposto di Calvino, suo mentore, amico e modello. Calvino, nato anche lui per caso altrove, a Cuba, è uno scrittore assolutamente apolide. Celati avrebbe potuto anche vivere in Giappone e non avrebbe smesso di essere uno scrittore emiliano.

Più difficile è definire in cosa consista questa emilianità e perché sia utile come categoria letteraria. In Pianura, Marco Belpoliti si riferisce al rapporto di Luigi Ghirri con la campagna emiliana parlando di un «modo di abitare […] frettoloso, disattento alle cose», mentre di Celati dice che la sua parlata «molto manierata» era il suo «modo emiliano di rivolgersi all’interlocutore in forma affettuosa». Belpoliti e Anna Stefi hanno intitolato la loro raccolta di conversazioni celatiane Il transito mite delle parole, e in quel richiamo alla mitezza c’è la morbidezza e la fluidità, la leggerezza, la «passione per il mondo coì com’è», l’ironia che non diventa mai sarcasmo di tanti scrittori, registi e fotografi provenienti dall’Emilia-Romagna. Come se la vita non fosse veramente una faccenda seria. Ma potremmo menzionare anche la finzione e la superficialità, il comico (che dagli anni Ottanta evolve in qualcosa di più sottile), il senso beckettiano dell’attesa. E poi la luce, quella «luce dispersa» in cui annegano le ombre, la «luce scoppiata» di cui parla il pittore d’insegne Menini quando dice: «io credo che bisogna chiedersi cosa è luce e cosa è ombra per non lasciare le cose da sole nella loro disgrazia». Tutta questa è l’emilianità di Celati.

All’inizio della sua carriera, l’Emilia è soprattutto Bologna, dove insegna letteratura angloamericana per buona parte degli anni Settanta. Nel 1977 diventa una figura importante del movimento studentesco («un po’ indiano metropolitano, un po’ clown triste», ha detto Nico Orengo) con un laboratorio di scrittura collettiva su Lewis Carroll che darà vita ad Alice disambientata, libro sorprendente e polifonico che fluttua da qualche parte tra Deleuze, il Cappellaio Matto e Basaglia. Il libro è unico nel suo genere, gira di mano in mano e non riceve nessuna recensione ufficiale. Celati lancia copie del libro in aula. Non che sia così strano, è il Settantasette a Bologna, ma stiamo parlando di uno scrittore che ha già pubblicato quattro libri con Einaudi, del traduttore di Swift e Céline, quindi non è nemmeno così usuale.

Subito dopo Celati scompare. Nessuno sa esattamente dove vada nei sette anni successivi, ma un elenco parziale comprende: la Pianura Padana, l’America, la Scozia, Parigi, Montpellier, Friburgo. È uno di quegli allontanamenti ciclici dalla letteratura, un sintomo dell’irrequietezza che lo accompagnerà tutta la vita. Ha deciso di smettere di scrivere perché, spiega, «non avevo più niente da dire a nessuno». Ma anche questo non è vero, in realtà stava cambiando: abbandonava il registro comico per approcciarsi a qualcosa di nuovo, più sfumato e indefinibile, che chiamerà «ricettività crepuscolare». Quando torna a pubblicare, nel 1985, lo fa ripartendo dall’Emilia. A ricondurlo sulla strada della letteratura sono i fotografi della scuola italiana di paesaggio, soprattutto Luigi Ghirri, che se lo sono portati «avanti e indietro nelle zone lungo il Po» per dare parole ai loro scatti. Qui Celati sente raccontare le storie minime e strane che diventeranno i racconti di Narratori delle pianure e Quattro novelle sulle apparenze. Nel 1988 fa un passo ulteriore e descrive in Verso la foce i «territori devastati» del delta del Po. Il libro si inserisce in tradizioni letterarie, quella della psicogeografia, del diario di un viaggio a piedi e del nature writing dell’antropocene, che in Italia non esistono nemmeno, né all’epoca né ora.

Nel 1992, passato all’attività di regista, dirige il documentario Strada provinciale delle anime, dedicato alla memoria di Ghirri, morto proprio quell’anno. Ancora nel 2003, quasi settantenne, torna alla pianura padana nientemeno che con John Berger per girare Visioni di case che crollano. All’Emilia Celati torna per quasi tutta la sua vita, poi negli ultimi vent’anni non ci torna più.

Movimento

A questo punto devo fare una confessione: io Celati non lo capisco sempre. Voglio dire che di quelle sue frasi eleganti, bellissime, spesso non riesco a penetrare il senso logico. A volte sembrano voler dire due cose insieme, come uno strabismo, o una cosa che sta tra le due e non è né l’una né l’altra come le note della musica atonale. Altre volte invece sembrano ricordare la nebbia della pianura, o quelle fotografie di Ghirri in cui vedi e non vedi, ti sembra di capire ma non capisci veramente. Credo che sia anche questa la ricettività crepuscolare, l’aura della scrittura di Celati. E credo che quest’aura abbia essenzialmente a che vedere con il movimento: tutto nella sua scrittura serve a far risaltare il moto fisiologico, la gestualità. Celati si muove, le sue parole si muovono. Niente sta mai fermo e lascia dietro di sé una scia, come le stelle cadenti. Parlando a un intervistatore di tutt’altro, cioè del lavoro di fare documentari, dice: «dentro di te c’è un movimento inspiegabile che è una buona guida».

Sono convinto che ci siano diversi tipi di scrittori-camminatori. Ci sono quelli che sentono il bisogno di raccontare tutto, di divagare all’infinito, di raccogliere in un unico periodo tutto lo splendore e l’orrore del mondo, come Sebald. Ci sono quelli che camminano per dieci anni per riassumere migliaia di ore di camminata in un centinaio di pagine, in un processo di liofilizzazione dell’esperienza, come J.A. Baker. Ci sono quelli che camminano per far sì che il corpo vada alla velocità delle idee perché se si fermassero impazzirebbero, come Coleridge. E poi ci sono gli scrittori che camminano attraverso la lingua, gli scrittori per cui le parole sono una specie di fluido, battiti che compongono un ritmo, bandierine attraverso cui fare lo slalom. Ecco, Celati cammina tra le parole, dietro le parole, si muove sempre e quando provi ad afferrarlo con la mente è già andato da un’altra parte. Lo scrittore, dice, è «un essere microscopico in un movimento pressoché infinito».

Questo movimento, è inutile dirlo, non va da nessuna parte. All’inizio di Strada provinciale delle anime il narratore, o uno dei narratori, perché non è ben chiaro chi sia a raccontare e chi ad ascoltare, si chiede cosa ci sia di tanto interessante da vedere in giro per il mondo. Interrogato su cosa intenda lui per «avventura», Celati risponde che l’avventura non ha niente a che fare con l’esotico e nemmeno con il desiderio, anzi è quello «spazio aperto» che si crea proprio dove non c’è desiderio, perché gli «oggetti socialmente desiderabili ti bloccano la testa per sempre». È un ribaltamento totale dell’idea romantica, dell’avventura come desiderio del desiderio. Più avanti un altro narratore, o un’altra voce del narratore molteplice, riflette sul perché le persone vadano in vacanza e si risponde che vanno in vacanza per non sentirsi persi. E poi si chiede: «ma è meglio sentirsi persi o guardare solo quello che ti hanno detto di guardare?»

L’avventura non c’entra niente con il desiderio e i libri di viaggio non fanno nemmeno il tentativo di guidare il lettore attraverso il luogo di cui parlano: leggere Avventure in Africa in Mali o Verso la foce per fare una gita sul Po sarebbe inutile perché sono l’opposto di una mappa. Celati odiava le mappe, andava da Bologna a Londra in auto e sulla strada si fermava a Parigi da Calvino, e il tutto senza una mappa. Calvino, che è uno scrittore-mappa, uno scrittore-labirinto ma anche uno scrittore che per tutta la vita non ha fatto che disegnare la mappa per uscire dal suo stesso labirinto, lo rimproverava. Quando gli chiedono se si senta più saggista o scrittore Celati risponde: «vado avanti un po’ a caso, devo dire». 

Ma come tutto il resto in quella ricerca di strabismo che è la sua scrittura, anche il movimento ha un duplice significato. Celati era molto ansioso e talvolta molto depresso, e sappiamo che camminava a lungo prima di scrivere, come se si potesse scrivere solo quando si è esausti, come se la scrittura fosse il sottoprodotto dell’esaurimento. Camminare quindi era anche una terapia, un esorcismo, un rito sciamanico, il rituale per evocare la ricettività crepuscolare, vale a dire il luogo di passaggio in cui si trovano le uniche cose che vale la pena scrivere.

Voci

È bella, questa immagine del camminare come atto rituale, perché comunica l’idea che la scrittura migliore nasce sempre quando lo scrittore si è messo K.O. e lascia che a parlare al posto suo sia «quel movimento inspiegabile» che è «una buona guida». Chi parla attraverso Gianni Celati? Ecco un’altra cosa di lui che è stata ripetuta fino allo sfinimento: che non dimostrava l’età che aveva. «Gianni è sempre stato un ragazzo, anche quando l’ho rincontrato e non era più il giovane professore del Dams. Aveva più di cinquant’anni eppure ne dimostrava trenta» (Belpoliti); «Celati è un uomo bello, dalle mani lunghe ed eleganti, uno sguardo dolce e distante. Ha quarantotto anni e gliene daresti trentacinque» (Marcoaldi); «Celati è sveglio, magro, nervoso, si veste come un ragazzo» (Emanuele Trevi). «Possa il puer chiamarci a essere noi stessi», scriveva Hillman. 

Il puer in Celati è tante cose: l’irrequietezza, quel continuo spostarsi da un genere letterario all’altro, l’insofferenza per tutto ciò che immobilizza la vita, il fastidio per le regole che incasellano e ordinano l’esperienza, il rifiuto dell’efficienza e della produttività. Quella volontà pervicace di rimanere sempre sfuggenti, senza radici, senza un posto tranquillo e istituzionalizzato nella vita come nella letteratura. Lo sguardo fresco, la capacità di continuare a stupirsi. Penso che si possa dire di Celati quello che Hillman scriveva del puer come forza psichica, quel fuoco dentro di noi che rimane giovane nonostante il passare degli anni e per farlo nega la psicologia come forma di profondità inutilmente pesante: «è al puer che Psiche soccombe proprio perché egli ne è l’opposto», il suo spirito «è il meno psicologico, il meno dotato di anima». Per creare un linguaggio capace di comunicare gesti, dice Celati, «bisogna abbandonare la psicologia, bisogna ripulirsi e cancellarsela dalla testa».

Non è quindi un caso che nei suoi viaggi americani Celati sia andato spesso alla ricerca più o meno consapevole del trickster, quella «figura d’un eroe che ne combina di tutti i colori ma resta sempre un po’ incomprensibile perché la sua ricerca non corrisponde a un desiderio già definito». Il trickster, dice Celati, è un po’ «come il bambino», che «non ha ancora idee precise sugli oggetti socialmente desiderabili»: è un’energia immatura, che rifiuta di essere rinchiusa in una forma, ma per questo tanto più incontrollabile. Celati amava l’imprevedibilità, il caos, il dialogo inintelligibile, il nonsense e più in generale tutto ciò che è inafferrabile e impossibile da categorizzare. Parlava molte lingue, talvolta tutte insieme. Quando scrive sembra sempre che ci siano più persone, almeno due, che scrivono in contemporanea, e questo non vale solo per i racconti ma anche per la saggistica critica. L’effetto su chi lo incontrava era talvolta straniante.

Dispersione, ricomposizione. Partire, fermarsi, ripartire. Scrivere e non scrivere. Scrivere e camminare. Allontanarci dalla scrittura per ritornarci sempre diversi. C’è una frammentarietà costitutiva della scrittura di Celati, che pure per altri versi è così curata, così precisa. Anche in questo campo, è il doppio speculare di Calvino, che si è affannato tutta la vita di trovare la parola esatta che lo salvasse dal caos: in Celati la parola esatta è proprio la strada per arrivare al caos. Perché la parola esatta è luminosa al punto che significa tante cose insieme, come un prisma, e ognuno di questi significati va in una direzione diversa. Celati scriveva, piantava tutto a metà, poi ritornava su quei frammenti dieci anni dopo e li riprendeva, che è un po’ come tornare in un luogo in cui si è stati molti anni fa e vederlo con occhi nuovi: ecco il «movimento pressoché infinito» dello scrittore, della scrittura. Amava i racconti perché «ogni racconto può andare per conto suo, ha la natura del frammento disperso», perché «i racconti sono come gocce di mercurio che si sparpagliano da tutte le parti, sfuggenti e mutevoli», perché «i racconti sono frammenti vaganti nella dispersione».

Non è tutta così, la scrittura di Celati? Un «frammento vagante nella dispersione»? Storie captate, intercettate, storie di passaggio, capite male, storie lacunose, storie inventate, che si sono perse, che sono riuscite a creare le condizioni per sentirsi finalmente perse. «Alla fine abbiamo portato a casa una serie di riprese sparse, per lo più frammentarie, casuali», dice parlando del processo di realizzazione di Diol Kadd

«Un frammento vagante nella dispersione» fa pensare a un meteorite, una stella cadente che brucia nel cielo, per un attimo, senza nessun altro significato che la propria luce. L’esperienza corporale di quel momento idiosincratico e inafferrabile, indescrivibile perché non incasellato dalle categorie logiche, è forse la maniera più fedele di interpretare la scrittura di Celati. Per il quale «basta un accenno che spunti come un lampo e si bruci nell’energia del dire, del ridire qualcosa in buona vena: quello è già una storia».

ARTICOLO n. 48 / 2023

GOOMAH LO DICI A TUA SORELLA

Around The Table. Una serie americana in italiano

Tra tutte le domande che facevo a mia madre, quella che la irritava di più, che le dava talmente tanto fastidio da poter sentire le vibrazioni dei nervi come delle corde di un pianoforte, era la seguente: “Cosa c’è per cena?”

Adesso che la mamma sono io, condivido il suo fastidio. Non solo: lo capisco. Non è che le mamme stanno tutto il giorno a girarsi i pollici e hanno il tempo di programmare menù da ristoranti. Altrimenti un piatto di pasta, una bottiglietta d’acqua liscia temperatura ambiente e un frutto fanno diciotto euro, coperto compreso, s’intende. Anzi, ringraziare Iddio che qualcuno sia andato a lavorare per permettersi la spesa, che viene cucinata e trasformata in cibo da mettere in tavola! Ma non solo: la domanda potrebbe rappresentare l’inizio di lamentele ingiuste e inutili, non ammesse né mai concesse per nessuna ragione al mondo. Servono solo a far scattare urla di Tarzan. “Quello che passa il convento”, mi sentivo rispondere con quel tono lì ogni volta che ho osato chiedere. 

Invece, mia figlia Vera, impeccabile, me lo chiede tutte le sere. Ma lei va oltre, tasta terreni che io non ho mai azzardato prendere in considerazione: siccome non mi teme, osa lamentarsi. “Non mi piace”,” l’abbiamo già mangiato ieri”, “avrei voglia d’altro”. E io sono addirittura peggio di lei: so bene che questo mio grave errore mi porterà nel girone infernale in cui per punizione si viene sgridati dalle mamme per l’eternità. Io, che non ho polso, le chiedo cosa vorrebbe. Sento mia madre rigirarsi nella tomba ogni volta che pronuncio queste parole. Cedo perché sono pigra, quasi sempre stressata e non ho voglia di litigare, e perché l’importante è che mangi qualcosa. «Posso farmi le fettuccine (feducin) chicken Alfredo? Giuro che lavo tutte le pentole che uso». Me l’ha chiesto anche l’altra sera, storpiando come sempre le parole in italiano. Io, piuttosto di mangiare quella cagata, digiuno. Vera lo sa e infatti ne fa solo una porzione per sé.

Senza litigate, finalmente siamo tutti a tavola: Vera con il suo piatto puzzolente di pasta scotta e insipida con panna e pollo disgraziati, io, Ryan e Andrea con delle bistecche impanate e dell’insalata. C’è anche Martina, che da qualche tempo ha deciso di farsi chiamare Alex, perché è un nome neutro. Va bene: basta che mangi. Sembra che siano tutti contenti, ed è forse anche per questo che decido di rovinare il momento della happy family che mi fa tanto Mulino Bianco: «E comunque, ‘sta roba delle fettuccine (feducin) chicken Alfredo non è italiana. In Italia si mangia il primo, che sarebbe una pasta o una minestra, e il secondo, dove viene servita carne, verdure o pesce. Non si mischiano quasi mai. E si pronunciano FET-TUC-CI-NE e AL-FRE-DO, non come lo dici tu!» In tavola cala il silenzio, seguito da uno sbuffo all’unisono. Qualcuno alza gli occhi al cielo. Io mi verso il terzo bicchiere di vino e fingo di non capire.

È interessante come la cultura americana sia un mosaico che contiene aspetti di civiltà di altri mondi, lontanissimi da qui.Se non fosse per il genocidio dei nativi americani, si potrebbe usare senza sensi di colpa il termine Nuovo Mondo. Transit. È su queste coste che gli antimonarchici inglesi misero piede per primi. I ribelli, insomma. E da allora, con la vastità di terreno e ricchezze che piano piano si vennero a scoprire dall’Est all’Ovest, gli Stati Uniti diventarono e sono tutt’ora una calamita molto potente che attira popolazioni di ogni luogo. Lo so, la violenza, la marginalizzazione, lo schiavismo, il genocidio e altri piccoli particolari fanno parte integrante della storia americana e non bisogna dimenticarselo, ma mi viene da dire a noi europei che chi è senza peccato lanci la prima pietra. Comunque, il fatto di essere così vivamente multiculturale li rende ricchi, affascinanti, unici: tutti gli americani hanno radici da qualche altro angolo del globo.

Le persone provenienti dallo stesso Paese si raccolsero in comunità dove poter mantenere un’identità d’origine: Chinatown, Little Italy sono solo due dei mille esempi. Portarono con sé le proprie credenze, i propri valori, la propria cultura e il proprio cibo.  A differenza della società di provenienza, che negli anni si è evoluta, i connazionali d’oltreoceano hanno sempre mantenuto le usanze e i costumi legati al periodo storico in cui si trasferirono. Non sono mutate, non hanno avuto modo di stare al passo coi tempi. È per questo, per esempio, che qualche tempo fa uscì la notizia riguardo il Grana Padano. Pare che quello fatto negli Stati Uniti sia più simile alla ricetta originale, perché gli italiani che arrivarono allora non sono stati mai influenzati da certi cambiamenti. Sicuramente negli anni, in Italia si sono modificate le ricette o gli strumenti per produrne in grande scala. 

Come in Italia con la lingua inglese, anche qui si usano termini che, seppur molto storpiati o antichi, sono di origine italiana. Liz, una mia amica di origine siciliana, mi aveva raccontato che da piccola, era venuta a vivere con lei la goomahd. Facevo sì con la testa, ma non ho mai avuto la più pallida idea a cosa si riferisse, men che meno che fosse un termine di provenienza italiana. Poi, guardando la serie I Soprano, mi è stato tutto più chiaro: la goomahd è la madrina, mentre la goomah senza la di finale, è l’amante. Che ruolo abbia la comare in famiglia è ancora un mistero, ma basta googlare, come ormai si dice in Italia.  Quando sgrida i suoi figli, Liz finisce sempre con la parola kapeesh. Quando le chiesi cosa significasse e da dove derivasse il termine, si mise a ridere: «Ma come, non è italiano? It means do you understand…», capisci? Non ci sarei mai arrivata. Altre parole usate dagli italoamericani sono: maronn (Madonna), manigot (manicotti), goompà (compare, amico), regoat (Ricotta), mosaré (mozzarella), pastafazool (pasta e fagioli). Molti, come si nota, sono termini legati alla famiglia o al cibo, che sono i perni della comunità italoamericana.

Trovo molto interessante che negli Stati Uniti si possano scoprire ancora piccoli pezzetti di una società antica, di un’Italia che ormai non esiste più. L’immagine che mi balza in testa quando penso a questi residui di un linguaggio tra l’italiano e il dialetto, termini che per due secoli sono rimasti intaccati dalla modernità, è quella di un insetto dentro un pezzo di giada. Preservato con cura, come se il suo valore fosse inestimabile, come se perderlo significasse perdere anche le proprie origini. Eppure, è legato a un’Italia che invece ha subito mille trasformazioni: le due guerre, Mussolini, Hitler, la Democrazia Cristiana, il Milan, Berlinguer, Nilla Pizzi. E poi il sessantotto, il femminismo, le leggi sull’aborto e sul divorzio, gli anni di Piombo, Falcone e Borsellino, settecento governi diversi. Un luogo lontano ormai anni luce dalle goomahd di una volta. Sicuramente anche le culture provenienti da altri luoghi hanno mantenuto stretti e tramandato brandelli di un Paese che ormai non esiste più.  Un momento ben preciso della storia, rimasto intaccato e gelosamente tenuto puro dal tempo. 

Per motivi molto diversi, legati in parte alla tecnologia e in parte a questa cosa che tutti chiamiamo Internet, anche l’italiano si è arricchito di molti termini inglesi, anche fin troppo, a mio parere. In Italia fu Mussolini, la cui personalità non si può descrivere come versatile, elastica e nemmeno poliedrica, a vietare termini anglosassoni nella lingua italiana.

Il Popolo del luglio 1938 pubblicava il seguente commento:

«Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi, o di Londra, o d’America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare noi, come guardarono a Roma o all’Italia del Rinascimento…»

Certamente è un caso che il governo di destra della Presidente Meloni faccia le stesse critiche della “mascella che al cortile parlava” (cit. De Gregori): ci sono troppi termini inglesi nella nostra lingua. Interessante invece che le sia venuta in mente questa proposta dopo aver lanciato la scuola che lei chiama Made in Italy. Se non fosse per i cento euro di multa e per il terrore di passare per quella che sta con i fascisti, una piccola parte di me sarebbe segretamente d’accordo. 

Ogni volta che vengo a Milano, mi stupisco di quante parole inglesi siano ormai entrate a far parte del gergo. Sono sempre di più, tanto che ormai quando ne uso una, chiedo se si dice già anche in Italia. La risposta è sempre positiva. La cosa buffa è che spesso sono usate in modo sbagliato e sempre pronunciate sulla stessa onda di manigot. In poche parole, la pronuncia è talmente lontana da quella corretta, che non si capiscono proprio. Personalmente, poi, faccio sempre figure di merda perché le pronuncio come si dovrebbe o perché faccio fatica a decifrarle: i miei amici dicono che sono snob e che faccio finta di non capire. Ce la metto tutta, ma quando mi chiedono se ho il blutut, io davvero non ho la più pallida idea di cosa mi stiano chiedendo. Ripeto, è esattamente come quando non capisco la parola goomahd

Comunque, il dilemma su come pronunciare le parole inglesi quando si sta parlando un’altra lingua, se farlo in modo corretto o no, esiste eccome. Ne parlava anche David Sedaris, scrittore e genio americano, che per anni ha vissuto in Francia. Raccontava che una sera era a cena con degli amici francesi. Durante la conversazione, gli chiesero dove avesse vissuto prima di trasferirsi a Parigi. La risposta era: New York. Il suo dilemma, invece, era: pronuncio New York come lo pronunciano a Parigi o come si pronuncia veramente? Perché immancabilmente ci si sente un po’ snob, in questo hanno ragione i miei amici italiani, a pronunciare come si dovrebbe, ma allo stesso fa molto da ridere quando ci si impone di imitare il modo sbagliato per non fare brutte figure. Alla fine, per non passare per la saputella, mi sono imposta di dire blututColgatecol (call), o amburgher. Quando venni in Italia con Alex e Vera, mi presero molto per il culo: “Amburgher?!?”

Pronuncia a parte, ci sono parole di provenienza inglese usate solo in Italia. Per esempio, col (call). Non si dice, non si usa né negli Stati Uniti né in Inghilterra: qui, si dice meeting. Poi, che ci si incontri al computer o meno non è un dettaglio che pare interessi. Durante la pandemia, si lavorava in smartworking. Ma solo in Italia. Nei Paesi anglosassoni, di lavorava da casa (work from home). Un’altra: fare footing. Non sono neanche sicura che esista come termine (devo googlare), ma generalmente, quando uno si mette le scarpe da ginnastica, i pantaloni della tuta, una maglietta e gli airPods, va a running, non a jogging

Infine, spesso viene cambiato il significato di certe parole inglese usate nel linguaggio italiano. Questa cosa l’ho scoperta una sera di qualche anno fa. Ero a Bologna con degli amici ed eravamo seduti in un bar, tutti un po’ brilli. Loro continuavano a dire una parola in inglese che non capivo e a ridere come matti. Dopo aver chiesto, ho scoperto che in italiano dire la parola squèrt (squirt) è una roba erotica volgarissima. Qui la si usa quasi esclusivamente quando si sta per addentare un amburgher e ci si vuole mettere del checiap: non ha nessun connotato sessuale, ma piuttosto una parola che descrive un gesto banale, lontano mille miglia dalle luci rosse. Infatti, risposi a voce alta: “Ah squirt!”, perché la pronunciavano male. Ci fu una risata a crepapelle generale, di tutti quelli del bar, amici e non, e quelli seduti ai tavolini fuori. Solo quando i miei amici, con le lacrime agli occhi dal ridere, mi fecero il gesto di abbassare la voce e mi spiegarono, anche per me questa parola ha acquistato un connotato erotico. Quando tornai negli Stati Uniti, spiegai ai miei amici americani in quale contesto viene usato questo termine negli States. Magari mi ero persa qualcosa. Confermarono: mai sentito associato al sesso. 

Comunque sia, da allora aspetto il 4 di luglio manco fosse babbo Natale. Spero sempre che invece delle bandiere a stelle e strisce e birre acquose, venga fuori qualcosa di un po’ più piccante. E non lo dico per il checiap, che tra l’altro tanto bene non fa sicuramente.

ARTICOLO n. 47 / 2023

ESISTE ANCORA L’ITALIANO LETTERARIO?

Questo intervento è stato letto dall’autore alla Camera dei Deputati, in occasione del Forum della lingua italiana, tenutosi il 23 maggio 2023.

“Seguono il navigatore e finiscono con la macchina nell’Oceano Pacifico”. 

Qualche anno fa, tre persone in vacanza hanno seguito con una tale fiducia le indicazioni del navigatore che, pur a un passo dal cadere nell’oceano, sono andate avanti, perché il navigatore ne era certo: la strada giusta era quella. Poco importa che quella non fosse una strada, ma il modo migliore per finire, appunto, nell’oceano.

Leggendo questa notizia su un importante quotidiano nazionale – nella fittissima mole di informazioni e dati prodotti in ogni istante e destinati all’oblio in ogni istante – potremmo chiederci come è successo? E quando è successo? Come è successo, quando è successo, che la nostra specie, la specie cui apparteniamo, ha iniziato a lasciarsi condizionare così tanto dalla realtà esterna? Quando ha iniziato a essere invasa da una così intensa assenza mentale?

Il nostro cervello è esploso a dismisura per milioni di anni. Quasi da sempre, ci è stato possibile, davanti a un cielo stellato, sentire la presenza di milioni di galassie. Sentire l’immensità. Sentire l’infinito. 

Uso la parola sentire e non capire, perché comprendere di essere felici, per esempio, è ben diverso che sentire di essere felici, così come comprendere di provare dolore è molto diverso dal sentire il dolore. Quando qualcosa si sente, la si vive. Se la si capisce, non sempre c’è la conversione: non sempre la stiamo vivendo sulla nostra pelle. 

Si potrebbe dire che i tre turisti, prima ancora che capire il pericolo di finire nell’oceano, non l’abbiano sentito. Non erano affatto nel presente. Con la mente, erano da un’altra parte, come capita in vario modo, a noi tutti, ogni giorno. Per questo appaltavano le decisioni al navigatore. 

La loro caduta nell’oceano, scenografica ma non così drammatica, può suggerire un sorriso, ed è giusto così: sorridere è un atto molto umano, se possiamo. Non deve però farci dimenticare che quei turisti siamo noi. E che noi tutti, ogni giorno, mettiamo sempre più da parte questo sentire, questo vivere nel presente, questo vivere nell’istante.

Si trattava di tre giapponesi in Australia ma, per quanto nel mondo sembra che ci siano ancora persone che non ne siano convinte, ogni essere umano è uguale a un altro: ha sangue rosso e lacrime salate, prova molto amore, prova molto dolore. Ognuno è responsabile della sua vita, certo, ma ognuno di noi è nell’universo, e quindi ogni essere umano (così come ogni essere vivente) siamo noi. Noi non siamo nella natura ma siamo la natura. Non ci siamo noi da una parte e il mondo dall’altra: noi siamo il mondo. 

Naturalmente il punto interrogativo che chiude il titolo di questo intervento – esiste ancora l’italiano letterario? – si configura come un piccolo muro di Berlino, che tiene fuori un’altra parte della domanda: esiste ancora l’italiano letterario, nell’era della distrazione, della disattenzione, o nell’epoca algoritmica che ha messo al centro, come forse mai prima d’ora, le istanze dell’ego? Ego che come una scheggia impazzita invade il mondo, esplode nei mille rivoli del personal branding, fino al confine, spesso superato, dell’autocelebrazione?

E poi: esiste ancora l’italiano letterario, in un contesto in cui il dibattito (letterario e non) si contrae, si spettacolarizza, si infantilizza e in cui è sempre più esasperata la sovrapposizione – tutta del nostro Ventunesimo secolo – tra prestigio e numeri, talento e consenso, in cui in sostanza è molto più facile confondere il successo con l’opera artistica?

E infine: esiste ancora l’italiano letterario in un tempo in cui il nostro sentire è a rischio?

Non si può che chiedere scusa alle grandi domande per le piccole risposte. 

La risposta è sì. 

È innegabile che sono tempi ostici per la lingua letteraria, ma finché esisterà la nostra specie, ne sono convinto, esisterà questa scintilla, questo incantesimo.

Prima di addentrarci, però, è necessario specificare che cosa si intende, qui, per “letterario”. Naturalmente la prospettiva non è qui quella di un linguista, o di un sociologo della lingua, ma di uno scrittore o al massimo di un lettore.

Se prendiamo una ciotola d’argilla piena d’acqua e la svuotiamo, la ciotola ora è vuota. Così sembra. Eppure la ciotola è piena d’aria. Eppure il vasaio, per impastare l’argilla, ha avuto bisogno di acqua. Eppure il vasaio, per cuocere l’argilla, ha dovuto usare il fuoco. E senza l’aria, il fuoco non avrebbe divampato e il vasaio non avrebbe respirato. E poi: il fuoco non sarebbe stato possibile senza legna. E poi: senza la pioggia, senza il sole, senza la terra, non sarebbero cresciuti gli alberi. Quella ciotola, allora, ai nostri occhi può essere vuota, ma è evidentemente piena: di acqua, di aria, di fuoco, di terra, per esempio. 

Lavorare con l’italiano letterario – usare la lingua dentro uno spazio letterario – significa proprio questo: guardare ciò che non si vede. Indossare lenti speciali che permettono di andare oltre l’apparenza, oltre la forma. Reinventare il mondo, ma non a tavolino. Abbattere le pareti del linguaggio. Andare incontro all’ignoto.

L’ignoto non è un fatto vago. È qualcosa di concreto. È lo spazio non previsto, non immaginato. È lo spazio dove non siamo mai stati, il tempo che non pensavamo di poter vivere. Tuffarsi, con le parole, in questo ignoto, significa creare un fatto nuovo: qualcosa di impensato.

In questo senso, lavorare con l’italiano letterario è un atto politico.

La letteratura è fatta di materia, di presente, di virgole, di spazi, di punti e a capo. Ma è viva solo se sa fare questo tuffo nell’ignoto. Così la politica. È fatta di emergenze – come quella molto drammatica di questi giorni -, è fatta di piccole decisioni della vita quotidiana, ed è fatta di presente: ma non è viva se non sa guardare ciò che non si vede. Andare incontro all’ignoto, creare un fatto nuovo, passare dall’arte del possibile all’arte dell’impossibile. Permettere, quindi, ai significati, di proliferare.

Posso scrivere: Maria spegne la luce. Oppure posso scrivere: la luce spegne Maria. 

Se deve esserci una frase giusta e una sbagliata, per la letteratura quella giusta è la seconda. La prima è una frase didascalica, narrativa. È tutto chiaro. La seconda genera infiniti significati. Come può una luce spegnere Maria? E che significa spegnere? È tale l’intensità del fascio di luce da accecarla? O solo da addormentarla? O da immalinconirla? E che tipo di luce è? Da dove arriva? E chi è questa Maria? Una bambina? Di che tempo? O è Maria di Nazareth? Che cosa è successo?

Nel 1980, il poeta Andrea Zanzotto incontra gli studenti di una scuola di Parma. Uno studente gli chiede: «Come mai la poesia contemporanea è spesso difficile da capire?» Il poeta risponde: «C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così […]. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto».

Questa definizione è sicuramente da estendere alla letteratura tutta, e non solo alla poesia. 

L’atto letterario – come l’atto politico – equivale al cammino di un pellegrino. Se ogni viaggio separa la partenza da un arrivo, rischiamo di considerare gli spazi intermedi come un tempo inutile, da dimenticare, o da vivere il più velocemente possibile.L’atto letterario – come, credo, quello politico – invece deve abbattere l’idea di percorso. Tutto ciò che c’è in mezzo tra la partenza e l’arrivo non è più intermedio: è una transizione, una catena di momenti da vivere il più intensamente possibile. Non bisogna accelerare per superarli e per arrivare alla meta – ci sono percorsi lunghi, e non esistono scorciatoie. Bisogna viverli. Appunto: sentirli. In questo modo, tutto diventa reale. Lo spazio in cui viviamo è reale. Il tempo che viviamo è reale. 

L’evento di oggi – leggo – nasce allo scopo di “valorizzare la lingua italiana in una prospettiva legata allo sviluppo culturale del paese”.

Non ho gli strumenti o, come si dice, le ricette, per immaginare come sia possibile valorizzarla. Spero tuttavia che sia possibile, un giorno, quantomeno suggerire che la nostra lingua – la nostra “materna locutio”, quella che, scrisse Dante, “riceviamo senza alcuna regola imitando chi ci nutre” – possa essere valorizzata nella sua complessità, e non bistrattata, trattata solo come uno strumento. Che possa servire a perforare le nostre certezze, i nostri tic, i nostri dualismi. Che possa essere utile a chi scrive, a chi legge, a chi fa politica, a chi vive nelle nostre città e nei nostri paesi, a ricordarci che qualunque sia la nostra attività bisogna essere come specchi. Lo specchio non può fare niente per riflettere un’immagine: può soltanto mantenersi pulito. Che possa, infine, essere il veicolo che ci spinga, come i tre turisti giapponesi, a tuffarci nell’oceano – nell’“oscurità da eccesso”, nell’ignoto, nella vita, nel futuro – ma questa volta senza GPS. E così, nuotare verso nuovi significati che non conosciamo.

ARTICOLO n. 46 / 2023

IL POMODORO DEMONIACO

La mistica del cibo

Se vi foste trovati su un’imbarcazione affacciata sulle rive del nuovo mondo, conquistadores intenti a studiare dove attraccare, vi sareste quasi di sicuro imbattuti in un intrico di rampicanti, vegetazione massiccia e movimenti furtivi nella penombra, un muro imponente di vita che pulsa arrogante e non si cura di nascondersi.

Non è un caso che a molti sembrasse di essere approdati nell’Eden, dove bastava allungare un braccio per trovare cibo offerto dagli alberi.

Una delle piante che avrebbe catturato la vostra attenzione sarebbe stata un groviglio verde acceso, ricco di frutti variopinti dall’aspetto invitante, tondeggianti e turgidi, con quest’aura pericolosamente invitante.

La verità è che la natura delle Americhe era tanto generosa quanto estremamente insidiosa, e bastava ingerire per errore una pianta e le conseguenze potevano essere ben poco gradevoli.

La pizza, la pasta, gli gnocchi rievocano idealizzazioni tipicamente italiane del pomodoro. Rosso, dolce al punto giusto, lo infondiamo di italianità, lo eleggiamo a simbolo di una mediterraneità, di una napoletanità, di una sicilianità che non ammetteremmo mai che qualcuno possa toglierci.

Un simbolo, il pomodoro, quasi scontato per noi italiani, che oggi porta significati non poi così prevedibili rispetto a qualche secolo fa.

Insieme alle patate, tra i prodotti del Nuovo Mondo che hanno subito un lungo e intricato processo di accettazione, i pomodori sono tra i donu dell’orto che hanno incontrato maggiori resistenze al loro arrivo in Europa. I simboli cambiano da un’epoca a un’altra e da una società a un’altra, e sono prodotti culturali, nati da un sentire collettivo, in costante movimento.

Sentito collettivamente come ortaggio per la sua succosità e dolcezza, il pomodoro si è guadagnato un posto di primato nelle cucine del mondo, ma non sempre è stato così ben visto.

Quando, all’inizio del XVI secolo, gli esploratori spagnoli incontrarono per la prima volta i pomodori in America Centrale, si dimostrarono piuttosto scettici rispetto al loro consumo: sulle prime lo scambiarono per una pianta di belladonna che, nell’Europa di allora in cui l’Inquisizione e le persecuzioni contro le streghe erano all’ordine del giorno, non era un vegetale che godeva di una buona reputazione.

Le solanacee – come il giusquiamo, la belladonna, la mandragola e la tromba d’angelo – non solo erano note per essere estremamente velenose: erano anche considerate frutti del diavolo, creati da forze maligne invisibili.

Streghe e belladonna per le superstizioni europee dell’epoca correvano di pari passo, venivano entrambe legate alla sfera del non-noto, del malvagio, facenti parte di quell’insieme di ingredienti usati per la produzione di pozioni e infusi diabolici, che portavano alla licenziosità, alla prostituzione e ad altre attività poco ortodosse.

Anche un’altra pratica, in uso nel centro America, faceva sì che il pomodoro, per quanto innocente, non fosse ben visto: i cronisti spagnoli riportano con disgusto che gli Aztechi sacrificavano i loro prigionieri di guerra, tagliando loro il cuore ancora pulsante per offrirlo al dio Sole. La carne rimanente di alcune delle vittime veniva poi preparata a mo’ di stufato condito con pomodori e peperoncini e servita ai nobili.

Sebbene gli studiosi non siano d’accordo sulla misura in cui il cannibalismo fosse praticato dalla comunità azteca, concordano sul fatto che avveniva occasionalmente, soprattutto per scopi rituali.

Pratica più malvagia e diabolica non poteva esserci per le menti dei conquistadores, che vedevano il Nuovo Mondo come “Terra di Dio” e, così, trovavano ancor più forti motivazioni per le loro missioni di conversione forzata.

Sembravano invece dimentichi che in madre patria, sempre in nome di Dio, ardevano pire per eliminare con il fuoco l’imprevedibilità femminile, le così chiamate “streghe”.

Gli Aztechi usavano i pomodori anche come medicina: purtroppo, la maggior parte delle loro ricette medicamentose sono tuttora molto difficili da eseguire. Per esempio, per curare l’acne si preparava una maschera di escrementi di lucertola, fuliggine e succo di pomodoro.

La bevanda per la convalescenza e il rafforzamento generale ci suonerà certamente molto più gradevole: succo di pomodoro appena spremuto, semi di zucca macinati, paprika gialla e succo d’agave cotto. Per l’asma e altri disturbi polmonari si mettevano i pomodori cotti, il più possibile caldi, sul petto, strofinandoli non appena erano abbastanza freddi assieme al copale, una incenso resinoso derivante dalla pianta di Icica icicariba.

Per i Maya il pomodoro era un alimento di uso quotidiano. Credevano che il succo di pomodoro aumentasse il sangue rosso in cui risiede la forza vitale dell’essere umano, rafforzandone così il corpo. Con il succo di pomodoro fresco si curavano anche le infezioni della pelle e le emorroidi.

La parola tomato, pomodoro in lingua inglese, deriva dalla parola azteca tomatl, che significa “una cosa rigonfia”, mentre i botanici europei hanno dato altri nomi a questo frutto sospetto. Il primo fu lycopersicum, “pesca del lupo”. 

Il termine “pesca” deriverebbe da una descrizione non molto dettagliata di un’antica pianta velenosa egiziana – presumibilmente la mandragola – che aveva anch’essa bacche di colore giallo oro e che il famoso medico romano Galeno aveva citato nei suoi scritti.

Il “lupo” derivava dal fatto che gli europei pagani chiamavano “piante lupo” tutte le piante velenose, caustiche o addirittura “maligne”.

L’illustre medico tedesco e membro della Royal Society dottor Michael B. Valentini (1657-1721), scrisse: il pomodoro «è chiamato ‘pesca del lupo’ perché, sebbene sia piacevole agli occhi, se la gente lo mangia, può venirne uccisa, proprio come dai lupi». Il frutto era chiamato anche “mela d’oro dall’odore fetido”.

Il termine pomodoro è da attribuire al botanico senese Pietro Andrea Mattioli, che per primo documentò il frutto in Italia nel suo Medici Senensis Commentarii del 1544, dove lo definì mala aurea. Lo stesso botanico lo ha tradotto letteralmente in italiano come “pomo d’oro” (per il suo caratteristico colore giallo oro prima dell’ultima fase di maturazione) prima nel suo Commentario a Dioscoride (1574) e poi nel suo Herbarius.

Altri botanici del XVI secolo pensarono a nomi più amichevoli per la nuova pianta, come “mela dell’amore” (poma amoris) o “mela del paradiso”.

Ma anche questi nomi trasmettono una diffidenza di fondo, una paura dell’erotismo e della sensualità. Il frutto, succoso e rosso come le labbra voluttuose, e pieno di semi viscidi, ricordava agli studiosi una fatale tentazione femminile. In Germania, una ragazza attraente viene ancora chiamata “pomodoro caldo” – che potrebbe però rivelarsi aspro – o “pomodoro capriccioso” – e una donna capricciosa viene chiamata “pomodoro con pepe”.

Quando il pomodoro divenne noto, gli studiosi dell’epoca si chiesero se potesse essere il frutto proibito che cresceva sull’Albero della Conoscenza Proibita nel Giardino dell’Eden. Il loro sospetto derivava dal resoconto di Cristoforo Colombo del suo terzo viaggio, che lo aveva portato fino alla foce del fiume Orinoco, sulla costa nordorientale del Sud America. Colombo scrisse che la regione era bella oltre ogni misura, la vegetazione era rigogliosa, gli animali erano pacifici e gli indigeni erano belli e in perfetta salute. Era convinto di essere approdato ai confini del Paradiso, il Giardino dell’Eden descritto nei testi sacri. 

Era mai possibile che i numerosi pomodori selvatici che crescevano in quel luogo fantastico fossero i discendenti del frutto proibito? 

Il nome “mela del paradiso”, già citato in precedenza, si diffuse relativamente. Per esempio, era il nome usato nei Paesi dell’Impero asburgico – Boemia, Slesia, Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Voivodina) e Tirolo; in Scandinavia sono ancora note come “mele del paradiso”: paradisaebleparadisaepplerajčica, o paradižnik, questi i nomi usati in questi luoghi. E oggi a Vienna solo i forestieri comprano “tomate” al famoso Naschmarkt; i viennesi acquistano Paradeiser.

Nell’Odenwald, vicino al Reno, i locali chiamano ancora il frutto “pomo d’Adamo” in ricordo della prima vittima della seduzione femminile. Anche se la gente diffidava di questo esotico “pomo d’amore” o “pomo d’oro”, esso trovò posto nei giardini europei come pianta decorativa, non da mangiare bensì come ornamento, troppo bello per non nascondere insidie.

Quest’aura di bellezza da temere attribuì al pomodoro poteri eccitanti e afrodisiaci che gli valsero appunto nomi come “pomme d’amour” in francese, o Liebesapfel in tedesco, o “love apple” in inglese.

Nella seconda metà del 1600 in Francia, gli spasimanti ne donavano grappoli ornamentali alle loro dame, a far intendere i loro desideri inesprimibili, e stuzzicarne l’appetito erotico.  Gli alchimisti lo impiegavano in pozioni e filtri magici.

Per molto tempo il succo di pomodoro è stato considerato una pozione d’amore segreta, che agli occhi dei Puritani “porta alla licenziosità”.

A poco a poco, però, se ne scoprirono le proprietà medicinali: il frutto rosso era ritenuto in grado di guarire ferite di vario tipo, tanto che il suo succo fresco veniva versato direttamente nella ferita per prevenire l’accumulo di pus e spalmato sulla cute contro lo sviluppo dell’erisipela. Gli esperti di medicina sperimentarono tinture a base di gambi freschi. L’idea derivava dalla forte somiglianza dei frutti della belladonna, che veniva usata per le pustole e le malattie della pelle di natura scrofolosa, come quelle causate dalla sifilide e dall’abuso di pomate al mercurio. 

Secondo il modo di pensare dell’epoca, era logico che questo “pomo d’amore” alleviasse i sintomi della sifilide, la malattia venerea con cui la dea dell’amore sensuale, Venere, aveva colpito l’umanità. Dopotutto, furono i marinai di Colombo a contrarre per primi la terribile malattia sessualmente trasmissibile, portandola con sé dal Nuovo Mondo. La dottrina medica dell’epoca affermava che il luogo in cui aveva origine una malattia era anche quello in cui si poteva trovare la cura.

Ma bisognerà attendere il XVI secolo prima che gli europei prendano in considerazione l’idea di mangiare pomodori, che dovettero passare attraverso i consueti processi di accettazione culturale.

L’incorporazione di questi prodotti nuovi, come molti provenienti dal Nuovo Mondo, entrarono nel meccanismo di sostituzione per diventare accettabili gastronomicamente: l’atteggiamento verso queste novità esotiche era di grande cautela e curiosità, tanto che ci si impiegò più o meno tre secoli prima che il pomodoro (e i suoi compagni, la patata, il mais, il peperoncino, il peperone) venisse adottato definitivamente, entrando nella dieta occidentale in modo così profondo e sistematico che sarebbe difficile immaginare le cucine europee senza di esso.

Il trucco è stato credere di poter trattare i nuovi prodotti in ricette tradizionali, dimostrando la capacità dei sistemi alimentari di rigenerarsi grazie ad apporti esterni e al tempo stesso riaffermare la propria identità: incorporare l’ignoto assimilandolo a sé.

Gli italiani furono i primi a osare mangiare il temuto frutto. Forse fu un innamorato respinto che volle togliersi la vita con la poma amoris, la mela dell’amore; forse cadde sul pane abbrustolito o nella pasta con olio d’oliva, aglio e prezzemolo. In ogni caso, il botanico Gioacchino Camerario il Giovane (1534-1598) scrisse: «In Italia molti hanno l’abitudine di mangiare questi frutti cotti con sale, aceto e olio, ma si tratta di un cibo molto poco salutare». 

In prima battuta si provò a friggerlo in padella come i funghi e le melanzane, ma l’evento decisivo che ne segnò il lancio fu la sua trasformazione in salsa di accompagnamento, utilizzata dal XVII secolo con carni e pesci e infine con la pasta.

Col tempo, l’Italia divenne la seconda patria del pomodoro, che si unì in matrimonio intimo con la pasta, sancendo il definitivo trionfo della pummarola.

Dal Settecento inizia la vera e propria “rivoluzione rossa”, a partire da Napoli, e la pasta si colora di rosso, non solo al Sud ma anche al Nord.

Interi campi di pomodori venivano coltivati anche nell’Italia settentrionale. I contadini della regione di Parma furono i primi a conservarli cucinando il succo o essiccando i frutti al sole.

Attraverso la riduzione del pomodoro a salsa, fu adattato a una fisionomia tipica della tradizione europea: già dal Medioevo i trattati di cucina dedicano moltissima attenzione alle salse, indispensabile accompagnamento a ogni piatto. Anche il pomodoro fu quindi accolto nelle cucine del vecchio continente solo dopo la sua riduzione morfologica a qualcosa di noto: una salsa, che lo rendeva decifrabile dagli usi tradizionali, aggiungendo nuove note di colore e sapore.

Invece, gli europei settentrionali e occidentali e i nordamericani impiegarono molto tempo per superare il grande tabù, anche se l’erborista William Salmon (1644-1713) riferì di aver visto crescere il pomodoro nelle prime colonie americane – nell’attuale Carolina del Sud, nel 1710 – presumibilmente solo come pianta ornamentale. Un colonnello americano di nome Robert Gibbon Johnson fu dichiarato pazzo nel 1820 quando annunciò che il 26 settembre avrebbe mangiato pubblicamente un intero cesto di pomodori seduto nel suo portico. Il giorno stabilito, più di duemila curiosi si presentarono per assistere allo spettacolo e, tra lo stupore di tutti, sopravvisse. 

Nel 1866 nella Germania settentrionale il “pomo d’amore” era considerato una pianta ornamentale, mentre nella Germania meridionale veniva coltivato e consumato come contorno o come ingrediente di zuppe. Ma scienziati e medici nutrivano ancora dei dubbi: sostenevano che, in quanto verdura che produce acidi, il pomodoro acidifica il sangue e i tessuti del corpo, esponendoli a reumatismi, gotta e artrite e, peggio ancora, favorendo il cancro. Oggi sappiamo che è esattamente il contrario. 

Solo dopo il 1920 il pomodoro è diventato veramente popolare negli States. L’industria agroalimentare ha coltivato enormi campi di pomodori ibridi standardizzati nelle nuove aree coltivabili nel deserto della California meridionale. Di conseguenza, il mercato statunitense fu inondato di succo di pomodoro, concentrato di pomodoro, pomodori in scatola, zuppa di pomodoro e ketchup. Per le star di Hollywood, il succo di pomodoro divenne parte del rituale quotidiano al pari del succo d’arancia e degli spinaci; e durante il Proibizionismo un cocktail popolare, il Bloody Mary, mascherava bene la vodka che si nascondeva al suo interno. 

Oggi l’americano medio consuma circa cinque chili di pomodori all’anno.

Non molto tempo dopo, i medici hanno trovato il modo di attestare notevoli vantaggi per la salute di questo ortaggio appena diventato di moda e redditizio. Essi riferirono che i pomodori sono buoni per la digestione, i disturbi dell’ira, la gotta, la polmonite e le affezioni cardiache e renali. I pomodori freschi aumentano la secrezione del pancreas e stimolano il movimento intestinale. Inoltre, sono ricchi di vitamine di alta qualità, tra cui la vitamina C, il carotene, la tiamina e la vitamina E, la “vitamina della fertilità”. Viene raccomandato per contrastare l’acidità di stomaco, la stitichezza, per fluidificare il sangue e per i disturbi legati alla gotta. Si usa anche appenderne gli steli e le foglie negli armadi per tenere lontane tarme e insetti.

Gli antroposofi, tuttavia, hanno ancora dei dubbi sul pomodoro. Notano che questa pianta non ha la forza per crescere sul suo stesso stelo essendo “appesantito dalla materia”. Il botanico Alfred Usteri (1869-1948), di orientamento antroposofico, era sospettoso di quella che definiva «una pianta rapace che prospera sui propri rifiuti e detriti compostati». Egli sostiene che il pomodoro riflette il materialismo che ha messo radici all’inizio del XV secolo e che è l’immagine speculare dell’egoismo umano che ha portato al razzismo, al nazionalismo e al consumismo. Il pomodoro, quindi, può causare malattie nell’essere umano, che rappresentano l’espressione fisica di queste configurazioni mentali. In altri scritti antroposofici ci sono anche avvertimenti sulla “forza espansiva in eccesso” del pomodoro e sulle “forze formative sbagliate che possono contribuire a promuovere il cancro, i reumatismi e la gotta”.

È interessante notare che recenti ricerche indichino ancora una volta il contrario: il pomodoro è anticancerogeno. Infatti, i casi di cancro sono statisticamente meno numerosi nelle zone in cui si consumano molti pomodori. Uno studio ha dimostrato che, grazie all’alta concentrazione di carotene e licopene, è particolarmente benefico per il cancro ai polmoni. Il contenuto di licopene del frutto lo rende anche uno degli alimenti antiossidanti più quotati.

E che dire delle folli fantasie che ritenevano il pomodoro una pianta stregata in grado di provocare pazzia e allucinazioni? Il glicoalcaloide solanina presente nelle foglie e nei gambi dei pomodori è davvero velenoso; può causare nausea, irritazioni alle vie biliari e ai reni, fluttuazioni cardiache, sudorazione profusa, crampi e perdita di coscienza, ma non è assolutamente uno psichedelico. 

A inizio maggio è il momento in cui pianto i pomodori in orto. Queste minuscole piantine, nate da un singolo seme di un frutto, in brevissimo tempo, con il calore del sole della stagione e poca acqua, raggiungeranno una stazza notevole e si riempiranno di grappoli pelosi, pieni di fiori gialli.

Il mio orto a metà giugno diventa un’esplosione di pomodori di ogni genere, pronti a soddisfare la mia voglia di freschezza o a riempire vasi di conserva.

Fino a fine settembre, se lasciate fare, le piante di pomodoro produrranno frutti, riempiendo ciotole su ciotole di frutti ogni settimana.

Non a caso questa pianta veniva vista come infida e demoniaca: da un solo seme si poteva avere un raccolto notevole, una vera stregoneria, opera del demonio.

Io, come molti di voi, ormai accetto che questo frutto azteco sia il protagonista della mia cucina estiva. E mentre mi mangio una frisa coloratissima e profumatissima, mi immergo nel fascino della storia di questa pianta magica.

ARTICOLO n. 45 / 2023

NANNI MORETTI IN FUGA

Il sol dell'avvenire

L’immagine è quella di un uomo di quarant’anni, capelli lunghi e ondulati, fisionomia sottile. Quest’uomo vaga lungo un viale con gli occhi arrossati dalle lacrime, cammina senza pace. È ottobre, è Parigi e quel viale è Boulevard Raspail che quel giorno di ottobre del 1984 apparirà ancora più grigio di come già non sia solitamente. Un viale che è un lungo vuoto che scava non poca angoscia nel mezzo di Montparnasse. Quell’uomo è Jean-Pierre Léaud e ha saputo da poco che François Truffaut è morto. L’uomo che lo ha cresciuto e formato proprio come un padre è morto all’assurda età di cinquantadue anni. Léaud non si dà pace e forse non si darà pace mai più. Siamo nel mezzo degli Anni Ottanta, ma i francesi ancora non lo sanno. François Mitterrand è presidente già da tre anni, molti sono delusi, ma in qualche modo Ronald Reagan e Margaret Thatcher appaiono ancora lontani e con loro appaiono lontane le facce orribili di anni che si pretendono leggeri e spensierati e che non saranno altro che il primo volgare rigurgito di una mostruosità antropologica che oggi i nostri anni accolgono invece con assurda ovvietà. 

La fine della storia non riguardava la storia in sé, i cicli economici e di potere, ma avrebbe riguardato invece le nostre stupide facce intrise di espressioni sempre più prive di memoria. La morte di Truffaut segna in un certo senso un passaggio, illuminato ancor di più durante le sue esequie dall’icastico viso atrocemente bello e straziante di Fanny Ardant. Appariva in quel giorno di lutto sui volti dei presenti la grana spessa del tempo e della memoria. Le storie erano ancora visibili come tatuaggi fissati nel pensiero di chi le aveva vissute e ben percepibili da chi ancora allora sapeva leggere nel prossimo. Gli occhiali scuri erano indossati per non esibire il proprio dolore: quanto stridore con gli occhiali scuri di oggi, inforcati invece solo per evidenziarlo durante funerali assordati dagli applausi. Il gesto è il medesimo, ma l’effetto è decisamente di verso opposto. 

François Truffaut lottò fino all’ultimo, non tanto con la malattia, ma con la propria meraviglia che aveva la forma del fare cinema, e non derogò mai alla propria arte come al proprio desiderio. Quello che allora aveva assunto la forza di un’utopia del possibile oggi, nella migliore delle ipotesi, è solo una pericolante perdita di controllo, un fare cinema ridotto ai minimi termini e sovrastato da apparenza mista a paura, angoscia e panico da sala vuota.

E allora bisognerebbe tornare a Jean-Pierre Léaud, alla sua mano. La immaginiamo mentre scorre sottile tra i capelli per fermarli dietro all’orecchio prima che ricaschino oltre, mossi dal vento e dallo sconforto di quell’ottobre. Torniamo a un attore fragilissimo come dovrebbero essere forse sempre gli attori. Un artista cui va conquistata la fiducia perché si possa fidare e affidare, perché possa essere controllato facendosi guidare fino al punto di offrirsi al proprio pubblico libero e vivo per sé e per gli altri. E vivo per sé e per gli altri Léaud lo è stato in maniera assoluta e splendida. 

Un piacere per gli occhi, un dono raro. Ed è di questa forma di controllo, che seppe offrire Truffaut, e di questa forma di fiducia che seppe offrire Léaud che oggi latita sempre più un’arte cinematografica decadente e a tratti moribonda, in parte nei suoi contenuti, quasi sempre nella sua fruizione. Un cinema che da sala è diventato da cameretta, una forma di fruizione ridotta che non riguarda ormai più il popolare, ma quella che si dice una sua nicchia; che sia ceto medio, più o meno riflessivo conta ormai ben poco.

E attorno a questa forma insieme di riduzione e di mancanza sembra parlare il cappio che sta al centro della scena de Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Cappio con cui dovrebbe impiccarsi il protagonista del film di Giovanni, Silvio Orlando, ma che al tempo stesso sembra destinato proprio a Giovanni. Un regista, quello interpretato da Nanni Moretti, non esplicitamente depresso o privo di idee, perché molti film ha ancora in mente di fare, ma rinchiuso in una gabbia critica e soprattutto autocritica, ormai incapace di cogliere la realtà e il suo senso.

Un suicidio, una morte che aleggia attorno a tutto il film di Nanni Moretti come al film che Giovanni pretende insistentemente come politico. Una morte quasi desiderata, una fragilità esposta eppure inedita al punto da capovolgere il ruolo e il compito di un regista che pare ormai in balia degli eventi (Giovanni) e privo di una poetica che da sempre lo ha caratterizzato (Nanni Moretti). 

Nanni Moretti, in anni in cui il cinema italiano declinava pericolosamente riducendosi a pochi autori (e ancor più a pochi spettatori) e a una produzione di bassa qualità, ha – con Sogni d’oro (1981), Bianca (1984) e La messa è finita (1985) mostrato un’idea del cinema netta e anche divisiva. Un regista che ha sempre imposto un controllo ossessivo nella regia, nel controllo del set e nella caratterizzazione dei suoi personaggi. Moretti ha rappresentato un cinema innovativo, ma fortemente classico nella visione generale, segnato da un tentativo di controllo a tratti assoluto che ha in qualche modo reso impraticabile uno sguardo permeabile, ampio e curioso su una società e su una realtà che il regista romano non sembra più in grado di leggere, prima ancora che di rappresentare. Se nel 1984 Michele Apicella in Bianca uccideva i suoi amici perché non poteva controllarne le storie, oggi Giovanni preferirebbe fare da sé uccidendosi e lasciando perdere tutto il resto. È come se la fragilità dell’attore – quella di Jean-Pierre Léaud sperso lungo Boulevard Raspail – si fosse trasferita ad un regista diventato lui stesso il fulcro e il centro della scena, ma al tempo stesso la sua negazione: perché senza di lui – «mi viene da dirgli: spostati un po’ e fammi vedere il film» disse Dino Risi, non resta più nulla, non c’è nessuna scena, nessun film. Un regista che non controlla, un regista che non decide si trasforma in un film che non può esistere.

Un film su se stesso e per se stesso? Forse, ma anche un film su un regista senza alcuna possibilità di controllo, su un regista che ha perso il controllo di ogni cosa. Un regista che diviene totalmente attore esponendo una fragilità però non curabile. Nessuno dietro la camera può più guidare lui e la scena. Gli attori provano a fare da sé, a darsi un ruolo per conto proprio, ma tutto questo non può funzionare a lungo e infatti non funziona, né nel film nel film e ancor meno nel film stesso. Il funzionare è basilare per ogni macchina perché significa senso e ragione e tutto questo Il sol dell’avvenire non lo ha, restando per altro comunque lontano dall’ambizione di una utopica macchina celibe. E il continuo incespicare in citazioni e autocitazioni – divertenti per chi segue Moretti da quaranta anni – offrono il ritratto di una passione triste che sembra volere per principio oppure ciò che è stato (e non è più ripetibile) a ciò che potrebbe funzionare e forse pure meravigliare.

Un regista può essere sordo (sempre François Truffaut in La nuit américaine) oppure cieco (Woody Allen in Hollywood Ending), ma non può essere fragile, soprattutto se la fragilità va a determinare una totale perdita di controllo, o meglio una voluta perdita di controllo. Il sol dell’avvenire mostra il corpo di un regista che non può – ovviamente – essere il regista di quaranta anni fa, ma al tempo stesso non offre una possibilità diversa di sguardo al possibile regista di oggi e così anche allo spettatore (salvo che per gli spettatori groupie di quaranta o venti anni fa). 

È un garbuglio, un nodo scorsoio pericoloso che rivela una debolezza che non sta solo in Nanni Moretti, ma che probabilmente il regista romano tende a riflettere da una società che della nostalgia ha fatto una mitologia, senza accorgersi però che i reperti vanno maneggiati con cura e non utilizzati come vettovaglie buone per tutti i giorni. Una tensione che resta priva di dramma e colma di stanchezza.

Una stanchezza reale eppure vacua, perché incapace di offrire un’utopia, o anche solo una possibile forma di resistenza. Il controllo è una forma di equilibrio oltre il quale tutto diviene ingestibile, ma è anche una forma di adattamento continuo capace di aggirare la stanchezza. Per raggiungere il quale non basta citare “la storia”, ma occorre mettere in discussione ciò che è stato per individuare una nuova strada, quella più adatta, dare in sostanza un equilibrio (sempre mobile) alla storia e alla sua morfologia.

Mettersi in discussione non appartiene proprio a Il sol dell’avvenire che gioca sì con la storia, immaginandola con i sé, ma con l’unico obiettivo di confermare un’idea precisa e già data. Dare forma a una certezza non dovrebbe appartenere al cinema e alla sua capacità di creare nuovi immaginari. In questo falso movimento che appartiene sempre più all’ultimo Moretti, sicuramente da Tre piani in poi, si avverte una perdita comune del ruolo del regista, di quel mestiere oscuro che lo stesso Ettore Scola faticava a spiegare ai suoi genitori (Silvia Scola, Paola Scola, Chiamiamo il babbo), ma che si palesava in un saper fare dentro al quale ogni elemento della troupe acquistava pienamente senso. 

Ne Il sol dell’avvenire si avverte un liberi tutti, una resa al cambiamento e un assoluto disinteresse per come questo cambiamento possa essere interpretato. Una pretesa di centralità che trasforma la voce di Moretti intesa come sguardo, intuizione e intelligenza in una parodia di se stesso.

Mentre Marco Bellocchio che esordì nel 1965 ancora sembra divertirsi come un pazzo giocando su più piani e con più forme di cinema, Nanni Moretti abbandona il campo chiedendo ai propri attori di fare da sé in un finale celebrativo di un passato che si vorrebbe come una scatola ermeticamente chiusa, ma che rischia solo di dare forma a un presente inadeguato, mentre il mondo vive tensioni inedite e mutazioni radicali. Forse queste attrici e questi attori sapranno fare meglio da soli, alcuni già stanno da altre e in altre parti, ma abdicare al ruolo di guida per un regista come Nanni Moretti assume il segno grave di una sottovalutazione del dolore (proprio e altrui) in nome di una sopravvalutazione di se stessi. Tornando a quell’ottobre del 1984, non si può non vedere come le foto dei funerali di François Truffaut mostrino una forza cinematografica che certamente riguarda solo in parte il grande regista francese. Tra gli scatti si può cogliere a fianco di Fanny Ardant l’interprete dell’uomo misterioso, quello che avvicinandosi alla coppia Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) e Christine Darbon (Claude Jade) in Baisers volés avverte Christine del proprio amore per lei, un amore definitivo e assoluto al punto da dirsi pronto ad attenderla quando lei avrà deciso di “abbandonare il mondo del provvisorio” per unirsi a lui. Chiaro, quello era un tempo in cui non era necessario cercare “il cinematografico” perché tutto per certi versi lo era già, ma credere nel cinema e nella sua funzione vuol dire anche saper creare un immaginario al di là di se stessi e che vale sempre più di se stessi.

ARTICOLO n. 44 / 2023

IL CORPO DELL’ATTRICE, IL CORPO DELL’AUTRICE

Un dialogo

Si può chiamare in tanti modi: contenitore, confine, carne e, in definitiva, possiamo affermare che il corpo è uno spazio che occupa spazio. Generatore di amore, di sgomento, di ammirazione, il corpo non è solo un accidente e non è da investigare solo per estetica o scopi medici, ma è un viaggio, una mappa, una fotografia di quel che siamo, rivelatore di futuro e memoria del passato. Erotico nella sua capacità di legarsi e creare ponti fra: persone, cose, luoghi. 

È su questo oggetto insieme terreno e misterioso che Sonia Bergamasco, attrice raffinata, poeta, musicista sempre alla ricerca di domande, più che di risposte, affida il proprio ragionare e le proprie memorie al suo primo libro in prosa dal titolo Un corpo per tutti, Einaudi. È qui che dispiega i motivi per cui per un’attrice il corpo è tutto e che cosa significa, per lei, avere scelto questo mestiere, che di corpo e di voce ha bisogno, non a caso si dice “dare corpo a un personaggio”, che non è solo un prestito, ma un saper plasmare o modificare una materia già viva. La biografia di un mestiere, come recita il sottotitolo, più che di un’attrice, un libro essenziale per chiunque voglia avvicinarsi alla recitazione e per chi di recitazione sa un bel nulla, come me. Non un memoir, ma una testimonianza, scritto con lingua tersa, onesta e diretta su un mestiere che non parla solo di lei, dell’attrice, ma che riesce a parlare di tutti e a tutti. 

Volevo darle del lei, perché sono sempre molto eleganti le interviste dal tono cortese. Alla fine, però, ha vinto la spontaneità, le risate in un giovedì mattina, quando la distanza dei nostri corpi si è accorciata e abbiamo chiacchierato di che cosa è il corpo, di come lo raccontiamo. 

Melissa Panarello: Per parlare del corpo, inizi dalla voce. Nel libro l’hai resa terrena, anzi terrosa, quando da tutti è considerata aerea. 

Sonia Bergamasco: E questo discorso ti è tornato? 

M.P. Molto! Tu fai gli esempi di Marlon Brando, da cui ti aspetteresti una voce densa e sensuale e invece, scrivi, aveva un timbro opaco e strascicato. Oppure di Monica Vitti, il cui timbro definisci rugginoso e gorgogliante, “slacciato” dalla sua figura. Io ho pensato a Pino Daniele, alla sua voce così sottile che proveniva da un corpo massiccio. E anche a me stessa, che sono alta un metro e quarantanove ma ho la voce di chi supera abbondantemente il metro e mezzo. E di te io ricordo più nitidamente la voce che il viso. 

S.B. Sono così felice che tu lo dica perché la voce è sempre stata in primo piano, per me, anche quando era selvaggia e ineducata. Ha camminato passo-passo con me nel mio percorso di consapevolezza. È il segnale di un tutto, fa parte di un tutto e lo rappresenta. Un attore, un’attrice, sono un coro di voci. Poi c’è la voce quotidiana, quella dritta, della lettura quotidiana, e quella con cui ti presenti.

M.P. È una cosa che capisco benissimo perché ha a che fare anche con la letteratura: ciò che si scrive è diverso da ciò che si dice e ovviamente da come lo si fa. Nei libri una cosa a cui presto moltissima attenzione è la voce dell’autore, dell’autrice. Non tanto quello che scrive né come lo fa ma il timbro, la vibrazione che avverto fra le pagine. Tu nel libro ti definisci un’attrice immersiva, e come scrittrice come ti senti? 

S.B. Ci ho poi ripensato, in realtà. Immersiva lo sono nel senso che il desiderio è quello di sciogliermi nell’altro, però rimane sempre un margine di forma che non riesce a essere completamente abbandonata e quindi c’è un’alchimia necessaria. Nella scrittura forse quello che cerco è il desiderio di pulizia, di chiarezza e di ricomporre drammaturgicamente visioni articolandole in un racconto. Ho cominciato poi con la poesia perché è in rapporto strettissimo con quello musicale, che è stata la mia prima strada e quindi immagino che dalle letture e dallo studio e dall’essere sempre a contatto con un linguaggio musicale, il passaggio a una lingua poetica sia stato molto diretto e facile. Se oggi devo dirti quale scrittore o scrittrice si avvicina più alla mia idea di scrittura, ti dico Annie Ernaux. 

M.P. Mi sono chiesta anche io che tipo di scrittrice sono e di certo posso definirmi immersiva. Questo ha molto a che fare con l’eros, se ci pensi, ovvero l’eterno rapporto fra le cose, che poi è anche il rapporto con il pubblico, come scrivi nel libro. Cos’è l’eros nel tuo lavoro? 

S.B. L’energia che scorre e che rende necessario, credibile e potente quello che si sta raccontando e in definitiva si sta vivendo insieme. Un soffio vitale, uno strumento che unisce e passa attraverso, inteso come legame. 

M.P. Per me l’eros non ha a che fare con il sesso o meglio, ha pure a che fare con il sesso quando è legame; è più che altro un filo invisibile che lega il dentro e il fuori, il te e il me.

S.B. Se ci pensi è potentissimo anche nel bambino piccolissimo. 

M.P. A proposito di bambini, un’altra cosa che mi è venuta in mente leggendo il tuo libro è che a un certo punto i neonati, dopo pochi mesi, si rendono conto di avere un corpo. Mi ero dimenticata di questo fatto, ma ora che ho di nuovo una figlia appena nata mi accorgo che lei non è consapevole di avere delle mani. Lo scoprirà fra qualche settimana e in quel momento si definirà nello spazio. Tu quando l’ha scoperto?

S.B. Ero una bambina allo specchio, avrò avuto sette o otto anni. Mi guardavo per capire chi fossi, facevo piccoli movimenti nello spazio per cercare di definirmi attraverso quello strumento magico che è lo specchio, che sembra riflettere il nostro corpo e invece ci porta chissà dove. Non saprei circostanziare i tempi in cui sono venuta a patti con il mio corpo, so solo di averci messo un bel po’ a non essere soltanto l’idea di un corpo. Però c’è stato anche molto gioco, che mi ha aiutato a sciogliere molte tensioni e incomprensioni che partono da lontano. E forse recuperare il gioco perduto dell’infanzia attraverso il lavoro d’attrice non è casuale, è una possibilità di riappropriarmi del mio corpo intero, di viverlo pienamente e consapevolmente attraverso una forma amata, che è appunto quella del gioco. 

M.P. In questo in effetti gli attori sono dei privilegiati, cioè nella scoperta del proprio corpo. Immagino che i turbamenti e gli scoramenti nei confronti del nostro corpo li abbiamo tutti, voi però avete, per mestiere, la possibilità di attraversarlo e di compiere questo viaggio. Uno scrittore no, si dimentica di avere un corpo. 

S.B. Sì, nella scrittura è più complicato. Però se tu affronti il racconto anche in voce, e se dai corpo a questo racconto e cerchi un rapporto con il pubblico, riesci a recuperare una dimensione più erotica. 

M.P. Un mio amico dice di essersi innamorato di sua moglie per il modo in cui occupa lo spazio. Tu come lo occupi? E che valore dai al corpo delle persone che ami e che condividono con te lo spazio?

S.B. Mi piace la dimensione fisica dell’abbraccio. Ho necessità di vicinanza e presenza. Questo perché caratterialmente, per molto tempo e per timidezza, mi sono preclusa tante possibilità. E adesso, riscoprendo una forma più libera di me stessa, ho il desiderio di stare insieme. 

M.P. Questo in realtà ha molto a che fare con la leggerezza, a un certo punto scrivi che è stata per te una conquista. 

S.B. Bisogna arrivarci alla leggerezza, oppure la possiedi di tuo, anche se è rarissimo. Per arrivarci devi passare attraverso quella che è la tua storia, che anche il tuo corpo ti chiede. Poi ognuno ha i propri tempi, e ciascuno ha i propri traguardi. 

M.P. In effetti uno dei consigli più utili che mi hanno dato da ragazzina, quando ero molto appesantita da sovrastrutture e insicurezze, è stato: sii pop. Una cosa che allora mi sembrò un insulto e invece con il tempo ho capito che essere pop è il regalo più grande che puoi fare a te stesso e ha a che fare con la leggerezza. A un certo punto dice una cosa coraggiosissima: l’arte, la cultura, non servono a niente. Che cosa può riscattare la cultura, oggi? 

S.B. Non si può appesantire l’opera o il gesto artistico di qualsiasi tipo con una missione, significato o descrizione. Bisogna affrontare l’opera per quello che è: una voce che ci dovrebbe aprire a ulteriori possibilità, illuminandoci dentro, che ci deve sconvolgere. Nell’arte non può esserci una visione moralistica del fare, altrimenti entriamo nella scuoletta, in qualcosa che ha a che fare con il ministero. 

M.P. Nel tuo libro parli spesso di memoria. Cosa è la memoria del corpo?

S.B. La memoria vive nello spazio interno del corpo e nello spazio esterno della rappresentazione. C’è insomma un disegno complessivo, quelle memorizzate dall’attore non sono parole in orizzontale che vengono assorbite in una zona più o meno nota del cervello. Scivolano nei muscoli, nelle intenzioni più profonde, devono essere dimenticate, sciolte nel corpo per essere rivissute come azione. Altrimenti restano vuote, come tutte le parole che non vengono davvero vissute dal corpo. Tutte le parole che noi stiamo usando adesso, le mie, le tue, sono parole che passano attraverso un’esperienza fisica, una memoria del corpo, un’esperienza emotiva. È questo che l’attore e l’attrice devono sempre replicare per dare vita a quello che dicono, a quello che fanno, altrimenti è tutto morto. 

M.P. Stai compiendo un viaggio alla scoperta del mestiere dell’attore, dell’attrice. Ti vedremo mai nei panni di Eleonora Duse? 

S.B. Nei panni della Duse no, però la voglio raccontare. Il desiderio è quello di parlare del mio mestiere attraverso un’artista assente, perché di lei non abbiamo quasi nulla se non immagini fugaci, fotografiche, e un solo film in bianco e nero che non la rappresenta compiutamente. In questo periodo è quasi un’ossessione, è un momento della vita in cui sento la necessità di guardare attraverso. Non voglio parlare di me, penso solo che questo mestiere sappia parlare di noi. 

M.P. Io ho capito una cosa leggendoti: gli attori sono la nostra casa, quella di tutti noi. Siamo noi che vi abitiamo, allora. 

S.B. E per questo c’è una grossa responsabilità da parte nostra, di essere all’altezza di questo. Il desiderio però è quello e quando ci riesci tutto rimane vivo e ti regala qualcosa che nessuno mai più ti potrà portare via. 

ARTICOLO n. 43 / 2023

KAFKA. L’ADESIONE AL MONDANO

Pubblichiamo un’anticipazione dalla raccolta di saggi Kafka: (Mimesis) a cura di Riccardo Panattoni e Rocco Ronchi in libreria da oggi. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Schiacciato dall’ammirazione. È quel che provo oggi leggendo e rileggendo Franz Kafka. Da ragazzo ero entusiasta e sfrontato, e invece di ammutolirmi venivo eccitato dalla scoperta di quel modo di raccontare che non somigliava a nessun altro. La lettura mi riempiva di desiderio, un desiderio tanto pungente quanto imprecisato era il suo oggetto. Dire che era la letteratura sarebbe troppo vago: leggerla, studiarla, scriverla, insegnarla? O tutte queste cose insieme? Come impadronirsene? Da dove cominciare? 

Esattamente come si apre il Meridiano Mondadori dei Racconti di Kafka (a quell’epoca di Meridiani se ne trovavano a metà prezzo o anche meno nel Remainders di piazza San Silvestro e nelle librerie dell’usato a via del Pellegrino, a Roma), e cioè con la Descrizione di una battaglia, così ebbe inizio la mia ondivaga carriera di scrittore. 

Già verso la mezzanotte alcune persone si alzarono, sinchinarono, si strinsero le mani, dissero che era stato molto bello e passarono poi dallampia porta nellanticamera per infilarsi il soprabito. 

Fu la struttura della frase a farmi incamminare. Cinque principali coordinate infilate una appresso all’altra, una oggettiva subordinata alla quarta principale e una finale subordinata alla quinta: semplicissimo e funzionale, una partenza subito movimentata, promettente. Ho ancora preciso il ricordo di me che sfogliavo il Meridiano con crescente meraviglia: Smascherato un gabbamondoInfelicità dello scapoloRiflessioni per un cavaliereLa condannaIl cruccio del padre di famigliaSciacalli e arabi (da quel momento e ancora adesso, per me, il culmine assoluto della prosa narrativa) e poi il testo letterario che ho riletto più volte in vita mia, vale a dire Un medico di campagna, fin quasi a mandarlo a memoria nella versione italiana di Rodolfo Paoli, a cui resto irrimediabilmente affezionato. Quindi il mio preferito proprio perché minore nel suo formato, eppure così commovente e comico, Il cavaliere del secchio. Ah, Il cavaliere del secchio! Quando la moglie del carbonaio si stringe al petto il lavoro a maglia, quel gesto domestico inequivocabile… 

Un amore fisico, sensuale, verso il dettaglio.

O quando, racconta il medico di campagna, poggiato l’orecchio sul petto nudo del ragazzo malato, per auscultarlo, questi »rabbrividisce a contatto della mia barba bagnata». 

Ecco, più che per le sue massime insuperabili (se tento di riprodurle mi confondo e parafrasandole le sciupo) o per le sue visioni profetiche, è per questo, precisamente per questo, cioè per aver dato nome al brivido del ragazzo malato, che Kafka merita il titolo di “veggente”. 

Sul fianco destro, verso lanca è aperta una ferita grande come il palmo di una mano; di color rosa, in diverse gradazioni, scura in fondo, più chiara verso gli orli, leggermente granulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aperta come la bocca duna miniera. Vista da lontano è così. Ma da vicino appare ancora più grave. E come guardarla senza ansar lievemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei di suo, spruzzati anche di sangue, brulicano, trattenuti nellinterno della ferita, colle testine bianche e le numerose zampine tendenti verso la luce. Povero ragazzo, nessuno ti può aiutare… 

(N.B. Volevo chiudere la precedente citazione, ma non sapevo dove, non trovavo le connessure, il discorso formava un tutt’uno, inarrestabile… come un nastro di Moebius.) 

Ho scoperto la sua orrenda ferita; questo fiore nel tuo fianco ti farà morire. La famiglia è felice, perché mi vede allopera; la sorella lo dice alla madre, questa al padre, il padre ad alcuni ospiti che entrano, in punta di piedi, tenendosi in bilico con le braccia distese, dalla porta rischiarata dal lume della luna. »Mi salverai?» sussurra singhiozzando il giovane, abbagliato dalla vita che ferve nella sua ferita. Così è la gente del mio paese. Chiedono dal medico sempre l’impossibile… 

Sgombro il campo dall’equivoco: per me “veggente” è colui che vede la realtà, nella realtà, non oltre di essa, poiché ciò che si trova oltre di essa è comunque realtà. Il veggente riesce a sopportare la visione di ciò che semplicemente è, e a reggerla insieme (per uno scrittore vuol dire nella gabbia della pagina – che non è solo un formato tipografico). Nessun elemento di ciò che il suo sguardo contempla è irrilevante, dunque gli occorre pazienza e un notevole coraggio per accettare la dismisura del compito di indagarla. La sua eventuale attitudine mistica consiste, semmai, in questa accettazione integrale dell’esistenza, di cui nulla va deprezzato come residuo o scarto. 

Ed ecco un narratore che la vulgata vorrebbe ripiegato su se stesso, introverso e sognatore, timoroso della vita che costantemente lo elude e lo mortifica e dunque proiettato verso mondi interiori o ulteriori – insomma un simbolista, un cabalista, uno scrittore di incubi – e invece risulta implacabilmente fattuale, fisico, sensuale, attivo. Kafka incalza il suo lettore investendolo con una serie ininterrotta di gesti, ambienti, abiti (tantissimi abiti minuziosamente illustrati, nella sua prosa, come nemmeno in Francis Scott Fitzgerald…), gente che si veste e si spoglia, entra ed esce, protesta, minaccia col pugno chiuso, cappelli che si levano nel saluto, pozze di birra in terra, chiodi sporgenti che graffiano le scarpe, cavalli irrompenti, ferite, frustate, asce, lanterne, carbone, sciacalli che bevono sangue, gambe doloranti, baci a cameriere, sottane che scivolano sul pavimento. E poi cinghie, catene, forbici, pulci, dadi… 

Lasciano attoniti le descrizioni come quella che dà inizio al Cacciatore Gracco, con quelle frasi allineate una appresso all’altra, come fosse l’ekphrasis di un paesaggio fiammingo, per due pagine di pura registrazione visiva, fino a spezzarsi con la secca domanda che l’uomo in barella rivolge al sindaco (il quale, va notato, ha in testa »un cilindro listato a lutto»: ma perché “listato a lutto”? come gli sarà venuto in mente, a Kafka, questo dettaglio?): »Chi sei?» 

Dunque l’effetto spiazzante e inebriante che scambiavamo per onirismo e per un attributo della letteratura fantastica, catalogandolo secondo l’equivoca formula del “realismo magico”, si deve, al contrario, proprio alla cocciuta resistenza di Kafka ad alterare la realtà, ad apportare una qualsiasi modifica al suo dettato, per esempio arricchendola o stilizzandola alla maniera primitiva o stravolgendola oppure ancora scavalcandola per volare chissà dove, secondo le ricette e i manifesti programmatici di una delle tante baldanzose avanguardie della sua epoca. È singolare come Kafka vi resti totalmente estraneo: non ostile (Kafka non è ostile a nulla), bensì, alieno. Forse deriva da qui il turbamento che tuttora si prova nel leggerlo, mentre, tanto per fare un esempio, ci suonano innocuamente scontati, oramai, i cari tartagliamenti futuristi o il déréglement programmatico di Breton, Aragon e soci, che allora destavano scandalo. Siamo talmente disabituati a questa nettezza, a questo aderire senza ritegno al lessico minimo di cui sono formate la lingua e la vita, da scambiare il brivido che ci comunicano per una deformazione onirica. Come quella coniugale, la fedeltà al reale è in effetti un’ossessione più morbosa ancora del desiderio di evaderne.

Di “magico” la scrittura di Kafka ha piuttosto il carattere della vocazione, della più elementare nominazione. »La magia non crea, bensì chiama»: è dunque una forma di appello, di classificazione e certificazione dell’esistente, grazie a cui si rende manifesto e, per così dire, glorioso, tutto ciò che normalmente resta negletto. L’esatto opposto della trascuratezza. Nominando – allinea, giustappone, mette ordine, illustra. È un mezzo di contenimento. Edifica un equivalente verbale del mondo, per renderne lo splendore che sarebbe altrimenti opacizzato. Mentre la musica potenzia le emozioni, la scrittura le mette in chiaro. 

Sono tornato, ho attraversato lingresso e mi guardo intorno. È la vecchia fattoria di mio padre. Lo stagno nel mezzo. Vecchi attrezzi inservibili, aggrovigliati luno sullaltro, impediscono di passare alla scala del solaio. Il gatto è appostato sulla ringhiera. Un panno mezzo strappato, legato una volta per gioco attorno a un palo, si agita al vento. Sono arrivato. Chi ci sarà ad accogliermi? Chi aspetta dietro luscio di cucina? Dal camino esce fumo, stanno preparando il caffè serale. Sei a tuo agio, ti senti a casa tua? 

Talvolta questo inventario magnifica lo “splendore della vita” da cui siamo circondati, talvolta invece suscita un pungente senso di estraneità – che però fa risaltare in modo ancora più tagliente il profilo delle cose. L’estraneità come una pellicola di smalto. 

È la casa di mio padre, ma le cose vi stanno freddamente luna accanto allaltra, come se ognuna di esse fosse intenta alle proprie faccende che io ho in parte dimenticato e in parte non ho mai conosciuto.

Può darsi che la sorprendente e inesausta “adesione al mondano” di Kafka derivi, come sostiene Ferruccio Masini, da una radice spirituale ebraica, secondo la quale non si può e non si deve svalutare l’immanenza poiché è in essa che si rinviene la possibilità stessa del miracolo. Il mondo visibile include il mondo invisibile, esattamente come l’amore sensuale include quello celeste: e proprio perché lo contiene, la materia trova nello spirito le forze necessarie a nasconderlo in sé fino a farcelo scordare. Quel che chiamiamo “romanzo” (e la ragione per cui resta distinto dalla “poesia” e della “filosofia”) non è che una sfrenata, sacrificale dedizione al mondano, una devozione assoluta verso il visibile e le sue figure (umane, animali, naturali), al fine di renderne evidente il mistero costitutivo senza bisogno di ipotizzarne e indagarne un altro che si nasconda dietro le sue apparenze. Se un dio si degna di abitare il romanzesco, si tratta di un Augenblicksgott, una divinità momentanea, un dio del batter d’occhio, che esaurisce la sua funzione in ogni singolo accadimento, e scompare una volta compiuto il suo miracolo, miserabile oppure portentoso, che ora potrà essere una festa da ballo, ora un convegno amoroso o una grande battaglia, una visita medica, un paio di orecchini rubati, venduti, impegnati, smarriti e poi riapparsi, la scrittura di una lettera maliziosa o straziante, una vendetta tra bande di ragazzi, una sbronza, un naufragio, l’uccisione di un mostro e quella di un innocente, un atto di coraggio e uno di codardia – alcuni di questi eventi clamorosi, altri senz’altro banali, ma tutti egualmente decisivi, nessuno irrilevante – per il romanzo, intendo, solo per il romanzo, e non per la storia o per la morale o per la legge, che invece avanzano la giusta pretesa di soppesare e discriminare. Il grano e il loglio nelle pagine di romanzo hanno pari valore e pari opportunità – e così i buoni, i cattivi, i mediocri. Non stupisce nelle conversazioni di Kafka il persistente richiamo a Goethe, allo scrittore olimpico per eccellenza (»Goethe ha detto quasi tutto ciò che può essere detto su noi uomini»), e ancora di meno stupisce quello a Kleist, e alla sua lingua »chiara e universale», alla sua prosa »senza acrobazie verbali, senza commenti e senza elementi di suggestione».

Molti tuttora si affaticano a interpretare allegoricamente l’impenetrabile Davanti alla legge; mentre io fin dalle prime letture ne trascuravo il significato (troppo arduo per me da scandagliare e comunque inattingibile – e chissà, almeno in parte una beffa, addirittura una parodia, un pastiche di parabola chassidica), mentre mi sentivo irresistibilmente attratto dalla pura sciarada delle frasi, quella concatenazione implacabile che invano avrei cercato per tutta la vita di riprodurre, riuscendo tutt’al più a simularla.

E siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell’oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. 

Sto dicendo soprattutto della seconda parte del racconto, la cui prodigiosa progressione si incrocia, a canone inverso, con la regressione del povero uomo di campagna verso la vecchiaia e la morte. Le ultime quattordici frasi del racconto, da »Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano senza interruzione» al rintocco fatale di quell’«Ora vado a chiuderlo» formano una sequenza che è pura Ἀνάγκη, Ananke, qualsiasi forza per i Greci si nascondesse in quel nome: la necessità, ciò che non può che essere, ed essere esattamente così – insomma, l’ineludibile, l’inesorabile. E tutto come effetto di una sciarada di frasi! Che si leggono d’un fiato con la sensazione di esservi costretti.

La lettura di Kafka rappresenta spesso un’esperienza punitiva e soverchiante, ma proprio per questo fonte di godimento. Il disagio è causato dalla elementarità dell’incardinamento sintattico, dalla linearità quasi disumana del discorso e dalla sua capacità di avvincere malgrado la storia stia conducendo, obiettivamente, a una delusione, a un fallimento, o a una vera e propria catastrofe: come nella discesa nel Maelstrom descritta da Poe, quello sprofondare nel vortice, ecco, suscita ammirazione, e persino una paradossale forma di sollievo. Perché, insomma, se ha da essere per forza così, che sia. Se alla fine K. deve morire senza aver mai saputo di cosa era accusato – ebbene, che muoia! 

(Per una volta non suona enfatica l’espressione francese “je suis ravi”: una lettura di questo tipo è a tutti gli effetti un rapimento). 

“Inesorabile” vuol dire, alla lettera, che è inutile rivolgergli preghiere (in-ex-orare), non cederà alle suppliche, se è scritto che deve accadere accadrà comunque, spazzando via l’ostacolo di ogni parola superflua – ma non di colpo, bensì per gradi, una frase dopo l’altra. Invece che risalire in superficie si sta scendendo nel cerchio inferiore, anzi si è oramai scesi. Inesorabilmente. Come appunto nel Maelstrom. 

Proprio per la sua gradualità, la sua sconcertante progressione (sconcertante appunto perché imperturbabile, si direbbe quasi burocratica – in definitiva una “pratica da sbrigare”, come quelle che Kafka si ritrovava sulla sua scrivania di impiegato presso l’Istituto di Assicurazioni per gli Infortuni sul Lavoro), il cambiamento di livello non viene immediatamente avvertito, le ombre si allungano proiettate in un altrove (il futuro? il destino? o semplicemente le proposizioni che seguiranno?), seminando un’inquietudine calma, come nelle pagine di apertura del Processo, o nella minuziosa descrizione della macchina ad aghi che infligge la pena al condannato ne La colonia penale, o nell’intero impianto di un romanzo esasperante come è Il castello. La sintassi in perenne movimento, ma mai per un istante in subbuglio, sempre ben allineata e sommessa, talvolta persino scolastica, infila i quadri degli episodi l’uno nell’altro sicché risulta impossibile scollarsene – sei costretto, sì, costretto ad andare avanti, spinto in avanti. E intanto le ombre si allungano, cambiano forma…

Anche per questo fu geniale l’idea di Orson Welles di commissionare il prologo del Processo all’animatore Aleksandr Alekseev, con la sua magica tavola di spilli, una complicatissima macchina produttrice di visioni ondeggianti, ombre, immagini in metamorfosi perenne e senza spiegazioni – perfetta dunque per Davanti alla legge come per Il naso di Gogol’ o Una notte sul Monte Calvo. Fantasmagorie create da una tecnica certosina. Un milione di spilli che perforano lo schermo cambiando inclinazione, simili a quelli che iscrivono la sentenza nella carne del condannato. 

Una macchina romanzesca automatica come quella di un feuilleton ottocentesco e indifferente come il congegno che infligge il supplizio al condannato ne La colonia penale viene applicata da Kafka (impersonalmente – ma stavolta sul serio, assai più sul serio che presso naturalisti e veristi, che quella macchina avevano inventato) per narrare sequenze di fatti a prima vista poco significativi, puntando esclusivamente sulla chiarezza della concatenazione sintattica, che risulta trascinante appunto perché insindacabile, non soggetta ad alcuna trattativa. L’effetto comico che ormai molti sostengono essere la chiave giusta in cui vada letto Kafka, sostituendo un nuovo dogma a quello canonico dell’angoscia, dell’incubo e dell’assurdo che ancora imperava ai tempi in cui iniziavo a leggerlo io (e da cui discende l’infelice e abusato aggettivo “kafkiano”), sta tutto in questa millimetrica impassibilità, che al cinema negli stessi anni veniva raggiunta e perfezionata da Buster Keaton, un altro autore che lascia sbigottiti per la ritrosia a farsi catalogare. Che cosa infatti sarebbe il suo cinema – esistenzialismo, surrealismo, slapstick? Fa ridere, non fa ridere, oppure fa pensare – ma a che cosa, esattamente? Insomma, cosa produce, a cosa conduce la sfilza di disavventure inanellata da quell’uomo perplesso in camicia e pork-pie hat messo di traverso? 

Kafka si ritaglia un ruolo laterale nel processo della vita: diceva di non essere un giudice, semmai uno sottoposto al giudizio – anzi no, ancora meno, »un semplice usciere ausiliario». Anche per questa, chiamiamola così, modestia, bandisce dalla sua pagina ogni tipo di virtuosismo narrativo o linguistico, poiché «il virtuoso adopera la sua destrezza per porsi al di sopra delle cose». Mentre Kafka non è mai “al di sopra”, non può essere al di sopra di niente e di nessuno. La corda della realtà non è tesa in aria, ma vicino a terra: la terra su cui saltella un po’ goffamente la grigia cornacchia del suo cognome. Sarebbe sciocco e artificioso dunque sforzarsi a »introdurre miracoli negli avvenimenti quotidiani»: «è la normalità a essere già di per sé miracolosa!» avvisava Kafka a beneficio del giovane amico Janouch, il segreto si nasconde qui vicino, »ce l’abbiamo sotto il naso», non ha bisogno di nascondersi »dietro avvenimenti straordinari» né noi di alonarlo con effetti poetici o magici. Basta attendere, e il mondo »ti si torcerà davanti in estasi», in attesa di essere semplicemente descritto. »La quotidianità è il più grande romanzo di gangster che ci sia…». 

L’azione prosegue magari tortuosa ma imperterrita in una specie di presente assoluto (anche quando i verbi si coniugano al passato remoto), un susseguirsi che non s’interrompe mai con flashback, antefatti, riprese, come se la mano non si staccasse mai dal foglio per un ripensamento, o meglio, come se la mente che in realtà è torturata senza posa dai ripensamenti non rinunciasse mai a darne subito ragione sulla pagina, qui e ora, pur continuando il suo cammino. Una mente in movimento, in perenne trattativa con se stessa. 

Si porti a esempio lo strepitoso capitolo ottavo del CastelloAspettando Klamm. È inutile che io qui ne riassuma la circostanza: sono nove pagine di pura frustrazione lavorata all’uncinetto, non si potrebbe tirarne via un filo o una frase che si smaglierebbe tutta, e culminano nella scena del cocchiere che dalla sua slitta offre un po’ di cognac e di ospitalità all’agrimensore infreddolito e deluso – e subito K. si sente rivivere, si rianima nel morbido delle pellicce che ricoprono l’interno della slitta, e al profumo dolce e caldo del liquore. Così la sua mortificante attesa si è trasformata per miracolo (il miracolo del cognac?) in esultanza, e in un sentimento assurdo quanto autentico di invulnerabilità. 

Allora parve a K. che qualsiasi collegamento con lui fosse stato interrotto e che egli fosse più libero ora di quanto fosse mai stato, e potesse stare lì, in quel luogo altrimenti vietato, ad aspettare tutto il tempo che voleva, e avesse conquistato tale libertà come nessun altro sarebbe forse stato capace di fare, e a nessuno fosse lecito toccarlo o scacciarlo, anzi neppure dirgli una parola, solo che (questa convinzione era almeno altrettanto forte) nulla fosse tanto insensato, tanto disperato, quanto questa libertà, questa attesa, questa invulnerabilità.

È probabile che oggi qualsiasi casa editrice rifiuterebbe il manoscritto del Castello, qualsiasi consulente lo mollerebbe dopo averne “annusato” (si dice così nel gergo editoriale) qua e là gli smisurati dialoghi, le sfinenti tirate su chi è Klamm, dove sta Klamm, cosa desidera Klamm, e quando arriva Klamm – cioè il tipo di questioni che, alleggerite e stralunate, trent’anni dopo l’uscita del romanzo avrebbero fatto la fortuna del teatro di Samuel Beckett. Eppure di quel libro ostile e inclemente resistono per me come puri oggetti di venerazione innumerevoli pagine, paragrafi e periodi come quello che qui sotto riporto, formato da dodici proposizioni, con le subordinate che si aggrovigliano intorno a uno spunto semplicissimo (»Il padre cercava intanto di spogliarsi da sé…») per cedere poi al passo spedito delle tre coordinate che chiudono l’azione – per il sollievo del lettore. 

Il padre, sempre scontento che la madre fosse accudita per prima, cosa che però succedeva solo perché la madre era ancor più bisognosa daiuto di lui, cercava intanto di spogliarsi da sé, forse anche per punire la figlia della sua presunta lentezza, ma sebbene avesse cominciato dalla cosa più semplice e superflua, dalle enormi pantofole in cui i suoi piedi quasi nuotavano, non riuscì assolutamente a sfilarsele, dovette ben presto rinunciarci con un roco rantolio e si appoggiò di nuovo rigido alla sedia.

Questa era la mia lavagna, il mio esercizio, a questo tipo di scuola l’apprendista scrittore andava pieno di voglia di imparare ed emulare, mettendoci tutta la diligenza possibile, quella a cui lo stesso Kafka fa cenno quando parla dei »compiti a casa ben fatti».

»Alla scrivania, lì è il mio posto, la testa fra le mani, quella è la mia posizione». Tutto qui il mestiere dello scrittore. Ci vogliono anni per tirar su il secchio, e un istante solo perché esso ripiombi giù nel pozzo. 

Il principio comunque è elementare: va nominato anche ciò di cui non varrebbe la pena parlare, anzi soprattutto quello, »per non tralasciare nulla, affinché dopo non nascano discussioni» – lo stesso atteggiamento, beffardo ma in definitiva onesto, che tiene il guardiano della Porta della Legge, quando intasca i doni con cui l’uomo di campagna tenta di corromperlo affinché lo lasci entrare: »Li accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa». La prosa di Kafka è egualmente imparziale: accetta tutto, alla maniera dei grandi scrittori realisti, e dei santi. A torto si crede che questi ultimi rinuncino a tutto pur di scalare i cieli: in verità se li guadagnano accogliendo tutto.

Dicevo che non esistono passato e futuro nella prosa di Kafka, non nel senso dei tempi verbali, ma dell’eventualità che la narrazione possa spostarsi avanti e indietro, o arrestarsi per poi riprendere da un punto remoto dopo lo stacco, oppure cambiare voce, come la letteratura ha imparato a fare dal nono libro dell’Odissea, nel momento in cui Ulisse comincia a narrare in prima persona le sue passate disavventure. Unità di tempo e di azione caratterizzano i racconti e i romanzi di Kafka come (credo) in nessun altro scrittore moderno, il che rende spaventosamente semplice la struttura complessiva che li regge: una pura sequenza di fatti. Basterebbero a illustrare questo principio le ultime inarrestabili pagine del Processo, di abbacinante nitore fattuale, o (un esempio come un altro), i Fragmente dell’autunno 1920. 

Due uomini sedevano a un tavolo di rozza fattura. Una lampada a petrolio vacillante pendeva sopra di loro. La mia patria era lontana. 

«Sono nelle vostre mani», dissi. 

«No», disse uno dei due uomini, che si teneva ben dritto e affondava la mano sinistra nella barba piena, «sei libero e per questo sei perduto». 

«Allora posso andare?» chiesi. 

«Sì» disse l’uomo e mormorò qualcosa al suo vicino mentre gli carezzava benevolmente la mano. 

»Il sospetto costante è che si tratti di Verismo», ha scritto Roberto Calasso, e non dello “straordinario” nel senso dei racconti di Poe. Le mie impressioni di lettura di questo ultimo anno concordano con quelle di Calasso: in controluce appare Dickens, piuttosto che Hoffmann – anche perché all’interno dell’impianto solidamente realistico in Dickens è presente e incluso anche lo straordinario, il bizzarro, l’eccentrico, persino il delirante. Del resto non vi è nulla di più palpabile e concreto del delirio. La vita di noi uomini ne è la prova. Per cui mi sono messo a caccia di pagine e spunti dickensiani, ed eccone di seguito un paio, dai Quaderni in ottavo

Sopra una panca di pietra accanto alla porta, stava seduto un uomo gigantesco, le gambe accavallate, le mani incrociate sul petto, la testa appoggiata indietro, con lo sguardo rivolto al cespuglio di fronte a lui, che gli toglieva tutta la visuale. Guardai involontariamente, con aria interrogativa, la donna. »Questo è il mammalucco», disse lei, »non lo sai?». Scossi la testa, guardai di nuovo l’uomo con stupore, specialmente il suo alto berretto di pelo d’agnello, ma poi venni fatto entrare in casa dalla vecchia. In una piccola stanza sedeva a un tavolo coperto di libri ben ordinati un vecchio signore con la barba, in veste da camera, che di sotto la campana del lume da tavolo guardò verso di me. Naturalmente pensai di essermi sbagliato, e mi volsi per uscire dalla stanza, ma la vecchia mi sbarrò la strada, e disse al signore: »Il nuovo ragazzo del latte». »Vieni qui, piccolo marmocchio», disse il signore ridendo. Io mi sedetti allora su un panchettino vicino al suo tavolo, e lui accostò il suo viso vicinissimo al mio.

Potrebbe essere un capitolo espunto da Grandi speranze, l’atmosfera di mistero è la stessa di quando Pip incontra i forzati lungo il Tamigi. O ancora leggete questa: 

Un gran berretto tondo di agnello gli stava ben calcato sulla testa. Dei folti baffi gli si aprivano, rigidi, sul viso. Quanto al vestito, portava un largo cappotto marrone tenuto raccolto da un poderoso sistema di cinghie che ricordavano i finimenti di un cavallo. In grembo aveva una corta sciabola ricurva dentro un fodero pallidamente rilucente. I piedi erano infilati in un paio di stivali di montone provvisti di speroni, un piede era posato su una bottiglia di vino rovesciata, l’altro, sul pavimento, era un po’ rialzato, e col calcagno e lo sperone puntato contro il legno.

Di nuovo il berretto di agnello! Be’, se non si tratta di vero e proprio realismo, è il romanzo di avventure, che dal realismo discende. Abbiamo detto che nulla appare mai cruciale, nelle storie di Kafka. Si procede gradualmente per intensificazione, ed è questo forse l’unico elemento davvero fiabesco, il tratto comune con lo schema antico di costruzione dell’avventura (oggi dei videogiochi), vale a dire un modello a gradini, col superamento (o il fallimento) di prove in successione sempre più difficili, una sequela di controlli, ostacoli, di porte e di guardiani sempre più ostili, man mano che scemano le forze per affrontarli e aumenta quella che in Kafka sembra la condizione umana più diffusa: la stanchezza. Sentirsi venir meno, eppure continuare, continuare… continuare. Avevo cominciato ad appuntarmi i brani in cui si di- chiara l’invincibile stanchezza dei personaggi di Kafka, ma poi, a mia volta stanco, ho smesso, sono innumerevoli, se ne potrebbe riempire un intero quaderno. Ho immaginato lo stremo di questo insonne che riempie incessantemente i suoi, di quaderni, in vista di un’opera che secondo lui avrebbe dovuto restare privata e quindi cessare definitivamente di esistere, pagine di »documenti personali di debolezza umana» da cui invece gli amici »si sono messi in testa di cavare letteratura». 

Com’era possibile che lui dovesse sentirsi così invincibilmente stanco proprio in quel luogo, dove nessuno era stanco o dove piuttosto tutti erano continuamente stanchi, senza che però il lavoro ne risentisse, ma anzi, pareva che ne traesse giovamento? Se ne poteva dedurre che si trattava di una stanchezza di tutt’altro genere da quella di K. Lì era stanchezza nel bel mezzo di un lavoro felice, qualcosa che all’esterno pareva stanchezza, ma che in realtà era quiete indistruttibile, pace indistruttibile. Se a mezzogiorno si è un po’ stanchi, questo fa parte del felice corso della giornata. 

Le prove da superare in successione del Castello ricordano avventure come quella di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, l’enigmatico poemetto anonimo del XIV secolo: e anche lì il vanaglorioso Galvano non le superava, anzi falliva, ritirandosi pieno di vergogna. In verità, il romanzo cavalleresco fin da sempre, e non solo al suo tramonto con il Don Chisciotte, inanella sconfitte e umiliazioni. Il fallimento dunque non è affatto una peculiarità “moderna” (Onegin, Oblomov, Zeno Cosini, Madame Bovary, gli Indifferenti, il console Firmin, Lily Bart, l’agrimensore K.), anzi, sembra essere fin dall’antichità il destino segnato degli eroi, e non appannaggio degli anti-eroi contemporanei. Sterilità, nevrosi, vergogna, impotenza, indecisione, lacrime copiose, involontaria comicità, solitudine, follia e ripiegamento sono iscritti nel codice dei miti millenari. Il Re Pescatore non se l’è inventato Eliot per The Waste Land, sanguinava da secoli, forse da sempre. Sarebbe un’occasione d’oro riconsiderare le categorie dell’Antico e del Moderno servendosi di Kafka come guida, facendo luce sulle epoche in vista di una loro riconfigurazione. 

(Nell’Edda di Snorri Sturluson, il castello del Gigante che ha beffato Loki, l’astuto dio beffatore, e umiliato lo strapotente Thor, facendolo battere nella lotta da una vecchietta, si rivela vuoto, illusorio. Quando sconfitti e derisi gli dèi lo abbandonano, alle loro spalle il castello si dissolve). 

Ho detto che la costruzione a gradini tipica di molte sue storie (dalla singola pagina lavorata delle brevissime prose come Il rifiuto, al grande formato del Processo e del Castello, e anche del picaresco America) ha di fiabesco soprattutto il principio dell’intensificazione. Intensificazione di cosa? Del dolore, della sensualità, dello spirito avventuroso, della mesta allegria, del distacco oppure, sul lato opposto dello spettro emotivo, del riso compassionevole – quel tipo di mitezza caratteristico di chi ha doppiato il capo della conoscenza ma depone ogni tentazione di compiacersene. Non più contrastanti tra loro, convergono in un medesimo punto compimento e distruzione, quasi come fossero sinonimi, e forse in effetti lo sono. »Vi è un punto oltre il quale non vi è ritorno. Questo è il punto da raggiungere». Stupiscono il coraggio di un’affermazione tanto perentoria, e, persino nel culmine dell’angoscia, la mancanza di tragicità. Il tragico è stato prosciugato dalla stessa tragedia in corso, come le lacrime consegnano a chi le ha versate il sollievo dell’aridità. Il dissidio viene composto dalla precisione con cui lo si prende su di sé, lo si fa proprio in modo integrale. Non so se abbia senso parlare di rassegnazione, o stoicismo, o di sublime saggezza, o di semplice assunzione di responsabilità artistica verso la vasta materia della vita. Si potrebbe persino sostenere che vi sia maggiore compiutezza artistica in certi appunti da quaderni e fogli sparsi, che si rinvenga, cioè, una suprema per quanto paradossale finitezza nel non-finito kafkiano. Forse perché nell’ossessività circolare dei frammenti più ancora che nello svolgimento romanzesco (il quale necessita sempre di qualche aggiustamento di tiro in vista di ciò che seguirà) è presente in purezza il realismo radicale di Kafka, cioè la registrazione senza interferenze o diaframmi, sino al limite della tollerabilità, di ciò che appare vivente: figure, forme e gesti. Tutto reso attuale e stagliato in una transitorietà assoluta che, a ben pensarci, sta agli antipodi del progetto romanzesco. Certi incipit formidabili restano per forza sospesi, e interrotti, appunto perché a loro modo compiuti, esausti, perfezionati e dunque liquidati dalla loro stessa perfezione. Compimento e distruzione, compimento nella distruzione. 

Prendiamo alcuni dettagli gratuitamente esatti come, ad esempio, questo che segue: il bambinesco gioco al rialzo del trombettiere. 

All’ombra dell’albero, sedeva un giovane che si dondolava sulla sedia, incurante di tutto ciò che accadeva intorno, lo sguardo perduto in cielo a seguire il volo degli uccelli, e che si esercitava in segnali militari su un corno da caccia. Era una cosa utile come qualsiasi altra, ma ogni tanto il comandante ne aveva abbastanza, e allora, senza alzare gli occhi dal lavoro, faceva cenno al trombettiere di smetterla; e quando questo non serviva, si girava e gli urlava qualcosa; allora per un po’ c’era silenzio, finché il trombettiere, solo per provare, ricominciava a soffiare piano e, vedendo che lo si lasciava fare, a poco a poco riportava il suono all’intensità precedente. 

Ah! Andrebbe mandato a memoria questo periodo zeppo di incisi che suonano ironici ma sono il contrappeso di un’azione con un’altra azione, che serve a completare la precedente, a campire poco alla volta il quadro, passando da un senso all’altro, dall’udito alla vista e viceversa, come si passa dal suono dello strumento (il corno) alla voce umana (dello spazientito comandante) e poi di nuovo al suono – il quale monta poco alla volta, subdolo e impertinente, fino a tornare allo stesso livello di prima. Il trombettiere soffia e guarda gli uccelli, il comandante in maniche di camicia redige il suo piano di battaglia e intanto strilla al soldato di smetterla. 

L’accostamento sinestetico più azzardato e violento che io conosca, dopo quello di Inferno, XIII (“sì de la scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue”), l’ho trovato in Kafka: »Dalla finestra accanto alla porta di casa, che era ricoperta di assi, salvo una piccola fessura, uscivano fumo e baccano» (il corsivo è mio). 

E forse solamente in Kafka (e in un modo minore e posato, in Raymond Roussel, o prima ancora, con la pedanteria dell’illuminista perverso, in Sade, oppure nella Morgue di Gottfried Benn – che era suo coetaneo, ma con un surplus di estetismo) troviamo questa imperturbabilità nella narrazione di ciò che è perturbante: come se fosse proprio l’imperturbabilità della descrizione, il suo andamento distaccato, procedurale, ad accentuarne l’effetto inquietante. 

(Forse non è inutile rammentare come su alcune modalità rappresentative escogitate da Kafka ci abbiano campato intere squadre di movimenti letterari e non letterari, legioni di scrittori e singoli autori, fino all’École du regard e a Peter Handke, passando per la Neue Sachlichkeit. Solo che il suo non era precisamente uno stile letterario, bensì il precipitato di una forma peculiare di esistenza, una postura umana a cui concorrevano troppi fattori perché non fosse inimitabile.) 

Continuare a scrivere si trasforma nello scrivere continuamente. Rivela il suo carattere coattivo, di Ananke, costrizione, necessità. Forse solo a un primo livello il meccanismo cieco e inarrestabile che agisce nel Processo è quello della legge, che spinge K. attraverso mille peripezie (alcune delle quali sfiorano il ridicolo, ed è infatti lui il primo a riderne) fin nella cava dove verrà giustiziato. Piuttosto, si tratta della scrittura. La macchina che procede inesorabile, malgrado le sue lentezze, i suoi giri a largo, i periodi di latenza per cui ci si dimentica persino di quello che si è fatto e detto, è la scrittura, è la scrittura il demone meschino e il nobile lottatore che non abbassa mai la guardia, che non chiude mai occhio, mai, costringendoti a pagare “una bolletta della luce molto alta”, come diceva Kafka al diciassettenne Janouch, a causa delle notti passate a leggere e scrivere. Per quanto ci vada cauto con le letture allegoriche (credo di averlo dimostrato sin qui), sono considerazioni strettamente letterarie a farmi avanzare questa ipotesi. Ad incalzare autore e personaggio del romanzo sono le Erinni del romanzo stesso, della necessità di scriverlo, e scriverlo in quel modo. 

Io molto di rado anzi quasi mai sono riuscito a lasciarmi trascinare così, o piuttosto, trainare, come fosse un dispositivo meccanico, dal puro potere della lingua in cui scrivo; mai sono riuscito a tapparmi le orecchie e a non prestare ascolto alle continue interferenze, prima fra tutte quella della mia stessa intelligenza che finiva per costituire un intralcio con le sue pretese analitiche e la saccenteria, laddove la sola necessità sarebbe stata di procedere senza indugi nella connessione verbale; e poi tutte le altre suggestioni che è il talento medesimo a disseminare come trappole lungo il cammino – la finezza psicologica, il gusto di una pagina ben riuscita, le bellezze proprie della lingua adoperata, la duratura influenza delle letture compiute e persino il fatto di porsi modelli alti di letteratura (come quello di Kafka, appunto) che se almeno un poco possono fungere da argine contro la mediocrità, quella personale come quella del tempo a cui si appartiene, alla stessa stregua ostacolano il dettato, lo inceppano, sciupandone la trasmissione. E poi l’orgoglio, la debolezza, le fissazioni, il carattere, la volontà un po’ ingenua di far fruttare le ore passate in solitudine, non ammettendo neanche morti di averle sprecate. »Nessuno può sbarazzarsi di sé».

La scrittura oscilla sempre tra i poli della pretesa di dominio e della propria esistenziale impotenza, tra la discutibile concretezza del risultato e gli sforzi penosi per raggiungerlo, tra la gravità solenne del compito e il sospetto di una sua totale superfluità, che niente e nessuno potrà riscattare, nemmeno col conseguimento di elevate vette artistiche, le quali, in definitiva, rischiano di suonare persino più futili e decorative dei risultati mediocri. I cosiddetti capolavori non riscattano chi li ha realizzati, anzi, non di rado, lo dannano. Lo scrittore è perciò un ibrido, »la sua stanchezza è quella del gladiatore dopo la lotta, il suo lavoro è stato imbiancare l’angolo di una stanza d’impiegato» (negli Aforismi di Zurau). Non si può quindi impedire a nessuno di ridere alle spalle di un’attività così opinabile, svolta da una figura tanto controversa: gladiatore, circense, imbianchino, impiegato. 

C’è una porta in casa mia a cui finora non avevo fatto attenzione. Si trova in camera da letto, nel muro che confina con la casa accanto. Non me ne ero fatta alcuna idea, anzi non sapevo neppure che esistesse. Eppure è ben visibile, anche se la sua parte di sotto è nascosta dai letti […]. Ieri è stata aperta… 

Prendiamo la morbosa fissazione per le porte, segrete o monumentali, che segnano l’accesso ad altre sale ed altre porte, in infilata. Stanze private in cui però si aprono innumerevoli accessi. Solo nell’indice tematico di Aforismi e frammenti figurano ventiquattro voci relative alle porte. Un’ossessione simile a quella che mezzo secolo prima aveva covato Lewis Carroll e mezzo secolo più tardi infesterà l’immaginazione di Hitchcock, Polanski, del Kubrick di Shining. »Era una porticina bassissima, quella che conduceva in giardino, non molto più alta degli archi di metallo che si piantano in terra nel gioco del croquet». Le svolte narrative sono porte che in una storia si aprono e si chiudono, da lì irrompono sconosciuti, o Gregor Samsa riesce a fatica a uscire dalla sua stanza diventata una tana. Dietro a una porticina che si era sempre pensato immettere in un ripostiglio, un uomo vestito come un macellaio (»indossava un indumento di cuoio scuro, aderente, che lasciava nudi il collo fino a mezzo petto e tutte le braccia») ne sta bastonando altri due. Sono le inquietanti e sofistiche icone della possibilità, dunque una risorsa per infinite variazioni narrative. Le porte non sono in verità simboli di nulla. 

… corro di là e vedo che la porta, la porta a me finora sconosciuta, viene aperta lentamente e che nello stesso tempo i letti vengono scostati con forza straordinaria. Io grido: »Chi è? Cosa volete? Pia- no! Attenti!» e mi aspetto di vedere entrare una squadra di uomini violenti, ma è solo un giovane esile che, appena la fessura è sufficiente, scivola dentro e mi saluta lieto. 

La condizione è la seguente. Da questa condizione occorre, comunque, ripartire. 

Egli ha sete, e dalla fonte è separato solo da un cespuglio. Lui però è diviso in due: una parte abbraccia con gli occhi l’insieme, vede che egli è lì e che la fonte è a un passo, ma una seconda parte non nota nulla, ha tutt’al più la vaga intuizione che la prima parte veda tutto. Ma poiché non nota nulla, egli non può bere. 

Ecco, quando sento di scadere, che il mio dono nello scrivere lo sto, più che buttando via, utilizzando solo per difendermi o farmi bello, per temporeggiare e per ingannare me stesso prima che gli altri, allora torno a leggere qualche pagina di Kafka, qua e là, che mi ripesca, mi riporta in una zona di aria rarefatta eppure stranamente respirabile. Non voglio dire che mi salvi, anzi, in un certo senso, aumenta il mio sconforto, mi scoraggia con le sue formulazioni vertiginose ed esatte, di cui sono appena in grado di accarezzare la superficie. Quella sì, è in grado di riprodurla e imitarla chiunque abbia un minimo di talento, e io da giovane quel minimo lo avevo, e infatti la imitavo, indulgendo a un virtuosismo da cui proprio Kafka mette in guardia perché un artista lo adopera »per porsi al di sopra delle cose», dunque per mettersi al sicuro. Essendo l’insicurezza forse il vizio più temibile ma anche la principale virtù di uno scrittore. 

ARTICOLO n. 42 / 2023

PLAGIO O ISPIRAZIONE?

Arte Activa Volume 2

Dopo un po’ di tempo che si indossano gli occhiali non ci si accorge di averli sul naso, perché il cervello considera l’informazione inutile. La vita d’altronde è faticosa e richiede il massimo del risparmio energetico, motivo per cui non amiamo mettere in discussione schemi comportamentali e convinzioni acquisite, al punto da non percepire nemmeno la loro presenza. È il caso degli occhiali, ma anche quello del diritto d’autore, una serie di norme che, nonostante siano relativamente giovani e in continuo mutamento, vengono spesso date per scontate.

Proviamo a percorrerne velocemente la storia: la paternità dell’opera è un’idea antica e già Marziale si lamentava di chi imitava i suoi versi, sebbene l’aneddoto più famoso veda come protagonista Giordano Bruno, scoperto a plagiare quasi parola per parola alcune opere di Marsilio Ficino durante le sue lezioni a Oxford. Al tempo non era prevista una pena e la condanna consisteva per lo più nella vergogna: Bruno, ad esempio, fu cacciato da Oxford. Questi diritti diventano più precisi in parallelo a mutamenti politici e tecnologici legati alla nascita della stampa, e nella tarda metà del quindicesimo secolo apparvero a Venezia le prime forme di tutela di editori e stampatori. Per avere qualcosa di vicino al copyright contemporaneo però si deve aspettare l’Inghilterra e lo Statuto di Anna del 1710, e in seguito la Francia della rivoluzione. Quest’ultimo è un momento interessante su cui vale la pena dilungarsi, perché per strappare i diritti intellettuali dalla gestione della (smantellata) monarchia, la proprietà delle opere dell’ingegno vennero trasferite ai rispettivi autori. Era l’idea del filosofo illuminista Diderot, cui si opponeva parzialmente un altro intellettuale, Condorcet, che nei suoi Fragments sur la liberté de la presse (1776) sosteneva che un’opera, in quanto vettore di idee, non doveva essere considerata privata, e che la legge doveva permettere a più uomini contemporaneamente di usare le stesse idee, perché figlie di un processo collettivo. Si tratta forse di una delle prime formulazioni nella direzione dell’idea di “pubblico dominio”, ma ebbero la meglio furono le idee di Diderot e il 13 gennaio 1791 la legge Le Chapelier garantì i diritti d’autore per cinque anni dopo la morte, che nel 1793 vennero prolungati a dieci con la legge Lakanal. Questo limite temporale nei secoli si è sempre più allungato, anche per difendere gli interessi di potenti detentori di diritti come la Disney Company, che, nel 1998, a ridosso della scadenza di un’opera di Topolino, riuscì a far estendere i diritti postumi fino a settant’anni, con quello che ironicamente è stato chiamato il “Mickey Mouse Protection Act”. A tutto questo si aggiunge l’invenzione del concetto di trademark, che ha una diversa e complessa sfera di applicabilità e che non possiede limiti di tempo al rinnovo.

Negli anni molti studi hanno messo in dubbio il valore dell’attuale regolamentazione del diritto d’autore, sia per la sua efficacia che per la sua equità, ma non entrerò nel merito di un dibattito molto complesso e combattuto. Se volessimo estrapolare l’essenza delle critiche, potremmo dire che per molti le attuali legislazioni del copyright limitano la creatività e l’innovazione, non garantiscono una giusta remunerazione per gli autori ma vanno solo a vantaggio delle grandi aziende, limitano l’accesso alle opere culturali, non tengono conto della natura collaborativa e collettiva della produzione culturale, sono inadeguate alle tecnologie digitali, limitano la ricerca e ostacolano i cambiamenti sociali. Sono critiche che in larga parte condivido, ma com’è ovvio hanno subito anch’esse delle contro-critiche. Quel che mi interessa però non è proporre un’indagine sul diritto d’autore, ma sugli effetti che questo mutevole concetto filosofico e legislativo ha avuto sull’arte e sugli artisti.

Come dicevo in precedenza, i plagi hanno una storia antica. Nel caso della scrittura, che è un linguaggio notazionale in cui può essere ambiguo il riferimento (il significato delle parole) ma non la formulazione del testo (la posizione delle lettere) è da sempre molto facile individuare quando e quanto un’opera viene copiata. Più complesso, ma comunque verificabile, è il caso della musica, anch’essa legata a un linguaggio notazionale, cui però va aggiunto l’aspetto performativo. Girolamo De Simone ne tratteggia una bella storia, che ci insegna come nella musica il plagio sia una prassi molto comune sin dall’antichità. Un esempio su tutti: «il grande Mozart, amato dagli dèi e filmicamente odiato da Salieri per il suo genio, si divertì a copiare temi di altri compositori. Nella Ouverture del Flauto magico vi sono temi di Cimarosa e di Clementi, considerato il “padre della musica pianistica”. Mozart, come ricorda Luciano Chailly, “ebbe molte accuse di plagio per ‘prestiti’ da Gluck, Haydn, Paisiello, J. Christian Bach, Sarti, ed altri”». Non sono un esperto di musica ma ricordo che mio padre, un melomane dall’orecchio quasi assoluto, riconosceva dopo pochi istanti chi aveva preso da chi e cosa. I casi erano innumerevoli, spesso tra celebrati maestri. Ecco che sorge il problema del plagio, che da un punto di vista formale è irrisolvibile: quand’è che si tratta di plagio e quando di legittima ispirazione? O, per tradurlo nei termini legali, quando un’opera è sufficientemente trasformativa? Il caso dell’arte visiva, che a differenza di musica e scrittura non ha (quasi) mai un linguaggio notazionale di riferimento, può essere d’interesse nell’esplorare questo difficile discrimine.

Come nella musica, anche in quest’ambito le accuse di plagio hanno una storia antica che non possiamo ripercorrere, ma basta aprire un libro di storia dell’arte per riconoscere e scoprire gli innumerevoli plagi – o ispirazioni – di cui ha vissuto e vive l’arte. A uno sguardo severo ogni -ismo della storia dell’arte potrebbe essere una forma di plagio, data la somiglianza interna tra diverse opere appartenenti al barocco, al neoclassicismo, l’impressionismo, l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo, la pop art, l’arte povera… queste opere vengono accomunate in -ismi appunto per la presenza di somiglianze riconoscibili. Il problema è stabilire quando si tratta di plagio e quando di ispirazione e il problema del problema, per così dire, è che questo criterio non è in alcun modo oggettivo, ma cambia con il mutare della sensibilità culturale, storica e geografica. Giovanni Carlo Ballola scrisse che «se Mozart fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe dovuto passare molto tempo, per i suoi plagi, in un’aula di Pretura». Eppure oggi non facciamo a meno delle sue opere.

Di esempi di vere e proprie denunce nell’arte se ne possono fare moltissimi. Jeff Koons ne ha subite (e perse) diverse, Isgrò ne ha vinta una contro i Rolling Stones, Shepard Fairey è stato messo in difficoltà dalla Associated Press, Damien Hirst è stato spesso accusato di plagio e ha provocatoriamente confessato che tutte le sue opere sono copiate, anche se spesso non ricorda da chi. Anche l’arte astratta è soggetta a plagio, come dimostra il caso in cui Emilio Vedova ha sconfitto Pierluigi De Lutti – e in effetti nell’osservare i loro quadri qualcosa mi fa dire che sono molto simili, cosa che non direi per la foto di Obama e l’opera di Fairey. Nel caso Vedova-De Lutti la fama del primo sopravanza quella del secondo, ma pensiamo a Mimmo Rotella, che anni dopo l’artista francese Jacques Villeglé ha utilizzato senza subire denunce la tecnica inventata da quest’ultimo, il décollage, per quadri molto simili e per di più molto più quotati.

La legge non è il mio ambito e a essere sincero mi dispiace solo quando una persona più ricca di un’altra pretende del denaro da quest’ultima per aver violato una proprietà intellettuale, dato che non ci vedo alcun vantaggio collettivo. Certo, la legge vale per tutti, ma permettetemi di storcere il naso verso l’avidità di alcune denunce. Sappiamo inoltre che le leggi possono cambiare, così come le sensibilità e i rapporti di potere cui fanno riferimento. Il professore di Diritto Privato Roberto Caso scrive in alcune preziose slide a proposito del plagio che «il giudizio deve seguire una valutazione complessiva e sintetica, non analitica, incentrata sull’esame comparativo degli elementi essenziali delle opere da confrontare, dovendosi cioè valutare il risultato globale o l’effetto unitario». Parafrasato nel mio impreciso linguaggio mi sembra significare che non esiste una regola precisa e bisogna valutare caso per caso secondo criteri comuni. Già, ma quanto sono comuni questi criteri?

Qui entra in gioco la nostra sensibilità – nostra come quella degli artisti – e come questa sia cambiata nel tempo. È esemplare l’esempio della Brillo Box di Andy Warhol. La grafica della scatola Brillo di cui si appropriò Warhol era stata creata nel 1961 dal pittore espressionista astratto James Harvey (1929–65), che si guadagnava da vivere anche come grafico commerciale. Durante una lezione a un gruppo di studenti americani, prima di rivelare la reazione di James Harvey a Brillo Box ho chiesto come avrebbero reagito al posto suo: pongo la stessa domanda a chi mi legge, se non conosce l’aneddoto. La totalità (sottolineo, la totalità) degli studenti avrebbe denunciato Andy Warhol. Secondo il resoconto del filosofo e critico d’arte Arthur Danto, Harvey era presente al vernissage di Warhol presso la Stable Gallery. «Harvey rimase sconcertato… si rese conto che aveva progettato delle scatole che la Stable Gallery vendeva per diverse centinaia di dollari, mentre le sue non valevano nulla. Ma Harvey certamente non considerava le sue scatole opere d’arte». scrive Danto. Il mercante d’arte newyorkese Joan Washburn, che aveva già organizzato due mostre di Harvey presso la Graham Gallery, era al vernissage con l’artista. «Fu sopraffatto», ricorda Washburn. Quando gli viene chiesto se Harvey fosse arrabbiato, rispose: «No. Lo trovò divertente. Tutti quelli che entrarono alla Stable Gallery quella sera si divertirono». Io la penso come James Harvey, e se anche volessimo ascrivere la cosa a una casuale comunanza caratteriale è innegabile che molta della grande arte del Novecento sarebbe ora a rischio di denuncia, se non proprio illegale. Per fortuna le gallerie d’arte sono ancora terra franca, a patto che i lavori siano pezzi unici venduti come opere d’arte, ma non siamo più nei primi del secolo scorso, e gli artisti vivono anche (se non soprattutto) di altri ambiti editoriali, dove le leggi sono diventate sempre più restrittive. Anche la sensibilità degli stessi artisti è cambiata, assecondando sempre più l’individualismo della società occidentale a discapito del collettivismo che pur è vitale per ogni creazione artistica. Può sembrare strano, ma gli artisti sono tendenzialmente animali possessivi e conservatori.

Per tornare a stile e diritto d’autore, vale la pena analizzare il caso del musicista Robin Thicke, che è stato considerato colpevole di plagio e condannato a rimborsare oltre sette milioni di dollari per Blurred Lines, un brano del 2013 che la famiglia dello scomparso Marvin Gaye aveva trovato troppo somigliante a Got To Give It Up del 1977. In questo delicato caso, se consideriamo che a essere protetta dal diritto d’autore era solo la sequenza di note e che questa è differente nelle due canzoni, ci potrà stupire che Thicke abbia perso la causa per via della somiglianza stilistica tra i brani. Lasciamo ora perdere le leggi, che come dicevamo possono cambiare, e ascoltiamo semplicemente le due canzoni: Blurred Lines e Got To Give It Up. In base alla nostra sensibilità potranno sembrare troppo simili o sufficientemente diverse, ma non c’è nulla di oggettivo cui appellarsi. Per me vale la seconda, senza contare che trovo assurdo che a lamentarsi siano stati gli eredi e non l’artista, dato che questi non hanno creato un bel nulla ma solo ereditato dei diritti. Ma soprattutto concordo con Tim Wu, quando, commentando questo caso, scrive: «Provate a considerare quanti artisti sarebbero danneggiati se una tale sentenza fosse emessa con maggiore frequenza. Tutti sanno che i Rolling Stones hanno copiato lo stile di Chuck Berry e di altri artisti R’n’B. I primo album dei Rush ricorda molto i Led Zeppelin – che, tra gli altri, si erano rifatti a Robert Johnson. E questo non vale solo per la musica. Georges Braque e Pablo Picasso portarono avanti le idee di Paul Cézanne per sviluppare il Cubismo, uno stile che, a sua volta, è stato imitato da diversi altri pittori. Ci sono centinaia di esempi simili. Suggerire che questo verdetto incoraggerà un cantautorato migliore significa mal interpretare la storia delle arti. La libertà degli artisti e di altri creatori di copiarsi a vicenda è legata al principio che le idee non possono essere soggette a copyright, una nozione essenziale per la libertà d’opinione e per l’espressione artistica».

Sia in Italia che all’estero si susseguono ormai da decenni critiche politiche ed economiche alla gestione del diritto d’autore, che in modi diversi argomentano la tesi che chi fa arte non trae alcun vantaggio dalla limitazione della diffusione delle proprie opere e che i vantaggi vadano solo ad autori affermati e grandi aziende. Ciononostante queste norme si sono fatte sempre più restrittive e forse in futuro lo diverranno ancora di più. Di recente, per esempio, si parla molto della liceità o meno dell’uso di materiale protetto da copyright per addestrare i sistemi di machine learning, liberi o proprietari che siano. In Europa si sta già votando per costringere le aziende a rendere trasparente il proprio dataset, che al momento è tale solo per i software open source. La trasparenza è sempre la benvenuta (al netto della difficoltà dei controlli, perché il dataset non è contenuto nel software), ma per molti questa decisione va nella direzione di vietare il training su materiale non proprietario. Se questa fosse la strada e se fosse adottata globalmente, il futuro delle intelligenze artificiali sarà probabilmente nelle mani dei monopoli delle big tech che possono permettersi o già possiedono i diritti di grosse moli di dati, come suggeriscono i progetti AI di Adobe e di Shutterstock. Anche le varie alleanze in corso (Adobe con Google, Shutterstock con Microsoft) sembrerebbero confermare questa ipotesi. Fa comunque eccezione l’industria bellica, che per sviluppare sistemi di riconoscimento iper-umani non può certo farsi problemi di copyright – ma evidentemente per molti gli usi militari sono il pericolo minore. Un altro caso notevole è la recente vittoria in tribunale della Galleria dell’Accademia contro una casa editrice che aveva usato l’immagine (sottolineo: l’immagine) del David di Michelangelo senza pagar loro un canone. Un bene comune fuori dal diritto d’autore da secoli di fatto non è più comune. La notizia ha ricevuto sia critiche che lodi, tra cui quelle del Ministro della Cultura, ma a mio parere queste ultime testimoniano come la sensibilità nei confronti dei beni pubblici si sia distorta negli anni. Per quale motivo non posso guadagnare usando un bene che è patrimonio dell’umanità da cinquecento anni? Dovremmo pagare i diritti agli eredi o agli autoproclamati custodi di ogni invenzione, opera e tecnologia che utilizziamo a partire dalla ruota? Purtroppo questo è il segnale che abbiamo perso qualunque idea di “patrimonio dell’umanità”, un bene trasversale alle nazioni e agli usi, parte della storia di ciascuno di noi e su cui nessuna persona, azienda o nazione può accampare primati.

Nel parlare di copyright risulta evidente che la ragion d’essere di queste norme è economica più che ontologica. Come Kirby Ferguson infatti, credo che l’arte sia sempre un remix e un’operazione collettiva. Se Picasso fosse nato cinquecento anni prima sarebbe forse diventato un pittore, ma di certo non quello che conosciamo, perché non avrebbe avuto accesso alle rivoluzioni artistiche e tecnologiche dei secoli a venire. Non solo Picasso non ha alcun merito per le scoperte passate, ma non può neanche arrogarsi quello di moltissime a lui contemporanee, che lo hanno aiutato a plasmare la sua poetica – sua come quella di chiunque altro. Togliamo da Guernica quello che non è possibile imputare all’estro creativo del Maestro: l’invenzione di materiali e tecniche usate, quella del linguaggio attraverso cui sono state apprese, delle opere d’arte che ne hanno influenzato la genesi, delle persone e delle cose che gli hanno suggerito alcune idee, del contesto culturale che altri hanno costruito, della guerra, eccetera – del quadro rimarrà ben poco. Riprendo qui con piacere alcune affermazioni di Condorcet, che pur con i limiti del contesto culturale in cui si inseriva era giunto a intuizioni molto interessanti: «C’è un’incertezza inevitabile nel limite da cui si deve cominciare a considerare come nuovo, come frutto del genio, il risultato di un’operazione dell’intelletto umano», scrive il filosofo, che poi oltrepassa il problema dichiarando che il genio non è un dono fatto dalla natura a qualche essere umano privilegiato, ma una facoltà comune inegualmente ripartita. È forse il momento di accorgerci che gli occhiali che indossiamo senza accorgercene stanno diventando così scuri da nasconderci il truismo che ogni opera dell’ingegno è collettiva.

ARTICOLO n. 41 / 2023

NON HO ALCUN RISPETTO PER MICHEL FOUCAULT

Intervista di Giulia Paganelli

Ci sono studi e libri da cui non è possibile prescindere quando si sceglie di varcare la soglia degli studi umanistici e sociali. Sexual Personae (Luiss University Press) è uno di questi. Io e Camille Paglia sulla carta siamo interlocutrici lontane, provenienti da due periodi storicamente e culturalmente ben distinti e inevitabilmente incisivi nella nostra formazione accademica e analitica. Abbiamo scoperto, in realtà, di avere in comune alcune cose importanti come il valore che diamo alla conoscenza storica nello sviluppo delle scienze sociali e antropologiche, l’urgenza di vedere il sistema accademico modificarsi e ristrutturarsi nelle scienze umanistiche perché così non funziona, l’amore profondo che diventa ossessione per i collegamenti nel tempo e nello spazio – e chissà come sarebbe davvero avere un pomeriggio di tempo e nessun limite tecnologico per tracciare nuove bisettrici in questi Atlanti cognitivi e simbolici. Entrambe da piccole volevano fare le egittologhe, entrambe da grandi abbiamo fatto percorsi tortuosi perché studiare solo una cosa non ci sembrava abbastanza. Ci sono, anche, incompatibilità fortissime che riguardano i nostri femminismi perché sicuramente Paglia fa parte di un’ondata precedente che difficilmente potrà mai sfociare nel movimento intersezionale, pratica che oggi è mia anche se non ne condivido molte delle modalità violente con cui si srotola nel mondo digitale. Ma anche questo è, indubbiamente, un percorso che ha bisogno di nuova teoria e di nuova tecnica, nuove voci e nuovi inizi, ma anche viaggi inversi che ritornino all’origine delle cose per far sì che gli orrori e gli errori non si ripresentino e su questo siamo d’accordo entrambe. Ma più di ogni altra cosa siamo due persone che credono nella conversazione critica e nel dibattito che nasce quando posizioni contrarie e distanti si mettono a sedere e parlano di società e dinamiche generali, senza cannibalizzarsi a vicenda. Il resto sono solo chiacchere.  

Giulia Paganelli: In un dialogo con Jordan Peterson, lei dice che «le religioni sono la vera rivoluzione». Io sono atea, ma sono anche un’antropologa e le cosmogonie così come le grandi religioni contemporanee mi permettono di acquisire moltissime informazioni sui sistemi culturali che osservo. Le chiedo se può approfondire per noi questo punto, in che modo le religioni sono una vera rivoluzione per gli studiosi del nostro tempo. 

Camille Paglia: Dopo le manifestazioni per i diritti civili e le proteste contro la guerra degli anni ’60, l’istruzione universitaria negli Stati Uniti e nel Regno Unito iniziò a spostarsi verso un orientamento apertamente politico, negativo nei confronti della cultura occidentale, che veniva descritta come irrimediabilmente sessista, razzista e imperialista. Tra le voci influenti che hanno assunto alcune o tutte queste posizioni c’erano Herbert Marcuse e Edward Said. Negli anni ’70 iniziarono continui attacchi al “canone” della grande letteratura e arte occidentale, che fu sempre più sostituito da opere contemporanee con un messaggio apertamente politico. Uscendo dalla scuola di specializzazione all’inizio degli anni ’70, pensavo che il curriculum universitario avesse un disperato bisogno di una profonda riforma, ma credevo che il “multiculturalismo” sarebbe stato meglio raggiunto da una riorganizzazione della struttura universitaria attraverso un modello interdisciplinare che fondesse le scienze umane e sociali. Le discipline umanistiche, a mio avviso, richiedevano un importante riorientamento verso la storia, come nell’ampia borsa di studio dei professori tedeschi della fine del diciannovesimo secolo, che erano profondamente eruditi in molteplici discipline. Uno degli ultimi grandi studiosi di quella tradizione è stato il marxista Arnold Hauser, i cui quattro volumi The Social History of Art (1951) mi hanno profondamente colpito quando stavo facendo ricerche per la mia tesi di dottorato a Yale.

Altre persone certamente hanno visto anche i limiti della struttura dipartimentale accademica standard. Tuttavia, in mezzo alla pressione per inserire nel curriculum materie nuove e urgenti come il femminismo e la letteratura afroamericana, gli amministratori universitari hanno erroneamente superato la loro autorità creando rapidamente unità di “studi” indipendenti, come studi sulle donne, studi afroamericani, studi sui nativi americani – al di fuori della supervisione accademica dipartimentale. A mio avviso, questi argomenti estremamente importanti e vitali sono stati purtroppo fortemente politicizzati fin dall’inizio, polemicamente ostili alla cultura occidentale e imponendo una semplicistica dicotomia oppressore-oppresso a tutti i discorsi sulla società e sull’arte.

Sostengo fortemente il multiculturalismo come ideale animatore dell’istruzione superiore. Ma mi oppongo alla politicizzazione ristretta e stridente che ora regna. Questa pratica ben intenzionata ma grossolanamente riduttiva trascina i giovani nelle liti contemporanee provinciali che sono diventate sempre più monotone ed estenuanti. Sebbene io sia atea, sostengo che la vera rivoluzione nell’educazione sarebbe quella di fare della religione comparata il fondamento del curriculum universitario di scienze umane. Vedo le grandi religioni del mondo come giganteschi sistemi di simboli contenenti verità complesse sulla vita umana. Al contrario, il marxismo manca di una metafisica e non vede altro nell’universo che politica ed economia.

La mia ultima raccolta di saggi, Provocations, contiene la mia dichiarazione di apertura per un dibattito del 2017 alla Yale Political Union, dove ho difeso la risoluzione (un argomento che avevo proposto), “La religione appartiene al curriculum”. Lì affermo: «nessuna società o civiltà può essere compresa senza fare riferimento alle sue radici religiose. Ogni studente dovrebbe laurearsi con una familiarità di base con la storia e i testi sacri, i codici, i rituali e i santuari delle principali religioni del mondo: induismo, buddismo, giudeo-cristianesimo e islam».

Ristampato in Provocations è anche il mio lungo saggio, “Cults and Cosmic Consciousness: Religious Vision in the American 1960s” (un ampliamento di una conferenza all’Institute for the Advanced Study of Religion di Yale). Qui sostengo che la massiccia influenza delle religioni non occidentali sui ribelli anni ’60 è stata stranamente dimenticata. Il buddismo zen era un tema importante nel movimento Beat degli anni ’50 a San Francisco, che ispirò direttamente la “controcultura” degli anni ’60 in quella città. L’era hippie fu soffusa di influenze dall’induismo, che ebbe inizio in California quando Ravi Shankar dimostrò il sitar al Monterey International Pop Festival nel 1967. La sua performance elettrizzante può essere vista nel documentario Monterey Pop. I sitar furono presto ascoltati in tutta la musica rock degli anni ’60, introdotta da George Harrison dei Beatles, la cui visita di gruppo in India per studiare con il Maharishi Mahesh Yogi finì in un fiasco.

La mia pratica come interprete della letteratura e dell’arte deriva in ultima analisi dall’antropologia, in particolare dalla “critica del mito”, le cui origini risalgono all’impatto della Cambridge School of Anthropology della fine del diciannovesimo secolo sullo psicologo Carl Jung. In Provocations è inclusa anche la mia conferenza alla New York University sull’analista junghiano Erich Neumann, il cui libro del 1955, La grande madre: un’analisi dell’archetipo, ha fortemente influenzato il mio primo libro, Sexual Personae (1990).

G.P. Da piccola volevo fare l’egittologa, ero sicura che sarebbe andata esattamente in questo modo. Poi ho incontrato Hegel e mi sono lasciata affascinare, arrivando poi solo alla fine del mio percorso accademico a occuparmi nuovamente di “archeologia” come parte fondamentale per codificare il mondo in cui vivo. Sexual Personae è un libro che nasce, secondo me, da un istinto simile. La Storia è imprescindibile per lo studio dei fenomeni complessi, siamo d’accordo?

C.P. Che coincidenza! Anch’io volevo essere un’egittologa. L’archeologia è stata la mia prima ambizione professionale, ispirata da una visita d’infanzia al Metropolitan Museum of Art di New York. Sono rimasta sbalordita e innamorata delle magnifiche sculture in granito rosso di un faraone inginocchiato che fa offerte agli dèi. Solo molti decenni dopo ho scoperto che il faraone era una donna: la regina Hatshepsut!

In seguito ho abbandonato il mio obiettivo di archeologia quando mi sono resa conto che tutti i grandi monumenti erano già stati scoperti e che probabilmente sarei stata condannato a rimontare vasi rotti, cosa per la quale non avevo pazienza. In risposta alla tua domanda, sì, la conoscenza della storia è certamente cruciale per tutto l’insegnamento e lo studio. Ma sin dall’ascesa della “teoria” chic postmodernista, troppi professori di discipline umanistiche hanno giocato ai filosofi dilettanti e hanno irresponsabilmente scartato studi storici approfonditi.

G.P. Da poco in Italia è uscito per Blackie Edizioni il racconto di Simone Wade Foucault in California, una sorta di etnografia sulla prima esperienza di Michel Foucault con LSD. Una volta tornato in Francia, si dice che il filosofo buttò via metà del lavoro scritto per quella che conosciamo oggi come Storia della Sessualità perché, cito, »quella fu l’esperienza migliore della sua vita, la più introspettiva». C’è spazio, secondo il suo punto di vista, per una rilettura delle opere precedenti di Foucault alla luce di questo evento? 

C.P. Non ho alcun rispetto per Michel Foucault, la cui conoscenza era strettamente limitata all’Europa solo dall’Illuminismo. Foucault non sapeva nulla dell’antichità classica o del Medioevo, e le sue osservazioni su quei periodi sono imprecise e a volte ridicole.

Le mie forti obiezioni a Foucault e ai suoi discepoli sono ampiamente contenute nel mio saggio-recensione, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf“, che è stato ristampato nella mia prima raccolta di saggi, Sex, Art, and American Culture (1992). Molte persone credono che Foucault fosse un erudito, ma non lo era. Era gravemente carente come ricercatore di materiali storici. Nella sua ristretta attenzione all’ideologia del potere, non aveva alcun istinto per l’arte o l’estetica. Ha rifiutato assurdamente la psicologia nella sua analisi della sessualità.

Inoltre, Foucault nascose disonestamente il suo enorme debito con i grandi sociologi Émile Durkheim e Max Weber. Durkheim, la vera fonte di Foucault, aveva già studiato carceri e codici penali ed esplorato i principi della classificazione e della tassonomia. C’era un libro del 1985 di J.G. Merquior che ha messo a nudo in modo divertente molti degli elementari errori di fatto commessi da Foucault. Come ho detto in “Junk Bonds”, un giorno la gente guarderà indietro, come facciamo noi alla mania del diciottesimo secolo per Emanuel Swedenborg, e vedrà Foucault come il Cagliostro del nostro tempo. Ma intanto lasciatemi semplicemente dire questo: non ci sono donne in Foucault. Nessuno se n’è accorto?

G.P. In Italia esiste questa credenza diffusa nella finta Ideologia del gender. Certo, buona parte del lavoro in questo è stato fatto dalla destra che ha spinto e creato narrazioni mostruose con una comunicazione costante e martellante, ma dall’altra parte il terreno occupato da questa propaganda, penso, sia stato prodotto dalla mancanza di una conversazione onesta e accessibile da parte della sinistra. Abbiamo avuto leader di sinistra lontani dalle persone e dalla lotta di classe, chiusi dentro una bolla intellettuale e forzata in cui si parlavano tra loro mostrando all’esterno solo incoerenze. Come si recupera tutto questo terreno perso? 

C.P. Sì, sono assolutamente d’accordo sul fatto che molti di sinistra, in particolare professori delle università statunitensi, sono spesso molto lontani dalle persone per cui affermano di parlare. Abitano davvero in una “bolla intellettuale” arrogante.

Quando ero al college, a metà degli anni ’60, ho visto gente di sinistra genuina tra i miei compagni di studio. Erano appassionati nelle loro convinzioni e modi, e parlavano con il linguaggio semplice e diretto della classe operaia. La sinistra accademica, al contrario, ha troppo spesso favorito una “teoria” grottescamente pretenziosa in un codice mandarino d’élite.

Sono certa che il mio disprezzo per il linguaggio snob dei teorici postmoderni derivi dalla mia esperienza infantile tra gli immigrati italiani della classe operaia. Tutti e quattro i miei nonni, così come mia madre, sono nati nell’Italia rurale povera: la famiglia di mia madre in Ciociaria e la famiglia di mio padre in Campania. Sono nata in una piccola città industriale nello stato di New York in cui gli italiani erano emigrati per lavorare nella grande fabbrica di scarpe. Un nonno era un barbiere, e l’altro era un operatore esperto di questa difficile macchina per stirare la pelle. Forse solo un contatto personale diretto e sostenuto di quel tipo può illuminare l’autentico sistema della moderna classe sociale.

G.P. Vorrei parlare della scrittura e della comunicazione digitale. Io penso che lo spazio infinito di Internet permetta di non stringere i discorsi dentro a trafiletti e parole contate su giornali e riviste, allo stesso tempo però questo aumenta anche i contenuti falsi e la proliferazione di fake news, nonché la strumentalizzazione delle stesse per la propaganda politica. Penso, per esempio, allo scandalo che investì Cambridge Analytica. Cosa ne pensa e come possiamo prevenire questo fenomeno? 

C.P. Il Web ha rivoluzionato le comunicazioni sia in positivo che in negativo. Sì, lo “spazio infinito” di Internet è una liberazione, ma è anche una maledizione. Nei media statunitensi c’è stato un grave declino della qualità dei commenti politici e culturali proprio a causa dell’assenza di limiti di spazio. Quando negli anni ’90 scrivevo più regolarmente per giornali e riviste cartacee tradizionali, mi piaceva davvero la rigida disciplina del limite di parole: condensare il proprio articolo a 1000 o anche 800 parole richieste dava grande potere e chiarezza. Oggi, al contrario, molti articoli analitici scorrono in continuazione in modo fiacco, monotono e con un ordine poco distinguibile. Manca la fase finale della riduzione della prosa al suo argomento essenziale.

Ho iniziato a scrivere per il Web molto presto, dal primo numero di Salon.com nel 1995. È sorprendente ricordare che il Web non è stato preso sul serio all’inizio. In effetti, quando sono diventata editorialista al Salon, un importante giornalista del Boston Globe mi ha detto che stavo sprecando il mio tempo e che nessuno nei principali mezzi di informazione considerava seriamente il Web. Come sono cambiate le cose! Il mio saggio del 2003 “Dispatches from the New Frontier: Writing for the Internet”, che descrive le mie esperienze a Salon.com, è ristampato in Provocations.

Purtroppo il web ha distrutto o ferito gravemente innumerevoli giornali e riviste, che hanno perso la loro base economica e lottano per la sopravvivenza. Negli Stati Uniti, ciò ha minato i giornali regionali più piccoli e aumentato il potere dei media aziendali con sede a New York e Washington DC, che sono uniformemente sostenitori del Partito Democratico. Sono una democratica registrata che mette in discussione o rifiuta gran parte dell’attuale dogma democratico.

L’enorme problema odierno delle fake news ingannevoli e della palese propaganda peggiora ogni anno. I giovani dovrebbero essere formati presto su come valutare la credibilità delle fonti di notizie. Penso che dovrebbero esserci lezioni obbligatorie di logica formale tradizionale a livello di scuola pubblica. Gli studenti hanno bisogno di esercitarsi nel seguire argomentazioni sequenziali e nel riconoscere distorsioni, errori e conclusioni non supportate.

G.P. Infine, una domanda diretta: la ricomparsa di fascismi e neonazismi in Europa ci dice che dalla storia non abbiamo imparato nulla? E se sì, come è avvenuto questo processo? 

C. P. La parola “decadenza” appare nel sottotitolo di Sexual Personae perché penso che la cultura occidentale sia attualmente in una fase “tardiva”, di graduale declino. Decadenza non è un termine negativo per me: il mio libro esamina molti esempi di meravigliosa arte della fase tarda, come le sculture manieriste contorte e morbosamente sensuali di Michelangelo nelle Cappelle Medicee. Lo stile decadente ha caratteristiche ricorrenti come androginia, voyeurismo e compressione o distorsione dello spazio. Sono fortemente attratta dall’arte decadente e dai suoi eroi, come Oscar Wilde e Andy Warhol.

Tuttavia, la storia mostra che le fasi successive, come nella Roma imperiale o nella Germania di Weimar, possono innescare una reazione da parte dei nazionalisti militanti che chiedono un ritorno alle virtù semplici e stoiche dei lontani antenati. Penso che sia qui che ci troviamo ora, poiché la cultura occidentale su entrambe le sponde dell’Atlantico ha perso fiducia in se stessa ed è stata eclissata da una forza crescente in Asia.

ENGLISH VERSION

G.P. In a dialogue with Jordan Peterson you say that “religions are the real revolution”. I’m an atheist but also an anthropologist: cosmogonies as well as the great contemporary religions allow me to acquire much information on the cultural systems I observe. I would like to ask you to elaborate more on this: how are religions a real revolution for today’s researchers?

C.P.  After the civil rights demonstrations and anti-war protests of the 1960s, university education in the U.S. and U.K. began to shift toward an overtly political orientation, negative toward Western culture, which was portrayed as irredeemably sexist, racist, and imperialist.  Among influential voices taking some or all of those positions were Herbert Marcuse and Edward Said. In the 1970s, sustained attacks began on the “canon” of great Western literature and art, which was increasingly replaced by contemporary works with an overtly political message.

Emerging from graduate school in the early 1970s, I thought that the university curriculum desperately needed major reform, but I believed that “multiculturalism” would be best achieved by a reorganization of university structure via an interdisciplinary model blending the humanities and social sciences. The humanities, in my view, required a major reorientation toward history, as in the wide-ranging scholarship of late-nineteenth-century German professors, who were profoundly erudite in multiple disciplines.  One of the last great scholars in that tradition was the Marxist Arnold Hauser, whose four-volume The Social History of Art (1951) deeply impressed me when I was doing research for my doctoral dissertation at Yale.

Others certainly also saw the limitations of standard academic departmental structure.  However, amid the pressure to bring urgent new subjects such as feminism and African-American literature into the curriculum, university administrators wrongly exceeded their authority by rapidly creating free-standing “studies” units–such as Women’s Studies, African-American Studies, Native American Studies–outside departmental scholarly oversight.  In my view, these extremely important and vital topics were unfortunately heavily politicized from the start, polemically hostile to Western culture and imposing a simplistic oppressor-oppressed dichotomy on all discourse about society and art.

I strongly support multiculturalism as an animating ideal of higher education.  But I oppose the narrow, strident politicization that now rules. This well-intended but crudely reductive practice drags young people down into provincial contemporary quarrels that have become increasingly monotonous and exhausted. Although I am an atheist, I maintain that the real revolution in education would be to make comparative religion the foundation of the university humanities curriculum. I view the great world religions as gigantic symbol-systems containing complex truths about human life. In contrast, Marxism lacks a metaphysics and sees nothing in the universe but politics and economics.  

My last essay collection, Provocations, contains my opening statement for a 2017 debate at the Yale Political Union, where I defended the resolution (a topic I had proposed), “Religion belongs in the curriculum”. There I state: “No society or civilization can be understood without reference to its religious roots. Every student should graduate with a basic familiarity with the history and sacred texts, codes, rituals, and shrines of the major world religions–Hinduism, Buddhism, Judeo-Christianity, and Islam.”

Also reprinted in Provocations is my long essay, “Cults and Cosmic Consciousness:  Religious Vision in the American 1960s” (an expansion of a lecture at the Institute for the Advanced Study of Religion at Yale). Here I argue that the massive influence of non-Western religions on the rebellious 1960s has been strangely forgotten. Zen Buddhism was a major theme in the 1950s Beat movement in San Francisco, which directly inspired the 1960s “counterculture” in that city. The hippie era was suffused with influences from Hinduism, which began in California when Ravi Shankar demonstrated the sitar at the Monterey International Pop Festival in 1967. (His electrifying performance can be seen in the documentary, Monterey Pop.) The spiritual floating notes of the sitar were soon heard throughout 1960s rock music, pioneered by George Harrison of the Beatles, whose group visit to India to study with the Maharishi Mahesh Yogi ended in fiasco.

My own practice as an interpreter of literature and art ultimately derives from anthropology, specifically “myth-criticism”, whose origins were in the impact of the late-nineteenth-century Cambridge School of Anthropology on psychologist Carl Jung. Also included in Provocations is my New York University lecture on the Jungian analyst Erich Neumann, whose 1955 book, The Great Mother: An Analysis of the Archetype, greatly influenced my first book, Sexual Personae (1990).

G.P. When I was young, I wanted to become an Egyptologist. Then I met Hegel, who fascinated me deeply. Then it was “archeology” all over again, which kicked in as a fundamental part to codify the world I live in at the end of my academic path. In my opinion, Sexual Personae comes from a similar instinct. History is essential for the study of complex events, do you agree?

C.P.  What a coincidence! I too wanted to be an Egyptologist. Archaeology was my first professional ambition, inspired by a childhood visit to the Metropolitan Museum of Art in New York. I was stunned and enamored by the magnificent red granite sculptures of a kneeling pharaoh making offerings to the gods. Only many decades later did I discover that the pharaoh was a woman – Queen Hatshepsut!

I later abandoned my goal of archaeology when I realized that all of the great monuments had already been discovered and that I would probably be doomed to reassembling broken pots, for which I had no patience. In response to your question, yes, knowledge of history is certainly crucial for all teaching and scholarship.  But ever since the rise of chic postmodernist “theory”, too many humanities professors have played amateur philosopher and irresponsibly discarded in-depth historical study.

G.P. Recently, in Italy, Blackie Edizioni published Simone Wade’s Foucault in California, a sort of ethnography about Michel Foucault’s first experience with LSD. It is said that when he returned to France, he threw away what he wrote up to that moment and started again from scratch, giving birth to what we know today as The History of Sexuality: he defined it as, and I quote, »the best experience of his life, the most introspective». Do you think, considering this event, that there could be room for a reinterpretation of Foucault’s previous works?

C.P. I have no respect whatever for Michel Foucault, whose knowledge was narrowly limited to Europe since the Enlightenment. Foucault knew nothing about classical antiquity or the Middle Ages, and his remarks about those periods are inaccurate and at times ridiculous.

My strong objections to Foucault and his disciples are contained at great length in my review-essay, “Junk Bonds and Corporate Raiders: Academe in the Hour of the Wolf”, which was reprinted in my first essay collection, Sex, Art, and American Culture (1992). Many people believe that Foucault was erudite, but he was not. He was severely deficient as a researcher of historical materials. In his narrow focus on the ideology of power, he had no instinct for art or aesthetics. He absurdly rejected psychology in his analysis of sexuality.

Furthermore, Foucault dishonestly concealed his enormous debt to the great sociologists Emile Durkheim and Max Weber. Durkheim, Foucault’s true source, had already studied prisons and penal codes and explored the principles of classification and taxonomy. There was a 1985 book by J.G. Merquior that amusingly exposed many of the elementary factual errors made by Foucault. As I said in “Junk Bonds”, some day people will look back, as we do at the eighteenth-century craze for Emanuel Swedenborg, and see Foucault as the Cagliostro of our time. But meanwhile let me simply say this: there are no women in Foucault. Has no one noticed?

G.P. In Italy, many believe in Gender Ideology – which is a hoax. Certainly, part of the blame goes to right-wing parties who constantly pushed and created appalling narratives about it. On the other side, I personally think that this was also a product of the absence of an open and accessible conversation from left-wing parties. We have had many leftist leaders who were far from people and class struggle, sealed inside their forced intellectual bubble and only showing on the outside their contradictions. How do we fill the gap that left-wing parties left?

C.P. Yes, I absolutely agree that many leftists, especially professors at U.S. universities, are often far removed from the people they claim to speak for. They do indeed inhabit an arrogant “intellectual bubble”.

When I was in college in the mid-1960s, I saw genuine leftists among my fellow students.  They were passionate in their beliefs and manner, and they spoke with the simple direct language of the working class. Academic leftism, in contrast, has too often favored grotesquely pretentious “theory” in an elite mandarin code.

I am certain that my own contempt for the snobbish language of postmodern theorists comes from my childhood experience among working-class Italian immigrants. All four of my grandparents, as well as my mother, were born in impoverished rural Italy–my mother’s family in Ciociaria and my father’s family in Campania. I was born in a small industrial town in upstate New York to which Italians had migrated to work in the vast shoe factory. One grandfather was a barber, and the other one was an expert operator of the difficult leather-stretching machine. Perhaps only direct, sustained personal contact of that kind can illuminate the authentic system of modern social class.

G.P. I would like to talk about writing and digital communication. I think that the endless space of the Internet allows us to go beyond discourses inside paragraphs and a limited number of words in newspapers and magazines. At the same time, it increases the spreading of fake news and their manipulation for propaganda. I think, for example, about the Cambridge Analytica scandal. What do you think of it and how can we prevent this from happening? 

C.P. The Web has revolutionized communications in both positive and negative ways. Yes, the “endless space” of the Internet is a liberation, but it is also a curse. In the U.S. media, there has been a severe decline in the quality of political and cultural commentary precisely because of the absence of space limits. When I was more regularly writing for mainstream print newspapers and magazines in the 1990s, I actually enjoyed the strict discipline of the word limit: condensing one’s article to a required 1000 or even 800 words gave great power and clarity. Today, in contrast, many analytic articles run on and on in a slack, dull way and with little discernible order. They are missing the final stage of stripping prose down to its essential argument.

I began writing for the Web very early–from the first issue of Salon.com in 1995. It is startling to remember that the Web was not taken seriously at first. Indeed, when I became a columnist at Salon, a prominent journalist at The Boston Globetold me that I was wasting my time and that no one in the major news media regarded the Web seriously. How things have changed! My 2003 essay “Dispatches from the New Frontier:  Writing for the Internet”, which describes my experiences at Salon.com, is reprinted in Provocations.

Unfortunately, the Web has destroyed or seriously wounded innumerable newspapers and magazines, which have lost their economic base and are fighting for survival. In the U.S., this has undermined smaller regional newspapers and increased the power of the corporate media based in New York and Washington, D.C., who are uniformly supporters of the Democratic party. I am a registered Democrat who questions or rejects much current Democratic dogma.

Today’s enormous problem of deceptive “fake news” and blatant propaganda is getting worse each year. Young people should be trained early in how to assess the credibility of news sources. I think there should be required classes in traditional formal logic at the public-school level. Students need practice in following sequential argument and in recognizing distortions, fallacies, and unsupported conclusions.

G.P. Lastly, a very straightforward question: could the reappearance of Fascism and neo-Nazism in Europe be suggesting that we haven’t learnt anything from history? And if so, how did this process take place?

C.P. The word “decadence” appears in the subtitle of Sexual Personae because I think that Western culture is currently in a “late” phase of gradual decline. Decadence is not a negative term for me: my book examines many examples of marvelous late-phase art, such as Michelangelo’s twisted, morbidly sensual Mannerist sculptures in the Medici Chapel.  Decadent style has recurrent characteristics such as androgyny, voyeurism and compression or distortion of space. I am strongly drawn to decadent art and its heroes, like Oscar Wilde and Andy Warhol.

However, history shows that late phases, as in imperial Rome or Weimar Germany, may trigger a reaction from militant nationalists calling for a return to the simple, stoic virtues of the distant ancestors. I think that is where we are now, as Western culture on both sides of the Atlantic has lost faith in itself and is being eclipsed by a rising force in Asia.

ARTICOLO n. 40 / 2023

PRODAJE SE

Un viaggio jugoslavo

Il viaggio è stato lungo, più lungo del previsto. Ceniamo al Poema di Popovača. Il nome italiano non fa presagire nulla di buono. Intorno a noi il buio della notte, rare case con i mattoni forati a vista. Nella sala che sa di fumo, due tavoli più in là, sta una coppia. Si vede che è una delle prime uscite. Ci trasmettono una certa tenerezza: i due si tengono la mano, chiacchierano, si scambiano sguardi languidi mentre la pizza di fronte a loro si raffredda. La nostra invece no. Appena ce la portano, la ingurgitiamo con appetito, cercando di non curarci che al posto del pomodoro c’è l’ajvar, una salsa di peperoni leggermente piccante, e che il prosciutto non è tra i più saporiti.

Solo al mattino capiamo davvero dove siamo. La villetta di fronte al nostro alloggio, a Potok, ha due leoni azzurri ai lati del cancello; potremmo essere in Veneto, pensiamo subito, se non fosse che attorno non vi è nessuna azienda a conduzione familiare, con relativa flotta di furgoncini bianchi e magazzino strabordante, nessuna bandiera autonomista, nessuna statale congestionata dal traffico. Solo campi, rimesse agricole, galline, case senza l’intonaco o fatte di legno annerito come baite mancate. 

Arriviamo a Podgarić che è ancora presto, dopo aver percorso una strada piena di curve tra alti alberi e improvvise aperture nella campagna. Facciamo colazione in auto: biscotti e succo di frutta che abbiamo acquistato poco prima in un piccolo negozietto che ci aveva sorpreso per l’ampia selezione di lumini da cimitero esposti in ingresso. Come se la morte qui fosse più diffusa di altrove. 

Tra la pioggia sottile che non smette di cadere, avvistiamo il primo spomenik, parola croata che su per giù significa “memoriale” o “monumento”. È in cima ad una collina, in un luogo assai scenografico. Lo raggiungiamo superando una recinzione e avanzando in un campo mezzo allagato. L’erba è zuppa, piena di funghi. Solo successivamente scopriamo che una stradina seminascosta ci avrebbe permesso di raggiungerlo più agevolmente. Con le scarpe sulla terra bagnata, pensiamo alle migliaia di mine che ancora infestano le campagne circostanti. 

La struttura alata, alta dieci metri e larga venti, trasmette tutta la forza del béton brut, la concretezza del reale e insieme un senso di mistero e di spiritualità. Il suo colore grigio ricorda quello dei pilastri delle tante casupole qui intorno. Proviene da un altro mondo, il monumento, e noi ci sentiamo soli, lontani dal nostro tempo. La patina di passato che lo ricopre (insieme al muschio, nella parte esposta a Nord) ci affascina, un po’ come può avvenire per effetto dell’estetica giapponese del wabi-sabi. Da quassù, dominiamo un paesaggio brullo, un piccolo laghetto artificiale su cui si distende un breve pontile di legno. L’Hotel Garić che vi si affaccia dev’essere pieno d’estate; ora è chiuso e silenzioso, sembra anch’esso abbandonato. Si sente solo il belare delle pecore che pascolano a valle, il suono dei nostri passi. Sarà per la voluta asimmetria dell’arco che sorge poco distante, una sorta di Stargate, per come le forme del monumento dialogano con le colline circostanti o forse per la pioggia, ma l’atmosfera è disturbante, malinconica, greve. Podgarić è stata base logistica e ospedaliera della Resistenza iugoslava; ai nostri piedi sono tumulati i resti di centinaia di partigiani e a giudicare dalla presenza di una corona di fiori ormai spoglia, qualcuno se ne ricorda ancora. Eppure il sito ci sembra destinato all’abbandono o, peggio, a diventare icona pop, sfondo per video musicali e spot pubblicitari. A Houston ne esiste già una versione fatta interamente di Lego.

L’intero territorio della ex-Jugoslavia è punteggiato da decine e decine di monumenti incredibili. Non stanno al centro delle piazze cittadine, ma là dove le battaglie, le stragi, le persecuzioni hanno avuto luogo (anche a opera di italiani, come a Podhum, vicino Fiume), quasi che la funzione del ricordare possa essere garantita anche, forse meglio, lontano dagli occhi della gente. 

Le forme e la simbologia di questi monumenti sono nuovi al nostro sguardo mediamente educato alla tradizione estetica occidentale; sono certamente vicini al brutalismo socialista e all’ideologia che promuoveva, ma in modo autonomo, come del resto relativamente autonoma è stata la Jugoslavia dall’Urss. Gli spomenik sono stati costruiti quasi tutti tra gli anni Sessanta e la fine dei Settanta, quando il governo titino cercava di rafforzare l’unità nazionale e di ricucire le ferite della guerra. Si trattava di ricordare le atrocità commesse durante l’occupazione nazi-fascista, ma anche, forse soprattutto, di dimenticare le divisioni etniche che di lì a poco sarebbero riesplose con tragiche conseguenze. Poi, a seguito del disgregamento della Federazione Jugoslava, queste testimonianze uniche sono state distrutte, vandalizzate o nel migliore dei casi abbandonate. Sono finite per parlare d’altro, ancora una volta. I memoriali eretti dal nuovo governo croato sono meno ambiziosi: piccole lapidi con una lista di nomi e il simbolo cristiano della croce.

Dopo pranzo (mangiamo un čobanac, il piatto dei pastori, uno stufato di carne tipico della Slavonia, un gulash più brodoso che scalda le ossa e l’anima), ci perdiamo nelle stradine secondarie verso il confine bosniaco. Case col tetto a spiovente curate in maniera maniacale (vasi di fiori coloratissimi disposti in ordine crescente, altrettanto ordinate cataste di legna da ardere), fienili e prati incolti scorrono nei finestrini. Prima veniamo seguiti dall’auto di una società di sicurezza privata, poi avvicinati da un furgone rosso di un bar (sic!) da cui scende un uomo che ci consiglia di andarcene: siamo in una zona calda, ci dice, è pieno di migranti che attraversano il confine proprio in questa strada. Siamo nel mezzo della cosiddetta “rotta balcanica” e non lo sappiamo. Premono sulle frontiere dell’Europa i disperati, mentre i potenti delle nazioni osservano il panorama imbarazzante delle migrazioni dai loro schermi. Li immaginiamo, gli oscuri burocrati, lavorare in sinergia per il nostro bene, per evitarci ogni seccatura; e gli agenti segreti che ascoltano con le cuffie lo stormire del vento, i fruscii delle foglie – le cimici sono state posizionate con cura – tentando di tracciare i movimenti di chi attraversa i fiumi, le montagne, i confini.

A Jasenovac l’impressione di sacralità è ancora maggiore; e molto più mesta, sarà anche per il treno posto poco distante che ricorda tante altre tragedie del Novecento. Il camminamento che conduce allo spomenik è fatto di traversine ferroviarie. Siamo nel luogo dove sorgeva uno dei più importanti campi di sterminio del collaborazionista Stato Indipendente di Croazia. Qui, per mano del regime degli ustascia, hanno trovato la morte un numero imprecisato, ma altissimo, di serbi, ebrei, zingari e comunisti. L’enorme fiore di cemento alto più di venti metri ideato da Bogdan Bogdanović ci pare bello soprattutto per come dialoga con il resto del paesaggio (il verde dei prati, la campagna). Sull’erba, cumuli e depressioni circolari sorgono in corrispondenza degli edifici del campo ora scomparsi – esempio ante litteram di land art? – come se la terra ribollisse e la vita potesse risorgere. È un monumento di resurrezione, quello che abbiamo di fronte, possente eppure armonico. Un inno alla vita celebrata in modo assai meno didascalico di quanto possa sembrare. In una sua intervista, Bogdanović racconta che la scelta del fiore è stata dettata anche da ragioni di opportunità politica: si trattava di ricordare, appunto, senza alimentare odi etnici e religiosi. Su internet vediamo delle foto dell’inaugurazione del 1966: una folla di persone, come mossa da un’invisibile mano, si accalca lungo le ali di cemento, quasi a volersi unire alla struttura. Il sito, questa volta, non è abbandonato. Ci sono anche delle indicazioni turistiche. Eppure siamo soli, ancora. 

Dopo aver risolto qualche problema con i colori della Polaroid, piccolo vezzo vintage che ci permettiamo, ripartiamo verso Osijek. Come sempre amiamo perderci; è il nostro modo di comunicare con i luoghi, soprattutto con quelli più reticenti. Prendiamo una stradina sterrata che costeggia il fiume Sava che separa Croazia e Bosnia. Sul nostro percorso troviamo numerosi ostacoli: rami e tronchi caduti, strettoie, buche, fango. Ogni oggetto qui è un confine tra noi e il resto, tra noi e la natura che ci appare improvvisamente selvaggia e indomabile. Sulla sponda bosniaca del fiume si intravedono celati accampamenti, tende solitarie erette, immaginiamo, per riparare qualche povera provvista, i resti di un falò di chi nottetempo ha tentato la fortuna a nuoto.

Tra pochissimo il sole sarebbe tramontato. Ma a tratti la Sava compare tra le fronde placida e bellissima, del colore dell’oro, poi sempre più rossastra, come le foglie multicolori degli alberi. La conversazione tra noi si fa più rada. Osserviamo con ansia le mappe sui telefoni che non hanno campo. Il ponte che avrebbe dovuto immetterci nuovamente in una strada conosciuta è crollato. Ne rimangono solo i pilastri al centro di un canale secondario. Prendiamo in considerazione l’ipotesi di tornare indietro, ma la strada è troppo stretta. Non ci rimane che avanzare lungo questo confine, tra i versi lontani di animali sconosciuti.

Al crepuscolo, due cavalli ci sbarrano la strada. Uno è bianco, l’altro baio, maestosi si stagliano nello spazio. Fermiamo il furgoncino, spegniamo il motore, scendiamo. Loro non si muovono di un centimetro. Ci guardano con i loro occhi grandi, puri, non ci stanno giudicando, ci guardano come se fossimo due uomini e basta. 

Per la maggior parte di noi Croazia significa il mare di Krk, le spiagge di Pag, le feste a Novalja, le code al confine la settimana di Ferragosto, l’Istria e le gite in barca. Sappiamo però che i Balcani sono la porta tra la nostra casa e l’Est Europa, sempre misterioso e affascinante. Nei nostri ricordi d’infanzia portiamo le spore di guerre dimenticate, qualche nome, suggestioni che facciamo fatica a organizzare, ma che ci rendono questo mondo non del tutto alieno.

Il fiume è come tutti gli altri. Quali significati porta con sé l’idea di fiume? L’acqua appena rotta in superficie trasporta zolle di terra bruna, rami, cadaveri di piccoli animali. L’aria è umida. Una costellazione di boe lontane brilla come la schiena del mare alla luna. Ripensiamo all’organo marino di Zara: le brevi onde comprimono l’aria in canne invisibili; il suono è sublime, echeggia nel vuoto, una musica del tutto inumana, eppure così naturale. La stessa che sentiamo ora.

Nel bosco, dopo parecchi minuti di auto, la seconda epifania: vediamo una dozzina di uomini silenziosi fissare la foresta. La loro presenza incongrua ci inquieta. Sono disposti a circa venti metri uno dall’altro. Guardano tutti nella stessa direzione, non verso il fiume, il fiume che di solito è perfetto per le razzie dei pesci gatto che mangiano uccellini morenti, gatti, piccoli roditori per poi essere cucinati sulle braci, ma verso l’interno. Non capiamo il perché di questa postura. Abbiamo letto dei respingimenti illegali e inumani, di una bambina morta nel fiume Dragogna (stavolta tra Croazia e Slovenia) nel tentativo di oltrepassare un altro confine. Vicino a noi, una bambina ha lasciato la mano della mamma mentre era in mezzo al fiume, la corrente l’ha trascinata via, il suo corpo non si è neppure trovato, naviga sul Danubio o forse addirittura in mare aperto. Ci domandiamo: se un migrante sbucasse improvvisamente da quei rami laggiù, salisse rapidamente quest’argine e ancora bagnato, con occhi supplicanti ci chiedesse aiuto, che faremmo? Cominciamo a precisare: aiuto per cosa? Per raggiungere il primo villaggio o per raggiungere l’Italia? Un modo come un altro per aggirare la questione. Che faremmo se qualcuno ci chiedesse aiuto? Tenderemmo la mano a quella bambina? Quello che pensiamo di essere coincide con quello che siamo davvero?

Dopo un’ora di sterrato, sbuchiamo in un piccolo villaggio di stalle, trattori e di case a un piano. Siamo inseguiti da un’auto grigia, che poco dopo accende i lampeggianti. Il primo contatto con il mondo lasciato il fiume è la polizia in borghese. L’agente in tuta da ginnastica grigia scende dall’auto. Ci chiede un sacco di informazioni: chi siamo, dove andiamo, che cosa fotografiamo. In effetti non siamo venuti per i migranti, non siamo venuti nemmeno per gli spomenik. Perché allora siamo venuti? Ci fa aprire le borse, il cruscotto. Alla fine l’uomo, serio, ci intima di andarcene. Questo non è un buon posto dove stare.

Proseguiamo verso Osijek allora, via da quel confine. Alloggiamo in una casa a un piano, fuori città. La proprietaria per l’occasione si è trasferita dalla figlia nella casa a fianco. È una donna grassa e rubiconda. Ci dona delle merendine a forma di orsetto ripiene di latte condensato appena ci vede, forse le sembriamo sciupati. Alle pareti della casa ci sono i ritratti di quelli che immaginiamo essere i suoi figli e i nipoti (in uno scatto, uno indossa la divisa jugoslava da marinaio); qualche libro, qualche vecchissima guida del parco naturale lì vicino, una serie di amari e liquori pieni di polvere nella vetrinetta della cucina che non assaggiamo. La signora esce da casa della figlia con un modem in mano, da cui pende un cavo. Internet! Internet!, ci dice, come fosse una ricchezza inestimabile. Si vede che ci tiene a darci un buon servizio.

Il giorno dopo, ci perdiamo a Nord della città capoluogo della Slavonia, tra campi percorsi da una rete di canali e le paludi del parco naturale. Non possiamo non sentirci a casa: potremmo essere tra le barene della nostra laguna, sugli argini del Delta del Po. Pescatori in giubbotto mimetico sono in fila sulla riva di un canale. Visti da lontano, con il binocolo, fanno impressione. Sembra sia in corso una manifestazione sportiva, un torneo. E poi rane, ricci, lontre, casette per il bird watching dappertutto.

Nel vicino paese di pescatori, Kopačevo, ogni casa ha una carpa disegnata sulla porta. Le campane della chiesa bianca, appena vicino all’unico bar, la domenica suonano per dieci minuti almeno. La carne grassa del pesce gatto sfrigola nella cucina di qualche taverna. Edifici fatiscenti o non finiti recano non sappiamo con quale speranza la scritta Prodaje se (si vende), mentre incongrui e sbiaditi cartelli turistici punteggiano questa desolazione. Passeggiamo per il paese: un’unica strada su cui si affacciano case e anziani sospettosi. Ci accompagnano due cani randagi: uno è grande e slanciato, l’altro più tozzo si muove a fatica. Istintivamente ci è simpatico. Il posto ci sembra allegro, con le sue case basse, colorate, con le sue carpe disegnate, con le campane che suonano per un tempo lunghissimo.

Invece Vukovar è scura e seriosa; città martire della guerra di indipendenza croata del ’91. La torre idrica, quasi distrutta dalle bombe, è stata conservata per ricordare la passata devastazione. Al centro, un enorme albergo abbandonato conserva i segni della battaglia, come molte altre abitazioni. Il Danubio è bellissimo a quest’ora, il confine con la Serbia si accende dei colori del tramonto. Immaginiamo di percorrerlo tutto, di arrivare a Belgrado e poi proseguire fino al mar Nero. I pescatori in riva al fiume si scaldano accedendo piccoli fuochi sui massi dell’argine artificiale. A giudicare dalla loro età, tutti hanno vissuto giorni terribili, non riusciamo a non pensarci. Da noi sono ormai pochissimi quelli che possono dire di aver visto direttamente la guerra. Come può vedere il mondo, o anche solo un fiume che è un confine, chi ha vissuto un assedio di ottantasette giorni?  

Al parco Dudik c’è l’ennesimo spomenik. Cinque coni alti 18 metri, sormontati da una punta di rame e circondati da monoliti a forma di barca, quasi che sotto l’erba ci fosse una città sommersa di cui restano appena visibili pinnacoli misteriosi, come il campanile del lago di Resia. Non vi è alcuna indicazione. Il sito, recentemente restaurato su pressione della comunità serba, è in evidente stato di abbandono. Qui è avvenuta una delle più cruente esecuzioni di civili per rappresaglia contro la Resistenza partigiana. Nel boschetto di gelsi (Dudik) dove siamo, c’erano le fosse comuni. Per terra, giacciono i resti di qualche passata commemorazione, una corona distrutta con scritte in cirillico (che qui è sempre più mal sopportato). Stando alle indicazioni di Bogdanović, il progettista è ancora lui, il visitatore dovrebbe arrivarci come arriverebbe alla leggendaria tomba di Porsenna. Tutti questi monumenti, in effetti, implicano una esplorazione e una scoperta. Se fosse voluta, l’assenza di indicazioni sarebbe geniale. 

Vicino, in un campo di calcio non recintato, si gioca una partita. Il silenzio è irreale. Anche il pubblico tace assorto nel sole freddo. Sentiamo i calciatori ansimare. Poi un urlo improvviso: la squadra di casa ha segnato. La partita finisce poco dopo, pacche sulle spalle. Più in là, il muro di una casa è perforato da numerosi proiettili, una barca giace sul ciglio della strada non si sa da quanto.

A cena mangiamo un pesce gatto che non avremmo mai mangiato in altre occasioni. A casa, osserviamo con un certo disgusto i pochi pescatori che si affacciano sul Fratta Gorzone, il corso d’acqua più inquinato d’Italia, denso e grigio, per pescare questi bestioni infestanti che hanno la carne grassa con un riconoscibilissimo sentore di fango. Prima di ripartire tentiamo di acquistare una zucca; sono esposte in una carriola appena fuori dal nostro alloggio. Ma le kune mancano e non c’è modo di pagarla in altro modo. 

Attraversiamo la frontiera bosniaca a Bosanska Gradiška, superando un ponte sulla Sava, il fiume che avevamo precedentemente costeggiato. La fila infinita di Tir in attesa dei controlli doganali ci fa capire che stiamo uscendo dall’area Schengen. Giungiamo a Banja Luka, capitale della Republika Srpska, una delle due entità territoriali in cui è stata divisa la Bosnia ed Erzegovina dopo la guerra, quella a maggioranza serba. Durante la cena, in un locale fumoso, ubriachi in tuta da ginnastica e giovani donne vestite di tutto punto ridono sguaiatamente. Pensiamo che qui morte e vita debbano presentarsi in forme estreme, grottesche. Le famiglie non possono che essere quelle descritte da Danilo Kiš.

Scendiamo verso Sud. La strada si distende tra montagne rocciose, boschi, verdissime colline. La natura forte e impenetrabile non pare adatta ad ospitare l’uomo. Eppure avvistiamo, uno dopo l’altro, piccoli fuochi ardere tra le valli apparentemente disabitate, colonne di fumo che ci fanno percepire l’umano per indizi. Nei rari centri abitati, altri fumi. Sono quelli dei fuochi accesi per distillare la rakija, bevanda nazionale, quasi sempre prodotta da prugne o mele fermentate. Enormi alambicchi in rame stanno sui cortili delle case, come delle piccole locomotive ferme alla stazione. Uomini sono accovacciati attorno alle fiamme, come i pescatori di Vukovar.

Entriamo nella cosiddetta Federazione croato-musulmana. A Donji Vakuf i cimiteri islamici sono a bordo strada. Lapidi semplici a forma di piccolo obelisco riportano solo il nome del defunto. Nessuna foto. Sono dappertutto: vicino ai cortili delle case, sul ciglio della strada; i cimiteri sono diffusi e non protetti da alcuna barriera visiva – muretto, recinto, alberi – quasi che fosse inutile nascondere la morte, radunarla in luoghi specifici per toglierla dalla vista. Il sepolcro è elemento del paesaggio che però ci appare tutt’altro che mortifero. Nei pressi di una moschea, alcuni ragazzi grigliano la carne a pochi passi dalle sepolture. Ridono e scherzano e sorprendentemente non ci sembra irrispettoso.

Sulla collina Smetovi si gode della vista completa sulla città di Zenica. Da quassù brillano al sole le finestre dei lontani palazzi e le colonne di fumo bianchissimo che escono dalle tante ciminiere della zona industriale. Alle nostre spalle, l’ennesimo spomenik: una sorta di enorme cavatappi costruito nel ’68 e poi ricostruito in anni più recenti dopo essere stato distrutto. Qui i cetnici massacrarono più di trenta combattenti partigiani impegnati contro l’occupante nazi-fascista. La collina oggi è un luogo di aggregazione: troviamo decine e decine di famiglie, ciascuna con tavolo, sedie, asciugamani. Tanti sono i musulmani: le donne portano il velo e gli uomini non bevono birra. Un gruppo di amici sta cucinando fagioli e stinco di vitello. Uno di loro, che ha vissuto per venticinque anni in Texas, ci informa che il tempo di cottura è stimato in 4 ore. 

La notte è tesa, un vestito appena stirato pieno di strappi. Nel piccolo paese che attraversiamo, la locanda è illuminata a fatica, i morsi delle tenebre non lasciano scampo alle lampare. Entriamo trattenendo il respiro. Un solo tavolo dove quattro uomini mangiano stancamente (occhi acquorei per il fumo, braccia possenti e sporche, bocche deformate da sorrisi alcolici, una è deturpata da una cicatrice). Ci avviciniamo al bancone. Un cameriere anziano e panciuto sta lustrando posate e bicchieri. È possibile mangiare qualcosa? La fame ci attanaglia, ci morde lo stomaco, un modo come un altro per sentirsi umani e mortali. Seduta ad un tavolo, persa nell’ombra, una donna fuma silenziosa. Il cameriere ci pensa un po’, poi fa un cenno affermativo con la testa. Ci fa accomodare ad un tavolo tra gli altri sparecchiati. Dalla finestra vediamo la strada che si perde nel vuoto, la nostra immagine riflessa sul vetro. La sovrapposizione delle immagini è perenne, il mescolamento impossibile. Più in fondo, i resti di una gru dimenticata, un paio di vagoni ferroviari trasformati in stalle. L’oste arriva poco dopo. Ci apre il menù sotto gli occhi, non parla. Lo scambio è ridotto ai minimi termini. Questo, almeno, bisognerebbe imparare: adottare una comunicazione sostenibile, amica dell’ambiente. Decifriamo solo in parte le lettere che compongono una lingua straniera; le pagine sono unte, le sfogliamo con due dita. Antipasti, piatti di pesce, piatti di carne, contorni. Non riusciamo a deciderci, non abbiamo voglia di leggere. Quando torna, dieci minuti dopo, ordiniamo la prima cosa che ci viene in mente. Lui dice che non c’è scuotendo la testa. Indichiamo un’altra pietanza. Non c’è neppure quella. Allora interviene indicandoci un piatto, un singolo piatto, l’unico disponibile. Ci arriva una brodaglia rossastra nella quale pezzi di carne galleggiano qua e là come scogli perduti, iceberg fumanti. Mangiamo lo stufato con il pane, sollevati, finalmente, dall’assenza di scelta. 

Il giorno seguente, facciamo colazione all’Hotel Pino di Sarajevo; è un albergo di lusso immerso nella natura. Potremmo essere in Alto Adige. Lì vicino ci sono i resti del villaggio olimpico che ospitò i giochi invernali del 1984. La pista da bob abbandonata è diventata un’attrazione per turisti; noi la vediamo di sfuggita, nascosta testimonianza dell’esistenza di un paese che non esiste più e che non abbiamo conosciuto. L’intera città, la capitale multietnica e affascinante, non ci si svela. Sembra nascondere le tracce di quell’assedio sanguinosissimo e logorante di cui abbiamo solo letto.

Il mercato di Džemala Bijedića è un tumulto di persone di tutte le età ed etnie. La gente si accalca tra bancherelle di montagne di vestiti, scarpe, cappelli, cinture, orologi, attrezzi di ferramenta. Qualcuno si prova un vecchio cappotto in vendita per pochi marchi. Tre donne stendono un lenzuolo al sole per tastarne la qualità. Sorrisi sdentati, mani tremanti, qualcuno azzanna le solite salsicce ficcate dentro a panini scaldati sulla griglia. Ci sembra impossibile comprare qualcosa, eppure in questo mercato, tra questi volti, c’è quello che stiamo cercando. Allontanandoci, incontriamo una signora dall’aria dignitosissima; espone su un telo ciò che ha da vendere: due paia di calzini, una bambola sporca, qualche forcina per capelli.

A Vogošća l’ennesimo monumento. La città è stata una delle più colpite dalla guerra civile che ha dilaniano il paese tra il ’92 e il ’95. Nessuna informazione, solo una struttura rettangolare di cemento con incisioni e bassorilievi. Al centro si apre una ferita, uno squarcio: potrebbe rappresentare il dolore che non si rimargina o forse la forza vitale che continua a uscire da quella che è a tutti gli effetti una cripta. Da sopra la collina dove sorge lo spomenik si vede la nuova moschea, bianca, col minareto di vetro. Assomiglia a una piscina. Un gruppetto di giovani che fumano marijuana ci osserva indifferente.

Ritorniamo verso Nord. Lungo la strada le presenze antropiche sono come al solito scarse. Il terreno è pieno di doline e depressioni. Qualche venditore di miele o di cavoli cappucci. Arriviamo a Bihać che è sera, dormiamo in un appartamento vicino a un fiumiciattolo e una piccola cascata. La memoria, ancora. Bihać è stata protagonista di episodi particolarmente cruenti durante la Seconda Guerra mondiale (è stata liberata e poi riconquistata dall’Asse) e poi durante la guerra civile, quando in lungo assedio morirono migliaia di persone. 

La mattina raggiungiamo la collina di Garavice, appena fuori città, dove c’erano le fosse comuni. La nebbia è fitta. L’erba cresce alta, libera, come da noi non succede più. Parcheggiamo il furgone e raggiungiamo il monumento camminando sull’erba, come era successo a Podgarić. L’emozione è forte, intensa. Dalla nebbia, una dopo l’altra, emergono alcune colonne fatte di blocchi di cemento giustapposti. Tredici in tutto. Ci ricordano le enormi statue dell’Isola di Pasqua. Un sentiero ci passa in mezzo, creando così quello che ci sembra un percorso di ascesa e purificazione. L’aria fredda ci riempie i polmoni. Bogdanović (il progetto è ancora suo) le chiamava “le sue donne”, figure in lutto, meste, sebbene prive di connotati umani. Anche qui mancano pannelli informativi, qualsiasi simbolo religioso o nazionale. La salvezza, se esiste, è fuori dall’identità, dal senso di appartenenza. È nelle cose, nella loro silenziosa presenza. In questa sorta di Stonehenge della morte sono le forme a parlare. Tornando, notiamo i resti di un falò, qualche bottiglia di vodka. 

Il viaggio, come ogni viaggio, non si conclude una volta tornati a casa, anzi. Le immagini accumulate lievitano nel cervello. Portiamo con noi la disarmante malinconia emanata da questi luoghi, diffusasi come un vento radioattivo, i colori così diversi da quelli mediterranei, una piantina che morirà poco dopo e un sacchetto di cioccolata con i canditi, dolcissima e indigesta, che pure non abbiamo il coraggio di buttare. Proseguiamo, quindi, a camminare guardinghi tra i nostri pensieri inesplosi.

ARTICOLO n. 39 / 2023

DESERTO VERDE

Pubblichiamo un’anticipazione dal volume L’Anno del Fuoco Segreto (Bompiani) a cura di Edoardo Rialti e Dario Valentini, che ringraziamo. Il volume sarà in libreria il 17 maggio.

Siamo tutti bambini nel bosco, perduti, abbandonati. Sussultiamo a ogni rametto spezzato, ogni fruscio degli alberi è una mano tesa a proteggerci o forse a ghermirci. 
La scienza evolutiva e le immagini della religione si sovrappongono, rigirano tra le mani lo stesso oggetto scuro, sbozzato, come un manufatto ultraterrestre o una concrezione lavica nel quale pare di scorgere un volto dalla bocca spalancata. Siamo scimmie spaventate, il giardino dell’Eden è sbarrato alle nostre spalle, una spada fiammeggiante ci separa dal riposo e dall’abbraccio universale, la coscienza della nostra nudità ci esalta e ci umilia. Cerchiamo di leggere il mondo e vi proiettiamo speranze e minacce, sogni di comunione la cui dolcezza sbiadisce al risveglio, orrori e crudeltà che ci attirano come falene al fuoco. Gli uccelli cantano, il buio ci osserva. Avanziamo incerti su gambe malferme e ai bordi dei nostri desideri avvertiamo la pressione di tutto quell’oltre, lo popoliamo di demoni e dei. Ragazze emergono dalle nubi e ci tengono le braccia. Scarpette rosse ci fanno ballare fino a sanguinare e scavare una tomba nel terreno. Mozziamo la testa ai bambini e la chiudiamo in una cassa dove continuano a chiamarci con un pigolio. Facciamo l’amore con lupi e serpenti d’acqua. Infondiamo la nostra vita in un oggetto, lo riveliamo a chi lo spezza sotto il tacco. Ci svegliamo al mattino per scoprire che il nostro amore è stato portato via, o che lo abbiamo ceduto noi stessi al re della morte per ottenere un giorno in più sotto il sole.
I processi di razionalizzazione individuali e collettivi ci fanno incanalare le infinite varianti, tutte vere, tutte false, in percorsi lineari. La realtà e le storie diventano rette parallele o perpendicolari, finiscono bene o male, rassicurano la domanda sottesa: È vero? 
Dividiamo i racconti in generi, come altrettante finestre da cui affacciarsi sul mondo e noi stessi. 
Una storia deve essere tale per essere raccontata, eppure non è solo tutto ciò che in essa è taciuto a darle spessore autentico, ma anche l’infinita tempesta delle possibilità alternative, i suoi tradimenti e rovesci, l’irruzione di tutto ciò che pare contraddirla, come un viso angosciato allo specchio che si veda rispondere da un sorriso nel riflesso. 
Le definizioni aiutano e al tempo stesso limitano e uccidono. Si costruiscono templi solo per scoprire che alla fine il fuoco del sacrificio è sprezzato dal dio, che nel frattempo è volato via.


Edoardo Rialti, Dario Valentini

L’uomo davanti a lei era bendato, non poteva vederla. Aveva una mano legata alla sedia, era troppo distante, non poteva colpirla. E l’interrogatorio andava avanti da ore, senza nessun esito, solo quattro parole ripetute costantemente, ossessivamente, come un mantra, come una verità. La tenente Soledad Valverde si accasciò – il viso sul tavolo di plastica verde scheggiata, il contatto fresco di quella superficie sulla guancia – e si prese la testa tra le mani. Non fu che un attimo, si tirò su, si massaggiò le tempie. Aveva male alla testa e bisogno di bere, ma la bottiglia che aveva accanto – anch’essa di plastica, riutilizzata mille volte e probabilmente ormai tossica – era vuota.

I suoi compagni sarebbero stati ancora dall’altra parte dello specchio spia, a guardarla, a ridere dei tentativi di interrogatorio che con tanto accanimento aveva cercato di portare avanti? O se ne erano già andati e ora si stavano ubriacando nella cantina più vicina, con qualsiasi cosa riuscissero a trovare, qualsiasi cosa si potesse distillare dalla selva?

Tutte quelle ore non erano state altro che uno spreco di energia, di aria ed elettricità – la lampadina che illuminava debolmente eppure ferocemente quella sala sotterranea sporca e spoglia, l’impianto di aria condizionata quasi al limite delle forze, era quasi meglio ai tempi del vecchio ventilatore a pale, ma ormai non funzionava più, pendeva dal soffitto, inutilizzato, con quella che si sarebbe detta mestizia – e uno spreco anche delle sue, di forze. Non aveva funzionato. Per quanto le ripugnasse, alla fine di quella giornata, e mancava poco ormai, non avrebbe avuto altra scelta che affidare il prigioniero ai suoi compagni. La tenente María Mendoza avrebbe riso di lei, era l’unica altra donna della squadra, e la più feroce di tutti, donne e uomini. Sarebbe stata lei a incaricarsi delle torture, avrebbe preteso che Soledad assistesse, che imparasse il mestiere una buona volta, come diceva, con un sorriso splendido – perché María Mendoza era davvero bellissima – che si torceva in un ghigno, o almeno così sembrava a lei, Soledad. Era lei sola a vedere quello che vedeva, a incarnare la solitudine che sua madre le aveva impresso addosso nel nome? Ma questa soddisfazione no, non gliel’avrebbe concessa. Avrebbe chiesto il trasferimento per l’interno della selva, per il minuscolo villaggio di Las Luces, dove era cominciato tutto. Al comando temporaneo avevano bisogno di unità e più volte le avevano fatto capire che la sua domanda, se l’avesse presentata, sarebbe stata accolta con procedura immediata, forse con te parleranno, le aveva scritto il capitano Morales dall’accampamento. Forse anche io, non aveva scritto, potrei parlare di nuovo con te, se tu venissi qui, se tu tornassi, Soledad.

Davanti a lei, l’uomo – il suo nome era Elías Hayes – restava immobile come era sempre stato, un braccio appoggiato al tavolo, ripiegato davanti a sé, l’altro trattenuto dai legacci. Anche il sudore gli colava lentissimo sul viso. Era come se avesse rallentato di proposito la circolazione del sangue, ma come era possibile una cosa del genere? Il fascicolo che la squadra – di cui oggi anche lei, Soledad, faceva parte – aveva iniziato a compilare tanto tempo fa diceva che Elías Hayes praticava la meditazione vipassana. Forse era quella la ragione. La benda nera e sudicia che gli copriva gli occhi lasciava vedere tratti bruniti dal sole. Aveva più di sessant’anni, diceva ancora il fascicolo, lo confermavano i capelli grigi in cui spiccava ancora solo qualche ciocca spessa e nera. Era tarchiato e doveva essere più forte di quanto non sembrasse. Soledad rilesse le frasi per quella che le sembrò la millesima volta, avrebbe potuto ripetere il fascicolo a memoria se avesse voluto.

Elías Hayes era stato diplomatico per gli Stati Liberi all’epoca della loro fondazione, trenta o trentacinque anni prima, quando pezzi e pezzi di America Latina si erano strappati dalle nazioni a cui appartenevano per fondersi insieme, e sogni di libertà e giustizia sociale avevano accompagnato quella come tutte le altre rivoluzioni del passato. Trentacinque anni dopo, ne rimaneva ben poco, questo Soledad lo sapeva bene, questo non compariva nel fascicolo di Hayes, che era stato aggiornato al “caso Quinn”. Dopo la morte improvvisa della moglie Rocío in un’aggressione in Sudafrica, Hayes aveva lasciato l’incarico ed era diventato senza fissa dimora. Aveva molti amici in Europa, nei paesi dove era stato distaccato sia prima che dopo la nascita degli Stati Liberi, in Spagna soprattutto e in Francia. Poi aveva trascorso qualche anno in India, forse addirittura in Birmania. Di tanto in tanto veniva avvistato e segnalato, anche se il fascicolo era incompleto, e la ragione delle segnalazioni non era riportata. I fascicoli erano sempre incompleti in quel modo, e negli anni, Soledad aveva imparato a decifrare le assenze, il vuoto, ciò che non veniva messo nero su bianco. In questo caso, però, non ci riusciva, o non completamente.

Le segnalazioni si infittivano dalla data di pochi mesi prima, quando improvvisamente e senza motivo apparente Elías Hayes era rientrato in patria e si era stabilito nel villaggio di Violeta, nelle case di lamiera o baracche che sorgevano a poca distanza dall’edificio della capitanía dove si trovavano adesso. Aveva accettato l’invito di un amico antropologo, Ian Medina Quinn, che da qualche anno si era stabilito a Violeta, anche se conduceva le sue esplorazioni soprattutto nella zona di Las Luces, nell’interno della regione. Tra i due c’era una qualche differenza d’età, ma anche una solida amicizia. Stando al fascicolo, Hayes e Medina Quinn si era conosciuti quando Hayes era in carriera diplomatica in Spagna. Medina Quinn, la cui madre si era ritrovata in mano il passaporto degli Stati Liberi per lo ius sanguinis, aveva lavorato qualche anno in Ambasciata mentre completava gli studi. Poi Hayes era ripartito per nuova destinazione e Quinn aveva proseguito il percorso accademico, fino a diventare un’autorità nell’ambito della ricerca su quelli che allora si chiamavano, con una terminologia che Soledad non poteva impedirsi di trovare razzista, indigeni non contattati. Negli anni, il campo d’indagine di Ian Medina Quinn si era ristretto a poco a poco, a mano a mano che gli ultimi esponenti delle tribù amazzoniche che avevano evitato, o coscientemente rifuggito dopo pessime esperienze risalenti magari a qualche secolo prima, l’incontro con l’Occidente in una qualsiasi delle sue molte forme, erano entrati inevitabilmente in contatto con il mondo tecnologico avanzato, il mondo di cui anche lei, Soledad, faceva parte, nonostante tutto. E nonostante tutto in quella stanza, fuori da quella stanza, nella capitanía, i villaggi di Violeta e di Las Luces ma anche la stessa capitale, le sembrassero nient’altro che rovine, o forse reliquie sopravvissute di una civiltà sul bordo del collasso. Pochi paesi avevano riconosciuto gli Stati Liberi, c’era stato l’embargo, certo, ma… Soledad si scrollò quei pensieri di dosso, si costrinse a continuare, ancora una volta, la lettura. Doveva esserci, in quel dannato fascicolo, qualcosa, una traccia, una pista, un enigma che non aveva ancora scovato.

In un articolo molto discusso, uscito diversi anni prima su uno dei principali quotidiani del paese, La Voz que es nuestra, Medina Quinn aveva sostenuto che, per quanto la fondazione degli Stati Liberi fosse sembrata offrire, nei primi anni, speranze di sopravvivenza nei propri modi di vita per tutti gli indigeni dei nuovi territori – minacciati dall’industria estrattiva e da quella del legname, dal contagio culturale come dalle nuove malattie, dall’abbattimento di zone sempre più ampie di foresta amazzonica, dall’inquinamento delle acque, dall’estinzione degli animali, dalla catastrofe climatica già diventata semplicemente per tutti l’oggi, qui – ormai si poteva dare per assodato che le politiche del governo di Ciudad Dorada – perché così si chiamava, pomposamente, pensò Soledad, la capitale degli Stati, la città d’oro, come l’Eldorado sognato dagli antichi conquistadores, dai pazzi e dagli esploratori anche se quasi tutti la chiamavano semplicemente Dorada, come se fosse un’orata d’allevamento – non avevano più nulla di diverso da quelle di altri stati, del presente o del passato, alle prese con la stessa questione.

Medina Quinn non lo diceva apertamente, certo, il suo era un articolo scientifico e quasi tecnico, intessuto di dati e numeri, ma le conclusioni erano chiare. Per i non contattati, chiunque fossero, qualsiasi cosa veramente volessero, non c’era più spazio, non c’era più tempo, e dunque neanche speranza se anche questa deve per forza annidarsi in una piega dello spaziotempo piegato dall’oggetto che siamo noi, pensò Soledad sentendo ravvivarsi nella mente, con una fitta, i ricordi degli studi scientifici che avrebbe voluto proseguire presso l’Università di Dorada, e che aveva dovuto abbandonare quando suo padre era morto, investito per strada, e lei aveva intrapreso la carriera militare, per ritrovarsi in quella piega esatta, lì, in quella stanza, dopo ore di interrogatorio, davanti a quell’uomo. Elías Hayes, che doveva sapere che fine avesse fatto il suo amico Medina Quinn, dopo essere scomparso nella selva, Ian Medina Quinn e i suoi specchi, e che cosa c’entrassero, se davvero c’entravano qualcosa – perché per quanto i suoi superiori ne fossero convinti, a titolo personale Soledad Valverde si concedeva di dubitarne – con le misteriose apparizioni di luci in cielo che forse avevano dato il nome, decenni e decenni prima, al villaggio di Las Luces nelle profondità della selva e che ora, subito dopo l’arrivo dell’antropologo, e poi del suo amico, avevano ricominciato a infestare il cielo, terrorizzando gli abitanti e i loro animali.

Uno di quegli specchi, l’unico che era stato ritrovato nell’abitazione di Medina Quinn a Violeta, dove Hayes si era installato al suo arrivo, era davanti a lei, coperto da un panno, che Soledad sollevò. Era uno specchio antico, di fattura ottocentesca o forse ancora precedente, la tenente non avrebbe saputo dirlo, non sapeva niente di storia dell’arte. Lo specchio doveva essere di bronzo. Con qualche cautela Soledad vi cercò il riflesso del suo viso. La superficie che avrebbe dovuto essere riflettente appariva invece completamente oscura, brunita più del metallo dell’incastonatura, e la luce vi annegava. Con una rapidità dettata da un ingiustificato, si disse, timore, Soledad rimise il panno al suo posto. Da dietro l’altro specchio, lo specchio spia, le giunse qualcosa all’udito, un rumore, forse i suoi compagni erano tornati, forse solo María, e si stava godendo lo spettacolo. Era ora di riprendere l’interrogatorio.

I fatti, apparentemente – Soledad li ricapitolò per l’ennesima volta a beneficio del suo muto, passivo interlocutore – erano questi.

Dopo l’uscita dell’articolo, e le polemiche che aveva suscitato, Ian Medina Quinn era stato oggetto di aggressioni, in uno o due casi anche molto violente, da parte di gruppi estremisti. Cogliendo – o forse avendo provocato? – questo meraviglioso pretesto, con la scusa della sua sicurezza la capitanía generale della regione lo aveva messo sotto discreta sorveglianza, più discreta e più intensa di quanto non fosse già la vigilanza a cui era da tempo sottoposto. Da parte sua, il governo centrale aveva avanzato all’illustre studioso straniero – Quinn aveva la doppia cittadinanza, degli Stati Liberi per via materna ma anche europea, per parte di padre – l’offerta di una scorta, che era stata rifiutata, perché avrebbe interferito con le ultime possibilità di portare avanti gli studi a cui aveva dedicato gli anni e la vita. Invece, Quinn aveva chiesto e ottenuto di potersi trasferire a Violeta, che era poco più di un avamposto militare, e qualche casa sovrannumeraria, nel midollo stesso della selva, e nelle vicinanze dell’ancora più interna aldea di Las Luces, l’ultimo brandello di terra degli stati dove sembrava che gli indigeni non contattati ancora, forse, sopravvivessero in libertà.

La battaglia a cui Ian Quinn intendeva dedicare ora tutte le energie rimaste mirava alla creazione di un’area naturale ad accesso interdetto che proteggesse la zona da ogni ulteriore incursione civilizzatrice, consentendo così, forse, agli invisibili esseri umani che amava – se studium vuol dire: lungo amore – di un amore non ricambiato da decine di anni di andare avanti ancora, almeno fino alla fine della sua vita, nel modo a loro noto di vivere, e traendone per sé il beneficio egoistico di potersi continuare a dedicare – ancora: fino alla fine – all’unica cosa che aveva sempre fatto o voluto fare: studiare la loro esistenza. Medina Quinn non aveva famiglia, né moglie né figli, e neanche amanti, a quanto diceva il fascicolo. Sembrava completamente disinteressato a qualsiasi essere umano avesse già avuto contatti con la civiltà, o, riportava il fascicolo citando una battuta ironica dell’illustre antropologo, “avesse avuto la disgrazia di nascervi”.

A Violeta, Ian Medina Quinn aveva trovato pace, almeno in apparenza. Occupava una casa concessa dal governo al limitare del piccolissimo agglomerato, sulla frontiera estrema della selva che qui sprigionava tutta la sua incandescenza. Pescava e cacciava come tutti, compresi i militari della capitanía, aveva adottato un paio di cani randagi ma li lasciava vagare liberi, a rischio che venissero divorati dai giaguari, e di tanto in tanto si faceva vedere nell’unico minuscolo spaccio dell’aldea per comprare sapone o altri generi, alimentari e non, di prima necessità. Praticava quotidianamente la selva, prima con qualche abitante del paese contrattato come guida, poi sempre più spesso da solo, scriveva i suoi libri che pubblicava in Europa, dove era una sorta di celebrità – l’ultimo si intitolava Deserto verde – ma, in sostanza, non aveva più dato grattacapi. Se aveva avuto incontri, nel folto della selva, con indigeni non contattati, Medina Quinn non ne aveva fatto parola, e questo non sembrava da lui, per cui non restava che concludere, diceva il rapporto, che non fosse accaduto nulla di simile, se si escludeva la nota questione raccontata nell’ultimo documentario di Quinn, anch’esso intitolato Deserto verde, e per cui nel fascicolo si faceva riferimento a un altro dossier, che approfondiva dettagliatamente la vicenda. La sorveglianza sull’inquieto, ora non più così inquieto, studioso si era allentata, o almeno era entrata in sonno.

Forse per questo l’invito improvvisamente rivolto da Ian Medina Quinn a Elías Hayes, l’arrivo di questi a Violeta ospite dell’antico amico, e le spedizioni che i due avevano intrapreso nella selva con rinnovato vigore, avevano risvegliato attenzione e sospetti. Quinn doveva aver pensato che l’ex diplomatico Hayes fosse ancora dotato di contatti ed entrature che avrebbero potuto facilitare il suo progetto di istituzione dell’area protetta, aiutandolo a convincere della bontà dell’idea alti esponenti della capitale, magari la stessa ministra delle Foreste, che era stata allieva di Hayes nei corsi che questi per un certo periodo aveva tenuto a Scienze Politiche, indirizzo Relazioni Internazionali, all’Università di Dorada. Per questo, probabilmente Ian Quinn aveva invitato Hayes a vedere per conto proprio cosa stava accadendo – se è possibile vedere una scomparsa, in questo caso la scomparsa dei peraltro invisibili non contattati – sperando di suscitare in lui una risposta emotiva, fondamento di una successiva reazione politica. O forse, semplicemente, una vita come la sua, un’intera vita trascorsa in solitudine – o quasi, pensò Soledad, che aveva già completato più volte la lettura del fascicolo, aveva visto il documentario, Deserto verde, e sapeva di Quinn molto più dell’estensore di quelle note all’epoca in cui erano state scritte – cominciava a pesargli, e come Robert FitzRoy, il comandante dell’hms Beagle decenni e decenni prima, cercava la compagnia di un futuro Darwin nel viaggio verso le sue personali Galapagos, anche se qui a parti invertite. Fatto sta che Elías Hayes aveva prontamente accettato l’invito del suo amico, e pagato una cifra non indifferente – forse esorbitante sarebbe stato un aggettivo più appropriato – per un trasporto privato a Violeta in elicottero. Era stata lei stessa, Soledad Valverde, lo ricordava, ad accoglierlo all’arrivo, dato che l’unico eliporto nel raggio di chilometri era quello militare della capitanía.

A solo poche settimane dall’arrivo di Elías Hayes, lui e Ian Medina Quinn, l’ex diplomatico e l’antropologo, si erano già inoltrati più volte nella selva; e l’ultima volta senza guide, con zaini provviste e tende, diretti a Las Luces per via di terra, il che già di suo era una follia, dato che era molto più rapido e sicuro spostarsi tra i due villaggi per via d’acqua. Las Luces era più all’interno della selva di Violeta rispetto alla riva del Victor Jara, il grande fiume della regione, ma c’era un affluente con sufficiente portata d’acqua, El Infiel, che raggiungeva l’insediamento.

Al villaggio, i due, nonostante la grande esperienza di Quinn, non erano mai arrivati. Da quella spedizione, Hayes era rientrato da solo. Che ne era stato di Ian Medina Quinn? Era rimasto nella

selva, era morto, era stato ucciso? Dagli abitanti di Las Luces, dalle misteriose, forse aliene, luci in cielo che recentemente avevano rinnovato con vigore la propria antica e funesta presenza, dallo stesso Hayes resosi di colpo assassino per un movente ancora ignoto; o dai Victor Jara, i terroristi che ultimamente erano dappertutto e che avevano preso lo stesso nome del grande fiume, forse per segnare la loro appartenenza alla regione, forse per farsi gioco dei funzionari del governo degli Stati Liberi che, nei primi anni dopo la creazione della nuova realtà politica, avevano sparso a mani piene sulla mappa della zona i nomi delle più belle voci del secolo trascorso, assassinate o indotte al suicidio dalle mille dittature del continente, come per farle risuonare di nuovo, finalmente libere. È sempre la stessa musica invece, sembravano dire i Victor Jara scegliendo quel nome, non è cambiato nulla, siete come loro. Forse era proprio ai Victor Jara, che sostenevano di proteggere gli ultimi nascondigli dei non contattati con le armi, che si era unito Medina Quinn, ed era questo che Soledad Valverde, e la squadra di cui faceva parte, dovevano scoprire.

Da quando era ritornato, ed era stato prelevato e accompagnato alla capitanía, da quando era iniziato l’interrogatorio sulle sorti del suo amico, Elías Hayes, però, non aveva fatto altro che ripetere le stesse quattro parole: è diventato pensiero vivente.

Solo questo. Quattro parole, o sette.
Ian Medina Quinn è diventato pensiero vivente.
Come se fosse possibile, come se avesse un senso.
Ian Medina Quinn –

ARTICOLO n. 38 / 2023

“CIECO”: MASSIMO FINI IN LUCE

La stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura

Cieco. È il titolo del libro scritto da Massimo Fini alle soglie del compleanno numero 80. È la confessione –ultima dice lui – di un uomo afflitto da un glaucoma che gli ha tolto progressivamente la vista. È un viaggio dentro l’anima esposta di un giornalista, autore, saggista, che ci vede benissimo.Abbastanza, anche ora, forse proprio ora, per continuare a riflettere su se stesso e sui rilanci che la coscienza innesca e determina. Per certi versi, così da sempre. Mi scuso per l’uso qui della prima persona singolare: conosco Fini da molti anni e sono un suo vecchio ammiratore. Per la cultura e la libertà di pensiero; per l’indipendenza e il coraggio; per l’intelligenza e la capacità – talvolta cocciuta, persino autolesionista – di andare contro “pur di…”. 

E non importa nemmeno trovarsi in linea o per nulla d’accordo con le sue opinioni. Conta la stoffa, la coerenza, la sfrontatezza, la scrittura. Dunque, un maestro. Anticonformista, presente e attivo, peraltro. In luce, ecco, alla faccia del glaucoma. Per me, per chi ama ancora, ha amato moltissimo questo mestiere. Lo scrivo perché l’ho pensato, per l’ennesima volta, uscendo dalla sua casa colma di libri, dove è un piacere chiacchierare – e fumare – condividendo (anche) qualche comune memoria, un’af-fini-tà per me preziosa.

Giorgio Terruzzi: Il libro, dunque. Cieco. Il titolo maschera una ambivalenza. Annuncia una condizione, una fatica. Ma anche uno stato propizio all’indagine. Non solo intima…

Massimo Fini: Nella mitologia greca il cieco è il veggente. Tiresia, non disponendo della vista, va oltre. Però, porco cane, io ci vedevo benissimo ed ero veggente anche con gli occhi in piena funzione.

G.T. Due date: 1985, 1989. Scandiscono i momenti più difficili della malattia. Puoi ricordarli?  

M.F. La prima data coincide con la prima diagnosi, la seconda segna l’inizio della fine, il momento più doloroso. Guardavo il cielo, osservavo le stelle durante una bellissima notte a Capri. Stavo lì con la mia fidanzata e mentre non riuscivo a mettere a fuoco il firmamento, mi resi conto che non avrei più rivisto nulla del genere.

G.T. Questo testo sembra completare un lungo racconto autobiografico iniziato con Ragazzo. Storia di una vecchiaia, pubblicato nel 2007. È come se l’analisi di te stesso, per certi versi narcisistica, per altri illuminante, sia diventata la vera guida, la fonte del pensiero. Utile a individuare un punto di vista. La cecità su questo procedimento, sino a che punto incide? 

M.F. Be’, io non ho fatto altro che scrivere autobiografie. Se penso a Una vita, soprattutto, a Ragazzo, al Dizionario erotico, a Confesso che ho vissuto, trovo testi autobiografici. Il tema riguarda anche la mia opera filosofica, termine da usare tra virgolette. Come scrive Nietzsche, ogni filosofia è una autobiografia. Credo che questo mio modo di essere, dove è pur possibile riconoscere un certo narcisismo, sia abbinato da sempre a una grande capacità di ascolto. Cosa fondamentale, non solo nel nostro mestiere. Nella vita. Nino Nutrizio, uno dei grandi maestri del giornalismo, direttore de “La Notte” diceva: questo è un lavoro che si fa prima con i piedi e poi con la testa. Bisogna uscire, perlustrare, ascoltare. La testa viene dopo, quando si tratta di dare un senso al materiale che hai raccolto. La cecità ha rafforzato questo modo di fare, quindi di pensare e poi di scrivere. Non avendo la vista sei molto più attento a chi parla, a come parla una persona. In particolare alla musicalità. La scrittura è ritmo, come la musica.Ho notato in che modo i grandi autori di canzoni, ad esempio, collocano un termine in un punto preciso proprio in funzione del ritmo. È ciò che cerco di trasferire nella mia scrittura.

G.T. Penso alle tue passioni. Il calcio, le automobili, la velocità come attrazione verso una spericolatezza che profuma di immortalità. Qui, non vedere, significa fare conti più amari?

M.F. Non è solo una questione di cecità. Nel frattempo sono invecchiato e, in aggiunta, ho dovuto attraversare la pandemia in queste condizioni. Non so come sia riuscito a cavarmela. Certo guidare, usare l’auto per me è stato sempre un segno di libertà. Ti annoi, salti dentro l’automobile, raggiungi un paesino attorno a Milano, una gelataia carina ti sorride e la tua giornata in un attimo cambia sapore. Se parliamo di indipendenza il discorso è più complesso. Il termine vale come cifra della mia vita personale e professionale. Ora non è più così. Dipendo. Dalla segretaria, da una fidanzata, se c’è, da mio figlio, dalla mia ex-moglie. Da tutti. Ho bisogno di assistenza e darmi assistenza diventa difficile perché se una persona mi aiuta troppo mi incazzo, se aiuta poco è un guaio. Per fortuna c’è qualcuno che procede con estrema attenzione. Mio figlio e l’amico regista Edoardo Fiorillo che dispone di autentiche capacità sensitive.

G.T. Leggere per scrivere e scrivere per leggere. Sono queste le inibizioni peggiori?

M.F. Detto i pezzi. Poi li leggiamo, correggo la punteggiatura, la forma, poi verifico la pubblicazione. Ma una cosa è dettare, un’altra è scrivere, anche perché da un aggettivo ne viene fuori un altro mentre lavori sul testo. Ho ammesso più volte che per un bel giro di frase sono anche disposto a dare una direzione diversa, a volte quasi opposta, al senso che avevo immaginato per il mio articolo. Del resto, più o meno meritatamente, mi hanno attribuito il Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura, quindi temo molto di perdere la qualità dello scrivere. I miei amici dicono che non è successo, ma sono di parte. Se leggo testi scritti dieci anni fa mi sembrano linguisticamente migliori. 

G.T. Sonno e sogni. Potenziati da questa condizione di cecità?

M.F. Si, certamente. Borges, che come sappiamo divenne cieco, non sognò per tre anni e per questo era assolutamente disperato. All’inizio della malattia il sonno è stato un rifugio. Se dormi, la tua malattia non esiste più. Ma i sogni, talvolta, sono inquietanti….

G.T. Stimolano la memoria, comunque. Penso al racconto dell’estate 1960. Bagni Umberto a Savona. Tutto perfettamente a fuoco. L’hai inserito nel libro per il piacere di ritrovare, da non vedente, ogni dettaglio del passato? 

M.F. Quanti secoli abbiamo impiegato per uscire dall’infanzia? Per uscire dall’adolescenza? Molto tempo. Perché il tempo procede in una progressione particolare. Negli anni della vecchiaia scorre più velocemente mentre le giornate sembrano più lunghe. Meno impegni, molti vuoti. Non so dire se il ricordo assume rilevanza a causa dell’età o della cecità. Walter Tobagi mi aveva soprannominato, con affettuosa ironia, “Passato è bello”: ho sempre avuto un occhio rivolto al passato. Il futuro mi ha sempre fatto orrore. Così, forse, questa precisione fotografica nel ricordare è una inconscia rivincita che mi prendo da non vedente. I dettagli sono importantissimi nel nostro mestiere e ai dettagli bado molto”.

G.T. In Cieco racconti del primo amore. Poi citi De André, Le passanti. Rinunciare al corteggiamento, al gioco di sguardi è insopportabile?  

M.F. È devastante. Passeggiando sento voci di donne, di una ragazza. Intuisco una freschezza, immagino un aspetto fisico. Ma il gioco di sguardi mi è vietato. Se a questo aggiungiamo che sono un voyeur compulsivo, misuriamo l’entità della fregatura. È vero, come dice De André, che lo sguardo di un attimo poteva valere una vita e invece non ne abbiamo fatto nulla. Ma è anche vero che alcune storie d’amore sono nate proprio da uno scambio di sguardi. Nel 2015, appena terminato di scrivere Una vita pensai alla Recherche di Proust. La morte al termine della stesura del testo. Pensai, persino augurandomelo, potesse accadere a me la stessa cosa. E comunque dichiarai di non voler più scrivere. Mi arrivò una lettera inviata da un giovane giornalista, cieco dalla nascita, che mi invitava a cambiare idea. Gli risposi con delicatezza. Ma se avessi dovuto farlo “finianamente” avrei dovuto scrivere: certo, un cieco può fare moltissime cose, tranne vedere”. 

G.T. Scrivi: felicità è una parola proibita che non dovrebbe mai essere pronunciata. Però poi la usi a proposito di te stesso di fronte al mare…

M.F. Il mare per me è sempre stato taumaturgico. Per noi che siamo nati al di qual delle colline, come canta Paolo Conte, come scrive Cesare Pavese, il mare è mitologico. Da ragazzo dopo una sbronza pazzesca mi bastava cacciarmi in acqua per uscire come se non avessi bevuto. Il mare è importante anche in questa mia situazione. Non vorrei fare paragoni blasfemi ma perché Nietzsche a Rapallo si consolava accendendo falò sulla spiaggia? C’erano solo tre colori: l’azzurro del cielo, il blu del mare e il verde cupo delle colline. Sono toni che, a fatica, riconosco ancora e quindi per me è come sentirmi sano. Soprattutto in quell’ora sospesa che sta tra il giorno e la notte. Tempo sospeso, appunto. Di notte ho scritto tutti i miei libri. Lavori dentro uno spazio infinito, silente. Il tempo per me ha un valore enorme e il vero peccato è sprecarlo. Quindi, per una facile conseguenza, confesso di detestare quelli che vedono e non sanno usare la propria vista.

G.T. Scrivi della stanchezza del vivere. È tutto vero o è una mezza bugia?

M.F. Purtroppo è una verità. Questo libro è una sorta di De Profundis. Ho avuto poco tempo fa una segretaria giovanissima e molto capace. Disse: non so se augurarti di vivere più a lungo sia un buon augurio. Il paradosso dei paradossi è che sono cieco ma fisicamente sanissimo. Mi sono fatto un’idea: che questa malattia mi abbia protetto dalle altre.

G.T. Infatti, di quell’ “anarcoide russo mezzo pazzo”, come ti definì Giorgio Bocca molti anni fa, vedo ancora delle tracce…

M.F. Finché sono vivo spero che qualche traccia anarcoide rimanga. Io non sono una persona duttile. È un difetto e al tempo stesso una forza. Sono rimasto fanciullescamente lo stesso, nonostante tutte le esperienze attraversate. Sono ancora piuttosto ingenuo di fronte alla vita, anche se a questo punto chiunque mi può fregare. Mi piace ancora catturare l’attenzione altrui attraverso un processo mentale. Il fatto è che una persona devi riuscire a catturarla e questa attività è ormai compromessa. Resta la parola…con la parola me la cavo ancora.

G.T. Insomma, potrà arrivare un altro libro, domani o dopo. In fondo, che ne sappiamo del nostro futuro?

M.F. Noi pensiamo che il futuro sia lineare. Il mondo occidentale sembra destinato al collasso, basato com’è sulla crescita esponenziale. Ma in realtà non funziona così, accadono fatti che non possiamo immaginare. Nella vecchiaia c’è sempre l’imprevisto in agguato. In negativo molto spesso. Ma può essere anche in positivo. Un altro pensiero mi viene in mente: spesso da un male può nascere un bene. Quando castrarono il mio Cyrano dalla televisione, decidemmo di trasferirlo in teatro e ci divertimmo moltissimo. Credo che il tema sia legato alla vitalità residua. Comunque, devo stare attento perché quando le cose vanno bene sono in allarme. Temo una ritorsione, una punizione. Sono agnostico ma, come diceva Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Non riusciamo mai o del tutto a uscire dalla cultura cattolica. 

G.T. Cosa sei contento di non vedere?

M.F. Di non vedere me stesso che invecchio, allo specchio.

ARTICOLO n. 37 / 2023

TRA ARTIFICIO E ARTIFICIO

A ripensarci sembra passato molto più tempo, forse perché l’interesse è durato pochi giorni, durante i quali, tuttavia, pareva non esistesse nient’altro. 

Era la fine d’autunno, un autunno mite che sarebbe diventato un inverno altrettanto mite; telegiornali, quotidiani, settimanali riproponevano le immagini di un uomo risalenti a un periodo estivo, immagini che suggerivano l’allestimento della felicità accaduta in estate.

L’uomo era ritratto spesso da solo. In una fotografia era pronto alla guida di una cabriolet. La fotografia era stata scattata da una posizione poco al di là dello specchietto retrovisore destro. La cabriolet era ferma in un parcheggio, l’uomo sorrideva e guardava davanti a sé portando le nocche della mano destra al mento incorniciato dalla barbetta chiara; i capelli sembravano di un biondo naturale, eredità degli anni d’infanzia; l’uomo indossava una maglietta blu della stessa tinta del sedile; due palme erano riflesse, rimpicciolite, nel parabrezza pulitissimo. Poteva essere la scena pubblicitaria di una qualsiasi merce: shampoo, auto, finanziamento a tasso agevolato necessario per acquistare un desiderio. 

E invece era la vita dell’uomo.

In altre fotografie l’uomo era in barca, navigava in un punto del Mediterraneo, la Grecia o l’Italia; erano selfie in costume, gli occhiali da sole con una montatura bianca, una catenella d’oro scendeva dal collo, il crocifisso d’oro adagiato sul petto; capitava che qualcuno scattasse le fotografie in barca, e allora l’uomo appoggiava una mano al timone; sullo sfondo, un’isola o un promontorio, il paesaggio allontanato da qualsiasi tentazione omerica: il mare blu, ancestrale, certo, ma la schiuma bianca a poppa era abbinata alla camicia altrettanto candida, le maniche arrotolate, i bermuda panna.

A volte l’uomo era in compagnia della donna con la quale aveva una relazione. Alcuni giornali hanno evidenziato la differenza d’età inserendola tra parentesi – (9 anni), (nove anni) – per sottolineare ciò che, di solito, è trascurato qualora un uomo abbia nove anni più di una donna. 

La donna ricopriva un’importante carica nel Parlamento Europeo; l’uomo, invece, lavorava come assistente di un parlamentare europeo. 

Nelle fotografie pubblicate, loro due, assieme, non comparivano mai durante le rispettive attività al Parlamento Europeo. Le immagini privilegiavano la vita quotidiana. Un po’ di vacanze, un selfie di coppia nel deserto o forse su una spiaggia così sabbiosa da sembrare un angolo di deserto; e poi lo shopping, la foto di una conversazione effettuata sui gradini di una scala, l’uomo stringeva il sacchetto contenente – a giudicare dal marchio impresso sul sacchetto – un costume da mare di alta qualità. La maison, fondata a Saint-Tropez nel 1971, “crea pezzi estivi per ogni istante e per ogni personalità. Che si tratti di costumi da bagno o short chic, questi costumi da uomo, di alta qualità esprimono sempre il motto senza tempo della maison: lusso, sole e libertà”.

Lusso, sole e libertà. In quest’ordine. Adesso, dopo alcuni mesi di prigione, l’uomo e la donna sono agli arresti domiciliari. L’uomo indossa il braccialetto elettronico, poiché, oltre alle fotografie della cabriolet, della barca, delle vacanze, dello shopping, sono arrivate le fotografie di valigie piene di soldi, di tavoli colmi di banconote suddivise a seconda del taglio: 10, 20, 50 (la maggioranza), 100, 200 euro. E tuttavia qui l’interesse non è investigativo e giudiziario, ma per un altro selfie dell’uomo. Un selfie vicino al punto in cui ho edificato l’immaginario luogo letterario di Cortesforza. 

Doveva essere pomeriggio. A giudicare dagli alberi carichi di foglie verdi sullo sfondo destro dell’immagine, è probabile che fosse un pomeriggio primaverile, e a giudicare dalla luce, è probabile che fossero le 17:30 di un pomeriggio d’aprile, e a giudicare dalla quantità di persone lungo la stradina agricola costeggiante il naviglio – stradina agricola che è considerata, in modo improprio, pista ciclabile – è probabile che fossero le 17.30 di una domenica d’aprile, una domenica d’aprile dalla meteorologia variabile. 

L’uomo indossava un maglione azzurro, di cotone, con lo scollo a V e un marchio indistinguibile a sinistra, poco al di sopra del cuore. L’uomo ha scattato il selfie restando sul bordo della stradina agricola, lungo la linea bianca continua. Alle spalle dell’uomo, un campo appena seminato, e in cielo, una nuvola gigantesca sopra i capelli biondi mossi dal vento. Il lato destro dell’immagine era riempito dal naviglio: in quel punto l’acqua è bassa e scorre placida. La vegetazione lungo l’argine era riflessa sulla superficie. Sfuocati, lungo la stradina agricola, a una cinquantina di metri alle spalle dell’uomo, alcuni passanti ignari, anonimi, una macchia finita sui giornali di tutto il mondo. La luce, nonostante la nuvola enorme nel cielo, consolidava la sensazione di un’esistenza serena, domenicale. E per quanto l’uomo fosse lo stesso delle foto in barca o alla guida della cabriolet, qui, nel selfie di Cortesforza, sembrava più giovane, un giovane uomo carico di promesse, quasi ragazzo, che voleva farsi un selfie attraversando i luoghi in cui è nato e cresciuto, luoghi così diversi da Bruxelles, dal Parlamento Europeo, dal timone di una barca nel Mediterraneo. 

Nel 2007, quando ho inventato Cortesforza, ho pensato a Elio Pagliarani. Come è noto Elio Pagliarani (1927-2012) era nato a Viserba, a pochi chilometri da Rimini. Ce lo ricordava lui stesso, nel testo Pagliarani Elio, pubblicato in Autodizionario degli scrittori italiani (Leonardo, 1990), ripubblicato nel 2019 da Il Saggiatore, in Tutte le poesie (1946-2011), a cura di Andrea Cortellessa. Leggiamo a pagina 475: «Romagnolo di nascita (…) Nel frattempo però il suo paese natale (Viserba di Rimini, 1927) non c’è più, è scomparso (…) Adesso non c’è più soluzione di continuità tra Rimini e Viserba, è tutto un Rimini Nord, tutto alberghi e pensioni, una zona balenare un po’ più popolare di Rimini centro, con ignoranza e presunzione rubiconde di benessere». 

Molti anni fa, ripetevo è tutto un Rimini Nord se mi smarrivo in svincoli caotici, o se infilavo le mani dentro lo zaino, alla ricerca, vana, di qualcosa; e allora è tutto un Rimini Nord, ovvero è tutto uno svincolo, una bretella, una rampa di raccordo, una rotatoria indistinta dalla quale è impossibile uscire.

Ho cercato la mia Rimini Nord sapendo che prima o poi sarebbe stata distrutta da una delle molte autostrade e superstrade lombarde. 

Cortesforza, plastico immobiliare, ridimensionamento della Storia – minuscola di Sforza unita a una corte inesistente – e luogo smemorato, di transito, luogo interstiziale di una comunità posticcia, appartenenza nello sradicamento; Cortesforza e la casa, unico bene, la casa e nient’altro, luogo nel quale non serve nemmeno più il desiderio della merce, poiché il luogo è diventato merce.

Ora, dentro quel luogo immaginario, la realtà sta per arrivare sotto forma di superstrada. La realtà asfalta la letteratura.

L’ubicazione del beneuscito per Einaudi nel maggio 2009, è il libro ambientato a Cortesforza. Dopo la seconda edizione, il libro non è più stato ristampato, da quattordici anni è reperibile solo in ebook. Forse, per essere coerente con quanto accadrà a quel luogo immaginario nella realtà, dovrei interrompere la pubblicazione anche degli ebook, in modo che Cortesforza scompaia.

In attesa di essere distrutto, il luogo immaginario di Cortesforza sarà ancora per qualche tempo un’area topografica precisa, la zona del selfie dell’uomo, il selfie finito su tutti i media d’Italia e del mondo. Per Cortesforza, in particolare, ho pensato a un campo ubicato a metà strada tra il condominio in cui ho vissuto – da bambino e ragazzino – e il ponte dove Michelangelo Antonioni ha girato, nel 1950, la splendida scena di Cronaca di un amore, durante la quale i personaggi interpretati da Massimo Girotti (Guido) e Lucia Bosè (Paola) progettavano l’omicidio del marito di Paola, laddove alcuni operai lavoravano, pochi metri più in basso –  a un centinaio di metri di distanza – all’interno del naviglio in secca. 

Il giorno in cui l’uomo si è fatto il selfie, il naviglio non era in secca. L’irrigazione di questa zona è un sistema di chiuse progettato, tra gli altri, da Leonardo da Vinci. Ma il reticolo di rogge, fossati e fontanili, risale all’opera dei monaci cistercensi francesi del XII secolo, le cosiddette marcite, terreni irrigati in permanenza: la temperatura dell’acqua protegge l’erba, che cresce anche nei mesi invernali, assicurando cibo fresco per gli animali.

I campi sono delimitati secondo un ordine millenario, costituito da filari di pioppi e da coltivazioni stagionali. I filari degli alberi, disposti lungo i fossati, appartengono a un criterio, a una trama, con al centro le cascine o ciò che resta delle cascine, le stalle dei pochi animali allevati, i fienili, le coltivazioni. 

L’armonia ereditata si percepiva alle spalle dell’uomo, ma tutto ciò che era alle sue spalle nel selfie già da molti anni è destinato alla distruzione, per trasformare quei luoghi agricoli in una superstrada diretta all’aeroporto di Malpensa; progetto ventennale eppure desueto, che tuttavia distruggerà un millennio di civiltà umana, distruggerà la terra per sostituirla con altri capannoni, altri centri commerciali, il vero obiettivo della superstrada: ciò che nella spietata lingua burocratica italiana, intrisa di gergo aziendale, diventa “valorizzazione massima delle aree infrastrutturali, comprese le aree connesse”.

Chissà come parla l’uomo del selfie a Cortesforza, quali sono i tic verbali, le parole abituali, cosa pensa della superstrada e della zona in cui è nato e cresciuto, la zona del selfie a Cortesforza. Di lui si conoscono soltanto le fotografie. Non ricordo un’intervista, una dichiarazione ai cronisti dopo un interrogatorio. Del resto, prima delle disavventure giudiziarie l’uomo esisteva nell’anonimato mediatico come assistente di un parlamentare europeo. L’uomo era uno di quei collaboratori senza nome, quelli che si notano appena al fianco dei politici durante le riunioni, collaboratori che suggeriscono qualcosa accostandosi all’orecchio. E tuttavia, l’uomo esisteva nel piccolo ecosistema del Parlamento Europeo in quanto fidanzato della donna che ricopriva l’importante carica in quella istituzione; forse, la disparità di posizione all’interno della coppia ha autorizzato i media italiani a dare, come sempre, il peggio di sé, senza che nessuno avesse qualcosa da dire, poiché le medesime dinamiche linguistiche, per molti decenni, sono state applicate alle donne, e allora le guardiane e i guardiani del linguaggio contemporaneo hanno taciuto, a proposito di: “il bel fidanzato”, “il biondo 35enne”, “il biondo 35enne istruttore di vela”, “scopatore inflessibile”, “Mister Europarlamento”, “il surfista dell’Idroscalo”, colui che “sogna di comprarsi una barca da emiro”. 

Ma questo appartiene alla tristezza passeggera italiana, sempre pronta a farsi ammaliare da una nuova tristezza, tristezza nazionale che distrae. 

Pensiamo invece alla tristezza definitiva, la fine di questa piccola parte del pianeta.

«Il popolo italiano è sempre stato un grande costruttore di strade perché è un popolo a tendenza universale. Le strade consolari che partivano da Roma e arrivavano fino agli estremi limiti del mondo conosciuto erano le strade sulle quali correva la grande civiltà. Esaltiamo il lavoro. Esaltiamo coloro che lavorano col braccio. Tutto il nostro Paese deve diventare un cantiere, un’officina». 

Così parlava Mussolini, in un giorno di marzo, nel 1923. Subito dopo aveva affondato il piccone nel terreno della campagna di Lainate, in modo che i fotografi potessero ritrarlo. Era la prima zolla del cantiere autostradale della Milano-Varese. 

Dopo il gesto dimostrativo, quattrocento sterratori armati di badili e picconi avevano iniziato a lavorare, i cavalli avevano trainato rimorchi carichi di frammenti di pietra provenienti da rocce un tempo compatte, quasi indomabili, che sarebbero divenute grani del catrame: era nata così l’Autostrada dei Laghi, considerata la prima autostrada del mondo.

È passato un secolo, l’inaugurazione di un’autostrada o di una superstrada contemporanea non è molto diversa da quella del settembre 1924. La banda suona l’inno nazionale. Le forbici d’oro tagliano il nastro tricolore. I fotografi urlano, presidente, per favore, si giri da questa parte, presidente, grazie! 

Eccolo, giacca e cravatta e casco da operaio dei cantieri, il politico contemporaneo, sottomesso alla retorica del nuovo e alla lingua del passato (“Tutti voi che siete qua, autorità tutte”) con l’aggiunta di un surrealismo deresponsabilizzante (“È l’asfalto che passo dopo passo è andato avanti”) e di anglicismi prelevati dalle aziende (“project financing”)

E così, a parte l’imbellettamento anglofono, le strade comunali e provinciali sono punteggiate di buche o rattoppi frettolosi, come se il potere, anche quello locale, attendesse una grande opera per occultare incuria, indolenza, incapacità.

Le grandi opere di questi anni italiani sanciscono il ritorno alla monumentalità che bilancia, in apparenza, la spinta inesorabile verso il frammento, la disintegrazione, la scomparsa. La massima visibilità, o niente. Chi ha voglia di occuparsi della manutenzione dell’ordinario, del piccolo? La grande opera è il potere esposto, il marchio, il logo dell’autorità. La grande opera, anche qualora sia banale ed equivalente ad altre, è riconoscibile, ma è sempre una riconoscibilità di cui si perde il senso originario. La grande opera rimanda, come tutti i marchi, a sé, conquista l’immaginario, la parola, e ammutolisce il resto. 

La superstrada anacronistica interesserà il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud Milano. La superstrada voluta dai politici – locali, regionali, nazionali – che più di tutti ripetono parole come radici, valori, tradizioni. È la lugubre destra italiana. Ma l’altra parte politica? L’altra parte politica, che amministra il Comune di Milano, dovrebbe occuparsi anche della Città Metropolitana di Milano coinvolta dal progetto della superstrada, e invece è disinteressata a tutto ciò che accade appena al di là dei confini cittadini, e si preoccupa che le auto non entrino in città per gratificare il sogno progressista del proprio elettorato: credere di trovarsi in una metropoli davvero internazionale.

E così, mentre il Comune di Milano ipotizza un limite di velocità di trenta chilometri orari, e pubblicizza la nuova edizione di Milano Green Week, “una manifestazione bella, ricca, partecipata (…) una manifestazione di play street sul modello del Parking Day”, ecco che a quindici chilometri dal confine comunale, nella Città Metropolitana di Milano, continuano gli espropri dei terreni delle aziende agricole, gli espropri di ettari ed ettari da asfaltare per la superstrada e ciò che seguirà: transito di camion e furgoni e auto che peggioreranno, se possibile, la già pessima qualità dell’aria più inquinata d’Europa; aria che peggiorerà anche dentro il capoluogo, poiché l’aria, per fortuna, non conosce confini.

È una visione molto simile a quella di Jovanotti. In un post su Facebook, del 10 agosto 2022, Jovanotti ha risposto a una lettera di Mario Tozzi, il quale, con toni molto accondiscendenti, aveva sottolineato alcuni aspetti negativi del Jova Beach Party. «Le spiagge dove suoniamo sono luoghi popolari sempre pieni di gente (…) fosse per me la spiaggia di Budelli (…) e simili andrebbero proprio rese inavvicinabili, tipo Gioconda al Louvre, guardare non toccare».

Ha ragione Jovanotti nel dire che sono luoghi popolari, anche se nessuno di quei luoghi sostiene, di solito, cinquantamila persone pigiate, che saltano e ballano in poche ore di concerto, senza contare il lavoro invasivo di preparazione e smantellamento, prima e dopo l’evento. 

È ovvio, un concerto di Jovanotti non è devastante come una superstrada.

Ma quella di Jovanotti – l’intoccabilità dei luoghi Gioconda a discapito di altri – è la stessa concezione contemporanea del paesaggio alla milanese, che propone un nuovo piatto, anzi, piattino: zolla alla milanese – biologica – coltivata all’interno dei confini comunali (meglio ancora se all’interno dei Bastioni).

Il problema non è soltanto l’uso dell’automobile, dei furgoni, dei camion, non è soltanto gli aerei che volano in questo cielo. È qualcosa di più profondo. L’occultamento del paesaggio, ciò che circonda la figura umana. 

C’è una centralità assoluta del personaggio ritratto, ma il personaggio contemporaneo è isolato dal contesto, si accontenta di essere il protagonista di un monologo che ha la consistenza di un coro stonato, in cui ognuno parla per proprio conto, diventando comparsa, rumore di fondo, come è accaduto all’uomo del selfie di Cortesforza.

Oggi è l’ultimo giorno di secca nel naviglio. Tra poche ore l’acqua tornerà, con una portata molto minore a causa della siccità, ma tornerà, come l’uomo del selfie di Cortesforza, quando finirà di scontare la pena. 

E tuttavia, oggi il naviglio è ancora in secca. Una giovane coppia, a una trentina di metri da me è appoggiata al parapetto di cemento. Apprezzo il loro impulso per nulla sentimentale – chissà se davvero consapevole o casuale – di sbaciucchiarsi presso l’incrocio di due canali vuoti. 

Il ragazzo estrae dalla tasca uno smartphone, i due si fotografano abbracciati, escludendo tutto il resto, il punto in cui arriveranno la superstrada e la campata del ponte di seicento metri che squarcerà Cortesforza. Si guardano nel piccolo schermo, poi fissano per qualche istante il vuoto, la realtà. Forse, liberate dall’immagine, le carezze della coppia racchiudono una speranza più forte dell’immediata gratificazione personale. 

«Predicano sempre il molteplice che sta alle loro spalle», avrebbe detto Zanzotto. Un tempo avrei detto, certo, la ricerca di un equilibrio tra artificio e natura.

Ora non più. È troppo tardi per quello.

La ricerca di un equilibrio. Tra artificio e artificio.

ARTICOLO n. 36 / 2023

C’È CHI DICE NO

Leggo la rassegna ancora distesa a letto, appena sveglia.

Seleziono i giornali principali escludendo sapientemente quelli che so che mi darebbero mal di stomaco fin dalle prime ore del giorno.

Controllo prima la politica, poi la cronaca, poi gli esteri e infine la sezione cultura.

Spulcio tra una testata e l’altra e cerco di vedere come le stesse notizie vengano affrontate in modi differenti.

Mi soffermo sempre sulle interviste. Mi piacciono le interviste.

È a tutti gli effetti una deformazione professionale: da quando ho iniziato a farle, a porre domande ai miei ospiti in radio, nelle presentazioni e a Basement Café mi sono ritrovata spesso a curiosare tra le domande degli altri, cercando di leggere tra le righe i non detti degli intervistati, cercando anche – perché no – alcuni spunti per i prossimi lavori.

Negli ultimi tempi – mesi? anni? orientativamente dall’immediato post-lockdown, ma potrebbe essere iniziata prima, questa tediosa tendenza – noto sempre più interviste simili tra di loro.

Sono quelle rivolte a piccoli, medi e grandi imprenditori che dovrebbero servire per analizzare lo stato di salute del mondo del lavoro italiano.

Queste interviste – tutte molto brevi, tutte molto compatte tra di loro – sono corredate da titoli che suonano come accorati appelli alla popolazione: “Offro tot soldi ma nessuno vuole lavorare”.

Sottotitolo, opzione uno: “Il reddito di cittadinanza ha ucciso l’entusiasmo”.

Sottotitolo, opzione due: “I giovani preferiscono divertirsi o stare sul divano”. A volte i due possono essere fusi in una sola frase del tipo: “Il reddito di cittadinanza ha reso i giovani pigri”, crasi tra le preferite dai maggiori quotidiani nazionali.

Nel corpo dell’intervista, gli imprenditori disperati raccontano di quanto prima (unità di tempo non chiarissima, potrebbe riferirsi al tempo del boom economico come al pre-Covid) non fosse così, come prima le persone non si tirassero dietro davanti alla possibilità di lavorare anche a costo di spaccarsi la schiena.

Subito dopo questo o tempora, o mores, gli imprenditori del caso (si va dal proprietario di un pastificio a gestori di locali, ristoranti, bar, stabilimenti balneari) raccontano sempre quanto sarebbero disposti a pagare i lavoratori.

Ho letto che un cuoco avrebbe rifiutato 63mila euro lordi, di bagnini che avrebbero detto no a tremila euro al mese, di camerieri e cameriere impossibili da trovare a 1600 euro contrattualizzati.

Nei commenti a questi articoli si scatena dunque sempre un incontrollabile panico generazionale.

Chi è nato durante il boom economico non comprende la svogliatezza dei giovani, chi ha lavorato negli anni ’90 non capisce perché questi ragazzi siano tutti così viziati, noi Millennials, invece, sorridiamo sornioni.

Già, perché mentre i nostri genitori godevano del boom economico e di un ascensore sociale in pienissima attività, noi abbiamo capito subito che le cose erano due: lacrime nostre o lacrime nostre – scusa, Elodie.

Dopo due crisi economiche vissute sulla nostra pelle, dopo aver studiato molto più di qualsiasi altra generazione precedente alla nostra, ci siamo ritrovati con un pugno di mosche in mano, ascensore sociale murato, lavori sottopagati e la falsa promessa di un roseo futuro per chiunque avesse aperto una partita iva – spoiler: non fatelo.

Abbiamo quindi imparato ben presto a riconoscere le bugie sul mondo del lavoro, quando queste ci vengono raccontate.

Siamo la generazione con più lavoretti saltuari mai esistita, siamo stati ovunque: dai social alle cucine, dagli uffici alle vigne, dai bar agli studi in cui ci facevano fare stage non retribuiti in vista di future assunzioni che non sarebbero mai arrivate, dalle università allo spaccio di droga per riuscire a pagare un affitto. 

Per questo le parole degli affranti, inconsolabili imprenditori ci suonano come le scuse di Pinocchio dopo esser scappato con Lucignolo verso il paese dei balocchi.

Sappiamo infatti che il famoso contratto che prometterebbe 1600 euro per una settimana lavorativa di 48 ore nell’HORECA con un giorno di riposo nasconde delle zone grigie non trascurabili.

Innanzitutto, la questione straordinari: nei pub, nei cocktail bar e nei ristoranti è difficilissimo calcolare le ore extra effettuate, e solo rarissimamente queste vengono pagate. Subito dopo gli orari: l’imprenditore dell’intervista – che gestisce un pub – dovrebbe sapere che chi fa il lavoratore notturno non ha una socialità (lavorando ogni sera tranne una – il lunedì, che in Italia è la chiusura dei cocktail bar e di quasi tutti i ristoranti – non esistono aperitivi con gli amici, le cene fuori, le serate sul divano, il cinema, il teatro, la birra in piazza, gli appuntamenti romantici), non ha facilità nell’accedere ai servizi più basilari (banca, posta, palestra, spesa, medico, nido, parrucchiere, dentista, centri di analisi ASL, determinati negozi aperti solo al mattino) e non ha garanzia di non essere esente da ore extra durante il giorno (gestione di fornitori, lavanderia, frutta, carico e scarico merce, aperture straordinarie e varie ed eventuali vengono tutte svolte in diurna). 

Perciò, in un momento storico di inflazione alle stelle, crisi economica, affitti raddoppiati rispetto ai primi anni 2000, con 1600 euro che in busta paga diventano poco meno di 1300 per un totale di 8,33 euro l’ora, non se ne voglia a male, questo buon samaritano, ma a noi ci scappa proprio da ridere. 

Se vent’anni fa con uno stipendio di questo tipo potevi affittare una bella stanza o un monolocale, oggi, nella stragrande maggioranza delle città italiane, puoi permetterti un posto bici nel cortile condominiale e le spese per le bollette di luce e gas. 

Simile ma a tratti più inquietante è il discorso per il povero bistrattato cuoco che avrebbe rifiutato i 63mila euro del contratto sopracitato.

Leggendo l’intervista a Gabriele Cartasegna – direttore del Capac di Confcommercio – viene fuori che questa offerta sarebbe stata fatta a uno chef appena formato.

Oltre alla puzza di bufala – non il formaggio, scusate il gioco di parole non voluto: stipendi come quello millantato dal direttore del Capac li vedono gli executive chef di alto rango, non cuochi appena formati – evidentemente a Cartasegna sfugge quanto sia snaturante e alienante la vita di una brigata di cucina, con orari impossibili, caldo micidiale, turni serratissimi, sforzi fisici costanti e una media di 12 ore lavorate al giorno, nonostante il tetto massimo settimanale sia di 48.

Non mi stupisco dunque se negli ultimi due anni il 30% della forza lavoro impiegata in bar e ristoranti si sia data alla fuga insieme agli altri grandi sfruttati del terziario, ovvero gli stagionali: in condizioni di lavoro prive di tutela, prive di rispetto e spesso prive di legalità (il famoso mezzo stipendio in busta paga e l’altro mezzo in nero in busta di carta) perché fare dei lavori che per quanto magnifici ci facciano rimanere poveri e per giunta privi di una qualsivoglia vita sociale?

La risposta è logica e davvero banale, ovvero: per nessun motivo. 

Soprattutto in un’epoca in cui per vivere servono ben più di 1200 euro in busta paga: 800 vanno in affitto, gli altri in bollette, non ci vuole Pitagora per capire che in questo momento storico uno stipendio del genere sia davvero anacronistico.

Eppure ai giornali piace strizzare l’occhio a Confcommercio e Confindustria, leccando un po’ di culi ai piani alti, pubblicando l’imprenditore che piagnucola perché i giovani non hanno più voglia di sporcarsi le mani.

Ma i giovani hanno ben più consapevolezza della situazione in cui versano i lavoratori e il mercato.

Sicuramente ben più di chi ha ereditato aziende o soldi dalle generazioni precedenti.

La morte del settore terziario, ricchissimo di lavori meravigliosi come quello del bartender, di chi serve in sala, di chi lavora nelle brigate di una cucina, sta morendo non per colpa dei lavoratori, ma per chi lo ha svenduto rendendolo un luogo inospitale.

Ma il vecchio adagio dei tempi che, signora mia, non sono più quelli di una volta, i giovani sono tutti scansafatiche, sarà la droga, guardi che capelloni, è un format funzionale e brevettato per non ascoltare i giovani, che del lavoro dovrebbero essere i protagonisti. 

Silenziando i giovani, screditando la loro professionalità e, di conseguenza, i loro sogni e bisogni, i nostri eroi di Confindustria e Confcommercio non dovranno muovere un dito. 

Già, perché in tempo di post-pandemia e con un tasso di povertà alle stelle, per ogni rifiuto a contratti di merda ci saranno almeno due persone che non possono permettersi di rifiutare quelle condizioni.

E questo perché il mercato del lavoro si nutre da sempre della manodopera dei più poveri con questi trucchetti da banditi e ladroni che permettono ai salari di rimanere invariati: tanto basta scavare nelle classi sociali sempre più povere e sempre più sole.

Per questo mi viene da dire – non ai cravattoni con la lacrima facile, ma ai giovani che sognano un futuro migliore – che, fin quando sarà possibile, per quanto vi possa essere possibile, rifiutate le proposte di chi gioca sui vostri diritti, tempo, energia.

La mia generazione è collassata sotto queste false promesse, mangiata e divorata da sciacalli che diventavano sempre più ricchi mentre noi non riuscivamo a mettere da parte neanche due euro.

La mia generazione, quella del lavoro in nero e dei voucher INPS, ha guardato passivamente a tutto questo, rimanendo inerme mentre ci levavano ogni cosa promettendoci però il mondo, per farci rimanere buoni, dei bravi schiavi.

Sono orgogliosa ogni mattina quando vedo le reazioni dei social media ai piagnistei dell’imprenditore di turno, perché vuol dire che il futuro è sempre meno fesso di noi, dei nostri fratelli più grandi e pure di quelli che abbiamo sempre chiamato geni, ovvero i baby boomer.

In questa giornata dal valore così prezioso che stiamo svendendo (guardate come si è ridotto il concertone del Primo Maggio a Roma: sembra Sanremo, ha perfino gli stessi sponsor) mi viene da dire bravi voi, che non vi fate infinocchiare dal sistema.

E ai miei coetanei vorrei ricordare che cosa eravamo e siamo ancora oggi: se abbiamo imparato una cosa dalle generazioni precedenti è il non fare come loro hanno fatto con noi. Perciò ascoltiamo la generazione Z, affianchiamola nelle giuste battaglie che riguardano il lavoro e il clima – che vanno di pari passo – e vi prego. Ve ne prego. Non diventiamo i prossimi che frignano dalle pagine di un giornale.

Il lavoro è un diritto, ma la dignità lo è ancor di più.

Tolta la nostra che ormai è andata in malora, garantiamola a chi verrà dopo di noi interrompendo questa catena di odio generazionale che ha creato solo nuovi schiavi di nuovi padroni.

Capisco solo oggi che quelle lacrime di coccodrillo che leggo ogni mattina dalle pagine dei giornali hanno un nome ben preciso: quel nome è ricatto.

E sono davvero fiera che nessuno, dopo noi Millennial, ci stia più cascando.

ARTICOLO n. 35 / 2023

NON SPARIRÒ COME LILA

A proposito de "L’amica geniale"

Pubblichiamo un’anticipazione dal libro di di Marina Pierri, Lila. Attraverso lo specchio (Giulio Perrone editore) da oggi in libreria. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

Cammino avanti e indietro su corso Vittorio Emanuele: il salotto buono di cui ogni città è provvista. Cammino tra le palme che grondano semi marrone scuro dalle bisacce nere. È mezzogiorno e devo salire da mio padre. Dobbiamo pranzare assieme, come sempre facciamo quando torno a casa, a Bari. Ma non riesco. Mi siedo su una panchina. Mi alzo. Mi inerpico sulla salita Miramare dove andavo a limonare con il mio ragazzo nell’ultimo anno di liceo. Fa freddo, o forse fa caldo, non mi ricordo. I miei genitori sono separati da quando sono piccola e a oggi, a quarantadue anni, nelle visite frequenti alla mia città natale vado e vengo, vengo e vado, da due appartamenti diversi. Casa mia, o almeno le mura cui attribuisco quello specifico significato, è a Milano. 

Sono Elena Greco: fuggo di casa a diciotto anni. Sono Raffaella Cerullo: resto.
Sono Marina Pierri e sto ascoltando in cuffia il quarto volume de Lamica geniale, da cui non riesco a staccarmi anche se è ora di pranzo, la pasta si raffredda e io non riesco a citofonare per farmi aprire, perché non riesco a smettere di ascoltare.

Lila ha perduto sua figlia. All’improvviso, la bambina non c’era più. Nunzia detta Tina, quasi una crasi del nome delle bambole di Lila e di Lenù quando erano piccole, Nu e Tina – oggetto di un potente incantesimo di inabissamento – è svanita. Tina, bambola viva, è stata inghiottita dal ventre del rione. Ora pure lei riposa nello scantinato dove dormono le Ombre. 

Sto male per Lila.
Lila mi è entrata dentro e forse serve un esorcismo. Questo libro è il mio esorcismo.

Sulla salita Miramare, mentre ascolto, gli occhi che vanno da tutte le parti, mi ricordo la saliva dei baci di diciottenne; la violenza dell’essere diciottenne e la violenza con cui ricercavo la lingua del giovane uomo androgino, assai bello, che mi aveva intossicata e, poco più tardi, mi avrebbe abbandonata. Per tornare, sì, certo, ma solo dopo avermi regalato la mancanza. Da qualche anno si è sposato e si è aperto un negozio di tè qua vicino. 

Conto i minuti che restano alla fine dell’audiolibro, il quarto volume, Storia della bambina perduta, e sono troppo pochi. 

Nel documentario, che ho assai apprezzato, Ferrante Fever, Elizabeth Strout dà la misura di questa sensazione: allora si esce, e si esce così, dal labirinto della tetralogia? Quando si arriva ai confini del dedalo, diventa chiaro che non ci sarà alcun epilogo edificante per Lila. Non sarà possibile un’inversione delle circostanze. Non nel poco tempo che rimane. Nessuno spazio per un lieto fine. So bene che a sparire finirà per essere Lila stessa, e lo so perché è così che L’amica geniale inizia, con la sua scomparsa. Con la sua mise en abyme, cioè l’inabissamento programmatico che informa l’intera tetralogia. Quando la conosciamo, e non uso il plurale a caso perché questa esperienza non è solo mia, ma di noi tutte, conosciamo già la sua fine. Io questa vicenda l’ho letta, l’ho ascoltata quando dovevo fare altro e dovevo staccarmi dalla pagina, per poi fare ritorno alla pagina, sempre. Ora dovevo fare altro, appunto. Devo fare altro. Devo citofonare e salire a casa di mio padre dove mi sta aspettando il pranzo sul tavolo. Mio padre mi sta aspettando e io non riesco ad arrivare. Perché sono bloccata sulla salita Miramare di Bari insieme ai fantasmi: quello della Marina che cerca la bocca di un uomo bellissimo, che ama più di quanto sia riamata; quello di Tina; quello di Lina. 

Questa bambina, mi dico, deve essere ritrovata. Povera Lila.
Povera Lila. 

Mi faccio male mentre ne ascolto il destino. Non ritroveremo Tina, e non ritroveremo Lina che guarda sempre con gli occhi dell’Ombra. Gli occhi di Lila sono gli occhi dell’Ombra. 

Non può essere; non è giusto, penso. 

Il mare puzza, o profuma, e l’odore vero si salda a quello immaginato delle stanze chiuse dove Lila inizia ad aspettare, a guardare fuori dalla finestra senza poter sperimentare la morte. Piango, ma non mi sfogo. La sensazione è quella di un fazzoletto strettissimo al dito che blocca il flusso del sangue. 

Lila! Ti prego, Lila. Non può essere capitata a te, questa cosa. Dopo tanto lottare, dopo tanto soffrire, dopo tanto resistere alla fine sei stata sconfitta; alla fine ha vinto la tua maledizione su tutte le nostre benedizioni. 

Elena Ferrante: perché? Perché hai fatto questo a Lila? 

Non farò la stessa scelta di Lila, nelle pagine che stai per leggere: non sparirò. 

Ci ho pensato, e ci ho pensato a lungo. Sono il tipo di persona che tende a sparire dietro le idee e dietro i concetti. Faccio fatica a postare un selfie e raccontare la mia vita privata sui social, o anche soltanto i miei sentimenti. In tantissimi momenti preferisco inabissarmi, specie quando faccio fatica a trovare un equilibrio tra il dovere di esprimermi e la necessità di farlo. Ma non me ne vado mai del tutto. Piuttosto rallento, provo a diventare trasparente per riprendere consistenza in uno specchio che è solo mio. Spesso ci riesco. Sono presente a me stessa. E con questa presenza dico ora: non sparirò, in questo libro, dietro la maschera di Lila. 

Sono Marina Pierri e ho scritto un libro che si chiama Eroine, sul Viaggio dell’Eroina. Ho fatto e faccio anche altre cose, che potranno apparire o non apparire in queste pagine. Mi sono affezionata a Lila come tantissime altre persone, come Elena Ferrante. 

Lila è chiave di volta, passe-partout, disegno che tutti gli altri disegni contiene, eppure è più simile a un collage, o a un découpage, come quello che lei stessa sforma, costretta a essere una fotografia in uno spazio – quello del calzaturificio Solara – che non è possibile colonizzare. Ma tutto questo già è noto, già esiste, perché Tiziana de Rogatis, nel suo Elena Ferrante. Parole chiave, lo ha già indagato. A me, quindi, tocca fare un passo al lato, non in avanti; trovare un’altra direzione. Per la precisione, intendo fare due passi, uno a destra e uno a sinistra, o se preferisci uno su e l’altro giù, decidendo di restare brevemente al centro, sulla cosa stessa, su me stessa, sulla mia configurazione unica di essere umano che qui non sparirà come accade di solito nei saggi, brevi o corposi che siano. 

Del resto, io non credo che si possa leggere e guardare Lamica geniale in una maniera che non sia in sé stesse. 

Lamica geniale nasce già intrecciata ai nostri vissuti di donne, di persone, di fruitrici, di autrici, di madri, di non madri, di corpi, qualunque corpo abbiamo. 

La peculiarità de Lamica geniale sta nel suo essere saldata in modo pregresso al nostro genere caricato di valori simbolici, quelli del fantasmagorico femminile o di un femminile fantasmagorico che esiste in primo luogo perché qualcuno o qualcosa ce lo ha consegnato alla nascita come un libretto di istruzioni fatto e finito, che poco margine lascia all’interpretazione individuale. In secondo luogo, come eredità comoda o scomoda che ci fa piangere, perché ci ricorda di tutte le madri che non abbiamo conosciuto e pure sono state le nostre, delle figlie che abbiamo o non abbiamo avuto e sono state le nostre, delle nonne, delle bisnonne, delle trisavole, delle suocere, delle donne oppresse, di qualsiasi oppressione abbiano sofferto. 

Leggere de Lamica geniale, e in particolar modo di Lila, significa questo: guardare nel pozzo del sé profondo e terrorizzante in cui peschiamo per compiere le nostre scelte quotidiane, quelle grandi e quelle piccole; e sapere non con il cervello, ma con la pancia, che questa storia ci appartiene. 

Proprio la sensazione di appartenenza mi ha sempre intrattenuta de Lamica geniale, e non nell’accezione comune di intrattenimento; quell’intrattenimento che al più è un’arma con cui veniamo minacciate di essere petulanti, poco a fuoco, di scarso interesse. Intratenuta nel senso latino: Lila mi ha legata, mi hanno legata tutti e quattro i volumi, forse in particolar modo l’ultimo con una corda che a oggi non so staccare, tanto che ho deciso di scrivere questo libro. Non tanto perché volevo liberarmene ma perché volevo finalmente essere capace di toccarla, la corda, di sentire di quale materiale è fatta e perché ha scelto proprio me. Ma ha scelto proprio me? 

ARTICOLO n. 34 / 2023

LETTERA A GIORGIA MELONI

Cosa si può scrivere oggi sul 25 aprile che non sia la solita riaffermazione impettita e retorica dei valori della esistenza, che non incide più, non è più proporzionale al nostro inquietante presente, dentro il quale ci sarebbe invece bisogno di scaraventare, nuda e cruda, questa ferita che ancora sanguina e che chiama a una resistenza ancora più tridimensionale e più grande?   

Rimuginavo dentro di me questi pensieri, in vari momenti della mia giornata, anche mentre camminavo di notte e persino mentre ero a letto sveglio, e mi venivano in mente mille diverse idee e ispirazioni, perché all’inizio avrei voluto parlare del 25 aprile in modo sghembo, diagonale. Ad esempio, mi era venuto in mente di far dialogare tra di loro due cani che avevano seguito scodinzolando eccitati la fiumana dei liberatori nelle vie di Milano, oppure che si erano trovati sotto i cadaveri a testa in giù a Piazzale Loreto. O addirittura di far parlare i cadaveri a testa in giù, tra di loro o magari con un animale, un cane, un uccellino, far parlare un uccellino con il testone capovolto di Mussolini. Oppure di mettere in relazione narrativa il 25 aprile con qualche avatar da me particolarmente amato: Don Chisciotte, Pinocchio, la piccola fiammiferaia, lo scarafaggio di Kafka… 

Queste e altre cose mi passavano per la mente. E forse ne sarebbe venuta fuori una cosa bella e originale. Però c’era qualcosa dentro di me che desiderava parlare del 25 aprile in modo più implicato, magari scomodo, rischioso, ma personale, diretto, senza abbellimenti. Così mi è venuto in mente di scrivere una lettera scorticata e aperta, e all’improvviso, d’istinto, ho pensato di indirizzare questa lettera a Giorgia Meloni.  

Cara Giorgia Meloni,

ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza in mezzo a fascisti. Mio padre era un militare fascista, che è stato fatto prigioniero in Libia e ha passato sei anni in campi di prigionia in India. È tornato a casa con forti problemi psichici e di alcolismo ed è stato internato in due diversi manicomi militari. Ho passato la mia infanzia a vedergli massacrare mia madre e ho ancora negli occhi l’immagine del suo corpo trascinato per terra e nelle orecchie le sue grida da animale scannato. Ogni tanto usciva dal suo mutismo e raccontava del suo trasferimento con gli altri prigionieri dalla Libia all’India, di quando, ammassati su un camion scoperto, passavano sotto un ponte del Cairo e gli arabi gridavano dall’alto “fascisti” e “Mussolini” e poi “si tiravano su quei loro sottanoni e ci pisciavano addosso”. Tutto questo per dire che sono stato attraversato da parte a parte, non in modo astratto ma viscerale, da questa spaventosa tragedia e che riesco persino a comprendere tutta la disperazione e il blocco emotivo e mentale dei vinti.  

Il fratello di mio padre, mio zio Demostene, era comunista. Era sotto sorveglianza dell’OVRA, era stato arrestato più di una volta ed era infine emigrato in Brasile, dopo essere stato minatore in Belgio e in Istria, da dove, pur essendosi dichiarato comunista internazionalista, era dovuto fuggire per non venire gettato nelle foibe. Però era stato lui che, quando mio padre fu dichiarato disperso, aveva fatto ricerche attraverso la Croce Rossa e aveva scoperto alla fine che era vivo e prigioniero in India. È stato il fratello più amato da mio padre, e viceversa, forse perché tutti e due, ciascuno a suo modo, avevano sperimentato una leopardiana “strage delle illusioni”… Tutte cose che ho raccontato in un libro sulla storia della mia famiglia, intitolato I randagi.

Vivevo in una casa di nobili, perché mia madre, poco più che bambina, spinta come gli altri suoi fratelli alla diaspora dalla miseria della propria famiglia contadina, era andata a bussare alla porta di una grande villa di nobili che c’era nelle vicinanze (quella di San Prospero che si vede in Novecento di Bertolucci) ed era rimasta per tutta la vita con loro, come domestica e poi quasi-figlia. Mio nonno (lo chiamavo così anche se non era veramente mio nonno) votava per il partito monarchico (che alle elezioni si alleava con l’MSI). Però non perdonava a Mussolini di avere istituito la tassa sul celibato, che lui – non sposato e senza figli – era costretto a pagare.

Il mio amico di infanzia e di adolescenza era uno dei figli di un’altra famiglia di nobili che abitavano nel nostro stesso cortile. Era fascista anche lui e una volta, per cercare di convertirmi, mi aveva portato nella sede mantovana del MSI (il MIS, come veniva chiamato allora) dove, a un certo punto, un vecchio laido aveva aperto un baule e tirato fuori il suo antico manganello, tra le risa compiaciute degli altri.   

Alcuni anni dopo, quando ormai avevo preso la strada di mio zio Demostene invece che quella di mio padre e prima di sperimentare anch’io la mia “strage delle illusioni”, in una piccola prigione di transito dell’Oltrepò pavese, prima di entrare nella mia cella e di buttarmi sopra il paglione, un ragazzo della cella vicina mi aveva rivolto la parola con gentilezza. Mi aveva detto di essere fascista ma di sapere chi ero e di essere stato a lungo indeciso se andare dalla mia parte politica oppure dall’altra, perché poteva succedere che, nei ragazzi, queste scelte fossero dettate non da convinzioni lungamente maturate ma anche da suggestioni momentanee, superficiali, comportamentali, emotive, a fare la differenza bastava magari un incontro casuale, un amico ammirato, un ragazzo o una ragazza che affascinavano. E poi questo ragazzo mi aveva allungato un romanzo da leggere, perché potessi distrarmi un po’ nelle mie prime ore da prigioniero. E io allora avevo pensato: “ma guarda, se noi due ci fossimo incrociati in una manifestazione ci saremmo avventati l’uno contro l’altro, mentre adesso che siamo tutti e due nella stessa condizione…” 

E adesso, molti anni dopo, mi dico che forse faceva gioco a qualcuno mettere una parte della mia generazione contro l’altra, che mentre si mandavano avanti dei ragazzi fanatizzati quelli che, dietro, comandavano veramente erano sempre gli stessi, come forse sta succedendo anche adesso, in un momento in cui siamo di fronte a emergenze mai viste prima, addirittura di specie. E invece siamo continuamente rigettati all’indietro mentre dovremmo fare un inconcepibile passo in avanti e inventare e reinventare le nostre vite. Siamo riportati alla paura dell’ignoto e dell’aperto, all’illusione di poter fermare, esorcizzare e pietrificare il mutamento con degli editti, all’irresistibile inclinazione per ciò che vi è di più autoritario e retrivo, veniamo riportati a Dio Patria e Famiglia, a una idealizzata famiglia tradizionale, al bambino che deve avere il suo bravo papà e la sua brava mamma, come se questo fosse il paradiso, e io l’ho sperimentato questo paradiso! Mentre avvengono continue stragi nelle famiglie, mentre si sa che le famiglie sono piene di dolore, come d’altronde possono esserlo anche altre forme di aggregazione umana, nessuna esclusa. Dobbiamo assistere alle parole ipocrite di persone che vivono in tutt’altro modo ma che recitano queste giaculatorie perbeniste alle confuse e spaventate moltitudini trattate come nuove plebi da abbindolare con delle semplificazioni, dei simulacri. E poi… un Dio a cui non credono ma di cui ostentano in modo grottesco i simboli religiosi, l’esasperazione delle identità, la Patria e i suoi presunti custodi, che già tanti disastri ha provocato nel nostro recente passato e che nulla ha a che vedere con il vero amore per il proprio Paese, la propria cultura e la propria lingua, che anch’io, come uomo e come scrittore, sento profondamente. L’idea, l’illusione di potersi rinchiudere in un rassicurante orticello nazionale, in un mondo sovrappopolato e interconnesso e di fronte a una sfida di specie che dovrebbe unire piuttosto che dividere gli umani e chiamarli a una grande invenzione. E gli uni abbaiano, e gli altri abbaiano, e così tutti sono costretti ad abbaiare, mentre ci sarebbe invece bisogno di silenzio, di silenzio e ardimento. Durante uno dei miei cammini, in Sicilia, un branco di cani randagi ci aveva affrontato, e i cani che stavano davanti, in prima linea, erano quelli che abbaiavano più forte, fin quasi a strozzarsi, e sembravano sempre sul punto di avventarsi contro di noi per sbranarci. E allora un altro camminatore che se ne intendeva di cani mi aveva detto: «lo vedi, uno può pensare che il capo sia uno di quelli che stanno davanti e che abbaia di più, ma il capo del branco è quello là dietro, che se ne sta zitto, immobile». E infatti, a un certo punto, quello zitto e immobile si è girato e se ne è andato in silenzio, e allora gli altri cani hanno smesso improvvisamente di abbaiare e l’hanno seguito a loro volta in silenzio.    

E così arrivo alla seconda parte di questa lettera.

Cara Giorgia Meloni,

lei si trova a capo del Governo il nostro Paese, proiettata e legittimata da elezioni che ha stravinto. Ha la responsabilità e l’onore di dirigere questo Paese fratricida e perennemente incompiuto, però capace a volte di invenzione, di fervore, di scatto. Un Paese che si trova a condividere con altri paesi europei un sogno continentale di cui è stato uno degli ispiratori, il sogno di un continente boreale composto di nazioni che si sono combattute per migliaia di anni e che adesso, dopo le tragedie causate nel Novecento dai nazionalismi esasperati, dalle tirannidi e da due guerre mondiali nate sul suo territorio, pur con tutti gli egoismi, ritardi e zavorre, ha imboccato una via controcorrente, trascendente, esemplare a livello mondiale, prefigurativa. Tutto questo in un momento in cui sempre nuove tirannidi piccole e grandi stanno crescendo come tumori in ogni parte del mondo, con il loro consueto portato di guerre, deliri nazionali e imperiali che ci riportano continuamente indietro e che non possiamo più permetterci, come specie che si è autoproclamata la più intelligente e che invece si sta dimostrando la più stupida, cieca, folle e suicida, che sta distruggendo le condizioni stesse della propria vita. Com’è possibile che in un momento simile, tra le mille identità su cui i potenti o presunti tali fondano il loro breve potere e il loro divide et impera, non se ne cominci ad affermare anche una nuova, di specie, di una specie che si trova a vivere nello stesso irripetibile habitat, sulla stessa zattera planetaria sperduta tra le galassie, insieme ad altre specie viventi interconnesse, vegetali, animali?  

Come si può, in un simile contesto e passaggio d’era, non avere coscienza che, senza liberarsi del retaggio di radici come quelle di cui la sua parte politica è ancora emanazione, non ci sarà futuro? Lei mi dirà che c’erano al mondo altre tirannidi oltre a quella nazista e fascista, come quella dell’Unione Sovietica di Stalin che, essendo stata invasa dalle orde naziste e avendo pagato per questo un prezzo altissimo, ha potuto mettersi nella schiera dei liberatori e dei “buoni”. Sì, però l’altra parte politica da molto tempo si è liberata di questi retaggi, ha strappato queste radici. Ha visto quale catastrofe, dietro la maschera delle palingenesi ideologiche, è avvenuta nell’URSS, ne ha tratto le conseguenze e fatto tesoro. Noi abbiamo ascoltato e accolto le terribili verità che ci hanno raccontato i testimoni di quella spaventosa servitù volontaria, quello che ci hanno raccontato Šalamov, Vasilij Grossman, Solzenicyn, Bulgakov, Nadežda Maldel’štam… E voi, che pure dovreste sapere cosa hanno combinato Hitler e Mussolini? Non sembra proprio, ad ascoltare le dichiarazioni di uomini della sua parte politica. Quanti ripostigli segreti, quante ambiguità, quanti doppi fondi, quante “sgrammaticature”, ma tutte sempre in un’unica direzione! Era sembrato, con la svolta di Fiuggi, di cui anche lei ha fatto parte, che foste capaci di una ripulsa netta e senza ambiguità del fascismo, ma poi avete intorbidito le acque, dando l’impressione di avere fatto marcia indietro. E anche lei… quanta ambiguità, elusività, reticenza, quanti opportunistici arrampicamenti sugli specchi, quanti italici contorcimenti! Lo so, lei deve tenere insieme i pezzi del suo mondo arrivato al potere, compreso il suo zoccolo duro elettorale, perché anche lei, nella migliore delle ipotesi, è imprigionata dentro la stessa ragnatela che ha contribuito a tessere e non può e non ha il coraggio di lacerarla, di liberarsi e di nascere. Anche se avete giurato sulla Costituzione – antifascista e repubblicana – e quindi qualcuno potrebbe persino dire che siete, tecnicamente, degli spergiuri.

Lei mi dirà: “Povero idiota, e chi me lo fa fare di recidere nettamente queste radici, di non riproporre la paccottiglia nazionalista e clericofascista visto che elettoralmente sta funzionando, che il vento sta girando da questa parte, e non solo in Italia? E poi, cosa credi, nessuno sega il ramo su cui è seduto!” E io le risponderei: “Certo, ma quel ramo è marcio! Sì, certo, lo so, il potere ha un orizzonte breve, non gli interessa il domani, non vede una spanna al di là del proprio naso. E per un po’ vi andrà bene così, ma verrà il momento in cui questa illusione regressiva e questa sproporzione tra i bisogni e desideri umani in questo passaggio d’era e le vostre depistanti, ottundenti ricette diventerà insostenibile, e allora anche voi verrete travolti”. 

Credete di rifarvi una verginità dicendo che siete dalla parte degli ebrei sterminati e che le leggi razziali sono state una vergogna, credete di poter separare questo indicibile orrore da tutto il resto e dall’humus politico e ideologico da cui è sorto. Ma non si può separare questo immane crimine dalla complicità attiva di Mussolini e del fascismo, dalla collaborazione nei rastrellamenti, nelle delazioni, nelle deportazioni, nelle stragi. Io ho camminato lungo un sentiero impervio che va da Pietrasanta a Sant’Anna di Stazzema, e c’era con me anche un uomo la cui nonna era stata assassinata. Ho camminato passo dopo passo sullo stesso identico sentiero che avevano percorso i soldati delle SS saliti a compiere quella terribile strage, mentre era ancora buio, prima dell’alba, con le armi leggere e anche quelle più pesanti che non so come abbiano fatto a trascinare là sopra, e c’erano con loro anche dei fascisti della RSI che facevano da informatori e da guide ai nazisti. Salivano tutti in silenzio, prima di arrivare in cima, di irrompere in quel piccolo paese con le sue case disseminate e di sterminare la sua popolazione, tutti, 560 persone, di cui 65 bambini, persino una neonata di venti giorni. E così in diversi paesi poco distanti, come Vinca e altri, centinaia di persone sterminate, mitragliate, impiccate, bruciate con i lanciafiamme… Non c’è niente da fare, il pacchetto è lo stesso, non si possono separare fascismo e nazismo, non si può prenderne una parte e pretendere di scartare l’altra, non si possono prendere per buone le mistificazioni ideologiche e le chiacchiere e pretendere di separarle dagli orrori, perché le due cose sono strettamente connesse, sono una cosa sola.  

E allora, a questo punto, domando, a lei ma anche e soprattutto ai più catafratti della sua parte politica: che cosa c’è nel fascismo che a molti di voi sembra ancora da ammirare e salvare, tanto da non riuscire a liberarvene? Che i treni arrivavano in orario? Le bonifiche? L’edilizia popolare? Ma anche Hitler poneva molta attenzione all’aspetto sociale, e infatti il suo partito si chiamava nazionalsocialista. E lo scrive ripetutamente nel Mein Kampf, che il suo partito non doveva mai perdere di vista questo aspetto, che doveva presentarsi come il paladino degli interessi popolari, legando a sé il popolo per dominarlo, fidelizzarlo e trascinarlo poi verso le sue deliranti e criminali imprese. Ma cosa c’era sull’altro piatto della bilancia? Il nazionalismo esasperato, il delirio razziale, le guerre di aggressione, il rogo dei libri, l’arte degenerata, la disumanità, l’antisemitismo, l’orrore assoluto e la profanazione dei Lager… 

E in Mussolini cosa mai vi può ancora piacere e affascinare? continuo a chiedermi. Che cosa, che cosa? Non so a lei ma di sicuro a molti di voi. Il trasformismo? La prepotenza? Il bullismo? Ma non vi viene da ridere quando vedete la sua grottesca figura con i pugni sui fianchi, che digrigna i denti? Ci vuole così poco per abbindolarvi? Oppure vi affascinano la cancellazione delle libertà politiche, le stesse di cui avete usufruito voi dal dopoguerra a oggi, oppure il suo conigliesco usa e getta delle donne, o forse gli assassini degli avversari politici, lo spaccare la testa a bastonate agli oppositori, l’umiliarli dando loro da bere dell’olio di ricino, il suo cinico “ci servono qualche migliaia di morti per sederci da vincitori al tavolo della pace”, il patto con il massacratore industriale del popolo ebraico? Come fate a convivere, anche solo in minima parte, con un simile orrore? Cosa può esserci di questo schifo che ancora vi piace e vi affascina? Siete così bloccati, così non cresciuti da non riuscire a liberarvi di questo schifo e ci avete costruito sopra la vostra identità? Siete mentalmente così servi che avete bisogno di un padre cattivo da idolatrare perché possa dare anche a voi il permesso di essere dei padri cattivi? Siete così spaventati e frustrati che avete bisogno di identificarvi a tal punto con l’aggressore?

“Povero idiota” lei potrebbe rispondermi ancora, “io sto facendo un gioco politico grosso, e per fare un simile gioco c’è bisogno di attrarre non solo pezzi di mondo politico precedente sempre in cerca di un nuovo padrone ma anche masse di scontenti, incattiviti, frustrati, che hanno sempre bisogno di dare le colpe a qualcun altro, e allora c’è bisogno di un collante ideologico per poter attirare e galvanizzare queste variegate masse di elettori, c’è bisogno di agitare soluzioni semplici, non importa se strumentali, ma che le possa capire anche un bambino.” D’altronde lo avevano detto chiaro e tondo Berlusconi e anche Trump, che bisogna parlare agli elettori come si parla a un bambino di sette anni, mostrando così tutto il loro disprezzo per le loro stesse moltitudini elettorali blandite.

Ce lo aveva spiegato bene Dostoevskij, come anche altri, che gli uomini hanno paura della libertà, che hanno bisogno di sbarazzarsi del fardello della libertà, che sono portati al servilismo e all’idolatria, a vendere l’anima a chi permette loro di sbarazzarsi del pesante fardello della libertà, che hanno bisogno del miracolo, dell’autorità. Perché si paga sempre un prezzo, un prezzo molto alto, per la propria libertà. È più facile, è più “naturale” essere servi che liberi, tanto più quando si spera di ricevere una ricompensa per il proprio servaggio. Meccanica che funziona non solo nel suo campo ma in ogni campo, compreso quello culturale, e io lo so bene per averlo sperimentato di persona. E lei, in questi primi mesi in cui detiene il potere starà assistendo sicuramente allo strisciare servile o infido di chi ha imbarcato o che potrà in futuro imbarcare, perché le persone, si sa, hanno la tendenza a saltare sul carro del vincitore. Spettacolo che forse, spero, la disgusterà. 

E ce lo aveva spiegato bene anche Tolkien come funzionano il potere e lo stregamento del potere. Voi dite di amare il Signore degli anelli, ma cosa avete capito del Signore degli anelli? Del suo fiabesco e implacabile svelamento dei meccanismi del potere e della fascinazione del potere, del bisogno di resistere e di combattere per la libertà dal dominio e dalla fascinazione della tirannide del potere volto al Male? Una battaglia incerta fino all’ultimo istante e in cui non si sa mai se si vincerà o se si perderà, però non si combattono solo le battaglie che si è sicuri di vincere. Cosa c’entrate con la lotta per liberarsi dal potere malefico dell’anello, voi che avete appena afferrato l’anello e ve lo tenete ben stretto, non vi passa neanche per la testa di gettarlo dentro il vulcano? Cosa c’entrate con Gandalf, con gli alberi che si sradicano, con gli hobbit, gli elfi, i nani?

Che grande leader lei potrebbe essere se trovasse dentro di sé l’indipendenza e l’ardimento per sradicarsi, come gli alberi del Signore degli anelli! Per compiere uno scarto improvviso, da cavallo di razza, per liberarsi della rete di inganni che la proiettano ma la imprigionano! Per traghettare verso un inaspettato e creativo futuro anche il migliore bagaglio della cultura “di destra”, ammesso che si possano operare separazioni di superficie per scrittori, pensatori e poeti che hanno raccontato, indagato e cantato con intensità e radicalità le nostre irripetibili vite e il nostro irripetibile mondo, e che anch’io ho letto, assimilato e amato. E per traghettare anche, attraverso la forza libera dell’esempio, il retaggio di irriducibilità che hanno contrassegnato le vite di interi popoli e di singole e verticali figure: i nativi americani, i sognatori e visionari come Garibaldi, il colonnello Lawrence, Che Guevara…: il coraggio, la sfida, la lotta per la libertà o per quella che ci può apparire o balenare come libertà. Che segno profondo, che ricordo, che eredità indelebile potrebbe lasciare! Lei, come ogni altra persona e vita, se ne andrà, ma potrebbe lasciare dietro di sé, come un interminabile mantello regale, questo segno del suo passaggio nel mondo.

Ma lo so che questo non succederà, che queste sono solo mie illusioni infantili, fantasticherie. Che lei è dentro una macchina, che è trascinata dall’ansia ma anche dall’ebbrezza ascensionale di questa macchina, e che questo taciterà ogni altra voce che può, forse, di tanto in tanto, salirle da dentro, perché lei è nello stesso tempo ammaliatrice e ammaliata, giocatrice e giocata.

E allora…

VIVA IL 25 APRILE
VIVA LA RESISTENZA

ARTICOLO n. 33 / 2023

IL PEDIGREE DEL POLLO

Around The Table. Una serie americana in italiano

«È pronto!», urlo dalla sala. Dopo poco sento una porta aprirsi. È quella di Vera. «Puoi aiutare Andrea a scendere?», le chiedo quasi subito. Vera apre la porta della camera di suo fratello. La sento parlare. «Andrea, dài, vieni che è pronto. Stasera ci sono le bistecche impanate, quelle che tu chiami MAYO perché le mangi affogando ogni pezzo nella maionese. Dài, ti aiuto io. Andiamo ché poi la mamma si arrabbia…».

Con l’estrema e snervante lentezza che lo caratterizza, Andrea scende le scale tenendo in mano il suo iPad, che da tre mesi gli suona la stessa canzone: Enough To Be On Your Way, di James Taylor. Vera è già a tavola, si riempie il piatto con una bistecca impanata e degli spinaci. Ryan intanto sta tagliando la carne per Andrea. Io sono ancora in piedi: mi accorgo che chi ha apparecchiato ha dimenticato pane, acqua, maionese e il mio solito bicchiere di vino.  

«Stasera si mangia tutto quello che vi mettete nel piatto, perché questa cena mi è costata come un viaggio a Parigi in business class. Buon appetito a tutti». Sono ancora sotto shock per la mia esperienza pomeridiana a Whole Foods, il supermercato dietro l’angolo che per correttezza nei confronti dei clienti, si dovrebbe chiamare Gioielleria Commestibile. Quasi ogni prodotto è biologico. Se ne compri uno, come dire, normale, le cassiere ti guardano malissimo, e ti insultano con lo sguardo: «Se sei povera, vai a fare la spesa da un’altra parte, stronza!».

Per arrivare al supermercato, dopo aver varcato la soglia, ho preso le scale mobili che portano alla sezione che vende fiori, piantine grasse e bigliettini per i compleanni. Davanti alle scale, sfoggiata come un quadro di Monet, l’ortofrutta, tutta bella in ordine. Ogni mela o arancia viene accarezzata con tenerezza, a volte spolverata bene e delicatamente appoggiata sulle altre per formare una specie di piramide; le verdure sorridono e invitano i clienti a posarle sui loro carrelli verdi, anche loro biologici. Ho comprato degli spinaci che mi hanno ringraziato per mezz’ora. Ho anche preso due limoni e tre mele. Il totale aveva già superato di gran lunga i quindici dollari. D’altronde, ai ragazzi piacciono le bistecche impanate e gli spinaci… Dopo la frutta e la verdura, ci si trova davanti alla pescheria, dove i pesci vengono ammazzati a botte di complimenti: «Vedrai che sarai buonissimo! Ti cucineranno con spezie fenomenali! Se fossi nato salmone, vorrei essere venduto qui anch’io, mangiato da tutta questa bella gente, che rispetta l’ambiente e che ha delle pentole da mille dollari l’una». Un po’ più in là, la macelleria. Mi sono avvicinata per chiedere un petto di pollo, e il macellaio mi ha raccontato con entusiasmo della stirpe di provenienza del povero pennuto: famiglia onesta, nata e cresciuta in campagna, libera di svolazzare nell’aia, libera di avere le proprie idee politiche e i propri sentimenti. Una stirpe nobile, insomma. Un chilo di pollo figo mi è costato ventun dollari. Con la voce un po’ tremolante da magone, il macellaio ha aggiunto che le uova, della stessa aia, erano dietro di me. «Costano un po’, ma la qualità è irraggiungibile». In effetti, otto dollari per una dozzina di uova possono essere giustificati solo se ci trovi dentro un tuorlo d’argento. 

Mi ritrovo di fianco alla corsia delle creme di bellezza, dei saponi e delle vitamine. Lì non mi fermo dal 2004, e cioè da quando comprai uno shampoo senza guardare il prezzo e mi venne un mancamento. Finalmente sono di fronte al pane: metto due francesini in un sacchetto di carta. Dài, cosa vuoi che siano quattro dollari. Vado a cercare il pangrattato, e sono costretta a fare delle scelte importanti: biologico? Normale? Aromatizzato al rosmarino? E le briciole: piccole, un po’ più grandi, soffici o dure? Per paura degli sguardi violenti delle commesse, prendo quello biologico, briciole piccole, non aromatizzato. Costa tre dollari di più, ma almeno non vengo umiliata davanti a tutti. Mi serve anche il burro (otto dollari e cinquanta), l’olio (diciassette dollari e quarantanove centesimi) e una bottiglia di vino scarso, al modico prezzo di ventun dollari. 

Quando la ricevuta della spesa viene sparata violentemente fuori dalla cassa, tutti noi veniamo colpiti da tremori incontrollabili, dalla mancanza di salivazione e dal dubbio di essere stati presi per il culo. Si prendono le scale mobili per scendere, si va in macchina e si piange. Neanche questa volta avremo i soldi per il cinema: andati tutti in spinaci e petti di pollo.

Per cui, quando un po’ più poveri ma felici, ci ritroviamo attorno al tavolo, se qualcuno si permette di dire frasi del tipo: non ho fame; do gli avanzi ai cani, non mi piacciono gli spinaci, io mi trasformo in Goldrake e spacco tutto. 

Sono appena tornata da Milano, dove sono stata a casa di mia madre. Di fronte al palazzo c’è un supermercato, molto più piccolo di Whole Foods, anche perché si trova in Italia, dove le dimensioni sono a portata d’uomo. Sono andata a fare la spesa anche lì: uova, formaggio, yogurt, pasta, cioccolato Novi con nocciole (due tavolette, vino (Pecorino buono), due etti di salame Milano. Alla cassa, mentre aspetto, tiro fuori dal portafogli la carta di credito. La cassiera, di marcato accento milanese, fa un po’ di battute sulle tavolette di cioccolato che mi fanno ridere. «Sono venticinque euro», mi dice dopo avermi dato un sacchetto. «No, scusi, è impossibile!», a cui lei risponde: «Eh sì, ha comprato il vino più caro…», come a dire che costa tanto per quello. 

Capisco che gli stipendi italiani e quelli statunitensi sono molto diversi, e che il costo della vita è direttamente proporzionato a questo fattore. Capisco poi che Whole Foods non è il tipico supermercato, ma quello dei fighetti o delle persone pigre come me, che non hanno voglia di prendere la macchina per andare a fare la spesa da un’altra parte. È ovvio che le aie americane hanno l’aria condizionata e i polli fanno massaggi e pedicure almeno due volte la settimana, mentre i poveri cristi italiani sono cresciuti in fattorie e vivono in modo semplice e onesto. Capisco tutto, ma mi sembra che il confronto fra il supermarket americano e quello italiano mostri senza ombra di dubbio che i prezzi di Whole Foods siano talmente esagerati da trasformarsi addirittura in un’ingiustizia etica e sociale.

Ogni quotidiano, italiano o americano, parla ogni giorno di salute: come invecchiare bene, come avere rapporti sessuali dopo la menopausa, come fare esercizio fisico una volta al mese. Ma il tema più importante è l’alimentazione. Spiegano che bisogna mangiare molta frutta, verdura e legumi, e meno carne o pane. Aggiungono che l’olio d’oliva, il latte magro, il pesce appena pescato e la dieta mediterranea siano necessari per una vita lunga e gioiosa. Negli ultimi anni, poi, si è aggiunta l’importanza di mangiare cibi biologici, non trattati con pesticidi.

Ma tutto ciò richiede un certo agio sociale: se il pesce fresco costa troppo, può essere acquistato soltanto da un ristretto gruppo di persone. Stessa cosa per quanto riguarda una mela, un grappolo d’uva, un’insalata, un petto di pollo biologici. Sono più sani, ma costano il doppio. Un cheeseburger da McDonalds costa due dollari e cinquanta; una mela biologica anche. Solo che il primo ammazza il fegato, ma sazia; la seconda fa bene, ma sazia per venti minuti. Nel 2013, in una zona povera di Detroit è stato aperto Whole Foods, che notoriamente ha prezzi molto alti. Fortunatamente, i manager del nuovo supermercato hanno capito che nessuno avrebbe fatto la spesa lì e dunque hanno abbassato considerevolmente i prezzi. Una storia a buon fine, ma talmente rara che attira l’attenzione dei mass media.

Ci sono principi che dovrebbero essere uguali per tutti, senza distinzione di genere, etnia o età. Mangiare sano è uno di questi. Negli Stati Uniti, le persone con la pelle di colore scuro sono discriminate anche per quanto riguarda l’alimentazione. La popolazione economicamente svantaggiata mangia cibo preconfezionato, frutta e verdura in lattina invece che fresca, cibi pieni di zuccheri e carboidrati perché ha poche scelte. Infatti sono loro che sviluppano diabete, obesità, ipertensione, e che hanno il colesterolo alle stelle. Noi, con i nostri bei branzini al forno e con la nostra verdurina, cresciuta solo per noi, siamo più sani perché possiamo permettercelo. 

Questo fenomeno di discriminazione alimentare è molto studiato dai sociologi americani che lo chiamano food desert, il deserto del cibo. Il termine viene usato per descrivere zone per lo più rurali o ai margini delle città abitate da persone a basso reddito (per lo più minoranze) che non hanno accesso a supermercati perché sono a chilometri di distanza oppure vivono in zone in cui i prezzi sono troppo alti per le loro tasche. Di conseguenza, sono costretti a comprare il cibo nei negozietti che non vendono nulla di fresco, ma junk food (cibo spazzatura). Fortunatamente, ci sono sempre più iniziative volte a diminuire il più possibile il disagio che questo fenomeno causa.È strano pensare che fare la spesa possa diventare un atto discriminatorio, che spendere così tanto per beni di prima necessità significhi entrare in una macchina del male, che ripudiamo con forza. L’immagine che mi balza agli occhi è quella di un serpente che silenzioso si intrufola nella nostra vita e contribuisce ad aumentare ulteriormente il gap tra chi può e chi no. È facile dimenticare la realtà di persone che non conosciamo, perché nel nostro quotidiano non sono che numeri in uno studio statistico. Fa un po’ impressione, pensavo pulendo la cucina, che anche quando si fa la spesa ci si trovi coinvolti, anche inconsapevolmente, in una macchina sociale iniqua e terribile. Aveva ragione mia madre, quando ci diceva che tutto quello che facciamo anche senza accorgercene deve essere considerato un atto politico.

ARTICOLO n. 32 / 2023

RITRATTO PORTATILE DI PIERGIORGIO BELLOCCHIO

Piergiorgio Bellocchio ha passato tutta la vita a Piacenza. Non si è mai spostato. Proprio come William Faulkner dalla sua Oxford, in Mississippi. E potrebbe essere anche suo, in fondo, il celebre telegramma con cui proprio Faulkner, nel 1950, rifiutò l’invito a cena del presidente Truman, alla Casa Bianca, per festeggiare la vittoria del Premio Nobel: «non ha alcun senso prendere un volo per una cena». Stesso temperamento ispido, stessa insofferenza per la retorica e la vanagloria, e, ancor più, stesso fastidio epidermico per il sentirsi esposti, per il parlare in pubblico. Ne ho un ricordo personale. Vidi Piergiorgio Bellocchio una sola volta, a Siena. Ero ancora studente universitario. A Lettere presentavano la ristampa di Ragionamenti: insieme a Luca Lenzini, c’erano Romano Luperini, Delfino Insolera, Renato Solmi e, appunto, Bellocchio. Mi colpì la sua premessa: «non ho abilità oratorie di alcun tipo: quindi leggo il testo che ho scritto». Così, senza preamboli, diretto e secco. La ritrosia, se non il fastidio, rispetto al sentirsi esposto, al parlare in pubblico, era chiarissima. Piergiorgio Bellocchio è stato un intellettuale radicale, introverso e fuori campo. Dalla sua base provinciale – porto sicuro, eppure mai magnificato – ha co-diretto, insieme a Grazia Cherchi, la rivista culturale più importante della Nuova Sinistra italiana: i Quaderni Piacentini. Rivista che, per quasi vent’anni, è stata molto più che un semplice foglio di ricerca, visto che ha contribuito a formare quella nuova comunità – fatta di battitori liberi, intellettuali senza mandato, storici politici e militanti di base – che è stata protagonista di quanto Primo Moroni, Nanni Balestrini e Sergio Bianchi hanno definito «orda d’oro»: vale a dire, dell’assalto al cielo del quindicennio di lotte del lungo ‘68 italiano. 

A partire dal «golpe Moro» e dalla conseguente implosione dei movimenti anti-sistemici, l’Italia iniziò però a mutare,esattamente come aveva diagnosticato qualche anno prima l’amato/odiato Pasolini; ma questa volta davvero, nel giro di pochi anni e ad una velocità impressionante. I Quaderni Piacentini nel 1984 chiudono. È ormai scomparso, infatti, intorno alla rivista, quel cosmo politico di cui era stata un attendibile sismografo. Bellocchio però non sa stare senza un progetto editoriale condiviso. Perché non è uno scrittore di libri, ma un saggista. E i saggi – si sa – sono come degli assoli che per suonare al meglio hanno bisogno di uno spazio orchestrato: la rivista, appunto. Ma ogni rivista è sempre un progetto politico: parla di Sé, mentre parla del mondo. Quaderni Piacentini aveva costeggiato una rivoluzione impossibile e, anche per questo, era stata un’esperienza editoriale entusiasmante: aveva coinvolto, in oltre vent’anni di vita, centinaia di collaboratori, un microcosmo sociale dentro un’onda politica vasta, radicale, ingenua e generosa. Nel 1985, però, l’orizzonte è tutt’altro. Per questa ragione, Bellocchio fonda un nuovo progetto editoriale, ma di indirizzo diametralmente opposto: si chiamerà Diario, uscirà per otto anni, senza alcuna regolarità. Uscirà quando deve uscire, senza giustificazioni, né tantomeno programmazione. Una rivista, per di più, fatta in casa, a Piacenza, da due sole persone: lui e Alfonso Berardinelli. Una sorta di scrittura a duetto, quasi una raccolta di Lieder: solo voce e piano. Malinconici, ma inconciliati; sarcastici perché disillusi. Accanto alle due voci, stralci di classici amatissimi: Kierkegaard, Leopardi, Baudelaire, Herzen, Thoreau, Tolstoj, Simone Weil e Orwell. Di fronte, la stupidità implosiva degli anni Ottanta: non solo Craxi, il socialismo della Milano da bere e l’inizio delle invasioni barbariche leghiste. Quanto soprattutto Repubblica, con il suo club di progressisti a buon mercato; e poi Umberto Eco, metonimia perfetta, per entrambi, di quella nuova sconfortante cultura del ceto medio riflessivo italiano, a metà strada fra esterofilia provinciale e narcisismo stolido. La diagnosi della rivista è implacabile: di quest’amalgama, che si oppone all’acculturazione politica di massa del decennio precedente, la telecrazia berlusconiana è un effetto; non causa.

Per l’insieme di queste ragioni, Diario è stato un progetto editoriale quasi clandestino perché radicalissimo, sprezzante e sulfureo. Basta leggere anche solo come veniva pubblicizzato, per capirne la nota bassa di fondo: «è in edicola il N.4 di Diario. Contiene sempre meno novità, sempre meno notizie, sempre meno argomenti inediti. Come al solito non contiene inchieste né rubriche di moda scienza bellezza cultura. Leggi Diario, ti darà di meno». Se Quaderni Piacentini aveva provato a cavalcare il futuro, scommettendo su analisi tendenziali e su una creatività intellettuale di tipo nuovo, perché posizionata dentro un conflitto politico di massa; Diario, all’opposto, si ritrae dal presente perché tutti i segnali che la cronaca emette sono inquietanti e inequivocabili; è meglio non decrittarli più. A questo proposito c’è un aneddoto significativo, benché malinconico, che Bellocchio riporta in quello strano Zibaldone personale, da poco pubblicato con il titolo Diario del Novecento a cura di Gianni D’Amo. Ricorda di essere andato a trovare Franco Fortini nel 1992, a casa sua, a Milano, qualche mese prima che morisse. Fortini è stato uno dei mentori di Quaderni Piacentini e, soprattutto, un maestro che entrambi, sia Bellocchio che Berardinelli, maltratteranno; e non senza rimorsi. Bellocchio osserva Fortini, che ha quasi ottant’anni e per di più è mezzo moribondo, mentre continua ad ipotizzare scenari nuovi, mosso da una costante ansia patologica per il futuro, perché non può non essere all’altezza del presente, che va sempre aggredito, rincorso: non si può restare indietro. Bellocchio lo guarda, quasi con tenerezza. Lui, il poeta classico della Poesia delle rose, che ha sempre odiato l’avanguardia, gli si rivela, in quell’istante, per quello che è davvero: un puro avanguardista, che continua, nonostante tutto, a giocare a scacchi con il futuro, senza capire che quella partita è, purtroppo per noi, e da mezzo secolo ormai, truccata. Bellocchio scrive: «gli faccio notare che da molto tempo ho smesso di seguire l’attualità. Mi tengo fedele e fermo a vecchi valori e mi comporto come se fossero sempre validi. Invece di fuggire in avanti, come lui insiste a fare, io retrocedo, mi nutro di passato. Gli ricordo il suo Goethe, che si rifiuta di proseguire nella lettura di Hugo, perché vuol difendere il suo modo di sentire naturale: si può per questo giudicarlo retrogrado?». Diariocontinua in questa cosciente retroversione fino al 1993. Perché l’anacronismo funziona benissimo come reagente di contrasto e il presente, osservato fuori campo, è nitido, benché orrendo. Ma quando ormai nessun anacronismo funziona più perché le previsioni si avverano e nulla più è da scoprire, il gioco si interrompe e la rivista si ferma: 

Quello che soprattutto valeva per noi era l’aver scritto, senza riferimenti politici e in solitudine, contro il mito della politica, la nuova classe media universale e lo strapotere delle comunicazioni di massa. Negli anni Novanta avevamo di fronte una situazione che confermava le nostre più pessimistiche intuizioni e avremmo avuto più da ripetere che da scoprire. I due autori concordano nel considerare quegli anni i più liberamente e felicemente produttivi della propria attività letteraria. Scrivendo “Diario”, ci siamo sentiti politicamente impegnati come mai prima.

I libri che Piergiorgio Bellocchio ha iniziato a pubblicare a partire dal volume intitolato Dalla parte del torto(1989) – e ricordiamo almeno: il delizioso Oggetti smarriti (1996); Al di sotto della mischia (2007); Un seme di umanità. Note di Letteratura (2020); e il suo Zibaldone, Diario del Novecento (2022) – sono tutti raccolte di saggi.  Alcuni sono già apparsi su Diario, altri scritti per rubriche su giornali – ne ha tenuto una bellissima, tra il 1992 e il 1993, per il supplemento libri dell’Unità, dove recensisce libri fuori catalogo miracolosamente ritrovati su bancarelle dell’usato – altri ancora sono prefazioni (stupenda quella dedicata al Pasolini politico, nel Meridiano curati da Walter Siti e Silvia de Laude) o introduzioni a libri altrui. Come ogni vero saggista, la sua è una scrittura di servizio, con un tono immediatamente riconoscibile: sarcastico, asciutto, a tratti giocoso, a tratti malinconico e meditabondo. È stato probabilmente una delle ultime incarnazioni novecentesche del modello goethiano dell’intellettuale dilettante. Che ha sempre difeso, contro il falso professionismo dei giornali e delle cattedre che è tanto più intimidatorio, quanto più è inessenziale.

Non ho mai avuto padroni, semmai dei soci. Del resto, anche negli scarsissimi rapporti di collaborazione con altre testate o case editrici, mai avuto un contratto, sempre stato cottimista, pagato a lavoro, a pezzo. Gusto dell’autonomia, non dover rendere conto a nessuno se non alla propria coscienza.

ARTICOLO n. 31 / 2023

HO LETTO MOLTO, MOLTISSIMO

Intervista di Fabio Bozzato

Poeta, scrittore, traduttore, editore: Michael Krüger ha vissuto per tutta la vita di libri. Per quarantacinque anni è stato l’anima della Carl Hanser Verlag di Monaco, da editore, direttore letterario e amministratore. Alla guida della rivista Akzente ha pubblicato una quantità di autori italiani, primo fra tutti il suo amato Cesare Pavese. Quaranta volumi tra poesia, romanzi, saggi portano la sua firma. Nel 2013, per celebrare la sua lunga carriera è stato insignito del London Book Fair Lifetime Achievement Award. E a marzo di quest’anno, a Venezia, in occasione del Festival internazionale di letteratura Incroci di Civiltà, promosso dall’Università Ca’ Foscari, ha ricevuto il Premio Cesare De Michelis.

Fabio Bozzato: Partiamo da alcuni ricordi personali, se permette. Oggi siamo dentro un’atmosfera di guerra, come mai l’Europa ha conosciuto negli ultimi 80 anni. Lei ha passato l’infanzia in un paese devastato dalla guerra. Che ricordi ha? Sognava già da bambino di fare lo scrittore? 

Michael Krüger: Sono nato durante la guerra, verso la fine del 1943, in un paesino a Sud di Lipsia. Peraltro, Lipsia era la città della Sassonia famosa per la sua fiera del libro e per le sue attività industriali già nel XIX e XVIII secolo. In quel paesino mio nonno aveva una grande fattoria, dove sono nato. Mia madre ha presto raggiunto mio padre a Berlino, dove lavorava all’ufficio postale e là hanno avuto altri tre figli. Io sono rimasto con i miei nonni perché mio padre era sicuro che Berlino prima o poi sarebbe stata bombardata. E così ha pensato che fosse meglio lasciarmi in campagna con i vecchi genitori. Nessuno di loro si immaginava in quel momento che ci sarebbero voluti sei anni per ritrovarci. 
Al villaggio erano rimasti quasi tutti anziani, per lo più donne. Gli uomini erano al fronte. Finita la guerra è stata molto dura per i miei nonni. Hanno perso la fattoria, perché era considerata troppo grande per i nuovi funzionari russi, dicevano che le fattorie più grandi di una certa dimensione dovevano essere smantellate. I due vecchi si sono ritrovati praticamente senza soldi. È stato tutto confiscato. I nuovi arrivati trovavano un lavoro solo se iscritti al partito. Ma mio nonno era un contadino con le sue convinzioni e ogni tanto apriva la finestra e urlava. Noi lo riportavamo dentro, «Non farlo, non farlo», gli dicevamo; ma lui era arrabbiato, solo che così rischiava di essere picchiato o arrestato.
Non c’era molto da mangiare, ma trovavamo sempre qualcosa. Andavamo in giro e lui spesso incontrava qualche vecchio amico. E così a volte gli davano un uovo, o trovava quello di cui aveva bisogno, come una lama da rasoio. Non aveva soldi. Comunque, quando ho cominciato a camminare andavo sempre in mezzo alla campagna a passeggiare con lui. In primavera era bellissimo. E d’estate pure. Solo d’inverno era più dura, bisognava trovare abbastanza legna per riscaldare la casa.

F.B. E i libri? Che ricordi ha dei libri?

M.K. Libri non ce n’erano. Avevamo due libri. Una era la Bibbia, una bellissima edizione con le illustrazioni, e l’altra era un libro sulle piante, uno di quei libri che ti spiegano il nome, il tipo e il significato delle piante. Così, nelle passeggiate con il nonno, passavamo tutto il giorno nei campi a raccogliere frutta, semi, funghi. Cercavamo cibo e una volta tornati a casa spulciavamo il libro per sapere che tipo di piante avevamo trovato. Ho avuto un’infanzia tranquilla, sì. Poi, certo, non avevamo nessuna radio, né ovviamente c’era la televisione. L’unica cosa che potevo fare era imparare più o meno a memoria quei libri. La Bibbia in particolare, piena di storie fantastiche. E come si sa, è proprio dalla Bibbia che poi sarebbero usciti tutti i romanzi che conosciamo negli ultimi duemila anni. Ho l’impressione che più o meno tutti i romanzi siano contenuti dentro la Bibbia. La nonna mi leggeva ogni sera un capitolo. A volte era difficile comprendere quelle storie e le domandavo: «come ha fatto Mosè a chiedere al mare di dividere le acque? Come era possibile che il popolo di Israele passasse in mezzo con l’acqua da una parte all’altra?». Allora lei mi spiegava e, a pensarci, le sue spiegazioni sono state davvero una sorta di poetica, di estetica della mia scrittura futura. Lei mi diceva che nella letteratura, nel pensiero e nell’immaginazione, è possibile dire al mare di andarsene. Sono stato con loro fino ai sei anni, poi ho raggiunto i miei a Berlino e ho cominciato andare a scuola.

F.B. E là ha scoperto la lettura

M.K. Ho letto molto, moltissimo. A Berlino vivevamo in un appartamento, i miei genitori, due fratelli e una sorella maggiori. E io parlavo un buffo dialetto della Sassonia, che era strano a Berlino e non si poteva sentire. Era lo stesso dialetto che parlavano i governanti della Germania Est, Walter Ulbricht e Wilhelm Pieck. Io ero molto solo e leggevo, ma tutto sommato stavo bene. Quando sono arrivato alla maturità, mio padre mi ha detto: «potresti studiare filosofia». È che mi aveva visto leggere Aristotele. Ma io, il giorno dopo che la scuola mi ha consegnato i documenti, ho deciso di diventare tipografo. Così ho cercato un posto dove imparare a stampare. A quel tempo avevamo ancora le vecchie macchine, sì, era il ’61 e c’erano quelle vecchie macchine tipografiche e così ho imparato davvero a mettere insieme una pagina, un libro e così via. È stato un periodo molto interessante della mia vita. Nel frattempo, andavo in una casa editrice e l’ha ho appreso a organizzare il lavoro con i libri. Ho lavorato così per due anni e mezzo e poi sono andato a Londra da un libraio. A quel punto dovevo trovare un modo per guadagnarmi da vivere e così ho cominciato a scrivere, scrivevo recensioni per dei giornali. Nel ’68 ero editor di un annuario letterario e incontravo molti scrittori, con cui parlavo di letteratura, poesia, estetica. E alla fine mi son detto: «scriverò io stesso». Ho aspettato un po’ prima di pubblicare qualcosa, avrò avuto una trentina d’anni. Ora sono un uomo anziano e continuo a scrivere. 

F.B. Lei è uno scrittore-editore. Quanto cambia lo sguardo di un editore che è anche scrittore rispetto a un editore-editore? Come guarda la letteratura degli altri?

M.K. Prima di tutto, chiediamoci: perché un editore non dovrebbe essere uno scrittore? Abbiamo avuto ottimi esempi. In Italia penso al mio buon vecchio amico Roberto Calasso. E così, l’altro mio amico Umberto Eco è stato un ottimo editore con Bompiani. Ricordiamoci che T.S Eliot, uno dei più grandi poeti, dirigeva anche una delle grandi case editrici di Londra, Faber and Faber. Quindi è possibile. Certo, non ho mai pubblicato le mie cose nella casa editrice dove lavoravo. Peraltro non sono mai stato proprietario di una casa editrice tutta mia, ero pagato per fare l’editore. Per Roberto Calasso era diverso, il suo lavoro di scrittore rientrava nel suo progetto. Nel mio caso ho sempre pensato che dovessero essere gli altri a pubblicare le mie cose, sennò qualcuno può pensare che la cosa puzzi un po’ disonesta. E comunque il modo di vedere il tuo lavoro cambia se lo sguardo è esterno, ma la logica è sempre la stessa: è il tentativo di aggiungere un libro in più a tutti gli altri libri esistenti. Ed è strano, perché già ci sono molti libri buoni e molti libri fantastici. Dunque, come editore di trovi a pensare che sei nella perfetta condizione di poterne aggiungere un altro. A dire il vero, è anche un pensiero un po’ egoista. Ma io ho sempre trovato un nuovo libro da pubblicare. E continuo a farlo. Pubblico, pubblico, pubblico e scrivo e nel frattempo invecchio. Credo che forse anche sul letto di morte, scriverò le righe di un nuovo libro.

F.B. Lei ha pubblicato anche molta poesia. In un’intervista ha detto: «è una cosa non negoziabile». Cosa significa pubblicare poesia?

M.K. Ho sempre amato pubblicare poesie, nessun’altra grande casa editrice ne ha pubblicate così tante. Ogni anno pubblico dieci, quindici libri di poesia e sempre gli addetti alle vendite mi dicono: «buon Dio, Michael, perché pubblichi tutto questo? Dai poeti non possiamo ricavarne un soldo». Eppure, tutti questi poeti, dopo dieci anni, hanno ricevuto grandi premi, compreso il Nobel. Quindi la mia lista di poesie nel suo complesso ha avuto un gran successo, penso a Iosif Brodsky a Seamus Heaney. Penso che la poesia sia una delle parti principali del mio lavoro. Penso a quanta poesia italiana abbiamo pubblicato, soprattutto i grandi poeti italiani, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Dino Campana, ma anche i poeti più giovani come Valerio Magrelli e così via. Quindi sì, amo la poesia e penso che la poesia sia la più interessante tra le forme letterarie, è la sfida più interessante per scrivere qualcosa di nuovo.

F.B. Perché la poesia può essere uno strumento così importante per la contemporaneità?

M.K. In realtà la poesia non è molto accettata come modo di pensare, guardare il mondo, affrontare il mondo. La poesia non ha davvero una grande reputazione in questo mondo. Succede ovunque, che sia in America, Italia o Germania: ci sono sempre 2430 persone interessate alla poesia, non di più. A volte uno di questi poeti ottiene un grande premio e allora entra nelle librerie e nelle biblioteche. Ma è guardando indietro, a tutta la storia della poesia, che ci si accorge come tutti i grandi poeti siano sopravvissuti molto più degli scrittori di prosa, anche i più famosi. E così alla fine penso che la poesia sia una tartaruga e la prosa una lepre molto veloce. La tartaruga è lenta, ma quando arriva all’obiettivo, è molto più felice e molto più rispettata di tutte le altre. Perché? Credo sia una questione di forma: nella poesia, in quella piccola scatola di parole, puoi trovare tutto il mondo, se sei fortunato a trovarlo. Lo capisci, ad esempio, se pensi a Ungaretti col suo famoso «M’illumino d’immenso»: due righe, sai che quelle due righe faranno per sempre parte della letteratura. «M’illumino d’immenso»: è enormemente più di 800 pagine di un qualsiasi romanzo borghese.

F.B. Eppure siamo un paese strano, ci vantiamo della nostra storia della poesia ma non ci sono programmi che supportino i giovani poeti né i traduttori, né li promuoviamo all’estero. La poesia sembra cristallizzata nel passato.

M.K. L’esperienza americana è molto diversa. In ogni college trovi una cattedra o un docente di poesia, lui stesso poeta. Così i poeti possono insegnare, avere uno stipendio e continuare a scrivere. E averli fa parte della qualità e della reputazione dell’università che li assume. Così fanno tutti i miei amici americani, così hanno fatto John Ashbery al Bard College, Adam Zagajewski a Chicago, Charles Simic alla Northwestern. Quindi tutti avevano un lavoro e i college erano orgogliosi di avere questi poeti come insegnanti. L’ultima statunitense vincitrice del premio Nobel, Louise Glück, ha insegnato ad Harvard, cioè il luogo più prestigioso che può sognare un docente. Dimostrano che sì, puoi vivere di quello. Questa è una situazione, diciamo, molto di lusso. Non ce l’abbiamo qui in Germania. Certo, a volte ci sono lezioni di poesia all’università, lo faccio anch’io ed è così interessante parlare con i giovani.
Tuttavia, penso anche che se nessuno è veramente interessato alla poesia, non ha senso costringere la gente a leggerla. Penso che quel piacere lo devi trovare da solo o sei perso. E posso solo dirlo ai più giovani: senza poesia, la tua vita è molto più povera. Se non mi credi, se non credi a questo segreto che ti sto raccontando, non ti posso costringere. Ma se ti piace, probabilmente avrai un’idea un po’ più chiara di quello che sta succedendo in questo nostro mondo.

F.B. E in questo nostro mondo, mai come ora si scrive e si pubblica così tanto…

M.K. Da quando abbiamo cominciato a sfornare tutti questi programmi educativi, del tipo “come essere uno scrittore”, ci ritroviamo un sacco di libri, a volte interessanti ma non certo affascinanti. E così tutti pubblichiamo centinaia di nuovi libri. Ma a ben vedere, secondo me, la pubblicazione di tutto questo nuovo materiale sembra il tentativo di dare risposte al nostro stare al mondo, ma ha poco a che fare con l’arte. Non sono libri scientifici, non è buona letteratura. A me questa cosa non è mai piaciuta. Probabilmente può suonare un po’ snob, ma a me sono sempre interessati lo stile e le idee. Sappiamo che senza arte ci troveremo in grosse difficoltà. D’altra parte, si dice che l’arte e la letteratura devono essere accessibili, semplici semplici, e quando si presentano difficili significa che non sono buone. Ecco, per me invece, quando una cosa mi si presenta difficile è meraviglioso. Quindi, che dire? Non dobbiamo per forza leggere dalla mattina alla sera per essere persone gentili e istruite, ma dobbiamo sapere cosa leggiamo.

F.B. In una intervista lei hai detto che «per essere editore devi essere psicologo, imprenditore, lettore e amico allo stesso tempo». Quindi cosa significa oggi essere un buon editore?

M.K. È un’ottima domanda che dovremmo farci. In realtà nessuno ti insegna a essere un editore, puoi solo fare del tuo meglio. E forse solo alla fine puoi scoprire se sei stato un Calasso, un Bompiani, un Garzanti o un Einaudi. Quindi, dal momento che non puoi saperlo, devi avere molti lectores intorno a te, perché non puoi fare tutto da solo. Devi avere persone che stanno imparando altre lingue o che parlano lingue che tu non conosci. Devi avere uno psicologo in azienda. Devi avere a fianco un ottimo uomo d’affari: un editore vuole spendere i soldi, pagare gli autori, ma ci vuole uno che ti dica: «cosa spendi se non ci sono abbastanza soldi?». E poi devi avere degli ottimi addetti alle vendite che seguano le tue idee: per me, è sempre stato importante avere un meraviglioso settore vendite, gestito – detto entre-nous – quasi sempre da donne. 
Quando sono in una città straniera, entro sempre in una libreria. Guardo cosa c’è in vetrina, cosa c’è sul tavolo o le raccomandazioni appese alla parete. E mi chiedo sempre: «perché? Come si arriva a questo?». La risposta è che è necessariamente un lungo lavoro di squadra. Persino Calasso, che era così presente tra i suoi libri, anche lui aveva una squadra, aveva bisogno di ascoltare tutti, discutere e scegliere.
Certo, da Giulio Einaudi era molto visibile, dietro ai suoi capelli bianchi c’erano Natalia Ginzburg, Elio Vittorini, Italo Calvino. Erano il cuore della Einaudi, editor coltissimi, che sapevano davvero leggere. È vero che ora c’è un nuovo tipo di editor, che annusa solo e annusa solo il successo e poi pubblica. No, un editor deve saper leggere attentamente e deve essere molto, molto colto. Penso a uno come Bobi Bazlen a Trieste, che ha il merito di aver portato la letteratura tedesca dopo la guerra in Italia. Ecco, lui è un vero esempio di editore.

ARTICOLO n. 30 / 2023

L’ASPARAGO, AFRODISIACO E ARISTOCRATICO

La mistica del cibo

La leggenda narra che il re Juan Carlos, assaggiando un piatto di asparagi, abbia esclamato «están cojonudos!» (“sono cazzuti”), e che da allora siano stati etichettati con questo nome suggestivo, che li distingue da molti altri.  Questi sono gli asparagi di Navarra, chiamati direttamente “cojonudos”, un prodotto che si caratterizza per essere più grande del normale, anche se, dicono, questo non toglia nulla al loro sapore. Coltivati nella parte alta della fertile valle del fiume Ebro, in Navarra, e raccolti a mano, sono un simbolo dell’ispanicità. Sembra quasi che, per gli spagnoli, il simbolismo sia direttamente legato al nome fortemente didascalico, senza sforzo alcuno nell’essere pudichi, anzi, facendosi forti di questo singolare primato mondiale.

Per me, il primo asparago dell’anno è sempre stata una piccola festa, perché voleva dire che la primavera era, finalmente, arrivata. Ricordo benissimo come, quando lavoravo al ristorante, la cella si riempisse di asparagi, cipolle novelle e fragole, unendo i loro profumi in un’unica fragranza inaspettata e gioiosa. Da poco prima di Pasqua alla fine di maggio, gli asparagi hanno accompagnato le mie primavere, sia che li usassi in cucina, sia che li mangiassi per diletto.

Nel Nord Europa, la stagione degli asparagi è un periodo dell’anno molto speciale. Pasqua e Pentecoste, che vengono celebrate con la stessa gioia del Natale, non sarebbero complete senza un piatto di asparagi imburrati.All’inizio della primavera, quando gli asparagi freschi iniziano a comparire sui banchi dei mercati, tutti sanno che il freddo è finito: questo ortaggio porta con sé, in qualche modo, la promessa di calde giornate estive dopo il lungo inverno.

Pianta dalla storia millenaria, i suoi germogli hanno forma cilindrica, il che li rende da sempre un simbolo fallico.Anticamente si credeva che bastasse sotterrare corna di montone forate perché i turioni (così si chiamano i germogli della pianta d’asparago che consumiamo in cucina) crescessero di loro sponte. Un fallo vegetale e il montone, anch’esso simbolo di potenza sessuale, uniti in un unico rito, per un prodotto dai poteri prodigiosi!

Gran parte dell’aura dell’asparago riguarda la sua reputazione di afrodisiaco ringiovanente. In effetti, alla base di questa descrizione c’è la convinzione che questi germogli fallici, dalla crescita prodigiosamente rapida, aumentino il desiderio e la potenza sessuale. Gli antichi greci attribuivano gli asparagi alla dea dell’amore, Afrodite. I Beoti facevano corone di asparagi per le spose. Il poeta Apuleio, autore de L’asino d’oro, avrebbe conquistato il cuore della ricca vedova Pudentilla con un filtro d’amore contenente asparagi, code di granchio, uova di pesce, sangue di colomba e lingua di uccello (il matrimonio gli valse un processo per stregoneria, ma fu assolto).

Questa pianta della famiglia dei gigli è decisamente aristocratica. I libri di cucina la elogiano come la migliore delle verdure, lodata in molti modi dai tempi antichi a oggi. Faraoni, imperatori, re, generali e grandi capi spirituali, poeti principeschi come Goethe e buongustai come Brillat-Savarin: tutti loro mangiavano e mangiano asparagi con grande entusiasmo. Ne consegue che gli antichi fitoterapeuti astrologi vedevano nell’asparago la firma del dio Giove, signore e fruitore di tutti i piaceri sensuali. Per gli antichi egizi l’asparago era un alimento sacro; per questo motivo lo includevano nelle offerte agli dèi. Durante gli scavi della Piramide di Saqqara, gli archeologi hanno rinvenuto preziose stoviglie con tracce di cibo identificate come asparagi. Fasci di punte di asparagi – insieme a fichi, meloni e altri cibi sontuosi – sono stati trovati anche nelle tombe di ricchi egizi sepolti circa cinquemila anni fa. All’incirca nello stesso periodo in Cina, gli ospiti onorati venivano trattati con un rilassante pediluvio agli asparagi al loro arrivo. Gli antichi greci erano soliti raccogliere asparagi selvatici, ma gli antichi romani si spinsero oltre, sviluppando i metodi di coltivazione necessari per la domesticazione di questo ortaggio.

Il modo in cui l’asparago è sempre stato consumato – e in alcuni casi lo è ancora – lo rende quello che gli antropologi chiamano cibo “cerimoniale”, ovvero, cibo consumato in un contesto speciale. I delicati germogli primaverili di questo membro della famiglia delle Liliacee si adattano perfettamente all’immagine della natura che finalmente si risveglia in primavera e alla resurrezione pasquale. Per la cena di Pasqua gli asparagi vengono spesso serviti con il prosciutto, e per una buona ragione: in questo abbinamento si annida un elemento simbolico arcaico. Un tempo, infatti, il maiale era considerato un simbolo di vita, gioia e fertilità per i Celti-Germanici-Slavi del Nord Europa. In alcune occasioni speciali, le tribù germaniche sacrificavano un maiale o un cinghiale per Freyt, dio fallico della fertilità e fratello della bellissima dea Freya. Si credeva che in primavera i due gemelli celesti attraversassero la campagna su un carro, mentre Freya spargeva fiori dalla carrozza. In epoca precristiana la gente celebrava una festa orgiastica di maggio durante il periodo della luna piena. Si innalzava il palo fallico del maggio, si ballava in cerchio e ci si abbandonava a un amore sensuale ed estatico. Dopo la cristianizzazione dell’Europa, questa festa fu trasformata in Pentecoste, che celebrava lo Spirito Santo che scendeva sul popolo per esprimersi nella lingua comune. Per questo motivo, in alcune regioni europee, il pasto della Domenica di Pentecoste consiste in lingua cotta di vacca servita con asparagi.

Tornando in epoca romana, si tramanda che Cesare Augusto fosse particolarmente ghiotto di asparagi, forse perché i germogli erano considerati uno dei più grandi afrodisiaci: e si sa, quello che fa l’imperatore, lo fanno tutti. 

Le cronache storiche riportano che l’imperatore Carlo V (1500-1558), sovrano dell’Impero asburgico, fece una visita inaspettata a Roma durante il periodo del digiuno. Poiché non c’erano molte provviste a portata di mano con così poco preavviso, il cardinale incaricato ebbe un’idea che salvò la situazione: fece preparare ai cuochi tre diversi piatti di asparagi, serviti su tre diverse tovaglie profumate e accompagnati da tre diversi vini squisiti. Si dice che l’imperatore sia stato conquistato da queste prelibatezze primaverili, tanto da lodarle per molti anni a venire.

I piatti a base di asparagi erano molto apprezzati anche alla corte del Re Sole (Luigi XIV). Chi voleva conquistare Madame de Maintenon, la seconda moglie del re, doveva solo portarle una nuova ricetta a base di asparagi. Tutte le ricette che ricevette dettero vita a un libro, e la zuppa di asparagi alla Maintenon è ancora oggi nota tra i buongustai. 

C’è inoltre un aneddoto di lungo corso che riguarda gli asparagi e la Roma dei Cesari. Ce lo racconta Plutarco in una delle sue Vite parallele, la De vita Caesaris. Siamo fra il 54 e il 53 a.C. quando Cesare e i suoi generali giungono a Mediolanum, cioé Milano, durante le vittoriose campagne belliche contro le Gallie. Invitati nella domus di Valerio Leonte, vengono festeggiati con un enorme piatto di asparagi al burro, tipico condimento celtico. I generali romani si sentono offesi per quell’ “unguento” – che le matrone dell’Urbe usavano come belletto – sparso sugli asparagi. Ma Cesare, inappuntabile, divora gli asparagi e ringrazia il padrone di casa, poi chiama a raccolta i suoi generali ed esordisce con una delle frasi capitali sull’estetica del gusto: »de gustibus non dispuntandum est», sui gusti non si discute. 

L’asparago godeva fama di afrodisiaco, e al tempo stesso di anticoncezionale: a tali fini erano utilizzati il decotto della pianta, oppure se ne usavano i semi misti a quelli di aneto, ma secondo alcune fonti anche un sacchetto di turioni nascosti tra le vesti poteva fungere allo scopo.

Aveva grande fama di afrodisiaco anche tra gli antichi greci e romani, che però pare ne avessero opinioni contrastanti: tuttavia lo stesso Plinio lo raccomanda come alimento utile ad accrescere l’eros. Viene prescritto e utilizzato come afrodisiaco anche nel periodo medievale e rinascimentale: il medico cinquecentesco Castore Durante scrive nel suo Herbario novo che gli asparagi, »mangiati caldi con un poco di sale e butiro, provocano al coito».

Oltre che come afrodisiaco, Plinio lo consigliava come cibo salutare per lo stomaco; consigliava inoltre la radice, tritata e bevuta in vino bianco, per espellere i calcoli, calmare le lombalgie e i dolori renali. Sempre secondo Plinio, l’asparago funzionava come deterrente per le api: a tal fine, bisognava aspergersi di asparago tritato e imbevuto d’olio perché le api non si avvicinassero a pungere!

A Francavilla Fontana, con i rami si intrecciavano le corone di spine utilizzate dai confratelli nelle processioni della Settimana Santa.

Sebbene questo pregiato ortaggio sia stato posto sotto il dominio di Giove, non vi risiede in modo esclusivo. I medici medievali, non a caso, lo attribuivano anche a Venere, la dea planetaria che governa gli organi urinari e sessuali. Di conseguenza, questi medici prescrivevano di cuocere l’asparago in acqua o vino e di berlo per aumentare la produzione di sperma e stimolare la libido. I medici galenici umorali prescrivevano la pianta anche per le ostruzioni del fegato, della milza e dei reni, nonché per i calcoli renali, poiché era considerata “diluente, diuretica e divisoria”. 

Dapprima pianta selvatica infestante, che cresceva lungo i bordi delle strade e i binari della ferrovia, nel XVII secolo l’asparago iniziò a essere coltivato in Europa centrale come ortaggio e pianta medicinale.

Da quel momento in poi viene citato nei libri di erboristeria. Negli speziali la radice era chiamata “officinale” – da cui deriva il nome botanico officinalis – che significa che si trovava nell’officinarum, il laboratorio degli speziali. Questo significa anche che la radice di asparago era riconosciuta dai medici galenici come una vera e propria medicina, in particolare per la “fluidificazione del sangue”, per i “dolori alle anche” (reumatismi, sciatica), per l’epatite, per i calcoli renali e per i disturbi urinari. Pietro Andrea Mattioli (1501-1577), medico personale dell’imperatore asburgico, scrisse nel suo libro di erbe del 1544: «L’asparago fa venire agli uomini desideri piacevoli», una convinzione condivisa anche dalla gente più semplice, come recita un ironico detto popolare svevo: «Il pastore sa bene perché ha gli asparagi nel suo orto». In Transilvania era noto come “fuso nei pantaloni”. In Stiria, regione dell’Austria che un tempo fu Slovenia, il vino con i semi di asparagi veniva prescritto contro la sterilità. 

Nella medicina rinascimentale lo si prescriveva come afrodisiaco, «mangiati caldi con un poco di sale e di butiro».

Nella fitoterapia moderna, l’asparago è ancora considerato un efficace diuretico. I preparati a base del germoglio prodigioso vengono consigliati per i calcoli renali, gli edemi, l’artrite, i reumatismi, la gotta, l’insufficienza cardiaca e le affezioni del fegato e della milza. Come tale, è efficace per il diabete, i disturbi cardiaci e le affezioni renali minori.

L’asparago è presente anche in alcuni ricettari magici: tra le antiche ricette rinvenute a fini etno-antropologici dal tossicologo Malizia (una selezione da formulari, manoscritti e testi che vanno dal 1400 agli inizi del 1800), si ritrova insieme ad altri ingredienti nella composizione di un impiastro indicato nella forma di un »composto per riparare la verginità perduta» e come »rimedio per recuperare la virilità».

Ritorna qui la singolarissima credenza magico-popolare per cui, se si sotterravano delle corna di montone forate, da lì nasceva un asparago, come vi raccontavo poco fa.

Come spesso nella storia, la forma rievoca il simbolo che si associa a un oggetto e l’asparago era quindi chiaramente associato alla sessualità in virtù della forma dei turioni, che rammentano il pene in erezione: e così, secondo la teoria della segnatura, il consumo dei germogli di questa pianta influisce in modo benefico sull’organo umano a cui i germogli assomigliano.

In effetti la pianta, soprattutto quella selvatica, è ricca di sostanze energetiche: vitamina A, B, B2, amminoacidi e oligoelementi che migliorano le funzioni renali e ne rimuovono i sedimenti. 

L’asparago era considerato un tonico sessuale anche in altre culture. Gli indù lo attribuivano al loro “cupido”, Kamadeva, che poteva aiutare una bella fanciulla, la giovane Parvati, ad abbindolare persino il dio più ascetico, Shiva; ciò avvenne aiutando Parvati a distrarre il dio asceta ricoperto di cenere per il tempo sufficiente a farlo innamorare di lei. Anche se in seguito sposò Parvati, lo yogi estremo Shiva si infuriò per aver interrotto la sua profonda meditazione e ridusse Kamadeva in cenere con il suo terzo occhio infuocato. Scioccate, le dee implorarono Shiva di riportare in vita il dio dell’amore e del desiderio sensuale. Shiva finalmente acconsentì e riportò in vita Kamadeva, ma non avendo più un corpo divenne ancora più insidioso, soprattutto quando invisibile scagliava le sue frecce al miele nei cuori più sfortunati.

Nella tradizione medica indiana dell’Ayurveda, sebbene l’asparago selvatico (satavar o satamuli: sat = cento, muli = radici) sia usato anche come tonico del cuore e del cervello è generalmente considerato una pianta curativa per i disturbi sessuali e l’infertilità, soprattutto perché si ritiene che aumenti l’ojas, l’energia luminosa generale. Il succo delle radici viene cucinato con burro chiarificato (ghee), succo di limone, miele, pepe lungo (Piper longum) e latte per creare un afrodisiaco che aumenta lo sperma, favorisce la produzione di latte materno e tonifica l’utero. 

In una tradizione simile, i musulmani cucinano le radici (safed musli) nel latte come sostituto del salep, il famoso elisir a base di bulbi di orchidea per aumentare la prestanza maschile e per “addensare e aumentare lo sperma” (de Vries 1989, 303). 

In Cina, l’asparago (conosciuto da più di cinquemila anni con il nome di Tien men Tong) è utilizzato come diuretico ed espettorante. Germoglio prediletto dai regnanti, quando scende di classe assume aura di prezioso, proibito, afrodisiaco, un po’ come quasi tutti gli alimenti nobilitati dall’attenzione delle mode dei potenti. Ed è proprio in una delle città austroungariche più aristocratiche che ho potuto consumarli alla maniera austriaca: una volta, da ragazzino, mi sono trovato a Vienna, a mangiare in un ristorante lungo il Danubio, dove dicevano di servire i migliori asparagi fritti della capitale! Erano effettivamente buoni, ma era forse più suggestiva tutta la scenografia attorno, rimane il fatto che per me gli asparagi bianchi si gustano al meglio bolliti e quelli verdi abbrustoliti direttamente in padella, con olio e sale: la semplicità paga sempre quando l’ingrediente è prezioso.

ARTICOLO n. 29 / 2023

CORPI IN ASCOLTO

Conflitto, rivolta, femminismo

Quando parliamo di femminismo, comunicazione, corpi e teorie c’è sempre un momento in cui dobbiamo scegliere se ascoltare anche la nostra voce critica oppure andare avanti senza ascoltare i dubbi, le immobilità, le incoerenze che una pratica come quella femminista inevitabilmente si porta dietro. Djarah Kan è una scrittrice, una femminista e un’attivista. Ha la forza comunicativa di un vulcano in eruzione e non ha paura di infilarsi dentro gli argomenti più complessi e spinosi, per questo andiamo d’accordo. In due ore di conversazione abbiamo toccato tanti punti, spesso difficili e complessi, ma con un ascolto costante e reciproco importante. Vi serve un divano comodo, una birretta e un po’ di tempo a disposizione. Buon viaggio!

Giulia Paganelli

Parole e contesti

Djarah Kan: Quindi stai abbracciando la tua ombra ora.

Giulia Paganelli: In realtà io ho sempre studiato tanto i mostri e le ombre. Perché raccontano l’imperfezione, ma anche perché generalmente vengono affrontati come narrazione superficiale di una struttura sociale vera, e cioè: esistono corpi che sono costantemente presi come modello di negatività – se studiamo Michel Foucault è chiaramente questo ciò che dice sui corpi non conformi, che cioè sono corpi resi oggetto per educare le altre persone a non diventare mai quelle ombre. Quindi in questo momento forse sto guardando tutte le cose – me compresa – da fuori, e penso che ci siano tante cose che posso provare a fare, così come altre che posso fare meglio.  

D.K. Stai attenta però, stai attenta a questo tipo di pensiero, perché è molto insidioso. Sulla base della mia esperienza, che è individuale ma è anche universale perché comunque io sono parte di un tutto, quando mi sono trovata a fare questo tipo di pensiero sono caduta in un imbuto, perché ero convinta che, qualsiasi cosa facessi, potevo sempre farla meglio. Quindi mentre facevo una cosa proiettavo su di me un desiderio di insoddisfazione che in qualche maniera governava in modo nascosto tutto quello che facevo. Come se ci fosse qualcuno di invisibile che io non vedevo, ma percepivo, che muoveva le mie mani, che muoveva anche il modo in cui strutturavo una cosa, il modo in cui la immaginavo. Sono inciampata nei miei piedi e sono dovuta ritornare un po’ indietro e capire che tutto quello che io faccio è abbastanza, l’importante è non fermarsi mai. L’assurdo è la quantità, la qualità è una cosa che dentro di te sai quando c’è. Bisogna stare attente perché il perfezionismo è un suicidio.

G.P. Il perfezionismo è una delle cose che sto razionalizzando, che sto osservando in tutte le sue sfaccettature caotiche, perché non mi sono mai accorta di essere governata da questi fili. 

D.K. Perché abbiamo questa convinzione hollywoodiana del perfezionismo, della pulizia e del controllo totale. Invece il perfezionismo è caotico, per essere perfezionista devi avere un caos dentro infernale. Il perfezionista sta chiuso in una caverna per anni perché deve spostare un frammento da un posto all’altro.

G.P. il perfezionismo è una narrazione coercitiva. Perché se le cose vengono fatte con ordine di facciata, sono più controllabili. Quindi ricade sempre all’interno della struttura di potere. 

D.K. Infatti in questo periodo ho detto “fanculo l’ordine”, io sono per la vendetta e il caos più totale. Non mi interessa più nulla. Mi ha fatto male in questi anni pensare che l’ordine mi avrebbe portato alla gioia. No, ciao e vendetta. 

G.P. Mentre parliamo provo un senso di sollievo molto profondo, perché sento una persona che ascolta – e ascoltare è cosa rara. Perché per quanto facciamo proclami sull’ascolto e sull’intersezionalità della nostra pratica… 

D.K. Ma quando mai. Sono messaggeri di un mondo che non vogliono nemmeno loro. Io non credo che le persone sappiano cosa stanno creando ed è drammatico. Vogliono tutte essere perfette, sai cosa diceva mia madre? Una cosa molto vera: tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuole morire. Crescendo, questo detto è cambiato in ogni fase della mia vita. Oggi tutte le persone vogliono creare questo mondo pacificato, dove non ci sono più conflitti e dove le persone devono imparare solo in un ambiente protetto che sono i libri, le conferenze, le newsletter, i pantheon di persone che ti insegnano cose. Un ambiente medicalizzato, e a me non piace perché, forse, sono cresciuta come un animaletto che ha subito sul suo corpo un controllo poliziesco e non sono, quindi, molto amante del controllo in alcuna sua forma. 

G.P. Diventa un controllo quasi poliziesco della realtà, dei comportamenti. E questo diventa difficile poi da applicare alla formulazione del ragionamento che, per sua natura, ha bisogno di non avere vincoli e confini e di essere conflittuale. Il ragionamento riconosce ciò che non è coerente con i tuoi valori, ma sondare anche quello che non condividiamo è urgente per comprendere le dinamiche generali. 

D.K. L’altro giorno sono andata al bar e il barista, che avevo visto un paio di volte, mi ha tirato i capelli per capire se era una parrucca oppure no. Ti rendi conto? Era il mio quarto Negroni, però ti dico una cosa. Lui è stato molto maleducato, ma il suo gesto non era cattivo. Un ragazzo a cui nessuno ha insegnato l’educazione, che non significa razzista, significa che non sa comportarsi. Io noto che non sappiamo gestirci, mi è successo anche a me di pisciare fuori dal vaso. E tutta questa retorica del controllo poliziesco delle nostre relazioni sociali, tutta la retorica del self-help anche, tutta la narrazione della tossicità sono forme di controllo sociale che mirano ad annullare i conflitti che sono alla base dei processi che servono per imparare a relazionarsi. Ed è dura. Io a volte ho a che fare con persone bianche più progressiste, ragazze della mia età, che parlano con me e dicono “no ma io da persona bianca privilegiata penso che…”, allora io le guardo e dico »ti rendi conto che abbiamo entrambe 20 anni, ci stiamo bevendo un caffè e ci facciamo una chiacchiera e tu mi stai mettendo in una posizione di subordinazione perché ti relazioni con me sapendo che sei superiore, però ti dispiace e allora me lo vuoi dimostrare». 

G.P. Se non c’è conflitto, non c’è storia. Questo per me è uno spunto interessante perché quando parlo di privilegio e dico »guardate che il privilegio non è una proprietà dell’individuo, ma è qualcosa che viene calato dall’alto dai poteri e in cui tu sei avvolto e coccolato perché facendoti venire voglia di mantenerlo, inneschi la competizione sociale. Ma non è mai in tuo potere». 

D.K. Molte persone, infatti, sono convinte di avere la proprietà del privilegio. “Il mio privilegio”. Ma alle persone che iniziano con me una conversazione impostata in questo modo io chiedo ma tu chi cazzo sei. La mia migliore amica è nigeriana, viene da una famiglia benestante e i suoi genitori sono ricchi. L’altro giorno mi dice: «sai stavo riflettendo sulla questione delle quote razziali all’interno delle università che cercano di fare diversity & inclusion, però a me fa ridere perché sinceramente come fai a dire in partenza che io sono svantaggiata? Io sono ricca. E come fai a dire che una persona bianca è più avvantaggiata di me quando, per esempio, ha dovuto lavorare e fare sacrifici per pagarsi l’università restando indietro anche con gli esami. Come fai a dare per scontato che la sola etnia generi una situazione di svantaggio?» Lei è una mia compagna, è intelligente, è progressista e a me fa ridere pensare a tutte le persone progressiste che guardandola affermano che è una povera nera.

G.P. Secondo me dovremmo rivedere anche la hit parade del privilegio, perché se non partiamo dalla ricchezza e dalla povertà sbagliamo la lettura di tutto quanto. 

D.K. Certo, perché tu puoi insultarmi e darmi della ne*ra, ma se le tue offese non fungono da ostacoli per la mia carriera o per la mia realizzazione a me cosa me ne frega? La categoria della classe è la prima forma di discriminazione. E se teniamo a mente questa cosa poi riusciamo anche a capire dove sta il privilegio e, soprattutto, chi agisce il privilegio. Non c’è nulla di più razzista che stare lì a pensare in automatico che tu sei superiore perché sei bianca. Solo che adesso l’arco del razzismo è cambiato, perché è stato attraversato dal discorso liberale e progressista, per cui io riconosco il mio personale privilegio di essere una persona bianca, però mi dispiace perché tu non lo sei. 

G.P. Esiste, indubbiamente, la tendenza a voler eliminare il conflitto, ma se elimini il conflitto annulli le storie personali e la narrazione. E la narrazione è fondamentale per poter evolvere e risolvere le questioni. 

D.K. Ma io come faccio a capire se sono nel giusto o nello sbagliato se con te non mi scontro? Devo stare buona ad ascoltare la lezioncina che mi fai dal tuo essere dispiaciuta non perché sei bianca, ma perché non lo sono io? L’altra sera a Carnevale un ragazzo aveva una maschera di scimmia e mi fa «hai visto che mi sono travestito da te?» Lui era un altro che pensava di essere talmente progressista da poter dire questa cosa. Io non ho detto una parola, l’ho guardato per un quarto d’ora. Io penso di aver fatto di più guardandolo con disprezzo per un quarto d’ora che a fargli un discorsetto perché non aveva gli strumenti per capirlo. 

G.P. Qui ci sono due ragioni che si intrecciano secondo me. La prima è che tutte le persone sono vittime di una carenza sostanziosa di educazione emotiva, quindi se fai riferimento alle sei emozioni di base – tipo Inside Out – le uniche che capiscono, le persone forse ci arrivano. La seconda è che non stiamo mai affrontando il problema dell’accessibilità alla comunicazione. Io mi domando spesso: ma noi, esattamente, a chi stiamo parlando? Perché mi sembra sempre di essere tra quattro persone e che non si riesca mai ad andare fuori. Per parlare fuori con le persone che non ci conoscono, non conoscono le nostre marginalizzazioni, non hanno studiato le cose di cui parliamo, dobbiamo essere noi a tradurci. 

D.K. Noi viviamo nel capitalismo. Le persone sono educate a lavorare, riprodursi e a soffrire il meno possibile. Questo è lo stato delle cose. Noi dobbiamo capire che tipo di umanità ci offre questo sistema economico e sociale. Allora tu, sulla base dello scenario che hai davanti, puoi cominciare a pensare a un linguaggio. Ma non possiamo pensare che il contadino o la tua vicina di casa che lavora dodici ore al giorno voglia sorbirsi il discorso sulla razza che gli vuoi fare. Quel ragazzo faceva il garzone, probabilmente non aveva mai avuto modo di confrontarsi su questi temi in modo complesso. Ma io devo tenerne conto, io devo capire il suo livello di socialità. Allora è meglio guardarlo con disprezzo per un quarto d’ora perché quello lui può comprenderlo a un livello che va oltre i processi cognitivi.

G.P. Capire il contesto in cui ci troviamo e ci muoviamo è fondamentale, perché non con tutte le persone ti puoi mettere a fare i discorsi alti argomentando l’offesa. Dobbiamo capire in che contesto ci troviamo, altrimenti non possiamo farci capire.

D.K. Io dopo gli ho detto «ma secondo te questo che hai detto è una cosa accettabile per una persona nera? non ti sembra datato ormai come concetto?» E lui mi ha risposto che bisogna essere autoironici, «ho un sacco di amici neri». E lui ha continuato a parlare, sempre più a disagio, sempre più a disagio mentre io lo fissavo e basta fumando una sigaretta. Secondo te gli è rimasto più questo o una bella lezioncina sul razzismo?

La scrittura 

G.P. Cosa stai facendo in questo momento? 

D.K. Io scrivo e cerco di scrivere. Per me è molto difficile gestire questa cosa della scrittura soprattutto quando hai una tecnica che deriva dai tuoi stati emotivi e dalla tua capacità di rimanere concentrata. Non è facile. Però sì, ora sto ricominciando a trovare il senso di scrivere di nuovo, perché per un periodo per me non ha avuto molto senso scrivere, non avevo niente, ero troppo concentrata sul mio dolore. Quindi sì, ora sto cercando di finire il mio libro. 

G.P. Parliamo della difficoltà della scrittura. Sentire l’urgenza della storia da raccontare impone un ritmo in cui tu, inevitabilmente, ti perdi. Almeno, io passo tanto tempo rincorrendo parole e mi rendo conto che se dovessi definirmi come scrittrice di certo non userei la parola “veloce”. La pratica della scrittura per me a volte è una gabbia. “Devi scrivere perché hai delle deadline” solo che io sono una persona di fuoco, funziono a sfiammate. Ci sono giorni in cui parto e posso farlo per 14 -16 ore, altri in cui non posso restare davanti al computer oltre i cinque minuti. E mi rendo conto che questa incostanza genera un artefatto: io scrivo secondo le mie regole che non sono quelle degli altri, ma mentre io non voglio imporre le mie regole a nessuno, il mondo fuori vuole impormi le sue. 

D.K. Io ho capito che non posso affidare la scrittura a come mi sento. Quando devo scrivere mi do un metodo: non esco, zero relazioni sociali. Non sempre è una cosa positiva, ma ne ho bisogno, perché per me scrivere è una cosa molto violenta. L’atto di scrivere costantemente e di restare iper-concentrate su una cosa richiede un rapporto di reciproca comprensione con questa violenza. Ed è una scelta, secondo me. A un certo punto devi scegliere se essere una persona che vive normalmente nel mondo oppure essere una che scrive. Perché se scrivi cambia anche il tuo processo cognitivo e la comprensione di tutto.

G.P. Hai detto bene, è un gesto violento. Perché devi guardare attraverso quelle lenti. 

D.K. Io a volte ho paura di guardare perché non è detto che tutto sia trascrivibile per il mondo dei vivi, a volte ci sono cose che non possono essere scritte. Lo scrittore è una sorta di strana bestia che vive a metà tra il mondo degli esseri umani e un mondo davvero molto diverso, fatto di immagini e suggestioni, fatto di cose spesso misteriose. E tu continuamente fai questo passaggio, tra un mondo e l’altro, un viaggio tra dentro e fuori come Caronte. 

G.P. E Caronte, comunque, non era uno risolto.

D.K. Certo, guardare e osservare quelle ombre, fare in modo che quelle ombre abbiano una sostanza attraverso le tue parole e che si traducano in una lingua che è la tua lingua. E deve farla capire alle persone. 

G.P. È il mito della Caverna di Platone. Tanti abituati a guardare le ombre proiettate sul muro convinti che siano reali e poi il folle che distrugge la catena e vuole colmare quel corpo opaco, vuole tradurla ai suoi compagni. Ma i suoi compagni non lo ascoltano. 

D.K. Certo, la scrittura è sempre fraintendimento. Deve generare un momento di conflitto. Per questo io mi infastidisco quando sento «eh ma quella persona ha usato quella parola e non doveva»Le parole non sono situate in un solo luogo. La parola non ha una casa. Come la n* word, per me non ha una sola casa. Ha tante case diverse perché le persone si muovono nel tempo e nello spazio. 

G.P. Quindi parliamo del politicamente corretto. 

D.K. Il principio del Politicamente Corretto è giusto, ma la sua applicazione è problematica. Se le parole non restano in un solo luogo, l’utilizzo di una parola in me cambia significato nel tempo. 

G.P. Io decido di non usare alcune parole come atto politico. La mia scrittura non perde niente, possiamo usare la lingua con più sinonimi al mondo. Allo stesso tempo, però, non posso fare a meno di chiedermi quanto valore abbia oggi, quando si sono polarizzate due parti, da una parte la rivendicazione della libertà di espressione e dall’altra l’ascolto obbediente e pio delle istanze. Mi manca la parte di conversazione in mezzo, lo spazio in cui capiamo che le parole non sono immobili e costruiamo una lingua collettiva. Io oggi non vedo questo terreno comune, neanche dentro al Femminismo Intersezionale. 

D.K. io per molto tempo ho usato la n*word, poi l’ho smessa, poi l’ho ripresa. Ma il modo in cui la uso io è chiaramente diverso dal mondo in cui lo usa una persona in modo dispregiativo. Noi dobbiamo iniziare a valutare questi contesti, dobbiamo iniziare a porci queste domande. 

G.P. Le parole non sono immobili, lo ripeto. Le parole non sono un insieme di lettere, ma un insieme di immagini storiche, comportamenti e queste cose cambiano a seconda del posto del mondo in cui vivi e del tempo in cui respiri. Quando ho iniziato a studiare e decodificare i corpi, per me è stato subito chiaro che le pratiche discorsive sono alla base della conformazione visiva del mondo in cui viviamo. Io mi sono sempre occupata di antropologia applicata al sistema culturale occidentale, mi sono sempre rifiutata di andare in altri luoghi e trattare ambienti e persone come cavie da osservazione, non fa parte di me. Ma, cazzo, il sistema occidentale ha bisogno di essere guardato dall’antropologia per essere visto e smantellato. Così arrivi al punto in cui capisci che le parole, il modo in cui vestono i corpi, la facilità con cui comunicando conformiamo uno sguardo, sono Il Punto. 

Identità e Nazioni 

D.K. Parliamo di corpi e di identity politics, perché noi prendiamo dal contesto americano tante categorie e teorie pari-pari senza che in contesto italiano sia possibile applicarli. Quando io ho letto il Manifesto della Razza del 1938 ho capito che quella era La Lettura, quel libello spiega perché in questo paese le persone non bianche faticano a trovare uno spazio. Noi siamo corpi astorici, tutto quello che facciamo non è previsto e, anche quando accade, inizia e finisce là, perché viene giudicato un caso. Quindi tutto ciò che non è bianco non è considerato qualcosa che ha valore abbastanza da dover essere indagato. In questo paese c’è stata la strage di immigrati più crudele della Repubblica – a Castel Volturno la camorra ha ucciso sette persone non bianche – causata da motivazioni razziali. In quel momento c’erano molti immigrati e la Camorra ha deciso di andare a sparare a quei sacchi di carbone, li chiamavano così. Sette persone uccise, ma tu senti mai di questa strage? 

G.P. Mai. 

D.K. All’inizio i giornali avevano raccontato questa strage come regolamento di conti tra Mafia Nigeriana e camorra. Invece erano innocenti, persone giovani. E ancora ci chiediamo se l’Italia è razzista. Certo che l’Italia è razzista, perché l’Italia è diventata bianca nel tempo. 

G.P. La storia d’Italia è una storia che va in questo senso, le stesse persone meridionali non venivano considerate bianche quando ci sono stati i primi tentativi di unione. Nel manifesto della razza si parla di omogeneità della pelle, quindi è il corpo che ti rende italiana. E questo ritorna sul discorso dei corpi e delle parole, perché tutti i corpi non conformi indossano degli stereotipi e per questo sono astorici. In Italia abbiamo una complessità ulteriore, perché l’Italia mutua dalle altre nazioni il concetto di identità nazionale, senza averlo costruito davvero. La storia d’Italia si racconta di una frammentazione perenne in ducati e signorie, frammentazione che rivomitiamo fuori costantemente. 

D.K. Rivomitiamo costantemente nel razzismo, perché le autonomie regionali sono feudi che si arroccano perché non vogliono condividere nulla con le altre persone. Noi non solo siamo razzisti, vittime di costanti guerre interne tra territori e territori, ma addirittura a un certo punto ci siamo guardati e abbiamo detto “come costruiamo un’identità nazionale? Andando a invadere altri territori”, così possiamo dire di essere un popolo unito perché siamo andate a massacrare persone che per noi sono inferiori. 

G.P. Quello che sottovalutiamo nell’analisi dell’Italia come nazione è il gap che abbiamo con la storia identitaria delle nazioni che hanno avuto Monarchie assolute e che, nel loro avere un potere centralizzato dall’alto, hanno costruito un tessuto sociale su scala macro, con categorie sociali macro che attraversano il territorio. In Francia con la potenza dell’aristocrazia e delle corti, ma anche con l’opposizione delle classi più povere che a un certo punto hanno agito. In Gran Bretagna con una storia fatta anch’essa di territori divisi ma che vanta un’unificazione ben più longeva e politicamente omogenea della nostra. In Prussia, quando con la Casata degli Hohenzollern si fissa il potere e poi si declina unificando i grandi Elettori sotto un unico presidio, ma anche in questo caso parliamo dell’inizio del 1400. L’Italia non è fatta di queste cose. L’Italia è fatta di una storia che parte già da un Impero Romano che per funzionare ha decentralizzato il potere nelle preture e queste preture erano Stati a se stanti. Certo, esisteva la grande narrazione divina dell’Impero, ma in realtà al suo interno deriva la frammentazione che già fu delle poleis greche. 

D.K. Certo, anche la storia tra Impero Romano e popolo ebraico va in questa direzione. L’Impero Romano impone un dominio, ma lascia alle singole parti la gestione. Questa è la storia dell’Italia, la storia di un paese che ha fatto tantissimi sforzi per concepirsi come unico, ma ha sempre fallito. Solo col sangue dell’unificazione si è arrivati ad avere un solo paese. 

G.P. Un solo paese geograficamente parlando, ma resta totalmente intatta la divisione fino alla storia dell’autonomia recente. Perché noi, nella divisione in piccole province, stiamo comodi. Tanto che la stessa lingua dell’Impero, il latino, muore per lasciare lo spazio alle lingue volgari. Certo, si somigliano tra loro per una questione fisiologica, ma la chiave per interpretare questa cosa è la particolarità territoriale della lingua, data dalla sopravvivenza dei dialetti e dalla loro trasformazione in modi di dire che valgono spesso per un paese e non per quello accanto. Per questo, per questo motivo, quando avere un’identità è stato necessario, abbiamo deciso di essere bianchi e di essere contro tutte le persone non bianche. Il Fascismo ha risposto con slogan e pratiche criminali a questa necessità di aggregazione identitaria. Lo fa anche oggi, è il motivo per cui Meloni vince. 

D.K. Noi siamo italiani perché siamo bianchi, perchè siamo cristiani, perché non vogliamo far abortire le donne, perché non vogliamo immigrati e vogliamo proteggerci. 

I Corpi 

D.K. Teorizzare e parlare di corpi significa rendere consapevoli le persone che ci sono cose che senza esperienza non possono leggere e vedere. Il razzismo non è un problema solo per le persone nere, è un problema anche per le persone bianche, perché non hai la possibilità di vedere quello che ti capita intorno con una consapevolezza trasversale e condivisa. Io non ti parlo di razzismo perché voglio essere riconosciuta, te ne parlo perché la tua è un’identità fasulla e, anche se non riconosci quella violenza perché dici di non essere violenta, io voglio dimostrarti che non è così. Io voglio strappare il velo di Maya che hai davanti agli occhi. 

G.P. Quando vivi in un sistema artificiale e non ti rendi conto di come sia la realtà, è un problema. Questa cosa è molto simile anche al rapporto che abbiamo con i corpi grassi. Quando parlo con persone che subiscono altri tipi di marginalizzazione mi rendo conto che ci sono delle continuità cognitive. Parlare di stigma del peso e di grassofobia a persone con corpi magri o corpi – diciamo – normali è un gran lavoro. È mettermi nella condizione di poter assorbire molta parte della violenza che hanno dentro. Le persone non si rendono conto di essere vittime di un sistema che le porta a performare continuamente col loro corpo e nel loro corpo. Questa cosa di cui non si rendono conto è violentissima, perché li porta a infliggersi pratiche non perché siano giuste, ma perché sono persone terrorizzate di cadere dentro il gruppo di persone ai margini. 

D.K. Ma certo, chi ti ama quando sei grassa? Chi ti ascolta, chi ti vuole, chi ti considera? Nessuno. E te lo dico io, non ho nessun problema a dire che io sono grassofobica con me stessa. Ho avuto per tanti anni disturbi alimentari. Sai che di quel periodo non mi ricordo nulla di me? Ricordo solo che ero grassa, anche se non lo ero per niente. Io ho vissuto il passaggio dall’infanzia all’adolescenza in modo violentissimo. Da piccola bambina magrissima mi sono trasformata in una donna col seno e sessualizzata. Non mi dimenticherò mai tutte le persone che mi hanno costantemente fatto notare quanto seno o sedere avessi. 

G.P. Ma certo, perché fin da quando sei piccola ti insegnano che non puoi meritare nulla se non hai un corpo magro. E questo significa che le persone che hanno a che fare con te sono giudicate come perverse e tu, che non hai ricevuto educazione emotiva neanche per sbaglio, accetti molte cose che mai dovrebbero essere fatte a una persona. Nel DMS c’è ancora l’adipofilia nell’elenco delle parafilie. Significa che in un processo per violenza sessuale se il mio abuser ha un avvocato furbo, nessuno verrà incriminato. 

D.K. Perché è considerata una malattia. Questa è una cosa terribile. Terribile. 

ARTICOLO n. 28 / 2023

IL GIOCO DEL SILENZIO

Esistono cose che non si raccontano. E questo lo sappiamo un po’ da sempre: di certi argomenti è meglio non parlare.

Un vecchio detto italiano recita “alla donna nessun vestito sta meglio del silenzio” e direi che non è stato poi così difficile, viste le nostre premesse culturali, aderirvi in modo pressoché letterale.

I modelli femminili per antonomasia sono infatti incredibilmente silenziosi.

Mi vengono in mente le muse dei grandi stilnovisti: erano donne miti, angeliche, meravigliose, giovanissime, sempre zitte e preferibilmente morte.

Ma anche le educande, allenate al silenzio; le donne della nobiltà di ogni secolo, anche il più moderno, che rimanevano quel famoso passo indietro per permettere agli uomini di mostrare la loro ruota di pavoni; le madri devote; le grandi attrici del passato come Marilyn Monroe, la cui duplice esistenza – sempre in bilico tra una gioia fotogenica di facciata e una pura, solitaria disperazione privata – è quasi emblematica di quel silenzio femminile di cui sto scrivendo.

La dimensione privata femminile è difatti sempre stata sotterranea, impercettibile, inenarrabile: di maternità, violenza, odio, lutto, desiderio, corpo era per le donne indecoroso parlarne; come se questi fossero argomenti tabù, permeati di un malsano orrore e capaci di rendere mostruose le donne che volessero esprimerne pareri – o legittime emozioni – a riguardo.

Le poche voci che riuscivano a levarsi e affrontare certi discorsi venivano prontamente silenziate o brutalmente esposte, come monito per le generazioni a venire: Artemisia Gentileschi è in questo senso un perfetto esempio di emarginazione indotta dalla sua ricerca di giustizia. Ma, senza andare troppo indietro nei secoli, possiamo pensare ad Amber Heard e al processo contro Johnny Depp. 

Le donne che parlano – parlavano? a volte mi piacerebbe poter usare solo il tempo passato – di argomenti intimi e potenzialmente disturbanti vengono da sempre allontanate dal dibattito o rese mostruose.

O meglio, citando Jude Ellison Sady Doyle, il loro femminile viene reso mostruoso.

Si pensa infatti che queste donne non siano adatte a essere mogli, madri, muse, femmine. Ma siano nate sbagliate, corrotte.

Questo perché “i panni sporchi si lavano in casa”, per usare un altro Leitmotiv nostrano, e la casa è ovviamente femmina.

Quello che succede dentro alle mura domestiche non deve uscire, deve rimanere privato e lì deve morire.

Il sistema di isolamento femminile – e isolamento delle voci femminili – è figlio utilissimo di un paese per uomini: se le donne non parlano allora non potranno comunicare tra di loro e, al contempo, il loro dolore e la loro rabbia non verranno accolti, lasciando gli equilibri di potere intatti.

Nei secoli – specialmente nel Novecento – questo atteggiamento si è andato a smorzare, facilitato anche dall’ingresso di sempre più donne nel mondo dell’arte che, per antonomasia, si fa portatrice di significati e messaggi nuovi, rivoluzionari, immediati – nel senso di privi di mediazione tra l’artista e il suo pubblico.

Specialmente dagli Anni Venti del secolo scorso le donne hanno preso sempre più spazio nell’industria dell’arte e della cultura. 

Questo ha portato a un rinnovamento dei temi e delle rappresentazioni stesse dei generi.

Pensiamo al surrealismo, corrente artistica del ventennio passato, profondamente maschile e spesso piuttosto acerba nella rappresentazione del femminile – nel senso che gli artisti usavano i corpi femminili come oggetti per veicolare la soavità, il desiderio, l’eleganza e la passione senza mai far vedere i volti delle modelle che vi erano ritratte, sessualizzandole ogniqualvolta fosse stato possibile – che si vide travolta dalla produzione di opere di artiste come Leonor Fini e Leonora Carrington. Le donne di questa corrente portarono per la prima volta una nuova immagine del corpo della donna, rendendolo feroce, brutale, pericoloso, respingente, dolente, egoista; e, in un panorama culturale ancora così maschiocentrico, questa era una vera e propria rivoluzione.

La possibilità di autorappresentarsi dava modo alle artiste di riprendere temi classici e finalmente caricarli di voci del tutto nuove, interpretazioni carnali, rumorose, terrene, reali, soggettive, prive di romanticizzazione.

La performance art degli Anni Settanta riprese in pieno questo desiderio di stravolgimento del silenzio – anche e soprattutto grazie alla spinta del movimento femminista – e diede voce ai sentimenti da sempre taciuti fino ad allora. 

Marina Abramović, con la sua performance Rythm 0 del 1974 a Napoli, in cui invitava gli spettatori a prendere in mano degli oggetti situati su un tavolo posto vicino al suo corpo immobile e a usarli su di lei, è stata in grado di dimostrare quanto il gioco del silenzio sia stato emblematico nell’isolamento del genere femminile: gli spettatori all’inizio della performance si limitavano a scriverle qualcosa addosso, spostarle capelli, attaccarle dei cartoncini. Ma con il passare delle ore il corpo muto di Abramović andava incontro a vere e proprie violenze: l’artista fu ferita, denudata, brutalizzata; venne perfino impugnata una pistola – carica – contro di lei.

Lo scopo di Abramović non era rendere il suo corpo il centro dell’opera, anzi: lo scopo di Abramović era rendere lo spettatore carnefice davanti al corpo immobile di una donna: dove può portarci il silenzio? La risposta che hanno dato gli spettatori in quelle sei ore di performance è piuttosto significativa.

Dagli Anni Settanta in avanti la voce delle donne dell’arte – in ogni sua declinazione – si è sempre più fatta sentire. Da Vanessa Beecroft – le cui performance costringono chi guarda a passare tra corpi femminili assolutamente erotici ma al contempo respingenti e spaventosi – ad Alda Merini, il silenzio intorno al tema del femminile si è man mano squarciato.

Ci siamo riappropriate della narrazione su argomenti come la perdita – L’anno del pensiero magico di Joan Didion è in questo emblematico – la maternità, la malattia mentale, l’aborto, il sesso, la violenza – dove Lidia Yuknavitch è stata maestra indiscussa con La cronologia dell’acqua –  e perfino l’amore, ripulendolo da quella patina melensa che era da sempre stata abbinata al sentimento di devozione, ritenuto femmineo – e qui mi torna alla mente la mia amata Sheena Patel – dando loro nuovi significati (e se non nuovi, almeno completandoli), aggiungendo voci laddove mancavano e riempiendo i silenzi intorno a sentimenti ritenuti ancora inenarrabili. 

Le scrittrici contemporanee sanno bene quanto sia prezioso questo momento storico e culturale per poter finalmente togliere un po’ di magia all’idea statica di femminile che ci portiamo dietro da secoli e che ci vuole martiri perfette o vittime inattaccabili.

Ecco, è in questa mia lunga, spicciola premessa che si inserisce Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, edito da Einaudi e uscito lo scorso 14 marzo.

Nella sua ultima opera, Lattanzi abbatte il silenzio sulla genitorialità e racconta di due anni della sua vita – e di quella del suo compagno – passati a cercare una gravidanza, a trovarla e poi perderla.

Nel racconto – velocissimo: il ritmo è travolgente, l’impaginazione non lascia fiato anche quando sembra volertelo concedere, il tempo presente ti incalza frase dopo frase – della sua corsa verso il desiderio, poi la paura e poi il dolore, il silenzio non esiste.

Non ci sono assolutamente tabù, non si lascia niente di non-narrato, e al lettore non viene dato spazio per altre interpretazioni se non quella dell’autrice, che ricostruisce due anni della sua vita in modo precisissimo.

In duecento pagine Lattanzi sa prendere il dolore e renderlo tridimensionale, affrontandolo da ogni sfaccettatura: dalla bolla familiare alla paura per il suo lavoro, l’autrice analizza ogni dettaglio su cui si è posata la disperazione, quasi fosse materiale vischioso che non vuole staccarsi da ogni cosa che tocchi.

Un viaggio intimo, profondamente personale, che tocca nodi delicati che si ha poca voglia di vedere da vicino – l’odio verso chi riesce a portare a termine una gravidanza, la determinazione di chi vuole un figlio, la solitudine di chi affronta certi percorsi che ancora non sono annoverati tra le cose che si raccontano – e che conferisce una voce nuova a un altro pezzetto di femminile rimasto per secoli silenzioso.

Lattanzi fa questo con la consapevolezza che il contrario di silenzio sia rumore, eppure non lo fa mai alzando la voce, guidandoci  bensì verso il centro di questo dolore, Caronte consapevole del ruolo della sua letteratura, così intima ma, al tempo stesso, di valore collettivo.

Da quando ho letto Cose che non si raccontano non posso fare a meno di pensare che questo libro si possa inserire tra quelle opere che ti aiutano ad avere un quadro più completo sul complessissimo mondo dell’emotività e della vita femminile, che per secoli ha subito una  costante e micidiale punizione del silenzio.

E questo silenzio ha avuto come conseguenza un isolamento di un intero genere, che è stato incapace di poter esprimere un complesso mondo emozionale legato al proprio corpo e ai desideri e alle paure più ancestrali che ci siano.

Negli ultimi anni si parla di maternità in modo differente, privandola di romanticizzazione, stigma, beatificazione. E non posso fare altro che pensare a come sarebbe stato meno solo il mondo per migliaia e migliaia di donne se voci come quella delle artiste fossero state accolte ben prima, e con diversa attenzione e sensibilità.

Realizzo dunque quanto sarà utile a tantissime persone questo romanzo di Lattanzi, in grado di abbattere il silenzio e spostare l’asticella del taciuto ancora un po’ più un là.

Rendendo le cose che non si raccontano cose che finalmente si possono dire senza paura.

ARTICOLO n. 27 / 2023

SAFFO, LA RAGAZZA DI LESBO

Tasmania, Australia, 9 marzo 1825. Sul “Tasmanian and Port Dalrymple Advertiser” di quel giorno compare un lotto di beni venduti all’asta, tra cui alcuni quadri, e tra questi un ritratto immaginario di Saffo, la poeta vissuta sull’isola greca di Lesbo alla fine del VII secolo Avanti Cristo, la cui ombra dorata si allunga sulle migliaia di anni a venire, fino al giorno in cui si svolge questa scena dall’altro capo del mondo, fino a noi.

Come un’archeologa che dolcemente e tenacemente riassembli una statua ellenica in frantumi, sapendo che dovrà fare i conti con mancanze e vuoti, Silvia Romani, docente di Mitologia, Religioni e Antropologia del mondo classico all’Università Statale di Milano, già autrice di studi dedicati al mito di Arianna e ora di Saffo, la ragazza di Lesbo (Frontiere Einaudi), ne ricostruisce per frammenti la figura e il lascito: dall’Antichità ai giorni d’oggi passando per l’Ottocento, in cui il nome di Saffo diventerà emblema dell’amore delle donne per le donne e, più ampiamente, della libertà di amare senza tabù chi e ciò che si vuole. 

La Saffo di Silvia Romani può essere quindi paragonata a una statua di cui ricostruiamo tra ipotesi e lacune la bella figura, o a un ritratto impressionista sempre in fieri, in cui il tratteggio avviene per intense pennellate: dato che dell’autrice, che Odisseas Elitis descriverà come una creatura minuta e bruna «che tuttavia ha mostrato di essere in grado di sottomettere una rosa», e a cui Lawrence Durrell ha dedicato nel 1950 Sappho. A Play in Verse, non ci restano che esigue e spesso incerte notizie di vita. In più, dei molti volumi che un tempo componevano la raccolta della sua produzione poetica nella Biblioteca di Alessandria, non è arrivato fino a noi che un Inno ad Afrodite, più qualche brandello di componimenti in versi, sufficienti però a tramandarne la grandezza. 

Infinite riscritture e interpretazioni, tra cui, naturalmente, l’Ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi, e uno dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese – in cui a discorrere con la dea cacciatrice Britomarti è proprio l’autrice nata a Ereso e vissuta a Mitilene, sull’isola che si diceva fosse stata razziata dagli Achei diretti con le loro navi nere alla non lontana Troia, l’isola dove poi, dopo dieci anni di guerra, avrebbero fatto di nuovo sosta prima di intraprendere la lunga e spesso mortale via del ritorno – ci consentono di pensare a Saffo, scrive Romani, «anche come a una persona che ci è familiare. Il suo mondo è a un tocco di mano, sbattono le vele delle navi, si gonfiano i tessuti leggeri che indossano le compagne, si svelano i giardini dietro siepi di rose che paiono alberi. E Saffo è lì». 

La ragazza di Lesbo balza così fuori dalle pagine di questo libro come la prima poetessa «ad aver avuto il coraggio di dire “io” con tanta risoluta determinazione. E se pure ora sappiamo che quel pronome di prima persona vuol intendere talvolta un io più grande, un mondo intero, ugualmente raccontare di lei significa anche parlare di ciascuno di noi». Le sue parole sono le nostre parole, scrive Romani, cielo e mare, luna e stelle, rose e viole, e i suoi fantasmi quelli che abitano gli scenari diurni e notturni di tutti: «l’abbandono, la solitudine, la fine di un amore, la vecchiaia, la morte», e anche gli infiniti mondi del perturbante, se a un certo punto la studiosa ricostruisce il tiaso dove Saffo fu forse educatrice, e amante, di ragazze giovanissime nelle forme di un Picnic a Hanging Rock molto ante litteram, sulle tracce del romanzo del 1967 di Joan Lindsay ancora più che del notissimo film, di quasi un decennio successivo, di Peter Weir. 

Nell’era della letteratura in prima persona, e della vita più che mai in prima persona, la stella Saffo – e vogliamo immaginarla non lontana dall’asteroide Saffo 80 che nel 1864 le è stato dedicato – splende più intensa. Accanto al saggio di Romani varrà citare titoli recenti, e in primo luogo la Saffo per bambine e bambini di Io sono la mela, di Beatrice Masini, affermata autrice per adulti e ragazzi e direttrice editoriale di Bompiani. Nel volume, uscito per l’editrice palermitana rueBallu, collana Jeunesse ottopiù e illustrato da Pia Valentinis, figura un sottotitolo: Una storia di Saffo. “Una” e non “la” storia, perché, racconta Masini ai suoi (piccoli) lettori e lettrici, «tutto ciò che è stato raccontato in queste pagine non è successo. Sappiamo così poco di Saffo che qualunque cosa ci azzardiamo a scriverne è una fantasia». I papiri su cui erano state riportate le sue poesie, per esempio, «sono stati gettati via e sono finiti in una discarica, alla periferia della città egizia di Ossirinco, e sono rimasti sotto la sabbia per secoli», fino al loro ritrovamento nell’Ottocento. «Certe volte poemi, tragedie, poesie sono stati usati per imbottire delle mummie (il mondo antico era un posto dove non si buttava via niente. Pezzetti di papiro, tagliati, bucati, macchiati. E sopra le parole. Alcuni erano finiti a foderare la pancia della mummia di un coccodrillo», che possiamo ben dire essere un posto ben strano, conclude Beatrice Masini, per una poesia o un canto. 

Dall’Antichità nuda di oggetti, viva di passioni, in cui Saffo ha vissuto; al racconto di Beatrice Masini, non «basato sulla realtà, ma nemmeno del tutto inventato», attraversando un impossibile buco nero che immaginiamo collocato a sufficiente distanza dall’asteroide Saffo 80 perché non lo risucchi, ci catapultiamo da vicinanza estrema a distanza abissale. Dalla Saffo materica di Silvia Romani – la cui migliore resa in immagini è forse la vulnerabile, lattea statuetta che il Metropolitan Museum di Boston commissionò e poi rifiutò a Auguste Rodin, e di cui oggi, dopo i saccheggi di opere d’arte perpetrati dai nazisti, ci resta solo una fotografia – alla Saffo mediatrice cognitiva tra mondo interiore amoroso prima e mondo dopo l’invenzione della scrittura che la poeta canadese Anne Carson tratteggia in Eros il dolceamaro (Utopia, traduzione dall’inglese di Patrizio Ceccagnoli, con uno scritto di Emanuela Tandello). In questo primo saggio del 1986, rielaborazione della sua tesi di dottorato, Carson, da poeta a poeta, a partire dal Frammento 31 – meglio noto come Ode alla gelosia – fa di Saffo la prima detentrice di quello sguardo lirico che triangola il soggetto amato e l’Altro, simile agli dèi, che l’osserva nella distanza della composizione nero su bianco, nel nuovo spazio dentro la mente e dietro il cuore che la pratica solitaria della grande novità dell’epoca, la scrittura alfabetica, rende possibile. È lì che nasce l’ossimoro, esemplarmente incarnato nell’aggettivo dolcemaro attribuito a Eros. È lì che si afferma la compresenza degli opposti, che la scrittura diventa la dimora privilegiata del senso inteso come ambiguità, come irriducibile complessità. «Il sé prende forma al confine del desiderio, e una scienza del sé nasce dallo sforzo di lasciarsi quel sé alle spalle». È davvero una coincidenza, scrive Carson, «che i poeti che inventarono Eros, facendone una divinità e un’ossessione letteraria, furono anche i primi autori della nostra tradizione a lasciarci le loro poesie in forma scritta?» O, per porre la domanda in modo più diretto, che cosa c’è di erotico nella nascita dell’alfabeto? Una domanda a cui, sembra sorridere maliziosamente Carson, è impossibile rispondere. O forse una domanda di cui solo la poesia, sorride ancora più maliziosamente Saffo nella nostra mente, detiene la risposta. 

ARTICOLO n. 26 / 2023

ANTONIONI IN MANICOMIO

Il documentario: sublime e rovesciamento

Pubblichiamo in anteprima un estratto da Decreazione di Anne Carson in libreria dal 31 marzo (traduzione dall’inglese di Patrizio Ceccagnoli). Ringraziamo l’editore Utopia per la disponibilità.

Il Sublime è una tecnica documentaria. Documentario: «relativo a, basato su documentazione; oggettivo, fattuale» (dal Dizionario della lingua inglese di Oxford). Si prenda il trattato di Longino Sul Sublime. Quest’opera è un cumulo di citazioni. Presenta argomentazioni confuse, poca organizzazione, nessuna conclusione parafrasabile. I suoi tentativi di definizione sono incoerenti o tautologici. Il tema chiave (la passione) rimanda a un altro trattato (che non esiste). Si riemerge dalla lettura dei suoi quaranta capitoli (incompiuti) senza avere un’idea chiara di cosa effettivamente sia il Sublime. Ma la sua documentazione è, a dir poco, elettrizzante. Come un pattinatore, Longino volteggia tra Omero e Demostene, Mosè e Saffo, su lame di pura spavalderia. 

Cos’è una citazione (quote, in inglese)? Una citazione (il termine inglese deriva dal latino quot ed è affine alla parola quota) è un taglio, una sezione, uno spicchio dell’arancia di qualcun altro. Si succhia lo spicchio, si getta la scorza e via, sui pattini. Parte di ciò che ci piace di una simile tecnica documentaria è proprio l’idea di banditismo. Saccheggiare la vita o le affermazioni di qualcun altro e scappare con un punto di vista, che viene definito oggettivo, perché, trattandola in questo modo, si può trasformare qualsiasi cosa in un oggetto; è eccitante e pericoloso. Vediamo chi controlla questo pericolo.

Nel capitolo venti del trattato Sul Sublime, Longino si congratula con l’oratore greco Demostene perché, quando racconta una scena violenta, sa far piovere le sue parole come colpi: 

«Con l’atteggiamento! Lo sguardo! La voce! L’uomo che colpisce può fare all’altro cose che questi non può nemmeno descrivere». 

«Con parole come queste», sorride Longino, «l’oratore produce lo stesso effetto di chi sferra un destro, percuotendo le menti dei giudici colpo dopo colpo», e cita ancora: 

«Con l’atteggiamento! Lo sguardo! La voce! Quando sembra agire con insolenza, quando si comporta come un nemico, quando si serve dei nudi pugni, quando colpisce alle tempie». 

Il punto di Longino è che, mediante la brutale giustapposizione di nomi coordinati o frasi nominali, Demostene traspone la violenza dei pugni nella violenza della sintassi. I suoi fatti traboccano dalla cornice del loro contesto originale e prendono a pugni le menti dei giudici. Pensate a questo rovesciamento. Dall’«uomo che colpisce», alle parole di Demostene che lo descrivono, ai giudici che ascoltano queste parole, a Longino che analizza l’intero processo, a me che ricordo la discussione di Longino e, infine, a voi che leggete il mio resoconto. Questo momento appassionante riecheggia da anima ad anima. 

Ciascuno lo controlla temporaneamente. Ciascuno ne gode citazione dopo citazione. 

Perché un’anima dovrebbe goderne? Longino risponde a questa domanda affrontando la psicologia del guardare, dell’ascoltare, del leggere, dell’essere spettatori. Questa psicologia comporta uno spostamento e un dispiegamento di potere: 

«Toccata dal vero Sublime la vostra anima viene naturalmente elevata, si innalza a un’altezza superba, si riempie di gioia e di vanto, come se avesse creato lei stessa ciò che ha udito». 

Provare la gioia del Sublime significa essere, per un momento, dentro il potere creativo, condividere un po’ di quella vita elettrica che si aggiunge mediante l’invenzione dell’artista, per traboccare insieme a lui. Consideriamo un altro esempio. Quando Michelangelo Antonioni stava girando Cronaca di un amore con l’attrice Lucia Bosè nel 1950, capì che doveva lasciarsi alle spalle la macchina da presa per attraversare il set e plasmare lui stesso la psicologia dell’attrice: 

«Quanti sganassoni prese, povera Lucia, per l’ultima scena. Il film si chiudeva con l’immagine di lei pesta e singhiozzante addossata a un portone. Ma lei era sempre contenta, e non aveva abbastanza mestiere per fingersi disperata: non era un’attrice. Per ottenere il risultato che volevo dovetti usare la violenza, psicologica e fisica. Insulti, frasi mortificanti, umiliazioni, e schiaffi cattivi. Alla fine le saltarono i nervi, piangeva come una bambina piccola: fece benissimo la sua parte».

Tra Antonioni e Lucia la soglia di un portone è una zona di pericolo. È un pericolo documentario. In un duplice senso. «Documentario» implica, da un punto di vista cinematografico, la preferenza per ciò che è reale, nella preparazione di un film, rispetto al ricorso all’immaginazione. Quando emerge da dietro la macchina da presa e si cala nella Cronaca di un amore per migliorare le prestazioni di Lucia Bosè con i suoi meravigliosi sganassoni, Antonioni fa razzia del confine tra l’attrice e la sua parte. «Documentario» si riferisce anche a qualcosa che dipende dai documenti. Chi avrebbe saputo di questo incidente se Antonioni non l’avesse raccontato a un giornalista del Corriere della Sera nel 1978 e non l’avesse incluso nel suo libro Architetture della visione, agendo come il Demostene di se stesso e poi come il suo Longino? Allo stesso modo, forse non avremmo mai saputo dell’effetto di Demostene sui giudici, se Longino non l’avesse elogiato nel trattato Sul Sublime. Forse non avremmo mai saputo della violenza dell’«uomo che colpisce», se Demostene non l’avesse denunciata nel suo discorso Contro Midia. In ogni caso, viene creato, citato e poi spifferato un momento appassionante. Potremmo sentirci le mani che formicolano, l’anima che si invola. 

Il primo maestro nell’arte di far traboccare la forza, ci dice Longino, fu Omero. Ecco Longino che descrive come Omero si trasformi nel suo stesso poema per diventare sublime quanto il suo soggetto: 

«Guardate, questo è il vero Omero che spira come vento accanto ai combattenti, nientemeno di quell’Omero che “infuria come Ares sferzante con la lancia, o come un rovinoso fuoco che divampa sui monti, nelle pieghe della profonda foresta, e la schiuma affiora intorno alla bocca”». 

La schiuma è il segno di un artista che ha immerso le mani nella propria storia, ma anche di un critico che si accanisce e si infuria nelle pieghe della propria, profonda teoria. È evidente alla maggior parte dei suoi lettori che Longino si muove attraverso il trattato Sul Sublime lui stesso coperto di schiuma. «Longino è lui stesso il grande Sublime che dipinge», dice Boileau. «Che cos’è più sublime: la battaglia degli dèi in Omero o l’apostrofe che ne fa Longino?», chiede Gibbon. «Le nature sublimi sono raramente pure!». Lo stesso Longino si esprime così. Uno schiaffo: paf! 

STOP

Il Sublime è grande. «Grandezza» (o «magnitudine») è uno dei sinonimi di sublime adoperati da Longino nel suo trattato. La sua grandezza minaccia di finire sempre fuori controllo, di sommergere e sopraffare l’anima che cerca di goderne. Questa minaccia fornisce al Sublime la sua struttura essenziale, un’alternanza di pericolo e salvezza, che altre esperienze estetiche (la bellezza, per esempio) non sembrano condividere. La minaccia fornisce al Sublime anche il suo contenuto necessario: cose terribili (vulcani, oceani, estasi) e terribili reazioni (morte, terrore, trasporto) all’interno delle quali l’anima sublime è tutto fuorché persa

La schiuma è un segno di quanto sia vicina questa minaccia. Infatti, un’anima sublime è minacciata non solo dall’esterno ma anche dall’interno, perché la sua natura è troppo grande per l’anima stessa. L’oratore sublime, il sublime poeta, il critico sublime, non sono che persone selvaggiamente smarrite nella propria arte, sospinte fuori di sé, incuranti, temerarie, in errore. «Bruciano tutto ciò che trovano dinanzi mentre vengono trascinati!». Longino insiste sull’estasi, sul genio che turbina fuori controllo, come il Reno o il Danubio o anche l’Etna, «le cui eruzioni scagliano dal basso rocce e rupi intere e versano fiumi di quel fuoco strano, spontaneo, nato dalla terra». Allo stesso tempo gli piace soffermarsi sull’orlo dell’Etna, osservarne la mostruosa emorragia, giocare con il controllo concettuale:

«Non si potrebbe forse dire di tutti questi esempi che… Il mostruoso suscita sempre meraviglia!». 

I film di Antonioni presuppongono molte forme di gioco con momenti di passione, diversi modi di diffonderne i contenuti. Al regista piace, per esempio, attirare l’attenzione sullo spazio fuori campo ponendo uno specchio al centro della scena, in modo da lasciarci intravedere un frammento decontestualizzato di mondo. Oppure gli piace regalarci due inquadrature in successione della stessa porzione di realtà, dapprima in primo piano, poi un po’ più in lontananza, non troppo diverse eppure sensibilmente disuguali. Usa anche una procedura, chiamata dai critici francesi temps mort, in base alla quale la telecamera viene lasciata girare su una scena dopo che gli attori pensano di aver finito di recitarla: 

«Quando tutto è stato detto, quando la scena sembra finita, c’è il dopo… Gli attori continuano per inerzia, per alcuni momenti che sembrano “morti”. L’attore commette “errori”».

Ad Antonioni piace documentare questi momenti dell’errore, quando gli attori fanno cose fuori copione, recitano «al contrario» come dice lui. Lì si può manifestare la schiuma. Ha iniziato ad allargare l’inquadratura in questo modo mentre lavorava a Cronaca di un amore. Ha poi lasciato che le riprese proseguissero anche dopo che gli attori erano usciti di scena. Come se qualcosa potesse continuare a frusciare, ancora per un po’, intorno a un portone vuoto.

Che i film di Antonioni siano o non siano sublimi, l’impiego che Antonioni fa di Antonioni lo è certamente. Così come lo è l’impiego che Longino fa di Longino. «Il Sublime è l’eco di una grande mente, come credo di aver detto altrove», dice Longino, facendo eco a se stesso con dolcezza. Si può ritrovare un simile effetto eco anche in Antonioni, soprattutto quando ci racconta la storia del giorno in cui è andato al manicomio, che si ripete in ogni intervista, in ogni conversazione o studio della sua opera. Racconta che la prima volta che ha puntato gli occhi in una telecamera è stato proprio in un manicomio. Aveva deciso di girare un film sui pazzi. Anche il direttore del manicomio sembrava pazzo, o almeno così parve ad Antonioni quando lo incontrò il giorno delle riprese. Eppure i pazienti si sono mostrati efficienti e disponibili nel fornire gli oggetti di scena e le attrezzature, oltre che nel preparare la stanza. «Devo dire che sono rimasto sorpreso dal loro buon umore», confessa Antonioni, prima di accendere i suoi grandi riflettori. 

La stanza «divenne un inferno». I pazienti urlavano. Si accartocciavano, si contorcevano e si rotolavano sul pavimento, cercando di scappare. Antonioni rimase impassibile, e così il suo cineoperatore. Alla fine, il direttore del manicomio gridò «via quella luce!». La stanza si fece silenziosa, con un lento e debole movimento di corpi che si lasciavano alle spalle l’agonia. Antonioni racconta di non aver mai dimenticato questa scena. Se quel giorno avesse girato un film, sarebbe stato un documentario fatto di schiuma. Ma i matti, che sapevano bene cosa fosse un rovesciamento, non volevano essere citati. Bisogna ammirare i pazzi. Sanno come valorizzare un momento di passione. Anche Longino lo sa fare bene. Il suo trattato termina così: 

«Meglio lasciare queste cose e passare a ciò che viene dopo: le passioni, riguardo alle quali mi sono impegnato a scrivere in un altro…». 

Qui il manoscritto Sul Sublime si interrompe. La pagina successiva è troppo danneggiata per essere letta e non si può dire quanto davvero manchi alla conclusione. Longino pattina via. 

IL GIORNO IN CUI ANTONIONI ARRIVÒ IN MANICOMIO
(Rapsodia) 

«Fu un momento inquietante. Si avvicinò». 

Lucia Bosè 

È stato il suono della sua scrittura a svegliarmi. Visto che me lo chiedete, questo è quello che ricordo. La sua scrivania è appena fuori dalla mia stanza. Certi giorni sento suoni troppo forti. Altri, sento una folla e la folla non c’è.

Sulla sua scrivania tiene appunti. Compila liste dei nostri medicinali. Fa le parole crociate o mette un segno di spunta ai margini degli annunci economici. Un suono lieve, secco e stridente. Gli altri ne sono inconsapevoli. Queste differenze sono difficili da sopportare. 

Poi c’è stato l’ammutinamento. Ci hanno detto di scendere in fretta nel salone e «partecipare», quindi ci siamo tutti spogliati. Diciotto persone nude in sala. Lei non ha detto una parola. E questo ci ha spaventato. Ci siamo rivestiti. Tute da lavoro, niente più donne e uomini. 

Ciò che l’occhio poteva scorgere era una pila di documenti sulla sua scrivania, con minuscoli paragrafi, firme e graffette. Questi documenti non sono stati più visti nel salone né altrove. Li tengo d’occhio. Sono stati i documenti a portare la maggior parte di noi qui. «È lui», disse qualcuno mentre scendevamo le scale. Antonioni indossava un maglioncino marrone e sembrava un gatto. Volevo dargli una leccatina o una carezza.

«Incline allo svenimento», direi, era l’umore nella stanza. L’arrivo improvviso di un bell’uomo, più che ingannare le persone, le terrà ben sveglie: ubriachi del nostro stato di veglia ci siamo precipitati a eseguire i suoi ordini. Essere svegli era qualcosa di cui molti avevano sognato, pur continuando a dormire per anni, come la famosa principessa nella bara di vetro. Una volta ho aperto un biscotto della fortuna cinese che diceva «alcuni realizzeranno il desiderio del cuore, purtroppo».

Si è messo dietro la sua cinepresa Bell & Howell da sedici millimetri. Due dei suoi uomini davano istruzioni. Patty, Bates e io spostavamo le sedie trascinandole. Gli spessi cavi neri dovevano esser srotolati del tutto per raggiungere le prese. Non stavamo commettendo errori. Eravamo estremamente attenti. Niente scherzi. Niente sonno. Niente sguardi indiscreti. E lei stava al proprio posto vicino al muro, a ripiegare il suo cruciverba, e cercava di apparire calma. Dal momento che contiene la parola issopo, il Salmo 51 è il mio preferito. 

L’issopo (come forse saprete) è un’erba purificatrice che profuma di una menta proveniente dallo spazio siderale. «Crea in me, o Dio, un cuore puro». Ho sentito una zaffata di issopo proprio quando quei grossi cavi neri si sono attivati (la luce inizia a puzzare quando ce n’è troppa) e un improvviso bagliore mi ha allineato ai tappeti, sul pavimento. Eravamo tutti sul pavimento e Patty ha urlato «continuate a girare», e così abbiamo fatto (per scongiurare la morte) e ogni volta che Bates mi passava davanti ci baciavamo, come avevamo stabilito di fare durante le attività di gruppo (ce ne sono molte, qui), perché la vita è breve e il desiderio ardente è desiderio ardente. 

Secondo Patty, se non mi trovassi in questo posto, non avrei tempo per uno come Bates. Le ho risposto che sono un tipo pratico e Bates è la mia pratica in questo momento. «Avere tempo per» è esattamente il punto. I giorni qui sono lunghi duecento anni. Gli estranei (Antonioni) entrano alla velocità sbagliata. 

Scommetto che lui lo sapeva. La sua faccia era quella di chi entra in una stanza e non trova il pavimento. Nel frattempo, siamo rotolati fino alla parete e a un segnale di Patty abbiamo fatto retromarcia e siamo rotolati indietro. Meravigliosamente, ho pensato, era come giocare a bowling. Antonioni sembrava addolorato dalle grida di tutti. 

Gridare è la regola qui – la regola dei pazzi –, nasconde i baci e ci rende meno tristi.

Antonioni aprì gli occhi. Lei si allontanò dal muro e gli si avvicinò. «I pazienti hanno paura della luce», gli spiegò, «pensano che sia un mostro». Questo tipo di disinformazione spontanea è tipico della professione medica. In fin dei conti, suppongo che difficilmente avrebbe potuto dire «i pazienti venerano Afrodite, donatrice di vita, ogni volta che ne hanno l’occasione, grazie per aver favorito questa opportunità». Comunque, non ho certezza di quanto intelligente lei sia. Un giorno le ho raccontato dell’evoluzione: che all’inizio le persone non avessero un sé, almeno non come noi abbiamo un sé oggi, c’erano le braccia le teste i torsi e compagnia bella a vagare intorno ai frangenti della riva della vita, le caviglie staccate, gli occhi senza sopracciglia, finché alla fine ciò che unì le varie parti in creature complete fu l’Amore, e lei disse «conosci una parola di sei lettere per “donna dissoluta o sfrenata derivante dal suono degli zoccoli di un cavallo che scende lungo una strada di notte”?». Al che ho risposto «sì, la conosco e posso fare la doccia con Bates stasera, giusto?». 

Pianificare sempre in anticipo, questa sono io, pratica come il purgatorio, come diceva sempre mia madre. «Esulteranno le ossa che hai spezzato». Ma adesso eravamo diciotto persone orribili, in una stanza. Cercavamo di non guardarci mentre ci alzavamo dal pavimento. Antonioni si è dato una scossa come un gatto ordinato e si è ricomposto. Il direttore del manicomio era accanto a lui e mormorava, con un tono di voce sottile, qualcosa tipo «vediamo cosa abbiamo imparato oggi». Sobri cenni di assenso da ogni parte. Avrei voluto ascoltare un commento di Antonioni. I gatti non si spendono ma notano tutto. Ho visto che ha notato Bates. Così, per un istante, i nostri destini si sono sfiorati.Della fresca neve bianca si era depositata sulla scura fanghiglia all’esterno. Patty ha espresso disappunto per il tono e il tenore generale della mattinata. «Un losco spettacolo di merda, amica mia», credo siano state queste le sue parole precise. Eppure, ci prendiamo la fortuna quando accade. Niente migliora la vita comunitaria quanto un’ora di aerobica, come prima attività, la mattina. Le grida sono lievi per tutto il resto della giornata. «Purificami, e sarò puro; lavami, e sarò più bianco della neve». Ed era venerdì, angel cake per cena, docce calde a seguire e chissà quali disposizioni interne. Dal giorno in cui le ho dato la parola che cercava («tittup») mi tratta con particolare cura. «Non startene in lutto», dice, inclinandosi all’indietro su due gambe della sedia. 

ARTICOLO n. 25 / 2023

ARTE O VANDALISMO?

Arte activa volume 1

Quando un’opera d’arte viene aggredita, per qualche tempo i titoli dei giornali e le bacheche dei social si gonfiano di indignazione. Sporcare una cornice, tagliare una tela, scrivere uno slogan su una statua, che si tratti di azioni simboliche o reali, in molte persone scatenano un biasimo pari se non superiore a un attacco alla loro proprietà – e in un certo senso è comprensibile, perché l’arte è un bene comune.

Il caso più recente è quello dell’attivismo ambientale legato a gruppi come Just Stop Oil e Ultima Generazione, che hanno attirato l’attenzione attraverso azioni che consistevano principalmente nell’incollare o sporcare con vernice lavabile i vetri protettivi di alcune importanti opere d’arte. La logica dichiarata dietro queste proteste, che si sono ripetute in vari musei europei, è che l’impegno profuso per preservare le opere d’arte non è commisurato a quello dedicato a evitare eventi che mettono a rischio la sopravvivenza della specie umana che produce e ammira quest’arte. In tempi meno recenti è accaduto per l’abbattimento o la vandalizzazione di statue considerate celebrative verso persone o eventi tutt’altro che positivi. Tra i tanti idoli caduti (o macchiati) c’è la statua di Jefferson Davis a Richmond (USA), presidente degli stati confederati e combattente nella guerra di secessione, la statua di Edward Colston, uno dei benefattori della città di Bristol, ma anche uno schiavista responsabile del commercio di decine di migliaia di persone dell’Africa occidentale. In Italia non sono al corrente di statue abbattute, ma c’è chi ha sporcato più volte la statua del giornalista Indro Montanelli, per rivalsa verso il suo passato fascista e colonialista, mai rinnegato. Chi non si è scandalizzato per questi eventi o li ha valutati positivamente è possibile che non abbia ben accolto la distruzione da parte del governo talebano delle antiche statue dei Buddha di Bamiyan nel 2001.

Se mettiamo da parte una reazione immediata ed emotiva, non è facile spiegare cosa accomuna e cosa differenzia queste azioni. Si tratta di attacchi all’Arte o addirittura di una sua manifestazione? Per facilitare l’analisi è anzitutto necessario fare qualche distinzione. Semplificare il mondo in dicotomie è una tendenza che porta spesso a gravi errori, perché di rado troveremo qualcosa di genuinamente binario in questo vasto e vario mondo; nel caso specifico, etichettare come “violenza” tutte queste azioni per darne un giudizio analogo è un po’ come considerare un omicidio e l’uccisione di una zanzara allo stesso modo, in quanto entrambi atti di violenza. Al netto della grande questione della liceità della violenza in determinati contesti, stiamo parlando di casi molto diversi, perché in nessun modo aggredire simbolicamente un’opera per attirare l’attenzione su una tematica ecologica è equiparabile a distruggerla in quanto giudicata blasfema. Se però il gesto di Ultima Generazione e quello dei talebani non è comparabile, questo non significa che quest’ultimo – che, a scanso di equivoci, condanno – sia un affronto all’Arte.

Partiamo da una banalità: le opere d’arte non sono eterne, perché nulla lo è. Non solo prima o poi saranno tutte distrutte in qualche modo, ma la loro identità è soggetta a un continuo mutamento anche nel (raro) caso in cui il loro supporto materiale resti perfettamente integro, perché a mutare è il contesto in cui sono situate. La Monna Lisa, per fare un esempio, non ha subito alcun danno fisico dall’operazione artistica di Duchamp o di Andy Warhol, ma la sua portata simbolica è inevitabilmente mutata; per il banale scorrere dei secoli, perché le nuove generazioni guardano con occhi nuovi le opere antiche, ma anche per la stratificazione di significato che altre operazioni artistiche (come quella di Duchamp o Warhol) hanno posato su di essa. Le opere d’arte sono delle prassi simboliche intense e operative, che l’uomo si tramanda di popolo in popolo e di generazione in generazione. Non sono mai inerti e agiscono diversamente in base al contesto. Le statue dei Buddha, che per me sono delle inestimabili opere d’arte e la testimonianza di una filosofia millenaria, nel contesto culturale dei talebani sono delle blasfemie.

Se il distinguo con l’operazione di Warhol, Duchamp o Ultima Generazione è semplice, perché sono casi in cui l’opera d’arte ha subito una naturale risemantizzazione senza subire alcun danno fisico – cosa che potremmo anche tradurre: senza eliminare la possibilità dei suoi significati precedenti – nel caso delle statue colonialiste o dei Buddha di Bamiyan la situazione è ben diversa. Ma perché, mi sono chiesto, sono d’accordo con l’abbattimento della statua a Bristol e contrario alla distruzione di quelle a Bamiyan? I motivi sono essenzialmente due. Il primo è legato a un’adesione etica: per motivi che qua non è necessario specificare sono simpatetico verso il messaggio politico dei manifestanti di Bristol e contrario a quello dei talebani. Il secondo è un’istanza estetica: non considero la statua di Edward Colson (o quella di Montanelli, se è per questo) rilevante dal punto di vista artistico, a differenza dei Buddha di Bamiyan. A conferma di questo va detto che se Giuliano de’ Medici fosse stato un orrendo despota schiavista, non per questo avallerei la distruzione della statua di Michelangelo Buonarroti. Un po’ è perché le ferite più lontane nei secoli non fanno più male (distruggereste una statua a Gengis Khan?), ma molto è per via del valore artistico dell’opera, motivo per cui non abbatterei nemmeno il complesso dell’EUR, nonostante la sua ascendenza fascista. Per quanto suoni banale, abbattere delle statue “brutte” è incommensurabile rispetto ad abbatterne di “belle”, quale che sia il loro valore simbolico; spiegare la differenza però non è facile, dato che non esiste alcun criterio oggettivo di bellezza artistica. Ciononostante non penso che ci sia qualcosa di anti-artistico in questi atti, perché tutti si muovono all’interno della normale vita dell’opera d’arte, ovvero una continua e operativa risemantizzazione, la cui durata coincide con l’interesse della nostra specie. Senza una sufficiente motivazione a preservarle, infatti, difficilmente le nostre opere ci sopravvivono.

A questo si affianca il fatto che l’iconoclastia è una prassi che torna spesso all’interno della stessa storia dell’arte, sebbene con oggetti diversi. Il caso più celebre è forse il Futurismo, che sin dal Manifesto decreta: »Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie». Un caso meno noto è quello del Situazionismo, che come riporta Stella Succi in un interessante articolo sul vandalismo nell’arte, si schierò a favore dell’accoltellamento da parte del pittore Nunzio Van Guglielmi della tela dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, conservata alla Pinacoteca di Brera di Milano:

L’artista Asger Jorn interviene a sua difesa, stilando, il 4 luglio 1958, un documento che firma a nome della Sezione Italiana dell’Internazionale Situazionista [sic]: «Noi situazionisti protestiamo contro l’internamento ipocrita in un manicomio di Nunzio Van Guglielmi, perché in giugno a Milano è arrivato a scalfire leggermente un mediocre quadro di Rafaello. Noi constatiamo che il contenuto del manifestino posto da Guglielmi sul quadro di Rafaello (…) esprime il voto di un grande numero di italiane col quale siammo. Vogliamo quindi attirare l’attenzione sul fatto che esso sarà un crimine contro la vera scienza psichiatrica di interpretare, col’aiuto della polizia psichiatrica, un gesto ostile alla chiesa ed al defunto valore culturale dei Musei, come una prova sufficiente di follia. Sottolineiamo il pericolo che presenta una tale precedenza per tutti gli uomini liberi e per tutto il futuro sviluppo culturale ed artistico».

Quale che sia la nostra opinione riguardo ai casi particolari, come ha modo di sottolineare Succi, «che l’abbiano preso o meno in considerazione, gli attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation hanno compiuto un’operazione simile: hanno riportato la Primavera, i Girasoli, la Ragazza con l’orecchino di perla dalle sale cimiteriali dei musei, dalle calamite per il frigorifero, dalle shopper museali alle nostre vite». Questo perché, che si tratti di baffi o di vernice, di collage o tagli, machine learning o dinamite, ogni azione su un’opera d’arte ne muta il significato, e, anche se apparentemente la uccide, la rende vitale. Nel commentare la distruzione dei Buddha da parte dei talebani, Fabrizio Rondolino scrisse su La Stampa del 14 marzo 2001, che: 

«Il diritto di erigere statue, che nessuno finora ha messo in discussione, deve infatti contemplare il diritto di abbattere altre statue. Si tratta anzi di uno stesso diritto, che appartiene al vincitore di turno non importa se politico o religioso proprio in virtù della vittoria conseguita. Forse, parafrasando Brecht, si potrebbe sostenere che è felice quel popolo che non ha bisogno di statue. Ma finché qualcuno vorrà erigerle, qualcun altro potrà abbatterle. La storia, al pari della natura, non è un museo da conservare intatto per turisti distratti, ma un movimento incessante che alterna creazione e distruzione. Non si può conservare tutto. Purtroppo, non sempre possiamo decidere che cosa tenere e che cosa buttare».

Credo che il fulcro sia proprio in quel “poter decidere o meno che cosa tenere e che cosa buttare”. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che la distruzione dei Buddha a Bamiyan non è sbagliata perché “non si deve toccare le opere d’arte”, ma perché la nostra cultura ci ha insegnato – e noi siamo d’accordo – che certe opere d’arte vadano preservate, che non c’è nulla di blasfemo nel buddismo e che i millenni lavano la portata etica delle vestigie storiche. O anche, semplicemente, che erano delle statue bellissime. L’arte è un processo di continua significazione, distruzione e risignificazione, motivo per cui anche distruggere un’opera è farla parlare: bisogna però capire se siamo d’accordo con questa sua nuova voce.

C’è una prassi che esemplifica bene la natura antinomica della questione, ovvero il caso del reimpiego. Questa pratica, che consiste nel riutilizzo di materiali da costruzione esistenti come sculture ed elementi architettonici, era molto comune nell’antica Roma e nell’Europa medievale. In molti casi i materiali reimpiegati venivano incorporati in altre opere d’arte, in modo da conferire loro un nuovo significato e una luce più in linea con la morale dei tempi. Così le antiche colonne e i capitelli romani venivano riutilizzati nelle chiese e nei monasteri medievali, dove venivano adattati alla nuova iconografia religiosa. Ecco il paradosso: queste opere d’arte, che ora giudichiamo inestimabili, sono nate grazie alla distruzione di opere altrettanto inestimabili – sia condannare che avallare questa pratica implica dunque l’inesistenza di opere d’arte.

Per risolvere questo dilemma mi sono rivolto a ChatGPT, un motore per la creazione di testo su base statistica che spesso si dimostra una sorta di enciclopedia vivente dei nostri pregiudizi. La sua risposta, frutto di tira e molla e prompt engineering, è stata interessante: «È importante notare che il riutilizzo di materiali di riuso nell’arte antica e medievale era generalmente una pratica eseguita con l’approvazione di chi deteneva il potere. La distruzione di opere d’arte esistenti senza autorizzazione o autorità non è una forma legittima di espressione artistica e può essere vista come una violazione dei diritti dell’artista e del proprietario dell’opera». Insomma, il vandalismo è tale solo se il consesso sociale lo condanna. Più avanti, ChatGPT mi ha suggerito che nel caso della creazione di una nuova opera d’arte attraverso la distruzione di un’altra il valore della prima dipende da una serie di fattori, tra cui il merito artistico della nuova opera, il significato culturale e storico dell’opera distrutta e il contesto in cui la nuova viene creata. In definitiva, secondo questa esternazione della mente popolare collettiva «il valore della nuova opera sarà determinato dal giudizio collettivo di storici dell’arte, critici e pubblico».Ricorda l’arguta espressione di Dino Formaggio, che nel 1973 scrisse che »l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte». Una definizione meno ingenua e soprattutto più precisa di quel che potrebbe sembrare, perché di fatto è l’unica che non viene in qualche modo smentita da qualche argomento o prassi artistica. Dobbiamo dunque guardare al “vandalismo” verso le opere d’arte come a una pratica più complessa e meno anti-artistica di quel che sembra, in quanto ci informa del modo in cui una determinata società reagisce e parla ai (e con i) simboli del passato. Ogni opera è collettiva, ogni linguaggio vive distruzioni e rinascite. La domanda che dobbiamo porci non è se sia giusto o meno distruggere un’opera d’arte, quanto piuttosto: cosa ci dice questo intervento? Come risemantizza l’opera? Qual è la nostra reazione al nuovo significato?

ARTICOLO n. 24 / 2023

FIGLI CHE SI SCOPRONO NON ETEROSESSUALI

Around The Table. Una serie americana in italiano

I nomi dei personaggi di questa serie sono inventati, anche se avrei tanto voluto chiamare mia figlia Vera, ma ho perso quella discussione sui nomi. Pazienza. Falsi anche alcuni (pochi) dei racconti di famiglia. Ma, credetemi, non sono una bugiarda: pensate che l’enorme balena bianca si chiamasse davvero Moby Dick? O il ragazzino di Ida, Useppe, o la tipa che perde la scarpa Cenerentola? E io mi adeguo.

Eravamo tutti e cinque a tavola: io, mio marito Ryan e i nostri figli Andrea, Martina e Vera. Si chiacchierava del più e del meno e si cercava di convincere Andrea (autistico ventiseienne tendenzialmente asociale) di stare a tavola con noi, con i soliti scarsi risultati. «Ah, a proposito», dice Martina, che stava frequentando il primo anno di università, «sono di genere non binario». Rispondo: «Bene, sono contenta!». 

In effetti, è da quando Martina era piccolina che ha sempre preferito amici maschi, perché le femmine litigano sempre; il monopattino alle bambole, perché dopo un po’ che noia, vestiti di colori neutri piuttosto che il rosa, a parte un periodo di principesse scemato molto velocemente. Le avevo comprato le Barbie, nascondendo al meglio possibile la mia insofferenza nei confronti di corpi sproporzionati, capelli che a toccarli vengono un po’ i brividi e vestiti improbabili. Ci ha giocato per due, tre settimane al massimo. Al pomeriggio, dopo la scuola, andava al parco di fronte a casa (allora abitavamo a Brooklyn, ma poi ci siamo trasferiti a Cambridge, nel Massachusetts) a incontrare Henry, Zac, Anton, Maceo: la sua banda. Tornava sporca e sudata. Stanca e felice. Ha avuto, a dire il vero, un’amica femmina, ma quando la madre telefonava per chiedere se Martina volesse andare da lei a giocare, Martina mi faceva cenni con le mani per farmi dire di no. 

Quando le ho imposto di cercare uno sport, quello che le piaceva di più, perché non è che si può stare in camera davanti al computer tutti i pomeriggi, ha scelto il roller derby, un gioco violento e di contatto, giocato sui pattini a rotelle, con atlete esclusivamente femmine, quasi tutte lesbiche. Lì ha cominciato a frequentare più ragazze, ma non quelle che da piccole giocavano alle bambole. Erano molto neutre per quanto riguarda il genere, e spesso tra loro nascevano amori detti e non detti. Martina era entrata a far parte di quel gruppo con estrema naturalezza. Io e Ryan eravamo convinti che fosse anche lei lesbica, ma un giorno ci ha annunciato, sempre con la naturalezza di cui sopra, di aver conosciuto un ragazzo. In Internet. Il ragazzo era un tipo dell’Alabama, che lei voleva andare a conoscere. Dopo lunghi pianti e ancor più lunghe discussioni, siamo arrivati a un compromesso: se vuole, può venire lui. Che infatti puntualmente è arrivato, lui con degli stivali da cowboy bianchi francamente improponibili e io con un bicchiere di vino (il terzo) pieno fino all’orlo.

Oltre che essere terrorizzata del fatto che sicuramente la mia bambina di diciotto anni fosse in camera sua a far l’amore (l’ho preparata bene? Cosa faccio, busso e le dico di non avere senso di colpa, che anche la mamma e papà ogni tanto lo fanno? Li avrà dei condom? Credo di averle detto che se non vuole fare nulla, per l’amor d’un Dio, deve saper dire di no, ma non sono sicura) ero stupita, e non poco, del fatto che si fosse innamorata di un maschio. Ricordo, nel panico generale, di aver chiesto a Ryan: «Ma scusa, non era lesbica?»

La sera a cena, quando ha annunciato il suo cambio di genere, ero molto contenta di aver scoperto un aspetto importante di lei. Anche per Martina deve essere stata una liberazione: è una conquista importante capire chi si è e condividerlo con gli altri, malgrado non sempre sia una notizia accolta a braccia aperte. Molte persone infatti cercano di sopprimere la propria identità di genere. parte qualche storia con delle ragazze, finora ha sempre preferito avere morosi Mi ha spiegato, perché la maggior parte di quelli della mia generazione è un po’ ignorante sul soggetto, che essere di genere non binario non ha nulla a che fare con la preferenza sessuale: una persona come mia figlia si sente un po’ in mezzo tra il sentirsi donna o uomo, ovvero non riesce a sentirsi a suo agio né quando si dichiara maschio né quando si dichiara femmina. È attratta da maschi o come Martina, di genere non binario (ma nati col pisello, per intenderci).

La sua richiesta è stata che da quel momento, quando parlavamo di Martina, avremmo dovuto usare un pronome neutro: they. È un pronome plurale, è vero, ma per ora sembra essere il più gettonato. Ho fatto molta fatica a ricordarmelo, perché è grammaticalmente sbagliato, ma da qualche anno a questa parte ho fatto passi da gigante: non mi sbaglio quasi mai. 

A Cambridge, dove viviamo, la gente è particolarmente liberal, nel senso che è aperta alle diversità di razza, di classe e di genere. Moltissimi ragazzini delle medie e del liceo si sono dichiarati di genere diverso da quello che è stato dato per scontato alla loro nascita, perché è una città che accetta le diversità con molta disinvoltura: per anni abbiamo avuto una sindaca gay, nera e musulmana, per esempio. I ragazzi qui si sentono compresi e accettati. A scuola non si percepisce discriminazione da parte dei compagni o degli insegnanti. Infatti, molti studenti preferiscono fare coming out a scuola prima di farlo a casa, perché esistono alcune culture che fanno fatica ad accettare questo tipo di discorsi.

Quando anni fa Martina ha annunciato la sua vera identità di genere, non ho potuto fare a meno di pensare che se fossimo in Italia, il suo futuro sarebbe molto più difficile, anche se percepisco un vento di cambiamento. Ho letto di molti genitori che raccontano di figli simili a Martina; i giornali ne parlano sempre di più, intervistano sessuologi e psicologi su questo tema. Mi sembra di capire che alcune cose stanno cambiando. 

Due anni fa stavo ancora lavorando al mio ultimo libro, in cui mi sono posta molte domande su come affrontare da genitori la sessualità dei propri figli senza piangere o senza volersi buttare giù dalla finestra. Avevo appena finito il capitolo in cui descrivevo la rivoluzione di genere come una delle più significative della Storia con la esse maiuscola. Per i maschietti ancora adesso si mette il fiocchetto azzurro (il colore dei principi) per le femminucce quello rosa (il colore delle Barbie). Siamo il risultato di millenni in cui siamo stati guidati dagli uomini, i “protettori” di noi povere femminucce deboli e servili. Se non ci fosse un genere considerato superiore, non ci sarebbero le discrepanze maschiliste che noi donne subiamo senza neanche accorgercene. Nel capitolo cercavo di spiegare come le dichiarazioni sul proprio genere, esprimere quello che si è senza timore, aggiungano un senso alla nostra sacrosanta libertà. L’editor che mi aiutava mi ha chiamato che a Milano erano le tre di notte per dirmi che avrei dovuto cambiare o addirittura togliere quel capitolo, «altrimenti ti leggeranno solo le lesbiche e quelli di estrema sinistra», gruppo, tra l’altro, di cui sarei fiera di avere tra i miei lettori. Diceva: «è tutta una questione di moda, questi ragazzini sono privilegiati e davvero non hanno nient’altro a cui pensare? Un’americanata che in Italia non capiterà mai». Sono stata gentile, ma ben ferma sulla mia posizione: che vantaggio avrebbe un ragazzino ad annunciare che si sente femmina se non è vero? Sono temi difficili da accettare e da condividere con genitori, amici, insegnanti. Altro che moda. C’è dietro a tali dichiarazioni una grossa sofferenza, che parte dal terrore di non essere accettati per come si è. Tzè… la moda… È complesso essere cresciuti in una società storicamente omofoba. Figurati te: una moda… Una delle poche volte in vita mia in cui ho avuto ragione: me lo ricordo perché mi capita raramente.

Gli Stati Uniti sono un Paese notoriamente bigotto, ancora lì a discutere se il diritto di abortire è la strada più sicura per arrivare all’Inferno. È un Paese complesso, pieno di problemi sociali, strutturali; è un Paese violento, fervido sostenitore del diritto di comprarsi tutte le armi che si vuole, difensore spietato della proprietà privata. Ci vivo da trent’anni e posso affermare di aver visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Eppure, benché Cambridge sia particolarmente aperta mentalmente, non è certamente un’eccezione: negli Stati Uniti i diritti per le persone LGBTQ sono diventati leggi. Si chiama TITLE IX quella che proibisce la discriminazione nelle scuole; il TITLE VII (parte del Civil Rights Act, approvato nel 1964) condanna discriminazioni sul lavoro. Si chiama FEDERAL FAIR HOUSING ACT l’atto giuridico in materia di alloggi che vieta discriminazioni per quanto riguarda case o appartamenti in affitto o sul diritto di ottenere un mutuo. Nel 2020 è stato stipulato che non occorre più mostrare documenti medici per certificare il proprio genere sul passaporto americano. Ma soprattutto: è federalmente proibito discriminare persone dello stesso sesso (o genere) che si vogliono sposare o che vogliono adottare o avere dei bambini. Il che significa che, quando uno o una della coppia muore, per esempio, l’altro ha diritto all’eredità. Significa che se John e Steven si sposano, i loro diritti sono esattamente uguali a quelli di Giorgio e Susanna. E queste sono solo alcune delle leggi antidiscriminatorie: non siamo certamente ancora arrivati all’uguaglianza di diritti fra le persone cisessuali e tutti gli altri, ma la strada pare ben spianata per altre leggi. 

L’Italia, invece, è considerato il Paese dell’Europa occidentale peggiore per quanto riguarda i diritti LGBTQ. Non lo dico io, lo afferma ILGA, un’associazione mondiale in difesa dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali e trans. In Italia, se si nasce fuori dagli stereotipi, non è possibile sposarsi, né adottare. La legge ZAN, che tutela crimini o incitamento all’odio, sembra essere sparita dai programmi legislativi. Nel 2007, Romano Prodi propose un disegno di legge per la tutela dei diritti di persone come Martina, ma poi finì tutto in un enorme nulla. 

Ho parlato di leggi antidiscriminatorie, perché malgrado ci siano discriminazioni in entrambi i Paesi, il fatto che esistano obbliga anche la società, volente o nolente, di accettare e accogliere la presenza di persone diverse da loro. In Italia, per ora, facciamo ancora fatica. Mi è stato confermato anche qualche tempo fa, quando in Italia è nata un’ennesima polemica sulla presenza di una cantante trans, Rosa Chemical, a Sanremo. La deputata di Fratelli D’Italia Maddalena Morgante, nel suo discorso intenzionato a stoppare la “promozione di propaganda transgender”, non si vergogna a sostenere che «la rivoluzione fluida era già da tempo sul palco dell’Ariston, ma trasformare Sanremo nell’appuntamento più gender fluid di sempre è del tutto inopportuno. La TV rimane il principale mezzo di informazione e i minori sono la fascia principale di ascoltatori. Il Festival della Canzone rischia di diventare l’ennesimo spot del gender fluid e della sessualità fluida e che da sempre Fratelli d’Italia contrasta». A proposito di tutele delle minoranze, appunto.

Sono palesi le differenze tra la riflessione tradizionalista della signora Morgante e le serate dedicate ai premi per cinema e musica qui, negli Stati Uniti. Forse l’evento più simile al Festival di Sanremo è quello dedicato ai Grammy, cioè alla musica contemporanea con la differenza che questi vengono seguiti in tutto il mondo, mentre sul nostro Festival non troveremo certamente articoli sul New York Times. Il premio per il disco migliore dell’anno è stato vinto da Harry Styles, ex-membro del famosissimo gruppo One Direction. Che, nonostante l’abbigliamento, classificato come “gender fluid fashion”, non ha mai voluto condividere le sue preferenze sessuali. Ha vinto anche l’artista tedesca Kim Petras, la prima trans a vincere nella categoria Best Pop Duo. Oltre a loro, in gara c’erano più di dieci artisti LGBTQ. Ai Golden Globes una persona trans ha vinto l’ambito premio Emma D’Arcy e molti altri sono stati concorrenti. I giornalisti più seguiti su CNN negli Stati Uniti sono gay e non lo nascondono: Anderson Cooper, il più conosciuto, ha avuto un figlio grazie a una gravidanza surrogata, cosa che in Italia viene vista come un atto demoniaco.

Detto questo, spero di non passare per una di quelle persone convinte che gli Stati Uniti siano una specie di paradiso terrestre: lo è per chi è bianco, maschio, ricco, cristiano ed eterosessuale, proprio come Fabio Volo (ma in inglese). Per tutti noi che ci viviamo cercando di stare a galla, è un esperimento per capire se le persone che arrivano da tutto il mondo possano convivere in pace. La strada è ancora molto lunga, ma la speranza è l’ultima a morire.

ARTICOLO n. 23 / 2023

IL TEATRO COME POSSIBILITÀ

Intervista di Isabella De Silvestro

La longevità e l’ossessività sono una risorsa immensa. Lo dice Armando Punzo, che nell’agosto del 1988 varca le soglie del carcere di Volterra per un laboratorio teatrale di duecento ore che si trasformerà nella pratica artistica a cui dedica la vita da più di trent’anni. Fra le mura della galera Punzo trova un luogo dove restare, dopo anni di moto insoddisfacente per l’Italia e l’Europa. «Della mia vita fuori dal carcere non ricordo quasi niente». Sembra ricordare invece ogni parola pronunciata nello stanzino di tre metri per nove dove nasce la Compagnia della Fortezza, un gruppo costituto da detenuti attori che lavorano con lui per dare vita, giorno dopo giorno, a un’idea di teatro che valica tanto la tradizione quanto la pretesa rieducativa e assistenziale: una pratica artistica che fa della ricerca la chiave per mettere in scena l’umano e le sue infinite potenzialità. La sofferenza e la fatica, gli ostacoli dell’arte e della vita pratica, le lacrime versate per qualcosa che davvero non amiamo e quelle per qualcosa che amiamo davvero.

Ho conversato con Armando Punzo un venerdì sera. Lui usciva dal carcere, io uscivo da Un’idea più grande di me, il libro edito da Luca Sossella Editore che raccoglie il lungo scambio tra il regista e Rossella Menna, studiosa di teatro e collaboratrice di Punzo. Ne uscivo affaticata e insieme colpita. La luce che l’esperienza della Compagnia della Fortezza è in grado di emanare viene dall’incontro tra un’idea ambiziosa e un lavorio costante e severo, un confronto senza risparmi con ciò che dell’umano confligge con lo stato delle cose. Del lavoro teatrale di Punzo insieme ai detenuti di Volterra colpisce la serietà e il rigore. Non vi è nessun cedimento al “sociale” come categoria che aggiunge valore per il solo fatto di promettere redenzione dalla propria condizione marginale. Vi è invece uno sguardo preciso su come è bene fare arte: senza prendersi un giorno di vacanza, capendo che, di un artista, la vita è ciò che accade mentre disperatamente cerca un linguaggio per dirla. E se non ci riesce, che almeno lo si veda disperatamente cercarla. La nostra conversazione si apre senza convenevoli. E questo credo venga dall’abitudine a non voler perdersi in chiacchiere. Si parli di qualcosa di serio o non si parli affatto. Ricordo una frase del libro: «Non è che non mi piaccia la vita, è che sento che solo se mi assicuro un livello profondo di relazione può esistere anche quello superficiale».

Isabella De Silvestro: Tra le prime cose evidenti a chiunque entri in carcere per la prima volta c’è il fatto che ad abitarlo è il Sud del mondo. Questo suo essere meridionale porta con sé miseria e vitalità, una certa violenza e un alto grado di onestà e introspezione. Ci sono però altri avamposti del Sud del mondo, altri luoghi dolorosi e vitali. Se si trattava di portare il teatro dove nessuno lo aspettava, la tua compagnia avrebbe potuto prendere forma anche altrove?

Armando Punzo: In linea teorica poteva accadere anche altrove. Resta il fatto che io da altre parti non sono andato. Avevo rifiutato il teatro ufficiale, non mi sentivo attratto dalle strade dritte e in verità nemmeno da quello che era allora il teatro di ricerca. Ho alzato gli occhi un giorno e ho visto il carcere: l’ho scelto interiormente. A me interessava la questione dell’essere prigionieri e il carcere era il luogo dove la prigionia di ognuno di noi, uomini e donne liberi, diveniva evidente, senza maschere. Ho iniziato a fare teatro a partire da quest’idea: le prime letture, prima ancora di Grotowski, mi hanno portato a scoprire un punto di vista su di me e sul mondo come di una persona che aveva degli automatismi di cui non era consapevole, che probabilmente non gli appartenevano e finivano per opprimerlo. Non sapevo di non sapere tante cose. Il carcere, dunque, mi è sempre interessato come metafora, mai come cronaca.

I.D. Il carcere è metafora della prigione che viviamo anche fuori e, contemporaneamente, della marginalità e dell’esclusione. Racconti di aver lasciato Napoli, la tua città natale, senza rimpianti e senza nostalgie; dici spesso che il distacco è una condizione auspicabile. Mi sembra una presa di posizione quasi mistica, da anacoreta del terzo secolo. Il carcere è forse il luogo del distacco per definizione, un luogo ermetico dove il flusso delle città è sospeso e la vita in arresto. Questo distacco, tanto dalle proprie origini quanto dalla frenesia e dalle convenzioni, è necessario all’arte?

A.P. Il distacco è la conseguenza dell’incontro con un linguaggio artistico, nel mio caso il teatro. Questo incontro mi ha permesso di negare la realtà in cui ero calato, creandone una a me più affine. Nasciamo in un luogo che non abbiamo scelto e molti lo abitano come una condanna. Praticare un linguaggio artistico permette di dare forma ad un’altra realtà, entrando in relazione con parti di sé che altrimenti rimarrebbero per sempre celate: è una questione di espansione del sé. Io ho desiderato fortemente prendere distanza dal mio luogo di nascita. Il luogo che ho cercato è il teatro, e mi è capitato di crearlo in una prigione, un luogo che sembra impedire ma allo stesso tempo preserva e protegge. La galera è simile a un monastero, un posto dove la riflessione può raggiungere livelli altissimi. Certo, esiste anche lì la vita ordinaria con le proprie regole, le scocciature e gli impedimenti. Sono cose che affronto e vivo ma a cui non do molto peso. Generalmente le persone pensano che scegliere di lavorare in un luogo marginale debba diventare un tema. È il male di questo periodo storico: l’ossessione per i temi. Il valore del mio teatro rischia di essere ridotto al tema della marginalità. Dal punto di vista del linguaggio artistico, quando il tema è più importante di ciò che fai significa che non hai ottenuto un grande risultato. Mi aveva colpito molto Contro l’impegno di Walter Siti, dove in fondo lui dice questo: c’è un’arte che è testimonianza, e dunque tema, e c’è un’arte che è viaggio di conoscenza, dunque processo. È un aspetto, quello della testimonianza, che non mi piace praticare. Il processo artistico è molto più complesso e mette in discussione l’essere umano più del discorso intellettuale o politico.

I.D. Vorrei parlare di questo processo. Quello che colpisce del lavoro della Compagnia della Fortezza è l’adesione tra idea e pratica: l’una si manifesta nell’altra e viceversa. Sembra esserci un grande lavoro corale sui testi, un rimestare e scavare, leggere e rileggere finché il testo non prende forma e consistenza, una ricerca continua di protagonisti sempre nuovi e in comunione intima con i personaggi che interpretano. Cosa accade nel concreto nello stanzino del carcere dove preparate gli spettacoli? 

A.P. Io arrivo con delle proposte. Si tratta di testi che ho letto e per qualche motivo mi interessano. Ma il percorso lo sviluppo sempre insieme ai miei attori, ho bisogno di capire se una ricerca interessa solo a me o se è qualcosa che effettivamente può risuonare anche in loro. È capitato negli anni che io proponessi qualcosa e lo vedessi morire nei loro occhi in un attimo. Quando ci approcciamo ai testi viviamo le parole come se fossero pensieri fondamentali che sono lì da sempre in attesa di incarnarsi in qualcuno. Ecco, rispetto ai protagonisti, normalmente nel teatro sono attori che si sono fatti un nome, hanno una pratica che li caratterizza e vengono scelti proprio in base a questo loro nome: il loro percorso artistico è in qualche modo scritto. Intorno ai nomi si costruiscono i ruoli. Questa è una modalità che io ho deciso di non praticare. Chi è stato protagonista di un mio spettacolo lo è stato perché quel tema, quelle parole, quel preciso momento della sua vita lo hanno portato a impegnarsi in maniera tale da farlo emergere come protagonista, talvolta anche suo malgrado, in maniera dolorosa. Non è una cosa che si può decidere a tavolino, emerge da quanto di sé un uomo impegna. E non è una conquista per tutta la carriera: un anno o due anni dopo, pur avendo delle capacità magari innegabili, la stessa persona può non essere protagonista perché la necessità, l’urgenza profonda, emerge in un altro. Questo destabilizza lo star system, per così dire. A me interessa far emergere le necessità umane delle persone con le quali lavoro, cosa che va molto oltre la questione di mettere in scena un ruolo. Mi interessa far capire che quando uno ha un’urgenza profonda riesce a superare incredibili difficoltà.

I.D. Nel vostro Pinocchio, il burattino di legno vuole tornare a essere albero. Non bambino, come ci si aspetta, ma il legno da cui è venuto “per augurarsi una foresta di alberi”. Come si concilia il protagonismo che richiede la pratica teatrale con l’idea di valicarsi, andando oltre il sé? 

A.P. Sono due livelli separati. Bisogna suddividere tra un io ordinario e un io superiore.

I.D. E il teatro sarebbe il mezzo tra queste due cose?

A.P. È una possibilità. Ma lo è di fatto, non a parole. Un attore, quando è in scena, non sta usando il suo io ordinario. Anche se non è consapevole di questo processo, chi entra in scena si immerge completamente in ciò che sta facendo proprio per prendere distanza dal suo io ordinario, nel quale auspicabilmente non si sente a suo agio: il teatro è una pratica per accedere a delle potenzialità superiori. Se uno legge la letteratura di formazione degli attori, da Stanislavskij a tutto ciò che viene dopo, si accorge che si tratta di una letteratura fortemente utopica. Viene chiesto a un uomo di lasciare se stesso e di mettersi alla prova attraverso un processo di scoperta. Un attore che sta in scena dà il meglio di sé, offre al pubblico la sua parte più luminosa: se abbiamo lavorato bene abbiamo un uomo al massimo delle sue potenzialità. 

I.D. A proposito di dare il meglio di sé, mi interessa il valore della stanchezza. Parli spesso della fatica come risorsa artistica, come se solo spingendosi oltre il sostenibile si raggiungesse il nucleo delle questioni. Mi chiedo se l’altra stanchezza, quella che viene dal contesto in cui tu operi, e cioè dal rapporto con l’istituzione carceraria e i suoi meccanismi, sia altrettanto vitale o sia piuttosto un brutto gioco a cui fare buon viso. 

A.P. Sicuramente la seconda ti mette alla prova. Il carcere è molto particolare in questo, è un sistema che ti affatica enormemente ma va affrontato e trasformato in una motivazione. In tutte le resistenze e le forze contrarie trovi il motivo per affermare il tuo lavoro che ha un segno completamente diverso rispetto alla vita ordinaria del carcere e merita di essere protetto. La fatica artistica invece è quella di una pratica: un danzatore sa cosa significa logorarsi fisicamente per un lavoro. È come uno scioglilingua, una cosa molto semplice, ripetitiva, ma molto complessa. Quando ti spingi oltre una certa soglia abbatti alcune resistenze naturali. L’uomo tende ad adagiarsi e a risparmiare, come gli uccelli. I pretesti degli uccelli migratori sono straordinari: non vorrebbero partire alla ricerca di una cosa che pure riconoscono come importante e necessaria, fanno una grande fatica ma poi si convincono e partono insieme. E arrivano lontanissimo. 

I.D. Cosa spinge le persone a seguirti in questa fatica? 

A.P. Io credo che ognuno trovi la sua motivazione. Alcune inizialmente possono sembrare futili, banali, ma ciò che importa è che la maggior parte delle persone rimangono perché scoprono che c’è molto di più. 

I.D. Il carcere è un’istituzione poco ambiziosa, forse figlia di una società poco ambiziosa. Sembra già miracoloso riuscire a garantire la presenza di una scuola professionale per i detenuti, ma apparirebbe assurdo pensare a un liceo classico. Assurdo e inutile. Come ciò che hai creato tu. La cultura e il teatro non servono che alla cultura e al teatro, e cioè all’uomo. In un luogo di privazioni e punizioni che valore ha porsi obiettivi più grandi di sé e del contesto nel quale si è immersi?

A.P. Io credo che questa tendenza ad accontentarsi del minimo sia lo specchio di ciò che succede anche fuori, dell’umanità di oggi. E sottolineo di oggi. Tutto è fatto per un tornaconto materiale. Sembrano discorsi sentiti e risentiti eppure non è che si sia risolto un granché. In carcere già sembra tanto riuscire ad affermare che serve una scuola, che serve un teatro. Andare più in là è difficilissimo: ci si propone magari di aumentare l’alfabetizzazione, di fare uno spettacolo bello, ma non si pensa a un futuro di uomini migliori con valori diversi da quelli che ci hanno portato dove siamo. È chiedere troppo.

I.D. Mi ha colpito un passo del tuo libro nel quale ti descrivi come una persona molto fragile nel rapporto con gli altri. Ti meravigliano l’ostilità, la malevolenza. Credi ci sia un valore nel porsi disarmati di fronte agli altri? L’illusione e l’ingenuità possono essere risignificate? 

A.P. A me non piace la parola illusione. Però vedi, ciò che faccio da anni dentro il carcere con gli attori della Compagnia della Fortezza non fa male a nessuno. Lo ripeto: non fa male a nessuno, ne sono certo, non ho alcun dubbio. Non può che fare del bene. Quindi, quando trovi qualcuno che ti viene contro, l’unica cosa che puoi fare è accettare che si tratta di persone che si trovano a un grado diverso di evoluzione. Non è permesso loro di capire. Puoi provare rabbia, pietà, dolore, ma resta il fatto che quelle persone, in quel momento, non arrivano a comprendere quanto ciò che fai possa fare del bene.  

A volte siamo dentro al carcere nel nostro stanzino e io chiedo ai miei attori: a quest’ora, alle cinque e mezza del pomeriggio, quante sono le persone che a Volterra stanno affrontando questo tipo di discorsi, si stanno affaticando per cercare delle soluzioni a questo tema, che sembra qualcosa di inutile? Forse nessuna, siamo solo noi. Forse c’è qualcun altro. E in Toscana? E in Italia? E così via allargando la scala. 

Io sono convinto che, se tanti facessero questa fatica, il mondo sarebbe migliore. E non mi sento stupido a dirlo, non mi sento ingenuo. Ne sono convinto. Mi rendo conto che è molto complesso, ci mancano i fondamenti. Dovremmo partire dalla scuola, o da prima ancora, dalla famiglia. Ma ci vorrebbe qualcosa che aiuti la famiglia se la famiglia è carente. Dovremmo crescere in maniera completamente diversa e non credo che stiamo andando in questa direzione. Se prima la scuola era una questione di cultura, ultimamente quasi per niente. L’idea del lavoro sta fagocitando ciò che è rimasto della scuola come opportunità di conoscenza.

I.D. Sembri leggere gli ultimi cinquant’anni sotto il segno della decadenza.

A.P. Questo è il mio difetto. Io sono nato negli Anni Settanta, e forse mi sbaglio. Nato dal punto di vista filosofico, si intende. In quel clima culturale. Mi spiego: io non penso che prima gli uomini fossero migliori. Però nei Settanta non mi sentivo da solo. Oggi sono più solitario e le altre persone che cercano una strada e una possibilità sono anch’esse sole. Non c’è più un clima generale. Mi sembra di vedere persone molto disperate, a partire dai giovani.

I.D. Durante il tuo spettacolo Mercuzio non vuole morire hai chiesto agli spettatori di riporre in una valigia «una lacrima versata per qualcosa che davvero non ami». Lo trovo bellissimo e non ho idea di cosa voglia dire. 

A.P. Quello spettacolo nacque dalla necessità di riscattare Mercuzio dal suo destino di morte. In Romeo e Giulietta Mercuzio è l’amico poeta di Romeo, il sognatore che parla della vana fantasia e muore quasi subito. Nella mia lettura, la morte di Mercuzio è la scaturigine di tutta la tragedia che segue, come se morto lui non ci fosse più niente da fare. Metaforicamente, se uccidi la tua parte sognante non rimane che sfacelo. La lacrima versata per qualcosa che davvero non ami non è propriamente un rammarico, è la lacrima per una mancanza, è la lacrima che versiamo quanto il mondo ci appare come un’aggressione e siamo chiamati a difendere le cose preziose di cui abbiamo parlato finora: questa ricerca, questa idea, questa pratica. È necessario versare una lacrima anche per le idee che non amiamo. Riguarda ciò che dicevamo rispetto alle persone e alle idee ostili al bello, chi non arriva a vedere oltre sé e ciò che gli è noto da sempre. È una lacrima versata per chi crede che non ci sia niente da fare: dentro il carcere, fuori dal carcere, si può sempre fare qualcosa.

ARTICOLO n. 22 / 2023

LA CIPOLLA DI MARTE E DI LUNA

La mistica del cibo

Accendo la stufa economica e ascolto lo scoppiettio della legna che prende pian piano. La cucina e la casa iniziano a mutare, a farsi più piccole, accoglienti, si sente nell’aria l’odore della ghisa che si scalda ed entro in una dimensione parallela di rusticità che mi riporta nelle campagne francesi, in una tipica casa contadina dal tetto di paglia.

All’imbrunire, la cipolla diventa più dolce, un ingrediente amico, che può diventare alimento principe di una cena scalda cuore.

Sotto al lavello di marmo tengo sempre un sacco di cipolle dolci francesi, proprio per questi momenti.

Le sbuccio, ne pregusto la succosità all’interno della croccantezza delle sue foglie: gli strati commestibili di questo bulbo sono a tutti gli effetti delle foglie modificate.

Succosa, leggermente piccante e dolce al punto giusto, croccante, è la cipolla perfetta da mangiare assieme ai čevapčiči, uno dei cibi che mi preparava d’estate mia nonna in Slovenia.

È lei che mi ha insegnato a mangiare la cipolla cruda dicendomi: «la cipolla è come una mela!» e a seguire ha mollato un morso pieno a una cipolla bianca enorme. Ci sono rimasto di stucco, ma ho imparato una lezione: la cipolla non è ostile, ma è un simbolo, risveglia in noi un classismo interiorizzato.

In epoca romana classica le persone colte evitavano chi puzzava di cipolla, e “mangiatore di cipolle” era un termine dispregiativo. Tuttavia, Varrone, un romano contemporaneo di Cesare, scrisse: «I nostri nonni erano persone molto rispettabili anche se le loro parole puzzavano di aglio e cipolla».

Il cibo è sempre stato segno di identità sociale, tanto che andava di pari passo con la propria estrazione, e chi non rispettava questa regola attentava al privilegio di classe, evadendo l’ordine sociale.

Zuco Padella, contadino della campagna bolognese, dopo essere stato colto a rubare le pesche del suo padrone, Messer Lippo, catturato con una trappola per animali, viene punito con un lavaggio di acqua bollente e la frase che gli viene detta rimarrà nella storia: »Un’altra volta lassa stare le fructe de li miei pari e mangia de le tue, che sono le rape, gli agli, porri, cepolle, e le scalogne col pan de sorgo».

Il mangiare cipolla è da sempre stato simbolo della bassezza sociale, di una condizione di non-agio. Un mangiare da contadini, lavoratori o soldati, tanto da essere conditio sine qua non della razione kappa dei soldati romani, e data ai gladiatori, prima dei combattimenti, per aumentarne il furore bellico.

La cipolla è una delle prime piante addomesticate al mondo: nel Neolitico veniva coltivata in India, Cina e nel Mediterraneo orientale. Lo storico greco Erodoto ha notato come un’iscrizione sulla piramide di Cheope in Egitto indichi la quantità di cipolle, aglio e ravanelli mangiati dagli schiavi che la costruirono. 

Per i Pitagorici la cipolla aveva proprietà afrodisiache, quindi era un alimento da evitare nella propria dieta. Un bulbo che è pregno di significati e credenze erotiche, forse per la sua forma sensuale evocativa che assume se tagliato per lungo.

Una dose giornaliera dell’umile bulbo era considerata una condizione necessaria per un’attività erotica intensa e gratificante.

Si pensava infatti che contenesse la piccantezza di Marte, il dio responsabile dell’ardore. Per questo motivo i Greci ritenevano che le cipolle stimolassero il desiderio sessuale e la vivacità generale. Per i Romani non era diverso, come afferma questo detto sull’impotenza maschile: «Se le cipolle non possono aiutare, niente lo farà!»

L’Ayurveda indiano sostiene inoltre che la cipolla nutre il seme dell’uomo (shukra), per cui i medici la prescrivono per aumentare la quantità di sperma.

In effetti, i penitenti e gli asceti indiani (sannyasi) che hanno rinunciato alla mondanità e alla procreazione evitano di mangiare cipolle e aglio in qualsiasi circostanza, avendo questi una forza eccessivamente distraente.

La zuppa di cipolle è anche una famosa specialità francese che, si riteneva, portasse a delle “longue nuits de fole”, lunghe notti di follie sessuali: la soupe à l’oignon come afrodisiaco a basso costo!

Era considerata dai popoli mediterranei un miracoloso stimolante del desiderio, tanto che il poeta Marziale, in un celebre epigramma (dal Liber XIII), consiglia di saziarsi di cipolle per risolvere problemi con le voglie e con la moglie.

Cum sit anus coniunx et sint tibi mortua membra,

nil aliud bulbis quam satur esse potes.

Se hai una moglie vecchia e hai perso il vigore delle membra, le cipolle possono solo servire a saziarti.

Nella loro conquista delle terre del Nord, i legionari romani portarono con sé varietà di cipolle coltivate che piantarono nei loro giardini. I Celti e i Germanici erano entusiasti di questo nuovo “porro”, soprattutto perché l’aglio orsino, chiamato anche “ramsons” o “aglio selvatico”, era già considerato sacro dagli abitanti del Nord, che lo consideravano vitalizzante, depurativo del sangue e afrodisiaco.

Questo “porro” straniero, per il quale i barbari usavano vari nomi, come ynnlek, allouk, oellig, ublek o ullig, entrava nell’orto di ogni donna, dove, si dice, rimaneva. Il botanico tedesco Hieronymus Bock (1498-1554), che aveva sentito parlare del culto della cipolla sacra da parte degli Egizi, commentò: «Anche noi tedeschi non possiamo fare a meno di questi beni divini. […] Ci sono molti che credono che se mangiano un po’ di cipolla cruda a stomaco vuoto come prima cosa al mattino saranno protetti dall’aria cattiva e velenosa per tutto il giorno. […] Molti la usano per piacere lussurioso, altri per uso medico». Inoltre, egli notò che in Germania quasi nulla era più usato delle cipolle per preparare le torte tanto che ancora oggi nelle regioni della Germania meridionale la torta di cipolle rimane una specialità.

Le cipolle e l’aglio non hanno solo la piccantezza di Marte, ma appartengono anche alla luna acquatica e alla purezza, al candore. L’antichità classica e il primo cristianesimo vedevano nella cipolla un altro aspetto dei vari membri della famiglia dei gigli: erano visti come simboli di purezza, innocenza e verginità. In Grecia si credeva che i gigli nascessero dalla terra dal latte che colava dai seni di Era, la regina del cielo. Per i cristiani, il giglio divenne un simbolo dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria: l’arcangelo Gabriele scese dal cielo con un giglio bianco in mano quando annunciò il concepimento a Maria. Queste credenze si basano sulla percezione che le piante di giglio non sono del tutto ancorate a terra: le loro radici sono poco profonde e il modo in cui i bulbi si arrotondano alla base ricorda una goccia d’acqua. Questi bulbi simboleggiano il percorso compiuto dalle anime che si incarnano quando passano dall’alto dei cieli, attraversando la porta della luna fino alla sfera materiale della terra. Ma simboleggiano anche il ritorno dalla terra all’eterno grembo dell’essere.

La cipolla, una pianta triennale del genere Allium cepa, cipolla-aglio o allium, è originaria delle steppe asiatiche, un clima estremo al quale si è completamente adattata. Nella primavera umida, le piccole cipolline iniziano a germogliare e ad assorbire luce e calore fino all’inizio dell’estate. Più tardi, quando il clima diventa più secco, si formano i bulbi succulenti e semisotterranei, cioè le cipolle mature a grandezza naturale.

L’anno successivo questi germogliano in fiori e semi. Nel frattempo, per sopravvivere all’inverno secco e gelido delle steppe, i bulbi immagazzinano le forze vitali acquose della luna nella loro pelle stratificata, arricchendola di glicosidi solforati. Secondo gli alchimisti di un tempo, lo zolfo è un trasportatore di luce e calore. È questa combinazione di acqua lunare e di energia del fuoco di Marte che conferisce alle cipolle il loro straordinario potere curativo.

Porri selvatici e cipolle di vario tipo si trovano anche nelle steppe dell’America settentrionale, dove i nativi americani li raccoglievano per scopi alimentari e curativi. Il nome “Chicago” deriva appunto da una parola degli indiani Fox che significa “un luogo che puzza di cipolle selvatiche”. Proprio come le loro controparti eurasiatiche, i nativi americani usavano le cipolle per le punture d’insetto, le infezioni e le infiammazioni; estraevano il veleno e il pus dai carbuncoli e dagli ascessi con cataplasmi di cipolla o con uno sciroppo di cipolla ridotto (un metodo particolare degli Irochesi). Per guarire raffreddori e sinusiti, gli indiani Piedi Neri mettevano le cipolle su rocce arroventate e ne respiravano il vapore caustico. Le donne native americane in allattamento bevevano decotti di cipolla per trasferire le sue qualità curative ai loro bambini nel loro latte!

Le cipolle hanno una lunga storia nelle usanze popolari, nel simbolismo e nelle pratiche curative di India, Cina e Mediterraneo orientale. Ad esempio, il simbolo cinese di “intelligente” è lo stesso di “cipolla”. Le levatrici cinesi tradizionalmente toccavano la testa del nuovo nato con una cipolla, affinché crescesse intelligente.

La cipolla era una pianta sacra anche nell’antico Egitto di cinquemila anni fa.

I bulbi di cipolla venivano offerti agli dèi e messi nelle mani, sugli occhi o sui genitali delle mummie. Sulle cipolle si facevano giuramenti sacri. La pianta, delicata e succosa, era dedicata alla grande dea Iside e ai suoi sacerdoti era vietato mangiare cipolle. Iside è la padrona della periodicità della luna e dei ritmi femminili. Gli egizi credevano che la crescita della cipolla fosse legata alle fasi lunari, così come lo è il ciclo mestruale.

Il geroglifico egizio che indica la luna nella sua forma calante e crescente è una cipolla. La luna dà alle piante la loro energia vitale e governa i liquidi della vita. In quanto padrona della luna, la dea governa anche sulle acque, il latte cosmico della vita. La cipolla assorbe questo latte cosmico; quando una persona mangia quella cipolla, le ghiandole si attivano, comprese quelle riproduttive. Così, la cipolla divenne anche un simbolo di lussuria e procreazione. L’antica parola egizia che indicava i testicoli, oltre al geroglifico della luna di cui sopra, era la stessa che indicava la cipolla.

Questo bulbo così a buon mercato è stato a lungo un alleato dei poveri, sia come alimento che come importante guaritore, soprattutto per coloro che non potevano permettersi una visita medica.

Ancora oggi è una tra le piante curative più utilizzate nella medicina popolare. 

Cataplasmi a base di cipolle finemente tritate e cotte al vapore sono utilizzati con successo per molti disturbi, tra cui infezioni sinusali, ascessi e foruncoli, infiammazioni polmonari, infezioni alle orecchie medie e tonsilliti. Il pastore svizzero e guaritore Johann Künzle (1857-1945) ha sottoscritto l’uso tradizionale quando ha annunciato che: «Le cipolle tritate e cotte al vapore tirano fuori la malattia in modo così forte che diventano nere e puzzolenti; le cipolle assorbono il veleno della malattia».

La credenza nella capacità del bulbo di assorbire il veleno e le “radiazioni” negative era condivisa dall’Inghilterra all’Europa orientale. Gli inglesi appendevano un mazzo di cipolle in cucina per “assorbire la sfortuna” e addirittura indossavano una cipolla come amuleto o la strofinavano sulle piante dei piedi per far uscire le malattie dal corpo. In Boemia e nelle montagne di Erz, le cipolle bianche consacrate venivano appese in salotto il giorno dei Re Magi “perché attirano e neutralizzano le febbri”. Allo stesso modo, gli abitanti delle campagne olandesi appendevano un cesto di lino con cipolle tritate sopra un bambino malato che implorava. Si credeva che la cipolla fosse in grado di allontanare non solo malattie e pestilenze, ma anche streghe malvagie, spiriti maligni e vampiri. 

Per la nostra tradizione italiana, si pensa che portare una cipolla in tasca protegga dal malocchio. I serbi infilavano una cipolla tra i seni di una giovane sposa per proteggerla dai cattivi desideri che i vicini invidiosi potevano nutrire nei suoi confronti.

E queste superstizioni sulle cipolle si sono diffuse ben oltre l’Europa. In India, nei periodi di peste del bestiame, i contadini appendevano cipolle dipinte di rosso a una corda che attraversava l’ingresso del villaggio. In Cina era comune indossare una “collana” di cipolle durante l’epidemia di colera. In molti luoghi era considerato di buon auspicio per un convalescente sognare una cipolla, un segnale che garantiva il ritorno alla salute.

Lo sciroppo di cipolla (succo di cipolla ridotto in miele o zucchero), antinfiammatorio, espettorante e sedativo, è popolare in molti luoghi per la bronchite o la tosse persistente: questa ricetta è conosciuta sia in India che in America, portata dall’Europa dagli olandesi della Pennsylvania. Per il naso che cola, il guaritore naturale svizzero Alfred Vogel (1902-1996) consiglia il decotto di cipolla: cipolle a fette in infusione con acqua bollente, da sorseggiare durante la giornata. 

La medicina popolare raccomanda anche di tenere un cataplasma di cipolla calda per quindici minuti sui muscoli affaticati dalla lombalgia. Le articolazioni reumatiche, la sindrome del dolore sciatico e il dolore neuropatico, persino le punture d’insetto e le verruche, possono essere trattati con cipolla cruda appena tritata. Per un trattamento simile, le fette di cipolla cruda e salata possono essere avvolte sui calli durante la notte. Insomma, un toccasana per ogni male!

Non c’è da stupirsi, quindi, che si sia sviluppata un’intricata tradizione intorno alla coltivazione delle cipolle. Le cipolle da seme venivano messe nel terreno nel segno del Capricorno affinché diventassero sode e dure, mentre in Acquario sarebbero marcite e in Sagittario sarebbero spuntate senza formare un bulbo. Quando le si piantava nel terreno si consigliava di farlo con rabbia, imprecando, in modo da rendere le cipolle vigorose.

I contadini europei usavano le cipolle come oracolo durante i dodici giorni di Natale: si sbucciavano dodici bucce di cipolla, una per ogni mese dell’anno, poi le si cospargeva di sale. Il mattino seguente, in base a quanta umidità vi si era accumulata durante la notte si prevedeva la quantità di precipitazioni che si sarebbero verificate nei mesi corrispondenti dell’anno successivo. 

L’oracolo della cipolla è conosciuto in tutta Europa. Le giovani donne usavano la cipolla anche come oracolo matrimoniale. La Vigilia di Natale mettevano una cipolla per ogni scapolo conosciuto in un angolo del caldo salotto. Il 6 gennaio, per l’Epifania, vedevano se qualcuna era germogliata: nessun germoglio voleva dire nessun matrimonio per l’anno seguente.

Si pensava anche che le cipolle piantate il Venerdì Santo, giorno in cui il Signore fu inchiodato alla croce, sarebbero state pungenti, facendo “scorrere molte lacrime” quando mangiate.

Un detto siciliano dice: “iu manciu cipudda e a iddu c’abbrucianu l’occhi” (io mangio cipolla e a lui bruciano gli occhi): c’è chi si lamenta senza ragioni, e chi invece mangia cipolla, ovvero accetta la sua condizione con umiltà, anche se da lamentarsi ne avrebbe a buona ragione.

Ma perché la cipolla ci fa così piangere? Sono il solfuro di allile e propile, che assieme costituiscono uno dei più potenti lacrimogeni mai inventati. Il composto solforato allicina ha un effetto antivirale e antimicrobico. Inoltre, l’allicina rafforza il sistema immunitario aumentando l’attività delle cellule killer. Ostacola l’ossidazione del colesterolo nel sangue, proteggendo così dall’arteriosclerosi.

I “mangiatori di cipolle” regolari hanno valori ematici migliori; questo perché l’allicina rallenta l’adesione delle piastrine e accelera lo scioglimento dei puntini nel sangue. Inoltre ostacola i batteri nitrificanti e quindi lo sviluppo di nitrosammine carcinogeniche nell’intestino. Ma i benefici per il sangue non finiscono qui: gli acidi fenolici e i flavonoidi della cipolla hanno anche un effetto benefico sul sistema circolatorio, compreso l’abbassamento dei livelli di zucchero nel sangue dei diabetici. 

Mia nonna ha origini umili, nata nelle campagne della Slovenia dell’Ovest: mi ha insegnato tante cose della vita in campagna, oltre a cucinare, e anche a mangiare cipolle. Da quel giorno, non ho più visto la cipolla come un alimento da evitare, ma come un ingrediente che di per sé poteva essere principe di un pasto prelibato, di alta gastronomia!

Cruda o cotta, ridotta nel vino, flambata con il rum o messa sott’olio, la cipolla è uno degli ortaggi che preferisco, da sempre, nella mia cucina.

ARTICOLO n. 21 / 2023

IL MITO DELLA VERGINITÀ

Un uomo che posa accanto a due bambine, entrambe vestite con un elegante e raffinato abito bianco. Un altro che cinge la vita di una giovane adolescente e appoggia la fronte al suo capo. Ancora, un primo piano di un ragazzo e una ragazza – potrebbero sembrare coetanei – avvolti in abiti eleganti che si abbracciano con occhi chiusi ed espressione sognante.

Le immagini che ho descritto potrebbero comporre il portfolio di un fotografo specializzato in cerimonie. A un primo sguardo sembrano scatti di una comunione, di un diciottesimo, di un matrimonio. David Magnusson, il suo autore, è un artista visivo. Tra il 2011 e il 2014 ha dato vita a un progetto chiamato “Purity”, che raccoglie immagini di padri e figlie durante lo svolgimento di un purity ball in Texas, un evento molto sentito in cui figlie e padri si scambiano una promessa solenne: le prime giurano di rimanere vergini fino al matrimonio, i secondi di vegliare e proteggere sulla loro verginità.

Se, come abbiamo cercato di raccontare con l’articolo precedente, sussiste un forte legame tra maternità e matrimonio, dobbiamo riconoscere che ve ne è un altro che pone in stretta connessione l’abito bianco con un certo ideale di verginità che le future spose devono garantire. Per chi vive in occidente può sembrare un ragionamento ormai superato: oggi si arriva al matrimonio sempre più tardi, magari dopo anni di flirt, relazioni e convivenze. Tuttavia, è vero che in molte parti del mondo la verginità delle donne è ancora un parametro valido per determinarne “il prezzo” e la dote che deve assicurare alla famiglia del marito. In alcuni paesi la verginità viene considerata un prerequisito indispensabile per sposarsi; le donne indonesiane che volevano arruolarsi nell’esercito erano obbligate, fino a un paio di anni fa, a comprovarla mediante un apposito test. In Egitto, durante le rivolte del 2011, moltissime attiviste sono state sottoposte a questa pratica senza il loro consenso.

Ma come si effettua questo esame e cosa dovrebbe garantire?

Si tratta di una procedura (nel migliore dei casi effettuata dal personale sanitario) teoricamente necessaria per accertarsi che l’imene – cioè la membrana posta in corrispondenza dell’apertura vaginale – sia intatta. Come sostengono le scienziate Ellen Støkken Dahl e Nina Dølvik Brochmann, autrici del volume “Il libro della vagina” e ospiti al Ted talk di Oslo nel 2018, il test si basa su due premesse che oggi sappiamo essere del tutto infondate. La prima ha a che fare con il sangue: si ritiene cioè che durante il primo rapporto penetrativo l’imene si laceri provocando il sanguinamento; la seconda che questa lacerazione modifichi radicalmente il corpo femminile così da poter distinguere, proprio grazie al test di cui abbiamo parlato, quello di una vergine da quello di chi ha già avuto rapporti sessuali. 

Il mito intorno alla verginità femminile non è storia recente e, in qualche modo, precede la medicina. Come ricorda la giornalista Kate Lister, è il medico Michele Savonarola, vissuto nel XV secolo, a usare per la prima volta la parola “imene” descrivendone il suo funzionamento e la rottura in concomitanza con il primo rapporto sessuale. Prima di lui altri medici, come il greco Sorano, negavano la presenza di membrane vaginali sostenendo che il sangue scaturisse dalla rottura di vasi sanguigni per effetto dell’azione meccanica penetrativa e ciò potesse accadere anche a ogni rapporto.

Il fatto che l’imene sia stato “scoperto” solo in epoca recente non significa che prima non vi fosse interesse nei confronti della purezza del corpo femminile. La sessualità delle donne è stata da sempre oggetto di controllo ed è questo l’aspetto per noi più significativo. In una società patriarcale, monitorare l’attività sessuale delle donne garantiva a padri e mariti una legittima discendenza, da qui il motivo che spingeva medici e letterati a cercare dei metodi per comprovare quella femminile, mantenendo quella maschile nel più assoluto silenzio.

Prima “dell’invenzione” dell’imene, gli studiosi ricorrevano ad altri sistemi per accertare la verginità di una donna. Nel Medioevo, ad esempio, si ricorreva all’analisi delle urine: quella di chi aveva già scoperto le gioie del sesso appariva torbida e scura, mentre quella delle fanciulle risultava trasparente e frizzante (sì, avete letto bene). Secondo altri studiosi, le vergini erano insensibili all’odore del carbone, pertanto una stoffa vaporizzata con questo elemento e posta accanto alla bocca o al naso non provocava in loro alcun tipo di reazione.

Se ci muoviamo indietro nel tempo e andiamo all’origine dei primi, rudimentali test, ci imbattiamo nella vicenda di Tuccia. Come tutte le sacerdotesse consacrate alla dea romana Vesta, anch’ella era obbligata a mantenersi vergine per tutta la vita. Quando fu accusata di esser venuta meno al suo dovere, le fu concessa la possibilità provare la sua innocenza. La sacerdotessa invocò Vesta che le consentì, grazie a un miracolo, di trasportare in un setaccio l’acqua del Tevere fino all’altare; in virtù dell’aiuto ottenuto dalla dea stessa, fu giudicata moralmente pura. Da allora il crivello è un simbolo di verginità, tanto da essere rappresentato in molti dei ritratti nelle mani di Elisabetta I, nota per il suo rifiuto radicale della sessualità. 

Da quando la medicina ha affermato di poter situare la verginità in un preciso punto anatomico del corpo femminile, ha prodotto un vero e proprio cambio di paradigma: ai metodi scarsamente verificabili se ne sostituisce uno apparentemente inconfutabile basato sulla presenza di un riscontro – il sangue – visibile e inoppugnabile. Ai test inaffidabili subentra così quello del lenzuolo che consiste nel cercare la prova, il giorno dopo la prima notte di nozze, dell’avvenuto rapporto tra i coniugi e, conseguentemente, della verginità di lei e dell’onore di lui.

Grazie alla presunta scoperta compiuta dalla medicina, la presenza dell’imene trasforma la verginità in qualcosa di concreto: analogamente a qualsiasi oggetto, essa si può “perdere” o “conservare” e la sua eventuale presenza può essere avvalorata o smentita tramite indagini accurate. Non solo: la purezza e la moralità del genere femminile, per la prima volta, può essere localizzata in un punto preciso del loro corpo che deve essere protetto pena la perdita delle virtù morali ad esso correlate. Inoltre, il fatto che vi siano persone nella posizione di procedere alla verifica è un modo per ricordare alle donne che i loro segreti e le loro condotte potrebbero essere sconfessate in qualsiasi istante. Per evitarlo è necessario proteggersi, per esempio evitando di andare in bici o fare sport impegnativi, scegliendo con cura tamponi interni delle dimensioni giuste, rifuggendo il sesso (come accade a chi partecipa ai purity ball). Vegliare sulla propria verginità diventa un modo per limitare le opportunità di vita delle donne, soprattutto di quelle più giovani, creando le premesse per la disparità di genere.

I miti su cui si basano i test di verginità hanno così contribuito a sostenere l’idea che le donne “serie” facciano un certo uso del corpo, così da poter distinguere quelle meritevoli e caste dalle altre, considerate socialmente pericolose perché licenziose e depravate.

Oggi sappiamo che l’imene non assomiglia tanto a una membrana quanto a una sorta di lembo ripiegato e posizionato nel vestibolo vaginale. Secondo le già citate Ellen Støkken Dahl e Nina Dølvik Brochmann lo stereotipo più comune che lo descrive come una sorta di sigillo, intatto e solido fino al momento del primo rapporto, è in realtà quello che in natura si presenta con meno frequenza, essendo patologico. L’imene imperforato, impedendo il passaggio del flusso mestruale, viene diagnosticato al momento del menarca e trattato chirurgicamente per poter permettere al sangue di defluire. Secondo uno studio apparso su Journal of Pediatric and Adolescent Gynecology che ha studiato un campione di circa 150 bambine in fase pre-puberale, la forma dell’imene è soggetta a variazioni – può ricordare un anello, forato al centro, o una manica di camicia – avere bordi più o meno frastagliati e presentarsi con una singola o più aperture. Se l’imene possiede forme variabili e il sanguinamento passa dall’essere un riscontro oggettivo a una possibilità, nessun test può essere in grado di comprovare scientificamente la verginità della donna che vi si sottopone.

Nonostante le nuove conoscenze di cui disponiamo, basta una rapida ricerca online per capire che la questione della verginità è ancora al centro di un grande interesse. Sui siti di chirurgia estetica è possibile conoscere i costi e le modalità di intervento per effettuare l’imenoplastica, innumerevoli pagine social si sono specializzate nella vendita di kit per ricrearlo artificialmente o di fialette di sangue finto da versare sulle lenzuola al termine del primo rapporto, per confermare al partner la propria illibatezza.

Il significato e la presenza dell’imene sembra trascendere la dimensione prettamente anatomica per diventare cartina di tornasole di altri significati. Gli stereotipi con cui guardiamo al sesso e, in particolare, quelli che attribuiamo alle donne che decidono di vivere liberamente la propria sessualità suddividono ancora il genere femminile in “sante” e “puttane”. L’importanza che l’immaginario conferisce al mito del primo rapporto sessuale, del sangue e della lacerazione ci ricorda che l’unica sessualità ammessa e riconosciuta è, ancora, quella penetrativa ed eterosessuale.

Il mito della verginità, basato su assunti di cui oggi conosciamo l’inconsistenza, continua a determinare la vita delle donne e a conferire potere agli uomini che hanno il compito di vigilare sulla loro condotta. L’associazione RFSU, che in Svezia si occupa di educazione e benessere sessuale, ha proposto di riferirsi all’imene usando l’espressione “corona vaginale” e ha messo online una guida per fare sensibilizzazione sfatando le leggende che ancora vi ruotano attorno. Nel 2018 l’OMS ha condiviso una dichiarazione in cui chiedeva l’abolizione di qualsiasi tipo di test volto a comprovare la verginità femminile, definendo la pratica una discriminazione e un abuso perché il più delle volte eseguita per motivi politici o sociali e senza il consenso esplicito della donna. 

Non bastano le conoscenze sul piano medico o le piccole rivoluzioni linguistiche per abbattere uno stereotipo così radicato nel tempo e nello spazio. Per cambiare la coscienza collettiva, per guardare al sesso come a un’esperienza umana e non solo maschile, per abbattere la disparità di genere che conferisce agli uomini potere e alle donne responsabilità, ci sono ancora molti passi da fare. Cambiare prospettiva, decostruire i miti con cui siamo cresciute e cresciuti può essere il primo.

ARTICOLO n. 20 / 2023

VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE

E se per una notte, solo una, la parità fosse davvero realizzata?

Inizia così un mio ormai vecchissimo post, ispirato al lavoro del collettivo transfemminista sudafricano chiamato @girlsagainstoppression.

Decido infatti di tradurre un loro sondaggio, previo consenso da parte delle amministratrici della pagina, rivolgendomi a quella immaginaria audience che è il mio Instagram.

Domando dunque alle donne che mi leggono – per donne intendo sempre tutte le donne, da chi si identifica nel genere femminile a chi è una donna trans e a chi è donna cisgender, poiché alcune – molte, troppe – delle discriminazioni che viviamo ci accomunano tutte – e chiedo loro: se per una notte non esistessero la violenza e le discriminazioni, cosa fareste?

Lo chiedo consapevole dell’ondata di vittimismo maschile piccato che riceverò in risposta, ma so esattamente dove voglio andare a parare, posso perfino immaginare e condividere quelle risposte che mi arriveranno a breve.

Premo invio, il post è online. Dopo pochi secondi iniziano ad arrivarmi le notifiche, una dopo l’altra, come un fiume in piena.

Non faccio in tempo a cliccare su una che ne arrivano altre, a decine. 

È come un diario segreto, la storia di una notte immaginaria che tutte, tutte quante, più di una volta abbiamo sognato con gli occhi aperti.

Le risposte sono devastanti.

Vorrei uscire a correre da sola, di notte. Vorrei vestirmi come meglio credo. Farei un viaggio da sola. Andrei in Interrail da sola. Farei finalmente il figlio che non posso permettermi di avere. Chiederei un aumento. Cambierei lavoro. Avrei una cura per la mia malattia. Guadagnerei di più. Non verrei molestata. Da donna nera, non verrei sessualizzata costantemente. Non mi chiederebbero se faccio sesso a pagamento mentre sto facendo la spesa. Non verrei discriminata in quanto donna trans. Non avrei paura a fare la strada da sola. Non metterei il reggiseno. Non avrei paura a denunciare il mio abuser. Andrei in campeggio da sola. Metterei vestiti corti, non sai da quanto vorrei metterli per uscire ma poi non lo faccio mai perché ho paura. Potrei ubriacarmi senza paura. Potrei camminare con gli auricolari mentre passeggio per strada da sola la sera. Non dovrei girare con lo spray al peperoncino in borsa. Prenderei lo stipendio che merito e che mi spetta. Troverei lavoro. Farei coming out senza paura. Mi sentirei felice di essere rimasta incinta. Farei sesso con chi voglio senza rischiare di passare per puttana. Non userei le chiavi come tirapugni. Metterei i tacchi la sera, tanto non dovrei scappare da nessuno. Firmerei un contratto per approfittare del momento e ricevere la stessa paga di un uomo. Passeggerei di notte. Avrei già abortito, ma non trovo medici non obiettori. Cambierei la legge sul congedo parentale. 

Camminerei per strada la notte: chissà come è bella la città piena di lampioni quando non hai paura. 

Come un fiume in piena mi trovo tramortita dalla quantità di messaggi che ricevo: tutti simili, tutti così puri, tutti incredibilmente agrodolci. 

Se li leggesse un alieno che nulla conosce della nostra società penserebbe che siamo un branco di imbecilli o strafatti di LSD. 

Rimango ferma per un po’, fissando lo schermo che continua a riempirsi di notifiche: voci di donne che raccontano stralci brevissimi delle loro vite, ferite sottili come quelle fatte con la carta, millimetriche ma dolorosissime. 

Sento, riesco a percepire la dolcezza di ogni pensiero che si accompagna a doppio nodo con l’amarezza del sapere di non poter fare nessuna di queste cose, vuoi per una logica e giustificabile mancanza di coraggio, vuoi per una impossibilità strutturale, vuoi per una impossibilità politica. 

Annuso un profumo che conosco benissimo: è familiare questo sentimento di sconforto sognante, ha un cuore di rabbia e una nota di fondo di tristezza quotidiana. 

Sono passati più di due anni da quel post e il sentimento che provo ogni volta che mi pongo la domanda con cui ho iniziato questo mio scritto è sempre il medesimo.

Mi sento sognante, ma ho ancora moltissimo amaro in bocca. 

In questi giorni che precedono l’8 marzo – data in cui uscirà il pezzo che sto scrivendo in questo esatto momento – la discussione sui diritti femminili si fa sempre un po’ più calda. E, con il governo Meloni, si è fatta sicuramente più aspra.

Negli anni abbiamo iniziato a lasciarci dietro il concetto di otto marzo come festa in cui le donne entrano gratis nei club, hanno sconti sugli shot – ma da bere rigorosamente senza mani – e possono infilare banconote negli slip degli spogliarellisti. Eppure, quando si parla di otto Marzo si continuano a non comprendere alcune questioni centrali di quella che storicamente è una giornata di lotta, non di gif animate coi glitter da mandare a tutte le donne che si conoscono (che è una variante degli “auguri a tutte le befane”, immancabile tragedia di ogni 6 gennaio).

Eppure, nonostante ci sia stato un significativo miglioramento nel recepire l’importanza di questa data, il tono della discussione è ancora acerbo, e a tratti piuttosto stupido.

Tra le centinaia di commenti sull’inutilità di una festa come questa “visto che la parità è ormai cosa già raggiunta” (ultimo a dirlo, il tassista che mi ha portata a casa lo scorso sabato sera: mi duole ribadire anche a voi che se così fosse non avrei mai usufruito di un servizio così caro per fare due chilometri di notte), vedo anche proclami politici poco incoraggianti in termini di autodeterminazione della donna.

In questo senso è emblematica la copertina dell’ultimo numero di Grazia, uscito qualche giorno fa, che ritrae il presidente del Consiglio Giorgia Meloni – non è misgendering, è che mi andava di rispettare le circolari: sanno essere divertenti, di tanto in tanto – affiancata dal titolo “Ragazze, liberiamo il nostro potere”.

Sorvolando sulla non parzialità dell’informazione offerta da Grazia (la direttrice Silvia Grilli è da mesi che endorsaMeloni dalle pagine di un magazine “femminile” che si vanta spesso di essere super partes), quello che possiamo leggere nell’intervista al presidente del Consiglio è un fotogramma incredibile della percezione della disparità di genere, a oggi. 

Da un lato, Meloni attacca la mono e omogenitorialità facendo leva sul suo personale trascorso di vita: terribile e doloroso, ma da qui a farne un modello per lo Stato mi pare vagamente egomaniaco. Segue subito un trafiletto sull’interruzione volontaria di gravidanza, dipinta come esperienza triste, solitaria e dolente: è una narrazione incredibilmente funzionale, per chi sta cercando di svuotare la legge 194 dall’interno. Poco più avanti, possiamo leggere una lunga riposta sulla prevenzione della violenza di genere in cui Meloni elogia la formazione sul tema a polizia e carabinieri e anche gli interventi legislativi per punire chi commette i crimini previsti dalla legge in materia (per precisare, nessuna di queste cose è prevenzione, bensì risoluzione del danno: prevenzione equivale a fare cultura e offrire lavoro e spazi sicuri, ma nessuna delle due voci è presente nel testo). Sul lavoro femminile, tutto tace. Gender pay gap pure. 

Il punto però più interessante è quello in cui Meloni si aggrappa al femminismo per proteggere le donne.

Le parole che usa il presidente del Consiglio sono le seguenti: «Oggi per essere donna si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l’essenza, la differenza. Le donne sono le prime vittime dell’ideologia gender. La pensano così anche molte femministe».

È un abbraccio alla linea TERF (femminismo transecludente) che fa intuire che la femminilità (qualsiasi cosa questa parola voglia ancora dire, nel 2023) sarebbe in pericolo.

Di cosa, non ci è dato sapere.

Ma a livello propagandistico funziona bene: sarebbero a rischio le facoltà per cui una donna è ritenuta importante, ovvero quelle riproduttive (che poi sono proprio quelle che spesso ci tengono lontane dal mondo del lavoro), carissime alla destra.

Eppure, non esiste niente di più falso.

E le voci che due anni fa mi hanno scritto quei messaggi sulla notte di libertà – perché quando parliamo di parità parliamo sempre, sempre, ostinatamente di libertà – lo sanno bene.

Sanno bene che le parole di Meloni su Grazia sono propaganda fatta per mantenere intatto il sistema di accesso a numero limitato per i diritti civili e sociali. Sanno anche che pubblicare questa intervista è un ottimo tentativo di pesca a strascico tra le file delle donne, magari lontane dagli ambienti di lotta, che vedendo la parola femminismo possono pensare che finalmente la prima donna al governo farà qualcosa per loro.

Ma in uno Stato in cui l’accessibilità all’interruzione di gravidanza sicura e non giudicante è ormai complicatissimo, in cui il lavoro di cura non retribuito ricade ancora sulle donne (per il 74% del totale), in cui il gender pay gap fa guadagnare ancora il 15% in meno degli uomini a parità di impiego e l’accessibilità dei lavori full time è ancora riservata principalmente agli uomini, capiamo bene quanto non ci servano nuovi nemici da incolpare: abbiamo già i nostri e mi sembrano anche piuttosto determinati.

Viviamo in una condizione che è estremamente precaria su ogni fronte, su ogni diritto di autodeterminazione. Il dibattito è molto attivo e le voci di attiviste, intellettuali e scrittrici sono sempre di più.

In questi anni di dibattito sui temi civili e sociali interconnessi al femminismo si è però venuta a creare una netta spaccatura, soprattutto nella destra e in alcuni ambienti del movimento stesso. 

Da un lato è innegabile che si sia fatta luce su alcuni temi che non possono più essere ignorati, ma dall’altro si cerca di tamponare nuove, legittime, importanti richieste di tutela e inclusione semplicemente facendole passare come pericolose. E, nel primo otto marzo di questa nuova destra al governo, appare subito lampante di quanto ancora abbiamo bisogno di una data di lotta come questa. Ma che sia una data di lotta per tutte.

Se infatti rileggiamo bene l’intervista al presidente del Consiglio, vedremo subito quanto sia subdola la promessa di potere che il titolo di copertina vuol far credere. 

Quel potere non viene infatti mai dato alle donne che vogliono abortire, ad esempio: nel testo Meloni promette aiuti a chi vorrà tenere il bambino, non a chi vuole ricorrere con facilità e sicurezza alla propria autodeterminazione. Nel testo non si cita mai la responsabilità politica del mantenimento del soffitto di cristallo, si invitano invece le ragazze (generico ma, vedendo le sue posizioni TERF, molto cisgender) a impegnarsi per distruggerlo, ignorando ovviamente la questione di classe. Glissando sulla monogenitorialità ignora il dolore di tante di noi donne single, che vorremmo procreare o adottare ma non possiamo. E ignora ancora di più le coppie omogenitoriali, contrapponendole alla famiglia naturale. 

La lotta tra “vere donne” e tutte le altre non esiste, perché ogni rivendicazione è profondamente interconnessa e la matrice – sic – è sempre la stessa cultura patriarcale che si nutre di un capitalismo insaziabile che mette in ginocchio le categorie marginalizzate.

Le donne cisgender non hanno nessuna lotta contro le donne trans. Non siamo in pericolo. O meglio, il pericolo non sono le nostre sorelle trans.

Il pericolo è questa sciapa, scialba, stupida propaganda fatta sulle paure ataviche di una classe dirigente vecchia, stantia, bigotta e borghese, che del perbenismo ha fatto il suo marchio di fabbrica.

Senza che ce ne rendessimo neanche troppo conto ci siamo ritrovate a doverci accontentare di carezze e pacche sulle spalle, in un continuo, paternalista e petulante coro di “ragazza, se vuoi puoi”.

Se vuoi, puoi.

Ditelo alle donne trans quando si vedono usare come spauracchio da una fazione politica. O che non vengono assunte. 

O alle persone che vorrebbero abortire in regioni piene di medici obiettori.

Alle madri che non possono far altro che abbandonare il lavoro o alle donne che vorrebbero un figlio ma la loro famiglia è arcobaleno. 

Ditelo a chi vorrebbe uscire di sera senza paura, a chi vorrebbe fare un viaggio serenamente, a chi vorrebbe avere il coraggio di denunciare le violenze subite ma non lo fa perché la cultura è inesistente in questo paese. 

Se non facciamo figli è anche perché non possiamo permettercelo. Se non rompiamo il soffitto di cristallo è perché il mondo del lavoro ci schiaccia e quello familiare ci soffoca, perché il carico non viene diviso (anche per colpa dei congedi di paternità inesistenti). Se le donne muoiono non è soltanto perché mancano leggi, ma perché manca cultura. Se non possiamo permetterci di fare coming out è perché viviamo nella paura. Se non possiamo avere tutele speciali contro i reati d’odio è perché alcune categorie sono ritenute ancora invisibili. E non vederlo è impossibile: i corpi delle donne – tutte le donne, mi piace ripeterlo – sono ottimo terreno di propaganda da secoli. Da sempre.

Sulla nostra vita – e sulla nostra fica: sono tutti ossessionati da ciò che abbiamo o meno nelle mutande – si fanno politica e soldi, come se fossimo merce di scambio.

E sottobanco, con il favore delle tenebre – sic bis – hanno provato a farci credere che volere fosse potere e che le donne fossero di nuovo nemiche delle altre donne, come il vecchio adagio ci insegnava.

Il problema è che adesso noi vediamo benissimo anche nel buio, come gli animali notturni.

Abbiamo abitato con paura nel buio per secoli. 

A forza di stare nel buio, abbiamo adattato la vista alla mancanza di luce.

Per questo, nella merda di questo quadro politico attuale di sotterfugi, mascherati più o meno bene, noi ci vediamo benissimo. 

E sappiamo dunque che dell’otto marzo c’è ancora moltissimo bisogno.

La nostra sempre ostinata ricerca della libertà non ci ha mai fermate.

Il mondo è cambiato, e con lui anche i nomi che diamo ai fenomeni e alle cose (nomina sunt consequentia rerum, lo scriveva Dante nella Vita Nova, che ai tempi era ritenuto un pessimo scrittore proprio per le sue forme lessicali innovative: non ditelo ai puristi della lingua italica, verrebbe loro un coccolone).

E con i nomi e i fenomeni di questo nuovo mondo abbiamo bisogno di nuovo spazio.

E in questo spazio i diritti e i nostri corpi non possono essere usati come mezzo di propaganda di una fazione politica o di un frammento ormai morto di movimento.

I diritti ci rendono libere, non averli ci rende ostinate. 

Occhio a quel soffitto di cristallo, che ve lo buchiamo.

ARTICOLO n. 19 / 2023

IL FEMMINISMO COME LAVORO DI UNA VITA: DEDICA A BELL HOOKS

A cura di Maria Nadotti, traduzione di Camilla Pieretti

Sara Ahmed è attivista, scrittrice e teorica femminista, interessata all’intersezione fra teorie femministe lesbiche e queer con processi di razzializzazione. Durante la sua carriera accademica ha fondato il Centre for Feminist Research e insegnato Race and Cultural Studies al Goldsmiths College di Londra fino al 2016, quando si è licenziata per protestare contro il modo in cui l’università gestiva il problema delle molestie sessuali. Oggi è una ricercatrice indipendente e, fra le altre cose, gestisce un blog dal titolo significativo “feministkilljoys”, da cui – per gentile concessione dell’autrice, che ringraziamo – abbiamo tratto il testo che qui presentiamo in versione italiana: “Femminismo come lavoro di tutta una vita. In onore di bell hooks”. L’originale inglese è stato postato il 20 settembre 2022 su https://feministkilljoys.com/.

Di Sara Ahmed, che ha al suo attivo una decina di titoli su femminismo, colonialità, emozioni, queer e razzismo, è per ora disponibile in italiano solo Vivere una vita femminista (a cura di Liana Borghi e Marco Pustianaz, trad. it. di Matu D’Epifanio, Roberta Granelli, Bea Gusmano, Serena Naim, Edizioni ETS, 2022). Di prossima pubblicazione un suo saggio del 2010, La promessa della felicità (Luca Sossella Editore, 2023) e Il linguaggio della diversità (Fandango Libri, 2023).

Il 3 dicembre 2022 Sara Ahmed ha partecipato al convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi” con un’intervista realizzata in videoregistrazione. Il video, doppiato in italiano, è disponibile sulla pagina Facebook del Giardino dei Ciliegi di Firenze. (Maria Nadotti)

Il “lavoro di una vita” costituisce l’attività principale, se non l’unica, nel corso dell’esistenza o della carriera di una persona. Essere femminista significa fare del femminismo il lavoro della propria vita. Sono profondamente in debito con bell hooks per avermi insegnato tutto questo e molto, molto altro. Questo post è dedicato a lei.

Quando bell hooks è morta non sono riuscita a scrivere di lei, di quanto il suo lavoro abbia significato per me, per gli studenti e le studentesse a cui ho insegnato nel corso degli anni, per coloro con cui condivido un progetto politico e una comunità. Ho letto ciò che è stato scritto da altri, grata che esistano persone a cui il dolore del lutto non toglie la capacità di esprimersi. Nel mio caso ci vuole tempo per far fluire le parole, tempo per arrivare al punto di poter dire qualcosa sulla perdita di qualcuno. Si può perdere qualcuno nel conoscerlo. Oppure si può conoscere qualcuno tramite ciò che ha dato al mondo.

Le parole mi vengono grazie a ciò che tu hai saputo dare al mondo. In Talking Back: Thinking Feminism, Thinking Black, hooks ha scritto di «un modo per catturare il parlato, non lasciarlo andare, tenerselo vicino. Così mi sono annotata spezzoni e frammenti di conversazioni, affidandoli a diari da quattro soldi che in breve si disfacevano per i tanti rimaneggiamenti, esprimendo l’intensità del mio dolore, il tormento del parlare, perché mi trovavo sempre a dire la cosa sbagliata, a fare le domande sbagliate. Non riuscivo a confinare i miei discorsi agli angoli e alle angosce indispensabili della vita. Nascondevo quegli scritti sotto al letto, tra le imbottiture dei cuscini, fra mutande sbiadite» (1988, pp. 6-7). Nella scrittura, nello scrivere, bell hooks si rifiuta di accettare qualunque limitazione. Dissemina le proprie parole, la propria presenza in ogni angolo. Tutta quella intensità deve finire da qualche parte. Le pagine si disfano «per i tanti rimaneggiamenti». Usa quaderni da quattro soldi, quello che ha a disposizione. Se li fa bastare, se la sa cavare. Le pagine si consumano perché sono importanti. Scrivere è il suo modo di sfogarsi, di tracimare, l’intensità del dolore che le riempie, infilate dove può, dove sta, dove vive, sotto il letto, nelle federe dei cuscini, tra la biancheria intima, sotto, tra, fra: ficcate tra i capi più delicati, tra le altre sue cose. Nel nascondere lì i suoi scritti, i suoi pensieri e le emozioni che le si riversano fuori, ciò che sente, «spezzoni e frammenti di conversazioni», trabocca dallo spazio che le è stato dato, dalle preoccupazioni che si suppone che abbia, che le è consentito avere, dagli angoli, i limiti della stanza.

Nell’interrogarci su un mondo che ci limita così tanto, ci facciamo le domande sbagliate.

Negli scritti di bell hooks sulla scrittura, nella sua descrizione di ciò che c’è di usurante nello scrivere, nelle parole, c’è qualcosa di straordinariamente bello. Ma c’è anche molto dolore.

hooks scrive di come si possa essere colti in fallo da chi pensa di aver scoperto qualcosa su di noi leggendo le nostre parole. Racconta come le sue sorelle trovassero quello che scriveva e finissero per «deriderla» (p. 7). Parla del lasciare in giro i suoi scritti come di uno «stendere i panni appena lavati all’aria, sotto gli occhi di tutti» (p. 7). Si noti che non dice “panni sporchi”, espressione spesso usata per riferirsi allo sbandierare segreti in pubblico. I suoi sono panni appena lavati, appesi sotto gli occhi di tutti dopo che ci ha già lavorato sopra. Quando scrivere è un lavoro, lo si fa per dare spazio alle proprie parole, per mettersi in gioco. È comunque un modo di esporre qualcosa, qualcuno, questo arieggiare, questo rendere il proprio mondo interiore vulnerabile allo sguardo altrui.

Protendersi verso l’esterno può voler dire tornare indietro nel tempo, uscire allo scoperto facendo leva su chi è venuto prima di noi. hooks racconta come, da giovane ragazza nera, ha dovuto imparare a non cedere terreno, a sfidare l’autorità genitoriale, a rispondere. Inoltre, descrive come è arrivata ad assumere la propria identità da scrittrice: «Uno dei tanti motivi per cui ho scelto di scrivere sotto lo pseudonimo di bell hooks, un nome di famiglia (madre di Sarah Oldham, nonna di Rosa Bell Oldham, mia bisnonna)» (p. 9). Scegliere uno pseudonimo può essere un modo per rivendicare un’eredità nera femminista. I discorsi ribelli un altro. Altrove, hooks spiega che la nonna era «nota per la lingua audace e scattante» (1996, p. 152). Scrivere può essere un modo per rispondere, ma anche per riprendere qualcosa, essere audaci e scattanti nel recuperare le fila di una storia.

In Talking Back, hooks parla anche della memoria, condividendo un ricordo sul modo di ricordare della madre: «Mi è tornato in mente il “baule della speranza” di mia mamma, con quel meraviglioso odore di cedro, e ho ripensato a quando prendeva gli oggetti più preziosi e li riponeva al suo interno per tenerli al sicuro. Certi ricordi per me sono altrettanto pregiati. Vorrei poterli mettere da qualche parte per tenerli al sicuro» (p. 158). Un odore è in grado di viaggiare nel tempo e di far rivivere in noi delle memorie quando lo annusiamo. Un oggetto ci aiuta a trattenere i ricordi, li conserva per noi, perché ci possiamo ritornare. Per hooks, ciò che ricordiamo non è sempre chiaro o neppure vero. Dice di ricordare «un carretto che io e mio fratello abbiamo condiviso da bambini» (p. 158). Ma poi aggiunge che secondo la madre «non c’era mai stato nessun carretto. Quella che condividevamo era una carriola rossa». 

Un carretto, una carriola rossa. La domanda non è quale fosse l’oggetto giusto. Le cose tendono ad acquisire colori e forme diverse a seconda di tanti fattori. Nella scrittura è lo stesso: gli oggetti acquisiscono colori e forme diverse a seconda di tanti fattori. Uno può essere una carriola rossa o un carretto. La domanda non è quale dei due. A volte, allentando la presa sulle cose (e su noi stessi) infondiamo loro vita. In una conversazione con Gloria Steinem, bell hooks si descrive circondata dai propri oggetti preziosi, oggetti femministi. Sono la prima cosa che vede quando si sveglia. Dice: «Gli oggetti della mia vita mi chiamano». E aggiunge: «[ho] Litania per la sopravvivenza di Audre Lorde proprio di fronte quando mi alzo dal letto; ho tante bellissime immagini di donne che mi guardano nel corso della giornata».

Il femminismo diventa un modo di crearsi il proprio orizzonte, di circondarsi di immagini che ci rimandano qualcosa di vero e prezioso sulla vita che stiamo vivendo o che abbiamo vissuto.

Una storia di sopravvivenza, di perseveranza, anche di amore.

Anche scrivere, ci dimostra hooks, può essere il nostro modo di circondarci.

Scriviamo per darci alla luce. Scriviamo, in compagnia. Scriviamo per reagire a un mondo che, in un modo o nell’altro, ci rende difficile esistere alle nostre condizioni. Quando penso a quel che ci vuole per scrivere per reazione, a chi ci vuole, penso a quanti, prima di noi, hanno contribuito ad aprire delle strade che potessimo seguire. E penso a te. Trovarti può essere una vera fortuna. A volte mi toglie il fiato pensare a quanto poco ci voglia per mancarsi.

Scriviamo perché ci manca qualcosa. Scriviamo per aiutarci a ritrovarci l’un l’altro. Nel riflettere sul suo irrinunciabile libro Il femminismo è per tutti, bell hooks racconta come il suo impegno verso il femminismo sia maturato nel corso di tutta una vita. La prefazione alla seconda edizione comincia con la frase: «Dedita da più di quarant’anni alla teoria e alla pratica del femminismo, sono orgogliosa di affermare che il mio impegno nei confronti di un movimento femminista, rivolto a sfidare e cambiare il patriarcato, si è fatto ogni anno più risoluto» (2014, p. 15). Trovo molto bello che tu non abbia scritto «il movimento femminista» ma «un movimento femminista». Senza «il» si riesce a sentire il movimento. Penso a quanto sia incoraggiante per noi che tu abbia condiviso questa testimonianza. Mi hai insegnato che si può trovare una via in mezzo alla violenza di questo mondo, ribadendo il nostro impegno a cambiarlo. Portare avanti (o persino intensificare) la nostra attività a sostegno del femminismo è un atto politico, considerato che ciò che noi mettiamo in discussione e cerchiamo di cambiare altri lo difendono, altri che hanno le risorse per trasformare la propria difesa in un ordine. Esprimere la propria adesione ai principi femministi ha delle implicazioni che durano tutta la vita, perché si finisce per essere in contrasto con tante cose e persone. Mi hai insegnato anche che essere «in contrasto» non riguarda solo ciò che è doloroso o difficile, ma può essere anche un’apertura, se non addirittura un invito. In fondo è così che hai definito l’essere queer, come un «contrasto». Quello che può sembrare il lato negativo della critica, nominare ciò a cui siamo contrari, mostrare come la violenza sia implicata nelle forme culturali più amate, così diventa un modo costruttivo di fare spazio, per permetterci di vivere in un altro modo.

Nel raccontare la storia del suo impegno lungo una vita nei confronti del femminismo come di una politica con cui cambiare il mondo, bell hooks si rivolge a noi, al suo pubblico. Sottolinea che i suoi libri, per quanto «poco recensiti», hanno comunque «trovato un pubblico». Si dice «sbalordita» che il suo lavoro «trovi ancora lettori, che educhi ancora alla coscienza critica» (p. 16). Se un libro femminista non viene recensito dai giornali ad ampia diffusione né esposto nelle vetrine delle librerie perché dissidente e progressista, come lo si trova? hooks sostiene che i suoi libri si siano diffusi tramite «passaparola» o perché «adottati come libri di testo». Io l’ho scoperta proprio così. Una delle sue opere ci è stata assegnata durante un corso che ho frequentato nel 1992 (l’insegnante che ce l’ha assegnata si chiamava Chris Weedon, grazie Chris per avermela fatta conoscere). Così, tramite il passaparola o i corsi femministi, i libri di bell hooks hanno trovato i loro lettori e ci hanno salvato la vita.

Il modo in cui si scopre bell hooks è legato a ciò che lei ha da insegnarci. Scoprire il femminismo non significa seguire le strade convenzionali che portano a un premio, a un riconoscimento. Tu definivi il femminismo come «un movimento per mettere fine al sessismo, allo sfruttamento e all’oppressione sessuale» (2000, p. 33). Una definizione estremamente istruttiva. Il femminismo è necessario per combattere ciò che ancora persiste: sessismo, sfruttamento e oppressione sessuale. In più, per hooks, «sessismo, sfruttamento e oppressione sessuale» sono un tutt’uno con il suprematismo bianco e il capitalismo. Ecco perché è importante continuare a dare un nome a ciò a cui ci si oppone. In Outlaw Culture, hooks fa uso del termine «patriarcato capitalista suprematista bianco» per ben diciotto volte! Per forza poi mi hai ispirato a diventare una guastafeste. Gli hai dato un nome, cogliendo nel segno, ogni singola volta!

Cogliere nel segno può avere un costo. Ripenso a quanto hooks si sia stupita che i suoi libri abbiano trovato dei lettori. In quel suo stupore si può intravedere la storia di ciò che bell hooks non ha fatto per “trovare” il suo pubblico. In un dialogo aperto con Marci Blackman, Shola Lynch e Janet Mock alla New School nel 2019, hooks ha dichiarato: «Dico ai miei studenti: decolonizzate. Ma decolonizzare ha un prezzo. Non si diventerà mai ricchi. Non si riceveranno premi per geni finanziati dai militaristi e imperialisti della fondazione MacArthur». hooks ci tiene a chiarire che non ha nulla contrario verso coloro che accettano quei premi, ma che vuole solo sottolineare come decolonizzare la nostra dipendenza sia un modo per crearsi i propri standard di vita. Ricevere finanziamenti, premi o borse di studio da organizzazioni che devono il proprio potere a un sistema che critichiamo significa accettare una limitazione. Persino quando pensiamo di riuscire ad aggirare il sistema è difficile non finire a darsi da fare per far girare il sistema. Tu mi hai insegnato che per cambiare il sistema bisogna impedirgli di funzionare. Penso a quanto ci costa, al prezzo da pagare per ciò che facciamo.

Il femminismo può diventare un modo per evitare di pagare quel prezzo. Bisogna trovare un’altra strada. Penso a come le critiche di bell hooks al femminismo bianco ci abbiano offerto tanti strumenti, come per esempio la critica alla soluzione di Betty Friedan all’infelicità delle casalinghe, il «problema senza nome» (senonché, ovviamente, tu un nome glielo hai dato). Hai scritto: «[Friedan] non ha spiegato chi verrebbe chiamato a prendersi cura dei bambini e della casa se ad altre donne come lei venisse consentito di lasciar perdere i lavori domestici e di accedere alle professioni lavorative al pari degli uomini bianchi» (2000, pp. 1-2). Mi hai insegnato anche a «fare della teoria femminista» nel riflettere su cosa succede quando si «fa del femminismo». Hai scritto: «Un gruppo di attiviste femministe bianche che non si conoscono può partecipare a un incontro per discutere delle teorie femministe, sentendosi legato dalla condivisione della condizione femminile. L’atmosfera, tuttavia, cambia radicalmente se nella sala entra una donna di colore. Le donne bianche diventano più tese, meno rilassate, meno festose» (2000, p. 56). Questa descrizione rivela una straordinaria capacità di comprendere ogni cosa. Basta che una donna di colore entri nella stanza perché l’atmosfera si faccia tesa. Un’atmosfera sembra quasi sempre intangibile. Se però si è causa di tensioni, quella stessa atmosfera può diventare un muro. La donna di colore finisce per sentirsi esclusa dal gruppo, un intralcio a una solidarietà verosimilmente condivisa.

Esistono molti modi per essere esclusi da una conversazione. Tale esclusione aiuta a dare una sensazione di unità. Il fatto che alcuni spazi femministi vengano percepiti come più uniti di altri può essere la misura di quante persone ne sono tagliate fuori. Tu mi hai insegnato a notare chi manca, che è il nostro modo di diventare guastafeste, di opporci all’occupazione dello spazio.

Mi hai insegnato a volermi mettere in mezzo.

Mi hai insegnato a insegnare.

Insegnare è il nostro modo di imparare, ma anche il nostro modo per cambiare le cose. Scrivi dell’insegnamento come di un modo per dare forma al cambiamento sociale, come della «pratica della libertà […] che ci consente di vivere appieno, liberamente» (1988, p. 172). Ho sempre presentato le tue opere nei miei corsi. L’ho fatto per tutti gli anni in cui ho insegnato, osservando gli studenti venire trasformati da ciò che apprendevano. Spesso abbiamo letto il tuo articolo «Eating the Other». L’ho anche usato come ispirazione per uno dei miei primi libri, Strange Encounters, in un capitolo dal bizzarro titolo «Going Strange, Going Native». Tu scrivi: «La mercificazione dell’Alterità ha avuto successo perché la si è presentata come un piacere tutto nuovo, più intenso e soddisfacente del nostro classico modo di fare e sentire. Nella cultura del commercio, l’etnicità è una spezia, un condimento utile a dare sapore a quel piatto insipido che è la cultura bianca mainstream» (1992, p. 21). L’etnicità come spezia è forse una delle descrizioni più azzeccate di come funziona il razzismo nella cultura consumista. Con quell’articolo mi hai insegnato a teorizzare la bianchitudine, quel suo modo di non essere solo un’assenza ma una neutralità, un piatto insipido, per cui le persone di colore diventano spezie, supplementi, sapori, qualcosa da aggiungere, da metterci sopra.

Non hai mai smesso di trasmettermi insegnamenti.

Te l’ho mai detto?

Non ho mai comunicato direttamente con bell hooks. Un giorno le ho inviato un messaggio scrivendo al suo editore, South End, nel 2009. Il testo recitava: «So che avete pubblicato le opere di una delle studiose e attiviste contemporanee che ammiro di più: bell hooks. Io stessa sono una femminista di colore che opera all’interno e dall’interno dei contesti inglese e australiano. Le opere di bell hooks hanno avuto una forte influenza sul mio lavoro, in particolare sul mio libro Strange Encounters (2000), che riprende la sua splendida critica dell’esoticizzazione dell’alterità. È stato un privilegio, oltre che un piacere, poter lavorare sulle sue opere». Mi hanno detto che ti avrebbero trasmesso il messaggio, ma non so se lo abbiano fatto davvero. Vorrei averti scritto ancora. In ogni caso, penso che avesse più senso comunicare con te tramite scritti indirizzati non alla tua persona ma a «un movimento femminista».

Noi siamo quel movimento.

È stato solo durante la stesura di Vivere una vita femminista che ho percepito fino in fondo la profondità del mio debito nei tuoi confronti. Quel libro portava le tue impronte su ogni pagina, segno di ciò che io ero riuscita a fare grazie a ciò che tu ti sei adoperata a mostrare, a ciò che hai lasciato sotto gli occhi di tutti. Ricordo di aver messo il tuo nome in cima all’elenco degli studiosi che speravo di coinvolgere nella promozione del libro, senza immaginare che potessi accettare. La prima volta che ho letto le tue parole sulla mia opera sono quasi caduta dalla sedia. Sapere che non solo l’avevi letta, ma l’avevi anche caldeggiata, mi ha commosso profondamente. Poi il mio editore ha deciso di mettere una tua frase in copertina.

Diceva: «Un libro che tutti dovrebbero leggere».

Vedere quella copertina mi provoca ancora oggi una profonda emozione, perché ogni volta che la guardo vedo il tuo nome. La guardo e vedo te. Sto per mandare alle stampe un altro libro, The Feminist Killjoy Handbook [Guida pratica per guastafeste femministe], sempre rivolto al movimento femminista. Tu fai capolino in ogni pagina, soprattutto nel capitolo su come sopravvivere come guastafeste, sulle guastafeste femministe come poetesse, le guastafeste femministe come attiviste. Quell’ultimo capitolo è dedicato a te.

Ci sono molti modi di trasmettere per iscritto il nostro amore per il mondo che siamo abbastanza audaci da desiderare l’una per l’altra.

Grazie, bell, per quello che mi hai aiutato a vedere.

Per essere abbastanza audace da desiderare.

Da una guastafeste all’altra,

Sara


Bibliografia

hooks, bell (2014), Il femminismo è per tutti: una politica appassionata, trad. di Maria Nadotti, Tamu, Napoli 2021.
hooks, bell (2006), Outlaw Culture: Resisting Representations, Routledge, New York.
hooks, bell (2000), Feminist Theory: from Margin to Centre, Pluto Press, London.
hooks, bell (1996), «Inspired Eccentricity: Sarah and Gus Oldham» in Sharon Sloan Fiffer e Steve Fiffer (a c. di), Family: American Writers Remember Their Own, Vintage Books, New York.
hooks, bell (1992), Black Looks: Race and Representation, South End Press, Boston.
hooks, bell (1988), Talking Back: Thinking Feminism, Thinking Black, South End Press, Boston.

ARTICOLO n. 18 / 2023

L’ULTIMO BLOCKBUSTER SULLA TERRA

In Oregon è rimasto l’ultimo Blockbuster della terra. Un tempo questo colosso colonizzava col suo servizio di noleggio ogni città sufficientemente grande da poter contenere abbastanza appassionati di cinema, ma l’arrivo delle piattaforme di streaming ha via via eliminato questo gesto intimo e collettivo, la voglia di recarsi in un luogo, prendersi il tempo giusto e scegliere due o tre pellicole da fagocitare in una manciata di giorni. Però il Blockbuster Bend esiste e resiste, diventando un luogo quasi sacro nel tempo come lo fu l’Oracolo di Delfi: persone da tutto il mondo si recano in pellegrinaggio per replicare quel gesto nostalgico e famigliare o semplicemente per provare il brivido della prima volta. Durante il Super Bowl è andato in onda uno spot ambientato in un futuro post apocalittico in cui tutto è morto e polveroso, ma il Blockbuster Bend ancora vive e insiste nel perpetuare quel gesto: raccolgo la custodia vuota dallo scaffale, mi reco al bancone e in cambio mi viene fornita la pellicola che dovrò inserire obbligatoriamente in un lettore DVD se non addirittura in un VHS. Quale sarebbe il vostro ultimo film? Questa domanda mi risuona con lo stesso fastidio e la stessa apprensione di quando mi chiedono una classifica dei lungometraggi che ho amato di più. Sono quelle liste che rassicurano e trovano spesso una sistemazione comoda nelle somiglianze e nelle differenze che riscontriamo quando misuriamo noi stessi con le storie che ci hanno cambiato la vita. Allo stesso tempo, però, sono anche richieste leggere che non tengono conto della dimensione emotiva e privata, quel battito sordo in fondo al ventre, il posto in cui dormono tutti i racconti che in qualche modo per noi hanno significato cambiamento, aggiunta, una nuova coperta con cui avvolgersi di notte, la luce accesa sul comodino perché non sai mai che mostri possono nascondersi dentro l’armadio. Però continuo a pensare a quel Blockbuster, e se ormai ho rinunciato a scegliere un solo film per la mia notte, la parte che preferisco di questa intrusione dall’Oregon è senza ombra di dubbio la finestra spalancata sul videonoleggio che ha cambiato la mia vita.

Dovete sapere che la mia storia con i film è iniziata prestissimo, complice un padre che mi ha trasmesso quell’amore puro per le storie e un negozietto di Maranello che ogni venerdì riusciva a trovare almeno tre titoli in grado di stuzzicare la curiosità del mio vecchio. Quando tornava a casa dal lavoro faceva sempre finta di essersi dimenticato di fermarsi al videonoleggio mentre io gli saltavo intorno, smaniosa di sapere che cosa avremmo guardato nel weekend. Era un momento magico, oggi posso definirlo così con consapevolezza, perché come potrei spiegare diversamente quel movimento curioso che seleziona una storia basandosi su pochi elementi e che la fa sedimentare nel tempo e nello spazio per anni e anni, facendoci imparare a memoria battute e formule, mimare gesti e intere scene, cercare nel mondo reale quello che abbiamo visto trasmettere da un televisore? I più cinici diranno che non è magia, ma sono i neuroni specchio che impongono un processo di identificazione e che, queste nuove facce, noi le indossiamo per essere un’ipotetica versione migliore o per diventare completamente qualcun altro. Così nel tempo sono stata la Morgana di Excalibur (1981), la Deborah di C’era una volta in America (1984), Mia Wallace in Pulp Fiction (1994), la Jenny che urla in mezzo al Campidoglio per Forrest Gump (1984) e Laura Palmer, Shelly Johnson e Audrey Horne a seconda di come mi alzavo alla mattina nella mia personale Twin Peaks. I miei genitori non hanno mai posto troppi veti su quali film o meno avrei potuto guardare con loro, tanto meno sulle serie e gli sceneggiati che agli inizi degli anni ‘90 andavano ancora fortissimo in RAI. Non avevamo nemmeno un genere preferito, da validissimi spettatori assoluti guardavamo qualsiasi cosa, ed eravamo capaci di passare dalle musiche straordinarie de Il segreto del Sahara alla penna di Pupi Avati per Voci Notturne, una miniserie diretta da Fabrizio Laurenti che ancora oggi disturba il mio sonno. Ecco, in mezzo alla meraviglia dobbiamo riconoscere che il prezzo da pagare per una vita da spettatrice libera fin dalla prima infanzia è il bagaglio di incubi in agguato nei periodi di maggiore stress.

Tutte le storie che entrano dai nostri occhi creano fotogrammi che si agganciano a frammenti di emozione ancora in costruzione. Quando guardiamo un film o una serie TV si creano dei ponti tra noi e i personaggi dello schermo, e passeggiandoci sopra abbiamo il potere di indossare quelle maschere o metterle in bocca e masticare, ingoiare e digerire fino a renderle profondamente parte di noi. Crescendo e studiando ho capito che certamente la visione ha un potere emotivo, comportamentale ed economico enorme, spesso sottovalutato o sminuito, non solo sui singoli, ma anche sulla performance collettiva che ne scaturisce. Per quanto mi riguarda, ho ricordi vivissimi dell’estate 1991. Nonostante il caldo afoso sono certa di aver dormito con la coperta fino alle sopracciglia, abitudine che ho ancora oggi, e con le ascelle adese al corpo, stringendole fortissimo, per paura di essere morsicata. Avevo appena finito di leggere IT di Stephen King dopo aver guardato il film di Wallace con i miei genitori. Vorrei dirvi che crescendo le cose sono migliorate, in realtà ho solo capito che quella visione in me ha creato una scatola caricata a molla e che nei momenti di forte stress il coperchio si spalanca nella notte e fa uscire un pagliaccio con i denti lunghissimi che punta dritto alla mia ascella destra. Se è vero, però, che i prodotti audiovisivi non fanno morti, è anche vero che diventa fondamentale, nell’era dei social network, fermarsi sulla Vista come senso che distrugge e costruisce, entra ed esce, chiude e apre, generando piccoli spifferi o grandi correnti.

Nella storia dell’Occidente sono stati sterminati popoli interi a causa della Vista, sono stati emulati comportamenti omicidi, sono stati propagandati messaggi all’inconscio, senza consenso, e lavati più cervelli che medaglie apposte sulle divise. Secondo Michel Foucault è proprio attraverso gli occhi che riceviamo l’educazione più rigida su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, messaggio che viene veicolato dal modo in cui dividiamo i corpi in sani e malati, innocenti e colpevoli, conformi e non conformi. Il Blockbuster Bend e la mia prima pellicola sono parzialmente consapevoli di questo passaggio, perché la superficie economica è molto più spessa di quanto sia forte l’analisi socioculturale sottostante. Quando le storie raggiungono i nostri occhi si portano dietro comportamenti che noi potremmo adottare, modi di dire e di pensare, ma anche un’industria che vive esattamente di questa miscela tra noi e quello che vediamo. Il processo educativo e performativo della visione ha sempre un cuore economico, se non altro perché così è strutturata la parte di mondo in cui viviamo. Può essere un guadagno monetario immediato o a lungo termine, oppure la creazione di abitudini e consuetudini che, nel tempo, diventano terreno fertile per altre pratiche di guadagno che ancora devono essere inventate e che, a loro volta, saranno sfruttate nel qui-e-ora oppure si trasformeranno in un nuovo trampolino di lancio. La cosa vera è che quelle storie ci arrivano veicolate dai corpi rappresentati, e che questi involucri non sono semplici insiemi di cellule epiteliali e vasi sanguigni, ma una maschera semantica che attraversa la nostra pelle e instilla inevitabilmente qualcosa che può essere innescato o sfruttato da altre persone per ottenere qualche vantaggio. Non ho tardato molto a capire, per esempio, che il mio corpo sugli schermi non ha valore se non quando deve essere l’involucro del cattivo della storia, manifestare povertà estrema e isolamento, fare da stampella muta al protagonista o alla protagonista della storia. Il mio corpo è il mostro delle storie che preferisco, qualcosa di oscuro e maligno che deve essere sconfitto e risolto, annientato e silenziato. Mentre attacco il cavo HDMI al lettore Blu-Ray e faccio partire Buio Omega per la millesima volta penso a Phineas Tylor Barnum e alla sua gallina dalle uova d’oro, quello che lui decantava come The Greatest Show on Earth e probabilmente aveva anche ragione: il Freak Show

Nella seconda metà dell’Ottocento, a ridosso della seconda Rivoluzione Industriale, il Corpo riveste un ruolo sociale consolidato: dimmi cosa indossi e ti dirò chi sei. A seconda della forma del corpo, dei vestiti, del peso, dell’altezza, della mobilità, del colore della pelle, del sesso esibito, le persone potevano essere associate a precise categorie sociali. In realtà, il corpo ha sempre svolto questo ruolo perché primo baluardo a servizio, appunto, del senso della Vista. Ma nel corso dell’Ottocento l’acuirsi di trattazione politica e le filosofie sul lavoro e sul salario e i moti del 1848 e la crisi incontrovertibile dell’aristocrazia mettono la borghesia nella posizione favorevole per ereditare il potere della nobiltà – e con essi anche tutti i vincoli per mantenere quel potere – restando a contatto col popolo e non chiusa dentro la corte di un palazzo. Questo passaggio del potere dalle mani di un cerchio significativamente chiuso a una classe sociale larga e diffusa, a contatto diretto con le categorie più povere, impose la Vista come strumento atto a identificare, catalogare, sorvegliare e punire chiunque fosse considerato esterno al sistema stabilito di norme. In questo contesto storico trova terreno fertilissimo la monetizzazione della non conformità, un’operazione poderosa di marketing sociale in cui la legge della domanda e dell’offerta non è solo economica, come dicevamo prima. I Freak Show rappresentano la coperta di Linus di una classe sociale che paga per vedere la diversità trattata come un fenomeno da circo, l’esposizione circense di corpi considerati devianti che vengono ridotti a oggetto di divertimento per chi mantiene invece l’ordine stabilito dai poteri. Nelle fiere e nei luna park, persone con caratteristiche fisiche fuori dalla norma vengono esposte e usate per spettacolarizzare il mostruoso e renderlo remunerativo, certo, ma anche pedagogico nei confronti del pubblico: chi oserebbe mai non seguire rigorosamente i diktat sul corpo sapendo che una briciola di deviazione potrebbe portare loro a divenire bestie da esibire e umiliare pubblicamente? 

La parte, però, più interessante di questo fenomeno fu effettivamente il modo in cui andò a evolversi una volta sgonfiata la curiosità per la novità. Nel 1872 Barnum decise di lasciare New York, in cui inizialmente sostava il suo spettacolo, e di renderlo itinerante. In quel momento, buona parte dei materiali in vitro e collezionati a sostegno dello spettacolo furono donati alla Smithsonian Institution di Washington e alla Tuff University, contribuendo alla revisione della teratologia, lo studio della mostruosità: da disciplina di supporto per studi biologici e medici a brand strategy per l’attività museale e non solo. I Musei di Anatomia Comparata rivedono le loro collezioni e iniziano ad avere focus specifici sui corpi che maggiormente possono attirare l’attenzione del pubblico pagante. Ci sono teche piene di alcol con dentro feti fatti a pezzi, raccolte embriologiche complete dall’uovo fecondato al formato del nono mese di gravidanza, tanti preparati anatomici degli organi vitali, sezioni longitudinali e trasversali di corpi umani adulti. E poi ci sono i corpi interi, i mostri. Il rapporto tra le didascalie e le immagini è un esercizio di sapere e di potere del sapere perché, se alla vista abbiamo un mostro, le parole sono mutuate dalla medicina e acquisiscono criterio di veridicità. Guardiamo i mostri, ma siamo alleggeriti da eventuali turbamenti perché ci stiamo facendo una cultura. E funziona. Funziona fino alla nascita dei social network, che su questo principio del corpo da guardare e da incamerare come oggetto del nostro piacere senza alcuna coscienza sociale hanno costruito un impero e un inferno. 

Nelle scorse settimane molte persone hanno parlato del “trend delle ragazze col sondino” un naming affascinante e deleterio a sua volta per intendere ore e ore di dirette di ragazze vittime di anoressia nervosa e dei comportamenti degli utenti, dei genitori e del personale medico a riguardo. In alcuni casi si è arrivati a parlare di narcisismo delle ragazze che, ottenendo attenzione, ne vogliono sempre di più, ma anche di colpevolizzazione dei genitori che assecondano e promuovono questi spazi in cui le ragazze mangiano, per esempio, in diretta e gli utenti sotto applaudono o scherniscono. Eccolo, il Freak Show. Ci sono due aspetti non trascurabili quando si cerca di fare analisi sociali di questo tipo: 1) studiare e storicizzare il qui-e-ora sociale perché non ci interessa il gossip, ma la dinamica generale e imperitura del mondo in cui viviamo che non è spuntato in una notte ma in secoli 2) non trasformarci a nostra volta in Barnum, sfruttando i corpi altrui per portare avanti il nostro show personale. La dinamica che sottende ai trend di Tik Tok ha un’origine ben precisa nella Vista e nel potere che attribuiamo a questo senso, sia come mittenti che come destinatari. Così, il corpo che si mostra vuole essere visto non per narcisismo, ma per ingannevole necessità prodotta dal disturbo di cui è vittima. Ci sarebbe un enorme discorso sul reale consenso in questo senso, ma criticare l’agency delle persone demandandola completamente ai genitori o alle persone vicine non funziona perché, se da un lato abbiamo un disturbo grave del comportamento alimentare capace di uccidere le persone, dall’altro abbiamo persone non preparate a gestirlo e in totale improvvisazione. Mancano le strutture sanitarie adeguate, gli interventi domiciliari, i processi educativi per tutte le generazioni, non solo per le persone più giovani, perché di fronte a questi corpi tutti quanti – ripercorrendo le stesse dinamiche cognitive del pubblico del Freak Show – proviamo stupore e superiorità. Questo è quello che accade quando la Vista svolge il ruolo di selezionatore del nostro interesse perché in realtà non compie solo questa procedura, ma stabilisce un dentro e un fuori dal nostro perimetro. E visto che selezioniamo quel perimetro sulla base del nostro gusto personale, pensiamo non solo di avere una voce in capitolo, ma anche il potere di sottomettere quello che vediamo al nostro volere. Così il passaggio da corpo in esposizione a corpo che fa cose per soddisfare il pubblico è innescato dallo stesso filo che sorveglia e punisce, sottomette e plasma, educa e forma i corpi dall’inizio della loro rappresentazione. 

Il movimento che effettua il pubblico non è nulla di diverso dal gesto intimo e nostalgico riportato alla mente da quel Blockbuster Bend: sfogliamo una copertina dopo l’altra, ne selezioniamo una che potrebbe soddisfare il nostro sguardo e il nostro gusto, la appoggiamo sul bancone e aspettiamo di ricevere in cambio qualcosa da fagocitare in una manciata di giorni. Poi torniamo, riportiamo quanto ci avevano dato perché ha già finito il suo tempo e passiamo alla prossima. Alla prossima pellicola, al prossimo mostro, al prossimo trend.

ARTICOLO n. 17 / 2023

ANNA ACHMATOVA ERA BRAVISSIMA, A NON SAPERE LE COSE

Pubblichiamo un estratto dal volume di Paolo Nori, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, dedicato ad Anna Achmatova, in questi giorni in libreria per Mondadori (che ringraziamo per la disponibilità).

12.1 Dire il rosario 

Nel 1914 esce la seconda raccolta di poesie, di Anna Achmatova, che si intitola Rosario

Dice Amanda Haight che Rosario ha ancor più successo di Sera, e che fa diventare Anna Achmatova uno dei più grandi poeti russi. C’è un gioco che diventa popolare in Russia: dire il rosario; uno comincia una poesia dell’Achmatova, l’altro la finisce.

Ol’ga Černen’kova scrive che il marito, Nikolaj Gumilëv, cominciano a chiamarlo Nikolaj Achmatov, e loro, come coppia, gli Achmatovy. 

12.2 L’Italia 

Una delle poesie di Rosario si intitola Venezia. Dice: 

Dorata colombaia sullacqua Tenera e verde languido;
Un venticello salato spazza
Le scie sottili delle barche nere. 

Quanti teneri, strani volti tra la folla.
In ogni bottega giochi luccicanti:
Un leone col libro su un cuscino ricamato; Un leone col libro su una colonna di marmo. 

Come su unantica tela scolorita
Si indurisce il cielo grigiazzurro…
Ma non si sta stretti in queste strettezze, Non c’è caldo in questa afosa umidità. 

Viene in mente il libro di Pavel Muratov, Immagini dell’Italia, la parte in cui Muratov scrive che, a Firenze, le pietre sembrano più leggere che in qualsiasi altre città del mondo, che quando l’ho letto ho pensato “Ma coglione, te abiti a trentacinque minuti di treno da Firenze, cosa aspetti ad andarci”. È stupefacente la passione che hanno i russi per l’Italia.

Anna Achmatova studia l’italiano per leggere Dante in originale. Nella poesia La musa, del 1924, chiede, alla musa, «Sei tu che hai dettato a Dante le pagine dell’Inferno?», e la sua musa risponde «Sì». E quando, anni dopo, degli studenti stranieri le chiedono se legge Dante in originale, Anna Achmatova risponde «Non faccio altro». 

Anche Mandel’štam, come sappiamo, studia italiano per leggere Dante e gli piace moltissimo il modo in cui noi usiamo la lingua quando parliamo, la lingua fisica, la nostra lingua, il modo in cui la spingiamo contro i denti davanti, e dice che l’italiano è «la più dadaista delle lingue romanze», e si chiede quanti sandali ha consumato Dante per scrivere la Divina Commedia che a me, io non sono un poeta, ma questa mi sembra proprio una domanda tra poeti, uno russo e uno italiano. 

E Dostoevskij, quando, quindicenne, arriva a Pietroburgo, scrive al padre, che è rimasto a Mosca, che il clima, a Pietroburgo, è “meraviglioso, italiano”; non è mai stato in Italia, ma, per lui, quindicenne russo negli anni Trenta dell’Ottocento, italiano è sinonimo di meraviglioso. 

Il protagonista di uno dei grandi romanzi dell’Ottocento, Bazarov, dice che dei russi gli piace in particolare «la pessima opinione che hanno di sé stessi» (il romanzo è Padri e figli, di Turgenev), che è una cosa che noi italiani, secondo me, capiamo benissimo, ma se la loro relazione con sé stessi è così critica, è stupefacente, per un italiano, accorgersi dell’ottima opinione che hanno di noi, del fatto che, a loro, sembriamo «meravigliosi».

12.3 Il visto 

Quando chiedi il visto per la Russia devi mandare all’ambasciata, con il passaporto, una foto dove non sorridi; devi guardare serio in macchina e dev’essere una foto che hai fatto negli ultimi sei mesi. E io ho fatto così, ho fatto una foto seria, e l’ho mandata. Io nelle foto, tra l’altro, non sorrido quasi mai. 

Dopo qualche giorno mi hanno scritto che la foto non andava bene perché sembrava uguale a quella del passaporto, che risaliva al 2019. Era una foto di quattro anni prima quando pesavo quindici chili in più. Avevo una camicia blu col colletto, mentre in quella nuova avevo una camicia blu senza colletto. Comunque, mi hanno fatto sapere dall’ambasciata, non era solo quello, era da correggere anche il visto che mi aveva fatto il Museo Achmatova. Non avevano scritto di che sesso ero. Bisognava aggiungere il sesso. 

Ho scritto al Museo Achmatova, gli ho chiesto di aggiungere, nel loro invito: «Sesso: maschile». 

E ho rifatto le foto con una camicia azzurra. Non mi metto mai le camicie azzurre, per fare le foto per l’ambasciata russa mi sono messo una camicia azzurra. 

12.4 Situazioni difficili 

Secondo Ol’ga Černen’kova, nell’aprile del 1914 Anna Achmatova si viene a trovare in una situazione difficile, delicata. 

Ha avuto una relazione con il giovane compositore futurista Artur Lur’e, e è rimasta incinta. 

E decide di non avere il bambino. 

Quando, l’11 aprile del 1914, Achmatova scrive: «Il destino della madre è un tormento radioso, / Non ne sono stata degna», secondo Černen’kova non si riferisce al rapporto con Lev, ma a questa gravidanza. 

Sembra che dopo questo aborto, Anna non possa più avere bambini. 

Racconta la cosa a Gumilëv, che intanto ha una relazione con Tat’jana Adamovič, la quale non è contenta del ruolo di amante. 

Dopo che Anna gli ha confessato la sua relazione con Lur ’e, lui le confessa la propria con Tat’jana Adamovič. 

Adamovič insegnava musica e danza e aveva raccontato a Gumilëv che delle signore della buona società erano andate nella scuola dove insegnava per scegliere le insegnanti di ballo per le loro figlie, e quando la direttrice aveva loro proposto Tat’jana, una aveva detto «Ma cosa dice, quella è l’amante di Gumilëv!». 

Tat’jana chiede all’amante di diventar suo marito, ma quando Gumilëv racconta questa cosa alla moglie, ad Anna, lei gli risponde «Ma figurati. Figurati se delle signore dell’alta società sanno che tu e Tat’jana siete amanti». E aggiunge: «E poi, anche se lo sapessero? Pretenderebbero un’insegnante di danza illibata, per le loro figliole? Lo chiederebbero come requisito?». 

Gumilëv si convince, e sembra che tutto sia risolto, ma, dice Černen’kova, Anna purtroppo trova le lettere di Gumilëv all’amante. 

Le legge tutta la notte e ha una spiegazione col marito, nel corso della quale Gumilëv le chiede il divorzio. 

Lei accetta a condizione che il figlio Lev resti con lei. 

Quando lo sa la suocera, non accetta l’idea di separarsi dal nipote e di lasciarlo alla nuora, che non è molto portata per la vita pratica. 

Sembra che, per accontentare la suocera e la mamma, Anna e Nikolaj acconsentano a non divorziare. 

E sembra che Nikolaj lasci Tat’jana. Povera Tat’jana.

12.5 La grappa 

Un mio amico russo, quando gli ho detto che tra qualche settimana vado a trovarlo a Pietroburgo, mi ha detto «Non presentarti senza grappa». 

Io ho degli amici così, che gli piace la grappa. 

12.6 Complicato

Nel luglio del 1914 Anna scrive una poesia che si intitola Eredità. Fa così: 

Sii la mia legittima erede
Vivi in casa mia, canta le canzoni che ho composto io. Piano piano le mie forze vanno via,
Il mio petto sofferente vuole aria. 

Lamore dei miei amici, lostilità dei miei nemici,
E le rose gialle del mio piccolo giardino,
E la tenerezza di un amante appassionato, tutto questo Lascio a te, presagio dellalba. 

E la gloria, quello per cui son nata, 

Perché la mia stella, come un dolce turbine si è alzata in volo 

E adesso cade. Guarda, la sua caduta
Annuncia il tuo potere, il tuo amore, il tuo estro. 

La mia eredità è ricca,
Tu vivrai a lungo e bene,
Sarà così. Vedi, son tranquilla, Sarai felice, ma ricordati di me. 

Secondo Černen’kova, questa poesia è per Tat’jana, quell’insegnante di ballo che voleva che Gumilëv divorziasse per sposarlo lei.

C’è un modo di dire russo: «Drugoe pokolenie, drugie dela», che significa, più o meno, «Cambiano le generazioni, cambiano i comportamenti», e capisco bene che la nostra morale di coppia, rispetto a quella di due poeti russi dell’inizio del secolo scorso, siano diverse, ma mi sembra che, per essere la relazione tra due che si erano concessi la piena libertà, la relazione tra Achmatova e Gumilëv fosse molto complicata. 

Come tutte le relazioni di Anna Achmatova coi mariti e con gli amanti. 

12.7 Cosa insegnava Mandel’štam ai bambini 

Nel 1916, quando Lev Gumilëv ha quattro anni, Osip Mandel’štam gli insegna, in segreto, a dire: «Mio babbo è un poeta, mia mamma invece è isterica». 

Quando il bambino dice, tutto serio, questa battuta davanti ai genitori, il babbo si offende, la mamma è entusiasta. Bacia il bambino e gli dice «Bravissimo, Levuška, hai ragione. Tua mamma è isterica». E poi gli chiede, continuamente: «Di’ un po’, Levuška, cos’è tua mamma?». 

«Mia mamma è isterica» risponde lui, e lei gli dà una caramella. 

12.8 Cosa facciamo noi in Occidente 

Sul primo canale russo, in un programma dove di solito si parla della operazione speciale in Ucraina, hanno parlato del processo tra Johnny Depp e Amber Heard, che, come credo la maggior parte dei lettori sappia, sono due attori che erano sposati e poi hanno litigato e sono andati per tribunali. 

Hanno detto, sul primo canale russo, che sono stati condannati tutti e due per reciproca diffamazione, lui deve pagare due milioni di dollari, lei deve pagare quindici milioni di dollari. 

«Questa è la dimostrazione» ha detto il presentatore russo «che in Occidente mentono tutti. Raccontano delle gran balle, in Occidente» ha detto il presentatore russo tutto contento. 

12.9 Il momento più bello della sua vita 

Scrive Černen’kova che Nikolaj Gumilëv voleva andare in guerra prima ancora che ci fosse, la guerra. 

La Germania dichiara guerra alla Russia il 19 luglio del 1914 alle 22. 

Il 5 agosto Gumilëv è già in divisa. 

Il primo novembre scrive al suo amico Lozinskij: «In generale, posso dire che questo è il momento più bello della mia vita. Mi ricorda un po’ le mie sortite abissine, ma è meno lirico e molto più emozionante». 

Manda delle lettere a Anna, che contengono dei versi (le lettere tra di loro hanno quasi sempre in calce dei versi, e loro si chiedono, per tutta la vita «Ti sono piaciute, le mie poesie?»); dal fronte Gumilëv scrive: «Io porto in me un’idea grandiosa. / Non posso, non posso morire» e «Il cuore dorato della Russia / Batte cadenzato nel mio petto». 

Gli piace tutto, della guerra, anche i nemici, che considera «dei soldati coraggiosi e dei nemici onesti, e senti, per loro, un’involontaria simpatia, perché è, in qualche modo, con loro, che costruisci quella grande cosa che è la guerra».

Anche per il figlio, Lev, la partecipazione alla seconda guerra mondiale, per motivi forse diversi (vale, per lui, la libertà) sarà un momento bellissimo. 

Nel dicembre del 1914, Nikolaj Gumilëv viene decorato con la croce di San Giorgio di IV livello. 

A chi legge potrebbe forse sembrare che i russi siano bellicosi, un popolo a cui fare la guerra piace tantissimo. 

Può darsi, ma non sono tutti così. 

Velimir Chlebnikov, che, allo scoppio della prima guerra mondiale, era stato arruolato, scrive a Nikolaj Kul’bin, medico militare, pittore impressionista e già suo editore, che come militare pensa di essere uno zero, utile soltanto in un battaglione ausiliario di campagna, per andare a pescare dei pesci. 

«Io» scrive Chlebnikov «sono un derviscio, uno ioghi, un marziano, quel che si vuole, ma non sono un soldato di un reggimento di fanteria di riserva.» 

12.10 Particolarmente 

«Il cuore dorato della Russia / Batte cadenzato nel mio petto» ha scritto Gumilëv dal fronte. 

Quando torna in licenza, Pietroburgo non si chiama più Pietroburgo, ma Pietrogrado. 

Burg è un suffisso germanico, la Russia è in guerra con la Germania, i russi lo cambiano con il suffisso grad (città, in russo, si dice gorod): Petrograd. 

Io, quando andrò a Pietroburgo, se mai riuscirò a andarci, volerò con la Turkish Airlines, faremo scalo a Istanbul. 

I voli diretti sono stati soppressi. 

Quando gli aerei Aeroflot collegavano ancora l’Italia e Pietroburgo, una volta arrivati lo speaker diceva «Benvenuti a Pietroburgo, Leningrado, città eroica». 

Pietrogrado è stata Pietrogrado per dieci anni; dopo la morte di Lenin, nel 1924, è diventata Leningrado. 

E nella seconda guerra mondiale, Leningrado è stata, per novecento giorni, assediata dai nazisti. 

C’era, all’epoca, e c’è ancora, un circuito di altoparlanti che si sentono, nel centro della città, e trasmettono musica e, nel caso, informazioni. 

Durante l’assedio di Leningrado, da questi altoparlanti si sentiva, regolarmente, un metronomo. Era il segnale che la città non era ancora caduta. 

Il cuore dorato della città batteva nel petto di Leningrado. 

La prima volta che mi hanno raccontato questa storia è stato al Museo Achmatova, sulla Fontanka. 

Perché in quei giorni del 1941, Anna Achmatova, sfollata, diceva per radio: «Tutta la mia vita è stata unita a Leningrado; a Leningrado sono diventata un poeta, Leningrado ha ispirato e dato il tono alla mia poesia. Come tutti voi, in questo momento, vivo nella fede incrollabile che Leningrado non cadrà mai in mano ai nazisti». 

Il Museo Achmatova, sulla Fontanka.
Chissà se riuscirò mai a rivederlo.
Che uno pensa “Perché non dovresti riuscire?”. Non so. C’è sempre un momento, quando devo andare in Russia, che mi accorgo che forse parto davvero e mi sembra incredibile. 

Quest’anno mi sembra particolarmente incredibile. Incredibilissimo, direi, se si potesse dire.
E anche se non si potesse: incredibilissimo.
Comunque, intanto che io aspetto il mio visto, ho letto che nel 1916 Gumilëv ha una relazione con una donna bellissima, Larisa Rejzner, discendente del condottiero russo che aveva battuto Napoleone, Kutuzov, futura rivoluzionaria e, sembra, modello di Pasternak per la figura di Lara, la coprotagonista del Dottor Živago. 

Lei è follemente innamorata di Gumilëv, e, ci informa Černen’kova, confessa di avergli concesso «tutto».

Gumilëv, racconterà poi la Rejzner, le propone di sposarla, ma lei dice che ama e rispetta Anna Achmatova e che non vorrebbe mai procurarle un dispiacere. 

Gumilëv, dice la Rejzner, le risponde che, purtroppo, lui, ormai, non è più in grado di procurare dispiaceri a Anna Achmatova. 

Dopo che Gumilëv è tornato al fronte, la Rejzner, in un cabaret di Pietroburgo, Il riposo del commediante, incontra l’Achmatova, a uno spettacolo di marionette. Alla fine dello spettacolo, l’Achmatova la saluta e lei si commuove. E, con le lacrime agli occhi, confusa, comincia a dire che non si aspettava affatto di essere riconosciuta e salutata da lei in modo così gentile dopo che lei era stata con Gumilëv e che lui le aveva proposto di sposarla. Dice la Černen’kova che la Rejzner era stupita dalla generosità dell’Achmatova, solo che, l’Achmatova, dice la Černen’kova, della relazione tra la Rejzner e Gumilëv non sapeva niente. 

L’aveva capito in quel momento, dice la Černen’kova, che di fronte a lei c’era «un’altra vittima del temperamento arabo di Gumilëv, una vittima che credeva di essere la sua fidanzata». Se avesse saputo quante fidanzate aveva. 

12.11 Era bravissima 

Quando, nel 1946, escludono Anna Achmatova dall’Unione degli scrittori chi la incontra è stupefatto dalla sua indifferenza. Un’indifferenza regale, pensano. 

E probabilmente è vero, Anna Achmatova ha quest’aria da regina, indifferente alle cose del mondo, anche a quelle che la riguardano personalmente. 

Solo che lì, quella volta, lei era così indifferente perché nessuno gliel’aveva detto, che era stata esclusa dall’Unione degli scrittori. Non lo sapeva.
Come con la Rejzner.
Era bravissima, a non sapere le cose.

ARTICOLO n. 16 / 2023

«NON C’È SOLO IL ROMANZIERE»

Gli 80 anni di Franco Cordelli

Affacciata sull’informe piazzale di Ponte Milvio, l’Antica Trattoria Pallotta sta lì addirittura da prima che Stendhal pubblicasse (1829) le Passeggiate romane. Ci si sono sempre mangiate le solite cose romane, matriciane e carbonare, saltimbocca, puntarelle. Tutto buono, «come a casa». Singolare paradosso anche questo romano: ciò che viene chiesto a un ristorante, è il farti mangiare come a casa. E allora, perché mangiare fuori? Ma da Pallotta non si andava a fare i buongustai. Ho imparato più cose lì sulla letteratura che in tutti gli anni dell’istruzione, comprensivi di un dottorato di ricerca portato avanti con molta approssimazione, quando ormai avevo capito che non era una vita per me, che non sarei mai diventato quello che si dice uno studioso.Chiunque abbia frequentato Franco Cordelli, ad ogni modo, conosce a memoria il menù di Pallotta: dar supplì ar tartufo nero. Regolarmente Franco optava per i rigatoni, e altrettanto regolarmente qualcuno usciva dalla cucina ad avvertire che ci sarebbe voluto qualche minuto in più. E chi se ne fregava, di certo non avevamo fretta. Sotto la pergola nei mesi buoni, e dentro d’inverno, Franco governava con piglio di vero monarca quelle cene di cui non sarebbero bastati dieci fratelli Goncourt per redigere i verbali. Si faceva così tardi che ci imploravano di andarcene, e allora continuavamo a parlare andando su e giù per il venerabile e tetro ponte, con il Tevere – quel corso d’acqua psicotico e rancoroso – che spumeggiava tra i piloni. Chi c’era? La formazione delle cene da Pallotta è talmente variata nel tempo che, come per le squadre di calcio, non ha senso citarle se non specificando l’epoca, la stagione. A fare la parte dell’Alex Ferguson sulla panchina del Manchester c’è stato solo Franco. Aveva anche un vice, Luca Archibugi, ma tutti gli altri rischiavano di finire fuori rosa anche quando giocavano bene, o credevano di. Io posso parlare dell’ultimo lustro del Novecento, periodo in cui Cordelli pubblicò due libri per me decisivi, entrambi per Einaudi: La democrazia magica (1997) e Un inchino a terra (1999), che forse è il suo romanzo più bello (la palma però è contesa da Guerre lontane). Tra le presenze più fisse da Pallotta, in quel periodo oltre a Luca Archibugi ricordo Arnaldo Colasanti, Eraldo Affinati, Aurelio Picca. Poi c’erano degli ospiti speciali: milanesi di passaggio, gente che lavorava nell’editoria, giornalisti curiosi di libri. Non era affatto una comunità esclusivamente maschile, e poteva capitare che serpeggiassero sulla tavola correnti di seduzione e gelosie. Ricordo che una notte d’inverno una grande poetessa, Antonella Anedda, bella come un ritratto del Fayum, ci parlò a lungo delle lettere di Marina Cvetaeva che Serena Vitale andava pubblicando per Adelphi. 

Non era un salotto letterario, non era un’accademia, non era la redazione di una rivista. Anzi, fu proprio il fatto che a Franco non piacesse affatto come gestivamo «Nuovi Argomenti» un incidente molto problematico nella nostra amicizia. Era stato Franco stesso a convincere Enzo Siciliano ad affidare la testata, ancora letta e prestigiosa, a un gruppo di persone molto più giovani di quelle che se ne erano occupate fin dai tempi di Moravia e Pasolini. A distanza di tanto tempo da quella grande querelle posso dire che Franco aveva ragione su un punto: avevamo cominciato a pubblicare troppe cose per puro gusto dell’esperimento, imbarcando troppe persone, come sarebbe di lì a poco accaduto nei primi blog. Personalmente, io non sapevo dire di no a nessuno, più simile per carattere a Siciliano che a Franco, che detestava la mollezza e non la scambiava per bontà d’animo. Questo è solo un esempio delle cose su cui finivamo per accapigliarci. Perché la caratteristica principale delle cene da Pallotta non era la chiacchiera, ma la disputa. Delle cose su cui eravamo tutti d’accordo (che ne so: che Cinque stagioni di Yehoshua fosse un capolavoro) era meno interessante parlare che di quelle che oggi si definirebbero divisive. Un esempio epico di divisività pallottiana furono i romanzi senili di Anna Maria Ortese, Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari, pubblicati tra il 1993 e il 1996. Tentare di convincere Franco della bellezza, della necessità poetica, dell’efficacia emotiva di quel manierismo terminale si rivelò un’impresa più impossibile che scalare il ghiacciaio del Nanga Parbat con le ciabatte da spiaggia. Non si trattava del solito gioco fra generazioni, con i figli che per fare dispetto ai padri esaltavano l’opera delle nonne. Su un singolo libro, su un singolo scrittore si può pensare tutto e il contrario di tutto. In ogni giudizio storico o estetico c’è un margine oscuro di soggettività che si ingrandisce via via che ci avviciniamo al presente. A volte il tempo si rivela un ottimo giudice salomonico, ma ancora oggi, riguardo alla prosa della Ortese, non saprei dire se avessi ragione io a estasiarmene o Franco a trovarla ripugnante. Ma che belle, quelle interminabili battaglie verbali, in cui si ricorreva a tutte le astuzie, a tutte le perfidie. Ma ancora più importante mi sembra il fatto che, senza saperlo, ci credevamo ancora in viaggio su un treno, il venerabile treno del Novecento, che invece era arrivato all’ultima stazione, e non avrebbe mai ripreso servizio. Certo, ingannarci era facile, perché intorno a noi, in quegli ambigui anni Novanta, le cose sembravano procedere come al solito: registi come Luca Ronconi o Peter Brook mettevano in scena spettacoli memorabili; Philip Roth pubblicava uno dietro l’altro i suoi romanzi migliori; nel 1994 il Comandante Marcos iniziava a guidare l’ultima rivoluzione proletaria classicamente intesa; un regista come Tarantino sembrava capace di scardinare e ricombinare, con tutta l’arroganza della gioventù, l’apparato retorico e stilistico del cinema; chiusi nei loro cassetti dagli anni Settanta, esplodevano due ordigni letterari come Petrolio di Pasolini e L’odore del sangue di Parise… insomma, era facile ingannarsi, ragionare come se nulla fosse accaduto, e continuare a spaccare in quattro ogni tipo di capelli, in attesa che i lenti rigatoni di Franco finissero di cuocere a puntino.     

Ma cos’era successo esattamente? Volendo usare impropriamente come allegoria un bellissimo racconto di Lernet-Holenia, potremmo sostenere che per qualche anno, come il barone Bagge, il Novecento aveva continuato la sua guerra senza accorgersi di essere morto. E per quello che mi riguarda, non c’è un libro italiano di critica che più della Democrazia magica di Cordelli abbia fotografato e interpretato questo immane dramma che ha colpito tutti coloro che, cresciuti in un’epoca, si sono trovati a diventare maturi e invecchiare in un «tutt’altro» (non saprei nemmeno come definirlo) nel quale l’unico posto che era rimasto disponibile era quello dello spettatore – più o meno privilegiato a seconda del caso, del talento, del suo ruolo all’interno del grande circo dell’industria culturale. Cercherò di definire questa nuova condizione in termini psicologici ed esistenziali ancora prima che estetici e intellettuali. Lo faccio dal punto di vista di una persona che (come Cordelli, del resto) ha sempre goduto di attenzioni, privilegi, editori adeguati, premi, eccetera eccetera. Alle soglie dei sessant’anni, quello che ho fatto ho fatto e non posso lamentarmi: ho avuto anche troppo. Ma ogni volta che riprendo in mano La democrazia magica, sono in grado di sentire perfettamente l’eco di qualcosa che non ho più avuto, e che era così connaturato alla modernità che sembrava del tutto naturale: il confronto delle idee, e la certezza che la letteratura non fosse una serie di libri, ma un’opera collettiva e multiforme, che impregnava ogni aspetto della vita, ogni ora della veglia e del sonno. Non eravamo diversi, per molti aspetti essenziali, dai surrealisti, o se è per questo dai veristi, con i loro cenacoli, le loro guerre intestine, i loro ritrovi. Ma a partire da un certo punto tutti noi, pur essendo rimasti animali perfettamente sociali (gente urbana, che esce ogni sera) abbiamo iniziato a procedere in solitudine, ognuno solo di fronte al suo pubblico. Abbiamo incarnato la terribile diagnosi così formulata dal grande critico americano Lionel Trilling: «la nostra cultura è probabilmente unica nell’isolare strettamente l’individuo entro le paure prodotte dalla società». Specificherei meglio: la nostra cultura, quando il suo aspetto di mercato prevale su ogni altro, genera solipsismo. Genera, per meglio dire, l’idea che la letteratura sia una carriera, una serie di prodotti: e non c’è nulla di male, se non che né l’una né gli altri hanno bisogno di una vita vera da vivere. Basta quel surrogato di vita che si definisce life style, così come si materializza su Instagram: ecco la scrittrice con le amiche del cuore al tavolino di un bar, o ci tiene informati sulle gioie e le fatiche del diventare mamma; ecco lo scrittore che passeggia in montagna o gioca con il gatto, o visita un antico borgo. Nel mercato, o se preferite nel circo, non si lavora male, ogni anno escono quelli che possiamo definire dei bei libri, ce ne saranno anche in questo 2023, ma il presupposto di questi libri non è più l’esistenza, la mortalità, ma il consenso: e saranno pure belli, ma avrebbe potuto scriverli qualcun altro, chiunque altro con un minimo di competenza artigianale.

Ebbene, nelle centoventi pagine della Democrazia magica c’è tutto. Tra i cinquanta e i sessant’anni, Cordelli si è reso conto di questa disgregazione quando ancora non era così visibile, si confondeva tra residue forze contrarie in via di estinzione. Il sottotitolo è illuminante, perché assegna a tre figure emblematiche e allegoriche (come i vizi e le virtù nell’arte medievale) il ruolo di rappresentare le forze in campo: Il narratore, il romanziere, lo scrittore. Mi soffermo un po’ sul primo membro di questa triade, il narratore, perché in molte pagine del suo libro, ora implicitamente ora esplicitamente, Cordelli dialoga con il celebre saggio di Walter Benjamin su Leskov, scritto nel 1936 e dedicato, appunto alla figura dell’Erzähler, «narratore» nella traduzione di Renato Solmi.  Questa del narratore è una figura in tutti i sensi archetipica, impregnata di tempo, di oralità, di saggezza («l’arte di narrare volge al tramonto perché vien meno il lato epico della verità, la saggezza»). Implica un legame psicologico tra chi racconta una storia, chi la ascolta e la storia stessa quasi inconcepibile per la modernità e i suoi commerci, la sua frammentazione e specializzazione dell’esperienza. Lo stesso Leskov, più che l’ultimo esemplare di una razza estinta, è il frutto di una proiezione di Benjamin, una specie di maschera individuale di un’energia anonima e plurale. È un simbolo, in ultima analisi, né più né meno del Mishima di Marguerite Yourcenar o del Lovecraft di Houellebecq. Il vero Nikolaj Semënovič Leskov, l’autore di capolavori come Il viaggiatore incantato e Una famiglia decaduta, ahimè, è molto più romanziere di quanto, ammaliati dal fascino della prosa gnostica di Benjamin, si desideri ammettere. È molto più Erzähler di Leskov, a voler seguire fino in fondo il ragionamento di Benjamin, quel servo cieco di cui parla Tolstoj nelle memorie sull’infanzia, che sua nonna si teneva in camera per farsi raccontare favole e leggende russe, potendosi nel frattempo spogliare senza imbarazzo. Resta il fatto che, se la critica non fa esempi, non indica questo o quel libro a sostegno delle sue idee, non è critica, non conta nulla. E dunque fa bene Benjamin, invece di menare il can per l’aia come fanno molti filosofi, a inventarsi il suo Leskov: mezzo vero e mezzo ermeneutico. Il tipo di sapere di cui stiamo parlando non ha nulla a che vedere con l’estetica, e meno ancora con la teoria letteraria ancora in auge, quando Cordelli scrive i saggi della Democrazia magica, nelle due varianti principali: la noiosissima “scienza semiologica” e la sua sorella svalvolata, “decostruzione” (chi se la ricorda oggi? Eppure, imperversò). Noi facciamo un mestiere molto più umile, nato con la letteratura stessa: investiamo energie e ricaviamo valore da singoli libri. Ognuno ha i suoi criteri (tanto è vero che se non ami una cosa difficilmente qualcuno ti convincerà ad amarla), ma non ci distogliamo mai dal concreto, il concreto è la nostra religione. Un criterio molto attivo in Cordelli, direi il suo criterio più tipico, è quello della distinzione dell’autentico dal finto, ovvero dal recitato: esemplare è la stroncatura dell’Ussaro sul tetto di Jean Giono (capitolo 12). L’antipatia di Cordelli può stupire. Non si tratta del «più travolgente romanzo del Novecento», secondo il giudizio autorevole di Daria Galateria? Ma «travolgente» è il tipico aggettivo che la dice di più sul lettore travolto che su un’opera in sé. Se Cordelli punta i piedi, è perché ci sente, nell’Ussaro, puzza di falso: uno stendhalismo tutto di testa, esclusivamente scritto, che non lo convince.  

È fin troppo ovvio che, quando la pubblicità spodesta la critica, il romanziere prevale sia sull’ancestrale narratore che sullo scrittore. Il fastidio di Cordelli è anche quello di un testimone che ha passato due stagioni assillate da slogan contrari ma equivalenti nella loro rozzezza. Anni Sessanta/Settanta: morte al romanziere. Anni Ottanta: come un dittatore in esilio che torni al potere più forte che mai, conta solo il romanziere. Di qui la protesta di Cordelli, alla fine della prefazione: «Non c’è solo il romanziere; e senza infamia si può benissimo essere un non romanziere, o un’altra cosa ancora». Ce n’è di che riempire una vita, davvero. Non vorrei forzare la mano a Cordelli proprio su questo punto così delicato, ma è questa rivendicazione di indipendenza e libertà che mi fa comprendere cosa intenda per «scrittore»: la più enigmatica delle figure della triade. La copertina della Democrazia magica definisce lo scrittore con un’icona, eloquente ma arbitraria: è un bellissimo ritratto di Uwe Johnson, cappotto e guanti neri, che cammina per la Berlino del 1956. Non si vedono più macerie, ma la luce è ancora quella di una città rasa al suolo. Va bene per una copertina, ma definire cos’è uno scrittore non è facile. Si potrebbe dire che mentre il narratore di Benjamin è una figura mitica, e dunque proveniente da un passato recuperabile solo intuitivamente, per via di folgorazioni e proiezioni, lo scrittore appartiene al regno delle possibilità, e dunque del futuro. Voglio dire che solo un cretino potrebbe auspicare un ritorno alle condizioni pre-industriali mitizzate da Benjamin. Scrittore è quell’individuo che recupera per sé la possibilità di scrivere libri che solo lui avrebbe potuto scrivere. E dunque, come diceva il Pasolini di Petrolio – confidandosi con Moravia – è in grado di vivere la genesi della sua opera. Ma come Benjamin ha bisogno di Leskov (e come Baudelaire aveva bisogno di Poe) anche Cordelli ha bisogno di una proiezione efficace. Nella Democrazia magica in realtà ce ne sono molte, ma nessuna, mi sembra, ha l’intensità raggiunta nel capitolo 6 parlando di Malina di Ingeborg Bachmann. Per leggere questo libro così impervio, infatti, «occorre credere che un romanzo può non essere un romanzo ma, diciamo, niente altro che una narrazione». Ma non basta: occorre anche credere che «una narrazione può trasformarsi rapidamente in una fiaba, se non addirittura in una nenia, in una pura evocazione musicale». L’ombra del vecchio narratore non è così lontana, e infatti, «il lettore viene chiamato intorno a un fuoco». Nel 1997, quando avevo appena iniziato a percorrere la mia strada, avevo sottolineato queste parole con freghi di pennarello che tradiscono ancora oggi il mio entusiasmo, la mia adesione a un tale tipo di programma. Perché Cordelli non suscita un ennesimo immaginario filosofico, ma indica un libro, come un amico che te lo presta: un libro del 1971 non sarà certo un mito, ma in compenso puoi fartene un’idea, è stato scritto da una persona come te, non da un postulato astratto. Il vantaggio cognitivo, rispetto a Benjamin, è che nel pensiero di Cordelli non c’è nemmeno bisogno di inventare un finto Leskov, tirato fuori come il coniglio dal cilindro dell’illusionista. Malina esiste, lo si trova facilmente in libreria, basta provare. Proprio come, se davvero desideri vivere una vita che sia solo tua, basta provare a viverla, con quel poco o tanto di disperazione e di coraggio che il destino ha assegnato a ognuno di noi.

ARTICOLO n. 15 / 2023

RAGAZZO A CASO

Non guardo video di quel genere, ma volevo scrivere questo pezzo e allora non ho potuto esimermi. Ecco come è andata, almeno, dentro lo schermo. 
Prima del video su RepTv, però, uno spot pubblicitario esaltava i prodotti tipici liguri. 
La focaccia con il formaggio. Un po’ di dialetto – la fùgassa co formaggio – la musica rilassante in sottofondo, la constatazione, ancora dialettale, di quanto sia buona la focaccia ligure e l’invito finale – gusta anche tu la focaccia della Liguria con stracchino italiano – dell’azienda francese Carrefour: il marchio Terre d’Italia.
Poi, l’avvertimento.

Attenzione. Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità.

Forse le aziende che comprano gli spazi pubblicitari su RepTv o su CorriereTv li acquistano molto in anticipo, per ottenere un prezzo migliore. Acquistano spazi pubblicitari a pacchetti, ignare del contenuto trasmesso dopo il proprio prodotto. 

Un video che ritrae il tragico utilizzo di un’auto e la morte di due persone è un buon investimento commerciale per l’azienda Carrefour e il marchio Terre d’Italia? Oppure Manzoni Advertising, concessionaria di pubblicità esclusiva di Gedi Gruppo Editoriale Spa, in rapporto al video caratterizzato dalla morte di due persone, ritiene interessante proporre quello spazio a un certo tipo di azienda? 
Oppure, come spesso capita, è tutto casuale?
Per verificare quale azienda, oltre Carrefour, sponsorizza un filmato con due morti, ho visionato ancora il video, soltanto l’inizio, il giorno seguente: Mulino Bianco, Barilla. 

Forse la pubblicità, come la morte, ha stancato, la duplice morte ha stancato, e perfino la duplice morte causata da un’auto Tesla a guida assistita – benché sia un tipo di morte ancora poco diffusa, quasi inedita, la morte novità del mercato – ha stancato. 
Il video, dopo una settimana, non era tra i primi dieci più visualizzati.
L’incidente è avvenuto in Cina. Una Tesla Model Y – auto elettrica a guida assistita – di colore bianco ha accostato senza fermarsi del tutto, sul margine sterrato di una strada, la strada periferica di una cittadina nella provincia meridionale del Guangdong.
L’orologio, in alto a sinistra, segnava le 6:42.

A bordo della Tesla c’era soltanto il proprietario cinquantacinquenne. Un uomo in sella a uno scooter ha sorpassato l’auto. Allora la Tesla si è immessa di nuovo sulla strada. 

Un’altra telecamera ha mostrato la visione d’insieme: due palazzi, il dorsale di una montagna in lontananza. La Tesla è rimasta per un paio di secondi alle spalle dell’uomo in scooter, ha accelerato sfiorandolo in modo enfatico. L’uomo in scooter ha proseguito ignaro di quanto sia andato vicino all’essere investito e ucciso. 

La Tesla ha aumentato l’andatura, il tratto percorso è stato ripreso dalle telecamere posizionate ai bordi della strada e in prossimità degli incroci. A un incrocio, la Tesla ha sorpassato una monovolume bianca, poco dopo si è ritrovata davanti un’altra persona a bordo di uno scooter. Se la Tesla avesse schivato la persona in scooter sterzando come nel primo caso, è probabile che si sarebbe ribaltata, vista la velocità alla quale viaggiava. E invece ha investito la persona, colpendola alle spalle. Nell’inquadratura successiva, la Tesla è passata ancora a grande velocità, portando con sé un pezzo dello scooter o del proprio cerchione. Nell’inquadratura successiva, l’auto viaggiava a sinistra, pur essendo una strada a doppio senso di circolazione. Una persona, forse una donna, procedeva in bicicletta, poco al di là della banchina. È probabile che questa persona abbia visto sopraggiungere la Tesla fuori controllo e impaurita abbia tentato di scostarsi. Avrebbe potuto scostarsi di più, perché in quel punto c’erano almeno sei o sette metri di sterrato davanti alla saracinesca chiusa di un negozio. È probabile che la persona in bicicletta non abbia fatto in tempo, mai avrebbe immaginato che l’auto sopraggiungesse a una tale velocità. La Tesla ha preso di striscio la persona in bicicletta. Forse non l’ha presa di striscio. Forse l’ha solo sfiorata. Forse la persona, che ha tentato di rialzarsi, era traumatizzata. Forse la Tesla l’ha colpita quel tanto che basta per non ucciderla. Forse l’ha colpita quel tanto che basta per provocarle una lesione interna, un’emorragia lenta, ma letale. 

Le cronache dalla Cina riferiranno, oltre alla morte di un motociclista – credo l’uomo in scooter – di una persona morta in sella a una bicicletta. 

La Tesla è arrivata a un incrocio un po’ più trafficato. In mezzo all’incrocio, un piccolo camion carico di sabbia e, a sinistra del piccolo camion, un motocarro a tre ruote. Dietro il piccolo camion carico di sabbia, una ragazza in bicicletta. La Tesla ha colpito la parte anteriore destra del motocarro a tre ruote, distruggendolo. Ha sfiorato la ragazza in bicicletta che si è scansata per non essere colpita. L’impatto con il motocarro ha provocato la sbandata che ha condotto la Tesla a schiantarsi contro ciò che ha incontrato sul margine destro della strada: soltanto oggetti. Polvere, fumo sollevato, il cauto avvicinarsi di alcuni passanti, come se l’auto potesse ancora nuocere, anche immobile e semidistrutta. Illeso, o quasi, il conducente.

Tesla Model Y, accelerazione da 0 a 100 km/h in 3,7 secondi, ma è presumibile che, durante quel mezzo minuto di tragitto, l’auto sia andata molto più veloce. 

Dall’accelerazione allo schianto: la vecchia Cina, persone tranquille, in bicicletta; la Cina di ieri, persone tranquille, in scooter, sul piccolo camion carico di terra, sul motocarro a tre ruote; e infine il presente e il futuro, non solo della Cina, ma di tutti: monovolume bianca ferma all’incrocio, e auto a guida assistita, fuori controllo.

In questi anni è diventata abituale la definizione di auto a guida autonoma. Bisognerebbe capire il motivo per cui i media hanno insistito su questo concetto e non sulla guida assistita, che prevede ancora la partecipazione e la responsabilità umana. 

Il sistema di guida assistita, il cosiddetto Autopilot, era attivato o disattivato sulla Tesla Model Y in questione? Il 55enne cinese, cosa faceva, durante quei secondi? C’è stato un guasto meccanico? Un malfunzionamento del software o un banale guasto ai freni? Oppure, come sostenuto da alcuni, il 55enne cinese, ex-camionista proprietario della costosa automobile, ha confuso, preso dal panico, il pedale dell’acceleratore con quello del freno, visto che mai, durante il breve tragitto, i fanali posteriori si sono illuminati di rosso? È plausibile pensare che un ex-camionista, con milioni di chilometri percorsi alla guida di un camion tradizionale, possa disimparare come si guida, confondendo il pedale del freno con quello dell’acceleratore? 

Non sono i primi morti causati da un’auto a guida assistita. Una volta ho detto che se fossi uno scrittore infatuato di trame distopiche sarei un po’ in crisi. Alludevo alla morte di Joshua Brown, il primo essere umano deceduto il 7 maggio 2016 in un incidente stradale causato da un’auto a guida assistita. Non c’è già tutto nella follia che viviamo ogni giorno? Abbiamo davvero bisogno di spostare le storie un po’ più in là, nel tempo e nello spazio, per rappresentare un futuro-presente indesiderabile e angosciante, quasi per innalzare a qualcosa di grande e misterioso la banalità del nostro morire contemporaneo? Anni fa, in Ipotesi di una sconfitta, guardando un gruppo di persone nella sala fatiscente di un ambulatorio pubblico, a Milano, tutte con una benda sull’occhio dopo un intervento di cataratta, avevo definito quello che viviamo come “fantascienza dell’oggi pomeriggio”. Joshua Brown si era schiantato a bordo della sua Tesla contro un camion che attraversava un incrocio. L’Autopilot, benché attivo, non aveva riconosciuto la lunga e mastodontica struttura bianca che ingombrava il centro di quella strada in Florida. Joshua Brown non si era accorto poiché, secondo la polizia accorsa sul luogo dell’incidente, è probabile che stesse guardando un DVD di Harry Potter, dato che il lettore, anche dopo l’impatto, aveva continuato a trasmettere quel film. L’Autopilot non aveva riconosciuto la fiancata bianca del camion “sullo sfondo luminoso del cielo”, così aveva ribadito il comunicato Tesla, in un afflato lirico. Ribaltando la questione, potremmo dire che il cielo sopra una strada a scorrimento veloce in Florida ha il colore della fiancata di un camion lungo una ventina di metri: insomma, è simile al cielo milanese di Elio Pagliarani, “questo cielo colore di lamiera”, “questo cielo d’acciaio che non finge”. 

Ma le immagini scattate dall’auto stessa poco prima dell’impatto mostravano un cielo tipico dell’alba o del tramonto: infatti le auto che sopraggiungevano in direzione opposta avevano i fari accesi. 

Joshua (Salvatore inviato da Dio) Brown aveva sperimentato una nuova tecnologia automobilistica guardando il film di Harry Potter attraverso la tecnologia morente dei DVD, e così si era sacrificato per il progresso dell’umanità. 

Nel 2018, un’altra auto a guida assistita aveva investito una donna di cinquant’anni, Elaine Herzberg, la prima vittima pedonale. 

La morte di Elaine Herzberg ci rimanda all’incidente della Tesla Model Y in Cina e al quarto episodio di Quella bestia gigante che è l’economia globale, la docuserie con Kal Penn trasmessa da Prime Video.

Nell’episodio dedicato all’Intelligenza Artificiale, ci si chiede come debbano comportarsi le auto senza conducente in presenza di un ostacolo umano. 

Penn intervista Louis Rosenberg, dirigente dell’azienda Unanimous AI. Rosenberg stabilisce un legame tra la capacità dell’Intelligenza Artificiale nell’analizzare i dati, la conoscenza umana e l’unione tra le due intelligenze, unione capace di creare un’intelligenza superiore, o meglio, un’intelligenza collettiva, che trae ispirazione dagli stormi di uccelli, dai banchi di pesci, dagli sciami di api: animali che, in gruppo, pensano come fossero un tutt’uno. 
L’intelligenza del gruppo supera quella del singolo, sostiene Rosenberg.

Certo, ma allora, nel caso dell’essere umano, anche la stupidità del gruppo supera la stupidità del singolo che, anzi, può aumentare nascondendosi dentro la stupidità di gruppo, e più il singolo diventa stupido trincerandosi dentro il gruppo, più la stupidità collettiva del gruppo ne beneficia. 

L’azienda diretta da Rosenberg seleziona gruppi di persone, pone loro alcune domande alle quali rispondere sfiorando un tablet. Non è un vero e proprio sondaggio, è piuttosto l’azione di un piccolo magnete che, grazie alle anonime dita umane, appare sullo schermo e si sposta, spinto dal volere del singolo verso una delle possibili risposte, in modo che anche le altre persone possano vedere la dinamica di scelta. 
Questi incontri si chiamano swarm

Un’applicazione interessante, dice Rosenberg, è rappresentata dalle domande con implicazioni morali. Quale morale deve avere un’auto a guida assistita, definita, ahimè, anche nella docuserie, auto che si guida da sola?
Ammettiamo che l’auto non si fermi ma, finendo fuori strada, possa mettere a repentaglio la vita del passeggero e ucciderlo per salvare un bambino. 
È questo che vogliono davvero i produttori di auto? Salvare la vita di un bambino o preservare l’esistenza di un cliente che ha speso 100.000 dollari per quel prodotto? 

Certo, in teoria, le aziende vorrebbero privilegiare, nella progettazione e costruzione delle loro auto semi-indipendenti, valori umani che rappresentano un campione significativo della popolazione, del sentire comune, o almeno, ciò che farebbe una persona alla guida.
Allora Kal Penn, in accordo con Louis Rosenberg, propone un quesito a un gruppo di persone riunite in una stanza.

“Un’auto che si guida da sola non riesce a frenare in tempo e deve sterzare investendo uno tra sei diversi pedoni”.

1.   Un bimbo su un passeggino
2.   One boy (nella traduzione italiana scrivono ragazzino).
3.   One girl (nella traduzione italiana scrivono ragazzina).
4.   Una donna incinta
5.   Due medici uomini
6.   Due medici donne

Chi deve morire tra queste persone?

Ciascuno dei partecipanti manovra il cursore del tablet, il magnete al centro dello schermo, il magnete sospinto dal vociare in sottofondo, dal brulichio di manine digitali, che indirizzano il magnete verso la decisione. Oh my God, dice una voce femminile. Risate in sottofondo, una specie di giochino, di videogame.

E infine, l’esito, quasi unanime. 
Il prescelto è il ragazzino, o meglio, il ragazzo. 
Il ragazzo deve morire.

Analizziamo i pro e i contro delle alternative.

Il bimbo su un passeggino. Molti anni davanti a sé. È normale e umano salvare un bimbo su un passeggino. Certo, potrebbe diventare un fascistello che entra in una scuola armato e uccide a caso una trentina di studenti. Ma potrebbe essere anche colui che serve i pasti alla mensa dei poveri…

La donna incinta. Per alcuni giudici statunitensi sarebbe come uccidere due persone in un colpo solo. La donna incinta è più al sicuro del bimbo sul passeggino…

I due medici donne, i due medici uomini. Sono medici, possono salvare altre vite umane, possono salvare la vita del bimbo sul passeggino, della donna incinta e del nascituro…

La ragazza. È coetanea del prescelto, ma è di sesso femminile, e dopo secoli di discriminazioni, il sentire comune è pronto a salvare la ragazza al posto del ragazzo, sebbene in molte zone del pianeta le persone di sesso femminile siano più numerose delle persone di sesso maschile. 

È significativo il fatto che questo quesito sia stato posto negli Stati Uniti.

Nelle domande non c’è traccia di età precisa, né tantomeno di origine etnica o di classe sociale. Ma due medici donne e due medici uomini sono comunque un indizio sulla classe sociale di appartenenza. Eppure se questa domanda fosse stata rivolta ad alcuni abitanti di Fagnano Olona, Varese, ovvero a coloro che avevano manifestato ostilità alla nomina di un medico nero nato in Camerun, a tal punto da restare senza medico pur di non averne uno africano, ecco, credo che molti residenti di Fagnano Olona avrebbero salvato il ragazzo al posto del medico uomo, purché, beninteso, il medico fosse africano.

E così il ragazzo è sacrificabile. Un diciottenne, un ventenne. Uno qualsiasi. Ragazzo a caso. Aveva ancora molti anni davanti, più tempo dei medici. 

Questo filmato risale al 2018. Vista la situazione bellica perdurante dal febbraio 2022, e il desiderio guerresco diffuso in modo quasi unanime a un anno di distanza, è probabile che oggi ci sarebbero ancora meno esitazioni nella scelta. Sono soprattutto i ragazzi ad andare in guerra. Di solito, i ragazzi degli altri.

E se in guerra ci andasse tuo figlio? E se il ragazzo sacrificato dal gruppo fosse tuo figlio? E se la l’auto a guida assistita decidesse di ammazzare tuo figlio?
Torniamo all’incidente della Tesla Model Y e ricapitoliamo il comportamento dell’auto.

L’auto ha evitato, quando procedeva a velocità ancora ridotta, la prima persona in scooter; ha evitato il monovolume bianco fermo all’incrocio; ha travolto e ucciso la seconda persona in scooter, forse perché, ripeto, se avesse sterzato a quella velocità la Tesla si sarebbe ribaltata e avrebbe ucciso il passeggero-proprietario dell’auto; ha sfiorato la persona in bicicletta, forse uccidendola; ha travolto il motocarro a tre ruote; e infine si è schiantata. Tra tutte le varie opzioni, la Tesla ha evitato l’impatto più pericoloso per l’incolumità del passeggero-proprietario: lo schianto contro il monovolume. 

Forse, tra qualche anno, l’intelligenza collettiva riunita in una stanza potrebbe aiutare davvero i produttori di auto a guida assistita e l’auto sarà a guida autonoma. 

Forse, tra qualche anno, al posto del cinismo contemporaneo, una dimensione etica dedicata all’umano sarà prevalente e non minoritaria e derisa, come oggi. 
Ma a quel punto, cambiare la sensibilità di un’auto progettata anni prima, secondo i parametri del sentire comune attuale, sarà troppo costoso. 
E molte persone, anche le più sensibili e consapevoli, avvaloreranno la decisione aziendale ripetendo, sì, però, è un costo, è un costo, è un costo…
E allora lo scrittore infatuato di trame distopiche si rassegnerebbe, ma avrebbe già l’incipit del suo testo. 

Goditi il viaggio in tranquillità e sicurezza. La tua auto ha già ucciso venti ragazzi.

ARTICOLO n. 14 / 2023

DELL’AMORE E DI ALTRI DEMONI

L’uomo che mi piace mi infastidisce.
Per questo ho disattivato i suoi post e le sue storie.
Ma stanotte ho deciso di andare a vedere cosa fa.

Mentre scrollo sul suo profilo e ne spulcio veloce le storie lo trovo insopportabile, mediocre nella comunicazione, lento, vecchio.
Eppure dal vivo non è così.

Mi infastidisco mentre scrollo tra un’immagine e l’altra. Mi infastidisce la sua comodità, il fatto che lo amino tutti senza neanche un commento di critica, la pace che regna sovrana sul suo profilo, l’assenza di commenti sessualizzanti verso la sua persona, il suo potersi permettere di postare solamente foto banali, l’assenza di una qualsiasi causa sociale o civile nel suo feed, l’egoreferenzialità, il fatto che nessuno gli chieda come mai stia lì.

Provo invidia, eccitazione, fastidio, curiosità. Forse lo odio. 

Ma niente di quel che provo è reale perché, mi dico, quello che vedo sui social media non può essere COSÌ reale.

Eppure non ne sono sicura, me ne rendo conto, al buio della mia camera da letto, mentre fisso lo schermo del mio telefono. Ho difficoltà nel percepire cosa in una persona sia vero e cosa no, in questo mondo parallelo fatto di tondini rossi e foto quadrate. 

Spulcio i primi like sotto al suo nuovo post, per capire dove va forte, quale sia il suo pubblico: sono tutte donne cis, come me, stessa età, a occhio stessa provenienza sociale e tutte bianche. Ha un tipo di fascino assolutamente targettizzabile, per questo monotono. 

Muovo il pollice con un gesto automatico e torno in home page: l’immagine che mi appare subito dopo è il post di una mia amica sotto il quale noto immediatamente un suo mi piace.

In passato ho provato fastidio, competizione, inadeguatezza ogni volta che vedevo cuoricini rossi di un uomo che mi piaceva sotto alle foto di altre donne bellissime, come fosse una scelta implicita di un canone che non combaciava con il mio. Un silenzioso assenso verso forme di femminilità diversa dalla mia, meno rumorosa, spigolosa, respingente, dolente. 

Sono cresciuta con i social network che, anno dopo anno, prendevano sempre più spazio nella nostra vita e ho decodificato le nuove regole del gioco amoroso piano piano: oggi sono diventata così brava con questi linguaggi digitali che so distinguere corteggiamenti tra due persone semplicemente osservando i loro post che appaiono nel mio feed di Instagram. 

Lo specchio che riflette le nostre interazioni e pulsioni è così banale da annoiarmi.

Per questo ho disattivato l’uomo che mi piace: per non vederlo, perché rispetto alla noia che mi provoca la banalità della sua forma digitale preferisco la delusione tangibile ma progressiva. 

E perché il controllo ossessivo mi stava rendendo un mostro.

Ho cercato di capire, carpire, annusare, decodificare, smembrare e acquisire messaggi subliminali dai profili degli uomini che mi piacevano per tanto tempo, come se fosse una conseguenza diretta della dimensione digitale, un prezzo da pagare per la ricerca di una verità universale sull’amore e sui suoi demoni.

Ho iniziato a provare disagio, odio, fastidio, inadeguatezza, competizione senza inizialmente capire il perché. Ho semplicemente staccato i miei occhi dal mezzo social disattivando i profili di ogni uomo che negli ultimi anni mi è piaciuto, come se fossero veleno, acido corrosivo, dal quale dovevo mettermi in salvo.

C’era qualcosa di morboso nel mio atteggiamento, che so essere atteggiamento di molte altre persone, ma non comprendevo da dove emergesse tutto quel fastidio.

Certo, una parte era fisiologica quanto banale sindrome da competizione: nella società performativa e patriarcale le donne sono nemiche e una sola è la prescelta, questo vale anche nelle relazioni sentimentali applicate al digitale. Lo posso vedere chiaramente quando leggo i commenti alle foto di coppie famose, ricche, bianche, abili: sono un tripudio di “beati voi”, “come vi invidio” e “siete un sogno”. La favola della prescelta è dietro l’angolo e non si nasconde neppure troppo per dissimularsi.

Ma mi mancava un pezzo per comprendere in pieno tutto questo senso di angoscia che mi produceva e spesso produce ancora il mezzo digitale elevato a prolungamento della vita amorosa. 

Volevo capire perché mi spaventassero così tanto alcune proiezioni social degli uomini che mi sono piaciuti.

Volevo capire se l’amore aveva un modo per sopravvivere ai social.
Se le mie esigenze potevano trovare spazio in un amore digitale. 
E, per trovare delle risposte, mi è venuta in aiuto Sheena Patel.

Conosco Sheena Patel a Roma, alla Nuvola, durante l’ultimo Più libri più liberi: dobbiamo dividere il palco per un panel sul digitale e le relazioni interpersonali e di fianco a lei mi sento microscopica. 

Sheena Patel ha infatti scritto un libro che ho letto da poco, si chiama I’m a fan, in italiano Ti seguo, edito da Edizioni di Atlantide e tradotto magistralmente da Clara Nubile.

Ti seguo è uno dei libri più devastanti, deliranti ma al tempo stesso lucidissimi che abbia letto negli ultimi anni, e la penna di Patel è talmente affilata, dolorosamente ironica e graffiante da farmi dire subito dopo l’incipit che quella che sto leggendo è davvero una coltellata con i fiocchi.

Patel nel suo libro racconta, con un ritmo incredibile e la prima persona singolare, l’amore ossessivo e ripetitivo dei tempi del digitale. La sua protagonista, una giovane donna di origini indiane che vive a Londra e lavora nella cultura, ha una relazione con un uomo ricco e famoso, che è sempre lontano, appare a intermittenza, e che lei monitora quotidianamente tramite i social. 

Ed è proprio dai social che la protagonista apprende dell’esistenza di una seconda – saranno poi molte di più- donna: una ricca ereditiera che vive negli Stati Uniti, viaggia molto, è bianca, abile, magra, molto attenta alle cause sociali e civili da copertina, al bricolage, all’arte contemporanea ricca di appropriazione culturale; è il ritratto perfetto dell’ipocrisia finto buonista della classe dominante, da cui ancora siamo attratti come lo sono le falene dalla luce.

Il libro è una visione perfettamente bilanciata del mondo dei social – e dell’amore al tempo dei social – come riflesso di una cultura eurocentrica, bianca, sessista e basata sul privilegio di classe. 

E questo viene meravigliosamente fuori dai due personaggi secondari della sua storia. 

I due personaggi che catalizzano l’attenzione della protagonista – di cui non sappiamo mai il nome – sono nominati come “l’uomo con cui voglio stare” e “la donna da cui sono ossessionata” e incarnano perfettamente il concetto stesso di privilegio: sono due persone mediocri, di base neanche troppo brillanti, ma la loro immagine riflessa dai device elettronici li rende incredibilmente affascinanti, creando una dipendenza da contenuti che la protagonista subisce con tigna stoica.

Se lei infatti, da un lato, percepisce quanto ipocrita sia il loro atteggiamento digitale (white saviorism, feticizzazione dei corpi neri, ricerca di approvazione, un perenne nozionismo usato come scudo contro la profonda ignoranza, la costante ricerca di essere al passo con i tempi senza tuttavia comprenderli mai), dall’altro non riesce proprio a separarsene.

E non può farlo per un motivo banale quanto inquietante: perché sono lì, sullo schermo, a portata di mano, pur sapendo che sono tutto ciò che odia.

La figura della donna da cui è ossessionata simboleggia perfettamente la competizione femminile di cui scrivevo sopra e che però è persa in partenza se non si è ricche, bianche, tendenzialmente fancazziste perché libere da un lavoro totalizzante. 

Ma i social sono spazi monodimensionali in cui le distanze sembrano minuscole e ci danno l’illusione di poter partecipare alla gara e raggiungere la capolista. 

Per questo si innesta la competitività, perché ci dimentichiamo della tangibilità del mondo e della sua non compassionevole classificazione sociale. 

E niente di più vero è mai stato descritto: quante volte siamo state gelose, invidiose, rancorose verso i profili delle supermodelle a cui i nostri amati – corrisposti o meno – mettevano fior fior di cuoricini? Lo siamo state e spesso lo siamo ancora perché abbiamo creduto, fino a quel momento, fino a quel like, di essere tutte sulla stessa linea di partenza, agli stessi blocchi. Questo è l’effetto social, quello che ti fa pensare “perché lei sì e io no?”

L’uomo di cui la protagonista vorrebbe essere la compagna è invece un poveraccio con traumi irrisolti, una moglie trofeo, un ego smisurato in compensazione delle mancanze emotive, un sacco di soldi e la spocchia di chi sa di essere in cima alla catena alimentare. Se parla di cause umanitarie lo fa solo per accrescere la sua immagine, non perché deve, non perché le senta, perché di base lui è esente da qualsiasi privazione. 

Se si connette con una donna, lo fa solo per cannibalizzarne le attenzioni. Il modo in cui usa le donne è meccanico, rapido, in una parola: sessista. Insomma, lo standard del maschio bianco cis etero dell’industria culturale, da cui di base e in teoria sappiamo tutte di dover fuggire ma nella pratica non riusciamo, perché subiamo il famoso fascino della narrazione.

E quella narrazione ce la fanno rimbombare dentro proprio i social.

Questi personaggi possono sulla prima sembrare agli occhi inesperti – o privilegiati – delle macchiette. Eppure nel digitale non esistono caratteri più comuni di quelli descritti da Patel. 

E nell’era in cui l’amore lo troviamo e manteniamo proprio grazie ai social media, questi personaggi dovrebbero insegnarci qualcosa, ovvero a proteggere quel fastidio di cui accennavo sopra, perché sintomatico di contatto con il reale.

E nell’amore al tempo dei social le distanze si annullano facendoci credere di appartenere tutti quanti a una stessa comunità, in cui le differenze non esistono e in cui tutti possiamo essere famosi per cinque minuti. In questa dinamica, riconoscere chi non è altro che problematico – o chi gongola nel proprio privilegio – diventa sempre più difficile, proprio perché sviluppiamo dipendenza in brevissimo tempo. 

Pensiamoci un attimo.

Soprassediamo sui profili di uomini adulti che seguono solo donne giovanissime e ragazze neanche maggiorenni riempiendole di emoticon di goccine, occhi a cuore, pesche, perché ci piace pensare che al fondo non siano così, che ci sia dietro qualcosa di misterioso. Ci giriamo dall’altra parte quando chi ci piace non sposa neanche una causa che ci sta a cuore, perché non vogliamo vedere la grande verità, ovvero che non la condivide perché non ne ha bisogno, perché non rivolta a lui. Romanticizziamo relazioni tra personaggi famosi che puzzano di abuso da diecimila chilometri di distanza (ultima tra tutte: Megan Fox e Machine Gun Kelly). Selezioniamo piaceri e infatuazioni replicando il sistema più antico del mondo ovvero quello che ci porta ad amare chi è in vetta alla classifica sociale, e l’odio nell’essere ignorati e ignorate è sovente figlio di un viscerale e problematico “non è possibile che non mi veda, eppure guarda come sono attraente con il mio profilo perfetto”. Ci allineiamo a modelli digitali preconfezionati nella speranza di essere contraccambiati, scritturati per la parte, scelti in una marea di banalità che vuole solo essere come gli altri, quando questi “altri” non sono mai come noi – principalmente perché sono ricchi e più famosi di noi. Cerchiamo di impersonare modelli che non ci rispecchiano solo per sembrare migliori agli occhi di chi ci guarda, ma sono solo dei grandi castelli di carta che ci rendono grotteschi, ben più grotteschi dei due personaggi di Sheena Patel, perché noi siamo reali e non di fantasia.  

E scritta così sembra una condanna, sembriamo succubi della performance anche nella ricerca del partner. Ma il fastidio, questo fastidio che mi tiene incollata alla pagina dell’uomo che mi piace, è la soluzione a questo dilemma. 

Nell’era digitale basta infatti pochissimo per trasformare un sentimento in un altro, totalmente opposto e ugualmente intenso: odi et amo, mai è stato più vero.

E con quel fastidio, con la ricerca spasmodica di una falla nella corazza digitale dell’altra persona, stiamo cercando di interrompere un flusso, quello che ci porta a guardare acriticamente le pagine che ci si presentano davanti, le vetrine di privilegio declinato in differenti modi ma che rimane pur sempre privilegio.

Alla fine della nostra chiacchierata a Più libri più liberi, Sheena Patel mi ha chiesto se vedessi nei social una via di fuga, se pensavo che la collettività – e dunque a seguito ogni singolo – potesse evolvere nel digitale. Sono rimasta in silenzio. Lei mi ha guardata e mi ha detto «Sai che non è possibile, vero, in un luogo dove per essere ascoltati gli esseri umani devono usare la lingua del padrone?».

Ho ripensato a questa frase, cercando di estenderla alla sfera sentimentale che si sviluppa nel digitale e non posso che confermare ciò che detto da Patel: stiamo replicando un mondo in cui il privilegio e la prepotenza degli stereotipi sono immutati. Solo che è più difficile capirlo, in un non-luogo in cui le distanze non sembrano esistere. 

E allora dove sta la verità? Chi siamo, di chi ci siamo innamorati?
Cosa abbiamo guardato finora?

La risposta arriva di nuovo da Sheena Patel: ci siamo innamorati delle aspettative figlie di una società che ci fa rincorrere la stabilità delle persone scintillanti. Queste vanno necessariamente ridimensionate, o ci renderanno ancor più tossico l’amore. Ci faranno piacere persone che nel mondo reale non considereremmo neanche sotto tortura. Ci renderanno sopportabili cose che non dobbiamo mai sopportare, come l’inedia, silenzio, la mediocrità, come il white saviorism, come il sessismo subdolo che serpeggia incessante tra le pagine dei profili. 

E noi, in questo limbo, non possiamo fare altro che continuare a controllare e ricontrollare i profili dei potenziali partner, nella speranza che sia cambiato qualcosa a distanza di qualche secondo, nella speranza che quel bagliore che vediamo sia un diamante quando in realtà è quasi sempre il riflesso del sole su una lattina accartocciata sul ciglio della strada. 

Questo controllo compulsivo ci corrode perché da un lato speriamo davvero che stavolta sia la volta buona, che nessuna lattina ci attenda seminascosta tra i cespugli.

Dall’altro però ci vuole ricordare che ricercare l’errore in mezzo alla vetrina lucida dei social è ancora un procedimento di cui abbiamo un disperato bisogno, perché non ne abbiamo ancora compreso del tutto la portata e la distorsione del reale che li accompagna.

Alla luce di queste elucubrazioni, mi chiedo all’improvviso: quante infatuazioni inutili ho avuto nell’ultimo anno e mezzo?

E mentre sono profondamente esausta da questa riflessione in automatico faccio un gesto con il pollice, tornando a guardare il profilo dell’uomo che mi piace.

Vedo che nel frattempo non ha messo storie, vedo che non ha aggiornato il feed. 

Comprendo che il mio fastidio nei suoi confronti sta proprio nella sua omologazione, nel suo privilegio di genere rivendicato in modo sottile. Nel suo silenzio su quel che ritengo importante. Nel suo bisogno di non usare la sua voce per difendere qualcosa a cui tiene. Nel suo piacere a tutti, grandi e piccini, sempre attento a non essere scomodo. Nel collezionare solo donne nei suoi follow, come fossero in vetrina, interscambiabili, tutte uguali, nella sua testa sono tutte a sua disposizione. 

Mi infastidisco di nuovo.

Mi rendo conto che questo fastidio significa che sono guarita, che non ci sono più cascata nel gioco delle lattine scintillanti: adesso lo capisco subito che proiezione sto guardando e posso agire di conseguenza. 

Posso anche percepire il perché sia più affascinante quando ci vediamo: perché c’è più distanza tra noi, nel mondo reale. E da lontano, in senso ovviamente metaforico, tutto sembra migliore.

Decido quindi di silenziare di nuovo i suoi post e le sue storie, consapevole di quanto sarà più rassicurante non vedere i suoi tondini. 

Controllo il profilo di altre persone, scorro acriticamente prima di accendere la luce e iniziare la mia giornata.

Ho ricevuto una notifica di un messaggio privato. 
Apro la sezione inbox, scorro un po’ col dito e clicco.

È un uomo, mi scrive una battuta intelligente su un articolo di giornale che ho da poco condiviso.

Guardo il suo profilo e mi sembra interessante. Fa lo scrittore. Sorride sempre in foto. 

Gli rispondo con un cuoricino nero.
Chissà se anche lui è una lattina. 

ARTICOLO n. 13 / 2023

IL MITO DELL’ABITO BIANCO

Consultando gli account social di riviste e quotidiani, mi capita con sempre maggiore frequenza di imbattermi in notizie che in realtà non lo sono affatto. Mi riferisco per esempio alla storia, letta poco tempo fa, della giovane studente incinta che ha discusso la tesi qualche minuto prima che iniziassero le contrazioni, oppure quella, risalente a qualche tempo prima, di un ragazzo che al termine della sessione di laurea ha chiesto alla fidanzata, che era tra il pubblico, di sposarlo. Ancora più recente è la notizia del calciatore bielorusso che, d’accordo con la squadra, ha invitato la fidanzata in campo per inchinarsi di fronte a lei e farle la proposta di matrimonio. 

Come dicevo, si tratta di notizie che di fatto non lo sono, perché più che offrire un vero contenuto informativo contribuiscono a veicolare un preciso messaggio intorno alla maternità e al matrimonio; in particolare l’idea che, per una donna, siano due eventi imprescindibili, strettamente correlati alla felicità e all’autorealizzazione personale. Non a caso, entrambe le notizie mettevano al centro della narrazione più gli eventi che le protagoniste: della giovane neolaureata o della ragazza del calciatore – di cui neanche sappiamo il nome – conosciamo solo la gioia dopo il parto, non quella per il titolo ottenuto o la sorpresa per il matrimonio in arrivo.

Maternità e matrimonio, di cui abbiamo parlato in un altro articolo, sono due facce della stessa medaglia la cui narrazione mitizzata contribuisce a mantenerne inalterato il potere. Che i due eventi abbiano molteplici punti in contatto è testimoniato anche sul piano etimologico; come ricorda Vera Gheno in un articolo apparso sul sitodell’Accademia della Crusca, il termine matrimonio si compone di due parole – mater e monium – che rimandano alla finalità generativa dell’unione. Scrive la sociolinguista: «l’etimologia stessa fa riferimento al “compito di madre” più che a quello di moglie, ritenendo quasi che la completa realizzazione dell’unione tra un uomo e una donna avvenga con l’atto della procreazione, con il divenire madre della donna che genera, all’interno del vincolo matrimoniale, i figli legittimi». Storicamente, tutto questo ha senso se consideriamo che il matrimonio non nasce con una finalità sentimentale, così come siamo abituati a intenderlo oggi, ma per lungo tempo è servito a suggellare accordi economici, sociali o politici tra famiglie e casate. Celebrare eventi di questo tipo era appannaggio delle classi sociali più abbienti ed è per questo che il rito avveniva con un certo sfarzo. Le spose indossavano abiti sontuosi realizzati in tessuti pregiati, il cui scopo non era tanto esaltarne la bellezza quanto esibire alla famiglia dello sposo le condizioni economiche di quella di provenienza. 

Il colore bianco, che oggi ci sembra scontato, si è imposto solo in epoca recente e anche in questo caso la questione estetica era accessoria. La scelta del colore aveva una valenza simbolica: doveva dimostrare che la sposa era talmente benestante da potersi permettere un abito realizzato appositamente per l’evento, in una tonalità così delicata che non si sarebbe potuto indossare per altri scopi se non per quel giorno “speciale”. Inoltre doveva rimandare, sempre su un piano allegorico, alle doti di verginità e purezza, indispensabili per garantire quei figli legittimi di cui scriveva Gheno. In realtà, dopo aver fatto la sua apparizione nel sedicesimo secolo alle nozze di Maria Stuart con l’erede al trono di Francia, l’abito bianco venne considerato a lungo presagio di sventura a causa della morte prematura del sovrano, avvenuta prima ancora di poter generare un erede. È solo nel 1840 che ricompare, quando la Regina Vittoria sposò il principe Alberto di Sassonia, cominciando a fare tendenza tra le nobili e le giovani dell’alta borghesia.

Se sfoglio l’album di famiglia, scopro che la prima a indossare l’abito bianco è stata mia mamma, all’inizio degli anni Settanta. Chiacchierando con lei, ho saputo che lo aveva acquistato pochi giorni prima delle nozze in un negozio della mia città, ormai chiuso da tempo, che disponeva di una piccola selezione pensata per le future spose. Non era un capo sartoriale o su misura, come oggi si trovano nelle boutique specializzate, che hanno per questo costi elevati e lunghi tempi di realizzazione. Sua mamma, che si è sposata intorno alla metà degli Anni Quaranta, indossava un normale tailleur scuro. Nell’unica immagine conservata nell’album, sopravvissuta al tempo, tiene in mano un piccolo bouquet, non ci sono altri scatti che testimonino il servizio fotografico esclusivo o il grande ricevimento semplicemente perché non ci sono stati. Non ho più la possibilità di chiederglielo, ma probabilmente indossava l’“abito buono”, quello da usare con cura nei giorni di festa; dopo il rito non c’è stato alcun evento ma solo un pranzo insieme ai suoi genitori e a quelli di mio nonno. Per una famiglia contadina, come del resto era quella da cui proveniva, sarebbe stato impossibile disporre di un capo pensato per l’occasione, di un colore praticamente inutilizzabile in qualsiasi altro contesto, o di spendere grosse somme di denaro per l’evento. Eppure, oggi l’abito è l’oggetto irrinunciabile della cerimonia e le future spose sono disposte a investire una cifra importante arrivando anche a indebitarsi per poter disporre di un budget in grado di garantire un’organizzazione sfarzosa. Questa tendenza, in atto da diverso tempo, si nutre di continui richiami alle favole delle principesse Disney o alle vicende, vere, di Elisabetta di Baviera, Diana Spencer o Grace Kelly, tutte nobili ma con un’anima pop in grado di mitizzarle rendendole appetibili anche agli occhi della gente comune. Un aspetto da non trascurare, considerando che l’attuale narrazione pone molta enfasi sull’idea che un matrimonio sfarzoso saprà trasportare la futura sposa al centro di una favola che, come il ballo di Cenerentola, è destinata a svanire nel giro di qualche ora.

La tradizione dell’abito bianco e della festa in grande stile dovrebbe farci riflettere su quanta enfasi poniamo nei confronti dell’evento e sulle motivazioni che lo rendono imprescindibile, soprattutto per le ragazze. Queste domande diventano interessanti se consideriamo che, secondo Istat, in Italia ci si sposa sempre meno. Prima della pandemia, che ha per ovvie ragioni frenato gli eventi, se ne sono celebrati poco più di 184mila a fronte di 97mila separazioni. Il trend è in calo, eppure, o forse proprio per questo, sembra che il settore del wedding resista alla crisi. Si continua a produrre e stampare magazine e riviste monotematiche per guidare le donne alla scelta del vestito perfetto e a organizzare, nelle grandi città, fiere ed esposizioni in cui scoprire le ultime tendenze in fatto di moda. In TV spopolano programmi come “Abito da sposa cercasi”, “Il castello delle cerimonie” o “Quattro matrimoni”, tutti incentrati sulle vicende delle future spose alle prese con l’outfit, l’organizzazione della cerimonia, la scelta della location più ricercata per far invidia alle amiche. Produzioni di questo tipo contribuiscono a mantenere lo stereotipo secondo cui, per le donne, sposarsi in abito bianco rappresenti il coronamento di un desiderio a cui vengono educate fin da bambine. Tutto ciò, ancora una volta, viene confermato dai dati: secondo un’indagine realizzata da Istat sull’influenza degli stereotipi nel mantenimento di una certa immagine della violenza di genere, il 37% del campione intervistato ritiene che sposarsi sia il desiderio di ogni donna. Quando però si chiede cosa sognino gli uomini, le cose cambiano: per più del 32% della popolazione italiana tra i 18 e i 74 anni, senza grosse distinzioni di genere, il successo sul lavoro è la loro principale ambizione ed è pertanto considerato normale che solo loro si impegnino attivamente per raggiungerlo.

Le opinioni raccolte dall’inchiesta offrono un punto di vista interessante che può aiutarci a capire perché la pressione sociale nei confronti del matrimonio non ricada in egual misura su uomini e donne. Intorno ai trent’anni – che per la statistica è l’età media in cui ci si sposa – gli uomini sono impegnati a progettare il proprio futuro, a posizionarsi sul mercato lavorativo e a fare carriera. Diversa è invece la condizione delle donne. Almalaurea ha recentemente confermato un dato significativo: le alunne compiono percorsi universitari brillanti, generalmente più rapidi di quelli dei compagni, tuttavia non ricevono le medesime opportunità di impiego e a un anno dalla laurea faticano molto più dei colleghi per essere assunte. Per molte, l’impatto col mondo del lavoro influisce negativamente sulle aspirazioni professionali. Non riuscire a trovare un impiego o imbattersi solo in contratti precari, scarsamente retribuiti, è sicuramente un fattore che le porta più facilmente a rinunciare alla carriera e ripiegare sulla famiglia, ambito in cui le soddisfazioni personali sembrano quasi garantite. Così, se per il genere maschile sposarsi è un’opzione, un evento auspicabile ma non indispensabile, per le donne diventa il luogo entro cui realizzarsi, dopo aver provato a fatica una realizzazione al di fuori delle mura domestiche.

Anche per me il matrimonio ha rappresentato il tentativo di sperimentarmi, scegliendo una strada che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto procurarmi un po’ di soddisfazione personale in un periodo in cui trovare un impiego affine ai miei studi sembrava difficile, oltre che sconsigliato dalla gran parte delle persone con cui mi confrontavo – che insistevano nel ricordarmi che prima o poi vi avrei rinunciato spontaneamente, per mettere su famiglia. Ci è voluto tempo per capire che, in realtà, sposarmi non era un mio desiderio ma rappresentava solo il tentativo di aderire a un mandato che molte donne, dentro e fuori il mio contesto familiare, avevano perseguito a loro volta prima di me. Nel suo articolo, Giulia Paganelli scrive che quello della principessa è uno stereotipo i cui effetti permangono inalterati e rivestono il corpo culturale delle donne. Educate all’idea del principe azzurro che verrà a salvarci e al lieto fine del “…e vissero felici e contenti”, il matrimonio si inserisce in questa narrazione finendo per diventare un modello che sembra garantire alle donne un certo appagamento personale e l’idea di essere, almeno per un giorno, protagoniste di una favola che non ci procurerà insoddisfazione o tristezza. Combattere gli stereotipi è anzitutto un’operazione di decostruzione dei miti che, un po’ come quello platonico della caverna citato da Paganelli nel suo pezzo, contribuiscono a mantenerci, immobili e silenziose, davanti a un teatro di immagini inconsistenti. Il fatto che siano le donne a sperimentare con più frequenza la pressione sociale a sposarsi e metter su famiglia ci mostra perché sia importante continuare a compiere quest’operazione. L’intento non è quello di denigrare il rito in sé quanto piuttosto rivelarne i meccanismi impliciti. Il rischio, in cui tra l’altro io per prima mi sono imbattuta, è quello di vedere il matrimonio come un palliativo, qualcosa in grado di colmare tutti i bisogni di realizzazione che sul piano sociale o lavorativo sembrano difficili da soddisfare, soprattutto per una donna.

Negli Anni Quaranta, lo psicologo Abraham Maslow si è occupato di bisogni personali e delle strategie che ogni essere vivente attiva per appagarli. Per rappresentare la molteplicità delle necessità, materiali e immateriali, che ci caratterizzano, Maslow ha utilizzato l’immagine della piramide. Lo schema piramidale permette di cogliere anche visivamente il fatto che i bisogni abbiano radici e collocazioni differenti e pertanto anche meccanismi di appagamento diversi. Per questo, lo psicologo sostiene che sia impossibile soddisfare i bisogni di autorealizzazione e autostima, che hanno a che fare con le nostre aspirazioni, con un’azione come il matrimonio, che appaga invece il bisogno di appartenenza, ossia la necessità di sentirci amati e al sicuro all’interno di relazioni affettive e amicali.Ci possono essere un’infinità di motivi per sposarsi ma è senza dubbio importante riconoscere quando ciò sia motivato da ragioni che non sono ascrivibili a una vera scelta. Impegnarsi per decostruire i miti intorno all’abito bianco e alla favola delle nozze perfette consentono di ripulire il discorso da una narrazione che trasforma il matrimonio in un momento di soddisfazione illusoria, aiutandoci a vederlo per quello che è: una tappa non obbligatoria della vita e proprio per questo sensata, che può contribuire comporre la nostra identità senza esaurirla in essa.

ARTICOLO n. 12 / 2023

LETTERA AL MIO AMICO AMADEUS

Pubblichiamo un estratto dal romanzo d’esordio di Claudia Grande, Bim Bum Bam Ketamina (Il Saggiatore). La voce che ci accompagna allinterno di questo gorgo terribile ed esilarante è quella del tuttofare Roberto, trentenne senza ambizioni e senza soldi, creatura crudele e ingenua, «uomo in affitto» che si procaccia sempre lavori mal pagati.

Torino, la data non è importante

Caro Amadeus, 

se ho deciso di scriverti è perché, come succede ogni volta che scrivo a qualcuno che amo, per poi rendermi conto che quel qualcuno non ci capirebbe un’acca, finisco per contraddirmi e, scioccamente, gli scrivo lo stesso. Dopodiché mi lambicco il cervello, mi tartasso con ferocia le sinapsi, desumo che il problema non è il mio messaggio, la lingua in sé, ma il rapporto instaurato tra me e quella persona, la specifica risma di detti e non detti che hanno plasmato il nostro modo d’intenderci, e allora penso (ancora) che dovrei fregarmene del rapporto corrente (soprattutto se è in piena crisi, come nel nostro caso), dovrei sbattermene i cosiddetti di quanto questo rapporto sia vero o finto, felice o infelice, traballante o gravemente compromesso, perché quella cosa, quella specifica risma di sentimenti, ho bisogno di comunicarla comunque: voglio estroflettermi alla faccia degli altri, portarmi al di fuori di me – e Ginevra, la mia psicoterapeuta, sarebbe felice di questo strabiliante progresso nel condividere le mie emozioni piuttosto che reprimerle fino a farmi venire l’ulcera; allora concludo che, per il bene di tutti, mio e della persona coinvolta nel rapporto, il messaggio devo scriverlo, certo, ma provando a non dilungarmi, sebbene non sia proprio il mio forte… 

Caro Amadeus, se ho deciso di scriverti (una lettera, non un messaggio) è perché la maestra delle scuole elementari diceva che, au contraire, il bambino prodigio chiamato Roberto avesse grandi doti di sintesi, quindi eccomi qui, ecco che tento di comunicare ciò che provo, sebbene quello che provo sia delusione – una grande, gigantesca, incandescente amarezza. 

Non avrei mai pensato che fosse possibile – non con te; eppure, mi hai tradito anche tu. 

Non avrei mai pensato che tu, come tutti gli altri, fossi un egoista infingardo; ma è questo che nascondi dietro al pizzetto finemente curato, dietro a quell’aria da padre e marito perfetto. Ora ho visto, ho vissuto sulla mia pelle; e quindi no, non ci casco più. 

Non voglio ricordare i bei momenti passati insieme. 

Non voglio fare l’elenco delle esperienze che ci hanno emozionato – FestivalbarBuona DomenicaIl QuizzoneMeteoreMatricole; lo slancio verso Leredità, dove hai conosciuto la bellissima Giovanna; la Maratona Telethon, i Soliti IgnotiArena Suzuki 60 70 80… il coronamento di una carriera stellare con tripla conduzione del Festival di Sanremo. Anche quadrupla, dicono alla RAI. Io c’ero, ci sono sempre stato. Pensa che mia madre preparava una torta per ogni tuo successo televisivo. Ti volevamo bene, capisci?, te ne volevamo sul serio; ma da ieri, dal Truth or Dare Show, qualcosa è cambiato. 

Quella cosa ha un nome, sebbene io non lo conosca; e possiede (permettimi di dirlo) un indecente cappellino verde con la visiera obliqua, che non va più di moda nemmeno tra i tossici e i rapper, figuriamoci in televisione. 

Devi sapere che mi sono accorto dell’uomo col cappellino. Non ci capiva un’acca, di quello che stava facendo.
Le inquadrature che ha suggerito al cameraman erano tutte banali, storte o sbagliate.
E non hai visto che inciampava sui cavi, rischiando di far saltare le luci?
Avrebbe rovinato il tuo programma, la tua carriera, perché di questi tempi un singolo errore può costarti tutto, ogni goccia di sudore faticosamente versata. Io ci tengo a un Amadeus iv, v, xii al Festival di Sanremo; ed è per questo che ho infilato i miei volantini nelle buche delle sedi RAI (città di Torino): via Giuseppe Verdi numero 16 e 14, via Carlo Cavalli numero 6, persino all’Auditorium, in via Gioacchino Rossini, e il risultato è stato l’uomo col cappellino. 

Non mi hai risposto; hai preferito lui. 

Non hai notato che Roberto, l’Uomo in Affitto, ha un impressionante curriculum da tecnico del suono, aiuto regista, provetto imbianchino e lava‐pavimenti? È possibile che, tra tutte le candidature avanzate da fanfaroni provenienti da ogni parte d’Italia, la mia fosse in assoluto la peggiore? 

Non ci credo.
È del tutto irrealistico.
Credo, piuttosto, che fosse un imbroglio attentamente programmato.
L’uomo col cappellino, che ha rovinato la puntata più bella del Truth or Dare Show, che ha fatto inquadrare Remo in ombra e decentrato prima che cadesse nel Buco, non può essere più bravo di me. È più raccomandato – verosimilmente da te, perché sei tu che gestisci il programma, sei tu che godi a circondarti di sciattoni e smargiassi pescati chissà dove, come la stupida Guendalina, che non sa distinguere il colore della tua pelle da quello della pelle di Carlo Conti. Carlo Conti, porca puttana! Praticamente un aspirante congolese. Non ho mai fatto il truccatore in vita mia, ma ti assicuro che la tua pelle la conosco a menadito, molto meglio dell’incapace conclamata che risponde al nome di Guendalina Nonsoché.

Saprei truccarti.
Saprei sceglierti i vestiti migliori.
Saprei offrirti le migliori inquadrature, le più grandi abbuffate di audience e share; e se dovesse servire qualcuno che aggiusti un rubinetto o una maniglia, beh, io saprei fare anche quello. 

Perché in RAI assumete tutti questi incompetenti e non date una chance a me

Perché tu, Amadeus, non hai custodito i miei volantini, non ti sei neppure degnato di leggerli, preferendomi l’uomo col cappellino, la truccatrice balorda, chissà quale altro citrullo, votando il Truth or Dare Show al fallimento completo? Andrete in rovina, con una squadra del genere a pasticciare dietro le quinte. Con uno come me, invece, sarebbe un successo. 

Che dire, ora?
Mi sento in imbarazzo.
Per te, ovvio; ma anche per me.
Perché… ho pensato che fosse colpa mia, Cristo!, che non mi fossi venduto bene; e allora mi sono reinventato, ho riscritto i volantini da cima a fondo, vi ho consegnato anche quelli, sperando di ricevere risposta, e invece niente, ancora, estenuante silenzio. Ecco uno dei nuovi volantini. Te lo incollo qui sotto, sia mai abbia voglia di leggerlo: 

IL TUTTOLOGO 

*** 

TRASLOCHI E SGOMBERI 
cantine, solai, alloggi, magazzini, uffici, negozi… 

EDILIZIA GENERALE 
ristrutturazioni, demolizioni, costruzione di cucce per cani (cani o gatti, a seconda dell’occorrenza), tinteggiatura/decorazioni (di interni ed esterni), impianti idraulici/elettrici/quant’altro, pulizie post lavoro incluse nel preventivo, e ancora… 

PICCOLI LAVORI – DOMESTICI E NON 

REGIA, AIUTO REGIA, PRESENZA SCENICA IN TELEVISIONE,
cucitura e scucitura bottoni, riparazione perdite, controllo caldaia, pulizia muffe, estirpazione funghi, svuotamento lettiere, rassettamento cantine, scrostamento ghiaccio dal frigorifero, e ancora… 

COMPRAVENDITE AUTORIZZATE 
(io compro e voi vendete, autorizzandomi ad acquistare) antiquariato, modernariato, design e oggetti preziosi. 

***
PREVENTIVI GRATUITI MASSIMA SERIETÀ E CORTESIA 

SERVIZI A METÀ PREZZO PER COMMITTENZA RAI 

Figo, no?
Ottimo esempio di copywriting.
Chiamami, avrei voluto dirti; so che hai fatto una cazzata a non scegliermi, ma posso essere magnanimo, se si tratta di te. Se ti decidi a chiedermi scusa. 

Dopo la puntata di ieri, ho parlato con mia madre. «È colpa della laurea» ha detto.
«Quella non la metto nei volantini.»
«Perché non serve.» 

«Invece sì. Filosofia significa “amore per il sapere”.» «A che serve, sapere?»
«…»
«Che devi sapere, per lavorare?» 

Ha ragione lei: meno sai e più lavori. 

Lo dimostrano l’uomo col cappellino, la truccatrice daltonica, i vecchi scalzacane incompetenti della RAI; lo dimostri tu, Amadeus, preferendomi persone che non sanno, non hanno mai voluto sapere, figuriamoci se sono in grado di amare – la conoscenza o qualunque altra cosa al suo posto. 

Non ti vorrò più bene; non crederò più alla tua faccia da santone, al sorriso falso e tirato della tua squallida moglie Giovanna. 

Tieniti l’uomo col cappellino, conduci quel tuo traballante programma; remate contro gli scogli, verso il flop più totale, che minaccia di garantire un notevole vantaggio a Mediaset e una gastrite coi controcazzi ai Sommi Vertici della RAI. 

E magari mi sono espresso male, magari le parole che ho usato non hanno trasferito il concetto – la mia bravura, tutte le cose che più o meno so fare, anche se ho dovuto impararle da solo, perché nessuno ha voluto insegnarmele. Un discorso del genere (sulle parole, intendo) l’ha fatto Wittgenstein cent’anni fa, o forse era David Foster Wallace, il Mahatma Gandhi, Chanel Totti, ma chissenefrega!, il punto non è questo, il punto è che, secondo una certa cricca di pensatori, la parola non trasmette il significato. Un po’ come le caramelle alla fragola, che non sanno di fragola ma di qualcosa che ci va vicino – che la fragola, al massimo, te la può far immaginare, e per di più diversa da quella che sarebbe in realtà.

Che vada a farsi fottere, la tale fragola o chi per lei.
Che si fottano tutte quante le caramelle.
Se la fragola l’hai provata, il sapore lo riconosci anche succhiando una caramella, annusando la parvenza di fragola, la promessa fugace di fragola, il Simulacro Tale Suprema Fragola o come cavolo vogliamo chiamarlo; e non serve mangiarsi le fragole del contadino per afferrare il concetto di fragola in sé

Sto dando i numeri?
Non lo so più.
Mi sento come una succosissima fragola scambiata per volgare caramella. L’uomo col cappellino è caramella allo stato puro, è zucchero e colorante rosa, ma ve ne accorgerete presto. E a quel punto, non ci sarò. Non potrete più chiamarmi, perché mi sono riappropriato dei volantini che ho infilato in ogni buca della RAI. Vi pentirete di non avermi scelto, ma per non vivere di travianti illusioni avreste dovuto studiare Platone, le ombre, il mito della caverna, e sfortunatamente è troppo tardi, come succede nei film, e quindi attaccatevi… avrete capito a cosa. 

Ti saluto, Amadeus.
Ti lascio con un ultimo pensiero.
Con te avrei fatto l’amore, ma tu mi hai costretto a imbracciare il fucile. Cioè, sia chiaro: sto parlando per metafore. Avrei fatto l’amore in senso puramente platonico, assolutamente non‐biblico, come avrai capito a dispetto delle parole che ho usato. 

Le parole non sono sufficienti a esprimere quello che sentiamo, ma ci vanno vicino, ed è questo che conta. Qualunque cosa che ci distolga da un perfetto e assoluto niente. 

Mi dispiace sia finita così.
Non è stato bello non conoscerti.
A far data da oggi, che non so che giorno sia, non avrai più notizie del sottoscritto.
Per sempre tuo, con infinita dolcezza 

Roberto, lUomo in Affitto
(il fan più sconsolato di Torino) 

ARTICOLO n. 11 / 2023

METODI MAESTRI AMICI

Intervista di Eloisa Morra

A ridosso della nuova edizione di Indagini su Piero (Adelphi, 2022) ho avuto il piacere di intervistare Carlo Ginzburg, storico di fama, su metodi e interlocutori che hanno segnato la sua traiettoria di ricerca. Nato a Torino nel 1939, Ginzburg è a oggi uno degli intellettuali italiani più riconosciuti all’estero (ha insegnato a lungo alla UCLA, e fino al 2010 ha tenuto la cattedra di Storia delle Culture Europee alla Scuola Normale). Merito di una straordinaria erudizione unita alla capacità di verticalizzare i problemi traducendoli in uno stile impeccabile, che riverbera gli stimoli d’una vita passata tra i libri. Leggere Carlo Ginzburg è un’esperienza che esige lettori disposti a confrontarsi con i propri limiti: i suoi saggi avanzano per intuizioni fulminee, mettendo in contatto tra loro momenti apparentemente distanti della storia della cultura, con risultati sempre sorprendenti. Ma rileggendo s’intende che i ‘clic’ del connaisseur sono conseguenza d’una capillare esplorazione di archivi, biblioteche e della consapevolezza costruttiva di cui si diceva: ne sono prova raccolte quali Occhiacci di legno e La lettera uccide e le monumentali analisi comparate di Storia notturna e Nondimanco. La capacità diagnostica nell’unire l’infinitamente piccolo all’infinitamente grande richiama le architetture di Auerbach, Gombrich, Orlando, Starobinski, ma con un ulteriore quid di versatilità. Senz’altro diversificati tra loro — si è occupato di processi per stregoneria e di casistica, di straniamento e di Picasso, della metodologia di Aby Warburg e delle fallacie del processo Sofri — gli oggetti di studio di Ginzburg possono essere letti come ordito d’un tappeto la cui cifra consiste nell’indagine della relazione tra caso e anomalia. Che il suo lavoro sia decisivo lo prova la capacità di oltrepassare i confini disciplinari (e gli angusti confini nazionali): storici dell’arte, italianisti, storici della lingua, antropologi di tutto il mondo hanno tratto e ne traggono tuttora linfa vitale. Chiunque voglia avvicinarsi al piacere della ricerca – “l’euforia dell’ignoranza” data dall’approcciarsi a un argomento di cui si sa poco per approfondirlo sempre più, diventandone quasi posseduti – dovrebbe leggere i suoi libri.

Eloisa Morra: Complice un occhio alla destinazione della conversazione inizierei da un’occasione esterna, la ripubblicazione di Indagini su Piero — con una nuova postfazione e un apparato iconografico arricchito — e delle sue opere per i tipi di due case editrici assai diverse da Einaudi, Adelphi e Quodlibet. Edizioni ampliate e “problematiche” (nel senso che mettono in luce ipotesi scartate, dubbi propri di ogni ricerca), che oltre a porre di fronte al pubblico il cantiere aperto dei suoi studi tracciano un’autobiografia intellettuale. Cosa l’ha spinta a questa scelta?

Carlo Ginzburg: L’idea della ripubblicazione — anzi, di nuovi libri alternati a volumi già editi, corredati di nuove postfazioni, un genere che mi è molto congeniale — nasce dall’incontro e dall’amicizia con Roberto Calasso. Quando negli anni Ottanta stavo lavorando al mio libro sul sabba, Storia notturna, Calasso mi chiese di pubblicarlo con Adelphi; dopo qualche esitazione decisi di pubblicarlo con quella che era da sempre la mia casa editrice, cioè Einaudi. Quando, anni più tardi, Einaudi venne comprata da Berlusconi, ne uscii (anzi, uscimmo in due: l’altro era Corrado Stajano). Dopo un periodo di lavoro con Feltrinelli decisi, d’accordo con Calasso, di ripubblicare con Adelphi Storia Notturna (2017), che aprì la serie dei libri già editi; tra i libri nuovi si sono susseguiti Paura reverenza terrore (2015), Nondimanco (2018) e più recentemente La lettera uccide (2021), che raccoglie alcuni saggi apparsi solo in inglese e tradotti da me, più un paio di inediti. 

E.M. Da dove nasce invece la richiesta di Quodlibet?

C.G. Dal loro interesse, e da un dato materiale: alcuni dei miei libri erano ormai fuori catalogo. Abbiamo pubblicato Giochi di pazienza, con due postfazioni (stavolta separate, a differenza del testo) una mia e una di Adriano Prosperi, e una versione ampliata di Occhiacci di legno, in cui le riflessioni sulla distanza sono diventate dieci

E.M. Indagini uscì nel 1981 come primo numero della collana “microstorie” Einaudi: ha formato più generazioni di studiosi, oltre ad avere una ricezione straordinaria. Negli incontri e presentazioni recenti ha percepito la presenza di un nuovo pubblico di lettori?

C.G. Senza dubbio, questo era lo scopo principale: trovare nuovi lettori. 

E.M. La storia dell’arte è stata cruciale nella sua traiettoria di ricerca, e non penso solo ai temi ma piuttosto ai metodi e agli interlocutori. Le Indagini nascono negli anni in cui scriveva il saggio su Centro e periferia con Enrico Castelnuovo, cui ha dedicato anche un saggio recente, Piccole differenze. Ekphrasis e connoisseurship (2016, poi 2021). Il rapporto con Castelnuovo ha cambiato il suo rapporto con la storia dell’arte?

C.G. Castelnuovo è stato un amico carissimo; da lui ho imparato molto, ma non mi pare che abbia cambiato il mio interesse per la storia dell’arte e i suoi metodi, che era già molto intenso. Avevo già scritto il saggio Da Warburg a Gombrich (del ’66, poi incluso in Miti emblemi spie), e nutrivo una forte passione per la storia della pittura (da ragazzo volevo diventare pittore, anni dopo volevo diventare storico dell’arte: non sono diventato né l’uno né l’altro). Quando uscì Indagini su Piero vari storici dell’arte lo criticarono, in qualche caso aspramente. Qualcuno sostenne che non mi interessavo ai fatti artistici: una sciocchezza. Successivamente Castelnuovo m’invitò a scrivere insieme a lui il saggio “Centro e periferia” per la Storia dell’arte italiana Einaudi (1979, poi 2019): un’esperienza straordinaria (e straordinariamente divertente). 

E.M. Nel saggio sull’importanza del conoscitore dedicato a Castelnuovo indicava Michael Baxandall tra i pochi storici dell’arte al di fuori dell’ambito italiano sensibili alla lezione di Longhi (anche per l’attenzione alla stratificazione linguistica, al linguaggio delle botteghe). Mi parla del suo rapporto con Baxandall?

C.G. Conobbi Baxandall a Londra, al Warburg, dove trascorsi un anno (1967-’68). Diventammo amici; ricordo fitte conversazioni con lui, e una bellissima conferenza che sarebbe poi confluita nel saggio che chiude Giotto and the Orators (Giotto e gli Umanisti). Baxandall mi riporta a Piero della Francesca: penso al capitolo di Painting and Experience (Pittura e esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento) in cui si analizza un particolare degli affreschi di Arezzo (il baldacchino visto di scorcio che sovrasta Cosroe, sul punto di essere decapitato). Baxandall ricostruisce la reazione dei mercanti aretini committenti di Piero attraverso un’esperienza sociale (una nozione che è al centro del suo libro): la lettura della pagina di un Trattato d’abaco dedicata alla misurazione di una botte. A questo punto si scopre – un colpo di scena magistrale — che l’autore di quel Trattato d’abaco era per l’appunto Piero. Ma anche se non fosse stato Piero l’argomentazione avrebbe funzionato lo stesso, perché il Trattato d’abaco rinviava comunque al contesto culturale e sociale dei committenti di Piero. 

E.M. Che cosa pensa dei visual studies

C.G. La nozione di visual studies mi pare troppo ampia, e troppo generica; trovo più interessante ritornare sul lavoro del conoscitore, per esplorarne le ricchissime implicazioni. Su questo tema ho scritto recentemente, oltre a Piccole differenze, un saggio intitolato Storia dell’arte da vicino e da lontano.  

E.M. Lavorando in Nord America ci si rende conto di quanto quella radice longhiana — anche continiana, della critica delle varianti — non sia stata per nulla recepita. In alcuni casi addirittura queste due figure non si conoscono proprio (nell’insegnare un corso su fatto e finzione ho inserito Anna Banti in programma, e menzionando Longhi mi sono resa conto che gli studenti non l’avevano mai sentito nominare). In quel saggio, Piccole differenze, accenna alla difficoltà di tradurre il linguaggio di Longhi; e forse il suo legame col mercato potrebbe aver generato diffidenza.

C.G. Su quest’ultimo punto non sono d’accordo: il legame di Berenson col mercato non ha certo impedito la diffusione dei suoi scritti. Ma nel caso di Longhi la difficoltà di tradurre il suo linguaggio ha costituito un ostacolo: e lo stesso è avvenuto con Contini. Nell’Éloge de la variante (In Praise of the Variant. A Critical History of Philology) Bernard Cerquiglini ha ignorato gli scritti di Contini (fondamentali) sulle varianti.

E.M. Tornerei sui due maggiori elementi di novità di Indagini su Piero in Adelphi, che nasce come reazione e confutazione della cronologia di Longhi. Il primo è l’apparato iconografico, davvero straordinario, che permette di seguire e verificare passo passo le sue ipotesi, in modo più perspicuo rispetto alle precedenti edizioni Einaudi: come avete lavorato? Nella Postfazione lancia invece una sfida agli attuali storici dell’arte, rovesciando la cronologia tra la Resurrezione di Piero e quella di Andrea Del Castagno. Ha ricevuto reazioni su questo aspetto?

C.G. Il primo nasce dal lavoro fatto insieme a Francesca Savastano di Adelphi, redattrice bravissima, che non smetterò mai di ringraziare; la seconda dalla necessità di rimettere in discussione alcuni dei risultati delle mie ricerche (già le precedenti edizioni includevano varie appendici) e di presentare nuove ipotesi. Longhi aveva sostenuto una dipendenza della Resurrezione di Andrea Del Castagno (da lui chiamato sprezzantemente Castagnaccio, soprannome che alludeva forse alla secchezza del segno) da quella di Piero. In realtà è vero l’inverso: Piero aveva visto l’affresco di Del Castagno, traendone nutrimento per andare in tutt’altra direzione. Non ho avuto ancora reazioni dagli addetti ai lavori: ma l’approfondimento di questo rapporto mi pare assolutamente necessario. 

E.M. Molti libri di Longhi nascono come commenti o reazioni a mostre. Mi chiedevo se le era mai capitato di vedere in particolare una mostra, un allestimento che le suggerisse, magari, la scrittura di un saggio.

C.G. Credo che questo sia successo, ma a decenni di distanza, con la Flagellazione. Perché l’ho vista la prima volta nel 1953 (avevo 14 anni), in una mostra di quadri restaurati dall’Istituto Centrale del Restauro. Non mi sarei mai immaginato che avrei continuato a occuparmi di quel quadro per decenni.  

E.M. Tornando invece alla collana “microstorie”, rileggevo il suo articolo “Microstoria: due e tre cose che so di lei” (1994) dove sottolineava, appunto, l’importanza della scala.

C.G. Lì facevo riferimento a un saggio di Jacques Revel, da lui poi ha raccolto in un volume intitolato per l’appunto Jeux d’échelles. La micro-analyse à l’expérienceAl plurale: il rapporto tra “scale diverse” visto come caratteristica della microstoria.

E.M. L’idea di scala/scale diverse è legata anche alla nozione di esperimento, termine che ha usato più volte in La lettera uccide. Una scala ridotta permette la possibilità di estrarre soltanto alcuni elementi in relazione a un problema, per poi in futuro ampliare o generalizzare. Quanto ha contato in questo senso che lei abbia avuto un nonno come Giuseppe Levi, biologo legato alla scienza sperimentale e maestro di tre premi Nobel?

C.G. Penso che questo abbia avuto una grande importanza. Il prefisso “micro” della parola “microstoria” rinvia al microscopio, ossia allo sguardo analitico, non alle dimensioni reali o simboliche dell’oggetto della ricerca. Ma per me il microscopio, preso alla lettera, è legato a mio nonno, Giuseppe Levi: una figura che ha contato moltissimo da ogni punto di vista, affettivo e intellettuale. (In un convegno a lui dedicato, ho descritto le reazioni che ebbi quando – avevo dieci anni – m’invitò nel suo laboratorio a guardare attraverso la lente di un microscopio). Ora, nella microstoria, ciò che consente di passare dall’esame analitico basato su una serie di dati alla generalizzazione è per l’appunto l’esperimento. Come mi è capitato di dire più volte, al progetto collettivo che è stato la microstoria io sono arrivato attraverso lo studio di casi. Il termine “caso” ricorre alla fine del mio primo saggio pubblicato, Stregoneria e pietà popolare (1961), basato su un processo di stregoneria del 1519 contro una contadina modenese, Chiara Signorini. Alla fine del saggio scrivevo: «Esso è in grado di gettare qualche luce sulla natura del rapporto, che si concretava drammaticamente nel processo, tra streghe e inquisitori. Anche da questo punto di vista il caso di Chiara Signorini, pur nei suoi aspetti irreducibilmente individuali, può assumere un significato in qualche modo paradigmatico». Quando, anni fa, ho riletto queste frasi ho pensato che il termine “paradigmatico” riecheggiasse il grande libro di Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Ma mi sbagliavo: il mio saggio uscì nel ’61; il libro di Kuhn nel ’62.

E.M. Conclusioni analoghe dunque, ma in autonomia.

C.G. Diciamo che usavo il termine “paradigmatico” nel senso di “esemplare”: uno dei tanti significati con cui Kuhn lo ha usato nel suo libro. Ma quello che mi colpisce retrospettivamente è l’importanza che attribuivo a un caso definito anomalo, e però al tempo stesso esemplare. Quest’intreccio è qualcosa che ha accompagnato la mia traiettoria di ricerca fino ad oggi. Alla microstoria sono arrivato attraverso lo studio di casi. In un saggio intitolato Il caso, i casi ho spiegato come il “caso”, nei due sensi del termine (in inglese, case e chance) mi abbia portato a studiare la casistica, che è al centro del mio libro Nondimanco.

E.M. Tornando ai primissimi saggi, quanto ha contato il magistero di Delio Cantimori, soprattutto in relazione alle sue idee sulla storia della mentalità, della cultura?

C.G. Senza l’insegnamento di Cantimori il mio percorso di ricerca sarebbe stato completamente diverso, e infinitamente più povero. Penso ai suoi libri, ai suoi saggi, e prima ancora ai suoi seminari: un esempio straordinario di “lettura lenta” (la definizione della filologia data da Nietzsche). ‘Storia della mentalità’ era un’etichetta allora era in voga. Poi però ne ho preso le distanze: nella prefazione alla ristampa de I benandanti (1973) sottolineai che avevo evitato la nozione di mentalità collettiva, concentrandomi su uomini e donne con nome e cognome. Si trattava di una presa di distanza rispetto alla generazione delle Annales successiva a quella dei fondatori, Marc Bloch e Lucien Febvre. Ma a spingermi in quella direzione c’era anche l’esempio di Cantimori.

E.M. Cambiando versante, mi interessa un parere per chi si trova a insegnare in contesti universitari dove la identity politics è dominante; colpisce nel suo lavoro la continua dialettica tra il ridar voce alle vittime da un lato, dall’altro l’estrema coscienza della ‘distanza’, della necessità della filologia.

C.G. Ho scritto un saggio che si chiama Our Words and Theirs, ora in La lettera uccide, in cui ho cercato di sviluppare la dicotomia tra etic ed emic proposta da Kenneth Pike (linguista, antropologo e missionario protestante): due termini riferiti, rispettivamente, alle categorie degli osservatori e alle categorie degli attori. Rileggendo Pike attraverso Bloch ho sostenuto che le domande etic da cui gli storici partono sono sempre anacronistiche (così come sono etnocentriche le domande etic da cui partono gli antropologi): ma le une e le altre possono essere riformulate attraverso un dialogo con le categorie degli attori (emic). L’esaltazione dell’anacronismo da parte di studiosi francesi come Nicole Loraux, Georges Didi-Huberman e Jacques Rancière confonde l’anacronismo (inevitabile) delle domande con l’anacronismo delle risposte, che trasforma lo storico in un ventriloquo. Per quanto riguarda termine “identity”, penso che abbia un valore emic ma non etic: in altre parole, non ha nessun valore analitico. Oggi è soprattutto un’arma, per tracciare dei confini, o dei muri.

E.M. Passiamo al rapporto con la letteratura (immagino potremmo aprire un lungo capitolo). La mia prima curiosità è legata allo stile: è interessante come non si limita ad analizzare dei problemi, ma anche a raccontarli, cioè a rendere visibile il percorso, anche le difficoltà e gli errori che l’hanno portata ad avvicinarsi a quella particolare serie di rapporti. Spesso a lezione in Normale menzionava Marc Bloch come punto di riferimento anche stilistico: ma al di là di Bloch e di altri studiosi (anche oltre i confini della ricerca storica), chi l’ha aiutata nel trovare una sua voce, così riconoscibile? Non parlo solo di strutture narrative ma di giri di frase, ritmo, ecco.

C.G. L’idea di rendere visibili le impalcature che hanno reso possibile l’edifico della ricerca viene dalla letteratura del ‘900: una nozione abbastanza ampia da includere Proust e Brecht. Se invece la domanda verte sul ritmo, allora penso di aver cominciato a imparare da Pinocchio. Calvino, in un’intervista (forse l’ultima sua) rilasciata a Maria Corti e pubblicata in “Autografo”, parlò con ammirazione dello stile di Pinocchio, che definì, se non ricordo male, “magro come un chiodo”. Da Pinocchio ho imparato moltissimo: il ritmo, la punteggiatura, la concisione. Per me è stato veramente un testo fondamentale.

E.M. Parlando di Calvino mi interessa un caso specifico, la pubblicazione delle Fiabe italiane nel ’57. E, ecco, lei aveva 18 anni e quindi immagino che l’abbia vissuta.

C.G. Le ho trovate straordinarie, non c’è dubbio. Assolutamente straordinarie.

E.M. Mi interessa, appunto, l’attenzione di Calvino per l’aspetto morfologico della fiaba. Secondo lei ha avuto una influenza (non mi piace questa parola, ma la uso lo stesso) anche sul suo lavoro? Ecco.

C.G. Ho letto Propp molto presto, a cominciare da Le radici storiche dei racconti di fate, uscito nella collana viola di Einaudi. Come ho scoperto anni fa, era stato tradotto per consiglio di Franco Venturi, allora attaché culturale a Mosca. Per formazione, orientamento e interessi Venturi era lontanissimo da Propp. Però colse immediatamente il grandissimo valore intellettuale di quel libro e propose di tradurlo. Credo che sia stata la prima delle pochissime traduzioni di quel libro. Mentre Morfologia della fiaba molto più tardi venne tradotta in molte lingue ed ebbe una grande eco internazionale, Le radici storiche – se non erro, la tesi discussa pubblicamente da Propp – ebbe scarsa risonanza. Calvino fu spinto verso le fiabe italiane anche da quel libro, e più in generale dal rapporto con la collana viola diretta da Pavese.

E.M. Mi concentrerei sul rapporto umano, intellettuale con Calvino, forse una delle prime di cui abbiamo parlato: che impatto ha avuto? 

C.G. Com’è noto, Calvino era molto amico di mia madre. Diventai anch’io suo amico, nonostante la differenza di età. Da lui, dalla sua straordinaria intelligenza ho imparato moltissimo. Gli ho voluto molto bene. Il dialogo tra noi si sviluppò anche grazie a Gianni Celati, che insieme a Calvino aveva lanciato un progetto di rivista mai realizzato (Ali Babà). Calvino scrisse una bella recensione al libro Crisi della ragione, in cui era incluso il mio saggio SpieRadici di un paradigma indiziario. Alla memoria di Calvino e di Arnaldo Momigliano History, Rhetoric and Proof: una serie di lezioni che avevo fatto a Gerusalemme. La versione italiana, un po’ diversa, s’intitola Rapporti di forza.

E.M. Rileggendo l’ultimo Calvino — Sotto il sole giaguaro, Prima che tu dica pronto: insomma, l’ultimissimo — mi stavo chiedendo: è possibile ipotizzare che abbia assorbito in quegli ultimi lavori le radici del suo paradigma indiziario?

C.G. Non saprei dire. In quella recensione a Crisi della ragione parlò in maniera generosa e divertita dell’ipotesi che avevo fatto sull’origine del racconto a partire dalla traccia che non c’è, paragonandomi a un “cacciatore neolitico”. Nel nostro dialogo questo elemento giocoso era ben presente. E forse qualche traccia di quello che lei diceva si trova nelle Lezioni americaneNe parlammo a lungo, passeggiando a Roma. Fu il nostro ultimo incontro. 

E.M. Quindi, più sul versante teorico che non su quello narrativo.

C.G. Narrativo-teorico, diciamo. La letteratura come un mondo condiviso: la teoria della letteratura mi appassiona. Spitzer, Auerbach, sono stati per me autori importantissimi.

E.M. Certo, il dettaglio rivelatore. E invece mi veniva in mente un’altra figura, non so se si possa definire di fratello maggiore (comunque di certo un interlocutore), Cesare Garboli.

C.G. Anche lì c’è stato un rapporto di amicizia molto stretto e un dialogo molto fitto, che  riemerge per esempio nel saggio Piccole differenze. Ekphrasis e connoisseurship, dove riprendo il saggio di Garboli sulle ‘equivalenze verbali’ di Longhi. È una conversazione che continua – purtroppo solo metaforicamente.   

E.M. Ripensando a quel suo saggio è interessante il richiamo a Garboli a proposito della traduzione, cioè dell’ironia di Longhi sull’impossibilità della traduzione. Stavo poi pensando anche il fatto che all’inizio dello stesso saggio lei fa riferimento anche a dei modi “non proficui” di pensare al rapporto tra testi e immagini, ovvero a delle teorie che hanno considerato le immagini come se fossero dei testi da leggere.

C.G. A mio parere l’espressione “leggere le immagini” va evitata, perché impedisce di cogliere le differenze ineliminabili tra immagini e testi: prima tra tutte, la natura affermativa delle immagini. In un altro saggio incluso in Occhiacci di legno, intitolato “Idoli e immagini”, scritto per una miscellanea in onore di Ernst Gombrich, ho ricordato (e riprodotto) il famoso quadro di Magritte, “Ceci n’est pas une pipe”. Se non ci fosse quella didascalia, negare ciò che viene rappresentato (la pipa) sarebbe impossibile. Le immagini, per loro natura, non possono negare. Su questo punto si può e si deve continuare a riflettere.

E.M. Si, perché il discorso su questo è infinito; non c’è fine al discorso sulla pittura. Tornando invece agli interlocutori, mi aveva colpito e anche commosso il suo ricordo di Celati a Bologna, nel gennaio scorso. Ci parla delle convergenze tra le sue ricerche e gli interessi di Celati, in Finzioni occidentali?

C.G. C’erano tra noi in quel periodo – siamo all’inizio degli anni ’70 – rapporti di grande amicizia. A quel punto s’inserì quel progetto di rivista mai realizzata, che era forse prima ancora di Celati che di Calvino. Ci furono incontri molto fitti, e scambi di lettere in gran parte pubblicati nel numero Ali Baba di “Riga”. Poi Gianni si trasferì in Inghilterra, e i nostri rapporti diventarono, purtroppo, molto più radi. 

ARTICOLO n. 10 / 2023

LOVE(LACE) ACTUALLY

Traduzione di Chiara Spallino Rocca

Pubblichiamo un’anticipazione dalla raccolta di saggi 12 bytes da oggi in libreria per Mondadori (che ringraziamo per la disponibilità). Quando creeremo forme di vita non biologiche, saranno a nostra immagine e somiglianza? O accetteremo lopportunità, più unica che rara, di rifare noi stessi a loro immagine e somiglianza? In questo saggio Jeanette Winterson si sofferma sulla figura di Ada Lovelace, “la prima informatica della storia”.

All’inizio del futuro c’erano due giovani donne: Mary Shelley e Ada Lovelace.

Mary era nata nel 1797, Ada nel 1815. 

Le due giovani donne irruppero nella storia durante i primi anni della Rivoluzione industriale. L’inizio dell’Era delle Macchine. 

Erano entrambe figlie del loro tempo, come lo siamo tutti, ed entrambe sono state torce lanciate attraverso il tempo, che hanno gettato luce sul mondo del futuro, il mondo che è oggi il nostro presente. Un mondo che è destinato a cambiare la natura, il ruolo dell’Homo sapiens e, forse, anche a mettere in discussione la sua supremazia. È un ciclo che si ripete – sempre le stesse battaglie sotto altre spoglie –, ma l’IA è un fenomeno nuovo nella storia dell’uomo. Ciascuna a suo modo, quelle due giovani donne l’avevano previsto. 

Mary Shelley scrisse il romanzo Frankenstein a diciott’anni. In questa storia, il medico-scienziato Victor Frankenstein costruisce una creatura umanoide sovradimensionata, utilizzando parti del corpo umano e l’elettricità. 

L’elettricità, intesa come forza che poteva essere sfruttata per i nostri fini, non era stata ancora compresa fino in fondo, né utilizzata a scopi pratici. 

Se leggiamo Frankenstein oggi, ci rendiamo conto che non è solo uno dei primi esempi di romanzo femminile, né solo un romanzo gotico, e nemmeno solo un romanzo sui bambini senza madre o sull’importanza dell’istruzione universale. Non è solo fantascienza, non c’è solo il mostro più famoso del mondo: Frankenstein è un messaggio in una bottiglia.

Apritelo.

Siamo la prima generazione, oltre duecento anni dopo l’uscita del libro, che sta cominciando a creare nuove forme di vita. Come la creatura di Victor Frankenstein, le nostre creazioni digitali dipendono dall’elettricità, ma non dall’assemblaggio di parti del corpo decomposte prelevate dal cimitero. La nostra nuova intelligenza, robotica o immateriale, è costruita a partire dagli zeri e dagli uno del codice binario. 

Ed è qui che entra in scena Ada, la prima programmatrice di computer al mondo, di un computer che non era ancora stato costruito. 

Mary e Ada intuirono che gli sconvolgimenti della rivoluzione industriale non avrebbero portato solo allo sviluppo della tecnologia delle macchine e alla sua applicazione, ma avrebbero comportato un cambiamento decisivo nella definizione di ciò che significa essere umani. 

Victor Frankenstein: «Se potessi dare vita alla materia inanimata…».

Ada: «Una funzione esplicita… elaborata dalla macchina… senza essere stata prima elaborata da teste e mani umane». 

Mary e Ada non si incontrarono mai, ma le accomunava il rapporto con un personaggio fondamentale dell’epoca. 

Lord Byron era a quei tempi il poeta più celebre d’Inghilterra. Era affascinante, ricco e giovane. Perseguitato dagli echi dello scandalo del suo divorzio, nel 1816 progettò una vacanza sul lago di Ginevra, con il suo grande amico, il poeta Percy Bysshe Shelley, la moglie di lui, Mary, e la sorellastra di Mary, Claire Clairmont, diventata la sua amante. 

La vacanza fu un successo, finché non iniziò a piovere a dirotto e i quattro giovani si ritrovarono chiusi in casa. Per alleviare la noia di quelle giornate, Byron propose che ciascuno scrivesse un racconto sul sovrannaturale. Fu così che Mary Shelley iniziò a scrivere la cupa profezia fradicia di pioggia che sarebbe diventata Frankenstein

Byron non riusciva a pensare a una storia. Era irritabile e assorto nei suoi pensieri, in parte per via delle battaglie legali per il divorzio e per gli accordi sulla custodia della figlia appena nata. 

Scrisse lettere su lettere riguardo l’educazione della bambina, ma aveva ormai lasciato l’Inghilterra e non vi avrebbe più fatto ritorno. Non l’avrebbe mai più rivista. 

La bambina si chiamava Ada. 

La madre di Ada, Annabella Wentworth, era una cristiana devota e questo era uno dei tanti motivi per cui il suo matrimonio con Byron, che era bisessuale, non avrebbe mai potuto funzionare. 

Annabella era una donna ricca e altolocata, ma, all’epoca, donne e bambini erano sotto la giurisdizione del parente maschio più prossimo. Anche dopo la firma dell’atto di separazione, quel che Byron desiderava per la figlia aveva un valore legale. Nelle lunghe disposizioni che aveva lasciato scritte sull’istruzione della piccola Ada, insisteva soprattutto sul fatto che non dovesse essere distratta dalla poesia. 

La madre era sostanzialmente d’accordo: l’ultima cosa che voleva al mondo era avere a che fare con un’altra indole byroniana. Poiché lei stessa si dilettava di matematica, dimostrando anche di avere un certo talento, aveva assunto degli insegnanti per istruire la piccola Ada, con il proposito di correggere qualsiasi inclinazione poetica ereditata e di diluire gli effetti del sangue byroniano. Non per niente Byron era stato definito “pazzo, cattivo e pericoloso da frequentare”. 

Si dà il caso che la piccola Ada fosse appassionata di numeri. Viveva in un’epoca in cui l’istruzione, anche per le donne più ricche, contemplava al massimo la lettura, la scrittura, lo studio del pianoforte, e, in qualche caso, l’apprendimento del francese o del tedesco. Le donne non frequentavano la scuola. 

Mary Wollstonecraft, la madre di Mary Shelley, si era dedicata anima e corpo alla stesura della Rivendicazione dei diritti della donna (1792), un saggio rivoluzionario sull’importanza dell’istruzione per le donne, e non è un caso che Victor Frankenstein non riesca a istruire il suo mostro, costretto a istruirsi da solo. Anche le donne dell’epoca dovevano imparare da sole il latino e il greco, la matematica e le scienze naturali, tutte le materie “maschili” che i loro fratelli potevano aspettarsi di apprendere a scuola. Si riteneva che le donne non avessero l’intelligenza necessaria per studiare seriamente e, quand’anche l’avessero avuta, la troppa concentrazione le avrebbe fatte impazzire, ammalare o diventare lesbiche. 

Durante la vacanza sul lago di Ginevra, Mary Shelley passò molto tempo a discutere con Byron di questioni di genere. Byron si dispiaceva perché, al posto del “ragazzo glorioso” che aveva desiderato come figlio, gli era capitata in sorte una ragazza gloriosa. Non visse abbastanza a lungo per vederla diventare un genio della matematica. 

Augustus De Morgan, uno degli insegnanti di matematica di Ada, temeva che il troppo studio avrebbe minato la sua costituzione delicata. Al tempo stesso, la riteneva più dotata e capace di tutti gli allievi (leggi “ragazzi”) a cui aveva insegnato, e, in una lettera alla madre di lei, scrisse che sarebbe potuta diventare “una ricercatrice matematica di non comune ingegno, forse addirittura di prima grandezza”. 

Povera Ada. Le era stato ordinato di studiare matematica per non cadere preda della follia poetica e poi le venne detto che rischiava di cadere preda della follia matematica.

Ma a lei non importava: sin dai primi anni di vita sapeva quel che voleva.

A diciassette anni fu invitata a una festa al numero 1 di Dorset Street, a Londra. Era la casa di Charles Babbage. 

Babbage era un uomo ricco di famiglia, intelligente ed eccentrico, e aveva convinto il governo britannico a erogargli un finanziamento di diciassettemila sterline (equivalenti a un milione e settecentomila sterline di oggi) per costruire quella che lui aveva battezzato la Macchina Differenziale. Si trattava di una addizionatrice a manovella progettata per calcolare e stampare le tavole logaritmiche utilizzate dagli ingegneri, dai marinai, dai contabili, dai costruttori di macchine e da chiunque volesse fare calcoli in modo rapido utilizzando tavole prestampate. 

La sua idea, come altre idee che innescarono molte innovazioni della rivoluzione industriale, era di meccanizzare il lavoro ripetitivo. All’epoca, il termine “computer” era usato per riferirsi agli addetti umani che svolgevano le noiose operazioni di tabulazione aritmetica che Babbage immaginava (giustamente) potessero essere svolte dalla sua Macchina Differenziale. 

Babbage era professore lucasiano di matematica a Cambridge, carica ricoperta anche da Isaac Newton prima di lui e da Stephen Hawking in seguito (e, tra parentesi, fino a oggi mai ricoperta da una donna). Oltre che dai numeri, Babbage era affascinato dagli automi meccanici. Costruire una macchina calcolatrice fatta di ingranaggi e rotelle era l’ideale per lui. 

E, come poi si scoprì, anche per Ada. 

Per essere invitati a una festa di Babbage si doveva essere belli, intelligenti o aristocratici. Essere straricchi non bastava. Ada (grazie a Dio) non era una bellezza secondo i canoni dell’epoca, ma era intelligente e suo padre (che a lui facesse più o meno piacere) era pur sempre Lord Byron. 

A diciassette anni, Ada fu ammessa in quel circolo. 

Una sezione funzionante della Macchina Differenziale era in bella vista nel salotto di Babbage. Ada ne rimase affascinata, e, mentre la festa si animava attorno a loro, Ada e Babbage si misero a giocare con la Macchina. 

Babbage era così entusiasta che le fece vedere i suoi progetti. 

All’improvviso, il genio quarantenne, un uomo complicato e difficile, che rifuggiva dalla conversazione mondana e odiava i suonatori d’organetto, aveva trovato un’amica che comprendeva il suo lavoro, sia dal punto di vista pratico, sia da quello concettuale. 

Mentre Ada continuava gli studi, i due cominciarono a scambiarsi lettere. Se sia vero o meno che l’incontro tra di loro abbia ispirato Babbage a continuare la sua ricerca, quel che è certo è che quell’anno lui cominciò a lavorare su una nuova macchina calcolatrice, che chiamò Macchina Analitica, il primo computer non umano al mondo. 

Anche se non fu mai costruito. 

Babbage comprese che il sistema di schede perforate utilizzato nel telaio meccanico Jacquard poteva essere usato per far funzionare in modo autonomo una macchina da calcolo. Non c’era bisogno di una manovella. La macchina calcolatrice poteva anche utilizzare le schede perforate per immagazzinare memoria. Si trattò di un’intuizione straordinaria. 

Le schede perforate sono cartoncini rigidi muniti di fori. Nel 1804 il francese Joseph-Marie Jacquard brevettò un meccanismo che permetteva di rappresentare il disegno di un pezzo di stoffa tramite una serie di fori su un cartoncino. Si trattò di un momento di geniale intuizione astratta, più vicino all’universo quantistico-meccanico che al realismo in 3D della Rivoluzione industriale. È logico che Babbage ne colse le implicazioni per l’informatica. In realtà, di logico non ci fu nulla: fu un grande balzo in avanti sul piano mentale per entrambi. 

In un telaio Jacquard è la disposizione dei fori a determinare il disegno. Grazie a questo sistema, il maestro tessitore non doveva più applicarsi per far passare il filo della trama sotto il filo dell’ordito al fine di tessere la stoffa e creare il disegno. È l’ordine dell’ordito e della trama che determina il disegno. Si tratta di un lavoro specializzato ma ripetitivo e, come per molte delle innovazioni della Rivoluzione industriale, la meccanizzazione della ripetizione rese superflua l’abilità umana di pari livello. La meccanizzazione è una sfida ingegneristica, ma la sola ingegneria non è la chiave di volta del telaio Jacquard: il balzo in avanti è immaginare qualcosa di solido e tangibile sotto la forma di una serie di fori (ovvero, come uno spazio vuoto) disposti a formare un disegno. 

Le schede perforate sono state utilizzate nei primi tabulatori commerciali e, successivamente, nei primi computer. Sono rimaste in uso (nella forma di fori su nastro) come programmi informatici, fino alla metà degli anni Ottanta. Babbage non brevettò questa idea: come uomo d’affari non valeva niente. A brevettare il sistema delle schede perforate, nel 1894, fu Herman Hollerith, un imprenditore americanofiglio di un immigrato tedesco. La sua Tabulating Machine Company cambiò nome nel 1924, diventando l’IBM, la sigla di International Business Machine

(Non c’è da stupirsi: che successo avrebbero potuto avere sul mercato prodotti chiamati Macchina Differenziale e Macchina Analitica?) 

Ada era entusiasta dell’idea delle schede perforate. Scrisse: «La Macchina Analitica tesse disegni algebrici proprio come il telaio Jacquard tesse fiori e foglie». 

Ma non fu così, perché Babbage non riuscì mai a costruire la sua macchina, nemmeno ad arrivarci vicino, e così tutti gli ingranaggi a cremagliera, le leve, i pistoni, i bracci, le viti, le ruote dentate, le borchie, le molle e le schede perforate vissero in una sorta di Steampunk vittoriano, dove tutto era massiccio, solido, dimensionale (basti pensare alle ferrovie, alle navi di ferro, alle fabbriche, alle tubature, ai binari, ai cilindri, alle fornaci, al metallo, al carbone), ma, al tempo stesso, era il frutto di un esperimento mentale, di una fantasia. Per Babbage e Ada immaginare ciò che poteva accadere significava che era già accaduto, e, in linea di massima, avevano ragione. Il futuro era stato immaginato, ma un presente troppo pesante ne impediva la realizzazione. Per quanto fosse divertente giocare a costruire un computer a carbone, a vapore, a schede perforate, fatto di tonnellate di metallo, non era quella la risposta all’universo immediato ed elegante di numeri in cui vivevano Ada e Babbage. 

Ma l’eleganza era ancora molto lontana.

ARTICOLO n. 9 / 2023

SUORE CHE SI COMPORTANO MALE

Sono una grande appassionata di titoli dei libri.
Lo sono da sempre, ma in modo particolare da quando i libri li scrivo anche io.

Durante la stesura in cui sono ancora impegnata, mi sono trovata a invidiare moltissimi titoli del passato, pensando a quanto avrei voluto trovarne io di tanto belli (non perdonerò mai Mario Calabresi per essere stato in grado di battezzare un suo magnifico libro e memoir Spingendo la notte più in là, a mio avviso uno dei titoli più belli mai stati scritti e che con invidia ricordo spesso nelle conversazioni con editor e colleghi: «Perché ci affanniamo? Tanto il titolo più bello della storia se lo è aggiudicato lui»).

Grazie a questa mia passione sovrumana per ciò che cattura l’occhio del lettore frettoloso tra gli scaffali, non è raro che mi imbatta spesso in libri dal nome magnetico; nome che mi porta poi all’acquisto a scatola pressoché chiusa di volumi da me mai presi prima in considerazione.

Qualche settimana fa, questa mia mania ha colpito ancora.

Stavo girando per la mia libreria di fiducia, Todo Modo, qui a Firenze, e all’improvviso ho sperimentato di nuovo questo familiare colpo di fulmine letterario.

Tra gli scaffali, con una copertina rossa e bianca che ricorda la prima pagina dei vecchi tabloid d’oltremanica, un titolo mi stava mandando segnali paragonabili a quelli che le sirene di Ulisse lanciavano ai marinai inermi: 

Suore che si comportano male.
Sottotitolo: “Storie di magia, sesso e incendi nei conventi medievali”.
Ho quasi iniziato a sbavare.

L’ho agguantato con velocità in quanto ultima copia in esposizione, mi sono seduta e ho ordinato un bianco mosso per accompagnarmi nella sua prima analisi, quella superficiale, da svolgere comodamente a uno dei tavoli della libreria-bistrot del mio cuore.

La prima cosa che ho notato è che il saggio, scritto da Craig A. Monson e tradotto magistralmente da Luisa Agnese Dalla Fontana, è edito da una mia cara conoscenza, ovvero Il Saggiatore. 

Ho chiamato dunque con prontezza l’editor e curatore editoriale che mi accompagna in questa avventura su The Italian Review, e gli ho comunicato perentoria che, oltre a essere una brutta persona per non avermi mai anticipato nulla su un testo come questo, era mia irremovibile intenzione scriverne un pezzo per la rivista che state or ora leggendo.

Perché le suore?, direte voi.

No, non ho sviluppato un istinto di conversione spirituale, tantomeno desiderio di intraprendere la carriera ecclesiastica (questo per due motivi: sono un’atea anticlericale e sono donna; le donne non vanno fortissimo nella Chiesa Cattolica). Ho avuto bisogno di sfogliare solo per una mezz’ora le pagine per intuire quel che poi avrei confermato con la lettura integrale del saggio: Monson non parla di suore cattive in quanto tali, Monson parla di donne che si ritrovano loro malgrado a essere suore e hanno comportamenti assolutamente normali, ritenuti sbagliati solo dall’imposta clausura.

E questo per me, che sono la Jessica Fletcher degli stereotipi di genere (soprannome coniatomi da Chiara Valerio nel 2021) e che nel mio ultimo memoir (Memoria delle mie puttane allegre, Marsilio, 2022) ho analizzato alcuni legami tra fede, esorcismi e pregiudizi culturali attribuiti al genere femminile, era un piatto troppo ricco per non tuffarmici con entrambe le mani.

Monson, saggista e professore emerito alla Washington University e in precedenza docente con cattedre a Yale e all’Amherst College, ha voluto raccontare una storia tutta italiana del regime di clausura nel periodo compreso tra il 1500 e il 1700. 

Nel 1986, tornando in Italia per un viaggio tra gli archivi fiorentini e soprattutto tra quelli vaticani, Monson ha rintracciato storie di donne e monasteri, di comunità e di vescovi, di famiglie nobiliari e ingenti donazioni. 

Tutta questa mappatura si trasforma in un saggio, a tratti romanzo storico, che racconta alcuni episodi-chiave avvenuti nelle diocesi italiane nel corso dei due secoli presi in analisi, e che ci porta a fare la conoscenza con delle donne ritenute allora cattive, oggi invece da me reputate incredibilmente argute e gelose della loro umanissima natura.

Per comprendere il senso di questa mia ultima affermazione dobbiamo fare il passo indietro che ci permetta di dare una collocazione storica e di costume utile per comprendere i motivi che spingevano le donne, così tante donne, alla vita di clausura.

Per i natanti alla lettura entusiasti nella loro fede, ho delle brutte notizie: sono rarissimi i casi in cui le suore divenivano tali per vocazione.

La clausura era un percorso non interiore, bensì spesso – quasi nella totalità dei casi – imposto.

La scelta di una donna rispettabile – e già qui, il moderno che è in noi sobbalza – non era mai sua. I padri, gli zii, i fratelli sceglievano per lei un destino e la forbice di opzioni non era poi ampia: o il matrimonio, che era a tutti gli effetti una compravendita, o il monachesimo femminile. 

Nel 1200 le suore aumentarono, per questa prassi sociale, in modo smisurato. Nel 1500, soprattutto nella sua seconda metà, i numeri salirono ancora di più. Basti pensare che un motto dell’epoca era “una sola figlia dovrebbe avere marito, le altre dovrebbero avere un muro”, ovvero, in soldoni, la primogenita va in moglie e le altre in convento.

La ragione di questo motto era ben più materiale di quel che si potrebbe pensare: le doti per matrimonio erano ingenti e le famiglie cercavano di risparmiare, dandone in sposa solamente una. Anche i conventi richiedevano beni e denaro per l’ammissione delle novizie, ma la spesa era sicuramente minore rispetto a quella matrimoniale.

La domanda che adesso ci potremmo dunque fare è: ma perché, visto che in ogni caso la famiglia -e per famiglia intendo gli uomini di casa- era costretta a spendere e dividere i propri beni, le donne non maritate non venivano lasciate vivere nelle case paterne?

La risposta ci arriva prontamente da Monson che, raccontando delle abitudini italiane del sedicesimo secolo, ci spiega – a pagina 87 – che il rischio della vita fuori dal convento era troppo alto. No, non stiamo parlando di un pericolo per la vita o la sopravvivenza della donna -ricordiamoci sempre che le novizie venivano da famiglie abbienti – ma di un pericolo morale. Infatti, scrive Monson, «[la donna] per proteggere il proprio onore e quello della famiglia, non usciva mai senza essere accompagnata; i suoi parenti maschi sapevano che era meglio tenerla rinchiusa. In quel modo avrebbe evitato di subire o provocare tentazioni, ma anche di indurre gli altri a pensare che lo stesse facendo, un fatto altrettanto deprecabile».

Gli uomini dunque, per evitare il disonore di una parente violentata o rapita, la chiudevano in convento senza il suo consenso, con la sola colpa di avere un corpo di donna in una società in cui i corpi di donna erano ritenuti oggetti ancor più che oggi.

Questo sistema di leva obbligatoria per la vita monastica vedeva dunque centinaia e centinaia di giovani – usualmente intorno ai 14,15 anni d’età – obbligate a diventare novizie senza però averne la benché minima inclinazione.

E in un regime del terrore e della privazione, della clausura obbligata e della vita cancellata, tra quelle mura sono successi fatti incredibili quanto memorabili, che Monson ci racconta in 300 pagine affascinanti e tragiche. 

Per comprendere infatti la natura delle storie ricostruite e raccontate da Monson, dobbiamo pensare a due elementi fondamentali della natura umana.

Il primo è l’arguzia: le storie delle suore di questo libro sono piene di sagace intelligenza, quel tipo di estro che si sviluppa solo in situazioni di cattività in cui la sopravvivenza è estremamente dura; il secondo è la capacità di creare forme sociali nuove, anche in luoghi in cui spesso le parole sono vietate per lunghissimi periodi (pensiamo alle monache Benedettine e ai lunghi voti del silenzio, per esempio).

In un ambiente ostile perché non voluto e in secoli ricchi di rinnovamento artistico e sociale, vivere dentro a quelle mura diventa per le suore una prova disumana, che le spinge a trovare modi per ribellarsi al limite della genialità e che prevedevano molto spesso la collaborazione delle consorelle, anch’esse vittime di un sistema che non avevano mai scelto. 

Un esempio di questo mio cappello introduttivo ci viene dato dalla vicenda delle canonichesse di San Lorenzo a Bologna, e ricostruito nel primo capitolo del saggio di Monson. Nel 1584 il convento era infatti rinomato per le doti musicali delle suore. Ma l’Inquisizione, in quegli anni, decise di limitare prepotentemente le attività artistiche delle recluse, pensando che il successo delle loro capacità fosse sintomatico di vanità, ergo di peccato.

Le limitazioni – tra cui il divieto assoluto di fare prove o cantare in pubblico, anche durante le funzioni religiose – furono un duro colpo per le giovani donne del San Lorenzo, che provarono in più modi ad arginarle, fallendo sempre e ricevendo più richiami al decoro da parte del vescovato.

Durante l’ottobre di quello stesso anno, la sparizione di una viola dall’aula di musica del convento creò non poco scompiglio. 

Le suore fecero di tutto per ritrovare lo strumento misteriosamente sparito, fino a pregare per ore per avere degli indizi divini.

Dal cielo però tutto tacque. Perciò le sorelle si rivolsero all’unica altra entità soprannaturale capace, secondo loro, di poter risolvere il furto: il Diavolo.

Con una serie di riti satanici – tra cui disegnare grossi cerchi sul pavimento con un coltello e fare divinazione con acqua santa e anelli pagani – le monache provarono a ricevere dei segnali. O forse, come ci suggerisce Monson, a darli a qualcuno di molto terreno.

Infatti non ci volle molto perché la storia uscisse dalle celle e arrivasse alle orecchie dell’arcidiacono. 

Dopo una lunga indagine – durata circa due anni – le sorelle coinvolte nella divinazione satanica vennero scomunicate e quindi rese libere.

Similare fu l’evento incendiario del 1673 al convento San Niccolò di Strozzi. Stavolta non furono scomodate le fiamme dell’inferno, ma quelle del mondo reale.

Il convento era famoso per l’allevamento dei bachi da seta e la produzione dei filamenti grezzi del tessuto pregiato prodotto dalla loro saliva. 

I bachi venivano disposti nel sottotetto del convento, su lunghe stuoie di canneto unte di grasso: un innesto perfetto per uno show quasi pirotecnico. In poche ore il tetto e il convento vennero rasi al suolo dalle fiamme.

Il processo portato avanti dalla Sacra Congregazione mostrò subito come le suore, appena visto del fumo, fossero scappate a gambe levate dalla struttura, non provando neanche per un momento ad arginare l’avanzata demolitrice. 

La fuga fu veloce quanto lunga: le consorelle, infatti, non si fermarono fuori dalla struttura, ma tornarono ognuna nella propria casa natia. 

La cosa puzzò subito di bruciato – perdonatemi, era quasi dovuto – alla Congregazione, che capì che quell’incendio ovviamente doloso fu solo un espediente per la fuga. 

Altre storie di inizio 1500 vedono monache seduttrici (al fine di farsi mettere incinta e quindi svestirsi dai panni della clausura) e travestimenti ingegnosi per fuggire dai conventi per recarsi a teatro o a sentire concerti e canti gregoriani. Insomma, per seguire le sacre – stavolta sì – pulsioni umane, anche le più ingenue, le suore erano disposte a tutto e con incredibile arguzia. 

In quest’ottica di ribellione all’imposizione possiamo dunque rivedere sotto altra luce la storia della monaca più famosa d’Italia, la monaca di Monza, la cui vicenda venne poi romanzata da Manzoni ne I promessi sposi.

Come mi spiegava Marcello Fois a Roma qualche settimana fa, la vicenda monacale ricordataci dal Manzoni era più comune di quel che si pensi. La ribellione era semplicemente manifestazione della imprescindibile natura umana, intrappolata nei corpi delle novizie costrette al voto.

Anche la novella di Boccaccio su Masseto di Lamporecchio, la prima della terza giornata del Decamerone, può essere quindi riletta in ottica differente (Masseto si finge sordomuto per entrare in un convento di monache famose in paese per la loro fame di corpi maschili; la garanzia data dal mutismo del giovane spinge le suore ad accoglierlo tra loro, facendo sesso con lui convinte che il giovane non avrebbe potuto, per la sua condizione, parlarne con nessuno) e sicuramente meno caricaturale.

Gli istinti delle donne, seppur sopiti da una società perfidamente maschilista e controllante, non sono mai stati frenati da regole rigide e prepotenti. 

Certo, la punizione spesso era severa – Monson ci racconta di Cristina Cavazza, monaca del 1700 costretta a 12 anni di isolamento ferreo per essere fuggita dal monastero di santa Cristina a Bologna – e negli anni più duri di psicosi superstiziosa la Chiesa di Roma ha mandato più e più donne al rogo per fatti di natura umana, mai diabolica. 

Eppure, come ci racconta questa raccolta di suore ribelli e geniali, nulla è mai bastato alle donne per arrendersi e smettere di celebrare la propria natura, fosse questa nemica di Dio, dei padri, dei fratelli o della sola, stupida, ignorante superstizione.

Nel riscrivere la storia per dare voce e dignità a vicende come quelle delle monache del sedicesimo e diciassettesimo secolo, i documenti ritrovati e ricomposti da Monson sono preziosi ed emblematici. Uno spaccato brillante di quanto l’estro femminile non sia mai stato sottomesso, neanche dalle mura fredde dei conventi e dal silenzio imposto dagli ordini.

Le suore che si comportano male diventano così delle magnifiche, incendiarie protofemministe disposte a tutto per la dignità di potersi sentire, anche solo per il tempo di una fuga nella notte, libere.

ARTICOLO n. 8 / 2023

LA MEMORIA CANTATA

"Un sopravvissuto di Varsavia" di Arnold Schönberg

In occasione del Giorno della Memoria, pubblichiamo un’anticipazione dal volume di Joy H. Calico, La memoria cantata, edito da Il Saggiatore. Traduzione di Silvia Albesano, a cura di Paolo Dal Molin. Da oggi in libreria.

Un sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schönberg (1947) sembrava fatto apposta per irritare ogni nervo scoperto dell’Europa postbellica. Un brano dodecafonico in tre lingue sull’Olocausto, scritto per un pubblico americano da un compositore ebreo, la cui opera era stata per i nazisti il primo esempio di musica degenerata (entartete). Il compositore in questione era ammirato e vituperato in quanto pioniere della dodecafonia, immigrato negli Stati Uniti e diventato un cittadino americano. Finendo dopo sette minuti circa, Un sopravvissuto era oltretutto troppo breve per occupare la metà di un concerto e al tempo stesso troppo denso di significato per dividere la scena con qualsiasi altra opera. Per tutte queste ragioni, nell’Europa del dopoguerra, la decisione di inserirlo in programma, eseguirlo, recensirlo o comunque di scriverne non è mai stata presa alla leggera. La sua presenza è sempre stata frutto di un disegno ben preciso e le si è sempre attribuito un significato importante. 

Tale significato si è rivelato assai polivalente e di Un sopravvissuto ci si è appropriati per una sorprendente varietà di motivi. Come accade in tutti i casi, anche in questo i significati e gli usi dell’opera sono stati condizionati dal tempo (la prima fase della Guerra Fredda, tra il 1948 e il 1968) e dal luogo (sei paesi differenti nell’Europa postbellica). L’esecuzione di Un sopravvissuto ha potuto dunque simboleggiare un riconoscimento dell’Olocausto o l’intento di commemorarlo, come in Norvegia o indirettamente in Cecoslovacchia; oppure apparire come un’adesione particolare a Schönberg o alla dodecafonia e alla musica modernista in genere, come in Germania Ovest, Austria e Cecoslovacchia. 

Anche l’ostilità verso Un sopravvissuto è eloquente e si manifesta spesso mediante il ricorso a scontati luoghi comuni antisemiti o antiamericani, per esempio nella Germania Ovest e in Austria. Nel blocco orientale, Un sopravvissuto ha svolto la funzione del canarino nelle miniere di carbone politico‐culturali. 

Nei primi anni della Guerra Fredda, la musica di Schönberg fu ufficialmente approvata solo in sporadici momenti di relativa distensione, come nel disgelo. Diversamente, gli attacchi ad personam al compositore e il rifiuto della sua musica rappresentavano la norma, come pure le deleterie manifestazioni di trinceramento. Così, la comparsa di Un sopravvissuto dietro la Cortina di ferro nei tardi Anni Cinquanta è stata un indicatore dell’avanzamento del disgelo in ogni satellite, sebbene anche allora la sua presenza richiedesse una desemitizzazione in nome dell’antifascismo, specie nella Germania Est. 

Un sopravvissuto è stato anche un tramite di diplomazia culturale, per esempio quando i tedeschi dell’Est hanno eseguito la prima polacca a Varsavia. Per queste e molte altre ragioni, la storia delle esecuzioni e della ricezione di Un sopravvissuto nell’Europa postbellica si presta in modo esemplare a fornire le basi per una storia culturale di quel tempo e luogo. 

È anche un’opera che continua a suscitare discussioni, sebbene le critiche siano per lo più circoscritte in termini di gusto e qualità artistica e non riferite al contenuto simbolico. Tali questioni, di fatto, sono state parte della ricezione dell’opera fin dall’inizio. Molti studiosi disapprovano Un sopravvissuto: alcuni lo trovano eccessivo e melodrammatico, sostenendo che i gesti musicali estremamente espressionistici confinano l’Olocausto in cliché da colonna sonora di film hollywoodiano di serie B; altri trovano il coro finale sgradevole, perché indulge alla predilezione del pubblico per una parabola narrativa eroica e salvifica e offre all’ascoltatore una via di scampo; c’è anche chi si sente offeso da quel che percepisce come uno sfruttamento delle sofferenze altrui a fini di intrattenimento. 

Ciò nonostante, per molti motivi, io non rinuncio all’intento di leggere la storia culturale dei primordi della Guerra Fredda attraverso le vicende legate alla sua esecuzione e ricezione. 

In primo luogo, Un sopravvissuto ha un ruolo del tutto particolare nell’opera di un grande compositore. Non sarà stato il primo lavoro musicale ad affrontare il tema dell’Olocausto, ma ha avuto una sorprendente popolarità. Tutta una serie di elementi – il prestigio dell’autore, lo status di opera tarda e il tema – hanno contribuito a suscitare un vivace interesse da parte della critica, e l’opera ha avuto un’influenza notevole, persino sproporzionata, nel condizionare la ricezione complessiva del compositore, come pure i giudizi sulla sua ebraicità.

Per tali ragioni, ricostruire la storia della sua ricezione e circolazione in Europa nel dopoguerra colma le lacune nella nostra conoscenza di un’opera molto nota, scritta da una personalità importante. 

In secondo luogo, non esiste uno standard minimo che una composizione musicale debba raggiungere per essere significativa dal punto di vista storico, culturale o individuale. Data la costellazione unica di caratteristiche e condizioni appena delineate, la storia dell’esecuzione e della ricezione di Un sopravvissuto è un esempio perfetto per illuminarci sul dopoguerra in Europa. Inoltre, ancora ai nostri giorni non è un pezzo che si mandi in onda soltanto per riempire uno spazio radiofonico di sette minuti; anzi, la sua presenza può essere oggi ancor più emblematica, perché con il passare del tempo ha maturato più significati. 

Nel 1992 il World Monuments Fund ha lanciato una colletta per il restauro della sinagoga di Kazimierz, il quartiere ebraico di Cracovia, trasmettendo in televisione un’esecuzione di Un sopravvissuto da parte dell’orchestra filarmonica della città all’interno del tempio ancora da ristrutturare. Il 9 novembre 2009, nel ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, l’evento musicale clou della giornata di festeggiamenti è stato un concerto presso la Porta di Brandeburgo, diretto da Daniel Barenboim, che aveva messo a punto con grande cura il programma di quell’evento altamente simbolico. 

Sono state eseguite musiche di Wagner (l’ouverture del terzo atto del Lohengrin) e Beethoven (il quarto movimento della Settima sinfonia), la prima di un nuovo pezzo di un compositore dell’ex Germania Est (Es ist, als habe einer die Fenster aufgestoßen [«È come se qualcuno avesse spalancato la finestra»] di Friedrich Goldmann) e Un sopravvissuto. Barenboim ha detto di aver voluto ricordare alla gente che, prima di diventare noto come un giorno di gioia, il 9 novembre era associato a un evento storico ben più cupo: la Notte dei Cristalli. Nel bene e nel male, Un sopravvissuto si presta ai grandi gesti. 

In terzo luogo, quando Schönberg scrisse Un sopravvissuto, nel 1947, non c’era un vocabolario precostituito – letterario, musicale o visivo – per misurarsi con l’Olocausto. E non esistevano nemmeno cerimonie o rituali per piangere una perdita di quell’entità. Hasia R. Diner ha sconfessato il luogo comune dominante secondo il quale negli Stati Uniti gli ebrei avrebbero taciuto riguardo all’Olocausto nell’immediato dopoguerra, dimostrando che essi dissero e fecero molto al riguardo. Ma dal momento che la Shoah non aveva precedenti moderni, e che la vita degli ebrei in America si esprime in tante forme diverse, non c’erano modelli comuni né modalità di espressione o comportamento condivise: «Le commemorazioni dell’Olocausto dell’era post‐bellica riflettono un insieme di realtà concrete che hanno influenzato profondamente il modo in cui gli ebrei americani hanno costruito la loro cultura commemorativa. Non potevano contare su precedenti ovvi, quando hanno mosso i primi passi per creare nuove cerimonie, scrivere nuove liturgie, mettendo da parte i giorni di lutto e allestendo spettacoli che affrontassero l’orrenda storia di morte e distruzione, omicidi di massa, uccisioni nelle camere a gas e cremazioni di milioni di ebrei». In altre parole, hanno trovato soluzioni strada facendo – adattando rituali e linguaggio, a cui Diner si riferisce in termini di «fatti e parole» che già conoscevano –, per commemorare vittime di eventi fino ad allora sconosciuti e inimmaginabili.In Un sopravvissuto Schönberg stava facendo qualcosa di simile: adattava rituali (concertistici e teatrali, e la recita dello Shemà) e linguaggio musicale (espressionismo, i cui gesti erano entrati a far parte del lessico delle colonne sonore hollywoodiane per thriller e film dell’orrore, e dodecafonia) nel tentativo di commemorare eventi che sfuggivano alla descrizione. Diner interpreta i fatti e le parole di milioni di ebrei negli Stati Uniti, in quel periodo, come parte di «un vasto progetto non organizzato e spontaneo volto a mantenere viva l’immagine degli ebrei d’Europa assassinati», che contribuì alla creazione di una «cultura della memoria». Un sopravvissuto è parte di quella cultura della memoria, perché Schönberg era un cittadino americano, che scriveva un’opera destinata al pubblico americano, sebbene quell’opera fosse naturalmente intrisa delle sue radici europee.

ARTICOLO n. 7 / 2023

CORPO E IDENTITÀ A TAIWAN

Intervista a Chi Ta-Wei

Poco prima di Natale ho parlato con Chi Ta-Wei, l’autore di Membrana, romanzo distopico edito da ADD Editore. Quello che ne è uscito è un dialogo in cui ci siamo persi e ritrovati dentro terreni simili, ma mai identici, capaci di surfare sui corpi e sulle identità, ma anche di renderci uno spaccato etnografico sulla Taiwan di ieri e di oggi che smantella l’etnocentrismo a cui siamo abituati e ci conduce – con l’eleganza e la gentilezza Chi Ta-Wei – al silenzio orientato all’ascolto.
Partiamo. 

Giulia Paganelli: La prima cosa che ho pensato leggendo Membrana è che la definizione “distopia” non fosse più così esatta come nel 1995. Per quanto esistano dispositivi e tecnologie divergenti rispetto al nostro presente, il futuro raccontato in questo romanzo è terribilmente umano e plausibile: crisi climatica, razzismo, lotta sociale, corpi addomesticati, dinamiche di potere. Che nuova vita ha oggi Membrana rispetto alla sua pubblicazione? 

Chi Ta-Wei: Ho scritto la Membrana negli anni ’90, quando Taiwan è stata riaperta al mondo dopo il suo periodo di legge marziale (dalla fine degli anni ’40 alla fine degli anni ’80). Le persone nella Taiwan post-marziale erano molto curiose del mondo là fuori: i temi del cambiamento climatico (inclusa la distruzione degli strati di ozono) e del razzismo nei paesi occidentali erano già ben noti ai telespettatori di Taiwan a quel tempo. Lo studioso francese Michel Foucault era già molto in voga tra gli accademici di Taiwan, quindi ho più o meno imparato a conoscere “Punizione e disciplina” (del corpo) secondo Foucault dai miei professori universitari.

Molti lettori internazionali affermano gentilmente che Membrana sembra erudito. Ma devo ammettere che riflette semplicemente ciò che uno studente universitario medio, come me, ha imparato al college e dai media negli anni ’90.

Ma ovviamente Membrana, scritto negli anni ’90, sembra ironico negli anni ’20. Per esempio, in realtà i nostri buchi nello strato di ozono stanno guarendo! (secondo i programmi radiofonici che ascolto), eppure, allo stesso tempo, il nostro cambiamento climatico diventa molto peggiore di quanto potessimo mai aspettarci. Quando ho fatto il mio tour del libro in Italia nell’autunno 2022, i lettori italiani di ogni città mi hanno informato delle insopportabili ondate di caldo in tutta Italia in estate.

Membrana rifletteva una fase precedente dell’uso di Internet prima della comparsa di Google e dei social media. Ma i titoli di fantascienza (e non) pubblicati intorno al 2020 non possono aggirare la tirannia degli algoritmi che fanno soffrire molti di noi (soprattutto adolescenti). Membrana sembra non aver previsto la nascita e la prevalenza dei social media.

Se dovessi scrivere una nuova fantascienza, rifletterò sui mali dei danni causati dal cambiamento climatico, sulle sofferenze dei social media e sulle conseguenze nefaste del razzismo (contro le persone asiatiche e BIPOC) come abbiamo visto negli anni ’20.

G.P. Proviamo a fare un gioco. Siamo nel 1985 e devi raccontare a Donna Haraway il tuo romanzo senza usare la parola “corpo”.

C.T.-W. La domanda è affascinante. Il Manifesto Cyborg di Donna Haraway è stato effettivamente pubblicato nel 1985, mentre Membrana è stato pubblicato per la prima volta nel 1995. Ma immagino che non abbia molta importanza se mi immagino di essere nel 1985 o nel 1995.
Ecco:

Cara professoressa Haraway, 

sono un tuo ammiratore. Ho scritto un romanzo di fantascienza, Membrana, in cui una bibliotecaria più giovane (il cui genere è incerto) è risentita nei confronti della madre lesbica, che è una bibliotecaria anziana. La madre lesbica alla fine cerca di fare pace con la figlia alienata.

Definisco la parola “bibliotecario” in senso lato. Io stesso sono stato una persona molto nerd e libresca fin da bambino, e molti sconosciuti mi hanno chiesto perché sono così attaccato ai libri. Ad esempio, portavo spesso con me dei tomi anche quando andavo in discoteca da giovane gay, perché preferivo leggere piuttosto che ballare e flirtare con estranei. Ho anche portato libri da leggere nei bagni pubblici di Taiwan. È così difficile spiegare la mia idiosincrasia (con i libri), quindi mento semplicemente agli estranei dicendo che sono un bibliotecario di professione (non credo che la bugia sia convincente).

In Membrana considero i due personaggi dei bibliotecari, e li sento più o meno simili a me. Quando li chiamo bibliotecari, non intendo dire che lavorano nelle biblioteche o nelle librerie. Voglio dire piuttosto che lavorano con i dati: producono, fanno circolare, consumano e persino rubano dati. La madre lesbica è affermata perché sa come vendere dati ai consumatori. Momo, invece, sembra “ottimizzare” (una parola molto banale e popolare negli anni ’20) i dati dei propri clienti, ma in realtà ne abusa rubandoli.

Cara professoressa Haraway, lei è nota per essere una sostenitrice del “femminismo cyborg”. Secondo il suo studio, tutti sono cyborg. Trovo che la sua argomentazione sia molto correlabile al mio romanzo e a me stesso, ma direi che nel mio romanzo ognuno è più un assemblaggio di dati che un cyborg. Se guarda da vicino i miei personaggi, scoprirà che sono solo immagini di pixel.

G.P. Inutile nascondere che il mio interesse riguarda prevalentemente i corpi. Nella primissima pagina Momo pensa che “c’è un confine invalicabile tra il nostro corpo e le cose esterne”. Penso sia tanto lineare quanto vero e che quel confine si chiama Identità. In che modo questo libro voleva parlare di corpi e di identità? E oggi, mantiene la sua premessa? 

C. T.-W. Hai ragione, Membrana rifletteva la mia preoccupazione per i temi del corpo e delle identità negli anni ’90. E Membrana ha sostenuto che sia il corpo che le identità sono fluidi e persino artificiali: possono essere fabbricati da malfattori.

Il corpo e le identità negli anni ’20, tuttavia, sono più mutevoli di quanto immaginato in Membrana, e questo grazie all’egemonia di foto e video digitalizzati su Internet. I giovani di molte società (Italia e Taiwan incluse) vedono più corpi, soprattutto corpi nudi, rispetto a noi in passato, ma i corpi in questione sono generalmente rappresentazioni digitali (di solito alterate) di corpi piuttosto che corpi in carne e ossa. E non si può negare che molti giovani, soprattutto donne, siano rimasti sbalorditi nel trovare le foto e i video digitali del proprio corpo diffusi in rete e scaricati da migliaia di sconosciuti semplicemente perché le loro foto e i video realizzati durante le intimità sono stati diffusi non consensualmente (da ex- fidanzati o ex-fidanzate o hacker). Come insegnante universitario, mi trovo obbligato a parlare con studenti che potrebbero diventare fonti/vittime/consumatori di tali immagini trasmesse illegalmente. Ammetto che Membrana non prevedeva il caos della circolazione abusiva di tali rappresentazioni del corpo.

Le discussioni sulle identità diventano molto più trendy di quanto avessi mai immaginato. Potrei essere all’antica ora, perché sono sorpreso di scoprire che alcuni dei miei studenti “non sono più gay”, ma si dichiarano “non binari” o “transgender”. Sempre più giovani diventano simpatizzanti delle persone transgender e si arrabbiano molto quando scoprono che le persone transgender non hanno i servizi igienici che desiderano/meritano a Taipei. E molti giovani ora vogliono parlare delle loro complicate identità razziali: ovviamente non sono cinesi (e quindi molto diversi dalle persone in Cina), ma trovano che anche l’etichetta “taiwanese” non sia abbastanza precisa. Ci sono molte sottocategorie/sotto-identità sotto (o, oltre) “taiwanesi”: taiwanesi con antenati indigeni (e quale tribù indigena? Ci sono così tante tribù indigene a Taiwan…), o taiwanesi con alcuni antenati dalla Cina e alcuni indigeni antenati, e così via.

Ma devo anche ammettere che la comprensione dei corpi e delle identità all’interno di un college è ovviamente molto diversa da quella al di fuori di un college. Nella società taiwanese in generale, molti non sono abbastanza pazienti per capire cosa sia una persona transgender o non binaria, o come alcuni taiwanesi siano diversi dagli altri taiwanesi. Credo che i corpi e le identità mostrati in Membrana possano ancora sembrare bizzarri al grande pubblico di Taiwan.

G. P. Trovo geniale l’idea di prendere una cosa super mainstream e desiderata degli anni ‘’80 come l’abbronzatura a ogni costo e rivelarne il lungo termine. Penso che questo sia, tra tantissime cose, anche un racconto sulla nostra mala gestione del tempo data dalla velocità di esecuzione per ottenere un risultato immediato. Anche in questo Membrana prevede tanto del nostro attuale futuro. È un libro sui corpi, ma è anche un libro sulla richiesta costante di performance da parte dei corpi, non è vero?

C. T.-W. Abbronzarsi o meno rimane un problema a Taiwan. Molti di noi sanno che abbronzarsi potrebbe causare il cancro, ma onestamente i saloni di abbronzatura rimangono piuttosto popolari tra le persone gay di Taiwan (e tra le persone gay di molti paesi occidentali). Su Instagram vediamo spesso ragazzi giovani e belli mostrare torsi appena – artificialmente – abbronzati nei loro post. In realtà molti di questi ragazzi lo sanno bene: anche se abbronzarsi in questo modo non porta al cancro, sicuramente farà invecchiare troppo in fretta la pelle, esfoliando anche la giovinezza su cui puntano così tanto. Ma molti di loro non possono resistere al richiamo dei saloni di abbronzatura.

Ti farebbe sorridere, Giulia, sapere che al giorno d’oggi i taiwanesi spesso dicono casualmente che qualcuno (un’attrice, una cantante, o un amico, un parente) dovrebbe davvero “essere mandato in un negozio di automobili per la riparazione”. Significa che la persona in questione dovrebbe sottoporsi a un micro (o maggiore) intervento di chirurgia plastica. Trovo questo detto popolare esilarante, perché Membrana paragona un cliente sotto le dita del protagonista a una macchina in un’officina automobilistica. A Taiwan, negli ultimi 20 anni, sempre più giovani hanno iniziato a spendere molti soldi nelle cliniche di bellezza. E molti medici anziani si lamentano che molti dei loro colleghi più giovani lascino i grandi ospedali per le cliniche di bellezza, che pagano decisamente molto meglio. Ottimizzare le palpebre di un ragazzo è solo più redditizio che operare sul cuore di una vecchia signora.

G. P. Il passaggio sulla velocità e la fretta del risultato si rispecchia anche nei discolibri. Come cambia il rapporto tra corpo biologico e culturale in una società in cui modifica la materia ma non impara dai suoi errori perpetuando le stesse strutture di controllo e potere? 

C. T.-W. Vorrei risponderti da un’altra angolazione: possiamo riconsiderare il nostro rapporto con la velocità e l’urgenza? Possiamo riconoscere che non abbiamo bisogno di essere così veloci come speravamo, e che i cosiddetti bisogni nella nostra vita non sono così urgenti come presumevamo? Molti di noi riconoscono razionalmente di essere impazienti o addirittura violenti con i nostri cari e noi stessi quando siamo di fretta. Sappiamo anche molto bene che diventiamo più gentili con i nostri cari e con il nostro stesso corpo quando impariamo a rallentare il nostro ritmo.

È interessante notare il divario tra il corpo biologico e il corpo culturale. Onestamente, il nostro corpo biologico è così vincolato dalla biologia e non può essere veloce come speriamo. Quando i bulbi oculari cercano di mettersi al passo con gli aggiornamenti in continua evoluzione sui social media per ore, si seccano e alla fine si ammalano. I nostri bulbi oculari e i nostri cervelli saranno sovraccarichi e sull’orlo della distruzione/esplosione. Suggerisco di ammettere che il nostro corpo biologico non può essere sempre sincronizzato con il corpo culturale, che sembra non essere vincolato dalla biologia, in modo da poter essere sufficientemente restaurati per prendere decisioni con calma e gentilezza di fronte a coloro che esercitano violenza.

G. P. Arriviamo a parlare di corpi e di ascensore sociale. Anche in Membrana esistono corpi di serie A e corpi di serie B (androidi). Come raccontiamo i corpi non conformi nel mondo nuovo? Che tipi di marginalizzazioni sono plausibili e quali sono, invece, scomparse? 

C. T.-W. La tua domanda in realtà mi ricorda che forse ci sono quattro tipi, anziché due, di corpi in Membrana. Come dici tu, i corpi privilegiati, che devono essere ottimizzati dai corpi degli androidi; i corpi degli androidi, che vengono utilizzati per ottimizzare coloro che sono in grado di pagare per questa ottimizzazione. È chiaro che i corpi da ottimizzare rimarranno e prospereranno, mentre i corpi che vengono utilizzati per ottimizzare gli altri semplicemente scompariranno, come se fossero aziende più piccole da fondere con le grandi imprese tecnologiche. I più grandi divorano i più piccoli. Et voilà, è monopolio.

Oltre ai due tipi di corpi di cui sopra, tuttavia, finalmente riconosco che ci sono anche altri due tipi di corpi in Membrana: i corpi che possono sopravvivere sotto il mare (questi corpi includono sia l’umano che l’androide corpi) e i corpi (umani e non) che vengono lasciati sulle terre sotto il sole. La narrazione di Membrana è così concentrata sui corpi già sotto il mare che semplicemente ignora quelli che sono rimasti sulle terre. Sì, sulle terre ci sono androidi combattivi, che vengono menzionati di volta in volta nel romanzo. Ma sono rimasti anche esseri umani sulle terre? Il romanzo non parla di loro.

In altre parole, possiamo dire che coloro che sono al sicuro sotto il mare sono come i migranti che arrivano con successo nei loro paesi dei sogni (continente europeo e Regno Unito), mentre quelli che sono lasciati sulle terre e virtualmente lasciati morire sono come i migranti-to-be, che finiscono bloccati nelle loro terre colpite dalla guerra o bloccati nel mezzo del Mar Mediterraneo. Ciò che abbiamo imparato e visto sulla migrazione negli ultimi dieci anni mi spinge a pensare anche all’esistenza di questi ultimi due corpi.

G. P. Momo è un corpo in transizione. Noi lettori comprendiamo leggendo che questo movimento non ha a che fare tanto con l’operazione di rimozione del pene – raccontata come qualcosa di normale routine ma noi sappiamo che ancora oggi non lo è – quanto con la miscela che si crea tra Momo e Andy, il suo androide speculare. In quel momento ho provato lo stesso disturbo sentito mentre leggevo il traffico di corpi dell’antropologa Nancy Scheper-Hughes, ma anche Non lasciarmi di Ishiguro. Eppure siamo una società in cui i corpi sono oggetto costante e raramente soggetto, come possiamo invertire questa rotta, come possiamo smettere di essere il repository o la scorta di qualcuno posto su un gradino più alto della scala?

C. T.-W. Sollevi una questione importante, ma purtroppo in qualche modo sento che il traffico di corpi, insieme a quello di esseri umani, non cesserebbero, ma diventerebbero più complicati e più sfuggenti per noi da fermare. Il traffico di corpi a cui ti riferisci spesso deriva da una persona priva di un organo specifico, che acquista un organo sostitutivo da qualche altra parte, di solito rubato a un prigioniero politico o a una vittima senza fissa dimora. Non è una sorpresa che il traduttore in lingua inglese di Membrana, il professor Ari Heinrich, sia anche noto per le sue ricerche sul prelievo di organi in Cina. Il suo saggio più importante sull’argomento si chiama Chinese Surplus.

È interessante notare che in realtà si è occupato sia di scrivere il suo Chinese Surplus sia di tradurre la mia Membrana allo stesso tempo. In Chinese Surplus, Heinrich non vede la fine del business del prelievo di organi, ma osserva solo che ci sono variazioni crescenti di questo terribile business in questione.

Sappiamo che negli anni ’20 del 2000 siamo in un mondo con un contrasto ancora più drammatico tra ricchi e poveri. È altamente possibile che i poveri vengano costretti a vendere parti di loro stessi ai ricchi.

Inoltre, trovo che il traffico di corpi di cui parli non possa essere separato dal traffico di esseri umani in generale. Come una persona a cui manca un organo potrebbe desiderare un organo sostitutivo, una famiglia che ha bisogno di una domestica potrebbe desiderare di avere una ragazza a sua disposizione. Sembra che non ci si liberi mai dalle ombre del traffico di esseri umani. Molto tempo dopo la presunta fine della schiavitù e della tratta transatlantica dall’Africa alle Americhe, troviamo ancora casi di tratta di esseri umani di persone di ogni colore, di ogni continente, in varie forme.

Cito questo non solo perché il traffico di organi e corpi e il traffico di esseri umani condividono somiglianze, ma anche perché trovo che siamo sfidati dal problema del traffico di esseri umani online. Molti adolescenti scelgono di lasciare la casa per estranei, semplicemente perché sono convinti delle parole e dalle manipolazioni ricevute sui social media.E questi adolescenti finiscono per diventare ostaggi o essere rapiti. È una forma di tratta di esseri umani digitalizzata. E ho detto da qualche parte in questa intervista con te che molte giovani donne in tutta l’Asia scoprono che le foto o i video dei loro corpi nudi vengono diffusi online e scaricati da migliaia di sconosciuti. Queste donne vengono anche rapite o derubate online, ma arrivano a essere anche vittime della tratta di esseri umani. 

G. P. Membrana vuole essere un libro queer, o meglio, ha lo slancio di essere inserito nella letteratura queer, senza però fare affidamento all’auto-fiction, e il suo rinnovato successo proprio nell’anno del Nobel ad Annie Ernaux, che di questo genere ha fatto scuola, è molto interessante. C’è una conversazione lunga, secondo me, da fare sul transfert emotivo che l’esperienza personale usata come strumento innesca nel lettore, ma anche su quanta manipolazione attua. Per parlare di corpi non è necessario, secondo me, parlare della storia del proprio corpo, ma credo che sia impossibile parlare di corpi senza averne esperienza diretta. Ne parliamo?

C. T.-W. Mi piacciono e rispetto i libri di Annie Ernaux, in cui il suo candore mi sorprende e mi commuove. Ammetto che, quando leggo i suoi libri, mi chiedo segretamente se sono disposto a scrivere di me con un candore simile. La mia risposta ora è “no”. La mia personalità è semplicemente diversa.

In quanto donna soggetta a così tanti sguardi da uomini eccitati o ostili per decenni, Ernaux deve conoscere anche i vantaggi e gli scotti per farsi guardare da così tanti lettori in agguato sulla sua vita. Non sono una donna, ma sono cresciuto come un uomo gay in una società taiwanese un tempo molto omofobica. Negli anni ’90, quando ero uno studente universitario che cercava di esplorare la vita gay in un ambiente omofobo, ero propenso a fare in modo che la mia narrativa riflettesse le mie esperienze personali. Sapevo chiaramente che i lettori queer a Taiwan negli anni ’90 apprezzavano e preferivano la narrativa (locale o internazionale) che fosse più o meno autobiografica, poiché presumevano che una narrativa apparentemente autobiografica potesse aiutarli a conoscere i modelli di ruolo queer (il queer scrittore come personaggio queer della letteratura) così come conoscono se stessi, come se tale finzione fosse uno specchio sollevato sui volti di questi lettori.

Anche adesso, nel 2020, nonostante tanti lettori queer siano molto più esposti e orgogliosi di manifestare loro stessi a Taiwan, preferiscono ancora le opere letterarie che si suppone siano autobiografie. Senza mezzi termini, il voyeurismo funziona. Negli anni ’90 volevo essere guardato e allo stesso tempo odiavo essere guardato. Da un lato, avevo bisogno di essere abbastanza visibile da avere amici, alleati e incontri ero-romantici. Ma d’altra parte, non volevo essere molestato dai guardoni (sono stato molestato e perseguitato di tanto in tanto, quando ero giovane). A causa della mia mentalità contraddittoria, ho pubblicato due tipi di narrativa molto diversi tra loro nello stesso periodo. Ho pubblicato storie molto esplicite e sessuali sugli uomini gay negli anni ’90 a Taiwan, che potrebbero funzionare come finestre per coloro che vogliono guardare alla vita gay clandestina (alcuni di questi racconti sono già tradotti in inglese, ma nessuno è ancora disponibile in italiano, nda). E, contemporaneamente, ho pubblicato Membrana, che trasmette i miei pensieri “astratti” su corpi e identità negli anni ’90 ma che, stranamente, non mostra praticamente alcuna rappresentazione “concreta” di uomini gay. Penso che all’epoca di Membrana la percezione di essere guardato come un fenomeno da circo mi avesse stancato, così, nel romanzo, ho scelto di rappresentare solo donne (molto diverse da me) ma nessun uomo (l’unica eccezione è un omosessuale basato sul regista italiano Pier Paolo Pasolini, ma anche questo personaggio è al di fuori della narrazione piuttosto che al suo interno, nda).

In futuro sarò più felice di scrivere narrativa più speculativa, che non sia associata alla mia vita. Mi sento più libero di quanto non mi senta osservato. Dal momento che ci sono già molti scrittori taiwanesi che mostrano felicemente le proprie esperienze ero-romantiche e la vita familiare nel XXI secolo, non credo di aver bisogno di unirmi al loro campo, che è già molto affollato.

ARTICOLO n. 6 / 2023

WALTER BENJAMIN, LA CITTÀ COME IPERTESTO

I profeti del presente

Tra il 1997 e il 1998 il fotografo americano Christopher Rauschenberg, figlio di Robert Rauschenberg e Susan Weil, si è recato in oltre 500 dei luoghi immortalati da Eugène Atget nel suo lavoro pionieristico di documentazione della trasformazione di Parigi alla fine dell’Ottocento, raccogliendo in Paris Changing: Revisiting Eugene Atget’s Paris (Princeton Architectural Press, 2016) la testimonianza di un paradosso: la città vecchia che Atget aveva fotografato per quasi quarant’anni nel tentativo di preservarla dalla furia modernizzatrice del Barone Haussmann e dei suoi eredi non era affatto scomparsa, anzi rimaneva pressoché immutata un secolo dopo gli scatti originari. Credo che il détournement sarebbe piaciuto allo stesso Atget, che non fu solo il primo fotografo di strada e il primo sociologo urbano a documentare il modo in cui nascono e muoiono le città moderne ma anche, nel suo modo dimesso e obliquo, un surrealista (pensiamo alla straordinaria fotografia della folla che guarda l’eclisse solare in Place de la Bastille nel 1912 che Man Ray volle come copertina di un numero de La Révolution Surréaliste). Come nell’hauntology contemporanea, la nostalgia per il passato si tramuta in qualcosa di più inquietante: un passato che non passa mai.

L’opera di rephotography di Rauschenberg è interessante non solo perché porta alla luce il carattere spettrale del lavoro di Atget, ma anche perché dice qualcosa sul rapporto unico che Parigi intrattiene con il proprio passato culturale e la modernità: prima città moderna dell’Occidente, Parigi è però sempre identica a sé stessa. Le varie mitologie della modernità parigina (dalla Rivoluzione francese alla Cité Lumiere, dalla Nouvelle Vague al Sessantotto) richiedono di essere interpretate in maniera tradizionale, e ancora oggi non è raro sedersi in un caffè di Pigalle e veder entrare una coppia di giovani in basco e dolcevita nera in un flashback dalla città esistenzialista. È un’ideologia della libertà che lascia poco spazio alla libertà, e che fa eco all’idea francese per cui i valori libertari della République possono essere imposti dall’alto. Ci ripenso mentre l’Eurostar partito da Londra mi lascia alla Gare du Nord: è possibile passeggiare a Parigi senza ripercorrere le strade già camminate da Baudelaire, Benjamin, Debord, Pajak? La flanerie è obbligata, nella città della psicogeografia è impossibile perdersi. Come in tutto il resto, anche da questo punto di vista Londra è l’opposto speculare di Parigi. A Londra tutto cambia incessantemente, non c’è nostalgia, né bellezza, ad ancorare il passato. La libertà è più profonda, più fredda, più inumana.

Poche cose incarnano questa permanenza dell’uguale in una città simbolo della modernità e della trasformazione come i bouquinistes del lungosenna, che compaiono immutati in ogni rappresentazione di Parigi dal XVI secolo: ogni volta che mi imbatto in un filmato dell’inizio del Novecento, o in una stampa del Settecento che li rappresenta, ho l’impressione di trovarmi di fronte a Jack Nicholson che in Shining rivela di essere sempre stato il custode dell’Overlook Hotel. Sarà che vivendo oltremanica ho interiorizzato una maniera britannica di guardare alla cultura, ma mentre ci passo davanti un pomeriggio di novembre mi viene in mente la prima traduzione inglese del titolo della Recherche proustiana: Remembrance of Things Past. Quel “things” così materiale, come se i ricordi fossero oggetti solidi, spine che ti si piantano nel cervello e di cui non riesci a liberarti. Passano i secoli, re vengono decapitati, sparano i mitra dell’Isis ma quelle “cose” rimangono lì, immutabili, impersonali, come spettri. Sono sempre stato il custode.

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In questa storia, l’anno della svolta è il 1927: lo stesso in cui Heisenberg formulava il principio di indeterminazione e in California Philo Farnsworth trasmetteva la prima immagine televisiva. Può esserci un momento più rappresentativo dell’arrivo della modernità per come abbiamo imparato a intenderla nel Novecento? Il 1927 è anche l’anno in cui moriva Atget, poverissimo, poco dopo la compagna Valentine; è l’anno in cui veniva finalmente completato il lavoro del Barone Haussmann, iniziato 74 anni prima, con la realizzazione del boulevard tra l’VIII e il IX arrondissement che avrebbe preso il suo nome; è l’anno in cui veniva pubblicato l’ultimo volume della Recherche, quello in cui il tempo perduto viene infine ritrovato. È anche l’anno in cui per la prima volta Walter Benjamin menziona in una lettera a Scholem un progetto a cui ha cominciato a lavorare dall’anno prima e dedicato proprio alla trasformazione di Parigi voluta da Haussmann, i Passages: siamo di fronte a quelle che Daniel Mendelsohn, parlando di W.G. Sebald (un autore che evidentemente a Benjamin deve molto) ha chiamato “near-coincidences”coincidenze apparentemente significative.

In realtà, come sempre è il caso nell’esperienza erratica e contraddittoria di Benjamin, è difficile stabilire una vera data d’inizio dei Passages. Pare che la raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo fosse iniziata fin dai vent’anni, da quando aveva messo piede nella capitale francese per la prima volta nel 1913, arrivato in treno da Berlino con due compagni di università. Se così fosse, potremmo dire che i Passages furono l’ossessione di tutta la sua vita, visto che ancora mentre scalava i Pirenei in fuga dai nazisti nel settembre del 1940 portava con sé una valigia il cui contenuto, aveva detto ai suoi compagni di viaggio, era più importante della sua stessa sopravvivenza. Sembra che la valigia contenesse materiali per i Passages. Dopo il suo suicidio a Portbou la valigia fu probabilmente sequestrata dalle autorità spagnole e perduta: cosa contenesse davvero non lo sapremo mai.

Sappiamo però il momento in cui questi materiali raccolti fin dalla giovinezza avevano cominciato a condensarsi in un progetto. Era il 1926, e se il surrealismo era stato il punto d’arrivo parzialmente involontario di Atget, non stupisce forse che il punto di partenza dei Passages sia proprio il libro di un surrealista: Le Paysan de Paris di Louis Aragon racconta come le vetrine di un negozio del Passage de l’Opéra vengano trasformate dall’immaginazione del poeta-flaneur in un panorama marino popolato di sirene. L’applicazione del merveilleux quotidien ad un luogo simbolico della nascente cultura consumista, nella città che più di ogni altra aveva incarnato la spinta progressista del capitalismo, non poteva lasciare indifferente Benjamin, che a quel tempo si era già convertito al marxismo, aveva conosciuto Adorno e Horkheimer, e aveva cominciato a riflettere sulle conseguenze della riproducibilità tecnica sull’opera d’arte e la sua “aura”. I pezzi del puzzle erano andati a posto: coincidenze apparentemente significative.

È come se nell’opera incompiuta, e impossibile da compiere, dei Passages Benjamin avesse trovato una sorta di centro instabile, di nucleo in continua trasformazione della sua esperienza intellettuale centrifuga, che non si lascia rinchiudere in nessuna definizione perché quella definizione non era chiara al suo autore: per tutta la vita Benjamin si sarebbe mosso per illuminazioni improvvise e strappi, continuando a smarcarsi dalle strade che si era autoimposto (filosofo, critico letterario, pensatore politico) in un rivolo di derive esperienziali (gli stati alterati di coscienza, la marijuana, la stessa flanerie). Parigi, e il lavoro sui passages, furono l’unica costante nelle peregrinazioni che l’avrebbero portato a Ibiza e Mosca, in Italia e a Marsiglia, in fuga dalla Storia, certo, ma anche dai suoi fantasmi, come quello della depressione, e in fin dei conti da se stesso. La “vita segreta delle città” che intendeva indagare nei Passages era la vita segreta della sua anima; il futuro dell’Occidente lanciato verso il baratro la sua apocalisse personale; la nostalgia consumistica delle vetrine la stessa malinconia che permea Infanzia berlinese. Così Benjamin, tramontato come tutto il resto il tentativo impossibile di un’autobiografia, raccontava sé stesso rifratto in uno specchio che non ne restituiva mai pienamente l’immagine: parlava d’altro perché era l’unico modo di parlare di sé.

La stessa ispirazione originaria dei Passages è profondamente indicativa a riguardo: nella lettera a Scholem del 1926 racconta come abbia deciso di dedicarsi a un lavoro sulla Parigi del Barone Haussmann per compiere una sorta di esorcismo. Lo scopo dell’opera, spiega, è quello di “svegliarci” dal “sogno dell’Ottocento”. Siamo di fronte a Benjamin nella sua essenza più pura: oscuro al limite dell’impenetrabilità, eppure stranamente spontaneo; impersonale e autobiografico; teorico e intimo; con l’attenzione sempre rivolta da qualche parte che non è il centro, come se l’unico modo per dire le cose che contano fosse non menzionarle mai direttamente. Perché evidentemente il “sogno dell’Ottocento”, quello da cui il giovane Benjamin sente l’esigenza di risvegliarsi, è il sogno della generazione dei suoi padri, la grande utopia ottocentesca ridotta a frammenti fumanti di città e carne umana dalla guerra mondiale in attesa di nuovi e più atroci orrori. Come sempre nel corso di tutta la sua vita, Benjamin ha già prefigurato il futuro: l’operazione è psicanalitica e surrealista nella sua essenza, ma senza redenzione. Sembra di sentire il Rust Cohle di True Detective quasi un secolo dopo quando dice che alla fine di ogni sogno c’è un mostro: gli occhi del sognatore si sarebbero aperti sul buio.

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Benjamin si stabilisce definitivamente a Parigi nel 1935. Non è la prima tappa del suo esilio: tra il 1931 e il 1932 ha già compiuto due viaggi a Ibiza, ospite di una congrega di expat tedeschi. Come tutti a Ibiza si è innamorato, entrando forse in contatto in maniera più pura con quell’anima dionisiaca che per tutta la vita avrebbe corteggiato e respinto in egual misura; al ritorno dal primo viaggio ha meditato per la prima volta di uccidersi. Quando il Reichstag è bruciato nel febbraio del 1933, ed è stato costretto a lasciare la Germania una volta per tutte, Parigi è diventata la sua base.

Non è un caso, credo, che nella capitale francese arrivi ufficialmente come traduttore della Recherche, un altro progetto che non avrebbe mai portato a termine. Invece di lavorare a Proust riprende i fili della sua ossessione per Baudelaire. Si intrattiene nei locali di Montparnasse, specialmente al Dôme. Passa i pomeriggi a fare ricerche alla biblioteca nazionale, che interrompe solo quando viene a prenderlo l’amica Hannah Arendt. Il lavoro deve essere stato intenso, quell’anno, perché nello stesso 1935 lo studio per i Passages confluisce in un libro, Parigi capitale del XIX secolol’unico tentativo fatto in vita da Benjamin per dare una forma editoriale alla sua ossessione. Per il resto, l’umore non è dei migliori. Si sposta da una pensione economica all’altra, totalmente dipendente dai soldi che gli spediscono Adorno e Horkheimer. “Parigi cambia”, aveva scritto Baudelaire immerso nel sogno dell’Ottocento, “ma niente nella mia malinconia è cambiato”. Benjamin potrebbe sottoscrivere queste parole.

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Remembrance of Things Past è anche il titolo di una conferenza che si è tenuta al Warburg Institute di Londra nel 2012. Il suo autore, Matthew Rampley, oggi insegna storia dell’arte alla Masaryk University di Brno, in Repubblica Ceca, e a Birmingham. Nel 2000 ha pubblicato un libro da cui la conferenza trae lo spunto, oltre che il titolo, e che sostiene un’idea curiosa: quella delle influenze di Benjamin sul lavoro di Aby Warburg. Un paradosso, visto che Warburg è morto nel 1929 quando Benjamin era virtualmente sconosciuto (l’unico dei suoi lavori principali già pubblicato, Origini del dramma barocco tedesco, era uscito l’anno precedente).

Benjamin conosceva Warburg, lo cita nell’introduzione alle Origini e può darsi che si sia ispirato a lui nel costruire la propria carriera, se di carriera si può parlare, di studioso indipendente. Da Warburg, Benjamin ha quasi certamente tratto l’idea della cultura come qualcosa di vivo, in cui frammenti eterogenei alti e bassi, popolari e colti, possono essere ricombinati per trarre un senso più ampio; e l’analogia tra i Passages e Mnemosyne Atlas, due lavori incompiuti e ipertestuali basati su un’idea di classificazione fluida e mai definitiva, è fin troppo evidente: gli stessi faldoni che contengono i materiali dei Passages richiamano i pannelli di Mnemosyne per il carattere eterogeneo delle loro denominazioni (Baudelaire, Casa di sogno, Le strade di Parigi, Specchi, Sistemi di illuminazione, Moda, etc.). Quello che Rampley sostiene nel suo libro è che il lavoro di Warburg, rimasto nella relativa oscurità fino agli anni Ottanta, deve la sua notorietà a Benjamin, che al contrario è stato soggetto di studio critico fin dagli anni Trenta. Leggiamo, dice Rampley, Warburg attraverso la lente di Benjamin nello stesso modo in cui leggiamo Shakespeare attraverso la lente di T.S. Eliot.

In questa idea del futuro che influenza il passato c’è qualcosa di affascinante, come se il tempo fosse un cerchio, o una casa di specchi. È seguendo questa intuizione che nel 1920 Benjamin acquista l’Angelus Novus di Paul Klee, “l’angelo della storia” con “lo sguardo rivolto al passato”? È una prefigurazione della tragedia personale che lo attende o un riconoscimento nicciano dell’eterno ritorno? O entrambi?

Benjamin aveva probabilmente in mente Mnemosyne Atlas quando pensava ai Passages, ma la sua idea di ipertesto era più definita, e insieme più concreta, dello studio del movimento dionisiaco di Warburg. Se Parigi è il prisma attraverso cui si manifesta l’intera storia dell’Occidente, il “sogno dell’Ottocento” così come la catastrofe ventura, il pubblico e il privato, l’intimo e l’impersonale, i grandi movimenti della Storia così come gli echi dell’autobiografia, se insomma Parigi è un Aleph che tutto contiene, è anche vero che in Benjamin è la città stessa, con le sue infrastrutture materiali, i vetri e l’acciaio, i tunnel e le gallerie, a farsi per la prima volta ipertesto. Mnemosyne Atlas era un teatro della memoria rinascimentale, e attraverso la sua struttura fluida portava nella modernità la logica spaziale dell’organizzazione della conoscenza dei sistemi mnemonici. Ma nei Passages è il reticolo della città, con le sue strade e i suoi passaggi, a farsi informazione organizzata. I passages sono piuttosto chiaramente link: scorciatoie che portano da un luogo all’altro più rapidamente e, in maniera metaforica, collegano punti diversi dell’ipertesto culturale.

Warburg aveva già immaginato internet; Benjamin immagina la smart city, o l’Internet of Things. La Parigi di Benjamin è una realtà virtuale, informazione stratificata in un sistema semantico. Chissà se Christopher Nolan aveva in mente questo parallelismo quando ha pensato alla scena di Inception ambientata a Parigi. Altre coincidenze apparentemente significative.

Quello che è certo è che il futuro preconizzato da Warburg e Benjamin, la modernità che entrambi inseguivano (e che inseguivano, significativamente, rivelando i segni del passato che non passa nel tessuto della modernità), avrebbe finito per distruggerne il lavoro prima, e le vite poi: Warburg sarebbe impazzito dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, e la sua Bibliothek trafugata lungo l’Elba fino a Londra per sfuggire alla persecuzione nazista; l’idea di città ipertestuale immaginata da Benjamin avrebbe portato alla morte del flâneur, come ha scritto ormai dieci anni fa Evgeny Morozov in un celebre articolo. Nel frattempo Benjamin era già stato obliterato, distrutto dal nazismo che Warburg aveva scampato in extremis. Alle spalle dell’Angelus Novus, dove gli occhi non guardano, si sta sempre compiendo una catastrofe: storica, tecnologica, semantica.

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Nachleben, la “vita postuma”, è la memoria: Warburg l’aveva perfettamente chiaro. Warburg era già scomparso dietro la propria Bibliothek prima di morire; Benjamin era già diventato il suo mito, la traccia dei suoi spostamenti, i suoi progetti mai finiti, le sue pagine di diario, le lettere, i racconti, gli aneddoti, prima di essere costretto a ingoiare la morfina a Portbou. C’è il sogno del passato, poi c’è il futuro che spazza via tutto, e poi c’è la memoria, che è il luogo in cui sopravvivono i fantasmi. Per questo ogni scrittore interessato alla memoria è un bibliofilo, e per questo i nazisti bruciavano i libri: i due atti, quello dell’accumulazione e quello del rogo, possono sembrare opposti, ma in realtà sono facce della stessa medaglia, entrambi tentativi di fare i conti con il mondo dei padri. Ingraziarsi Mnemosyne o aggredirla con il fuoco nel tentativo di addomesticarne i moti imprevedibili. La modernità, come aveva capito Atget, ha sempre bisogno di bruciare il passato, ma il passato non brucia mai. Anzi nel fuoco si calcifica, come in un procedimento alchemico, e si fa permanente: Nachleben, appunto.

È anche per questo che quando Benjamin si trova infine costretto a lasciare anche Parigi, circondato ormai su tutti i fronti (esule dalla Germania perché ebreo, internato in un campo di lavoro nella Francia libera perché tedesco, poi braccato in quella occupata di nuovo perché ebreo, guardato sempre con sospetto perché marxista) lascia i faldoni contenenti i materiali per i Passages alla biblioteca nazionale. Ma sarebbe ingenuo pensare che la memoria sia neutrale. O meglio, la memoria è neutrale, come ogni dio e ogni fantasma, ma le sue istituzioni no. I Passages sarebbero stati probabilmente sequestrati e dati alle fiamme se il bibliotecario a cui Benjamin aveva lasciato i faldoni non li avesse nascosti poco prima della caduta di Parigi. Quel bibliotecario era Georges Bataille: coincidenze apparentemente significative.

Mentre la catastrofe si fa sempre più pressante, mentre il risveglio dal sogno si fa imminente, e il sogno si trasforma in maniera via via più concreta in quello che è sempre stato, e cioè in un incubo, anche l’ossessione di Benjamin si acuisce, sfiorando la mania. Leggendo i Passages oggi una cosa mi colpisce: la totale assenza di spiegazioni, come se il semplice accumulo di citazioni, di rimandi, di frammenti fosse sufficiente a creare un senso. È la stessa sensazione che si avverte guardando Mnemosyne Atlas: quella di trovarsi nella mente di qualcuno, all’interno di un progetto privato. Perduti nel sogno di qualcun altro, come i necronauti di Philip Dick intrappolati nella mente di Runciter. C’è una coerenza nel fatto che mentre il senso della Storia si fa sempre più incerto, mentre il mondo discende nel caos e nella morte e nella psicosi nazista, la storia personale abbia sempre più bisogno di cercare un proprio senso, diventi sempre più importante salvare il proprio mondo intimo. Benjamin sapeva probabilmente di essere spacciato dal giorno dell’incendio del Reichstag, sapeva che il momento del risveglio poteva essere procrastinato ma non evitato: per questo era più importante salvare il contenuto della valigia che la sua stessa vita.

Certo è che non abbandona Parigi finché ormai è troppo tardi. In quegli ultimi mesi è sempre più solo e più povero. Adorno e Horkheimer si sono trasferiti in California dal 1938, e da tempo cercano di convincerlo a lasciare l’Europa per raggiungerli. Dora, la sua ex-moglie, è fuggita a Londra con il figlio Stefan: basterebbe arrivare fino a Calais e salire su una nave per mettersi in salvo, ma Benjamin rifiuta. La ragione: vuole continuare a lavorare ai Passages. Solo quando Parigi cade, il 14 giugno del 1940, un mese dopo che la Wehrmacht è entrata in Francia, accetta il permesso di ingresso negli USA che Adorno è riuscito faticosamente a ottenere per lui. Ma a quel punto l’Europa è una trappola mortale: la nave per New York parte dal Portogallo, ma per arrivarci bisogna attraversare tutta la Francia nazista e la Spagna di Franco. Benjamin ha 48 anni, soffre di cuore, ha problemi a camminare. Quest’ultima fuga dura tre mesi e si conclude appena passato il confine spagnolo: al Portogallo mancano ancora 1344 km, trecento ore di cammino. Il futuro è sempre stato troppo lontano.

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C’è un’ultima somiglianza tra la vita di Benjamin e quella di Sebald, e ha a che vedere con la fine: due autori che hanno passato l’esistenza a cercare la “vita segreta”, a tessere trame di senso nel caos del mondo, muoiono in maniera casuale. Le coincidenze sono apparentemente significative finché all’improvviso, senza ragione, smettono di esserlo, e il tessuto asignificante del mondo si sfalda, torna all’indifferenziazione primigenia. Kronos, il tempo umano, indirizzato, si disfa in kairos, il tempo come successione di momenti disordinati ed eterogenei. Kronos, cioè Saturno, il dio della depressione e del limite, della morte e della catastrofe, non può essere eluso per sempre: non ci sono più derive, non ci sono più luoghi da visitare, non c’è più fuga. Saturno, la cattiva stella, il dis-astro, alla fine arriva sempre. Porta la fine, e con sé anche la pace.

Sebald muore un giorno di dicembre del 2001 in un incidente stradale, a 57 anni: un punto finale conclude la vita dello scrittore della divagazione infinita. La morte di Benjamin non è casuale nelle ragioni ma lo è nelle circostanze. Si conclude in un paese qualsiasi, un villaggio di mille anime che per Benjamin, così legato al senso dei luoghi, non significa nulla. Ciò che segue è tanto preda dell’entropia da risultare quasi comico. Il medico legale che arriva sul posto non si accorge della capsula di morfina e classifica la morte come aneurisma cerebrale; in una mossa degna di una commedia degli equivoci, le autorità spagnole leggono male la carta d’identità: pensano che il morto si chiami Benjamin Walter, invece che Walter Benjamin. Non capiscono che è ebreo e lo seppelliscono nel piccolo cimitero cattolico del paese. Chissà che hanno fatto della valigia, cos’avranno capito di quella raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo. Avranno pensato che fosse un urbanista, probabilmente. Sicuramente non conoscevano la parola “flaneur”.

Eppure mi sembra che proprio in questo finale insensato si apra lo spazio di una possibilità: alla tragedia segue la commedia. Benjamin riposa in un paese affacciato sul mare, nel clima mite della Catalogna: immagino un vento dolce che scuote il cespuglio di bosso piantato da chissà chi a vegliare sul suo sonno. La psicosi nazista che l’ha ucciso si è uccisa a sua volta, alla guerra è seguita la pace. Alla pace seguiranno altre guerre, altre morti, altre catastrofi. E tornerà ancora una volta la pace.

A Parigi, la Wehrmacht non ha mai trovato i Passages, ben nascosti da Bataille: la memoria, incarnata in un servitore ribelle e infedele, ha fatto bene il suo lavoro. 

“Un bambino”, appunta Benjamin nella sezione dedicata alla Noia, eterno ritorno, “con sua madre al Panorama. Il Panorama raffigura la battaglia di Sedan. Il bambino trova tutto molto bello: ‘Solo, peccato che il cielo sia così cupo’. ‘Così è il tempo in guerra’, ribatte la madre”.

Il tempo di Proust, quello perduto e ritrovato, è kronos o kairos? Se il tempo è un anello, e non una linea retta (e se la noia è l’esperienza che facciamo di questo eterno déja vu) allora l’Angelus Novus, rivolgendosi all’indietro, ha lo sguardo fisso sul futuro. L’hauntology non è un glitch nel tessuto del tempo: è il tempo nella sua circolarità.

La lapide a Portbou, sormontata dal suo piccolo cespuglio di bosso, è sempre esistita in attesa dell’unico finale possibile. “Una gabbia andò in cerca di un uccello”, scrisse Kafka. Sono sempre stato il custode.

Niente passa perché tutto, incessantemente, passa. Dal sogno non ci si sveglia veramente mai, si salta solo di sogno in sogno, come in Inception. Anche il mostro alla fine è una fantasmagoria. “Peccato che il cielo sia così cupo”. Ma in fondo è solo un diorama.

ARTICOLO n. 5 / 2023

DICIANNOVE ANNI DI “SCRIVERÒ DI PIÙ”

L'anno che verrà

Benvenuti nel 19esimo anno in cui il mio buon proposito è “scrivere di più”. Un proposito difficile da quantificare legato a un’attività che dà soddisfazioni e molte rogne. Rimasto immutato nonostante il passaggio alla maggiore età, all’inizio della carriera lavorativa e all’aver superato i trent’anni, l’auspicio ha lo stesso indice di fallimento di quello di perdere 5 chili entro l’estate, ma molti più sensi di colpa, perché è un proposito che lega la stima di sé alla prospettiva lavorativa, unione che è la grande fortuna degli psicoterapeuti del nuovo millennio. Di seguito, la cronologia di come questo proposito si è insinuato nella mia vita e come è stato in vario modo disatteso.

(Qualcuno esperto di come si danno le notizie potrebbe avere da ridire sul fatto che non si sia aspettato il 2024 per pubblicare un anniversario tondo, il 20esimo. I motivi sono due: per prima cosa si spera che il prossimo anno non stiamo ancora dietro a ‘sta stupidata e il buon proposito sia “provare a indossare di più il giallo”, o qualcos’altro di frivolo; la seconda è che è l’unica idea che mi è venuta in mente, per cercare di realizzare questo proposito anche nel 2023.)

2004

Nel 2003, a 16 anni, mi innamoro di uno che mi dice che dovrei mandargli delle mail dove gli racconto cose, perché secondo lui la scrittura è un’attività bellissima che dovremmo condividere. Il problema è che io mi vergogno di fargli leggere quello che scrivo perché penso che lui sia un genio della scrittura, così apro un blog anonimo dove racconto quello che avrei dovuto raccontare a lui. È un’attività molto divertente, molto più che rispondere alle mail di questo tizio che nel frattempo mi scrive che devo scordarmi una relazione a distanza con lui e che si è messo con una sua compagna di classe. A Capodanno 2004 mi dico che dovrei “scrivere di più”, intendendo sul blog. Il buon proposito si realizza per il semplice fatto che l’anno prima il blog era stato aperto per neanche quattro mesi. Prima e unica volta in cui il buon proposito ha successo, arrivo persino a dire a un prete che mi chiede cosa voglio fare da grande: «Io voglio scrivere per far ridere la gente». Il prete mi guarda con pietà.

2005

Insisto sul punto dello scrivere di più, ma quest’anno c’è dell’ambizione: c’è questa cosa della blogosfera, mi dico che 18 anni è il mio momento per diventare una giovane blogstar, anche perché, imbevuta di ageism, mi convinco che se non sfondo nella letteratura entro la fine del mio diciottesimo anno di vita posso tranquillamente considerarmi una fallita. Questa scadenza è già stata rimandata di qualche anno, visto che nel 2004 il successo dei libri di Melissa P. e Zoe Trope (mie coetanee) mi fanno già sentire in ritardo. Ovviamente l’entusiasmo per il blog e il fatto che non sia diventata una blogstar entro febbraio mi fanno scrivere meno, e l’uscita del libro di Margherita F. celebrato come il più rappresentativo dell’adolescenza in Italia mi fa sentire già sconfitta. Anche l’aver sbagliato un congiuntivo nel tema di maturità non aiuta. La cosa migliore che scrivo è la mail in cui mando a cagare quello là che mi convinse a scrivere – non perché mi abbia convinto a scrivere, per altri motivi.

2006-2009

Finito il liceo a metà 2005, due amici mi consigliano di leggere i libri di David Sedaris e Walter Fontana, scoprendo così cosa vuol dire scrivere per far ridere la gente. La reputo una cosa per me impossibile, ma ormai mi ero incistata su questa cosa della scrittura, quindi mentre studio comunicazione all’università passo tutti i Capodanni a dire che dovrei scrivere di più ma non so bene di cosa. Scribacchio sul blog quattro stupidate, metto qualche battuta scema su FriendFeed, continuo a leggere e guardare gente che fa molto ridere e mi incupisco. L’unico anno in cui il proposito si realizza è il 2009, quando un sito di recensioni cinematografiche mi chiede di collaborare in cambio di andare a vedere film gratis. Io non so niente di cinema, ma non sarà l’ignoranza sul tema a fermarmi, che poi è il principio su cui si fonda buona parte della professione giornalistica.

2010

Il Capodanno del 2010 arriva un mese dopo la mia laurea. Il piano per la ricerca di un lavoro è trovare una redazione di una rivista e piazzarmi lì a scrivere. Non volevo fare la giornalista, volevo scrivere – forse la categoria di persone peggiore che si possa trovare nella redazione di un giornale. Quindi “scrivere di più” era un auspicio lavorativo, ma anche un piano per farmi notare nel caso ci volesse più tempo del previsto per trovare un posto in redazione. Il blog l’avevo praticamente abbandonato, guardare a 22 anni quello che scrivevo a 17 o 18 anni era grande fonte di imbarazzo. Questo “scrivere di più” non aveva una casa, e se non posso pubblicare qualcosa da qualche parte non vedo perché scriverlo. A marzo 2010 entro nella mia prima redazione, ma in quella fase a noi stagisti non ci facevano scrivere, inizialmente non avevamo neanche accesso alle riunioni di redazione. Anche il fatto che ogni consegna io la viva con l’angoscia di chi aspetta il referto di un esame specialistico richiesto d’urgenza non aiuta. Scrivo poco, ma cose significative: il primo articolo pubblicato su un cartaceo, la prima intervista, cose così. 

2011-2015

Nel momento in cui prendo gusto all’idea di scrivere, le responsabilità dentro la redazione diventano tali da non lasciarmi il tempo per farlo. Passo gli anni a chiedere a persone che lavorano fuori dalla redazione di scrivere cose che vorrei scrivere io. Ogni Capodanno mi dico che basta, l’anno prossimo scriverò di più, delegherò tutto il resto. Appena lo faccio, mi ritrovo un’altra cosa da fare che non è scrivere. Roba bella alcune volte, enormi dita nel culo altre volte. Nel 2015 trovo una collaborazione con un mensile, che dura 4 mesi perché poi cambia direttore e quello nuovo mi schifa. Nel frattempo, il provider del mio blog fa saltare in aria i server, con mio enorme sollievo.

2016-2017

Entro in un’altra redazione, dove sono già disillusa dall’idea di scrivere più spesso di quanto facessi nella precedente, ma dato che nel frattempo ho iniziato a lavorare come autrice per un programma comico mi dico: devo scrivere più cose comiche. Per farci cosa non è dato sapere. Magari sui social? Magari sì, ma tanto non lo faccio. La realizzazione del proposito di scrivere nel 2017 potrebbe arrivare a una svolta grazie a un licenziamento arrivato a sorpresa. E invece sono troppo impegnata ad andare in sbattimento per la partita iva per fare qualsiasi altra cosa.

2018-2019

Compresi i meccanismi della partita iva (o meglio, arresa al fatto che non esiste partita iva senza angoscia), il proposito si concretizza nel rimettere insieme un paio di contatti per pubblicare dei pezzi mentre faccio altri lavori. Questa attività costituisce circa l’1,5% dei miei guadagni – non solo perché paga poco, ma pure perché lo faccio poco. A furia di frequentare comici, nel 2019 la formulazione di questo buon proposito prosegue con “per provare a fare stand-up”, ma il dio della procrastinazione mi ha preservato da una figura di merda. A fine 2019 mi regalano un abbonamento a Masterclass, la prima cosa che faccio è guardare la serie di lezioni di David Sedaris dove ribadisce quello che dice in tutte le interviste: lui scrive tutti i giorni, prende appunti costantemente. Dice che ogni testo che scrive viene riscritto almeno 6-7 volte, anche 10. Io non ho manco voglia di rileggere quello che scrivo alla fine della prima stesura, figurati. Mi chiedo se questo proposito abbia poi così senso.

2020

A Capodanno bevo e poi rilancio: è l’anno giusto per scrivere un libro. Per puro caso azzecco sul fatto che è un ottimo anno per stare chiusi in casa a scrivere, ma l’angoscia del lockdown non mi permette di farlo, poi quando il lockdown finisce c’è il tempo all’aria aperta da recuperare, e insomma ci siamo capiti. In un momento di follia pubblico un racconto su un sito di self-publishing e succede un miracolo: arrivano delle persone a chiedermi di scrivere cose. Scopro che funziono solo con il senso di colpa. Non è l’anno in cui scrivo di più, ma è quello in cui scrivo delle cose che davvero mi interessano: i cazzi miei. Qualcuno mi chiede se ho “cose nel cassetto” da fargli leggere, vorrei metterlo in contatto con la me nell’universo parallelo in cui si realizzano tutti i buoni propositi, che ha cassetti pieni di racconti e non ha mai superato i 55 chili di peso.

2021

Ribadisco il buon proposito del libro, di cui non ho manco aperto un file Word, poi mi guardo attorno: tutte le persone della mia cerchia hanno pubblicato o stanno per pubblicare un libro (non tutte-tutte, ma più del 50% sì). Comincio a farmi domande sull’editoria, sul senso che può avere pubblicare un libro in un momento così pieno di libri, sulla percezione della scrittura umoristica. Tutte domande che mi faccio invece di scrivere.A un certo punto mi viene un coccolone per cui finisco in ospedale un mese e mezzo, unico periodo in cui non scrivo senza sensi di colpa perché c’ho la scusa che non va un braccio. Appena esco a dicembre scrivo un raccontone per un giornale, la mia fisioterapista mi dovrà rimettere a posto la spalla per le successive tre sedute, ma è una grande soddisfazione. Quattro giorni dopo è l’ultimo dell’anno.

2022

Parto carica a pallettoni, prometto cose a chiunque, poi ogni volta che mi metto alla scrivania mi vengono dei fastidiosissimi formicolii al braccio sinistro, lascito del coccolone e spiegati con dei “boh” dai medici. Fino ad agosto io vorrei solo parlare con la psicologa e farmi scrocchiare dal fisioterapista, ma ho promesse da mantenere. In autunno il mio neurologo mi dice che va tutto bene, e allora con slancio mi risiedo alla scrivania e mi faccio prendere dalla foga, finché dopo circa 3 ore non mi ricordo che aver scritto è bellissimo, scrivere no. Allora mi alzo per fare una pausa di circa 72 ore e poi riprendo, non riuscendo a mantenere un sacco di promesse.

2023

Il 2 gennaio scrivo su un foglio che quest’anno devo scrivere tutti i giorni, poi mi prendo due giorni di ferie dal mio proposito. A seguito del secondo buon proposito, “diventa più diligente”, mi metto a recuperare gli arretrati del 2022, tipo questo testo qua, che è l’arretrato più veloce da smazzare. Ne ho un altro da chiudere entro un mese. Se riesco a chiudere quello, stai a vedere che è l’anno in cui ricomincio a guidare – perchélimitarsi solo a danni virtuali?

ARTICOLO n. 4 / 2023

IMPARARE A NUOTARE, ANCORA UNA VOLTA

L'anno che verrà

Doveva esserci una luna piena appesa sopra la vasca, ma il bagnino mi dice che l’hanno tolta da tempo, che era un’installazione temporanea. C’è ancora però l’enorme donna di Maurizio Cattelan, un murale che copre una parete intera della struttura già di suo monumentale. La donna è distesa sotto al pelo dell’acqua come se fosse sotto a una coperta. Di lei emergono solo le mani, pacificamente poggiate sulla coperta-acqua, e il viso, che è rivolto verso l’alto mentre le pupille sono rovesciate di lato, cioè verso chiunque entri in piscina, e anzi è uno di quegli sguardi che fissano l’osservatore in qualunque punto si trovi. Mi avevano parlato della piscina Cozzi alcuni amici che la frequentano, uno di loro la chiama “il mare” per via della profondità della vasca che arriva a cinque metri dal lato dei trampolini per i tuffi. Costruita in epoca fascista, con la conseguente grandeur architettonica, mi è sembrata abbastanza solenne per frequentarla senza fare troppo caso a me e al mio proposito per l’anno in cui compirò quarant’anni, che è il prossimo, ed è anche l’anno in cui voglio imparare di nuovo a nuotare.

Per molto tempo, l’ipotesi di frequentare una piscina per il nuoto libero amatoriale mi è parsa impraticabile, a causa dell’affollamento sentimentale che cova dentro a ogni cosa, nell’odore di cloro e vapore, nel segno del costume sulla pelle, in quel particolare tipo di rimbombo delle voci nelle vasche coperte. Sono stata una nuotatrice per una manciata di anni, che a pensarci adesso sembra trascurabile, ma che l’economia della memoria tende a far pesare più di tutti gli altri nella costruzione di sé. Ho cominciato da piccola, in una piscina affacciata sull’Arno, a Firenze, in un settembre degli anni Ottanta, come tanti bambini costretti a buttarsi in acqua controvoglia perché ai loro genitori era stato raccontato che “il nuoto è lo sport più completo”. Avrò avuto quattro anni quando fui iscritta al primo corso, che aveva la sola pretesa di insegnarci a gestire la respirazione dentro e fuori dall’acqua o, nel gergo dei maestri di nuoto per bambini, a fare le bolle. Prima attaccata al bordo e piano piano, galleggiando sorretta da qualche adulto di cui ho rimosso il nome e le sembianze, facevo dunque le bolle con la faccia sott’acqua, spingendo fuori l’aria con impegno, e riemergendo con la disperazione che preme alla fine di ogni respiro, prima che l’ossigeno rientri in circolo. La bambina ha un’ottima confidenza con l’acqua, dicevano a quanto pare le figure preposte, e questa apparentemente laterale caratteristica della mia persona finì per inchiodarmi al nuoto per i dieci anni successivi, e rendere la piscina un paesaggio costante di quel periodo di straordinarie trasformazioni in cui da bambini si diventa adolescenti. Una volta entrata nella squadra agonistica mi allenavo tutti i giorni e d’estate, appena finiva la scuola, due volte al giorno, mentre nei fine settimana c’erano spesso le gare regionali, che mi regalavano risvegli alle sei del mattino per essere alle otto a Carrara, a Livorno, a Certaldo. Facevamo il riscaldamento nell’acqua fredda di queste vasche di provincia, dove tutte le squadre si allenavano in contemporanea in un drammatico carnaio, e poi convivevo per le ore seguenti con un misto di noia e tensione in attesa della convocazione ai blocchi. Non ho mai provato gioia o divertimento a gareggiare, anzi, la descrizione più accurata vista da qui è che ero insofferente a ogni cosa di quelle giornate campali, e desideravo solo il momento in cui dopo la doccia piazzavo la testa sotto i phon a parete degli spogliatoi, e chiudendo gli occhi nel getto di aria calda sapevo che era finita. Detestare le gare non mi impediva di continuare a nuotare e di passare le estati insieme ai miei compagni di squadra a ciondolare sul bordo della piscina affacciata sull’Arno, quando finalmente la scoprivano e il fiume si vedeva davvero. Era riservata ai soci della squadra anche quando diventava una piscina di svago ed era il nostro territorio, ci sentivamo al centro del mondo, veneravamo Aleksandr Popov e odiavamo Gary Hall Jr., guardavamo le pubblicità di automobili con Franziska van Almsick e ci sembrava che il nuoto esaurisse l’universo del conoscibile, o almeno di quello che contava. Lasciai la squadra a quattordici anni, appena la vita liceale mi parò davanti altre più interessanti forme di intrattenimento, e non ci furono drammi perché ero dopotutto una nuotatrice media, senza speranze di diventare professionista. In qualche modo sotterraneo, però, mi sono sentita una nuotatrice sempre, per la forma che il nuoto aveva già dato al mio corpo, delle spalle larghe quasi maschili, perché è intorno a una piscina che ho iniziato a sperimentare alcune emozioni di base e, più di tutto, per quella confidenza con l’acqua che è rimasta intatta, nonostante io abbia evitato di frequentarla.

La donna di Cattelan mi fissa mentre rincalzo i capelli dentro la cuffia di silicone, e poi mentre regolo gli occhialini, e poi mentre deposito le ciabatte vicino al bordo e cerco di individuare la corsia meno affollata. Le prime vasche vanno via come niente e mi danno il tempo di illudermi che sia tutto ancora lì, l’arco della bracciata, la spinta delle gambe, c’è un istinto dei movimenti che si è conservato, li riconosco. Il problema, me ne accorgo quasi subito, è la respirazione: mi tocca accettare l’idea che non so più fare le bolle. La massa di acqua scura che si apre sotto di me dove la vasca è profonda cinque metri (eccolo, “il mare”) mi dà una specie di vertigine e mi porta a cercare l’aria dopo ogni bracciata. Dopo pochi minuti, sono in affanno. Non riesco a nuotare piano come vorrebbero i miei polmoni, e il respiro si spezza, si fa irregolare, manca. Due vasche e ferma, due vasche e ferma. La Cozzi inoltre non incoraggia il fermarsi a riposare: non si tocca da nessuna parte, il bordo è molto alto rispetto al livello dell’acqua, bisogna proprio appendersi, e i cordoni che separano le corsie (in realtà si chiamano corsie anche quelli, è scarno il lessico del nuoto) sono troppo grandi e tesi per potercisi sbracare sopra come fa ogni nuotatore da ogni tempo quando vuole riprendere fiato. Nel quadro di sottili prevaricazioni dimensionali che la grandeur architettonica esercita su di me c’è anche ovviamente la lunghezza della vasca, trentatré metri, una taglia anacronistica dagli anni Cinquanta in poi, e che risulta, nella prospettiva psicologica del nuotatore, una normale vasca da venticinque metri dove però lui è diventato più piccolo.

La prima settimana della nuova vita da nuotatrice se ne va col fantasma della me adolescente attaccato addosso: è nella pelle che sa di cloro anche dopo la doccia, nell’acqua nelle orecchie, nel solco che gli occhialini mi lasciano sulla faccia. E mi ricorda anche quanto nuotare in piscina comporti mischiarsi con gli altri, condividere l’acqua in cui speriamo sempre che nessuno pisci ma in cui di sicuro tutti sudano e sputano. Vuol dire mettersi quasi nudi in mezzo a sconosciuti e nella fatica diventare un tutt’uno.

Charles Sprawson era un autore inglese che all’inizio degli anni Novanta scrisse un libro per ripercorrere la vita e le imprese di alcuni scrittori e poeti che sono stati anche nuotatori intrepidi – e nella cui scia si inserisce volentieri, raccontando di essersi cimentato lui stesso nella traversata dello stretto dei Dardanelli e del fiume Tago. Il libro, che si intitola Haunts of the Black Masseur (tradotto con L’ombra del massaggiatore nero da Adelphi nel ‘95), racconta come il nuoto, celebrato in epoca classica, cadde poi in disgrazia, per essere riscoperto solo all’inizio dell’Ottocento, quando in Europa, e in particolare gli inglesi, impararono di nuovo a nuotare. La rinascita del nuoto passò anche dal diventare attività prediletta di alcuni poeti romantici come Byron, Shelley, Swinbourne, e un esercizio di sfogo e libertà per altri letterati successivi, tra cui Flaubert, Zelda Fitzgerald, Tennessee Williams. Il nuoto che racconta Sprawson non è lungo le corsie di una piscina, ma attraverso mari e fiumi o sotto le cascate, è una fonte di ribellione e di scoperta, di estasi e rischio, è una materia per avventurieri e sperimentatori.

Leggendo le storie dei nuotatori eccentrici mi sono ricordata di un episodio, verso la fine del mio periodo di agonismo. Durante una gara, credo i duecento stile libero, la cuffia cominciò a scivolarmi via. Nuotai una parte della gara con la cuffia calata a metà testa, una cosa che mi innervosì moltissimo, finché interruppi le bracciate e mi fermai per sfilarmela del tutto, scaraventandola via insieme agli occhialini come si potrebbe lanciare un pallone da pallanuoto. Feci ovviamente un tempo pessimo, anche per questo gesto che non aveva alcun senso e che ancora oggi non riesco a spiegarmi, e mi trascinai piena di vergogna davanti all’allenatore che se non ricordo male non infierì, forse anche lui spiazzato dalla mia teatralità estemporanea. Non mi stupisce che sia uno dei ricordi più nitidi del mio passato sportivo, ma è curioso che al di là del gesto mi ricordi la sensazione di quelle ultime due vasche senza cuffia e occhialini, l’adrenalina della gara sommata a quella del comportamento irregolare e la sensazione di sentire l’acqua molto meglio di prima. La sola ad avere il coraggio di rivolgermi la parola in merito fu la madre di un mio compagno di squadra che vedendomi passare mi disse, è stato un lancio bellissimo, come una danza. Allora mi parve una forma di commiserazione perché avevo poca fiducia nella fantasia degli adulti, ma col senno di poi quel gesto mi sembra l’unico squarcio di ribellione del mio periodo agonistico, e l’unico punto di contatto tra la nuotatrice di allora e quella che vorrei essere nell’anno che verrà.

Parlando di nuoto con un amico che frequenta la Cozzi da anni, lui mi dice che mentre va su e giù per le vasche ha lunghi dialoghi con se stesso e che ne ricava degli effetti meditativi. La ripetitività del nuoto si addice a questo uscire dal corpo, ne sono certa, e mi fa pensare che i nuotatori amatoriali si possano distinguere in chi mentre nuota pensa ad altro, vaga per le altezze dei pensieri, e chi pensa solo ai movimenti, al corpo che sente l’acqua. Per me, che appartengo ai secondi e che non sentivo l’acqua da più di vent’anni, si tratta di rientrare nei gesti vecchi con un corpo nuovo, che non è solo invecchiato ma che rispetto alla nuotatrice ragazzina a cui tutto doveva ancora succedere, ha vissuto dolore, eccitazione, depressione, amore e che da tutte queste cose è stato trasformato. Che deve imparare a prendere aria e buttarla fuori, e poi a vivere il nuoto come una danza. Mi sembra una cosa tutto sommato avventurosa. Non c’è uno stretto da attraversare ma almeno ho “il mare”, una donna gigante che mi fissa e qualche ombra con cui fare pace.

ARTICOLO n. 3 / 2023

NOTIZIE DAI BUCHI NERI

L'anno che verrà

Fine novembre 2022. O giù di lì.

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sull’anno che verrà. 

Ho risposto, da sconsiderato che sono: «sì, ci sto, ti ringrazio!»

E subito dopo mi sono sentito in una posizione temporale falsata.

8 dicembre. Premessa escatologico/comunicativa.

Per reazione alla proposta, seguendo la mia naturale capacità di essere pigro e di procrastinare, ho pensato di scriverne uno sull’anno che non verrà. Ma è un pensiero eccessivamente ottimista. Potrebbe invece arrivare, e pure in perfetto orario. Mi sconsiglio di far propositi proprio nel giorno in cui la terra segna il suo giro attorno al sole, di solito è previsto molto traffico.

Ripenso al primo anno di pandemia, all’agendina Moleskine di quel 2020, rimasta praticamente intonsa, poi rivenduta su EBay in un Black Friday dove avevo scritto che il Faust è un buon dramma perché mostra che non c’è bisogno del Black Friday per fare pessimi affari. Se solo ripenso che fino a poco tempo fa si profetizzava ripetendo che dalla pandemia “ne usciremo migliori”, come nelle scene dei film dove il malcapitato abbandonato in un bosco di notte, per farsi coraggio ad attraversarlo, canticchia tra sé una canzone per tenersi compagnia ma neanche troppo forte, per paura che il mostro lo trovi e se lo mangi tutto, se solo ci ripenso mi viene una malinconia, ma una malinconia! Ho avuto, in quel periodo, l’illusione che il futuro abbia avuto luogo esattamente come quando si ha l’illusione che una comunicazione importante fra due esseri sia esistita, come nella brevissima parabola di Kafka Un messaggio dell’imperatore: Kafka da del tu proprio al lettore, dicendogli che un imperatore morente da un regno lontanissimo ha affidato a un messaggero valoroso il suo ultimo, decisivo messaggio, e questo messaggio è rivolto a lui, al lettore, identificato nell’ultimo dei suoi sudditi, solo a lui e a nessun altro. Il messaggero affronta nel viaggio difficoltà insormontabili, dispera di riuscire a recargli il messaggio, eppure va avanti nonostante comprenda l’inutilità di ogni sforzo. E il suddito aspetta, continua ad aspettare, non smetterà mai di aspettare. Kafka chiude la parabola così: «Tu, però, resti affacciato alla tua finestra, e al messaggio dai vita nei tuoi sogni, quando scende la sera». Certe mattine in piena pandemia, dopo aver passato notti catatoniche davanti ai catastrofali notiziari TV (quante volte avrò sentito pronunciare dai giornalisti “niente sarà più come prima” con un tono che a furia di sentirlo ripetere aveva assunto ormai un che di morbosamente sadico come il “ricordati che devi morire” al punto che di morire ti dimentichi), mi svegliavo credendo di essermi trasformato come cento anni fa Gregor Samsa in un mostruoso insetto, meglio ancora in un mostruoso inetto, no, cento anni dopo dall’uscita de La metamorfosi, ancora peggio: in me stesso e basta. In Ragno. Ragno Tommaso. Perché il confine tra uomo e animale è arbitrario, ve lo dico da Uomo Ragno.

Senza più a disposizione la casualità che faceva parte della “realtà”. Sapevi esattamente dove eri e in che momento eri. Via dai marciapiedi. Nessun accadimento. Nessuna improvvisazione. Nessun principio di indeterminazione. Braccato nell’armatura di un totale teatro di regia, che è qualcosa di simile a un fermo di polizia. Noia non mancava. Ne accumulavo tanta per il futuro, per quando ne sarei “uscito migliore”. Ma intanto condannato a essere solo e soltanto me stesso tutto il giorno. Nessun “altro da me” da sperimentare sul palcoscenico o sul set. Una metastasi di tempo sprecato, almeno per chi come me fa quel genere di lavoro che non può prescindere dall’essere in presenza e non in remoto. E io in quel momento avevo iniziato a sentirmi più che altro trapassato remoto. Ad aspettare il messaggio imperiale dal futuro. Dal futuro che fu… arrivava un’irrealtà reale creata da QualcunAltro. Un senso di vuoto e il tentativo di descriverlo. E, ancora di più, privato di quello spazio di fuga che sono i set e i palcoscenici in comune ad altri esseri in fuga che sono gli attori, avevo bisogno dell’immaginazione, perché è un’energia che se da un lato crea percezioni non per forza realistiche (per fortuna!) può però condurre alla vera essenza di ciò che è reale. 

Non essendo io un astrologo, né un profeta, tantomeno Iddio e nemmeno così narcisista da poter dichiarare che ne sarà dell’anno che verrà, che cosa da lì ci aspetti, ho chiesto aiuto a un amico filosofo:

«…e che diceva Hegel riguardo al futuro?»
«Che migliora.»
«E Marx?»
«Che peggiora prima di migliorare.»
«E Nietzsche? Che dice Nietzsche?»
«Nietzsche dice che è tutto sempre uguale. Quale preferisce?»
«…mi dia il solito, grazie.»

La sola cosa che mi sento di dire al riguardo è questa: l’anno che verrà dopo il 2022 sarà il 2023. E questo, onestamente, è quanto c’è da sapere. Usando come sistema di misura qualunque calendario, il risultato resta lo stesso. Per me la questione potrebbe finire qui.

Interstellar.

Col tempo ho capito che le risoluzioni, i bei propositi per l’anno che verrà sono delle mannaie, in fondo una forma di odio per se stessi che conduce a un aumento di odio per se stessi quando non riesci a mantenerli. E fare la stessa cosa più e più volte aspettandosi esiti diversi significa o che sei pazzo, o che stai appunto facendo propositi per l’anno che verrà.

La pigrizia ha poi ceduto alla vanità, e allora ho deciso di scrivere lo stesso qualcosa sotto forma di diario-calendario dell’Avvento, come quelli che in questo periodo si vendono con dentro tante finestrelle a sorpresa, biscotti della fortuna cinesi, con tante frasi incoraggianti, tanti cioccolatini giorno per giorno dall’inizio fino alla Vigilia di Natale. Uno tira l’altro in attesa del giorno successivo. Nel centenario della morte di Proust, ne ho comprato uno che contiene delle madeleine, una al giorno, ognuna con un sapore diverso, classiche o ricoperte di cioccolato, o di spezie speciali di cui posso dir gli Orienti e gli Occidenti. E così, di madeleine in madeleine, vedi mai che arrivo a ricordarmi la password dimenticata che mondi possa aprirmi e, mentre le ingurgito con la promessa che ogni sapore mi distorcerà e mi curverà la percezione del tempo e dello spazio, di certo subirò anch’io una distorsione spazio-temporale arrotondandomi di qualche chilo in più. Ma poi, secondo la scoperta di qualche anno fa dei due buchi neri che si scontrano, siamo sicuri che la distorsione di spazio e tempo fu causata da onde gravitazionali o gli scienziati avevano semplicemente appena scoperto l’Amore?

In attesa della risposta, mi dico che quella sensazione di spazio-tempo distorto non deve esser diversa da quando ci si ubriaca. 

Ubriaco d’amore, a questo io brindo.

Le celebrazioni e le ricorrenze in generale sono fatte per ricordare a noi stessi che siamo a bordo di una macchina del tempo: mentre questa macchina procede illusoriamente in avanti, guardo nello specchietto retrovisore per vedere cosa lascio dietro ma anche cosa ancora può arrivare dal passato che ancora attende di esser realizzato.

Per quanto io sappia che esiste la convenzione di un tempo cronologico, faccio finta di niente, nei confronti del tempo continuo a comportarmi come non lo fosse. E dicevo di Proust. Qualche giorno fa ho portato a termine la registrazione dell’audiolibro de Il tempo ritrovato, l’ultimo dei sette volumi de Alla ricerca del tempo perduto, è ritenuto il romanzo più lungo che sia mai stato scritto, anche se probabilmente non quello a esser più a lungo letto. Fatto sta che dopo averlo finito ero arrivato a letto, questa volta non come mostruoso inetto ma in stato di totale proustrazione.

Quando lo si inizia a leggere e si va avanti, si entra davvero in un’altra percezione, in un cortocircuito temporale, è uno di quei libri che si fa insieme a chi lo legge: mentre tu lo leggi anche il romanzo legge te. La lettura che ne fai, l’investimento che fai mentre lo leggi contribuisce a far risorgere quello che sta sepolto dentro quelle pagine (che un libro sia buono tanto quanto lo è il suo lettore è la maledizione dei buoni scrittori e la consolazione di quelli cattivi, ma anche la consolazione degli editori).

Ne faccio quindi una sintesi pecoreccia nonché riduttiva per non proustrarvi a leggerlo:

alla fine del romanzo, il narratore, che per tutto il tempo della sua vita sperimenta amori gelosie delusioni perdite crolli e nascite scoperte nel mondo del sesso dell’arte del linguaggio, sviluppando man mano che cresce prima la sensazione e poi la certezza di non avere nessun talento per la scrittura, verso la fine della sua vita, attraverso degli avvenimenti fortuiti e banalissimi, scopre che tutto ciò che gli era parso “tempo perduto” in realtà non lo era. 

La vita, in tutti quei decenni, aveva creato in lui un capolavoro, si era trattato solo di aspettare, di assecondarla, di lasciarle compiere l’opera. In lui. Da quel momento in poi tutto quello che sembrava un puzzle senza senso comincia invece ad averne. Comprende di essere insieme la miniera e il minatore del tesoro che il tempo perduto ha depositato in lui. E solo allora sente che può finalmente iniziare a fare ordine e comporre l’opera. E che è proprio quella che il lettore per sette volumi ha avuto tra le mani. Solo che il lettore e l’autore lo scoprono insieme alla fine. E la fine e l’inizio coincidono. La ricerca del narratore diventa la stessa del lettore. Proust crea il lettore a immagine e somiglianza del narratore, diventa addirittura il migliore dei suoi personaggi. Sono gemelli. E i tre tempi di presente, passato e futuro confluiscono in una sorta di tempo originario, senza inizio né fine. Si può ricominciare a leggere il romanzo con questa nuova consapevolezza, e chi lo legge o lo rileggerà (anche molti anni dopo) contribuirà a illuminare aspetti che erano sfuggiti. Come farebbe un archeologo, il quale lavora proprio coi depositi di tempo e le resurrezioni.

E, a pensarci un attimo, io stesso, senza troppo saperlo, non sono già un elemento di archeologia? Non vivo e lavoro e mi do da fare già inconsapevolmente per il futuro dell’archeologia proprio mentre perdo il mio tempo a vivere? Immagino un archeologo di una civiltà futura che disseppellisce dei resti sul fondo degli oceani che avranno sommerso il pianeta e trova in ciò che resta della mia mano un iPhone 14 waterproof e riscopre l’antico gioco di Super Mario che tra millenni, grazie alla patina del tempo, acquisterebbe un valore strabiliante. Perché è quella la cosa che si compra quando si acquista un oggetto del passato ed è ciò che le conferisce un valore esclusivo e irripetibile: la patina. 

Di fronte all’“anno che verrà”, appena ci penso, mi torna in mente un fatto per me decisivo: mi viene la stessa espressione facciale di Bob Dylan durante la registrazione della canzone We Are The World, che usciva proprio sotto il periodo natalizio del 1985, un’iniziativa capitanata da Harry Belafonte, Bob Geldof, Michael Jackson e Lionel Ritchie per “U.S.A. For Africa”. In quel momento (il video lo si trova su YouTube), la faccia di Dylan, in mezzo a un coro di all star della musica che cantano, alcune commosse, altre commosse e dolenti, ma in generale felici e sorridenti, appare evidentemente stranita, perduta, allibita, sembra la faccia di un attore che chiede perdono a Dio perché non sa quello che dice, che si è scordato le battute da dire e cerca di non darlo a vedere mentre il pubblico lo guarda, lui butta gli occhi a destra e a sinistra in cerca di un suggerimento o di una quinta da dove uscire ma niente da fare, è braccato in mezzo al coro che ripete ottimista che “We Are The World”. A un certo punto, circondato e sballottato da quella gioia corale attorno a lui, il suo sguardo diventa vitreo, narcotizzato, quasi demente, fisso davanti a sé verso un orizzonte cieco, dal labiale si intuisce che è totalmente fuori sincrono, e allora sembra non cantare quasi più, è oramai rassegnato, nonostante sia lì per una più che buona causa, sembra uno svegliatosi di botto, dopo un sonno di decenni, in un paese di cui non capisce la lingua, la faccia di uno che si sta pentendo di sposarsi quando è ormai all’altare, la faccia di uno che è stato troppo a lungo nel mondo da avere ormai smarrito la strada per sempre. 

Penso alla sua Blowing in The Wind, una canzone che pone domande capitali su, per esempio, cosa ci vuole perché le guerre finiscano per sempre o quante orecchie deve avere un uomo prima che possa accorgersi della gente che piange. E a tutte queste domande enormi il suo famoso refrain ripete in tono lieve, gentile e profondamente compassionevole che “la risposta, amico, la puoi sentire soffiare nel vento”. 

We Are The World, che pure ha temi molto simili, presume di essere invece la risposta. E se Dylan può essere un mistero, non appare esser invasato da pia illusione. Di qui la sua faccia alienata in mezzo a un coro che canta “Noi Siamo Il Mondo”. È solo una mia interpretazione, forse tutto questo non c’è, forse era solo inorridito da quella musica e tanto basta. E sarebbe una ragione sufficiente. Anzi l’unica che interessi, se è vero che il fatto etico ed estetico coincidono. Ad ogni modo, la faccia di Bob Dylan che pare dire “Io non sono qui” con quell’espressione facciale alienata sotto Natale e poco prima dell’anno nuovo è l’unica cosa che almeno posso dire di condividere, io e Bob Dylan, contro l’egorìo della vita moderna. 

«Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena e vi tiene a terra dovete ubriacarvi senza tregua. Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi. E se talvolta sui gradini di un palazzo, nella tetra solitudine della vostra stanza vi risvegliate perché l’ebbrezza è diminuita o scomparsa, chiedete al vento, alle stelle agli uccelli, all’orologio, a tutto ciò che fugge, che geme, che scorre, a tutto ciò che canta, che parla, chiedete che ora è; e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, l’orologio vi risponderanno “È ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo”. Roba da Fiori del male di tale Baudelaire, poeta, mistico, ribelle, sostenitore del libero amore, melanconico, ubriacone, fondamentalmente un utente Tinder del XIX secolo se fosse vivo oggi, scrivesse sui social e fosse commentato dai forzati alla ricerca della felicità sponsorizzata. 

Se dicessi che viviamo in tempi di incertezza, sarebbe un eufemismo. Perciò non lo dirò. Ops, l’ho appena detto. Davvero l’ho detto?

Per secoli si è sbattuta la testa contro i muri per rispondere alla domanda profonda ed elementare di Shakespeare: essere o non essere?

E ci siamo riusciti? Come no! Anzi, alla ricerca di ulteriore grandezza, siamo andati oltre la semplice scelta binaria. Grazie all’umano ingegno, oggi è possibile avere entrambe le opzioni: essere e non essere. Negli anni ‘80, al tempo delle prime segreterie telefoniche incorporate, la Telecom aveva escogitato una pubblicità irresistibile: su un’immagine dell’apparato telefonico campeggiava questa scritta: Esserci? Non esserci? Nessun problema. Shakespeare, Heidegger, Kafka, “assenza più acuta presenza”, tutto il ‘900 e balle simili risolte in un solo colpo di telefono registrabile. Bisognava aspettare un paio di decenni ancora prima di capire che non c’è bisogno di essere un Lenin per sentirsi dare sui nervi un pochino ogni volta che qualcuno avesse definito uno schermo iPhone di due millimetri più grande una “rivoluzione”. E quindi: esserci e non esserci?

Ma questo non contraddice la logica umana? Niente affatto, almeno secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, pietra angolare della meccanica quantistica che afferma un limite fondamentale alla certezza della conoscenza. Secondo questo principio non è possibile determinare sia la velocità che la posizione delle particelle (bosoni, elettroni, quark, etc.) contemporaneamente. Come quando da Amazon possono dirvi lo stato dell’ordine fatto o la sua posizione ma non tutt’e due le cose. Dato che è impossibile sapere se la posizione del vostro ordine è X o X, allora quell’ordine può essere sia in posizione X sia non essere in posizione X, simultaneamente. Perciò “essere e non essere”. Capito?

Alla faccia dell’incertezza. Io, che senza occhiali alla guida non vedo una ceppa, se li tolgo sembro assumere lo sguardo assorto e compresso come fissassi la vastità nebbiosa della Val Padana in novembre, ma in realtà in quel momento sto solo cercando di aguzzare la vista per evitare di andare a sbattere contro un palo, ecco io in quel momento, senza saperlo, sto applicando il principio di Heisenberg. Si può applicare anche alla recitazione, nel rapporto tra testo, attore e personaggio, quando si dice che l’attore non deve sapere già quello che il personaggio farà e dirà. All’anno che verrà in attesa di segni numinosi con la retorica motivazionale di multinazionali del male e del banale. Nei versi di Montale si trovano spesso concetti di fisica dei primi del Novecento. In Tempo e tempi, per esempio: 

Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s’intersecano. È quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.

E grazie Eugenio, ma qua non si è sicuri in nessun luogo, nemmeno per le coincidenze in un aeroporto.

Congiunzioni gastro/astrali.

Qualche anno fa, il firmamento regalò un evento astronomico rarissimo agli occhi di un terrestre: la più lunga eclissi di luna del secolo e una grande opposizione di Marte, il pianeta rosso. Quella congiunzione di corpi celesti fu lunga, spettacolare, ipnotica, l’umano genere poteva assistere alla graduale immersione della luna nella luce marziana che le donava la lucentezza brillante del rosso pomodoro. Il giorno dell’eclissi mi trovavo a trascorrere una serata con amici e familiari in una località del Sud Italia nel cuore della Magna Grecia. Quel luogo, dove le divinità antiche sono di casa, era perfettamente numinoso per accogliere nei nostri occhi quella bellezza interplanetaria che non poteva che suscitare riferimenti a teogonie, segni divinatori, riflessioni su chi siamo cosa siamo dove andiamo insomma anche lì l’occasione era perfetta per distorsioni spazio/tempo, o altrimenti detto: per darsi al bere. E ancora più gradita mi era l’occasione per esser stata accompagnata da una cena con una pasta al pomodoro di bontà ineffabile, che mio figlio allora seienne aveva gustato con infinita beatitudine. Dopo le libagioni, uscimmo tutti a riveder le stelle per contemplare la luna rossa nell’infinito in un silenzio redentore. Mi ricordo un mio caro amico e mio figlio di spalle che guardano il cielo. Dopo un lungo silenzio l’amico fa a mio figlio: «Vedi? Un giorno ricorderai questo momento epocale nella storia e potrai raccontare di avere visto l’eclissi di luna rossa». Dopo un altro lungo silenzio, sento mio figlio proferire lentamente, mentre osserva la luna, ispirato, assorto, sacrale, sotto i cieli noncuranti: «Io invece mi ricorderò la pasta al pomodoro».

Signori, il pranzo è servito! È stato un momento rivelatorio davanti al quale mi sono inchinato non tanto per rispetto di fronte al cuore semplice di un bambino, ma perché ho visto in atto che nemmeno un prodigio celeste, per quanto bello, riesce a generare quel senso della durata, la pura sensazione di vivere, quella quiete che è data, insieme al piacere del carboidrato (sempre sia lodato), dalla scoperta dell’ovvio, insito in un gesto quotidiano, qualcosa che si condivide con milioni di altre persone, facendo cose che diventano parte del pulviscolo del tempo, perfettamente ignorabili, e che senza accorgersene riportano sulla cosiddetta via maestra dei giorni a venire…

ARTICOLO n. 2 / 2023

COSA FARÒ DA GRANDE

L'anno che verrà

Fin da bambino, sentirsi chiedere che cosa avrei voluto fare da grande era un mantra che esaltava la mia dote di indecisionista cronico. In mio soccorso arrivavano gli incarti delle gomme da masticare (per tutti noi si trattava delle “cicche”, la parola chewing gum a Castelleone, nel 1971, era al di là dal venire). In quelle cartine uscivano dei pronostici del nostro futuro, ne ricordo alcune: “da grande farò l’astronauta” (disegno dell’astronauta) oppure: “farò lo scienziato” (disegno dello scienziato con camice e occhiali), la più ambita tra i miei amici: “farò il calciatore”. Di tutti e tre i pronostici, il più credibile per il sottoscritto era l’astronauta. Poter partire per la luna era più plausibile che giocare una partita di pallone e questa cosa la dice lunga sulla mia empatia con qualsiasi gioco di squadra, d’altro canto lo scienziato evocava anni di studi e di formazione, quindi anche no.

Sentirsi chiedere che cosa avrei voluto fare da grande valse sino alla soglia delle scuole medie, da lì in poi si cominciò ad accantonare la fantasia per iniziare a fare sul serio, ovvero a inquadrarsi socialmente.

Di fatto la scuola superiore ti indirizzava inesorabilmente verso una professione. I pragmatici istituiti tecnici avevano dei nomi che comodamente si traducevano in lavori: perito meccanico, geometra, ragioniere, e via così; quelli tra noi che potevano permettersi di fare i sognatori andavano ai licei.

In una di queste scuole tecniche, un professore, all’approssimarsi della fine dell’anno, ci chiedeva di formulare dei propositi per l’anno nuovo. Ricordo la mia desolazione nel saper allineare solo qualche povero pensiero relativo al miglioramento scolastico. Nessuna tensione ideale verso il futuro, solo la speranza di cavarmela senza esami di riparazione in modo da mantenere intatto il patrimonio dei giorni delle vacanze estive.

In realtà non facevo altro che rimandare l’appuntamento con le scelte definitive, mi sembrava di camminare su un trampolino da tuffi olimpici, passo dopo passo l’assicella prima o poi sarebbe terminata, vivevo quel tempo di sospensione come un condannato all’indecisione. E quel trampolino si prolungò sino nei paraggi della facoltà di Architettura, che scelsi solo in virtù di una incerta propensione per il disegno tecnico. A una debolissima vocazione verso l’architettura arrivò perentoria e provvidenziale la cartolina precetto che mi spinse giù nel baratro, non di una piscina, ma di un’enorme caserma operativa in quel di Bellinzago Novarese, e per dodici mesi qualcuno avrebbe deciso per me cosa avrei dovuto fare, come vestirmi, cosa mangiare, financo cosa pensare. 

Ricordo ancora lo smarrimento di ritrovarmi, dopo 52 settimane, fuori dalla porta carraia e in abiti civili, una bella giornata di sole con un borsone pieno di indumenti da lavare e un foglio di congedo che si traduceva in una parola con cui non avrei voluto avere a che fare, ovvero: libertà.

Ma alla fine ci si abitua a tutto, anche ad accettare che tra te e la tua vita non ci sia più nessun ostacolo, così dopo aver assecondato il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Difesa, ora mi toccava in sorte il Mistero dell’affrontare scelte mai fatte.

In realtà non successe niente di epico tra me e il mio futuro, nessuna scelta radicale, niente partenze per l’India per cercare se stessi: si comincia ad aiutare un cugino architetto, a frequentare oscuri corsi serali di disegno industriale, a limitarsi a tastare il terreno attorno per verificare cosa può sedare per un momento l’insoddisfazione per ciò che non si è, per ciò che non si ha. In questi casi si dovrebbe parlare di sopravvivenza, ma, se torno a quei giorni, più che “sopra(v)vivere” mi sembrava di vivere al di sotto di tutto. Ma si sa, il tempo è un medicinale che non richiede prescrizione medica, e così l’idea del futuro, e che cosa fare “dopo”, si assopiva lentamente tra impegni quotidiani, scelte subite (tante) e scelte in proprio (poche).

E poi, è tra le pieghe del tempo “minore”, ovvero del tempo non segnato da eventi epocali, che la vita prende sapore e una direzione. Il “che cosa farò?” diventa un “fare quotidiano” senza troppe sovrastrutture, e così ci si accorge che ciò che da sempre era un’innocente evasione (disegnare oggetti e in molti casi realizzarli) poteva diventare un lavoro in grado di dare un senso a tutto il casino combinato prima. E così è stato.

Ma che fine ha fatto l’insoddisfazione che mi ha sempre perseguitato? A dire il vero è sempre qui con me, si dice che se non si riesce a uscire dal tunnel convenga arredarlo. Nel caso della mia insoddisfazione cronica, non potendo guarirla l’ho accettata. In qualche modo, non essere mai pienamente soddisfatti di ciò che si è e si fa è uno stimolo per migliorarsi (mettiamola così).

Nonostante questo apparente stato zen che mi auto-attribuisco, quando comincia a profilarsi la fine dell’anno, l’idea di dare una sterzata alla vita, iniziare l’ennesima dieta, provare a programmare scelte (vegetarianismo, finire tutta la Settimana Enigmistica, affrontare LRecherche, riordinare l’archivio e così via…) sono scampoli di decisioni che potrebbero concedere l’illusione che si è ancora padroni di mischiare le carte della propria vita. Ma poi, tra armadi da sistemare, l’aprire e il richiudere in fretta uno dei tanti libri di Proust, si affaccia una domanda a cui non so rispondere, ovvero: da quando ho barattato il mio futuro e le scelte radicali con questi piccoli e asfittici propositi?E soprattutto: Perché nessuno mi chiede più che cosa farò da grande? Ma ancor di più: perché non comincio io una buona volta a chiedermi cosa fare da grande?!

ARTICOLO n. 1 / 2023

NON SO PERCHÉ STO PRENDENDO QUESTO TRENO

L'anno che verrà

Sto comprando questo pane bianco pieno di mollica che si chiama pane per toast e non c’è nessun umano per pagare al supermercato della stazione, devo farlo con la voce robot della cassa, che ha solo la voce, non dorme, non mangia, non sa neanche che cazzo sto comprando, non sa la differenza tra una scatoletta di tonno e un sogno. 

C’è poco tempo prima che parta il treno, tipo 8 minuti. Ora saranno 7. Sto pensando di lasciare giù la confezione ma non ci riesco perché ho il cervello in granelli e c’ho fame. Ho scelto questo pane perché è quello più vicino alle casse, si chiama pane per toast e sta dentro a un contenitore di plastica, a forma di baule, non so come dire, a forma di armadillo visto dall’alto senza testa, senza coda, senza squame, non ha niente di vivo, non sembra neanche che lo puoi mangiare, sembra fatto di cera e gel per capelli. 

Penso di rubarlo, di non pagare, per una volta. L’ho già fatto da piccola, da Body Shop, avevo rubato delle palline di bagnoschiuma che si sciolgono nella vasca. Le avevo nascoste nella borsa di mia nonna così se qualcosa andava storto, beccavano lei. In quel periodo se avessi avuto della droga le avrei messo in borsa pure quella, alla stazione, così la mettevano in prigione e io potevo farmi i cazzi i miei per tutti i pomeriggi da lì in poi. 

Alla fine pago sti 330 grammi di pane chimico e corro con il pane, le valigie, il cellulare in mano tutto scarico, io mezza rotta con uno strappo alla spalla, c’ho il ciclo che è appena arrivato quindi è più forte di me, più forte di tutto quello che posso mettere tra lui e il mondo, chissà cosa sta succedendo lì sotto, chissà cosa percepisce il mondo di quello che sta succedendo lì sotto, è meglio non chiedere, è meglio non sapere, è meglio proseguire con l’arroganza della fretta e l’innocenza della ferritina sempre più bassa fino a svenire.

Devo salire le scale mobili, arrivare alle porte meccaniche che si aprono solo se scannerizzo proprio bene il biglietto del treno, che è sul mio cellulare, che ha il due per cento di batteria. Mi trascino dietro ‘ste due valigie che porca puttana mi pare si odino, all’inizio non era così, ma adesso che sono state insieme parecchio, una sopra l’altra, una sbattuta sull’altra, porca troia non si sopportano più, era ovvio che non potevano innamorarsi, non mi aspettavo questo, né scopare, perché appunto sono delle valigie e le valigie non fanno queste cose, le valigie rotolano se hanno delle ruote, e queste due in particolare rotolano sempre una da una parte e una dall’altra. 

Ai binari e mi accorgo che il mio treno è in ritardo di 120 minuti. Controllo il cartellone luminoso e c’è scritto davvero 120, non 12, non 0,12 perché non è un compito di chimica di quando andavo al liceo e mi piastravo i capelli, c’è scritto proprio 120. Nell’economia di una vita due ore non sono poi così tante, ne ho sprecate tantissime, riempite di ogni cosa che trovavo per terra, che trovavo a caso, che mi facevano niente e ora mi fanno vergogna, ma non so perché queste due ore mi fanno proprio girare le palle. Così incazzata, piena di pane, di pesi, di stracci, di strappi e di sangue, mi reco al piccolo chiosco per i cambi last minute. Quando mi indicano l’infopoint, lo chiamano proprio chiosco: io lo so che non l’ha fatto apposta il capo dei biglietti a chiamarlo così, ma porca puttana, ci sono due gradi e sto sudando dal freddo, se dici chiosco è perché stai per comprare un gelato fior di fragola o una Piña colada, dovevo restare piccola e andare al chiosco dei giornalini, chiedere se è già uscito W.I.T.C.H. di questa settimana, potevo aprire un chiosco delle limonate e fare un sacco di soldi, ma non potevo restare piccola, siamo sicuri che non potevo? Forse qualcuno ha trovato un modo e nessuno gli crede perché è piccolo.

Non sento più niente per un attimo, poi un altro brivido di freddo, la voce metallica che annuncia un altro treno in ritardo dopo il mio – giuro, non ne sono felice, non sono fatta così –, le luci della profumeria Douglas, menomale che ci sono un sacco di profumerie perché forse puzzo, l’adrenalina, il pile, gli ormoni. Mi metto in coda all’infopoint come una appena morta, tanto c’ho 120 minuti da aspettare, non 12, né 0,12 porca puttana. Succede questa cosa: che davanti a me c’è un signore di 70 anni con la sua mamma, e la sua mamma ne ha 95 e fa fatica a stare in piedi. Il signore chiede a due tipi davanti se può passare perché la sua mamma ha 95 anni e lui deve solo cambiare il biglietto, il tipo risponde che anche lui deve solo cambiare il biglietto, poi si gira dall’altra parte. 

Allora penso che forse potrei ficcargli su per il culo il suo biglietto, così che mentre prova a toglierselo, i miei due nuovi amici possano superarlo; l’immagine diventa troppo grafica da sostenere e quindi smetto. Guardo il tipo cattivo e mi sembra sempre più disgustoso, con quel naso patetico, quel cappellino patetico, vorrei dirgli che non me lo scoperei neanche se fossi un criceto. Poi posso dire, lo so che non tutti hanno il lusso di 120 minuti da aspettare, però merda c’è modo e modo di rispondere, ma poi chi cazzo ti aspetta per Natale che sei così patetico? Mi dedico alla signora di 95 anni, perché anche io avevo una nonna, anche se le avrei messo la droga nella borsa, ora che sono più matura e lei è morta, ho cambiato idea. Quando li sento parlare immagino tutto quello che c’è prima: che hanno preparato quel viaggio da tanto tempo per fare una visita al San Raffaele di Milano, e hanno fatto la valigia per bene senza dimenticare niente come fanno le nonne, che poi non riescono a dormire quando lasciano la loro casa e mettono dentro anche le saponette, e sono saliti sul regionale da Anzio a Roma e ora sono lì in quel limbo in cui hanno perso il treno perché porca merda è tutto elettronico, lui c’ha gli occhi grossi con le ciglia lunghe e sembra un bambolotto rovinato. 

La signora non sa dove sedersi allora chiedo alla commessa di Douglas se può darle una sedia e lei la piazza accanto a una renna. Il figlio resta stordito, non sapeva che se si perde il treno si devono comprare due biglietti nuovi e costano 90 euro l’uno, e per un attimo mi dispiace di non essere una che c’ha i pony e una terrazza con i limoni perché sennò avrei rimediato. La signora dell’infopoint mi dice che l’unica soluzione è aspettare, grazie Buon Natale. Chi mi ha fatto il biglietto ha incluso pure l’accesso alla lounge per l’attesa, è un pensiero carino oppure mi ha portato sfiga. 

Arrivo in ‘sta lounge e sono emozionata e penso sia tipo un luna park dell’attesa, che c’hanno allestito dentro una mostra interattiva e posso farmi fare un massaggio alle tempie e ci sono dei gruppi di lettura, invece ci sono solo delle prese, dei divani che sembrano fatti di pelle umana e delle pizzette omaggio, tipo insieme uno studio dentistico e un Battesimo con le pizzette. 

Allora sai che c’è? Fanculo pizzette, io mi mangio il mio pane e apro la confezione con i denti ed esce un odore chimico che a ficcarci dentro le narici secondo me ti sballa di brutto, di brutto, finalmente. Giuro, lo mangio tutto, una fetta dopo l’altra, mentre mi viene sempre più da vomitare. Guardo un ragazzo seduto di fronte a me, ha un cane e un maglione enorme che potrebbe avvolgermi come fossi una piccola tarma, nella lana dolcissima. Ma non lo fa. Lo guardo insistentemente per vedere cosa succede. Succede che arriva la sua ragazza che torna dal cesso e anche questo tentativo di essere nel mondo è rovinato da una che era andata a pisciare, allora mi metto a guardare il loro cane. Manco al cane interesso. Entra un gruppo di turisti tedeschi, non gliene frega niente di me. 

Ma dico, è questo lo spirito del Natale? Ma cosa ci sta succedendo? Non so neanche perché sto prendendo questo treno. So che è Natale e quindi dovrei tornare da qualche parte, per questo ho chiesto di prenotarmi un treno anche se non so dove tornare. Un uomo lavora al suo laptop mentre perde i capelli, una pelliccia con una donna dentro si versa del succo all’ananas. Mi ficco in bocca l’ultima fetta di pane, sono piena da vomitare e vuota da morire, mi accorgo che c’è un controllore all’ingresso che può guardare con una macchinetta quanti minuti mancano: mi sembra la cosa più divertente qui dentro. Tiro fuori il cellulare e la macchinetta non dice niente. Ci riprovo, non dice niente. 

«Non funziona ‘sta roba.»

A quel punto sento chiaramente che la macchinetta fa: 

«Sei tu che non funzioni, puttana.»

Io sinceramente non me l’aspettavo. Ma non solo non me l’aspettavo: non me lo meritavo proprio. È difficile far finta di niente in queste situazioni. Spero di non aver sentito bene, perché comunque ho avuto l’otite da poco e l’ho curata in un modo che ho letto su internet, quindi magari non sono guarita bene. Riprovo a scannerizzare il biglietto: niente.

«Non funziona ‘sta macchinetta.»

La provoco.

«Non funzioni lo dici a tua sorella, puttana.»

Le tiro una manata addosso, la macchinetta cade a terra.

Purtroppo, colpisco anche il braccio del controllore che, probabilmente complice, comincia a lamentarsi. Prima con me. Poi con la collega. Poi una scenata assurda davanti a tutti, come se io fossi matta e volessi solo attenzioni. Finalmente il tipo con il cane mi nota. Poi arrivano altri colleghi e io comincio ad aggredire per difendermi. 

Faccio per andarmene, ma questi sono così caricati che manco io ieri notte stavo così carica, ormai hanno creato una specie di squadra contro di me e dicono che non posso lasciare la stanza perché sta per venire la polizia. Non ho paura dei poliziotti. Perché sono nel giusto. Solo che non posso dimostrarlo. Mi chiedono se ho fatto uso di stupefacenti e mi invitano a seguirli. Perdo il treno perché devo far vedere i documenti alla polizia della stazione, che credo si chiami la stazione della polizia della stazione. 

«Sai che me ne frega, tanto non avevo niente da fare a Natale.»
Dico.

C’è un panettone sulla scrivania, mi viene voglia di tirarci una manata ma alla fine non lo faccio.

ARTICOLO n. 100 / 2022

L’ANNO DEL PENSIERO TRAGICO

L'anno che verrà

L’ultima volta che ho azzardato un pronostico era il Capodanno del 2020 e, guidata da un ottimismo senza precedenti e privo di fondamento alcuno, a mezzanotte mandai lo stesso messaggio ad amici e parenti: “2020 anno della svolta”. E svolta fu, in qualche modo, ma emergenze sanitarie e conflitti mondiali non erano esattamente lo scenario che stavo immaginando mentre, meno ubriaca di quanto mi faccia piacere ammettere, brindavo al mio futuro di certo radioso. Quello che auspicavo – e che auspico la maggior parte delle volte che verbalizzo un desiderio – ha a che fare coi soldi: sogno vecchie zie sconosciute che muoiono lasciandomi una grossa eredità, valigie di banconote depositate sul mio zerbino con biglietti anonimi e per niente minacciosi, grandi fortune economiche che per qualche motivo karmico aspettano solo me. Sono materialista oggi e lo sono sempre stata, da che ne ho memoria, da quando costretta da mia nonna a pregare prima di andare a letto chiedevo a Gesù di regalarmi le Barbie da collezione, da quando a ogni notte di San Lorenzo aspettavo il momento in cui una stella cadente sarebbe piovuta dal cielo conficcandosi nel giardino di casa con un Dolce forno convenientemente legato a una delle sue cinque punte, da quando a Babbo Natale scrivevo lunghe lettere paracule nella speranza che mi portasse tutte le Polly Pocket disponibili sul mercato. Le cose, per me, sono sempre state importanti, e non è cambiato molto in questi trent’anni di vita, i miei desideri si sono solo fatti molto più costosi e ormai si misurano solo in metri quadrati. 

Non che abbia mai sofferto la fame, se fosse stato così a quest’ora forse avrei già avuto il mio momento Rossella O’Hara che stringe in pugno la terra di Tara, e con il coltello fra i denti adesso sarei sposata con un Rhett Butler di Porta Romana (o quantomeno non avrei fatto un master di editoria). Invece ho seguito la più antica delle tradizioni della mia famiglia, che da parte sia di madre che di padre ha storicamente sempre scelto di repellere il denaro in ogni sua forma, costeggiando il benessere e sterzando bruscamente in un’altra direzione ogni volta che ci si avvicinava troppo. 

Qualcuno ha sperato che io fossi diversa. Mio padre raccolse tutte le brochure che riuscì a trovare quando in prima media mi accompagnò alle finali delle olimpiadi della matematica alla Bocconi. Già mi vedeva a invertire le sorti del nostro cognome, io piccolo cervello matematico votato al profitto. Otto anni dopo si sarebbe ritrovato a scortarmi tra vari open day di facoltà umanistiche, prospettive di carriera azzerate, le brochure della Bocconi ormai da tempo riciclate con i cartoni della pizza. 

In compenso, dopo uno di questi open day, passando da Vicolo Santa Caterina – un piccolo angolo delizioso e fiabesco nel centro di Milano – dichiarai che mi sarebbe piaciuto vivere lì, in quella casa gialla con i fiori alla finestra (lo scollamento dalla realtà nella nostra famiglia si manifesta anche nel bramare sempre cose molto al di fuori della nostra portata). Un anno più tardi, per una serie di circostanze favorevoli che rendevano la casa gialla più accessibile di quanto avremmo mai creduto, ci vivevo. 

Dico questo non per bullarmi delle mie fortune immobiliari – che pagherò presto venendo sfrattata dalla mia attuale casa milanese, tema su cui tornerò più avanti – ma per evidenziare una verità tanto irrazionale quanto insindacabile: sono una strega in una famiglia di streghe dotate di blandi poteri premonitori. 

Seguitemi un momento in questo delirio antiscientifico. Ho una nonna che in più occasioni ha sognato la morte di qualcuno, solo per essere svegliata il giorno dopo da spiacevoli telefonate che confermavano la sua visione. La bisnonna, in modo decisamente meno tetro, sognava spesso il padre defunto, il quale però le comunicava ogni volta i numeri vincenti del lotto (come è evidente non erano abbastanza vincenti per cambiare gli equilibri economici delle generazioni successive, ma comunque qualche bolletta ce l’ha pagata). Prima di morire giurò a mio padre che sarebbe tornata a farci visita per renderci lo stesso servizio del trisavolo, ma stiamo ancora aspettando. 

Io, nel mio piccolo, ho un talento per captare vibrazioni negative in situazioni che a posteriori si rivelano sempre parecchio sfortunate. Ho predetto, a modo mio, due incidenti in motorino – con due fidanzati diversi, ad anni di distanza, opposi resistenza a montare sui rispettivi scooter, ci salii controvoglia ed entrambe le volte finii sdraiata su dei sampietrini – un furto e un taglio di capelli (e nel 2020 il crollo dell’Occidente, come abbiamo già visto). Chi era con me direbbe che la storia del furto è un po’ pretestuosa, e non avrebbe tutti i torti, ma facciamola breve: nel corso di una vacanza nei Paesi Baschi avevo espresso disinteresse totale per una tappa dove, mentre contro la mia volontà eravamo a rimirare una scogliera che non avrei voluto vedere, ci rubavano tutte le nostre cose dalla macchina parcheggiata su un lungomare affollato. Nessuno crede mai alle mie vibrazioni negative. 

Quella del taglio di capelli è senza dubbio la più accurata e la meno rilevante delle mie premonizioni. Sognai che un’amica che non vedevo da settimane si tagliava i capelli a caschetto, glielo scrissi il giorno dopo e mi rispose con un selfie fresco di parrucchiere, con un caschetto appena fatto che le stava malissimo. Vibrazioni negative e frivole. 

Parlare di stregoneria forse è un po’ eccessivo, qualcuno obietterebbe che portiamo solo sfiga (concetto altrettanto lontano da qualsiasi forma di razionalità) o che la vita è piena di coincidenze strane. Per onestà intellettuale io aggiungo che vivo gran parte delle mie giornate con un costante senso di tragedia imminente, e qualche volta è statisticamente inevitabile avere ragione. Questo dei poteri magici forse non è altro che un rigurgito della mia infanzia popolata da un gran numero di streghe – su Rai2 con Streghe, in edicola con Witche per anni di impareggiabile felicità con Harry Potter, che ha allevato una generazione di rincoglioniti che oggi aspettano eredità a sorpresa come allora aspettavano la lettera in inchiostro verde da una scuola di magia fittizia. A un certo punto ci fu addirittura un summit tra madri per discutere di un libro che io e la mia amica del cuore avevamo comprato di nascosto con non so quali soldi, sapendo a malapena leggere, che evidentemente insegnava tecniche di magia nera per evocare il diavolo. Il manuale venne ritirato e noi tornammo alle pozioni di fango in cortile e alle nostre vibrazioni negative.

Come ho anticipato, tra i miei talenti soprannaturali c’è però anche un dono positivo, ovvero la capacità di trovare la casa giusta al momento giusto. Anche l’attuale appartamento ad affitto bloccato si è materializzato nella mia vita al momento di massimo bisogno (posso forse esimermi da un riferimento alla stanza delle necessità di Hogwarts?), e da quel momento, negli ultimi quattro anni, ho attraversato la strada con una cautela extra, convinta che l’universo mi avrebbe prima o poi punita per questa fortuna sfacciata facendomi travolgere da un veicolo X. La mia punizione invece si è presentata pochi giorni fa sotto forma di due ingegneri muniti di metro laser (magico!) che sono entrati nel mio soggiorno prendendo misure e parlando di aste immobiliari, lasciandomi intendere che il 2023 potrebbe essere l’anno in cui faccio esperienza dello sfollamento. 

Aspettative basse, dunque, per l’anno che verrà. Ma d’altro canto è da quel gennaio del 2020 che ho smesso di augurarmi qualsiasi cosa. Dovevamo uscirne migliori e non è successo, siamo tutti gli stessi poveri stronzi di prima, solo con bollette più alte da pagare. L’aggravante è che da allora ho scavallato la soglia dei 30 anni, consolidando la mia posizione di povera stronza e di stronza povera, e cominciando ad accusare tutta una serie di aspettative che potevo fingere estranee nel corso dei 20. Di nuovo, la carenza di metri quadri si fa sempre più pressante, a maggior ragione alla luce di uno sfratto imminente. Poi: la simulazione dell’Inps sostiene che andrò in pensione, forse, fra 40 anni, morirò prima? Voglio davvero dei figli o penso solo di volerli? Posso permettermi di riprodurmi? Riuscirò a sopravvivere al riscaldamento globale con la mia pressione bassa? Queste e altre domande hanno sostituito qualsiasi buon proposito per il futuro. 

Peraltro, ora che ho 30 anni so esattamente cosa aspettarmi da ogni nuovo anno: due o tre matrimoni estivi, due o tre annunci di maternità, due o tre herpes labiali, quante tasse pagherò. Non c’è più alcun margine per le sorprese e considerate le sorprese dell’ultimo periodo forse è meglio così.Tuttavia il 23 è un numero che mi è sempre piaciuto, non perché sappia alcunché di numerologia – so però che nella smorfia napoletana il 23 è ‘o scemo quindi chissà – quanto per le vibrazioni, in questo caso positive, che mi trasmette. La strega che è in me, la piccola Wanna Marchi che vive a sua volta ad affitto bloccato nel mio cervello, mi suggerisce che alla fine sarà un anno migliore di altri. Considerati i precedenti, si salvi chi può.

ARTICOLO n. 99 / 2022

SA L’HA VIST CUS’È? IL ’23!

L'anno che verrà

Guarda, siccome continui a fare il pirla, ti sbatto giù la cronologia. Si, si, proprio la crono, mese per mese, perché se mi fisso, mi fisso, vado sino in fondo. In fondo all’anno. Anno 2023. Due, più due, più tre, fa sette. Il numero è magico, come si sa. Infatti, ho avuto una visione che neanche la Bernadette.

Cos’è che dicevi? Sarà la solita sbobba… abbiamo perso tutte le partite, altro che il Milan, i secoli bui, eccetera eccetera. Avrai ripetuto dodici volte la parola “ormai”. Gesù. Depressione carsica, senza contare i calcoli renali, un certo innalzamento della pressione, il cuore che mi va fuori tempo, bla, bla, bla. Che poi, non è che se vai a vivere in Portogallo, come dici tu, sei in salvo, bello paciarotto. Cos’è che hai detto? Madeira… un’isola greca… il Giappone. Certo. Sei lì, davanti al mare o davanti a un bel giardinetto zen, tutto contento. Ti guardi attorno: cosa vedi? Il mare, il giardinetto e poi? E poi basta. In compenso, senti. Senti la Pausini. «La solitudine fra noi, questo silenzio dentro me, è l’inquietudine di vivere, la vita senza te…». Che sarei io, noi, quelli che, nonostante tutto, ti vogliono bene. Dai, va là, te e Madeira. Leggi qui piuttosto. Ti faccio il quadro, così la pianti di menare il torrone. Vado? Vado.

Gennaio 2023

Intanto, la neve. Una nevicata che ci seppellirà, come la famosa risata. Tutti a spalare, a sudare, a tirare palle di neve per giorni, i bambini per strada, altro che cameretta, soli soletti a guardare il TikTok. A furia di ridere con le palle di neve, monta l’iniziativa. Quale? Questa: giornata mondiale del silenzio web. Per un giorno tutte le persone, ma proprio tutte, non possono sbirciare in rete neanche per causa di forza maggiore. Sembrava una scemenza. Invece: successone. Anche per via della neve che, nel frattempo, non cessa di venir giù. La cosa produce un certo fastidio a quelli che se non twittano sbarellano. Ma sì quelli lì, che hanno i followers e quindi la mettono giù dura. È che se il follower si dedica alla palla di neve, o magari a fare legna, dico per dire, buonanotte suonatori. Occhio perché ‘sta faccenda può sembrare una cazzata. Invece innesca. Monta, diventa valanga, visto che siamo in tema. Comunque, come inizio, mica male.

Febbraio 2023

La forte e progressiva riduzione degli scambi via web segnala di sponda una serie di avvenimenti clamorosi. Tipo parlare con quelli lì del bar non soltanto del Milan e affini ma anche di questioni leggermente più intime, metti la prostata o l’intenzione di trasferirsi in Giappone in quanto sfiduciati e depressi. Cosa che genera ilarità e una serie di vaffa, abbinati al sospetto che farsi prendere per il culo dai giapponesi risulterebbe assai più arduo e meno indisponente. Di neve non ne è rimasta granché ma a furia di stare in giro sembra che sia diventato di tendenza ritrovarsi a commentare le battaglie con le palle di neve, organizzare delle cose sul genere fiaccolata, raccolta di bottiglie di plastica lasciate in giro, rivalutazione dell’antico gioco della bottiglia (in vetro) ai giardinetti, che magari ci scappa della roba che scotta nonostante la stagione. L’andazzo genera un calo a picco degli ascolti dei cosiddetti talk show. Se lo show lo fai con delle persone sotto casa, cosa guardi le tele a fare? Festival di Sanremo: un flop. Chissenefrega.

Marzo 2023

I giornali annunciano la fine della guerra Russia-Ucraina, fatto che comporta, oltre a un certo sollievo, la definitiva chiusura di molti talk show, peraltro alla canna del gas. Non trovarsi davanti, che so, un Di Battista (ma chi è?), una Santanchè (ma cosa dice?), uno Sgarbi (oh signur), produce una certa euforia anche tra gli anziani. I quali si sentono stranamente liberati, persino ringiovaniti. La stagione notoriamente “pazzerella” fa il resto. Più luce, più ore, più campi di bocce riaperti, per non parlare dei bar di cui sopra che adesso permettono di prendere per il culo quelli che volevano partire per il Portogallo anche all’aperto. “Volevano”, passato. Già perché nel frattempo l’idea dell’emigrazione è stata accantonata al pari di altre ipotesi che si dicono così, per dire… compro una Guzzi V7, una ceramica di Picasso, cambio telefonino…

Aprile 2023

La fine della guerra porta una quantità di persone, chi più chi meno, a riflettere su alcuni fatti pregressi. C’è chi si azzarda a buttar lì, in pubblico, frasi un tempo impronunciabili. Un dubbio, un dubbietto su quel Zelensky, ad esempio, senza il rischio di venir trattato come bastardo filosovietico. Un dissenso sul tema armi da mandare in giro a nastro, senza il rischio di venir considerato una merda umana che abbandona della gente al proprio destino… Il fatto che il web venga considerato sempre più spesso come un ambito superfluo accentua la riflessione. Ambito, si sa, stracolmo di zone d’ombra. Persino sul Covid pare possibile discutere senza litigare. Addirittura, una signora in fila alla posta, dopo aver pronunciato, a bassa voce, «Beh, anche i vaccini – utili sia chiaro – qualche danno lo fanno», viene risparmiata dalla folla presente. Il fatto diventa notizia e la notizia permette a molti di esprimere delle opinioni personali in pubblico senza temere ritorsioni. Insomma per essere aprile, il più crudele dei mesi, una sconcertante festa dell’anticonformismo. 

Maggio 2023

La stampa concede grande risalto ad una nuova iniziativa popolare: il “White Friday”. Nessuno compra una mazza per 24 ore. Poi si sa come vanno le cose: il Friday diventa Saturday, Sunday, Monday. Si discute a lungo sui pro e i contro per arrivare alla conclusione che smettere di comprare è un casino. Così, il White Friday viene soppiantato dal Grey Friday. Cioè: compri solo le cose che servono sul serio, tipo mele, verdure, pastasciutta, il resto ciccia. Da qui la questione si allarga a macchia d’olio e una serie di manifestazioni spingono il governo a vietare per sempre i saldi. Che abbassino i prezzi tutto l’anno e non se ne parli più. Il fatto che queste istanze non siano più dibattute nei talk show rende tutto più semplice. Intanto il Milan vince di nuovo, con largo anticipo, lo scudetto. 

Giugno 2023

Fine delle scuole. Ma i grandi cambiamenti in atto fanno sì che i collettivi di molti istituti pubblici, riuniti a Venegono, abbiano messo a punto un documento che viene subito adottato dal Ministero dell’Istruzione. È, finalmente, una vera riforma. Basti dire che i programmi prevedono di ridurre le ore dedicate al Pascoli e al Carducci (con tutto il rispetto) e di aumentare le ore dedicate a Kafka e a Beckett, raddoppio delle ore di educazione fisica, obbligo di sistemare le palestre, tempo dedicato alla poesia. «Dei telefonini in classe non ne parliamo neanche» si legge in una nota a margine, mentre cambiano radicalmente i metri di giudizio degli insegnanti. I quali possono essere rimandati o bocciati dagli alunni medesimi quando una classe comprende oltre sette studenti sotto la sufficienza. Questa vera e propria rivoluzione innesca una tale euforia che persino le tristemente note baby gang si sciolgono da sole perché se cominci a divertirti, cosa spacchi cosa? Piuttosto, per giovani e giovanissimi la riforma prevede prove di coraggio estremo, tipo dare una mano a chi resta indietro. Il rugby diventa sport obbligatorio sin dalle elementari. Viva!

Luglio 2023

Ciò che sta accadendo nel Paese determina una serie di cambiamenti anche presso gli organi di stampa, indotti a dare sempre meno risalto a cose di nessunissima importanza come le reazioni di ogni esponente politico a decisioni di scarsissima importanza. Alcune puntate della nota trasmissione Chi l’ha visto vengono dedicate a figure che non compaiono più all’orizzonte da mesi. Protagonisti delle prime puntate Maria Elena Boschi (bassa audience), Gianluigi Paragone (bassissima audience), Massimo D’Alema (puntata annullata). Il fatto di non dover presenziare in televisione ogni due per tre porta gran parte dei politici a darsi da fare con la sensazione che va bene tutto ma a un bel momento la gente va in bestia. Da qui, un vero colpo di scena: una profonda revisione del sistema sanitario nazionale capovolge il rapporto di forza tra privato e pubblico. Ci vorrà un po’ ma intanto… Cosa da non credere: sgombrate le sedi di Casa Pound, vietate le adunate a Predappio, altrimenti la polizia comincia a menare, anche perché menare gli studenti è passato di moda. In giro si incontrano delle persone che improvvisamente si mettono a cantare Singing in the RainEl purtava i scarp del tennisLa bella Gigogin anche mentre mangiano un toast farcito.

Agosto 2023

Vacanze. La Svizzera è la più gettonata, vuoi per i picchi, i pendii; vuoi per il rösti vuoi per le caramelle Sugus che altrove ahinoi non si trovano. I Måneskin si sciolgono, ma pensa te.

Settembre 2023

Chi aveva votato Fratelli d’Italia si chiede cosa sia saltato in mente a Fratelli d’Italia, la Meloni in primis, di varare provvedimenti del genere. Il disorientamento è attutito da una palpabile serenità diffusa, cosa che rende inutile star qui a litigare. La Lega nomina un nuovo segretario e la decisione conforta proprio tutti anche se il divertimento viene meno. Il lungo dibattito all’interno del PD porta alla fondazione del “Partito Ex-Comunista Italiano”. Il programmino prevede: rilanciare la sinistra occupandosi di quelli di sinistra, dei poveri, di chi non frega una mazza a nessuno, persino degli operai. L’intenzione è di formare un governo insieme a quelli di Fratelli d’Italia, tanto ormai… Beppe Grillo, emigrato in Giappone, manda dei video di giardinetti zen. I talent show vengono soppressi a furia di vedere a zonzo degli ex-concorrenti spostati che si credono chissà chi. Fedez si propone come giudice in Corte d’Appello. In uno spot si vede la Pausini (sempre lei) che becca una saccata di botte da persone di una certa notorietà per averle convocate d’urgenza scopo mostrare la nuova TV. Mentana organizza una serie di maratone per seguire gli sviluppi del Mondiale di rugby in svolgimento in Francia. Wow!

Ottobre 2023

Tensioni nella maggioranza ma anche nelle minoranze. Di questo si parlotta ogni tanto, mica poi tanto. Piuttosto sorgono come funghi enti dedicati al recupero dei migranti, alla formazione degli ex-migranti, all’accoglienza. In contemporanea il G20 ha finalmente deciso di comportarsi come chi sa cosa è lì a fare. È un fiorire di iniziative trasversali dedicate allo sviluppo di molti Paesi africani, di iniziative sostenibili. Drastica riduzione delle emissioni. Trump in esilio a Madeira, Orban interdetto dai suoi stessi famigliari. E Putin? Lasciamo stare per carità. Pare, dicasi pare, che se andiamo avanti così, prima o poi tocca anche a quelli che evadono il fisco. Per ora è una battuta ma, visto come tira il vento, potrebbe anche succedere. Milano, all’avanguardia come si dice da anni, diventa completamente ciclabile. Chi ancora considera l’automobile un mezzo di trasporto utile è pregato di posteggiare a Gaggiano, Treviglio, Pandino, Legnano o Merate, nel senso dell’hinterland, e poi pedalare, pedalare, pedalare. Casco obbligatorio anche per i pedoni, così imparano a non prendere su la bici. 

Novembre 2023

Le temperature del pianeta indicano un calo sorprendente. Fa un freddo della madonna ma intanto la Groenlandia ne beneficia e mi si estingue meno roba. Il Milan è in testa al campionato. Il bar sempre pieno così. Tempi di attesa al pronto soccorso 20 minuti max. Ciumbia! Si barbella ma l’umore sale a picco. Gli ultrà delle curve più tristemente note d’Italia vengono obbligati dalle società calcistiche di riferimento a spalare la neve lungo i rettilinei, così i ragazzi si sfogano e la smettono di disturbare. Ogni famiglia programma le vacanze invernali. Dove? In Svizzera, che domanda… il ricordo del rösti e la voglia di Sugus spingono verso i Cantoni dove è un attimo registrare il tutto esaurito. In alternativa, Val Gardena, per via dei canederli, Valtellina per i pizzoccheri. I vegetariani benestanti in India, con dei charter pieni di spezie.

Dicembre 2023

Ripresa massiccia delle nevicate. Il futuro si annuncia radioso, a parte per i ciclisti che con la neve fanno una certa fatica a star su. Lettera a Babbo Natale da spedire tassativamente entro il 4 dicembre. Albero di Natale l’8 dicembre. Su questi punti nessuna deroga. Chi con una palla di neve tira giù il cappello di un passante durante le ore scolastiche è giustificato automaticamente. Chi ancora usa il cellulare in metropolitana viene sbeffeggiato senza ritegno. Motto dell’anno: “Il veglione ha rotto il marone”. Da qui tutto ne consegue.

ARTICOLO n. 98 / 2022

NONOSTANTE TUTTO L’UOMO RIMARRÀ BIPEDE

L'anno che verrà

Anche l’anno prossimo è prevedibile che andrà, e che la Terra continuerà a girare intorno al Sole, questo mi sento di sostenerlo senza dubbi di essere smentito su tempi brevi. Sia che sia piatta, sia che sia sferica. In caso contrario, cioè che la Terra si fermasse, secondo me casca, nonostante le concezioni fisiche attuali lo vietino (le cose non cascano più giù nella fisica). Anche se non riesco a capire dove caschi. Ma sicuramente se è piatta, per capirsi, longitudinalmente, cioè come un piatto appoggiato alla tavola, cadrà molto lentamente per questioni di attrito coi venti cosmici, che la faranno un po’ navigare di qua e di là nella sua caduta; se invece è piatta, sempre per capirsi, verticalmente, cadrà giù in frettissima; se è sferica, come sostiene buona parte dell’umanità che ha titoli di studio più alti, cadrà giù a una velocità intermedia tra le due. Ma secondo me continua ad andare per la sua strada ancora per un po’, come negli ultimi due o tre miliardi di anni.

Quasi sicuramente, sempre l’anno prossimo, continueranno a esistere anche malattie non-Covid e Covid-peggiori, come infarti, tumori e ictus, e a questo proposito si vorrebbe far notare che l’influenza si è incattivita perché non ne poteva più che nessuno prendesse più l’influenza e tutti prendessero il Covid e quindi, come nelle migliori pressioni selettive, si è smaliziata ed è tornata a influenzare a grandi numeri con tosse, mal di testa, naso chiuso, abbondanza di catarro e febbre fastidiosa anche superiore a trentotto e cinque. Sugli altri mali Covid-peggiori non so cosa dire perché non ho dati freschi a mia disposizione anche perché c’ho già un’età in cui mi fa un po’ paura leggerli. 

Nonostante l’aumento del prezzo del metano, e gli altri numerosi disagi che possono sempre capitare, sono sicuro che anche l’anno prossimo l’uomo rimarrà bipede, anche perché non si possono buttare via in poco tempo, come potrebbero fare soltanto dei cretini, gli sforzi fatti da miliardi di nostri antenati per stare in equilibrio sulle zampe posteriori, che stavano trasformandosi in gambe, mentre le zampe davanti stavano trasformandosi in braccia, con alla fine delle mani libere, e basterebbe guardare i nostri cugini scimpanzé, bonobo e gorilla, che non si sforzavano di diventare bipedi come noi e, non sforzandosi, apparentemente avevano una vita più spensierata, secondo alcuni più in armonia con la natura, sempre lì felici a non fare un cazzo e ridere, mentre guardavano l’uomo che si sforzava di diventare bipede e iniziava anche a farsi dei vestiti, mentre i gorilla e gli scimpanzé si erano tenuti la pelliccia, e invece che fine hanno fatto i gorilla e gli scimpanzé a forza di fare i fannulloni? È vero che hanno imparato a infilare bastoncini nei formicai, tirarli fuori e leccarsi le formiche, che forse è una prima forma di lavoro. Ma poi? Si sono fermati lì e sono vicini all’estinzione, come i giaguari e i leopardi e altri mille quadrupedi, mentre noi lanciamo le sonde su Marte a forza di esserci sforzati a camminare su due zampe. Certo quando si fa sesso in certe posizioni forse sarebbe meglio essere proprio quadrupedi, ma noi anche se siamo bipedi riusciamo ancora a metterci su quattro zampe alla meglio. E comunque non varrebbe il cambio, perché puoi sempre accoppiarti anche nelle altre posizioni. Quindi secondo me le masse, anche per l’anno prossimo, non saranno disposte a lasciare il bipedismo.

Si continuerà, anche per l’anno prossimo, a preferire una lasagna in carne e ossa, o una tagliatella al ragù in carne e ossa, o uno stinco di maiale in carne e ossa cotto nel latte e rosmarino (a Modena usa così) a una più pratica lasagna liofilizzata in comodissime pastiglie che puoi tenere nella tasca della giacca, come quelle che mangiano quei tipi che vanno nello spazio, e si possono infilare in bocca direttamente e buttar giù con un dito di acqua, senza neanche avere sporcato un piatto, una forchetta e delle pentole? Credo di sì. Le masse, che son sempre retrograde, continueranno a preferire la lasagna in carne e ossa anche se poi devi lavare piatto, forchetta e pentola. La massa, se ha due soldi in tasca e non ha voglia dopo di lavare piatto, forchetta e pentola, va a mangiarsi la lasagna in carne e ossa all’osteria, dove piatto, forchetta e pentola li lava il lavapiatti in cambio di un salario. E dopo la lasagna, si mangia anche lo stinco, già che c’è. Sempre in carne e ossa. Da questo dovremmo trarre la conclusione che la massa tipica del 2023 non voglia andare sulla Luna o su Marte? Non lo so, mi sembra eccessivo. Certo che coi soldi di un biglietto navicellare per la Luna si comprano un sacco di altre cose che magari qualcuno può ritenere più utili o piacevoli, e guardarsi la Luna e Marte su internet, che l’hai già pagato. Per di più quello che mi chiedo è: non è che se ti metti a mangiare le tagliatelle al ragù in pastiglie come gli astronauti, dopo per riuscire ad andare in bagno devi mangiarti tutti i giorni dieci cucchiai di crusca per avere un po’ di fibre per la cacca?

Anche per l’anno prossimo, secondo me, i padri continueranno a litigare con i figli, le figlie con le madri, le madri con i padri, i figli coi fratelli o le sorelle, i fidanzati con i fidanzati, le coppie con sé stesse, perché tutti questi sono persone che si vogliono bene e quindi litigano, e quando, dopo tre ore, perché ormai sono sfiniti, i genitori smetteranno di litigare coi figli, allora saranno i figli che dopo tre minuti di relativa calma inizieranno a rilitigare coi genitori e quindi continuerà a esserci ancora quella specie di moto perpetuo del malumore tra chi si vuole bene che fa apparire la famiglia come la principale istituzione naturale della società umana, quel nido in cui gli umani si formano e crescono, e poi si vogliono bene e di conseguenza litigano perché ogni istituzione, naturale o artificiale che sia, è un po’ un baraccone, così ci si vuol bene e allora si litiga tra le diverse generazioni e anche all’interno della stessa. Ma lì non c’è molto da fare, visti i precedenti, cioè: Caino e Abele, Romolo e Remo, Laio e Edipo, Medea e così via: tutti si volevano bene e quindi litigavano dentro la loro famiglia. 

Poi vorrei aggiungere anche questo: probabilmente i morti rimarranno morti anche per l’anno prossimo. A meno che a un certo punto per esempio non inizino a verificarsi casi di questo tipo: per esempio una signora va al cimitero a pulire, mettere nuovi fiori e fare due chiacchiere sulla tomba di suo marito, morto più vent’anni prima, e a un certo punto le sembra di sentire bussare, allora inizia a girare per capire da dove vengono queste bussate, e sente che è da una tomba situata cinque o sei tombe più in là che arrivano le bussate. Allora chiede: «Ma chi è che bussa?» e sente dire da dentro la tomba: «Potrebbe farmi aprire la tomba, che è un po’ son qua chiuso dentro?». La signora risponde: «Non la so mica aprire una tomba. Aspetti un attimo che vado a cercare il custode». Così si mette a girare e a urlare: «C’è un custode?». Il custode arriva, la signora gli dice: «Bussano da dentro una tomba. Vogliono uscire.» Vanno a vedere, aprono la tomba, così ‘sto signore esce dalla sua tomba. Loro gli dicono: «Ma è stato sepolto vivo». Lui dice: «Non credo. Mi sembrava proprio di star per morire, quando sono morto». Poi chiede: «Scusate, ma in che anno siamo?» «Siamo nel 2023». E il morto dice: «Ma no. Allora ero proprio morto. Son morto nel 2017. Come facevo a stare sei anni vivo, chiuso in una tomba? E adesso che son risorto che cazzo faccio?». E così tutti i giornali iniziano a parlare di questo signore, che sarebbe risorto, e diventa un caso. Ma poi, dopo una settimana ne risorge un altro, poi iniziano a risorgere a cinque o sei al giorno. Entro un mese risorgono dalle cinquanta alle cento persone al giorno, nei cimiteri è tutto uno scoperchiamento di tombe. Prenderebbe così il via il famoso Effetto Lazzaro, cioè questo fatto che uno che era morto, e ormai tutti erano tranquilli che era morto, invece un bel momento risorge, e saltano fuori vari casini, perché il nipote è andato a vivere nella casa del nonno, adesso il nonno vuole riprendersela; il figlio ha venduto la macchina della madre morta perché non voleva mantenere tre macchine, adesso la madre risorta la rivuole; un vedovo aveva iniziato a fare sesso con un’altra signora, la moglie risorge. Il diritto va riaggiornato per le resurrezioni. Anche l’INPS si allarma, che stanno riprendendo a sballarle i conti, perché i risorti dicono di avere di nuovo diritto alla pensione. E così via.

Queste previsioni, a mio giudizio anche precise e quasi inconfutabili, erano per il 2023. Ma siamo poi tutti convinti che siamo nel 2023? Perché per esempio se aveva ragione Roma (e siamo poi certi che Roma sia caduta?) siamo quasi nel 2775. Mentre se avevano ragione gli ebrei, siamo nel 5783. Ma se ha ragione Maometto siamo nel 1443. Secondo i tibetani non lo so, ma saremo almeno nel 4719. Mentre seguendo una deriva assolutamente individualistica (mia) saremmo nel cinquantasette non finito, perché io compio gli anni in luglio come Giulio Cesare, e quindi il 6 luglio 2023 diventerebbe il primo gennaio 0058. In queste condizioni non è mica facile capire cosa succede l’anno prossimo.

ARTICOLO n. 97 / 2022

OPERETTA MORALE

L'anno che verrà

Passeggere
Come quest’anno passato?

Venditore
Più più assai.

Passeggere
Come quello di là?

Venditore
Più più, illustrissimo.

Passeggere
Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

Venditore
Signor no, non mi piacerebbe.

Passeggere
Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

Venditore
Saranno vent’anni, illustrissimo.

Passeggere
A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

Venditore
Io? non saprei.

Passeggere
Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

Venditore
No in verità, illustrissimo.

Passeggere
E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

Venditore
Cotesto si sa.

(Operette morali, Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere)

Nell’arco dei 365 giorni che compongono l’anno, due mi sono fatali: il Ferragosto e il Capodanno.

Due feste di inizio e fine, spartiacque di buoni propositi e lente riprese, momenti in cui si fa la somma di ciò che si è fatto e si inizia poi a dividerla e scomporla in frammenti sempre più piccoli.

Se Ferragosto ha il compito di dividere l’estate, segnandone la inesorabile fine, Capodanno coincide con la fine della conta dei mesi dell’anno e per questo si porta appresso un valore simbolico e morale ancor più pesante del suo torrido fratello.

Se infatti a Ferragosto la fine – delle ferie – non è così repentina, a Capodanno l’ansia assale gran parte del genere umano, conferendoci l’impressione di non aver fatto davvero tutto il possibile per essere felici. E di tempo per rimediare, a Capodanno, ne rimane davvero poco: una manciata di ore e la magia sarà finita. 

Il 31 dicembre celebriamo perciò velocemente e scaramanticamente, con le nostre mutande rosse nuove di pacca, sperando di non ripetere errori già commessi, di portare denaro nelle nostre tasche e di allontanare il dolore che abbiamo accumulato durante l’anno.

È il momento di quell’ultimo messaggio da mandare, del bacio da dare per iniziare con slancio, della festa più rumorosa da organizzare, in modo da esorcizzare il futuro sconosciuto.

Il 31 è una corsa, ogni anno, verso il compimento dei nostri privati quanto imprevedibili desideri.

La macchina da presa scivola veloce su un carrello immaginario che ci segue per tutto il giorno, vedendoci fare commissioni, compiere rituali, muoverci con frenesia; sentendoci nervosi all’aumentare dell’adrenalina, zoomando sui nostri palmi sudati, le nostre facce tese, i sorrisi rigidi.

Il piano sequenza prosegue e arriva alla festa, perché il 31 c’è sempre qualche festa a cui andare o da organizzare, e si muove tra gambe nervose, mani sui cellulari, bicchieri che sbattono, occhiate febbrili all’orologio per controllare quanto manca al primo giorno di un nuovo anno di cui non sappiamo niente ma immaginiamo non sarà uguale al precedente –   come lo sappiamo? con la scaramanzia – e verso il quale nutriamo speranze enormi quanto naïf.

Queste speranze sono ataviche e comprensibili, si allacciano a doppio nodo alla solennità di un momento rituale come il Capodanno, ci aprono le porte al nuovo – che, come scrisse Leopardi in quell’Operetta Morale che ho usato come esergo, è l’unica forma in cui la felicità sopravvive e coincide con il futuro – e si incastrano in ogni nostra più profonda paura: se siamo soli, se siamo senza soldi, se non abbiamo la salute, se non siamo del tutto sereni o se, per paradosso, lo siamo troppo, Capodanno ci rende inquieti, perché ci pone delle domande a cui noi, di base, non abbiamo mica poi tanta voglia di rispondere.

Quest’ansia di incompiutezza, che diviene rituale propiziatorio, è uno dei temi pop più conosciuti e visionati, da Harry e Sally che si corrono incontro a New York prima della mezzanotte, a Marissa e Ryan in una serie TVambientata a Los Angeles in cui tutti sono in maniche corte. Da Bridget Jones che corre in pigiama per Londra per fermare l’uomo di cui è innamorata a L’appartamento (Billy Wilder, 1960), in cui Shirley MacLaine corre da Jack Lemmon prima dello scoccare del nuovo anno. Le aspettative – che coincidono con il combattere la solitudine costi quel che costi – si racchiudono in una sola notte all’anno e ci fanno credere che anche per noi ci saranno fughe nella notte in pigiama e baci al conto alla rovescia, soldi facili, vita in discesa.

Ma nel mondo reale siamo molto più simili al Capodanno del primo, indimenticabile Fantozzi o a quello di Risate di gioia (1960) di Monicelli.

Solo che ogni anno, ogni Capodanno, noi ci illudiamo che stavolta non sarà così, che celebreremo un rito propiziatorio perfetto e che dunque l’anno che verrà inizierà e proseguirà con il botto.

Questo rituale tutto pagano infatti ci porta a pensare che ciò che faremo a Capodanno lo faremo per tutto il resto dei 364 giorni che ci attendono, caricando di aspettativa il futuro, scollegandolo dal reale stato in cui versa la – nostra – storia.

Ho iniziato scrivendo che io Capodanno lo soffro molto, proprio per questa sua voglia di alienarci dal reale e spingerci a credere di poter rimediare e concludere immaginari cicli vitali. Da brava atea quale sono, trovo infatti impossibile la redenzione immediata del Capodanno, elevato nel suo valore a giubileo pagano.

Mi chiedo dunque, ogni 31 dicembre, come chiunque al mondo, come sarà l’anno nuovo. E cerco di darmi risposte concrete quanto plausibili, cercando di allontanare da me l’idea che se farò tutto come devo allora avrò in premio il futuro che desidero ardentemente, cercando di contemplare l’impossibilità della previsione dell’avvenire che, secondo Leopardi, proprio nella sua imprevedibilità racchiude la così tanto agognata gioia. Ma ci sono delle cose più grandi di me, del mio orticello, del cuore caldo e rassicurante del mio nido, che posso provare a immaginare e prevedere in questo 2023.

Sono anteprime che mi, e ci è concesso avere perché sono legate a sistemi che esulano dal caso e dalla fortuna, come la politica e la cultura. Perciò, mentre evito di chiedermi che binari prenderà la mia privata esistenza il prossimo anno, mi domando cosa ne sarà del sistema che ci gravita attorno e provo come esercizio a descrivere l’anno che verrà.

Non avremo macchine volanti, non ci saranno abitanti sulla Luna e tantomeno su Marte. 

Avremo ancora una guerra di serie A da gestire e altre, ritenute di serie B, da ignorare. I nostri politici finanzieranno ancora le guardie costiere che minacciano il mediterraneo? Ho il terrore di poter prevedere con esattezza la risposta.

Nell’anno che verrà, ci annoieremo ancor di più di approfondire le notizie che riceviamo incessantemente da ogni device in nostro possesso, e questo farà un favore enorme a chi ci governa e governerà, a prescindere dal colore politico: un popolo disinformato è più facile da sottomettere.

La violenza prenderà ancora una posizione politica: se a commetterla sono persone nere allora verrà resa nota e funzionale alla propaganda; il resto degli omicidi e degli stupri passeranno invece indisturbati tra i fatti di cronaca non rilevanti. No, i femminicidi non diminuiranno. 

Il clima rimarrà fuori dalla politica e diventerà solo argomento da bar o da vicini di ombrellone (“non ci sono più le mezze stagioni” / “già, di sera qualche anno fa qui si usciva con il maglioncino a manica lunga”), perché nessuno vuole mettersi contro chi ha i soldi, tantomeno chi governa i paesi ricchi del mondo.

Il riconoscimento dei diritti fondamentali sta prendendo una brutta piega da qualche anno e dubito che avremo una ventata di progressismo a strettissimo giro: unioni civili, 194, 180 e Ius Soli non avranno lo spazio necessario neanche nel 2023.

L’anno che verrà non sembra quindi una gran festa, da queste premesse. Però noto una nuova scintilla, che si fa più nitida mese dopo mese e credo prenderà più consistenza nel 2023.

La nuova generazione ha fame, determinazione e intelligenza da vendere. E i mezzi per poter alzare la voce.

La mia generazione è pronta dunque a sostenerla, perché sappiamo che fine possono fare i giovani quando vengono picchiati e non ascoltati: noi Millennial siamo stati educati proprio così e guarda come cazzo stiamo.

La cultura non era così bramosa di novità e nuove idee da tantissimo tempo e la controcultura è al suo massimo splendore. Le piazze e i collettivi si stanno ripopolando, così come le associazioni e le sedi sindacali.

C’è, per l’anno che verrà, una previsione di nuova energia, una spinta per il rinnovamento sociale e culturale che mi rassicura e rincuora e credo sia, in definitiva, l’unica forma di futuro sulla quale possiamo concretamente lavorare, nutrendola, tutelandola, dandole spazio e respiro affinché non soffochi o venga, al peggio, soffocata.

Nell’anno che verrà non so cosa sarà di me, di chi amo, di chi odio, di chi mi sono dimenticata o mi dimenticherò. So solo due cose: che se il nostro futuro come singoli è imprevedibile – perciò ci porta gioia al solo pensiero, come raccontano le Operette morali – e ogni rituale propiziatorio è di per sé inutile. Il futuro della collettività non lo è, perché già ben delineato su quella linea curva che determina l’andamento della storia del mondo. E se davvero possiamo prevedere dove stiamo andando, sarebbe da scellerati non fare qualsiasi cosa in nostro potere per migliorare le cose.

L’anno che verrà spero, e credo che sia pieno di partecipazione. Questo Capodanno, al conto alla rovescia, pensiamo all’unico futuro che possiamo prevedere e permetterci, ovvero quello collettivo.Che, metti caso girasse bene, magari ci porterà proprio a quella felicità che Leopardi sapeva annusare ma non agguantare. 

ARTICOLO n. 96 / 2022

IL FEMMINISMO SECONDO BELL HOOKS

Speciale bell hooks

Durante la campagna elettorale, l’opinione pubblica si è scervellata per mesi per rispondere a una domanda mal pensata e mal posta: Giorgia Meloni è femminista? Una questione che dovrebbe far saltare dalla sedia chiunque pratichi il femminismo, non tanto perché Meloni, contrariamente alla sua collega francese Marine Le Pen, non ha mai cercato di associarsi a questa parola (anzi, ne ha preso spesso le distanze, attaccando un po’ genericamente “le femministe”), ma perché è davvero assurdo attribuire il femminismo a qualcuno, a maggior ragione a una persona che lo ha sempre disprezzato. Ma questa domanda negli ultimi anni è diventata sempre più popolare nonché rivolta ai soggetti più disparati.

Chiedersi se qualcuno sia o non sia femminista a prescindere da ciò che la persona pensa o fa è la conseguenza di un grande fraintendimento: il femminismo è una caratteristica dell’individuo, non più una pratica o una teoria politica. Basta esistere in quanto donne in un contesto patriarcale per essere femministe. Non contano le idee, i fatti, il posizionamento politico. Il femminismo è per tutti, vero, e non ci sono barriere per chi voglia abbracciarlo. Ma il percorso ora è inverso: qualcuno da fuori decide chi è e chi non è femminista, cercando prove, facendo congetture. In un discorso, in una decisione e a volte soltanto in un’esistenza si cerca un legame con il femminismo.

Quello che ha portato a questo fraintendimento è stato un processo lungo, passato anche da una rilettura spesso superficiale della vita di donne eccellenti del passato. Figure che avevano senz’altro una grande consapevolezza della subalternità femminile, che hanno lottato per uscire da uno stato di minorità, ma che non facevano parte di un movimento. Se oggi essere femministe è una qualità apprezzata, quasi desiderata, è anche perché il femminismo si è normalizzato e da forza di opposizione e messa in discussione dell’esistente, da questo esistente è stato gradualmente inglobato. Questo processo era già stato registrato da bell hooks nel suo libro del 1984 Feminist Theory: From Margin to Center

Nella prefazione alla terza edizione, hooks racconta che cominciò a scrivere questo volume quando avvertì, nella sua militanza, che il femminismo era incapace di produrre una pratica che si prendesse cura dei bisogni di soggetti diversi dalla donna bianca della classe media. Non solo, la voce delle femministe nere era ignorata o ghettizzata. Il loro destino era quello di parlare esclusivamente dei problemi razziali, come se il colore della loro pelle venisse prima dell’assunto che univa alla radice le femministe: l’esperienza di essere donne. Dopo Ain’t I a Woman, scritto a 19 anni e uscito in quel 1981 che produsse anche Donne, razza e classe di Angela Davis, hooks tornò sul tema con uno sguardo ancora più radicale.

Il tema del libro, infatti, non è soltanto l’assenza di chi sta ai margini dal discorso, ma un’analisi più generale di come il femminismo si sia gradualmente allontanato dall’essere pratica della vita, per diventare uno status symbol o al peggio una parola come tante altre. bell hooks, richiamandosi all’analisi di Zillah Eisenstein, parla di un femminismo che ha adottato inconsciamente l’“ideologia competitiva e atomistica dell’individualismo liberale”, che riproduce gli interessi di classe della borghesia che da sempre si è imposta al centro del movimento. Questi interessi si riflettono nella definizione di femminismo come semplice “parità di diritti”. Parità con chi?, chiede hooks. Una donna bianca della classe media scambierebbe il suo posto con un uomo nero? Vorrebbe essere considerata una sua pari?

Il femminismo raramente si è posto questa domanda, arenandosi su concetti come “parità” o, ancora peggio, “uguaglianza”, o al contrario forzando una situazione comune a tutte le donne, per altro segnata dalla sofferenza e dalla minaccia della violenza sessuale. Nel 1984, anno in cui uscì Feminist Theory, la concezione di femminismo come parità stava diventando egemonica persino nelle tradizioni della differenza sessuale. Si era alla conclusione del “decennio delle donne” proclamato dall’Onu e inaugurato con la Conferenza mondiale delle donne di Città del Messico nel 1975.  In queste conferenze, le rappresentanti politiche di tutto il mondo (e le varie first ladies) si riunivano per discutere i problemi delle donne e creare una strategia di sviluppo per quello che era considerato il “terzo mondo”. Se queste conferenze hanno avuto un ruolo fondamentale nell’implementazione delle politiche di genere a livello globale, per certi versi hanno contribuito anche all’istituzionalizzazione del femminismo e alla sua trasformazione, specie in ottica umanitaria, da forza politica a forza morale. 

hooks aveva intuito la direzione in cui stava andando questo processo: la cooptazione da parte di chi detiene il potere, favorita da una certa cecità del movimento femminista nel riconoscere che esistono altre oppressioni oltre a quella sessuale e che gli uomini non sono i veri nemici del femminismo. Il femminismo non è più una forza che mette in discussione il potere, lo rigetta o lo utilizza per mettere fine al dominio, come il Black Power, ma una forza che vuole impossessarsi di quel potere per farne ciò che vuole. Per avere, in altri termini, pari diritti nell’esercizio del potere, compreso quello del dominio. 

Il percorso che hooks comincia ad abbozzare nelle pagine di Feminist Theory oggi è arrivato a una sorta di punto di non ritorno. Politici di ogni ideologia, da Pedro Sanchez a Marine Le Pen, si dichiarano femministi e, quelli che non lo fanno vengono resi tali, anche contro la loro volontà. Le aziende di qualsiasi settore fanno i salti mortali per proporsi come parte di un movimento che dovrebbe essere fatto dalle persone e non dalle società per azioni. Sarebbe troppo facile addossare tutta la colpa al femminismo, ipotizzare un suo tradimento o addirittura un suo fallimento. 

Il problema, piuttosto, sta in questa cooptazione che hooks cita più volte nel suo testo. Di cui il femminismo detiene una certa responsabilità, che la filosofa non nega: “I gruppi maschili dominanti sono stati in grado di cooptare le riforme femministe e renderle utili agli interessi del patriarcato suprematista bianco e capitalista perché le attiviste femministe hanno ingenuamente creduto che le donne erano in opposizione allo status quo, avevano un sistema di valori diverso da quello degli uomini e avrebbero esercitato il potere nell’interesse del movimento femminista. Questo assunto le ha portate a prestare poca attenzione nel creare sistemi di valori alternativi che includessero nuovi concetti di potere”. Oggi che il femminismo è tornato al centro del dibattito politico, con un’adesione senza precedenti a livello globale, è necessario che produca un nuovo discorso sul potere. Non più in termini di empowerment o del superamento individuale della paura nei suoi confronti, ma provando a immaginarsi qualcosa di radicalmente diverso. 

ARTICOLO n. 95 / 2022

LUCIANO BIANCIARDI RIBELLE E ANARCHICO OGGI A MILANO

Il giovane rider sfreccia in via Brera, sfiora i consulenti finanziari e le influencer in posa, li supera, prosegue sulla sua bicicletta, rapido e deciso. Dietro di sé lascia una scia di risentimento, che però si dilegua velocemente, evapora nell’aria satura di precarietà. Neppure la rabbia trova spazio per esplodere nella città che va di fretta. Eccolo Luciano Bianciardi a cento anni dalla sua nascita, il 14 dicembre 2022, camminare in questi vicoli dove adesso lo ricordano, lo celebrano, lo citano, gli dedicano premi. Dove ti giri c’è un convegno a lui dedicato, un omaggio, un libro ristampato. Eccolo Bianciardi che osserva questa irritante beatificazione postuma, alla quale, se potesse, probabilmente si sottrarrebbe. Proprio lui che era arrivato da Grosseto a Milano nel 1956 per distruggere tutto: il mondo borghese, i simboli del boom economico, il progresso che già allora lasciava indietro tanti, faceva esplodere contraddizioni e corrompeva la vita culturale. Voleva far esplodere tutto come il protagonista del suo libro più importante, La vita agra, pubblicato nel 1962, che arriva a Milano per far saltare in aria con una bomba il Torracchione, il grattacielo, per vendicare l’incidente provocato dalle carenze nella sicurezza in miniera che avevano provocato la morte di molti minatori. Il Torracchione rappresentava la ditta da cui dipendeva la miniera. La vita agra era ispirato a una storia vera, quella dei minatori di Ribolla, che Bianciardi aveva raccontato con Carlo Cassola nel libro I minatori della Maremma. Una tragedia che scava in lui una profonda rabbia e che gli fa elaborare un testo – La vita agra appunto – che anticipa tanti temi di oggi: lo sfruttamento del lavoro, il precariato, la condizione di coloro che restano indietro o vengono uccisi nella corsa al profitto, il consumo delle persone, dei diritti, del suolo.

Eccolo Bianciardi a Brera che si stringe nel cappotto e cammina nella nebbia in via Fiori Chiari e Fiori Scuri, verso l’Accademia dove studiavano i pittori suoi amici, verso la Pinacoteca, l’Orto Botanico, il Bar Jamaica, sempre al civico 32, dove negli anni Sessanta parlava con Jannacci e Ripa di Meana. Brera allora – c’è da non crederci – era un quartiere bohémien, a un passo dal centro città, ma frequentato da pittori e studenti. Non era quel salottino borghese di oggi, turistico, pittoresco ma finto, percorso da turisti asiatici e ricche signore. Brera era “indie”, così si direbbe ora. Era il luogo degli irregolari, il più affasciante dei quali forse era il pittore Furio Cavallini – grande amico di Bianciardi – che dipingeva, ma aveva anche fatto l’operaio, era squattrinato, dormiva in una officina, pasteggiava a cappuccini e aspettava che qualcuno lo invitasse a cena. Adesso Bianciardi quando entra al Bar Jamaica tutti lo guardano, ma è solo perché ordina una grappa, chi più ordina una grappa a Milano? Nel locale, “molto instagrammabile”, si fanno i selfie i turisti che bevono Moscow Mule o al massimo Negroni. Sull’account Instagram del bar c’è anche una foto del film tratto dal suo romanzo, con Elio Crovetto, Giovanna Ralli e Ugo Tognazzi. Ma tutt’attorno il quartiere è irriconoscibile. I locali si chiamano ancora “Pescheria” o “Trattoria”, ma di pescheria e trattoria non hanno nulla. Sono posti fintamente rustici, in realtà pretenziosi, molto cari e dove di solito si mangiano – piuttosto male – cose turistiche, a volte esotiche, a volte tipiche milanesi, come il Ramen o il Poke. In città i boschi sono verticali e bellissimi ma costano 15 mila euro al metro quadro e in periferia ti affittano un sottoscala spacciandotelo per un appartamento. Le piscine pubbliche vengono affidate dal comune a società estere private, che le ristrutturano e ne fanno posti bellissimi, ma le tariffe lievitano, i ragazzi dei quartieri di periferia e i giovani immigrati che non hanno i soldi per pagare restano seduti fuori, sui marciapiedi, con la sacca del nuoto ai piedi. Qualcuno si perde, qualcuno si salva da solo, ma è solo un caso, non è merito di nessuno. Bianciardi cammina perplesso e disorientato per questi vicoli, fra negozi delle catene di abbigliamento e raffinate boutique, guarda le insegne, che non riconosce più, schiva la folla che si muove, la città che lui non ama.

E poi eccolo che alza il viso e lo vede, il Torracchione. È ancora lì, svetta in mezzo ad altri grattacieli, ancora più alti, ancora più imponenti, che nel frattempo sono stati costruiti: City Life, Gioia 22, il “Curvo” di Libeskind. Ha vinto lui, il Torracchione, che nel romanzo rappresenta – sei anni prima del Sessantotto – tutto quello contro cui lottare per cambiare le cose, per sabotare quell’idea di progresso che era in realtà è appiattimento, anche culturale e intellettuale, per vendicare gli ultimi, quelli che il boom aveva lasciato indietro, aveva tradito, aveva ucciso. Ma poi – nel romanzo – il protagonista trova un lavoro e una fidanzata e un po’ alla volta si dimentica del perché era arrivato a Milano, subentra l’apatia. Il rivoluzionario disilluso e rassegnato, venuto da fuori per fare la rivoluzione, si accuccia al caldo ai piedi del Torracchione e invece di farlo esplodere inizia a servirlo, a essere parte del sistema, un ingranaggio come un altro. La Vita agra è un libro feroce, caustico, disilluso, che critica e attacca il sistema. Tuttavia, con grande sorpresa di tutti, anche dello stesso Bianciardi, il romanzo ha un enorme successo. Invece che arrabbiarsi, sentirsi offesa, invece di insultarlo, la borghesia milanese ne va pazza. Lo invita a incontri e feste, lo chiama per le interviste, lo vuole conoscere, lo corteggia. E lui si lascia corteggiare, intervistare, lusingare, ma con un forte senso di disagio e frustrazione, perché disprezza tutto di quegli ambienti e si chiede in cosa abbia dunque sbagliato. La cosa curiosa è che a un certo punto verità e finzione sembrano sovrapporsi e coincidere: lui aveva raccontato di un provinciale venuto in città per distruggere il simbolo del capitalismo che tutto corrode e poi viene assorbito dalla città e corrotto dal capitalismo senza neanche rendersene conto.

E Bianciardi teme di fare la stessa fine. Di questo meccanismo è consapevole e tuttavia ne è quasi affascinato. «Anziché mandarmi via da Milano a calci in culo – scrisse al suo amico Terrosi in una lettera – mi invitavano a casa loro». E lui ci andava. Ma sapeva che il rischio era di fare la fine di quel writer clandestino dalla penna feroce che scrive di anarchia e libertà, ma poi va a Milano e a una festa incontra il direttore di uno studio creativo di una agenzia di pubblicità di Porta Nuova che il giorno dopo lo chiama per fare il copy e quindi l’anarchico writer inizia a usare la sua penna feroce per la campagna pubblicitaria di una azienda di caramelle. Sa che il rischio è di fare la fine degli scienziati che parlano di ambiente o salute, denunciando le carenze di prevenzione e le nostre responsabilità, ma che a un certo punto diventano delle star televisive e si dimenticano il motivo per cui sono andati in televisione e parlano di cinema, di sport, di tutto ciò che gli chiedono. Bianciardi però è un puro, o almeno ci prova e ne paga le conseguenze. Eccolo quindi in Via Solferino, cammina lungo la via dove aveva anche vissuto in una piccola pensione, oltrepassa il portone del Corriere della Sera, il grande giornale, che un giorno sotto la direzione di Montanelli gli aveva offerto una prestigiosa e ben pagata collaborazione. Quando uscì La vita agra Montanelli ne rimase profondamente colpito, tanto che pubblicò un articolo, Un anarchico a Milano, che lodava il libro e il suo autore. Lo chiamò, gli fece un’offerta. Le lodi del direttore del Corriere della Sera e l’offerta di lavorare per il prestigioso quotidiano, invece che inorgoglirlo, lo mandano in crisi. Montanelli gli offriva trecentomila lire per due pezzi al mese. Bianciardi, licenziato da Feltrinelli, si manteneva allora con delle traduzioni e qualche articolo di giornale. Quell’offerta quindi era un’occasione unica, era molto di più di quello che riusciva a racimolare traducendo forsennatamente giorno e notte dall’inglese. Però era anche una resa. Si chiede se può stare dalla stessa parte di coloro che ha criticato, se può scrivere per un giornale che rappresenta il Torracchione che vuole far saltare in aria. E dice di no. Rifiuta quel mondo perché lo disapprova, resta ai margini, con suo cappotto liso, la grappa, la rabbia, il sarcasmo.

Eccolo ora Bianciardi che passa oggi in via Solferino e guarda verso da giù le finestre più alte del palazzo del Corriere della Sera, eccolo che forse ripensa a quell’orgoglioso ritrarsi, chissà se lo rivendica o se si pente, se pensa che sia stato un gesto punk e libero o un atto codardo e perdente. Se si gira e rigira questo dubbio nella testa o se fa spallucce, se ne frega e continua a camminare per la città arrivando a un certo punto davanti alla Scala, dove due studenti dormono su un divano. Protestano per il caro affitti. Un fotografo sta scattando delle foto per un servizio che una rivista patinata vuole fare su di loro, su questa protesta originale alla corsa sfrenata dei prezzi che umilia i fuori sede, costringe le giovani coppie ad andare a vivere fuori Milano, impedisce agli studenti che non possono permetterselo di studiare in città, soffoca la cultura, la gioventù, la città stessa. E allora su questo divano colorato davanti alla Scala di Milano va in onda questo gesto ribelle e folle e giusto e anarchico. Bianciardi osserva i due studenti arrabbiati, il divano, la folla di curiosi che ci gira attorno e il fotografo che sbuffa, che chiede che collaborino un po’ questi due, che si mettano in posa, perché la Rivoluzione per funzionare deve avere le sue luci, la sua iconografia, la sua estetica. Per diventare virale la Rivoluzione deve farsi bella. E allora Bianciardi trattiene il respiro. E anche il fotografo per ragioni opposte trattiene il respiro. Ed entrambi guardano lo studente e lo studente sul divano impreca, fa un gesto inequivocabile, gira loro le spalle. E si mette a dormire. 

ARTICOLO n. 94 / 2022

W. G. SEBALD, NEL SEGNO DI SATURNO

I profeti del presente

Avevo sempre desiderato visitare Orford Ness, “l’isola” come la chiamano gli abitanti del luogo, anche se a separare questa striscia di terra dalla costa del Suffolk c’è solo il sistema fluviale composto dai fiumi Alde e Ore e la traversata in barca dura pochi minuti. Però da quando nel 1993 il National Trust l’ha acquistato dal Ministero della Difesa bisogna prenotare, ed è aperto solo nei fine settimana per impedire che i turisti disturbino gli uccelli che ci nidificano, barbagianni e falchi di palude, ma anche i mammiferi come le lepri e i caprioli d’acqua. “L’isola” quindi era rimasta sempre esclusa dalle mie peregrinazioni sulla costa, fatte in gran parte durante gli anni della pandemia per sfuggire alla noia e all’oppressione delle notizie di morte che arrivavano dal resto dell’Inghilterra. Da Londra ci vogliono tre ore di macchina, e da Norwich, la città più vicina raggiungibile con un treno diretto da Liverpool Street, non ci sono collegamenti comodi. Ci avevo girato intorno, a Nord e a Sud, senza mai trovare l’occasione di andarci.

Orford Ness ha una bellezza strana e inquietante; un po’ come Dungeness, il borgo del Kent dove nel 1986 Derek Jarman è andato a morire all’ombra della centrale nucleare, materializzando un giardino dalla sabbia e scrivendo il suo diario dell’AIDS. Con Dungeness, Orford Ness condivide il suffisso –ness, che indica un promontorio o un luogo di confine, i residui arrugginiti di un passato industriale e la spiaggia di shingle, un tipo di ciottoli che definire “ciottoli” è riduttivo ma per i quali in italiano manca una parola adatta. Soprattutto, però, in entrambi i luoghi la natura selvatica si mescola a un senso di minaccia tutto umano. Entrambi i paesaggi sono ampi, spaziosi e vuoti.

La peculiarità di Orford Ness si deve al fatto che tra il 1913 e il 1987, quando a gestirlo era l’esercito, è stato il sito di un gran numero di esperimenti bellici, che hanno riguardato la balistica dell’allora neonata aviazione militare e le onde radio, l’utilizzo di piccioni viaggiatori e la bomba atomica; Orford Ness è il luogo in cui è stato inventato il radar, e negli Anni Settanta la RAF ha utilizzato i suoi grandi spazi per disfarsi delle bombe divenute inutili con il disarmo alla fine della guerra fredda, tanto che ancora oggi è obbligatorio camminare su un unico percorso per evitare di incappare in ordigni inesplosi. Quando l’ha acquistato, il National Trust ne ha fatto un parco naturale, e ha lasciato che le sue sinistre strutture militari decadessero dolcemente o venissero inglobate nella vegetazione. Si respira l’aria che immagineresti a Chernobyl; non per niente viene spesso paragonata alla Zona del film di Tarkovskij.

Nei pochi edifici ancora accessibili sono stati allestiti un piccolo museo, una libreria che sembra uscita da un romanzo di Stephen King, nella quale si vendono oggetti incongrui come libri per bambini e maglioni fatti con la lana delle pecore che pascolano placide sempre all’orizzonte; c’è una torretta d’osservazione e un edificio nero ottagonale nel quale un tempo venivano studiati i sistemi di navigazione radio dei bombardieri e in cui oggi ci si può sedere e ascoltare i versi del poeta ucraino Ilya Kaminsky che descrivono il panorama. L’installazione è parte di un progetto artistico intitolato Afterness, un nome quanto mai appropriato per descrivere un luogo così postumo. Un amico che mi accompagnava, evidentemente dotato di un maggior senso poetico di me, ha fatto notare che a Orford Ness il vento non si vede, vale a dire che lo senti sulla pelle ma non smuove i rovi e i bassi arbusti che crescono ai lati della strada. La sensazione è irreale, come se qualcosa nel contesto non quadrasse.

È la quintessenza di quello che Robert Macfarlane ha chiamato, in un’articolo scritto sul Guardian qualche anno fa, “la eeriness della campagna inglese”; è anche la quintessenza del Suffolk, un territorio nel quale la storia militare è così mescolata al panorama che è impossibile ignorarla, dalle torri Martello costruite nel XIX secolo per proteggersi dal rischio dell’invasione napoleonica ai bunker della Seconda guerra mondiale che servivano per proteggersi dall’invasione nazista: né Napoleone né Hitler sono mai riusciti ad arrivare sulle coste britanniche, ma il senso del pericolo è ancora presente. Passeggiare per il Suffolk significa attraversare diversi secoli di archeologia dei bunker, come l’avrebbe chiamata Paul Virilio. Durante e dopo la guerra sono arrivate le basi americane, come quella di Woodbridge, il paese in cui è nato Brian Eno, che ha raccontato più volte come il suo amore per la musica sia cominciato quando a metà degli anni Cinquanta osservava i soldati americani ballare rock’n’roll e doo-wop.

Probabilmente è anche questo senso di un pericolo mai realizzato, o lo spettro del complesso militar-industriale e dell’annichilimento che porta con sé, ad aver reso questa terra così spettrale; oppure gli eserciti si sono concentrati qui perché percepivano la presenza dei fantasmi: come scrive Geoff Dyer in Sabbie bianche, è difficile capire cosa venga prima e cosa venga dopo, eppure «l’effetto cumulativo di tutti quegli andirivieni rimane e si insinua nelle fondamenta», e il paesaggio «diventando una rovina rivela il suo circuito originario». È così che nasce l’anima dei luoghi. 

Mark Fisher, che di fantasmi e di eeriness si intendeva parecchio, e che in Suffolk sarebbe morto suicida, ne ha parlato diffusamente nell’audio-essay che ha co-realizzato con Justin Barton, On Vanishing Land, un tentativo di enfatizzare la spettralità implicita in On Land di Eno. Il lavoro di Fisher e Barton parte dalla «vastità inesplorata» del porto di Felixstowe e finisce a Sutton Hoo, il misterioso luogo di sepoltura sassone a poca distanza da Woodbridge. Le parole che Fisher utilizza per descrivere questo paesaggio si adattano perfettamente a Orford Ness: “eerie”, “deserto”, “irreale, “appartato”. Il Suffolk è anche il luogo in cui uno dei grandi cercatori di fantasmi della nostra epoca, W.G. Sebald, ha ambientato il suo libro più celebre, Gli anelli di Saturno. Inutile dire che ho sentito parlare di Orford Ness per la prima volta da Sebald, e che la mia passeggiata era un pellegrinaggio, o meglio ancora un rito.

***

A Orford Ness Sebald è arrivato nel 1992, quando “l’isola” galleggiava nel limbo tra il suo vecchio passato militare e il suo futuro ancora non realizzato di attrazione turistica. All’epoca non c’era il rischio di spaventare i falchi di palude e i caprioli d’acqua, se è vero ciò che Orford Ness «continuava a essere evitata da tutti», e «persino i pescatori della costa, per i quali la solitudine è moneta corrente, dopo un paio di tentativi avevano rinunciato a gettar l’amo laggiù di notte, secondo quanto dicevano perché non ne valeva la pena, in realtà perché in quel luogo abbandonato da Dio e proteso sul nulla non si riusciva a resistere, anzi il permanervi aveva causato addirittura disturbi psichici duraturi»; meravigliosa, tragica ironia sebaldiana. Solo ora, rileggendo il passaggio per scrivere questo saggio, mi rendo conto che anche Sebald nota il vento: «era una giornata cupa», scrive, «opprimente, con una tale calma di vento che non si muovevano nemmeno le esili spighe delle graminacee». E continua: «Già dopo pochi minuti avevo l’impressione di avanzare in una terra inesplorata, e mi sentivo […] perfettamente libero, ma anche in preda a un’ansia immensa. Non un solo pensiero si agitava nella mia mente. A ogni passo il vuoto, dentro di me e intorno a me, si faceva più vasto e il silenzio più profondo».

L’idea di una passeggiata sebaldiana era nella mia mente da quando sono arrivato in Inghilterra dieci anni fa, perché Sebald, e Gli anelli di Saturno in particolare, è tutto un invito a ripercorrere i passi già tracciati da qualcun altro: dalla Storia, certamente, ma anche dalla memoria individuale, e da quel conglomerato di Storia e memoria individuale che è stato Sebald stesso, l’uomo Sebald, lo scrittore, ma anche il suo mito, la traccia che ha lasciato dietro di sé. Visitare Orford Ness ci ha preso tutto il giorno. L’idea per la giornata successiva era andare a Norwich, dove Sebald ha insegnato alla University of East Anglia per trent’anni, e poi al piccolo cimitero della chiesa di St Andrew a Framingham Earl, dove è stato sepolto dopo essere morto in un incidente stradale nel dicembre del 2001. Però quando ci siamo svegliati c’era il sole, non la pioggia prevista dalla BBC, e faceva caldo; così invece di andare a Nord rispetto al nostro AirBnb sperso nella campagna siamo andati a Sud, alla città fantasma di Dunwich, che nel XIII secolo era grande quanto Londra ma che è pian piano stata ingoiata dal mare, tant’è che oggi il villaggio conta solo 84 abitanti. Naturalmente anche Dunwich compare negli Anelli di Saturno. Alla sua distruzione sono dedicate alcune delle pagine più belle di tutto il libro.

Ho detto che Sebald, come uomo esistito in carne e ossa e come scrittore, invita a ripercorrere delle tracce, ma c’è anche qualcosa di più sottilmente inquietante in questo bisogno di camminare dove ha già camminato qualcun altro, e specialmente qualcuno che ha fatto di queste camminate l’oggetto ma anche la forma della propria scrittura. Nel caso di Sebald questa ritualità assume i contorni di una vera e propria necromanzia. Già nel 2012 il regista Grant Gee poteva girare un film oggi di culto e quasi introvabile come Patience (After Sebald), che non era solo un documentario sulla vita di un autore amato ma una prima camminata nel solco tracciato dagli Anelli di Saturno. Fisher non era un amante di Sebald, e le sue influenze erano tutt’altre, ma è impossibile ignorare che i luoghi di cui parla nel suo audio-essay e altrove siano in parte gli stessi del libro. Nello stesso 2012 anche Teju Cole, uno scrittore che ha dedicato il suo libro più famoso, Città aperta, proprio a Sebald, ha scritto per il New Yorker un saggio in cui racconta le sue camminate sulle tracce sebaldiane. Il saggio si intitola Always Returning: cos’altro torna continuamente se non le nevrosi e i fantasmi?

La “afterness” dell’installazione artistica a Orford Ness allora non è solo la destinazione di un movimento lineare, qualcosa che viene dopo, plausibilmente alla fine della Storia; è anche la descrizione di un moto circolare, un continuo ripercorrere gli stessi percorsi, ancora e ancora. Mentre ci pensavo mi sono accorto che solo due categorie di persone continuano a camminare sullo stesso sentiero. La prima è quella dei pensatori, o meglio di quel particolare tipo di pensatori che per pensare ha bisogno di camminare, come Kant che usciva tutti i giorni per una passeggiata alla stessa ora e la sua puntualità era tale che gli abitanti di Königsberg sistemavano gli orologi quando lo vedevano comparire in strada. La seconda è quella dei depressi, intrappolati in quella che Freud ha chiamato coazione a ripetere, per i quali camminare gli stessi sentieri è una forma della pulsione di morte. C’è qualcosa di funereo nel ripercorrere le tracce di Sebald negli anni, nei decenni: è una maniera di partecipare al lutto che pervade ogni singola pagina della sua opera, anche quelle più divertenti.

Poi però mi sono accorto che l’atto di camminare ha anche una valenza opposta, e che esiste un terzo tipo di camminatori, una categoria della quale fanno parte i flâneur e anche, in fondo, lo stesso Sebald: quelli che cercano di sfuggire alla depressione camminando. In Italia abbiamo un grande esempio, quello di Gianni Celati. Camminare, muoversi, non fermarsi mai, è un modo di tenere a bada quella inesorabile distruzione di cui parla Sebald, proiettandola con equanimità su città medievali e aringhe, sui ghiacciai e la sepoltura delle urne, sull’Olocausto e il teschio di Thomas Browne, quella distruzione da cui non c’è scampo e che minaccia di inghiottirci non appena ci fermiamo. Non per niente Gli anelli di Saturno si apre con il narratore ricoverato all’ospedale di Norwich per una misteriosa malattia che lo riduce «in condizioni di quasi totale immobilità».


Per questo la scrittura di Sebald, come quella di Celati, come quella di Teju Cole, come quella di Thomas Browne, come quella di Geoff Dyer, è una scrittura “camminante”, divagante, che rifiuta di seguire un percorso lineare, che rifiuta persino di avere un inizio e una fine. Lo era anche la scrittura di un altro grande malinconico, anzi del primo autore moderno di un libro sulla malinconia, Robert Burton. Burton oscilla continuamente tra poli opposti, dalla dimensione dionisiaca della divagazione infinita, del movimento che non vuole accettare di fermarsi, a quella propriamente malinconica della coazione a ripetere: sappiamo che ha scritto The Anatomy of Melancholy per tutta la vita, e che quando è morto a Oxford nel 1640, all’età per l’epoca veneranda di 73 anni, non era ancora soddisfatto della forma finale assunta dal libro; ma sappiamo anche che The Anatomy of Melancholy è un testo che trascende continuamente sé stesso, si spaccia come trattato medico ma non può fare a meno di essere scritto in prima persona, dovrebbe trattare il tema della tristezza ma è attraversato da una corrente inarrestabile di ironia, ed è in fin dei conti un testo enciclopedico nei mezzi e nelle finalità. La malinconia, nel libro di Burton, è una lente attraverso cui osservare tutto, e in quanto tale coincide con la vita. Queste scritture sono insofferenti al confine: proprio l’opposto di ciò che capita nel caso dell’astro evocato dal libro di Sebald.

***

Vale la pena riprendere integralmente lo straordinario incipit degli Anelli di Saturno, qui nella traduzione di Ada Vigliani per Adelphi:

Nell’agosto del 1992, quando la canicola cominciò ad allentarsi, intrapresi un viaggio a piedi attraverso la contea di Suffolk in East Anglia con la speranza di sfuggire al vuoto che si stava diffondendo in me dopo la conclusione di un lavoro piuttosto impegnativo. Una speranza che sino a un certo punto si è anche realizzata, perché di rado mi sono sentito così libero come in quel periodo, durante le ore e i giorni passati a vagabondare per quelle contrade, spesso solo scarsamente popolate, a poca distanza dalla costa. D’altra parte, però, adesso ho come l’impressione che l’antica e irrazionale credenza secondo cui certe malattie dell’anima e del corpo vanno allignando in noi preferibilmente sotto il segno del Cane, potrebbe essere in qualche modo giustificata. Ad assorbire i miei pensieri nel periodo successivo fu, in ogni caso, il ricordo non solo della splendida libertà di movimento goduta allora, ma anche dell’orrore paralizzante da cui ero stato più volte assalito davanti alle tracce della distruzione che, persino in quella località sperduta, risalivano al lontano passato. Forse fu per questo che, a un anno esatto dall’inizio del mio viaggio, mi ricoverarono, in condizioni di quasi completa immobilità, nell’ospedale di Norwich, il capoluogo della regione, nel quale qualche tempo dopo avrei cominciato a scrivere, almeno mentalmente, le pagine che seguono. 

Nella raffinatezza della traduzione italiana finisce per perdersi il principale riferimento del brano: nell’originale inglese Sebald non parla di «canicola», ma scrive «when the dog days were drawing to an end», rimandando evidentemente al «segno del Cane» che segue qualche riga dopo. Nell’antichità greco-romana, i giorni del cane erano quelli in cui Sirio sorgeva all’alba insieme al Sole, alla fine di luglio; erano i giorni più caldi dell’anno (da cui appunto l’italiano “canicola”) e indicavano l’arrivo di una catastrofe; Sirio è la stella più brillante del firmamento, ma già nell’Iliade era associata all’arrivo di guerre e disastri. Dis-astri: cattive stelle. Nella prima riga del suo libro, Sebald pone tutto ciò che seguirà sotto l’influenza dei cieli, e nello specifico di un pianeta nefasto, che porta morte e distruzione su scala immane.

Nel 1964 il grande studioso warburghiano Raymond Klibansky ricordava nel suo libro sul tema che il rapporto tra Saturno e la malinconia affonda le radici nella teoria degli umori di Ippocrate di Coo: al temperamento malinconico o appunto “saturnino” era associata la bile nera; l’organo era la milza, l’elemento la Terra, e gli attributi che lo contraddistinguevano il freddo e il secco.Saturno era l’ultimo pianeta conosciuto del sistema solare, dato che Urano sarebbe stato scoperto nel 1781 e Nettuno nel 1846: era il più freddo e il più distante dal Sole, e aveva ereditato il nome dall’anziano dio dell’agricoltura romano che a sua volta aveva mutuato gli attributi dal Crono greco, il re dei Titani e signore del tempo che divorava i propri figli, così come appare nella più celebre delle pitture nere di Goya. Saturno era dunque il pianeta del limite: si trovava al confine dell’universo conosciuto, ai margini del buio dello spazio profondo, e la sua influenza riguardava i limiti invalicabili delle cose, il tempo che tutto consuma, la morte inesorabile. Per questo il suo elemento era la terra, a cui tutti torniamo e a cui tutti siamo legati dalla forza di gravità. È Saturno che compare nel cielo nell’incisione Melancholia I di Albrecht Dürer, descritta da Sebald e prima di lui da Warburg. È a “Saturno Signore della malinconia” che è dedicato Anatomy of Melancholy

Il dibattito sulle influenze astrali del temperamento malinconico aveva preso una piega inaspettata nel 1489, quando nel De Vita Triplici il grande malinconico Marsilio Ficino aveva tentato di trovare un rimedio alla disdetta della sua vita: essere nato con Saturno nell’ascendente. Ficino fa notare che spesso gli studiosi sono malinconici, istituendo così per primo un collegamento tra genio e malinconia che sarebbe arrivato dritto al Romanticismo e oltre; ma è anche il primo di quelli che potremmo chiamare “astrologi trasformativi”, una branca di pensiero che avrebbe portato all’alchimia e poi alla psicologia del profondo: lungi dall’accettare l’influenza degli astri in maniera passiva, vede l’astrologia come uno strumento per curare i mali provocati dall’astrologia stessa. Nel caso specifico di Saturno, raccomanda di bilanciare gli influssi negativi tramite l’azione di astri positivi come il Sole, Giove, Venere e Mercurio. Al temperamento malinconico, descritto dall’inventore della stenografia Timothie Bright come «tardo nel passo, taciturno, neghittoso, avverso alla luce e al concorso degli uomini», Ficino propone di contrapporre il vino, l’aria fresca e la musica. Non è un caso che due di questi tre rimedi riconducano direttamente a Dioniso.

Di tutti questi collegamenti mi sono accorto solo confusamente mentre camminavo nel Suffolk: come il passato militarizzato dell’East Anglia, rimanevano sullo sfondo, ne ero solo parzialmente cosciente. Ero ben consapevole però di star ripercorrendo un sentiero già battuto innumerevoli volte, forse già battuto da sempre, in un eterno ritorno nicciano o in un’esplosione su scala cosmica del Jack Torrence di Shining rivela di «essere sempre stato il custode». Ed ero ben consapevole che niente in noi e fuori di noi si muove senza l’influsso dei pianeti e le voci degli dèi, quelli nel macrocosmo e quelli nel microcosmo. Il sole era troppo caldo per un giorno di ottobre: altri dis-astri all’orizzonte.

L’altra cosa che avrei scoperto solo più tardi, leggendo Klibansky nel tentativo di trarre una linea narrativa da questo groviglio di fili intersecati che si perdono all’origine del tempo, è che c’è un aspetto meno conosciuto di Saturno, un lato-ombra che sembra negare la terribile fama che il pianeta si è costruito nei millenni. Nel passaggio dalla Grecia a Roma, quando Crono è stato tradotto in Saturno, il “dio anziano” ha perso gran parte della sua brutalità originaria, venendo associato principalmente all’agricoltura: il tempo non è dunque più solo il Titano che divora i propri figli, ma anche il principio benefico che fa crescere e maturare le messi; la terra non è solo una metafora della morte, ma anche della vita; e il limite inesorabile è il passaggio necessario per un nuovo inizio. Tant’è che le feste in onore del dio, i Saturnalia, erano una specie di carnevale, un momento di gioia e dionisiaca sospensione delle regole. Si celebravano dal 17 al 23 dicembre, ed è probabile che parte del culto sia confluita nel Natale cristiano, a sua volta un simbolo di nuova vita.

Ecco allora che la afterness, questo essere sempre “after Sebald”, si ribalta nel suo opposto: non c’è solo il moto lineare che conduce oltre la fine della Storia, oltre la fine dell’universo, oltre la fine di tutte le cose nel buio assoluto e totale dello spazio profondo; c’è anche il moto circolare dell’agricoltura, della morte che permette la vita e che si ripete sempre uguale. Qui Dioniso e Saturno, questi due grandi principi del disturbo bipolare che in una forma o nell’altra ci affligge tutti, non sono più antagonisti, ma facce diverse dello stesso dio. È la realizzazione di quell’equilibrio che Warburg ha cercato tutta la vita senza mai trovarlo quando scriveva nel suo diario di aver provato «a diagnosticare la schizofrenia della civiltà occidentale in un riflesso autobiografico: la Ninfa (maniaca) da una parte e il malinconico dio fluviale (depressivo) dall’altra».

Lo stesso potremmo dire in fondo di Sebald, che non si è «mai sentito così libero» come durante le peregrinazioni nel Suffolk, e nell’ospedale di Norwich si trova costretto a letto dall’«orrore paralizzante» che ha provocato in lui la scala cosmica della catastrofe. Però, e chissà se aveva in mente la natura ciclica di Saturno mentre lo decideva o se è stata una scelta inconscia, la stasi e la malattia sono poste all’inizio del libro, non alla fine. O meglio, l’inizio e la fine sono la stessa cosa: ci si ferma, si cammina, si è liberi e ci si ferma di nuovo; ci si riposa, e poi si cammina di nuovo. Gianni Celati camminava per ore prima di scrivere, e scriveva solo quand’era esausto. Poi si riposava e riprendeva a camminare, o a scrivere, che in fondo per lui erano la stessa cosa.

***

Ciò che invece ha continuato ad andare dritto lungo la propria strada è il progresso scientifico, che conosce interruzioni e improvvisi salti in avanti ma non ammette divagazioni, almeno in questa maniacale allucinazione razionalista in cui abbiamo trasformato la scienza. La teoria degli umori è stata sorpassata, e si può sostenere a ragione che la medicina moderna abbia salvato qualche miliardo di vite. Il concetto di malinconia, con la sua ricchezza semantica che includeva tristezza e nostalgia, rimpianto e disperazione, irascibilità e tedio, è stato rimpiazzato da quello «uniforme ma informe» della depressione, come ha scritto Silvia Arzola. Le voci degli dèi sono state ridotte a squilibri chimici nel cervello e vengono curate con le medicine. Che servono, certo, ma a volte non servono. Non riesco a fare a meno di pensare a Mark Fisher, a tutto ciò che ha scritto sulla depressione e alla sua morte autoinflitta e al fatto che abbia scelto proprio il Suffolk per vivere e morire, lui che era delle Midlands.

Siccome in fondo tutto finisce, come Gli anelli di Saturno racconta nel migliore dei modi possibili, non posso fare a meno di pensare anche alla morte di Sebald, che appare così casuale, così gratuita: un punto arbitrario per mettere fine alla vita del più grande divagatore del nostro tempo. La mano di Saturno, senza dubbio. Il dis-astro che si manifesta nel quotidiano, una sera di dicembre fuori Norwich.Nel 2012, l’anno dell’uscita di Patience (After Sebald) e della peregrinazione di Teju Cole, la sonda della NASA Voyager 1 è stata il primo oggetto costruito dall’uomo a uscire dal sistema solare: aveva sorvolato Saturno nel 1980. Dieci anni dopo si trova a 23 miliardi e 604 milioni di km dal Sole e comunica con la Terra ininterrottamente da 45 anni e 1 mese. Continua ad andare dritta, senza divagazioni, nel buio cosmico, sempre più lontana dagli uomini e dai loro dèi. Continuiamo a sentirla parlare, finché un giorno non la sentiremo più e sarà diventata solo un altro dei nostri fantasmi.

ARTICOLO n. 93 / 2022

AIUTA I VECCHI

Vortex di Gaspar Noé

Stanco ed eccitato da non riuscire a dormire: così in certe occasioni mi capita di sentirmi, e così mi sono sentito una notte della settimana scorsa, quando – scanalando – sono incappato nella visione di Vortex di Gaspar Noè. Il film è uscito l’anno scorso ed è adesso disponibile su Mubi, e Noè è autore amato sia dalla critica che dai giovani cinephiles; viene spesso citato come reference, e sovente nominato nelle conversazioni (un collettivo di registi con cui ho lavorato di recente mi ha proposto per l’appunto “un’inquadratura alla Gaspar Noè”) e forse proprio per questo motivo da me snobbato. 

Ho dunque cominciato a vedere il film con molti pregiudizi, diffidente come verso le cose troppo chiacchierate o troppo di moda. 

Ho capito presto che mi sbagliavo.

La storia è quella di due anziani che vivono in una casa disordinata e zeppa di libri nella zona Nord di Parigi. Lui è un cineasta, sta scrivendo un libro sul rapporto fra cinema e sogno, lei è un medico. Nella prima scena sono a letto, dormono, l’uno accanto all’altra. Poi lei apre gli occhi, come in preda a un terrore ignoto, lui, accanto, continua a dormire. Dall’alto del frame dell’immagine una lacrima nera di nero extra-cinema comincia a colare verticalmente, lentamente, dall’alto verso il basso, fino a dividere l’inquadratura in due. Comincia così il racconto split-screen di una terrificante disgiunzione fra esseri umani. La signora non si ricorda più chi sia il marito, confonde nomi e facce, esce per far compere e si perde nel quartiere. I sintomi di una malattia oramai diffusa e nota, la patologia di quelli il cui cervello muore prima del cuore. Mi ha colpito il realismo con cui la malattia viene rappresentata, merito sicuramente di Francoise Lebrun, attrice di culto della Nouvelle Vague, qui in una prova attoriale incredibile, e di Dario Argento, bravissimo anche lui nel ruolo dell’anziano intellettuale italiano di cinema (interpreta se stesso, in fondo, verrebbe da dire, non c’è bisogno di particolare abilità; ma l’argomento è mal posto: non è in questione il fatto che interpreti se stesso quanto il coraggio di portare il se stesso reale dentro una cornice di questo genere, il coraggio di affrontare nudo, senza gli schermi dell’attore, la tempesta di dolore di una sceneggiatura siffatta). Il francese maccheronico di lui, la sua premura, il suo continuare ad amare la moglie attraverso piccoli gesti quotidiani, quelli contrari all’epica dell’innamoramento, i gesti ordinari e squallidi nelle cucine disordinate e nei bagni sporchi, l’eroismo della convivenza dentro gli spazi chiusi. Commuove, l’oscuro neorealista scrutare di immagini e dialoghi all’interno di una distruzione per logorio di due esseri umani vecchi e malati, in lenta discesa verso la morte. Commuove come il film racconti senza troppi simboli la folle innaturale volontà di auto-conservazione dell’uomo di fronte allo scorrere del tempo, rappresentata da lui che non vuole lasciare la casa, quando il figlio propone il trasferimento in una clinica, e che crede ancora in una patetica relazione extraconiugale con una collega, e incarnata dall’abbandono al vortice della morte da parte di lei, che, in un momento di lucidità, sussurra «la cosa più sensata sarebbe sopprimermi».

Non sopporto l’estetica digitale dell’immagine dei nostri tempi, la freddezza del mezzo, la grana del cinema non girato in pellicola e lasciato senza una color correction che lo riporti alla pastosità dell’analogico. Mi piace ogni forma di saturazione, filtraggio, modifica della realtà fotografica. Mi rassicura pensare che ciascuno di noi possa trasformare un’immagine fredda da telefonino, con la giusta app, in un frame di Nicholas Ray o Sergio Leone (bisognerebbe capire poi meglio il perché, a livello cognitivo, ma questo è un altro discorso). Mi rassicura che l’orrore del reale e del mondo possa essere manipolato dal cinema, mi rassicura che persino il cinema e la fotografia, due mezzi così specchio del reale, possano andare in direzione contraria alla realtà, “ridipingendo” anch’essi, come un pittore, il mondo.

Vortex ha una poetica contemporanea, avrebbe in questo senso tutti i vestiti giusti per non piacermi: è girato in digitale e si vede. Certo, la luce degli interni è molto ben studiata (c’è una palette di colori uniforme, ci sono i marroni, il grigio, il buio, l’ocra della pelle degli esseri umani, tutto tende all’ingiallimento e alla decomposizione) ma nonostante la coerenza cromatica ci si accorge della povertà, ci si accorge che nulla è stato colorato o manipolato in post. E, eccezione alla regola, questa nudità, questa verità di camera digitale presentata per quello che è, lasciata alla sua vetrosità senza pasta, senza calore, mi piace. Si tratta dello stesso tipo di sincerità rispetto al reale che poteva avere il filmino in VHS di un matrimonio degli anni ’80. Forse amo le immagini di Vortex perché anch’esse, in fondo, più che essere realistiche lo sono eccessivamente! Sono contro il mondo per iper-realismo, quindi fantastiche. 

E di diritto, dentro a una poetica del fantastico, Vortex ci entra pure per la banda nera che divide lo schermo in due. L’elemento grafico che consente l’accostamento di due punti di vista diversi della stessa scena è il motore primario dell’anti-realismo del film. Nella realtà non ci è dato vedere campo e controcampo insieme, l’occhio non coglie in contemporanea chi cerca e chi è scomparso, è impossibile far coesistere presenza e assenza. Vortex lo fa, e, a uno sguardo attento, è una elegantissima forma di fantascienza.

Il mondo che abitiamo è fatto di anziani. Anziani dalla vita sempre più lunga, ed è per questo che viviamo l’epoca della demenza. Abbiamo sempre più quotidianamente a che fare con l’Alzeheimer, come se dovessimo pagare lo scotto dell’innalzamento dell’aspettativa di vita. Le statistiche dicono che oggi i malati di demenza sono circa 55 milioni nel mondo, e che nel 2050 saranno assai probabilmente raddoppiati. Ci sono previsioni attendibili di raddoppio di numero ogni venti anni. L’eternità, un prezzo, pare avercelo: l’obnubilamento delle nostre menti, per esempio. Si tratta di un triste paradosso: l’uomo prolunga la propria vita sulla Terra con i progressi della medicina, della tecnologia e della scienza, ma intanto la Terra si popola di vecchi che si ammalano lentamente e lentamente entrano in un vortice di oblio in cui si perde la memoria della ragione profonda per cui si è voluto sconfiggere la morte. 

Help the aged, diceva una canzone intelligente dei Pulp, «aiuta gli anziani perché son stati giovani prima di te, perché hanno sniffato colla prima di te». Bisognerebbe aggiornare aggiungendo: aiuta gli anziani, dai loro una moneta e condividi con loro un pezzo di pane, prima che i costi sociali sempre più alti della demenza (nel mondo senza giovani) ti travolgano e portino te e il tuo Paese all’impoverimento e al collasso. Aiuta gli anziani, aiuta te stesso. A qualche fanatico di governo, alla retorica del razzismo, bisognerebbe rispondere che non saranno orde di barbari a mandarci in rovina, ma il deterioramento delle cellule cerebrali nostrane.

Eugenio ebbe un ictus che lo costrinse a una vita di vegetale. Ottantaseienne, cadde una mattina di novembre mentre lavorava come ogni mattina nell’orto di casa. Lo portarono all’ospedale, dove entrò in coma. Dopo due giorni si svegliò, ma quasi completamente paralizzato (la mano sinistra aveva ancora libertà motoria, e i muscoli della faccia). Apriva la bocca per parlare, ma non riusciva a emettere suoni comprensibili, solo rantoli strozzati, grugniti bestiali. Muoveva a volte le pupille a destra e a sinistra, velocemente, e inarcava le sopracciglia folte. La moglie Dina – che insieme all’infermiere lo accudiva – capiva che in quei momenti Eugenio stava per piangere. E in effetti poi piangeva, a dirotto, con singhiozzi soffocati, come potrebbe piangere un uomo sott’acqua, senza respiro. Le lacrime scorrevano sulle rughe delle guance, sulla pelle che dopo l’ictus si era ritirata, accartocciata. La accarezzavi e sembrava di legno. Le lacrime la bagnavano e capivi quanto Eugenio in quei momenti fosse invaso da un terrore assoluto: il terrore dei sepolti vivi. Era un vivo dentro un corpo di morto.

L’infermiere mi ha raccontato che una volta Eugenio una frase riuscì a dirla. «Tanto terribile», disse l’infermiere, «che fatico a ripeterla e prego il buon Dio che me la sia sognata». Lo tartassai così tanto che me la ripeté, bianco di paura. «Le medicine. Dammi le medicine per morire».Quando Eugenio morì, calò una barra nera nel film della vita di Dina. Che era una donnina angelica, buona, intelligente. Forte come un manovale. Una barra nera la divise in due immagini: la Dina di sempre, acuta, sveglia, presente, dolce e una Dina nuova. Feroce, cattiva, senza memoria. Questa Dina nuova compariva con sempre maggiore frequenza nel film della Dina vecchia, con violenza. Urlando, bestemmiando, maledicendo il mondo. Non si ricordava chi fosse. A volte diceva di essere una bambina, e mi implorava di riportarla a casa. «Che ci faccio qui? Questa non è mica casa mia», diceva. Fino a che lo split screen della Dina vecchia non rimase un’inquadratura vuota da una parte e l’inquadratura di una Dina nuova silenziosa stesa senza vita su un letto di ospedale, neanche tre mesi dopo dalla morte del marito, dall’altra. Dina ed Eugenio erano i miei nonni, si sono amati per sessant’anni, senza separarsi mai, e io li ringrazierò per sempre per avermi insegnato come si possa con eroismo e dignità portare sulle spalle il peso dello squallore del mondo.

ARTICOLO n. 92 / 2022

MEDITAZIONE BUDDISTA

Sebbene la meditazione sia una prassi trasversale alle epoche e alle tradizioni, il contesto a cui viene associata più spesso è il buddismo – o i buddismi, dato che nonostante la radice comune ne esistono molteplici varianti in base alla collocazione spazio-temporale. Tra i motivi di questa predilezione c’è il fatto che in ambito meditativo si tratta di una delle filosofie che ha lasciato più testimonianze, indicazioni e tassonomie essoteriche, ovvero “aperte” al pubblico. Questo atteggiamento non stupisce, se si pensa che una figura che segna il passaggio dalla tradizione Theravada, nota come “Piccolo veicolo” (o veicolo ristretto, per i monaci), al più moderno Mahayana o “Grande Veicolo” è il bodhisattva, l’illuminato che, a differenza dell’arhat che raggiunge la liberazione individuale nell’ascesi, fa voto di aiutare tutti gli esseri senzienti a uscire dal nefasto ciclo delle reincarnazioni (samsara). Da tecnica quasi esclusiva del mondo monastico dunque, la meditazione diventa nel Mahayana una pratica da insegnare e condividere per il bene più grande di una liberazione collettiva.

Inoltre, il proliferare di descrizioni pratiche, fenomenologiche e psicologiche, così come un’attitudine aperta alla sperimentazione propria a molte comunità buddiste, ha contribuito al fatto che la maggior parte degli studi scientifici – psicologici come neurologici – si basino su persone che praticano tecniche che appartengono o si ispirano a questa tradizione. La stessa mindfulness, che spesso viene descritta come una sorta di pratica “laica” della meditazione (le virgolette sono d’obbligo perché l’elemento devozionale non è trasversale nel buddismo), prende le mosse da una delle principali tecniche meditative buddiste, la vipassana, su cui tornerò in seguito.

Nel buddismo la meditazione ha un ruolo importantissimo, perché è lo strumento sia per comprendere che per accogliere “i tre segni dell’esistenza”, ovvero che tutti i fenomeni sono dukkha, insoddisfacenti/dolorosi, anicca, impermanenti, anatta, privi di sé o essenza propria. Come hanno scritto Corrado Pensa e Neva Papachristou, «Dukkha è sofferenza, insoddisfazione. Dietro a un successo, dietro a una soddisfazione, dietro a una gratificazione, non di rado c’è la paura del momento in cui questo stato positivo finirà. Infatti anche tra picchi di soddisfazione ci saranno valli di insoddisfazione, e anche questa è dukkha. La seconda caratteristica dell’esistenza, o segno, è l’impermanenza, il cambiamento continuo: anicca. E, infine, il non sé, anattā, la dottrina che si oppone al concepire l’io come un’entità solida e separata». Meditare non solo aiuta la comprensione di queste caratteristiche, che possono essere colte con facilità anche intellettualmente, ma permette di esperirle e infine trascenderle.

Selezionare un testo in questa immensa mole di materiale non è facile, ma voglio partire da un riferimento classico, l’antico Satipatthanasutta (22 a.C circa), il “Sutra della base della presenza mentale” che affonda nel buddismo Theravāda; qui la meditazione viene trattata ampiamente, anche e soprattutto nei suoi aspetti tecnici. Nel testo – un po’ ripetitivo perché nato per essere ruminato più che letto – troviamo subito l’elenco dei quattro pilastri di ogni meditazione:

1. Bhikkhu, il praticante si radica nell’osservazione del corpo nel corpo, accurato, consapevole, con una chiara comprensione, avendo abbandonato ogni desiderio e avversione per questa vita.

2. Egli si radica nell’osservazione delle sensazioni nelle sensazioni, accurato, consapevole, con una chiara comprensione, avendo abbandonato ogni desiderio e avversione per questa vita.

3. Egli si radica nell’osservazione della mente nella mente, accurato, consapevole, con una chiara comprensione, avendo abbandonato ogni desiderio e avversione per questa vita.

4. Egli si radica nell’osservazione degli oggetti mentali negli oggetti mentali, accurato, consapevole, con una chiara comprensione, avendo abbandonato ogni desiderio e avversione per questa vita.

Dopo questa lista l’illuminato fornisce con una descrizione sintetica e precisa di tutte le fasi. Nella prima, “l’osservazione del corpo nel corpo”, chi medita 

…va nella foresta, ai piedi di un albero o in una stanza vuota, si siede a gambe incrociate nella posizione del loto, tiene il corpo eretto e stabilisce la consapevolezza di fronte a sé. Egli inspira, consapevole di inspirare. Egli espira, consapevole di espirare. Quando inspira un lungo respiro, egli sa: “Sto inspirando un lungo respiro”. Quando espira un lungo respiro, egli sa: “Sto espirando un lungo respiro”. Quando inspira un respiro breve, egli sa: “Sto inspirando un respiro breve”. Quando espira un respiro breve, egli sa: “Sto espirando un respiro breve”. Egli esercita la seguente pratica: “Inspirando, sono consapevole di tutto il mio corpo. Espirando, sono consapevole di tutto il mio corpo. Inspirando, calmo le attività del corpo. Espirando, calmo le attività del corpo”.

A questa pratica di osservazione del corpo, che non si limita al respiro ma si estende anche alle azioni (come camminare) e alle propriocezioni (come la posizione fisica o la concentrazione su parti o processi corporei), si aggiunge il secondo pilastro, “l’osservazione delle sensazioni nelle sensazioni”, in cui

Ogni volta che il praticante prova una sensazione piacevole, è consapevole: “Sto provando una sensazione piacevole”. Ogni volta che prova una sensazione dolorosa, è consapevole: “Sto provando una sensazione dolorosa”. Ogni volta che prova una sensazione né piacevole né dolorosa, è consapevole: “Sto provando una sensazione neutra”.

Le ultime due fasi procedono in modo analogo: nella terza, “l’osservazione della mente nella mente”, a essere contemplate sono le emozioni, come desiderio, avversione, distrazione, stanchezza ecc.; mentre nella quarta l’attenzione di chi medita, fattasi più sottile, riesce a distinguere come al rallentatore l’incessante nascita, sviluppo e morte di ogni formazione mentale («”Queste sono le formazioni mentali. Questo è il sorgere delle formazioni mentali. Questo è lo scomparire delle formazioni mentali”»).

Come dicevo in precedenza la meditazione è indispensabile anche per comprendere e soprattutto assorbire i cardini filosofici del buddismo, tanto che nello stesso Satipatthanasutta viene esplicitata la relazione di questa tecnica con le celebri “quattro nobili verità” espresse dal Buddha. Così nel Sutta:

Inoltre, bhikkhu, il praticante si radica nell’osservazione degli oggetti mentali negli oggetti mentali in relazione alle quattro nobili verità.

In che modo egli si radica nell’osservazione delle quattro nobili verità?

Il praticante, quando sorge la sofferenza, è consapevole: “Questa è la sofferenza”. Al prodursi della causa della sofferenza, è consapevole: “Questa è la causa della sofferenza”. Al prodursi della fine della sofferenza, è consapevole: “Questa è la fine della sofferenza”. Al prodursi del sentiero che conduce alla fine della sofferenza, è consapevole: “Questo è il sentiero che conduce alla fine della sofferenza”.

Così il praticante […] Si radica nell’osservazione del processo di originazione o del processo di dissoluzione negli oggetti mentali, o in entrambi i processi di originazione e dissoluzione.

In questo passo si ripercorrono in breve le quattro nobili verità individuate dal Buddha lungo il suo percorso spirituale: (1) che la vita sia dolorosa/insoddisfacente, (2) che questo dolore sia legato all’inesauribile moto del desiderio e dell’avversione, (3) che sia possibile affrancarsi da questa condizione e (4) che ciò sia possibile grazie alla de-identificazione operata nella meditazione. Per riuscirci, il Satipatthanasutta offre un metodo di intensificazione dell’attenzione e della contemplazione che a partire da stimoli ripetitivi e neutri come il respiro, su cui è più semplice (ma comunque difficilissimo) concentrarsi senza dare giudizi di valore, si sposta verso eventi mentali che di rado riusciamo a osservare con distacco – o per meglio dire con i quali tendiamo a identificarci. Le quattro fasi testimoniano un passaggio da “io sono arrabbiato, felice, distratto, ecc.” a “c’è della rabbia, della gioia, della distrazione ecc.”; pezzo dopo pezzo, istante dopo istante, l’io si palesa vuoto, perché chi medita smette di trovare qualcosa con cui identificarsi nel frammentario e incalzante flusso mentale che contraddistingue la vita psichica.

Come ha avuto modo di ricordare Daniele Capuano in uno dei corsi di filosofia della meditazione che tiene assieme a me e Adriano Ercolani, il cammino meditativo buddista si muove essenzialmente tra due poli, spesso coincidenti: la samatha o “quiete, serenità” e la vipassana o “chiara visione”. Nella prima, che in un articolo precedente ho inserito nel gruppo di tecniche basate su “concentrazione e ripetizione”, chi medita focalizza l’attenzione su un oggetto sempre disponibile, come il respiro o una sensazione corporea, senza però cercare di controllare o modificare quanto osserva. Durante questa pratica ciò che distoglie l’attenzione dall’oggetto di riferimento viene messo da parte con gentilezza, con un riconoscimento distaccato che riporta dolcemente l’attenzione all’oggetto della meditazione. Se ad esempio mi distrae il ronzio di una mosca, invece che lasciarmi assorbire da questa nuova sensazione mi limito a osservarla per poi metterla da parte, in un processo che potrei descrivere così: ecco che sento la mosca – il ronzio è così e così – torno al respiro. Le inevitabili distrazioni non sono nemici da combattere ma eventi da osservare con curiosità, di cui si riconosce la presenza per poi tornare all’oggetto della meditazione. È celebre a questo proposito la metafora della mente come una “scimmia impazzita”, perché come l’animale salta da un ramo a un altro senza mai trovare requie, così la mente non riesce mai a restare focalizzata su un pensiero, ma passa da uno all’altro con grande velocità.

In questo senso la meditazione samatha non è distinta da quella vipassana, che avevo inserito nel gruppo “contemplazione e osservazione equanime”. In quest’ultima infatti le distrazioni appartengono a un campo di consapevolezza dove ci si limita a riconoscere la loro presenza; gli eventi mentali sono quel che sono, si contemplano senza giudizio, anche se li viviamo come esperienze negative. Persino un dolore fisico viene esplorato con curiosità – un’attitudine da non scambiare con la flagellazione ascetica o il masochismo, perché dopo un iniziale acuirsi della sofferenza la risemantizzazione del vissuto operata dalla vipassana porta a un forte sollievo. Per realizzare questa presa di distanza in cui i contenuti mentali non vengono scacciati ma lasciati fluire, si usa anche una tecnica denominata vitarka, che consiste nel “prendere nota” degli eventi mentali affidandogli una semplice etichetta (“questa è una sensazione”, “questo è un pensiero” ecc.). Grazie a questo esercizio di etichettatura la mente si allena a rompere la naturale tendenza a identificare il vissuto e chi lo vive – un “chi” che diventa sempre più debole, impalpabile e in ultima analisi vuoto. In queste tecniche l’intenzionalità di chi medita ha il sopravvento sulla sua identità; si parte da una volontà che si concentra sull’oggetto della meditazione, ma via via che si medita la credenza in un soggetto che esprime tale volontà si erode anche da un punto di vista esperienziale. Per indicare l’atto riflessivo attraverso cui diveniamo consapevoli delle nostre sensazioni, Leibniz usò il termine “appercezione”, una sorta di meta-percezione in cui la percezione diventa oggetto di se stessa. Con una metafora si potrebbe dire che la meditazione samatha-vipassana trasforma le percezioni in appercezioni, perché si basa sulla contemplazione equanime del paesaggio mentale, che viene poi riconosciuto come una piccola increspatura del più vasto oceano del reale.

ARTICOLO n. 91 / 2022

NON SARAI MAI UNA PRINCIPESSA CON QUESTE CICATRICI

Il corpo culturale

Ho l’abitudine di camminare guardandomi sempre le punte dei piedi perché da piccola venivo costantemente ripresa per il mio modo trasognato di andare avanti scontrandomi spessissimo con pali e tombini. Non sarai mai una principessa con queste cicatrici. Le mie ginocchia erano un campo minato e le mie nonne erano solite dirmi che ero nata con la cerbottana al posto della corona. Quello che non tenevano in considerazione era che io non mi ero mai sentita poi così regale perché avevo imparato subito che le principesse hanno un corpo diverso dal mio, parlano spesso con i topi e vengono salvate dal principe che arriva nel momento giusto della storia, quello che impedisce, appunto, fratture e ferite. Ero certa di non voler parlare con nessun roditore, ma ero altrettanto sicura che nessuno sarebbe venuto a salvarmi dai miei mostri perché ero una di loro. 

Ho ripensato alle principesse poco tempo fa, una mattina d’estate in cui camminando per il centro di Modena sono passata davanti a un portone padronale con un buco, probabilmente causato da un calcio, nella parte inferiore di legno. Mi sono fermata per guardare qualcosa che ho colto solo perché sono stata addestrata a guardare per terra. La ferita aveva aperto uno spazio su un pavimento di ceramica tassellato in verde scuro e crema, un lavoro manuale davvero notevole, quasi romantico. Ho pensato che presto quel buco sarebbe stato riparato e di quel pavimento da ballo uscito da una fiaba ci saremmo dimenticati, perché, nonostante la sorpresa e l’illusoria potenza che solo un finto segreto sa dare, la sostituzione prende sempre il monopolio dei nostri slanci attentivi e, strato su strato, trasforma il cambiamento in normalità e la normalità in abitudine. La rottura del legno in qualche modo verrà digerita fino a trasformarsi in una tappa necessaria, un momento utile per ripristinare la struttura ma con nuovi materiali. Ricordo che dopo qualche istante un signore si è schiarito flebilmente la voce accanto a me e in quel momento mi son resa conto di essere rimasta più del tempo consono stabilito per guardare dentro casa di altre persone. Certo, con voi ora potrei giustificarmi dicendo dolcemente che stavo pensando al Kintsugi, arte giapponese di riparare le ceramiche rotte con l’oro perché diventino più belle e preziose, ma il fatto è che al massimo si arricchiscono senza, però, modificare la loro già decisa funzione: una tazza resta una tazza. Bellissima, certo, ma pur sempre una tazza. No, in realtà stavo pensando alle sale da ballo, alle scarpette di cristallo e al fatto che, nonostante tutti gli eventi lesivi ricevuti, il corpo culturale della Principessa è uno scrigno sigillato che ammiriamo dall’esterno nella sua bellezza, ne riconosciamo la forma e la funzione, prendiamo come benchmark per decretare il successo o l’insuccesso delle nostre vite amorose.

Mentre mi spostavo velocemente per far passare il signore e riprendevo a camminare verso il portico dall’altra parte della strada, ho pensato che come le porte anche i corpi culturali – quei modelli di cui parlavamo nell’articolo scorso, ricordate, le ombre nutrite di storie che si posano sul corpo biologico e ne colmano segni e marchi per trasformarli secondo il tempo e lo spazio – si rompono e si ricompongono cercando di mimetizzare la frattura e che non è il modo in cui assorbiamo quella dissincronia a renderci consapevoli della struttura, perché diventa una nuova normalità troppo velocemente per lasciare memoria. No, è quello che ci facciamo in mezzo che permette di vederne la striscia di polvere in controluce, il maldestro tentativo di raccogliere i pezzi senza prestare attenzione alle irregolarità, continuando a chiamare le cose col loro nome anche quando non lo sono più, per il momento almeno. Così, in quella mattina d’estate, pensando alle principesse, mi sono venute in mente Leslie Van Houten, Patricia Krenwinkel e Susan Atkins, le ragazze di Charles Manson.   

Joan Didion in The White Album ci fornisce le coordinate per navigare questo torrente melmoso. «Noi ci raccontiamo delle storie per vivere. La principessa è imprigionata nel consolato.» In questa auto-etnografia Didion mette in fila gli eventi a cui ha assistito dal 1968 fino alla fine degli anni ‘70. «Se siamo scrittori viviamo grazie all’imposizione di una linea narrativa sulle immagini più disparate, alle idee con cui abbiamo imparato a congelare la mutevole fantasmagoria che costituisce la nostra effettiva esperienza.» Nelle notti tra l’8 e il 10 agosto 1969 si consumarono l’eccidio di Cielo Drive e il massacro LaBianca, l’omicidio di sette persone condotto dalla Famiglia Manson. Conosciamo Susan, Leslie e Patricia da lì, dalla notte in cui uccisero Sharon Tate e gli amici che malauguratamente erano in quella casa per tenerle compagnia durante la gravidanza in assenza del marito Roman Polanski e da quella successiva in cui accoltellarono Leno e Rosemary LaBianca per punizione. A Manson, infatti, non era piaciuto il caos che si era generato a Cielo Drive e aveva deciso di salvare le sue ragazze da quel disastro, caricandole sul suo destriero e portandole a Waverly Drive, la casa dei coniugi LaBianca, per una pratica dimostrazione sul campo. «Sto parlando di un periodo – scrive ancora Didion – in cui ho iniziato a dubitare delle premesse di tutte le storie che mi fossi mai raccontata, una condizione comune, ma che trovo preoccupante.» Come una porta rotta da un calcio che lascia intravedere un pavimento bellissimo al suo interno, la cattura delle ragazze di Manson e il racconto che loro stesse portavano avanti della loro vita e di quella di Charles permise al pubblico di formulare un dubbio fino a quel momento scampato dalla velocità di riparazione delle crepe precedenti. La storia delle ragazze, infatti, era una fiaba perfetta in cui le fanciulle, denigrate da cattive matrigne e padri orchi, erano state salvate dal principe Manson che le aveva condotte nel suo castello e trasformate in principesse. Ed effettivamente il racconto filava perfettamente. Solo che, come regalo di nozze e al posto di un giardino di rose, c’era stato il ventre gravido squartato di Sharon Tate. Non era possibile per lo spettatore usare quelle idee atte a congelare e semplificare la «mutevole fantasmagoria dell’esperienza», perché erano quelle stesse idee a scoordinare il reale dalla narrazione. Se partiamo, infatti, dall’immagine – l’ombra di Platone, il corpo culturale – che appare nella nostra mente quando sentiamo pronunciare la parola “principessa” ci rendiamo conto che quel corpo non è fatto solo di componenti biologiche – anch’esse comunque pressoché standardizzate dal modello – ma che a quel corpo associamo diversi comportamenti sociali e biografici che contribuiscono, nel tempo e nello spazio, a mantenere in vita la struttura di quel corpo nonostante le rotture. Il pericolo arriva, infatti, non quando si rompe il modello, ma quando le parole e i discorsi del mondo reale rimandano a un corpo culturale che non si frattura per assorbire una realtà non del tutto combaciante, ma respinge totalmente l’associazione cognitiva. Quando dentro questo corpo culturale cadono le fratture del mondo reale e immoralmente trovano uno spazio che ci fa inorridire, quando il confine tra racconto collettivo e mostro si perde. Andando avanti e indietro per il corridoio pensando a come srotolare questa pergamena ho pensato che sia giunto il momento di scomodare Pierre Bourdieu e parlare di habitus

Bourdieu descrive l’habitus come lo spazio che si occupa attraverso una performance sociale competitiva composta da una serie di disposizioni e istruzioni acquisite, fondamentali per vivere all’interno di un campo sociale. Fa riferimento ai comportamenti che nel mondo reale permettono ad alcuni di superare altri, perché lo scopo dell’habitusè imporre una visione del mondo precisa, ruoli sociali, categorie cognitive e modelli attraverso cui guardare il mondo, percepirlo e tramandarlo da soggetto dominante a soggetto dominante, da maggioranza a maggioranza, tornando a quel fenomeno collettivo maieutico che produce ombre, corpi e mostri. Sono le parole, ancora una volta, a trasmettere strutture culturali, educative e plasmanti e non si limitano chiaramente a portare avanti ciò di cui ci rendiamo conto, ma anche tutto l’upside down a esse collegato e che arriva fino all’inizio della nostra storia. Così, quando le parole ci portano alla Principessa, noi, all’immagine, associamo una serie di comportamenti, spazi e performance in modo automatico: un castello fatato, un giovane paladino su cavallo bianco che salva la principessa, e vissero per sempre felici e contenti. Cosa succede se invece a questo corpo si aggancia una performance sociale imprevista, di eguale forza ma totalmente contraria a quanto preventivato, come il massacro di Cielo Drive? Be’, si crea una frattura come nella porta.

Foucault la chiama rottura epistemologica, cioè quel momento in terza persona di chi per un attimo viene distratto e riesce a guardare la storia da fuori, scoprendo che al suo interno si nascondono bugie. La struttura, infatti, e stabile e immutabile sono in apparenza. La scoperta, che quel corpo culturale, quell’insieme di storie – parole -, comportamenti tramandati e stabiliti dal plasmare collettivo, sono metodicamente resi invisibili e impercettibili, trasformati in abitudini in quanto inganno antico dell’Ombra di Platone. Quello che vediamo sul muro della Caverna, infatti, è una sequenza di discontinuità, di rotture e ferite che producono nuovi paradigmi conoscitivi che a loro volta modificano le regole del gioco per preservare il modello silente, il corpo della principessa. Nella frattura si insinua una luce, nella rottura riusciamo a vedere cosa si nasconde all’interno della ceramica perfetta del guscio e scopriamo le imperfezioni del modello, la struttura fragile. Dura solo un momento, però, prima che un altro corpo culturale prenda spazio nella narrazione per assorbire l’incongruenza, metta in scena un particolare e lo renda il nuovo punto d’attenzione nella storia.In questi giorni sono ripassata davanti al portone per ricordarmi la frattura, ma nella parte inferiore, quella un tempo spaccata, c’è un pannello di legno simile ma più nuovo rispetto al resto della struttura. Ho pensato che dovrebbero riammodernare anche il resto della porta, per eliminare quella discontinuità.  Ho provato a ricordarmi il motivo del pavimento, l’ho perso da qualche parte, ma quel nuovo pannello è esattamente nel posto in cui dovrebbe essere. Almeno, così mi hanno insegnato.

ARTICOLO n. 90 / 2022

LIBERA NOS A MALO

Liberaci dal male.

Questo mi sembra che tutti i media e la società civile chiedano a noi sopravvissute alla violenza di genere, quando vedo iniziare la rincorsa affannosa alle nostre testimonianze con l’avvicinarsi del 25 novembre.

Liberaci dal male e solleva la nostra coscienza dal senso di colpa per non aver fatto abbastanza per sensibilizzare sul tema della violenza maschile contro le donne nei restanti 364 giorni dell’anno.

La mia casella di posta si riempie di notifiche nelle settimane immediatamente precedenti a questa.

Convegni, programmi televisivi, interviste, panel, richieste di tenere speech, monologhi, lezioni, dirette, consigli e recitare atti di dolore nell’etere. 

Si richiede prontezza di risposta, magari qualche lacrima, due o tre domande sui genitori perché fanno sempre piangere, una buona dose di grinta per chiudere e l’immancabile «cosa ci consigli di fare per renderci utili nel nostro piccolo?», saluti guardando in camera e ora passiamo ai consigli per gli acquisti.

Il 25 novembre, ovvero la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il mondo si tinge d’arancione. Segni rossicci sulla faccia di vip più o meno noti, politici di ogni lato che cavalcano l’onda per rimediare uno 0,1% in più ai sondaggi della domenica, pagine di gossip che improvvisamente ci ricordano quanto sia terribile menare le proprie partner, quadrati arancio su ogni profilo Instagram, articoli cupi e sconfortati di testate che per tutto il resto dell’anno fanno disinformazione sul femminicidio rafforzando stereotipi e bias che ci portiamo dietro da sempre, programmi TV che ogni domenica sera invitano gli spettatori a dubitare delle vittime di violenza e che però in questa data fanno improvvisamente servizi speciali con volti contriti e ritrovata serietà, commentatori del web che fino al giorno prima scrivevano oscenità sotto ai post delle giornaliste e attiviste che si occupano di questi temi e che magicamente, per 24 surreali ore, trovano la pietas necessaria per postare la foto del loro calciatore preferito con il segno rosso sul volto, «Grazie Ibra sei sempre un campione di umanità».

Muori puttana, zitta troia, non abbiamo problemi noi maschi, ti piace fare la vittima, non ti va mai bene niente, non tutti gli uomini sono violenti, ti dovrebbero scopare di più, eppure mi sembri felice per essere una che è stata menata dall’ex, ti auguro ti stuprino bene, guarda che sei fissata, sei pesante, vi lamentate sempre, se non ti ci fidanzavi non ti succedeva, hai spaccato i coglioni, stai zitta, zitta, zitta troia.

Questo è ciò che ricevo ogni giorno della mia vita sui social media. Ogni fottuto giorno dell’anno tranne uno: il 25 novembre.

Dopo il mio usuale post sulla scarsità di impegno che mettiamo nell’affrontare il tema della violenza sulle donne, ricevo migliaia di commenti contenenti cuori, lacrime, emoji di abbracci.

Dalla mezzanotte però, come se un immaginario timer scadesse, come se Cenerentola stesse rientrando a casa incazzata per non essersi divertita abbastanza e aver pure perso una scarpa alla festa, quello stesso post inizia a riempirsi di commenti piccati, di code di paglia, di «sei paranoica», «tu hai un problema con gli uomini», «io che sono cresciuto in una famiglia di donne ti dico che ti sbagli» (per bizzarria del caso, posso assicurare che le persone più misogine e sessiste che abbia mai incontrato in vita mia hanno sempre iniziato il loro discorso con questa frase, come se poi la vicinanza femminile esonerasse dall’essere stronzi o problematici).

Quando finisce la ricorrenza, dalle fogne della nostra coscienza comincia a riemergere l’animale che ci portiamo dentro, quello che ci dice che alla fine la violenza maschile non è un problema poi così grosso, che i numeri sono bassi, che gli uomini muoiono più delle donne, che siamo esagerate noi scrittrici progressiste perché abbiamo un’ossessione, lo facciamo per notorietà, mancanza di sesso, sicuramente traiamo vantaggio da questo continuo lamentarci.

L’animale che ci portiamo dentro ha un timer, una sveglia interna, che gli impedisce di resistere in posizione di ascolto per più di 24 ore. 

L’animale che ci portiamo dentro lo conosciamo bene, lo vediamo emergere sempre, ha fatto anche lui la scuola cattolica da cui sono usciti i peggiori femminicida della storia del nostro paese.

La scuola cattolica è un concetto interessante, una sineddoche più che altro. La scuola cattolica del nostro animale è infatti la società patriarcale in cui viviamo. 

Ci pensavo, a questo concetto, rileggendo qualche passaggio del libro omonimo di Edoardo Albinati, premio Strega 2016, che descrive molto bene il dualismo che ci teniamo dentro come se fosse un segreto inconfessabile.

Da un lato, noi esseri umani abbiamo bisogno di dimostrare il nostro essere benintenzionati, ma dall’altro ci piace la faccia da ipertiroideo di Angelo Izzo che ci ricorda un po’ noi ogni volta che confessiamo allo specchio ciò che non avremmo il coraggio di ammettere a voce alta davanti a un nostro simile.

Se per essere considerati buoni cittadini abbiamo bisogno di una facciata di cristiana morigeratezza, il nostro animo più profondo ci ricorda che il bisogno di potere è insaziabile per noi esseri umani.

Il potere che bramiamo è quello di avere ragione, di rimanere comodi e preferibilmente giudicanti, di non ascoltare chi di queste materie ne sa qualcosa e di reputare i nostri bisogni immediati i più importanti al mondo – da qui nascono i vari commenti social e giornalistici che recitano «ci sono cose più importanti a cui pensare» – e soprattutto quello di poter disporre dei corpi delle donne a nostro piacimento, in ogni situazione, in ogni modo, fisico o anche solo mentale.

Il potere, questo potere, è fatto di materiale plasmabile e vischioso, si adatta all’occasione come fosse un vestito che ci cade addosso perfettamente.

Quando Donatella Colasanti, alle 22:50 di quel 30 settembre 1975 venne fotografata mentre usciva dal bagagliaio della 127 bianca parcheggiata in viale Pola a Roma, arrampicandosi sul cadavere massacrato di Rosaria Lopez, l’animale che ci portiamo dentro ha sussultato e si è subito vestito a lutto.

Ci siamo ammutoliti, abbiamo provato pena, orrore, compassione, disgusto e paura. Ci siamo chiesti cosa ne fosse del genere umano.

Ma il timer che aziona la bestia ci ha messo poco a trillare di nuovo.

Già nei primi giorni del processo a quello che venne chiamato “massacro del Circeo”, la società civile, i giornali e gli avvocati di Izzo, Ghira e Guido hanno iniziato a nutrire la smania di potere nei confronti del corpo e della vita di Colasanti.

Il potere di schiacciare una testimonianza così forte, che avrebbe inevitabilmente inficiato la possibilità di uscirne puliti a tre giovani della Roma bene, tre fascisti in erba dal bell’aspetto e il conto in banca pieno, è diventato incontenibile: si era sempre creduto che il male abitasse solo nei bassifondi; ora che si scoperchiava questo vaso di Pandora, come si sarebbero salvati i ricchi dall’onta che li aveva appena investiti?

Mentre gli avvocati dei tre assassini e stupratori ricordavano quanto i costumi di Colasanti fossero stati leggeri nell’accettare un invito da tre semisconosciuti, le brave famiglie italiane riunite intorno al tavolo della cena con il televisore acceso ripetevano come in un mantra che alle loro figlie certe cose non potevano accadere, perché non erano come quella lì del bagagliaio. 

Loro erano perbene. 
Loro avevano una certa morale. 
Loro, le figlie, le controllavano a vista.

Giudicando Colasanti per la sua voglia di vita assolutamente normale, la società civile e il pool di avvocati della difesa ribaltavano il senso del processo stesso, rendendola, da vittima, principale accusata. 

Come ricordò Tina Lagostena Bassi, che difese Colasanti nel processo del massacro al Circeo e fu la prima avvocata a usare la parola stupro in un’arringa (“Processo per stupro” del 1979 portò con la Rai per la prima volta il senso di colpa nelle case degli italiani, facendo ingoiare qualche amaro boccone a quelle tavole immacolate piene di sicumera), le udienze non erano contro la sua assistita: lei era l’accusa, non la difesa, come invece stava emergendo dagli atti e dalle parole degli avvocati, che cercavano di screditare il corpo di Colasanti e la sua condotta, ritenuta immorale e non coerente.

Eppure il ribaltamento di ruoli a cui venne sottoposta era inevitabile, troppo invitante, ed era così facile silenziare una voce in un paese che non voleva altro che essere rassicurato del fatto di avere ancora tutto sotto controllo, tutto ancora in suo potere – i nostri maschi certe cose non le fanno, no?

Giudicata colpevole da una giuria immaginaria composta dalla nostra collettività, Colasanti si è adoperata per tutta la sua ahimè troppo breve vita nel ribaltare la concezione patriarcale e di possesso che impera sui corpi delle donne; concezione che li vuole sempre sotto giudizio e sempre in fallo.

Questa concezione, di cui si nutre il nostro animale, è deliziosamente da scuola cattolica.

Da un lato la morale e dall’altro la violenza cieca per salvaguardarla. Il silenzio come arma per non sporcarsi la nomea e la fedina penale, il potere per distruggere chiunque voglia attaccare questo sistema perfettamente collaudato e sorretto su un dislivello sociale e culturale di discendenza millenaria: il sessismo patriarcale.

Questo sessismo ci portava e ci porta ancora – e porterà in futuro – a controllare le donne, a volerle silenziare, a volerle mettere sul banco degli imputati, a dar loro delle poco di buono, delle frustrate, delle lamentose, delle galline, delle troie – zitte, troie – che sono finite così solo perché non sono state abbastanza ligie alla morale e alle regole di quella strana scuola cattolica a cui nessuna di noi si è mai volontariamente iscritta.

Dal 1975 le cose sono cambiate, legalmente parlando. Abbiamo vinto battaglie, lo stupro è un reato contro la persona e il delitto d’onore sembra quasi un ricordo lontano, anche se non lo è.

Ma a livello culturale, noi siamo ancora posseduti da Izzo, Ghira e Guido. Noi siamo ancora Izzo, Ghira e Guido.

Mi piacerebbe poter parlare oggi con Donatella Colasanti e Tina Lagostena Bassi per dire loro che alla fine, nel 2022, la scuola che forma generazioni di assetati di potere, noi l’abbiamo smantellata. Che quei ruoli di vittime e carnefici sono finalmente ben definiti. Che i media hanno imparato a fare cultura e che la società civile ha capito come salvare le nostre vite. 

Ma non è così. Noi, agli animali che ci portiamo dentro, abbiamo continuato a dare da mangiare senza sosta e senza vergogna.

E questo infatti è ciò che metaforicamente facciamo ancora oggi: nutriamo la nostra bestia interiore. Tentiamo di mantenere in equilibrio la nostra morale, purgandoci solo il 25 novembre ma lasciando invariato il sistema di potere tutto il resto dell’anno, perché ci si possa ricordare che, a chi è in cima alla catena alimentare, certe cose non succedono. Che chi sta sulla cima è intoccabile. Che se sbagli una volta, donna, tu sei fuori dal gioco.

Lasciamo tutto invariato e difendiamo il nostro diritto a screditare i corpi delle donne e delle sopravvissute perché in fondo, a noi, la violenza sugli altri piace.

Piace da morire, anche se non siamo in grado di dirlo a voce alta, per paura che qualcuno giudichi la nostra, di morale.

Ci fa sentire al sicuro mantenere il potere. 

Ci fa tirare grandi sospiri di sollievo. Ci ricorda che se fai un passo falso o vuoi uscire dal seminato, se rinneghi la scuola cattolica che prega di mantenere per sempre il primato supremo del poter esprimere il giudizio definitivo, allora vieni cancellata.

La violenza dei commenti sui social (sui quali ci esponiamo perché riteniamo le piattaforme dei luoghi in cui noi non esistiamo realmente) del mettere in dubbio le parole di chi sopravvive, dello scrivere articoli di giornale che morbosamente raccontano la bellezza di due sex worker appena trucidate, i «cosa ne pensate della ragazza vittima di Genovese?» usciti dai nostri televisori per mesi, i «puttana, doveva ammazzarti» che leggo nei miei direct su Instagram sono tutti figli del nostro bisogno di potere. Sono tutti gli insegnamenti di quella scuola cattolica che tanto ci sta a cuore.

E questo potere di voler ammutolire le donne e chi ne prende le loro difese, quello che vedo quotidianamente, è lo stesso che ha mosso Izzo, Ghira e Guido.

È lo stesso identico desiderio di potere che avevano Genovese, Weinstein, coloro che commettono femminicidio.

L’animale che ci portiamo dentro e si nutre di controllo è uguale in tutti, perché il suo embrione è lo stesso: è la cultura in cui nasciamo, in cui veniamo formati, dalla quale veniamo bombardati ogni giorno da ogni media, audiovisivo, social, prodotto.

Siamo tutti colpevoli di non fermare la bestia che ci cresce da millenni. Tutti.

Certo, poi però fate un post per il 25 novembre, o un articolo di giornale strappalacrime o un servizio TV da magone in gola.

Ma qualcuno deve dirvelo: le vostre purghe di un giorno non servono a niente. Non servono a salvare vite, a ricordare quelle che non ci sono più o a prevenire violenze future.

Servono solo a voi, alla vostra morale, al vostro animale per sentirsi meno colpevole, meno sul banco degli imputati, meno Izzo, meno Ghira, meno Guido.

Eppure voi non siete Donatella Colasanti.
E io non sono qui per ripulirvi la coscienza.

Sono qui per ricordarvi che fare ciò che fate, ovvero stare fermi tranne un giorno su 365 di quelli che compongono un anno, è una scelta. 

Ma che quella scelta lì, quella che vota tacitamente per rivendicare il potere di decidere sui nostri corpi di donne, ci ammazza.

Non sono qui per rassicurarvi che a voi non succederà di diventare cattivi, perché voi lo siete già. Lo siamo stati tutti.

Ma qualcuno ha scelto di rimanerlo.

Non vi prometterò che voi non sarete i prossimi sul banco degli imputati. Non è il mio mestiere né il mio interesse liberarvi dal male.

Non sono qui per farvi sentire persone migliori una volta l’anno con la mia storia di sopravvivenza. Sono qui per farvi male, darvi fastidio e ricordavi i ruoli.

Sono qui per ricordarvi che se non fate niente, se rimanete in silenzio, se non fermate la catena, se continuate a scrivere articoli che ci dipingono come oggetti, se non vi lavate da soli le mani dalle parole d’odio che ci riversate addosso ogni giorno dell’anno tranne uno, allora siete proprio come Izzo, Ghira, Guido e tutti gli altri che ci hanno sempre volute zitte, colpevoli, troie, morte.

L’animale che ci portiamo dentro si nutre di una cosa sola: la connivenza che nasce dal silenzio.

E un quadrato arancione postato un solo giorno all’anno non ha mai salvato nessuna.

Non ha mai fatto chiudere la scuola cattolica in cui continuiamo a iscriverci anno dopo anno, nei secoli dei secoli.

Amen.

A Donatella Colasanti.
Ci stiamo ancora battendo per la verità.

ARTICOLO n. 89 / 2022

SENZA AMORE NON CI PUÒ ESSERE COMUNITÀ

Speciale bell hooks

Sarebbe ingeneroso e probabilmente falso dire che figure come quella di bell hooks non esistono più. Ma la percezione che il 15 dicembre del 2021 il mondo abbia perso una delle sue intellettuali più luminose è piuttosto fondata. In poche righe del suo Insegnare a trasgredire si trovano le prove a sostegno di questa affermazione: «Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me è nel mio intimo. Più di ogni altra cosa, desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione».

In queste righe hooks non vuole fare un elogio della sofferenza, ma perorare la causa di una teoria diversa, una teoria che serve a «immaginare futuri possibili, dove la vita [può] essere vissuta in modo diverso». L’autrice ha tradotto questo radicamento nell’esperienza non soltanto elaborando una teoria debitrice della vita, ma anche particolarmente democratica. La sua attenzione per il quotidiano, per i rapporti umani, per i fatti concreti dell’esistenza postula che tutti possono fare filosofia e che anzi, forse sono proprio quelli che si trovano ai margini a elaborare le proposte più originali. Non serve essere colti o intellettuali per partecipare a questa produzione filosofica e, allo stesso tempo, la cultura deve essere accessibile a tutti.

Nel suo Il femminismo è per tutti, hooks scrive che anche se non sembra, «tutto ciò che facciamo nella vita si fonda sulla teoria. Che esploriamo consapevolmente le ragioni che ci portano ad avere un determinato punto di vista o a compiere un determinato gesto, o meno, c’è sempre un sistema soggiacente che plasma pensiero e pratica». L’autrice sta spiegando le origini della coscienza critica femminista, illustrando come il movimento sia riuscito a elaborare una teoria complessa e articolata non basandosi, ma addirittura rifiutando, l’eredità dei pensatori del passato e ancorandosi in quelle zone dell’esistenza che sono sempre state considerate irrilevanti.  

Nella produzione di bell hooks, questo ha significato scandagliare il proprio vissuto. È proprio nelle sue pagine più personali, dove mette a nudo se stessa e la sua vita, che la prosa di hooks si eleva. Tutto sull’amore, un libro intimo e al contempo profondamente politico, è il perfetto esempio dell’unione strettissima tra prassi e teoria e della grande accessibilità del pensiero dell’autrice. Uscito nel 2000, Tutto sull’amore potrebbe essere facilmente scambiato per uno dei numerosi libri di self-help sentimentale che tanto andavano di moda in quegli anni. hooks ne cita diversi, da Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (1992) di John Gray a The Road Less Traveled (1978) di Morgan Scott Peck, tradotto in italiano con il titolo di Voglia di bene. La popolarità di questi libri, secondo l’autrice, è il sintomo della mancanza di un discorso politico sull’amore.  

Ho incontrato la concezione politica dell’amore di hooks grazie a un testo contenuto nell’antologia Outlaw Culture: Resisting Representations, intitolato L’amore come pratica di libertà. Qui, partendo proprio dal libro di Scott Peck, hooks comincia a delineare l’interdipendenza tra la dimensione privata dell’amore e quella pubblica, esemplificata nella figura di Martin Luther King. King ha fondato la sua pratica politica nell’amore, o meglio, ha fatto una vera e propria dichiarazione d’amore. Di fronte all’odio, alla violenza e all’oppressione, King «ha deciso di amare», fornendo al razzismo e al colonialismo una risposta del tutto inaspettata. È questa qualità decisionale della politica dell’amore di King, che per usare una espressione femminista potremmo definire come un «io che dice io», che rende la sua prassi di liberazione qualcosa di completamente nuovo. 

Intorno a lei, hooks osserva una cultura del disamore, che disprezza l’amore o lo mercifica, schiacciandolo tutto sulla dimensione dell’io. Non è una semplice questione di egoismo. L’io diventa il perno intorno a cui concettualizziamo lo stare insieme, mettendo al primo posto i nostri bisogni anziché quelli altrui, ma anche attribuendo solo a noi stessi il fallimento delle nostre relazioni. Al contrario, nell’esperienza amorosa esiste un riconoscimento, un «interessere» dirà hooks, che è anzitutto un riconoscimento politico. La dimensione politica entra nell’amore perché ha il potenziale di riprodurre o di mettere in discussione le gerarchie del potere, perché la famiglia continua a essere l’impianto su cui viene costruita la società, perché chi sta ai margini ha meno possibilità di amare, ma soprattutto perché manca la consapevolezza dell’amore, quella che fece dire a King «ho deciso di amare».

Per hooks, «possiamo risvegliarci all’amore solo se abbandoniamo la nostra ossessione per il potere e il dominio», ovvero se smettiamo di avere paura. Molte delle nostre convinzioni sull’amore si radicano infatti sulla paura, in primis quella del diverso. La paura diventa il catalizzatore dell’oppressione, perché ci impedisce di riconoscere quell’interessere che è invece fondamentale nell’etica dell’amore. Questo non significa specchiarsi in chi è uguale a noi, trovare – per usare un’espressione del gergo romantico – «la nostra anima gemella», ma al contrario apprezzare la differenza. Un processo che Luce Irigaray traduceva in un «amare a qualcuno», dove quell’a significava la rinuncia al possesso.

La presenza della politica nell’amore non è solo negativa, è un dato di fatto: senza amore non ci può essere comunità e senza comunità non si può sconfiggere la paura che attanaglia i nostri rapporti con l’altro. Per hooks un amore che si fonda su queste premesse è un amore produttivo, ma non in senso capitalista. È un amore che genera, che crea, che spariglia. Attraverso l’incontro con l’altro e con il mutuo riconoscimento delle differenze, attraverso l’accettazione paziente della dimensione politica dell’amore, si creano energie nuove. 

Quando hooks parla di un femminismo per tutti o di una teoria democratica, si riferisce proprio a questo processo generativo, che non prevede alcun requisito identitario o culturale, ma solo la disposizione a mettersi in discussione, a decostruirsi. È nella convinzione che tutti siano in grado di produrre pensiero critico che risiede la forza della filosofia di bell hooks. Molti altri autori e autrici hanno propugnato una filosofia accessibile o di massa, ma lo hanno comunque fatto assumendo una posizione di guida, se non a volte di vero e proprio dominio culturale. hooks non è la saggia filosofa che ci illustra il cammino da intraprendere, men che meno la studiosa che mette a disposizione le sue ricerche con un linguaggio semplificato. È piuttosto una compagna di viaggio che crede davvero che la teoria fiorisca nelle pieghe della nostra esistenza, nelle cose che ci accadono e nei nostri desideri, «per renderci liberi di essere ciò che siamo, liberi di vivere una vita in cui sia possibile praticare l’amore per la giustizia, in cui sia possibile vivere in pace».

ARTICOLO n. 88 / 2022

ABY WARBURG, IL DYBBUK

I profeti del presente

Da qualche tempo il Warburg Institute è completamente avvolto nei teli di plastica bianca che servono a coprire i ponteggi come una crisalide nel suo bozzolo. La trasformazione che sta avvenendo, nascosta all’occhio, è un progetto di ristrutturazione da 14 milioni di sterline poeticamente battezzato “Warburg Reinassance”, il primo grande intervento da quando l’Istituto si è spostato a Bloomsbury da Millbank nel 1958, poco prima che Ernst Gombrich ne diventasse il direttore. Sembra un’installazione di Christo, e la cosa mi pare appropriata: la presenza-assenza, o meglio la presenza resa evidente dalla sua assenza, risuona profondamente con Warburg. D’altra parte l’anonimo edificio di mattoni scuri che c’era prima passava inosservato: ci avrò camminato a fianco decine di volte, passeggiando in questa zona di università e librerie, senza mai entrarci. Questa sera di ottobre fin troppo calda, ingentilita da un tramonto fin troppo drammatico, decido infine di sottomettermi a quella che Walter Benjamin chiamava la “magia della soglia”.

Più di tutto mi interessa capire come un edificio possa arrivare a ricalcare la mente di un individuo, e come questo calco possa essere importato in una struttura non originariamente pensata per quello scopo. A quest’ora pochi ricercatori si muovono tra gli scaffali di libri scritti in almeno sei lingue diverse (tedesco, italiano, greco antico, latino, inglese e francese) e organizzati, secondo le parole di Claudia Wedelphol, in modo che «il lettore che cerca un libro sugli scaffali sia attratto da quello vicino, guardi in alto e in basso e si trovi rapito da un nuovo flusso di pensiero». Classificazione come rapimento, link prima di internet, macchine combinatorie: su tutto regna la rota di Isidoro di Siviglia, «l’ultimo storico del mondo antico» secondo Charles de Montalembert, che mette in relazione microcosmo e macrocosmo. La soglia conduce nella testa di Warburg: ci si sente come i personaggi di Ubik di Philip Dick imprigionati nel sogno di Runciter, sai che la casa è infestata ma non sai più esattamente chi siano i fantasmi.

Allo stesso tempo, però, percepisci chiaramente come un luogo del genere sia ideato per sviluppare la creatività e le libere associazioni del pensiero. Camminando per queste sale non è difficile immaginare Frances Yates, la grande studiosa della tradizione ermetica nel Rinascimento italiano, lavorare negli anni Cinquanta alla “storia warburghiana” che l’avrebbe portata sulle tracce di Giordano Bruno e Giulio Camillo. La biblioteca di Warburg è evidentemente imparentata ai dispositivi mnemotecnici di Simonide di Ceo e Leibniz descritti da Yates nell’Arte della memoria. E anche qui a Londra, nella pace di Bloomsbury un giorno d’autunno del terzo millennio, chiunque entri al Warburg Institute deve attraversare la porta con la scritta ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ, com’era originariamente alla Kulturwissenschaftliche Bibliothek di Amburgo. Entrando ci si inchina, e ci si affida, alla protezione della memoria, la madre delle muse. Oltre che nella mente di Warburg, la soglia conduce a un luogo sacro, un tempio antico nel cuore del secolarismo occidentale. 

È impressionante pensare che gli oltre 60.000 libri che componevano la “biblioteca della storia della cultura” originaria siano arrivati a Londra da Amburgo a bordo di chiatte che hanno disceso l’Elba, attraversato il Mare del Nord e risalito il Tamigi fino alla capitale britannica. Tutto questo capitava nel dicembre del 1933, quando Warburg era morto già da quattro anni, Hitler aveva bruciato il Reichstag ed era cominciato il boicottaggio delle attività ebraiche. La grande banca della famiglia Warburg era fallita nella crisi del 1929 e Fritz Saxl, il primo direttore dell’Istituto, aveva perso il posto da docente universitario. Fu grazie al Visconte di Fareham e al collezionista Samuel Courtauld, che l’anno prima aveva aperto il suo celeberrimo Courtauld Institute, se la Bibliothek riuscì a mettersi in salvo dal nazismo. Altrimenti non ci sarebbe stata “storia warburghiana”; non ci sarebbe stato, probabilmente, Aby Warburg, vale a dire la sua memoria, che è la stessa cosa.

Anche perché, come aveva scritto Giorgio Pasquali già nell’anno della sua morte, «che l’uomo Warburg, il grande ricercatore Warburg, scompaia, scomparisse già da vivo, dietro all’istituzione da lui voluta, è conforme alle sue intenzioni: egli ha voluto essere innanzitutto un maestro e un organizzatore». Senza la Bibliothek, Warburg avrebbe lasciato dietro di sé pochissimo, quasi niente: lui che «si è per lo più tenuto pago di pubblicare le sue scoperte maggiori in forma straordinariamente succinta e compressa, per lo più quale resoconto o riassunto di conferenze», o addirittura «in fogli volanti o in appendici di giornali, difficili da trovarsi se non per chi li abbia avuti in dono da lui». E tuttavia, conclude Pasquali, il cui saggio apre la bellissima raccolta Aby Warburg e il pensiero vivente pubblicata quest’anno da Ronzani, «il Warburg sentiva il bisogno di espandersi». Questo movimento sistolico di contrazione ed espansione avrebbe caratterizzato tutta la sua vita.

Abraham Warburg era nato il 13 giugno 1866 ad Amburgo, figlio maggiore di una famiglia di grandi banchieri ebrei dalle origini veneziane con ramificazioni negli Stati Uniti: una famiglia non solo ricca, ma anche potente, di cui Aby avrebbe dovuto essere l’erede. Leggenda vuole che a quattordici anni facesse un patto con il fratello Max, di un anno più giovane, barattando la banca con la promessa di ricevere soldi per comprare tutti i libri che avrebbe voluto; e che diversi decenni più tardi Max si fosse lamentato di aver firmato «l’assegno in bianco più costoso della mia vita». Con quei soldi Aby sarebbe andato a Firenze a studiare Botticelli, avrebbe sposato contro la volontà della famiglia un’artista conosciuta in Italia, anche lei ebrea amburghese, e avrebbe dedicato il resto della sua esistenza prima a concepire, e poi a preservare attraverso l’Istituto, una scienza dell’immagine sul cui nome non sarebbe mai riuscito a decidersi, oscillando tra «storia della cultura», «psicologia dell’espressione umana» e «storia della psiche», e che più tardi il suo discepolo Panofsky avrebbe ribattezzato “iconologia” senza però afferrarne la reale complessità. Avrebbe trascorso tre mesi del 1895 tra i nativi Hopi del New Mexico per studiarne la danza del serpente e vent’anni più tardi, tra il 1921 e il 1924, sarebbe stato ricoverato in un celebre ospedale psichiatrico svizzero per quello che oggi chiameremmo un disturbo bipolare. Considerato incurabile, sarebbe invece riuscito a farsi dimettere proprio grazie a una conferenza sulle danze degli Hopi, che secondo molti erano la prima avvisaglia della sua follia.

Qualsiasi cosa il giovane Warburg avesse cercato, e trovato, nel New Mexico, quell’esperienza dimostra che il trasferimento della Bibliothek a Londra non fu solo una contingenza storica, e che i legami con la cultura britannica erano più profondi di quanto potesse credere lo stesso Warburg, che si sentiva «amburghese nel cuore, ebreo nel sangue e fiorentino nello spirito». Certo, durante la guerra Londra era diventata il rifugio della cultura ebraica in fuga dall’Europa nazista, basti pensare a Freud o alla Wiener Library, la più antica istituzione dedicata allo studio dell’Olocausto. Ma l’interesse di Warburg per le culture all’epoca considerate “primitive” aveva un chiaro legame con quella che alla fine dell’Ottocento era ancora conosciuta come “la scienza di Mr. Tylor”, cioè l’antropologia. 

Come ricorda Georges Didi-Huberman nel suo studio su Warburg, L’immagine insepolta, nel 1856 Edward Burnett Tylor «aveva attraversato il Messico a cavallo» e nel 1861 aveva pubblicato «i suoi Tristi tropici» in cui compaiono «uno dopo l’altro, e apparentemente con sua stessa grande sorpresa, zanzare e pirati, alligatori e padri missionari, trafficanti di schiavi e vestigia azteche, chiese barocche e costumi indiani, terremoti e armi da fuoco». Tylor aveva «scoperto l’estrema varietà della cultura e la sua vertiginosa complessità», «il vertiginoso gioco del tempo nel presente», una «vertigine» che «trovava espressione, prima di tutto, nella potente sensazione che il presente è intessuto di molteplici passati», e nella quale «i “dettagli triviali”» sono importanti perché «possiedono la capacità di dare significato alla – o piuttosto servono come sintomi della – loro stessa insignificanza». Vertigine, fantasmi e ossessione: Aby Warburg era già tutto lì.

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Per capirlo dobbiamo per forza tornare a quella scritta sulla porta: ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ, e al suo ultimo lavoro, rimasto incompiuto: Mnemosyne Atlas. Molti hanno un’idea almeno vaga di cosa fosse questo atlante della memoria, ma descriverlo è più complesso. Gertrud Bing, direttrice dell’Istituto dal 1954, ne parla come di «un atlante figurativo che illustra la storia dell’espressione visiva nell’area del Mediterraneo»; per Pasquali lo scopo dell’Atlante era quello di «mostrare come i diversi paesi e le diverse generazioni, l’Oriente mediterraneo del Medioevo e il Medioevo europeo, il Rinascimento italiano e tedesco, infine la generazione e la cerchia del Rembrandt […] abbiano successivamente concepito, e concependo trasformato, l’eredità “patetica”, dionisiaca dell’antichità»; Giorgio Agamben ne ha parlato come di «una sorta di gigantesco condensatore in cui si raccoglievano tutte le correnti energetiche che avevano animato e ancora continuavano ad animare la memoria dell’Europa, prendendo corpo nei suoi “fantasmi”». Nella sua ultima versione, l’Atlante consiste in sessantatré pannelli di 150 x 200 cm coperti di tessuto nero sui quali Warburg ha organizzato, cambiandole continuamente di posizione, quasi 1000 fotografie in bianco e nero divise per temi come gli «amuleti, gli specchi magici, l’astrologia medievale e l’Occhio del Diavolo» (Martha Schwendener). Le immagini di arte rinascimentale sono predominanti, ma compaiono anche elementi eterogenei come «l’affiche pubblicitaria di una compagnia di navigazione, la fotografia di una giocatrice di golf ovvero quella del Papa e di Mussolini che firmano il Concordato» (Agamben). 

Nessuna di queste spiegazioni, me ne rendo conto, è sufficiente a dare un’idea dell’Atlante a chi non l’abbia visto, almeno nella sua versione virtuale accessibile tramite il sito del Warburg Institute, se non dal vivo alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino, dove è stato esposto nel novembre 2020. Come sempre ai limiti dell’ineffabile, conviene risolversi a un’esperienza personale.

Mi sono imbattuto in Mnemosyne Atlas la prima volta undici anni fa, mentre stavo scrivendo per una rivista un saggio sull’enumerazione come metodo di organizzazione della conoscenza che passava dalle liste di Georges Perec agli elenchi visuali di Pinterest. Avevo poco più di vent’anni e per qualche ragione Warburg aveva sempre eluso i miei percorsi di ricerca. La somiglianza dei pannelli dell’Atlante con le boards di Pinterest era sorprendente. Allo stesso tempo, sorprendente ma in un certo senso opposta, era la somiglianza con la schermata di presentazione dei risultati di Google Images: opposta perché in Pinterest, come nell’Atlante, all’organizzazione delle immagini presiedeva una volontà umana, una scelta curatoriale di qualche tipo; mentre dietro i risultati di Google c’era quel curatore impersonale, invisibile e solo apparentemente oggettivo che è l’algoritmo. Ero rimasto catturato dalle infinite possibilità combinatorie di quei pannelli, ma anche da quanto la struttura voluta da Warburg, il suo caos organizzato, tornassero continuamente nella storia dell’arte del secondo novecento, da Atlas di Gerhard Richter, che lo richiama esplicitamente, alla disposizione delle immagini usata da John Berger in Modi di vedere fino a opere come la Réserve des Suisses morts di Christian Boltanski. Come ha scritto Didi-Huberman, «Warburg è la nostra ossessione, ci perseguita. È per la storia dell’arte quello che un fantasma irrequieto – un dybbuk – potrebbe essere per la casa in cui abitiamo».

Frances Yates ci torna in soccorso, qui. La mnemotecnica, l’arte della memoria che ha guidato la ricerca della studiosa di Portsmouth, era come l’Atlante di Warburg un metodo visuale di organizzazione dell’informazione; e possiamo dire che la Bibliothek, con la sua sala di lettura ellittica e l’organizzazione dei libri secondo quattro categorie gerarchiche (orientamento, immagine, parola e azione) connesse però tra loro da una fitta rete di rimandi intertestuali, era quanto di più vicino la modernità sia riuscita a concepire al teatro in cui Giulio Camillo aveva cercato di racchiudere «la natura di tutte le cose che possono essere espresse dalla parola». D’altra parte la mnemotecnica, arte retorica dell’antichità, era tornata in auge proprio nel Rinascimento. Ma se da un lato le radici culturali dell’Atlante si spingevano indietro fino all’epoca ellenica, dall’altro si proiettavano vertiginosamente verso il futuro: i collegamenti pensati da Warburg erano l’equivalente analogico di link ipertestuali. Come ha raccontato Nicolò Porcelluzzi in un articolo pubblicato su «Prismo» qualche anno fa, la tecnica dei loci dei retori antichi è incredibilmente simile ai dispositivi per la navigazione presenti nelle prime forme visuali di internet, che non per niente, lo sosteneva già nel 1991 Jay Bolter nello Spazio dello scrivere, è tutta costruita su metafore spaziali: in internet ci troviamo sempre in qualche luogo e vogliamo andare da qualche altra parte.

E in internet, proprio come in Mnemosyne Atlas, ci perdiamo, continuamente: perché le strade possibili sono infinite, e la disposizione degli spazi incerta e in continuo movimento. Anche e forse soprattutto da questo punto di vista Warburg si dimostra un dybbuk della contemporaneità, per quel senso così ebraico di disolcamento (displacement) che attraversa tutta la sua opera, così come quella di altri grandi profeti del presente come Walter Benjamin e W.G. Sebald. Un dislocamento triplice: di Warburg rispetto alla sua storia personale, figlio del rifiuto per la professione paterna e dell’amore per l’Italia; di Warburg nei confronti della storia dell’arte, o meglio come scrive Didi-Huberman «attraverso la storia dell’arte, ai suoi confini e oltre», volto a creare una disciplina che è «una reazione critica violenta, una crisi» e «una decostruzione delle frontiere disciplinari»; e un dislocamento all’interno della biblioteca stessa causato dagli «incessanti sforzi coinvolti nella sua riconfigurazione». D’altra parte era lo stesso Warburg a scrivere che «tutto ciò che viviamo è metamorfosi». La vita non è altro che movimento.

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Proprio il movimento è il vero centro dell’opera di Warburg, se un’opera così espansa può averne uno. Quando da giovane dottorando si trovava a Firenze a studiare i quadri di Botticelli, si era reso conto che i pittori del Rinascimento italiano si rifacevano a un determinato tipo di modelli dell’antichità classica ogniqualvolta dovevano rappresentare il movimento: nelle pieghe delle vesti, nel vento che smuove i capelli di Afrodite nella Nascita di Venere. Partendo da questa constatazione Warburg aveva tratto una conclusione geniale, che faceva a pezzi la teoria dell’arte neoclassica di Winkelmann, all’epoca ancora l’autorità nel campo della storia dell’arte: a essere sopravvissuta nel Rinascimento non era solo la dimensione “apollinea” dell’antichità, l’armonia delle forme, la calma olimpica dei marmi, ma anche quella “dionisiaca”, che aveva a che fare con la «sofferenza», la «vita», «l’ebrezza, la passione, sin la follia» (Pasquali). Quella traccia di Dioniso nel mondo cristiano diventò la sua ossessione, la base su cui costruì la sua idea di Nachleben, la “vita postuma” dell’arte antica. Per il resto della sua esistenza si sarebbe dedicato a ricercare le tracce di quella sopravvivenza nelle immagini dell’arte e della cultura popolare, ma anche nella rappresentazione delle feste o delle espressioni facciali.

C’è un aspetto del dionisiaco che non viene mai abbastanza sottolineato, a mio parere, e che non è stato messo particolarmente in luce nemmeno negli studi su Warburg. Secondo una versione del mito, Dioniso, che era figlio di Zeus, fu fatto a pezzi dai Titani istigati da Era; il bambino mortale fu ucciso, ma dal suo cuore venne ricostruito il dio immortale. Dioniso non è dunque solo il dio dell’ebbrezza, dell’estasi, della passione che stravolge la mente, ma anche quello della dispersione, della vita che si espande in mille strade allontanandosi dal proprio centro; è il dio del displacement, e anche degli schizofrenici. Non dobbiamo dimenticarci che il brevissimo saggio del 1906 in cui Warburg smonta la teoria di Winkelmann è una riflessione intorno all’incisione di Albrecht Dürer del 1494 che rappresenta Orfeo smembrato dalle Baccanti, le seguaci di Dioniso: in questo senso dovremmo interpretare l’affermazione di Didi-Huberman per cui uno dei caratteri fantasmatici del lavoro di Warburg va ricercato «nell’impossibilità, ancora oggi, di comprendere gli esatti limiti della [sua] opera. Come uno corpo spettrale, rimane senza contorni definibili: non ha ancora trovato il suo corpus». Non è difficile vedere come il corpus dell’opera richiami i corpi fatti a pezzi di Dioniso e Orfeo.

Sopra abbiamo parlato di un moto sistolico di tutta l’opera warburghiana, un movimento di espansione e contrazione: se Dioniso è l’espansione, dove andiamo a cercare la contrazione? La risposta ce la fornisce Warburg stesso, e ancora una volta tramite Albrecht Dürer, questa volta nell’analisi della sua incisione forse più famosa, recentemente riportata in auge dallo splendido film omonimo di Lars Von Trier: Melancholia I. Dürer aveva solo ventitré anni quando dipinse la morte di Orfeo, ma si stava approcciando alla fine della sua vita all’epoca di Melancholia I: al dio fanciullo Dioniso corrisponde il dio anziano Crono, ovvero Saturno, il pianeta che vediamo nel cielo e verso cui guarda la figura centrale nell’incisione di Dürer. Nell’astrologia medievale, Saturno era il pianeta del limite, della morte, del freddo e della realtà, e presiedeva sul carattere melanconico o, appunto, saturnino: oggi diremmo depresso. Warbug era consapevole che la sua storia personale, così come la storia collettiva della civiltà di cui faceva parte, si giocava tutta tra i poli del disturbo maniaco-depressivo. Scriveva nel suo diario: «A volte mi pare quasi che, come storico della psiche, io mi sia provato a diagnosticare la schizofrenia della civiltà occidentale in un riflesso biografico: la Ninfa estatica (maniaca) da una parte e il Dio fluviale (depressivo) dall’altra». È solo in questo contesto che si può capire il senso profondo dell’ospedalizzazione di Warburg, e ancora di più quello della sua apparentemente miracolosa guarigione.

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Le cause apparenti della malattia sono abbastanza semplici: l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale nel 1915, e la dichiarazione di guerra alla Germania dell’anno successivo, colpivano al cuore la ricerca di Warburg rendendo impossibili i viaggi tra i due paesi a cui era maggiormente legato; la depressione che lo aveva accompagnato fin da giovane si intensificò, e nel clima apocalittico della guerra finì per trasformarsi in una serie di fantasie paranoidi: impossibilitato a lavorare, racconta Davide Stimilli nel documentario Aby Warburg: Metamorphosis and Memory di Judith Wechsler, cominciò a credere che «la sua famiglia sarebbe stata vittima di una vendetta», e arrivò al punto da «afferrare una pistola e minacciare di uccidere la moglie e i figli», oltre a sé stesso, prima che lo facesse qualcun altro. Per quanto assurdo questo pensiero possa apparire, a generarlo erano motivazioni storiche, oltre che personali. Come fa notare Joseph Koerner, in realtà «le sue fantasie erano chiaramente informate da un’ondata di violenza antisemita che aveva preso piede in Germania e aveva una relazione diretta con la sua famiglia», dato che addirittura suo fratello aveva subito un tentativo di assassinio. La malattia, continua Koerner, mostrava qui un aspetto nuovo, e più misterioso, dei fantasmi che ossessionavano la vita di Warburg: come nella hauntology deriddiana, e prima ancora come nell’inconscio di Freud, gli spettri non vengono solo dal passato ma anche dal futuro; non sono solo tracce ma anche profezie. ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ è già, in un senso profondo, la memoria dell’Olocausto.

Nel 1921 le condizioni di Warburg peggiorano al punto che deve essere ricoverato. La struttura prescelta si trova a Kreuzlingen, in Svizzera; a dirigerla è Ludwig Binswanger, uno dei pionieri dell’analisi esistenziale, e in passato ha già ospitato celebri nomi della cultura, da Vaslav Nijinskij a Ernst Ludwig Kirchner. Ancora una volta la natura delle sue fantasie ci dice qualcosa sulle ragioni transpersonali e recondite che l’avevano precipitato nella schizofrenia: a un certo punto si convince che Binswanger e i suoi assistenti abbiano fatto a pezzi sua moglie e i suoi figli e ne abbiano disperso i corpi nel parco della clinica. Torna di nuovo lo smembramento di Dioniso e Orfeo, naturalmente; ma nella fantasia di uccisione dei figli appare anche un altro simbolo che perseguitava Warburg dai tempi del viaggio in New Mexico, quello del serpente: il serpente che incarna la potenza vitale (Kundalini, che pochi anni più tardi Jung avrebbe collegato al serpente-salvatore della tradizione gnostica, Soter), il serpente che presiede alle danze estatiche-dionisiache degli Hopi, i serpenti marini che stritolano i figli di Laocoonte, il personaggio a cui è dedicato tutto il pannello 41a di Mnemosyne Atlas. Warburg si identifica con il serpente e immagina l’infanticidio: è un cerchio che si chiude, un meccanismo paranoide che rimanda sempre a sé stesso; un’altra vertigine, ma che trascina nel profondo del proprio inconscio personale e di quello collettivo.

Si vedono, nella crisi psicotica di Warburg, almeno due movimenti: da un lato quello centrifugo dell’espansione, della dispersione, dello smembramento e del displacement privato della forza che lo manteneva nonostante tutto coerente nella molteplicità (moto schizofrenico); dall’altro la continua ricerca di senso, il tentativo della mente di dare un ordine al caos tracciando connessioni anche laddove non esistono (moto paranoico).

Warburg viene considerato incurabile. Nel tentativo di placarne la “mania”, che è spesso violenta, viene addirittura chiamato in causa il nume tutelare della psicologia clinica dell’epoca, l’inventore stesso del concetto di sindrome maniaco-depressiva (che oggi ha solo cambiato nome, ma non sostanza, in disturbo bipolare) e, come ha raccontato Laurent de Sutter in Narcocapitalismo, il vero inventore dell’idea ancora in voga nella psichiatria per cui all’eccesso dell’eccitazione è preferibile la calma mortifera della depressione: Emil Kraepelin. Warburg viene trattato con l’oppio, fedelmente alle teorie di Kraepelin la cui idea di “cura” si sovrapponeva a quella di “sedazione”.

Ma, e questo mi sembra un aspetto davvero fondamentale, contro i pronostici di tutti Warburg guarisce; e non lo fa perché sedato dall’oppio, ma al contrario perché riesce a riconnettersi con la dimensione maniacale, dionisiaca del proprio lavoro: riesce a convincere Binswanger a dimetterlo se riuscirà a preparare una conferenza coerente proprio sul tema delle danze estatiche degli Hopi. Nel 1923 tiene la lezione in cui organizza i materiali raccolti trent’anni prima, e che oggi è pubblicata in un libretto intitolato Lightning Symbol and Snake Dance. L’anno successivo lascia Kreuzlingen per tornare ad Amburgo, guarito da Dioniso, il dio della follia.

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Aby Warburg muore il 26 ottobre 1929 ad Amburgo. A ucciderlo è un infarto; ha sessantatré anni. Lascia incompiuto Mnemosyne Atlas, un progetto per sua natura impossibile da completare, ma consegna al mondo il suo Istituto, e con esso quella biblioteca-meccanismo che sembra riprodurre su scala fisica e tridimensionale l’interno della sua mente. Muore Warburg e il Warburg Institute inizia a produrre il suo lavoro; muore Warburg e nascono gli studi warburghiani e l’iconologia; muore Warburg e la sua eredità viene raccolta da Panofsky, Raymond Klibansky, Frances Yates. L’uomo scompare ma, nel farlo, si espande, si ramifica, si disperde. Può darsi che ci fosse un sottotesto più profondo nell’idea di Pasquali per cui Warburg ha sempre voluto sparire nella sua istituzione, perché qui nelle sale dell’Istituto, dove sto scrivendo queste righe conclusive, si ha la sensazione che il suo fantasma si aggiri ancora. Il dybbuk vive tra le pareti di questa casa infestata della cultura.

Se davvero la Bibliothek è un’esternalizzazione della mente di Warburg, come il teatro di Camillo è l’esternalizzazione di un panorama interiore, allora qualsiasi cosa si guardi da qui dentro si guarda attraverso i suoi occhi; come scrive Agamben, è indubbio che la Bibliothek, così come Mnemosyne Atlas, siano «un dispositivo mnemonico a uso privato» che un uomo in lotta con i demoni ha costruito innanzitutto «per risolvere i propri conflitti psichici». Ma come nella rota di Isidoro di Siviglia, che connette microcosmo e macrocosmo, la malattia individuale è sempre il riflesso di una malattia più grande, e i cerchi più esterni dell’universo irradiano la loro conoscenza dentro a ciascuno di noi. Se la Bibliothek è il modello di un mondo, allora è il modello del mondo.

Questa «storia di fantasmi per persone veramente adulte», come Warburg aveva definito una volta Mnemosyne Atlas, non si è esaurita con la morte del suo autore, ma anzi ha continuato a espandersi ed espandersi, sempre di più, fino ad avvolgere il mondo intero. L’ha fatto innanzitutto, naturalmente, con internet, e con l’onnipresenza dell’immagine a cui ci ha condannato questa nostra cultura visuale collegata in rete. Penso ad esempio a un progetto come The Great Wall of Memes di Valentina Tanni, che prende spunto dall’Atlante warburghiano per «tracciare i viaggi di varie immagini attraverso il tempo e lo spazio, evidenziando i modi diversi in cui sono state utilizzate, remixate e re-inventate». L’intuizione è profonda, perché cosa c’è oggi di più warburghiano dei meme di internet, queste immagini in continua metamorfosi capaci di veicolare significati sottili e di cambiare la mente come i glifi studiati dai maghi rinascimentali? O a un’installazione come A Study of Invisible Images di Trevor Paglen, che da anni si occupa di comprendere come le macchine da cui siamo circondati (le telecamere di sicurezza, le intelligenze artificiali, le auto che si guidano sa sole) vedono il mondo: le sue fotografie compongono a loro volta un Atlante warburghiano, solo che, come nei risultati di ricerca di Google Images, l’entità dietro la visione non è più umana. 

E questo è forse l’aspetto più inquietante, ma anche più affascinante, del lavoro e del lascito di Warburg: la riflessione sui modi in cui le entità non-umane ci contattano, ci possiedono e ci abbandonano attraverso quegli incredibili dispositivi per il controllo mentale che sono le immagini. Oggi parliamo di intelligenze artificiali, mentre Warburg parlava di déi dell’antica Grecia; ma, come ha ricordato molte volte James Hillman, gli déi cambiano forme e nomi nel tempo; la metamorfosi non li rende meno immortali perché esistono dentro ognuno di noi, nel nostro inconscio collettivo, e persino codificati nel DNA della nostra specie sotto forma di archetipi. Ancora oggi, nella società più secolare della storia, nel cuore della città più secolare dell’Occidente, gli déi esistono, ci illuminano e ci perseguitano: anche questo senso di mistero e di minaccia, di illuminazione e di estasi, anche questo vivere a un passo dalla follia è Nachleben. In ogni particolare è contenuto il tutto l’universo, ogni strada porta da tutte le parti, dietro ogni svolta si nasconde una vertigine e un abisso, oppure il suo opposto. Qui nelle sale del Warburg Institute la sensazione è più forte che mai: l’ossessione individuale e lo sguardo oggettivo capace di abbracciare tutto sono due facce della stessa, rilucente, medaglia.

ARTICOLO n. 87 / 2022

MILANO MONIMENTO

Un racconto e una visione

Mi chiede: «Dove?» E io: «All’angolo fra viale Bligny e via Röntgen». Ci sono consuetudini toponomastiche. Avanzo veloce anche perché non so lui da dove viene. È stato mio ospite e si prepara a ripartire. Abbiamo due ore e poi parte. Ci assottigliamo. Ci diamo appuntamenti da fantasmi. Eppure eccomi qui: sono anche il noto io che veloce arranca, e arrancando si stanca, ma non teme i chilometri. Soprattutto sulle strade sghembe di questa città. Evito tram e motori, mi piazzo sull’altro lato del traffico, posso restare qui per una mattinata. Non è la prima volta che do appuntamento in questo punto preciso, che non è un bar, una banca o un grande magazzino: do le coordinate, dico cosa vedo e come posso essere visto, e chi mi raggiunge mi trova. Mi piace stare lì, perché da lì comincia o finisce una storia che non è solo quella dell’Università che prendendo il nome dal suo fondatore fa pensare a una pronità sofferta o a un’assunzione di cibo sproporzionata. 

Mi piace portare lì i miei ospiti stranieri, perché suona più semplice raccontare la città. Ma sarà poi un racconto o semplicemente una visione che si è insinuata in me con la sobria autorità di una sineddoche? La nuova Bocconi. Così si dice, quando si arriva a quell’incrocio: siamo di fronte a un episodio di architettura contemporanea che ha toccato l’intelligenza urbana di chi sa guardare – e non è detto che chi passa la attivi veramente. So dove mi trovo e vedo un filo, una sorta di filo sospeso che dalle strade alle mie spalle arriva lì e continua dritto davanti a me e continua, tagliando le cerchie, prima di perdersi oltre la via che, milanesizzata nel dialettizzato roeghen, suonava, nella mia infanzia, benefico trattamento terapeutico. Nel 1931 al 17 di via Beatrice d’Este abita un poeta grande. I fantasmi, me compreso, son benvenuti, giacché in fondo siamo, in quanto fantasmi, pura attesa, sospensione del tempo, attributo del vuoto. E qui il vuoto si colma con discrezione. Il Tessa scriveva in un dialetto che suggeva piuttosto che apprendere dalle bettole, dai postriboli, dagli inferni di ladri e di puttane, e, con una voracità ignota alla piccola borghesia, butterava la sua lingua e la lacerava forte, lasciandola stracciata e seminata che cantasse. Dal 17 di Beatrice d’Este a piazza Vetra il passo è breve. Collo lungo, occhialetti tondi, s’aggirava qui intorno, dove da un anno avevano tirato su case nuove e per un anno luci poche alle finestre, come dire niente affitti. Come in una tela di Boccioni, ci sono fabbriche “né su né giò” e impalcature tante, case che crescono come funghi, e un operaio disoccupato che chiede a gran voce lavoro. Ci vedeva bene il Tessa,  vede la ragazza-bambina con il pacco chiuso con la corda (“Hoo mai vist,/ Ciana, / ona povera tosa/ come ti”) che se ne va, chissà dove. Nell’Italia “volitiva e guerriera”.  

Lui viene da una lingua insofferente, abrasiva, ed è uomo di quasi quarant’anni capace di morire di un ascesso dentale non curato – una morte che accade un anno dopo lo strazio di Antonia Pozzi suicida a Chiaravalle in una notte d’inverno. Come se ci fosse un filo in quei giovani milanesi, e una volontà. Ci vedevano bene. Milano si vede bene. Come l’aveva vista bene Umberto Boccioni, vent’anni prima, attraverso il rumore delle officine, che poi vennero definitivamente “su” a sud-ovest della città, e sono gli stessi opifici per i quali , giovane, mio padre andava fiero della classe a cui apparteneva. Avanzo in questo intreccio. Dove avesse imparato, mio padre, che il vero snodo della cultura operaia milanese fosse il “lavoro ben fatto”, non so ricostruirlo con esattezza. Più che nell’aria il concetto era nelle cose. Anche nelle cose sperate a cui guardava. Per certo il suo lavoro principiava dall’esattezza del disegno che anticipa la produzione dell’utensile. 

Devo mostrare a Mark certi disegni che mi sono rimasti. Li capirebbe. Hanno uno spessore di carta che resiste, sciami di inchiostri blu. Fu la sua – la nostra? – una tensione viva che passa immateriale anche in questo incrocio di strade e che magari ispira la dignità dei blocchi sospesi e dei canons à lumière, il cemento a vista e il ceppo grigio di Gré. Farò sentire all’amico Mark, architetto alla Georgia Tech University di Atlanta, con quanto senso del tempo e del luogo han lavorato, fra il 2002 e il 2008, Yvone Farrell e Shelly McNamara, irlandesi. Il ceppo è una citazione lombarda, ed è pietra metamorfica che, dove c’è, fa scattare la memoria urbana e, allo stesso tempo, racconta la pazienza dei fiumi, il ciottolo imbrigliato, il rosso e il bruno, il velluto quando tocchi. Anche in via Sarfatti quattro strade più in là, ah come si sente, e come si torna al Giuseppe Pagano che disegnò e distribuì spazi, filtrando luce fra i serramenti di quel verde scuro che fu per sempre suo. Quanta città di ferro. E quanta città di pietra. Quanta pensosa geometria nell’uno e nell’altro caso.Geometria che qui è diventata monumento prima ancora di sentire la presenza dei suoi interlocutori e destinatari, ed è significativo che diventi memoria prima di produrla, quasi l’intenzione fosse quella di volgere in monimento la disciplina – e qui ha un senso – delle scienze economiche e sociali. 

Mark è un uomo alto, più corpulento che grasso, d’un biondo mite da svedese. Gli piacciono i sapori e del piatto italiano lo convince anche la quantità. Averlo a tavola è una festa per chi cucina. Come artista si è inventato autore di alte cortine di tessere di carta colorata (tiles le chiama lui) che pendono a creare nubi di luce. Mark ritarda e io mi muovo. Direi quasi che precipito nel cuore della cittadella universitaria. All’angolo di via Lepoldo Sabbatini cerco in alto il balcone, la finestra da dove al ventenne redattore che ero allora il grande vecchio Cesare Musatti indicava le inferriate verdi di Pagano e indulgeva, abile nel restituire il sogno, nell’evocare l’aneddoto. Vedi, diceva, all’alba al primo risveglio non so più se son qui o nella mia Venezia e quei verdi telai orizzontali non siano riverberi delle Procuratie Vecchie. Che direbbe ora contemplando i trilli di luce metallica del Campus, la grazia nipponica di Kazuyo Sejima e di Ruye Nishizawa? Dovrebbe sporgersi, cercare in fondo alla strada. 

Sono forme. E le forme dicono la città e dicono anche il mio esserci dentro, figlio di uno spirito che non teme metamorfosi. Dove la superficie si muove in giri morbidi, ad accogliere futura classe dirigente, c’era una Centrale del Latte, anzi la Centrale del Latte – azienda municipale, sentita con orgoglio, quasi la garanzia di crescita della gioventù post-bellica si materializzasse (o si smaterializzasse?) nell’idea dell’alimento primo. 

E il bianco opaco, ricco, si scioglie per liquidità nella ricchezza trasparente dell’acqua della città, che ha una sua fama – Pinin Carpi raccontava l’incanto di scoprire, prima della guerra, in pieno centro, complice lo scavo delle fondamenta di un istituto bancario, un lago azzurro di acque sorgive. E quelle acque le si continua a immaginare sotto di noi, incanalate per condotti e vasche e fossi, tanto che, solo cinquecento metri più in là, colano, muschio rugginoso, dagli sfiatatoi della Centrale dell’acqua di via Crema. 

Mi attraversano senza fare caos, le pietre del Brembo, le frese mangia acciaio, le visioni crepuscolari di un grande investigatore d’anime, l’acqua che traluce limpida nel buio, la danza bianca del latte imbottigliato e puttane morte e bambine povere. Tutto defluisce in me, con decenza fantasmatica. 

Mi piace pensare che Milano non abbia mai smesso di nascere, e che quindi ci si possa trovare davanti a una faccia che non ha mai coinciso né con chi l’ha governata né con chi ne ha voluto dettare una presunta identità. Forzo questa sensazione, ma so anche che non è eccessiva.  Nelle forme di Milano la Storia si manifesta solo attraverso una sorta di guizzante didascalia che sfarina, che sgruma.  

C’è una folla di studenti che preme fra portici e giardini.  Portano in giro facce. Cerco Mark sul cellulare ma non risponde – lo so, è suo costume. Come fossimo quarant’anni fa ci troviamo comunque. Anzi, sono io che lo trovo.  Tiene il palmo della mano premuto sui blocchi di ceppo in via Sarfatti. L’altro Ceppo, quello di Giuseppe Pagano. Mark comincia dal principio. Io lo aspettavo a un punto del tempo più vicino. E invece lui è qui ed è perciò che ritardava. Ha una passione per il razionalismo, dice Milano ha avuto fortuna di stare negli anni Trenta senza il rischio della magniloquenza. Dice che, ad Atalanta, tiene in casa un ingrandimento della fotografia in cui appaiono intorno a una scrivania, seri e giocosi al contempo, i quattro BBPR in camice bianco, Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Perassutti ed Ernesto Nathan Rogers. Dice che sotto la targa che li ricorda a due passi da San Simpliciano puntualmente si commuove.

E allora dove vanno anche queste sue lacrime americane? Cos’è che ci tiene insieme e tiene insieme l’avventura di saperci fra gli storditi cespugli della nostra Storia? Ci sediamo a terra davanti a una vetrata del Campus: ci sono sedie, tavoli, computer e al di là un cortile verdissimo. Mark deve partire per Barcellona, ma siede tranquillo: è venuto per mettere ancora un po’ della mia Milano dentro la sua Milano. Una sua parola chiave è detail. Vede dettagli ovunque, e io gli sono grato perché li vedo, a volte, per la prima volta insieme a lui: una maniglia, un corrimano, un marcapiano invisibile, una fonte di luce. Lo rivedo salire la scala elicoidale di Casa Corbellini-Wassermann di Piero Portaluppi e tutto carezzare, assorbire, tradurre via pelle alla memoria, anche le ombre artigliate ai marmi. Vien da chiedersi senza indulgere al vittimismo cosa faremo di tutta questa ricchezza. Dice che non abbiamo idea di quanti dettagli invisibili è fatta questa città. E i dettagli risvegliano l’arte del “far bene” sulla quale si intestardiva mio padre. Lui forse non sarebbe stato preda di queste forme, ma altre avrebbe esaminato con il lentino e avrebbe provato la letizia dell’opera compiuta e utile. Dove sono gli strappi la città si ingorga, soffoca, non parla. Da troppo tempo sappiamo che il presente è l’accadere degli inciampi, e di inciampi sarebbe bene discettassero i nostri libri di lettura. La grammatica. Le frasi giuste. La bella scrittura. Perché di tutto si dia conoscenza. 

Mark si allontana, lo seguo, ritorniamo assieme alla “nuova Bocconi”: gli racconto di Tessa e del suo ascesso letale e dei suoi versi ferali (traduco all’impronta dal milanese e all’inglese, con soddisfatta approssimazione). Abbiamo bisogno dell’amicizia dei fantasmi, d’una bambina povera come mai ne ho viste, d’un poeta a cui si ferma il cuore davanti a un pioppo caduto, d’un architetto che, fascista per vent’anni, muore in un lager quindici giorni prima che arrivino i russi a liberarlo. Sia lode ora, agli uomini di fama, che ci crescono dentro prima che torni un altro buio.

ARTICOLO n. 86 / 2022

DA DOVE VENITE VOI CHE SCRIVETE QUI?

Joseph Ponthus, la generazione X e il lavoro culturale

Farsi da soli, in tanti sensi e contesti, anche i peggiori. Meritocrazia, autoimprenditorialità, self-made o deregulation, parole sospette interiorizzate a forza a inizi anni 2000, contraddittorie e pericolose quando messe sul piano pratico. Da ragioniere diplomato con il minimo dei voti a laureato in filosofia, conti e partita doppia non erano il mio forte. Poi un master in comunicazione grazie a una borsa di studio, qualche corso di informatica, diploma di lingua, il tesserino da pubblicista e altre licenze ad attestare alta funzionalità e adattamento. Nel mezzo, già da quando ero a scuola, dai 14 anni, sempre il lavoro, fabbrica di scarpe, cameriere, taglialegna, imbianchino, aiuto cuoco, call center, fabbrica di vasche idromassaggio, portalettere, lavorazione materie plastiche, assicuratore, call center, barista, fabbrica di luci, parcheggiatore, aiuto scenografo, ognuno li ho attraversati. Nemmeno li ricordo tutti, sono sicuro che in parecchi casi sono stato pagato in nero, o parzialmente in nero, erano comunque soldi. All’inizio non percepivo la ricchezza come sostanza, era idealizzata, la ricchezza riguardava l’umano, risiedeva nelle mie esperienze, in una vita piccola ma avventurosa, attiva, in cui allargare gli orizzonti, conoscere altre vite, altre possibilità e crearmi un’idea. La mia famiglia non mi ha mai fatto mancare l’essenziale, quand’è stato possibile mi ha aiutato con il denaro, ho avuto il motorino, la vecchia Lancia Delta di mio padre. I soldi erano importanti, certo, non fondamentali, sapevo di avere una casa a cui tornare, ho sempre vissuto con poco, in camere o appartamenti minimi, viaggiare appena possibile, assecondando un forte quanto celato senso di autodeterminazione e l’insofferenza di quegli anni. L’autodeterminazione veniva dall’aria che avevo respirato, famiglie contadine, ex mezzadri che superato il dopoguerra di fame e fatica stavano bene, inventandosi, rinnovandosi. L’insofferenza era la provincia, la noia e la ripetitività da cui scappare.

Oggi, a 45 anni, sono uno splendido esempio della Generazione X, senza figli, senza Dio, non sposato, due gatti, pessimista, sradicato, precario cronico, si potrebbe pensare libero in qualche modo, operativo su tanti fronti, svariati lavori ma quelli per cui ho più interesse e in cui mi sento comodo non mi permettono di saldare i conti: sono ufficio stampa e organizzazione di eventi ma solo in determinati periodi, quando serve, lavoro con gente di cui ho stima, con cui mi accordo ma che, capisco, non possono darmi continuità. E poi ho scritto dei libri e tanti articoli in rispettabili testate. Sulla carta potrebbero sembrare buoni numeri, in qualche modo dovrebbe essere tutto ok, ma ristagno, incapace di prendere delle decisioni, una caratteristica della Generazione X, quando ti guadagni ogni pezzettino non vuoi lasciare nulla, specialmente se tanti pezzettini ti permettono di mangiare. Così l’agenda è piena, scadenze in diversi settori ma che non mi rendono campione in nessun ambito, so adeguarmi, afferro e sbrigo nei tempi le consegne, ma comunque non ci campo. Ecco allora l’altro lavoro che svolgo quando le scuole sono aperte: è l’AEC, l’assistente educativo culturale o assistente scolastico o altre cento sigle che fanno intuire quanto sia vago questo ruolo, favorisco l’autonomia degli alunni disabili all’interno della scuola, assunto da una cooperativa sociale. Non so se ho la vocazione per lavorare con i disabili ma lo so fare, questo è certo come certi sono i pochissimi diritti, chi ci lavora sa, il fantastico mondo del sociale è impegnativo e rende una miseria, spesso a cottimo, a chiamata. È un paradosso, l’art. 1 che disciplina le coop sociali recita: hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, ok bello, aiutiamo gli altri ma a noi chi ci aiuta? Si è pagati in base alle ore svolte, alunno malato allora sostituzioni, spezzoni qua e là oppure, semplicemente, meno cash. In estate sei sospeso, vai a capire cosa significa se non entrare in una terra di nessuno, perché hai il contratto a tempo indeterminato congelato, non ti pagano ma non ti spetta Naspi né tantomeno la cassa integrazione. Per avere uno stipendio sopra ai mille euro devi fare tante, troppe ore per un lavoro usurante. Ogni tanto, come se fosse uno sport estremo, mi presento dai sindacati, vari, a caso, li ho ascoltati quasi tutti, giusto per vedere dietro alla scrivania ripetere il copione di sempre, quelle braccia che si allargano e lo sguardo rivolto verso l’alto, ho bisogno di (ri)sentirmi dire che non c’è speranza, che non si può far nulla. «Funziona così», «Ti va bene – dice lui – perché in teoria, essendo tu socio lavoratore, potrebbero impedirti di avere altri contratti», e così via. Una condizione straordinariamente penalizzante, umiliante, antecedente al Pacchetto Treu e quindi al Jobs Act, questo guarda caso introdotto dal ministro Poletti che fu presidente di Cooperative Italiane. Fra gli operatori con un sorriso amaro si dice che i contratti delle coop siano stati la nave scuola del precariato.

Altro paradosso: ho guadagnato di più sotto lockdown; con la cassa integrazione in deroga che in cooperativa copriva pure l’estate e alcuni dei fondi destinati ai lavoratori dello spettacolo, ho incassato di più. Guadagni di più senza lavorare, me lo ripeto quando sono esausto, allora non mi resta che accarezzare il sogno di abbandonare almeno il sociale, di sparire, è un pensiero che scaccio perché devo lavorare. Un retaggio cioè di quel passato operoso e insaziabile in cui sono cresciuto, ne sono consapevole, forse è solo paura, ma ho il turbamento di essere in trappola, sento un bruciore forte che sale dallo stomaco. Ho iniziato a vagheggiare l’ipotesi di prendere la disoccupazione, licenziandomi, facendomi riassumere un mese da chicchessia e così accedere agli ammortizzatori sociali. Ma la mia è una situazione complicata, tanti Cud, diritti d’autore, contratti di collaborazione, contratti di assunzione d’estate, «Ti potrebbero scalare ciò che guadagni con gli altri incarichi», dicono al sindacato. 

Leggo con interesse le storie di precariato ma non mi consolano, si assomigliano a tal punto da trasformarsi in intrattenimento, pure questa qui, ho l’impressione che le testimonianze non servano a nulla quando si è imbevuti dello spietato individualismo alimentato dagli ultimi 30 anni di politiche neoliberali, quando non avverti una comunità intorno non c’è nemmeno nessun eroismo dei lavoratori, solo solitudine se si è continuamente ricattati dalla necessità di tirare avanti. Il lavoro ha perso completamente quella ascendenza immaginifica della giovinezza, ora per quanto mi riguarda resta solo speculazione. La ricchezza è diventata sostanziale e circostanziata, relativa alla sua essenza e complice dell’immanenza, è il conto corrente, sogno 10 o 20mila euro, nemmeno cifre astronomiche, una quota che mi permetta di prendermi una pausa, respirare ed assaporare un cappuccino al bar con tranquillità.

Temo che le mie forze si stiano esaurendo, i pensieri sempre più negativi, ogni giorno perdo qualcosa, la mia sta diventando una spirale di rancore, ce l’ho vagamente con qualcuno poco identificabile da qua sotto, uno spettro, è un processo del tutto involontario che però ancora posso osservare e neutralizzare, ho gli strumenti per individuare l’emotività distorta e le diseguaglianze sociali, non mi sorprendono per niente i risultati delle elezioni politiche, ci sono tante monadi che hanno bisogno di una risposta, qualsiasi risposta, si abbraccia anche la promessa di un miracolo.

Certe volte, rischiando di sembrare maleducato, domando alle persone con cui entro in confidenza cosa fanno i genitori, da dove vengono, generalmente quando converso con chi abita il mondo della cultura. Da dove venite voi che scrivete qui? Sono preoccupato, escludendo quelli bravi e bravissimi che prima o poi si fanno notare, temo che arrivare a un giornale importante sia diventata solo una questione di censo; quanto puoi mantenerti in una grande città con quello che viene pagato un articolo di 4 o 5mila battute? Quanti altri lavori puoi svolgere ed avere la forza, fisica e mentale, di scrivere? Quanto si può resistere? Chi resiste, credo io, è perché parte da un’altra base economica che gli permette di riversare energie vitali su studio e contenuti, oltre al desiderio di vedere la propria firma fra altre più autorevoli, un desiderio giusto e impegnativo. E il fatto in sé seguirebbe solo la logica classista di ogni altra fottuta occupazione, se non fosse che poi a raccontare le storie, la cronaca, la politica, restano quelli che vengono da una data classe sociale, anche se le “classi”, ripete qualcuno, non esistono più. Avranno queste classi medio-alte la capacità di raccontare e dialogare con il malcontento, la sofferenza, lo svilimento o la sfortuna di chi non ha avuto un’istruzione adeguata, di chi è cresciuto in costrutti socio familiari che non gli hanno permesso di mettere il becco fuori di casa? Si discute continuamente di narrazioni tossiche, il problema sta anche a monte, nel sistema di reclutamento e quindi nel sistema produttivo.Ho divorato Alla linea di Joseph Ponthus (Bompiani), tradotto da Ileana Zagaglia, uno degli affreschi più raffinati sull’indecente condizione operaia (anzi del lavoro) che ho potuto leggere negli ultimi anni, una prosa con il ritmo della catena di montaggio e in cui, a un certo punto, l’autore scrive: «Il silenzio sulle nostre vite sembra d’obbligo/La fabbrica prima di tutto e insieme il nostro reddito mensile». Provo la medesima sensazione di abbandono; hai compiuto ogni dettame che ti era stato suggerito e vaghi, a metà della tua esistenza, in una nebbia fitta, in una provvisorietà incapace di guidarti da qualche parte, di costruire, retta solo dall’urgenza del salario. Qualche giorno addietro i soldi di un bonifico mi hanno permesso di sostituire gli occhiali da vista, ci vedevo più niente, pareggiare un po’ i conti con la mia compagna, saldare qualche debito, mi ritrovo sempre a ragionare sulle centinaia d’euro, le bollette, sempre a fare le pulci alle spese. Vivo in provincia e ho un piccolo mutuo di casa, già è arrivata la comunicazione per la revisione dell’auto, automobile che fa quel che può per tirare avanti, per sostenermi, certe volte ci parlo, la convinco ad accendersi e ad accollarsi le mie necessità, tendo a restituire un’anima a chi mi aiuta pure se non ha cuore ma carburatori, l’unico sollievo è solo l’opzione che potrebbe andarmi peggio. Ho la preoccupazione del giorno in cui mi abbandonerà la lavatrice che inizia a far rumori strani, i grattacapi te li costruisci in anticipo, li materializzi, il dentista lo rimando di continuo, le visite di controllo manco a parlarne. Il malessere cresce, certe volte ravviso più avvantaggiato di me chi si è ritrovato anche solo una casa di proprietà, è uno scarto minimo ma fondamentale specie nelle aree metropolitane, ma è solo un’escalation, dopo diventa importante il tipo di proprietà, la zona, quante stanze, terrazzi. In questa ipertrofia dello sfruttamento, spoglio di coordinate e solidarietà, intercetto privilegi e rendite ovunque a giustificare i miei fallimenti e questo stato di perenne insoddisfazione, di sparizione degli obiettivi e dell’essere, infine di eterna sottomissione.

ARTICOLO n. 85 / 2022

IL MITO DELLA MATERNITÀ

Da bambina ero solita passare le estati nel paese di origine della mia famiglia. Mi piaceva frequentare la casa di una conoscente di nonna: lei chiacchierava con la padrona di casa mentre io vagavo per le stanze, osservando la grande mole di oggetti che all’epoca consideravo insoliti, probabilmente perché erano molto diversi da quelli che ritrovavo nella mia abitazione. Quello che catturava maggiormente la mia attenzione era una medaglia: il ciondolo era sostenuto da una fascia di tessuto su cui erano apposti dei fiocchetti in metallo. Quella dei miei ricordi ne possedeva otto, anche se la loro distribuzione irregolare faceva intuire che uno si fosse staccato nel corso del tempo. Di ritorno da uno di quei pomeriggi, la nonna mi aveva spiegato la storia che si celava dietro la medaglia. Era un riconoscimento che veniva conferito in epoca fascista alle famiglie con più di sette figli. All’epoca – erano gli anni Novanta – mi sembrava impossibile credere potessero esserci donne con così tanti pargoli. L’ambiente familiare intorno a me era molto diverso: la maggior parte delle amiche proveniva da famiglie separate; nella mia, mamma aveva solo un fratello che non vedevo mai perché abitava altrove, papà era figlio unico, in casa, oltre a mia sorella adolescente, l’unica bambina ero io. Mi sembrava strano, inoltre, che mettere al mondo bambini comportasse ricevere un riconoscimento. A dirla tutta mi sembra strano ancora oggi, eppure è proprio su questo livello che si è mantenuta la comunicazione attorno a eventi come il Fertility day o gli Stati generali della natalità. Entrambe le manifestazioni sottolineano i rischi dell’“inverno demografico” – quella condizione in cui l’età media della popolazione si alza mentre diminuiscono le nascite – primo tra tutti la crisi dell’intero sistema di welfare. Il Piano nazionale per la fertilità, documento del 2015 alla base del Fertility day, attribuisce alle donne la responsabilità dell’abbassamento del tasso di fertilità in particolare da quando «sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità». Le donne diventano il capro espiatorio perfetto e i dati vengono usati come una clava per colpire la loro capacità di autodeterminazione, semplificando il discorso e omettendo tutte quelle variabili che potrebbero contribuire a spiegare perché, in un paese come il nostro, si mettano al mondo meno figli.

Effettivamente, le famiglie numerose si sono ridotte drasticamente negli ultimi sessant’anni. Secondo un report Istat, se le donne nate nel 1933 hanno partorito, in media, 2,3 volte, le loro nipoti nate nel 1977 lo hanno fatto 1,4 volte. La flessione del tasso di fecondità è cominciata nell’immediato dopoguerra, e oggi il dato si assesta a 1,25. Ciò significa che la maggior parte delle donne si ferma alla prima gravidanza; crescono inoltre i numeri di coloro che non mettono al mondo alcun figlio. 

Da una parte, questi dati, impensabili una manciata di anni fa, lasciano intendere un cambiamento nei confronti della maternità, che non costituisce più una tappa obbligata nella vita delle donne. L’accesso alla contraccezione ha infatti svincolato la riproduzione dalla sessualità, dando la possibilità alla donna di decidere se e quando diventare madre.

Ciò nonostante, è importante soffermarsi ancora sulle questioni strutturali e culturali che condizionano le scelte personali perché lo scenario è, in realtà, ben più complesso e i numeri da soli non bastano a chiarirlo.

Da un punto di vista culturale, il mito della maternità continua a resistere nonostante sia in atto un tentativo di messa in discussione. Il movimento Childfree è sicuramente la voce che, più di tutte, cerca di scardinare tale concetto. Nato in America sul finire degli anni Novanta, il movimento rivendica il diritto a non mettere al mondo figli e combatte lo stigma che ancora colpisce chi si rifiuta di farlo. La scrittrice e psicoterapeuta Christen Reighter è tra le principali autrici che sostengono le  posizioni Childfree. Invitata al TedX in Colorado nel 2017, ha raccontato il suo lento cammino di consapevolezza unito ai numerosi tentativi, da parte dei suoi interlocutori, di invalidare la sua posizione, tutti incentrati sull’idea che una donna senza figli sia sempre una donna “a metà”, meno femminile, meno realizzata e pertanto più infelice. A partire dagli anni Duemila, in America si sono moltiplicati i libri che difendono la battaglia delle persone childfree; in Italia però il movimento è stato recepito con molta diffidenza e sono ancora poche le donne che accolgono e difendono questa posizione. A tal proposito è importante ricordare l’Associazione Lunàdigas, che dal 2015 ha dato vita a uno spazio in cui combattere stereotipi e tabù inerenti alla maternità. All’interno della pagina Facebook collegata all’Associazione, le autrici Nicoletta Nesler e Marilisa Piga hanno raccolto numerose testimonianze di donne stanche di essere definite “imperfette”, “egoiste” o “cattive” a causa una decisione che, a ben vedere, riguarda esclusivamente la loro vita. Le esperienze sono state raccolte in un webdoc a cui è seguito un film che ha avuto il merito di portare la tematica al centro della discussione anche in Italia, un paese refrattario ad affrontare l’argomento anche a causa della persistenza della morale cattolica che non accoglie positivamente chi sceglie di non far figli.

Stereotipi e tabù, dicevamo. È a causa di questo connubio se la narrazione intorno alla maternità – e di conseguenza nei confronti di chi decide di aderire o no all’ideale – risulta ancora fortemente innervata da visioni parziali e superficiali che rendono difficile discostarsi dal modello preposto. I media e la politica descrivono quest’esperienza come un evento totalizzante, l’unico in grado di dar senso alla vita delle donne. Si tratta di una mistificazione poiché non tiene conto dei tanti risvolti negativi che la maternità possiede, che vanno dalla frustrazione al senso di colpa, dalla fatica all’isolamento sociale.

Mostrare la maternità solo nel suo lato idealizzato significa invalidare le voci di coloro che si sono confrontate con un’esperienza dai contorni mutevoli e complessi, limitando al contempo la loro possibilità di chiedere aiuto, pena l’imbattersi nel biasimo sociale per non riuscire a ricoprire un ruolo che dovrebbe addirittura essere istintivo.

A proposito della questione genetica, nel loro articolo apparso su “Gender sexuality Italy”, le studiose Aura Tiralongo e Giuditta Bassano accolgono l’eco del discorso avviato negli anni Sessanta da Betty Friedman e identificano nella mistica della maternità «la pressione pratica e simbolica che spinge la donna sulla frontiera fra libertà personale e aspettativa sociale, dispensandola dalla scelta del poter stabilire le soluzioni più adatte per sé». Secondo le autrici, è in atto un forte richiamo alla retorica che sostiene l’esistenza di «una natura differenziale dei sessi a cui segue, come diretta conseguenza, una ripartizione dei compiti e dei ruoli sociali sulla base del sesso di appartenenza». 

Quello identificato dalle autrici è atteggiamento che perdura da tempo, almeno dagli anni Settanta, quando il concetto di “orologio biologico”, con cui si identificava il ritmo sonno-veglia, cambia radicalmente significato per riferirsi l’età fertile delle donne. Nel 1978 il giornalista Roger Cohen pubblica un editoriale sul Washington Post dal titolo The Clock Is Ticking For the Career Woman che suona un po’ come un atto di accusa nei confronti del femminismo. L’autore sosteneva che a causa di questa corrente di pensiero le donne avessero perso tempo a compiere azioni da uomini, come dedicarsi alla carriera e allo studio. Secondo Cohen però, esse sono biologicamente diverse e non possono liberarsi di un istinto – quello della maternità – che sarebbe tornato a farsi sentire, diventando però irrealizzabile a causa dell’età avanzata. Apparentemente, dunque, lo scopo dell’articolo è mettere in guardia il genere femminile, invitandolo a non procrastinare quello che sembra essere il più importante evento nella vita di una donna. In realtà, il suo è stato anzitutto il tentativo più profondo di invocare la biologia per intimare loro di non sovvertire l’ordine sociale allontanandosi da un ruolo geneticamente imposto. Cohen incolpa le donne di anteporre le proprie esigenze agli obblighi della maternità. Tuttavia, omette dal discorso le condizioni sociali connesse a questa funzione. 

Nel suo volume Non è un paese per madri, la ricercatrice Alessandra Minello ha voluto approfondire proprio quest’aspetto. Se da una parte «il mito della maternità agisce ancora in maniera capillare e radicata, contribuendo a rafforzare la pressione sociale sul diventare madre», dall’altra le politiche sociali ed economiche che consentono di rendere accessibile e sostenibile la procreazione si sono sfibrate, tanto da diventare inconsistenti. Il lavoro è diventato progressivamente sempre meno compatibile con l’avere figli ed è qui che si manifesta la child penality, ovvero la penalizzazione che subiscono le donne che hanno messo al mondo uno o più bambini. I dati Istat confermano che il tasso di occupazione varia a seconda delle condizioni della donna: l’11% di quelle che hanno almeno un figlio non ha mai lavorato, chi ha bambini in età prescolare fatica maggiormente a conciliare orari e carriera finendo nel giro di poco tempo con il fuoriuscire dal contesto lavorativo per dedicarsi alla loro crescita. Nonostante il tentativo di redistribuire le responsabilità derivanti dal ruolo di cura su entrambi i genitori, esse restano in gran parte sulle spalle delle donne. Per questo, le donne che, nonostante tutto, riescono a rimanere nel circuito lavorativo, sono spesso impiegate con contratti part-time, nella maggior parte dei casi involontari, cioè non scelti dalla dipendente ma imposti dal datore di lavoro.

Lo scenario lavorativo, per una madre, è a tinte fosche. È anche per questo che molte si sono stancate di rimanere imbrigliate all’interno di una narrazione idealizzata, che non corrisponde alla verità, e stanno cercando di metterla in discussione partendo dal proprio vissuto personale. Autrici come Selena PastorinoSerena Marchi o Stefania Andreoli suggeriscono di riflettere sul tema partendo dalla propria soggettività, criticando un mito che ha un solo scopo: mantenere intatti i ruoli di genere a scapito della libertà delle donne. Nel processo di riequilibrio dei ruoli, la riflessione sulla maternità ha un posto centrale: la gender revolution si combatte sul piano interpersonale, decidendo quale posizione assumere dentro e fuori le mura di casa, ma ancora prima a livello personale, osservando quanto libere siano le scelte più intime che compiamo nella vita.

La scelta di procreare o non procreare è profonda, personale e soggetta a numerose variabili, molte delle quali risultano strettamente correlate con i profondi mutamenti (ambientali, sociali, politici) che incidono drasticamente sulla decisione finale. Il tentativo di mettere in discussione il mito della maternità, così come ci è stato tramandato dalle generazioni precedenti, affonda le sue radici proprio qui. Ed espandere le scelte a disposizione delle donne significa anche ampliare le loro possibilità riproduttive. Contrastare l’idea che la maternità sia solo quella del legame biologico e dello spirito di sacrificio significa accogliere tutte quelle donne che hanno costruito la propria capacità generativa in altro modo. Allargare le maglie di ciò che si può considerare ammissibile quando si parla di maternità permette, da ultimo, di rimuovere dal discorso l’ombra lunga della performance: generare (o non farlo) non è come compiere una gara, non ci sono medaglie che ci attendono alla linea di arrivo.

ARTICOLO n. 84 / 2022

MIA MADRE RIDE

Traduzione di Giorgia Tolfo

Pubblichiamo un’anticipazione da Mia madre ride (La Tartaruga), un diario-memoir della cineasta belga Chantal Akerman. Da oggi in libreria. 

Ho scritto tutto e ora non mi piace più quello che ho scritto. L’ho fatto prima, prima della spalla rotta, prima dell’operazione al cuore, prima dell’embolia polmonare, prima che mia sorella o mio cognato mi chiamassero perché le dicessi addio (per sempre). Prima che tornasse a casa a Bruxelles per l’ultima volta. 

Prima che ridesse.
Prima di accorgermi che forse avevo frainteso tutto.
Prima di accorgermi che la mia non era che una visione limitata e inventata. Che non sono capace di altro. Della verità, e nemmeno della mia versione della verità. 

Per ora mia madre è viva e in buona salute. Così dicono tutti, e tutti pensano anche che sia in forze e che non si capisce come abbia fatto a sopravvivere.

Ha male dappertutto, ma i capelli le sono ricresciuti. Un miracolo. Ha ripreso peso. Riesce persino a cavarsela con un braccio rotto. Bisogna ancora aiutarla a vestirsi e a spogliarsi, a tagliare la carne e a spalmare il burro sul pane. E non riesce più ad andare a passeggio da sola, il che è un vero peccato. Per fortuna c’è Clara, che vive con lei, ma dall’altro lato dell’appartamento, così ognuna ha il suo spazio. Clara è messicana. È la sorella di Patricia, la donna delle pulizie. 

A Natale e Capodanno organizzano delle feste e invitano mia madre. Mia madre dice che non le interessano né Natale né Capodanno, ma che le fa comunque piacere essere invitata e che le messicane sanno come creare l’atmosfera, e lei adora una certa atmosfera. Torna a casa da quelle serate con le guance rosse e gli occhi che brillano. 

Ride spesso mentre si lamenta. Sa ancora come divertirsi.

La ascolto ridere. Ride per delle sciocchezze. Sono sciocchezze, ma hanno un grande valore. A volte ride persino al mattino.

Si sveglia stanca, ma si prepara comunque per la giornata. 

Sono tornata da New York per passare qualche giorno con lei. 

E non so come mai o perché, ma mi lascia vivere così come sono.

Sembra che il mio disordine non la disturbi più. Sembra che non lo noti nemmeno. Lo accetta. Mi accetta come sono. Non è stato sempre così, ma da quando ha visto la morte avvicinarsi e l’ha scampata, è cambiata. Riconosce cosa è importante e che cosa non lo è, e mi accetta. 

A volte mi racconta ancora di quando sono nata e del fatto che non potessi poppare il suo latte e di come fosse terribile stare a guardare la propria figlia indebolirsi. Un giorno però ha trovato un tipo di latte che potevo bere. Chissà cosa sarebbe successo se non lo avesse trovato. 

Poi ride.
Adoro ascoltare la sua risata.
Dorme molto, ma ride. Si diverte. Poi dorme.

Ha persino accettato la sua età. Sa che deve dormire al centro del letto per non cadere durante la notte. Sa che deve lasciare una luce accesa nel corridoio che porta al bagno. Sa che c’è una persona che dorme dall’altro lato della casa, non troppo lontano, in caso di bisogno. Sa tutto questo e le va bene. Le piace. Le piace vedere apparire Clara. Le piace parlare e ridere con lei. Sembrano due amiche che si conoscono da sempre.

È stata un’idea di mia sorella. Ha capito che mia madre non ce l’avrebbe fatta a continuare a vivere da sola, così Clara è venuta in Belgio con lei e per ora sta andando tutto bene. 

Le piacciono i messicani, cioè la sorella di Clara e i due figli che ogni tanto vengono a trovarla e si fermano a mangiare con lei. Sono calorosi e ridono con lei. La fanno star bene bene. La fanno stare così bene che non riesce a starne senza. D’altronde, le è sempre piaciuto avere ospiti. Persino l’idraulico che è venuto con la figlia. Avevo trascorso la notte intera a svuotare secchi perché dall’appartamento al piano di sopra veniva giù acqua. È stato un vero e proprio evento, e lei ne è andata pazza, benché si chiedesse perché fosse successo e si ripetesse che il palazzo stava invecchiando male e che sperava che non le sarebbe costato troppo perché viveva con poco e se avesse dovuto pagare le riparazioni oltre a tutto il resto non avrebbe saputo cosa fare. 

Sa che può contare sulle figlie, ma non lo fa volentieri. Non le piace chiedere. Vuole cavarsela con quello che ha. Che è poca cosa. Ha lavorato a lungo per mio padre, ma non era sull’elenco della busta paga. Perciò se la deve sbrogliare con la pensione tedesca e con quella da prigioniera di guerra. E con un appartamento che mio padre mi ha comprato perché avessi qualcosa. 

A volte l’appartamento lo affittiamo per ricavare qualcosa in più, ma non molto perché non è in buono stato e dunque non ci perdiamo tempo. 

Quando l’idraulico è arrivato con la figlia, si è talmente innamorata di quella bambina con le trecce da esserne sopraffatta. Era una scena così bella e la bambina era calma e sorridente. Mia madre le ha dato del succo d’arancia.

L’idraulico ha fatto un rumore terribile con un attrezzo speciale per sturare i tubi, ma ha risolto il problema e non ho più dovuto passare la notte col secchio. 

L’idraulico le ha detto che il problema si sarebbe potuto ripresentare perché i tubi erano vecchi. Mia madre ha detto vedremo. Ogni cosa a suo tempo. Si è detta che se succederà tra dieci anni allora dovrà essere mia sorella a occuparsene perché io non ho senso pratico. Eppure ero stata io a chiamare l’idraulico a Natale e l’idraulico è venuto. Ha riso.

Fa fatica a uscire dal suo appartamento. Non esce quasi più quindi non parla d’altro che di questo, cioè di uscire, ma fuori è scuro e umido, è inverno. E sa che essendo stata così debilitata l’umidità le può far male. Ma anche quando è meno umido, il che a volte succede a Bruxelles a dicembre, lei non esce. 

Va solo in terrazza e si ferma là. Guarda il giardino desolato del piano terra, guarda il gatto, guarda il cane. Vede la sdraio che si è ribaltata per il vento che quando soffia si tira dietro tutto. Ma a parte questo non c’è nessuno in giardino. I bambini non ci sono più. Sono sicuramente dentro. Quando tornerà la primavera li rivedrà e sarà felice. Aspetta la primavera. Sa che arriverà e sa che sentirà gli uccelli volare. Li adora. 

Io non ci riesco. Non riesco ad aspettare la primavera. Sono immersa nell’inverno con le sue nuvole scure e pesanti che non sembrano mai andare via.

Mi sembra che stia per finire, ma non finisce.

Non so che cosa farò, dove andrò a vivere o se andrò da qualche parte. Ma so che andrò a Parigi, nel mio appartamento. Ho un appartamento. Un posto tutto mio. Si dice così, un posto mio. 

Ma non sento di avere un posto mio, o un posto in generale. Un posto dove sentirmi a casa. 

A volte mi dico andrò in hotel, sarà il mio rifugio lontano da casa e là potrò scrivere. 

Ho riletto tutto quello che ho scritto e mi ha profondamente delusa. Ma cosa ci posso fare, l’ho scritto. Eccolo qua.

A volte mi dico che se lo riprendo in mano forse mi deluderà meno. Ma nei mesi in cui non sono riuscita a fare nulla ho continuato a ripetermi presto ricomincerò a scrivere, o riprenderò quel che ho cominciato e tutto andrà per il meglio.

© 2022 Baldini+Castoldi s.r.l. La Tartaruga 

ARTICOLO n. 83 / 2022

LA SCRITTRICE CHE SONO STATA: AMORE, BUDDISMO E IL BEAT

intervista di George Yancy

Apriamo, con un’intervista al New York Times di George Yancy del dicembre 2015, il nostro speciale dedicato a bell hooks. Di settimana in settimana lo arricchiremo con approfondimenti, letture e inediti. 

George Yancy: Negli anni hai usato l’espressione «patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco» per descrivere la struttura di potere che sta alla base del nostro ordine sociale. Perché unire tutti questi termini, anziché prenderli in considerazione uno alla volta?

bell hooks: Non si può pensare di capire la natura della dominazione se non si comprende come questi sistemi sono connessi l’uno all’altro. In particolare, questa espressione mi ha sempre colpito perché non dà più valore a un sistema rispetto a un altro. Per tanti anni, nel movimento femminista, le donne hanno dichiarato che il genere è l’unico tratto identitario che importa davvero e che la dominazione, nel mondo, si è affermata tramite lo stupro. Poi sono arrivati i sostenitori della razza, che invece dicevano: «È la razza la cosa davvero importante. Non serve a niente parlare di classe o di genere». Per me, quindi, quell’espressione è un rimando a un contesto globale, al contesto del classismo, dell’imperialismo, del capitalismo, del razzismo e del patriarcato. Sono tutti elementi collegati tra loro in un sistema interconnesso. 

G.Y. Ti ho sentito parlare diverse volte e mi sono reso conto che hai uno spiccato senso dell’umorismo. Che ruolo ha lo humour nel tuo lavoro?

b.h. Non può esserci una vera rivoluzione senza umorismo. Ogni volta che la sinistra o qualunque altra parte politica cerca di fare dei passi avanti verso politiche più radicali e non ci mette dell’ironia, fallisce. L’umorismo è fondamentale per raggiungere quell’equilibrio di integrazione necessario a gestire la diversità e le differenze che emergono quando si crea una comunità. Per esempio, adoro le conversazioni con Cornel West: tra grandi alti e bassi, con lui allegria e umorismo non mancano mai. Nel nostro ultimo intervento pubblico, molte persone sono rimaste contrariate perché abbiamo fatto gli scemi. Personalmente, considero una santa vocazione il poter essere spiritosi assieme. Quando mai capita di vedere due afroamericani, uomo e donna, che conversano, criticandosi a vicenda ma con grande ironia e piacere? È un miracolo.

G.Y. Che ne pensi del movimento femminista oggi, e com’è cambiato, nel tempo, il rapporto che vi lega?

b.h. Il mio impegno militante verso il femminismo è ancora molto forte, soprattutto perché il femminismo è stato il principale movimento sociale contemporaneo a promuovere la capacità di mettersi in discussione. Quando noi donne di colore abbiamo cominciato a dire alle donne bianche che quello delle donne non era un gruppo omogeneo, ma che bisognava affrontare la realtà delle differenze razziali, molte di loro si sono date subito da fare. Oggi sono una femminista solidale con le donne bianche proprio per questa ragione, perché ho visto come non hanno esitato ad aprire la propria mente e a cambiare radicalmente la direzione del pensiero, degli scritti e dell’azione femminista. Per me questo è ancora uno degli aspetti più straordinari e degni di nota del movimento femminista contemporaneo. La sinistra non ha fatto niente di tutto questo, i neri radicali neppure, nessuno è arrivato a dire: «Guardate, le vostre idee, la vostra ideologia, è impostata nel modo sbagliato. Dovete cambiare prospettiva». Il femminismo è riuscito a fare questo cambio di paradigma, seppur non senza ostilità, non senza che qualche donna avesse la sensazione che quella della razza fosse una forzatura. È un cambiamento che ancora mi sconvolge.

G.Y. Che cosa possiamo fare nelle nostre vite quotidiane per combattere il potere e l’influenza di quello che tu chiami patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco? Cosa si può fare nella pratica?

b.h. Io abito in una cittadina a maggioranza bianca della Bible Belt. Invece di pensare: «Che cosa farebbe Gesù?», mi chiedo sempre: «Cosa si aspetterebbe da me Martin Luther King, oggi?». Poi mi dico che Martin Luther King vorrebbe che mi aprissi al mondo e che, in qualunque modo possibile, grande o piccolo, contribuissi a costruire una comunità degna d’amore. Come cristiana buddista, poi, penso al detto del monaco buddista Thich Nhat Hanh: «Un sasso lanciato nell’acqua non arriva lontano, ma le onde che forma sì». Ogni giorno quindi mi ripeto: «Che cosa stai facendo, bell, per creare la tua beneamata comunità?». Perché sotto sotto, localmente, persiste l’idea che devo essere parte fondamentale del mondo in cui vivo. Stamattina sono stata al mercato agricolo e al mercatino di beneficienza della chiesa. Mi sforzo sempre di entrare in contatto con le persone, sì, anche persone con cui posso non essere del tutto a mio agio. Ci sono parecchi bifolchi bianchi del Kentucky che mi guardano con disprezzo. Ma non mi faranno cambiare idea. Sto facendo la stessa cosa che facevano gli attivisti per i diritti civili, quei bianchi e quei neri che hanno organizzato manifestazioni e si sono seduti insieme nelle tavole calde.

È questione di umanizzazione. Non riesco a pensare a un altro modo per uscire dalla crisi dell’odio razziale, se non tramite la volontà di umanizzare. Per quanto mi riguarda, traggo grande forza dalle immagini dei movimenti sociali che vedono la partecipazione congiunta di persone di colore e bianche. Selma non mi è sembrato granché come film, ma mi ha dato forza pensare a tutte quelle persone, quei bianchi che lo vedono e pensano: «Buon Dio, che ingiustizia! Andiamo a fare la nostra parte». Sentirsi chiamati a una causa è meraviglioso. Spesso, in questa vita che mi ritrovo, mi capita di chiedermi: «Per cosa saresti disposta a dare la vita, bell? In quali circostanze scenderesti in strada sapendo di esporti a un rischio concreto?». Pensare a cosa sono state in grado di fare quelle anziane donne nere a Selma, in Alabama, serve a ricordarci quanto questa storia di lotte sia stata fondamentale per consentirci di vivere nella condizione di privilegio in cui ci troviamo oggi.

G.Y. Quest’ultima considerazione mi riguarda da vicino, soprattutto se penso alla mia identità intellettuale e al fatto che spesso mi dimentico di riflettere sul privilegio che la accompagna.

b.h. Ah, io sono una vera intellettuale. Alla gente dico che il lavoro intellettuale è il laboratorio in cui vado ogni giorno. Senza tutte le persone che si sono impegnate nella lotta per i diritti civili, però, non sarei qui. Insomma, quante donne nere hanno avuto la fortuna di scrivere più di 30 libri? Quando mi sveglio, alle 4 o alle 5 del mattino, mi dedico alla preghiera e alla meditazione, poi ho quelle che definisco le mie “ore di studio”. Cerco di leggere un libro al giorno, sempre di saggistica, poi posso dedicarmi a qualunque tipo di spazzatura per il resto della giornata. Il mio è un lusso, un privilegio di ordine supremo: il privilegio del pensiero critico, di poter agire su ciò che si sa.

G.Y. Chiaro. Hai detto che la teoria può diventare un luogo di guarigione. Puoi elaborare meglio il concetto?

b.h. Parto sempre dai bambini. La maggior parte dei bambini sviluppa una capacità di pensiero critico eccezionale, prima che noi li silenziamo. Nella sostanza, penso che la teoria non sia altro che un modo per dare senso al mondo: da bambina talentuosa cresciuta in una famiglia disfunzionale, dove il talento non era apprezzato, sono riuscita a tirare avanti chiedendomi: «Perché mamma e papà sono fatti così?». Domande che costituiscono l’essenza stessa del pensiero critico. Per questo sono convinta che quella forma di pensiero, insieme alla teoria, possa essere fonte di guarigione. Ci aiuta ad andare avanti. Ovviamente, poi, non so come funzioni per altri scrittori o pensatori, ma ho la fortuna di avere persone che mi contattano ogni giorno, per posta o fermandomi per strada, per dirmi che il mio lavoro gli ha cambiato la vita, le ha aiutate ad andare avanti. Cosa ci può essere di più bello per una pensatrice e teoreta?

G.Y. Come fai a non lasciarti sedurre da tutto questo? Penso che gli intellettuali, gli studiosi più noti, siano molto tentati a ricadere nel narcisismo. Tu come fai a resistere?

b.h. Innanzitutto, vivo in una città di 12.000 abitanti, molti dei quali non hanno neanche idea di chi sia bell hooks, tanto che c’è chi chiede: «Ma bell hooks è una persona?». La mia è una vita abbastanza modesta, perché uno dei vantaggi di avere un altro nome, Gloria Jean, un nome da vera bifolca degli Appalachi, è che non me ne vado in giro tutti i giorni come bell hooks. Vivo la mia vita quotidiana da banalissima Gloria Jean. Anche se ultimamente le cose hanno iniziato a cambiare, perché sto cominciando a farmi conoscere come artista, scrittrice e pensatrice anche nel mondo della piccola cittadina in cui vivo.

Penso che questa mia popolarità sia dovuta al fatto che nel mio lavoro scrivo di spiritualità, uno degli aspetti fondamentali che mi hanno tenuto con i piedi per terra nella vita. Da piccola, quando mia mamma mi ripeteva: «Sarai anche tanto intelligente, ma non sei meglio degli altri», mi chiedevo: «Perché mi dice queste cose?». Oggi, ovviamente, l’ho capito. Era per farmi rimanere con i piedi per terra, per fare in modo che continuassi a rispettare le tante vie del sapere, le conoscenze altrui, senza pensare: «Oh, io sono più intelligente», come credo possa capitare a tanti intellettuali famosi.

Mi viene sempre da ridere nel sentirmi definire un’intellettuale sociale. Rido perché un tempo la gente mi chiedeva: «Come hai fatto a scrivere così tanto?» e la risposta era: «Non ho avuto una vita». Non c’è proprio niente di sociale nell’energia, nella disciplina e nella solitudine che servono a scrivere così tanto. Per me gli intellettuali sociali sono qualcosa di molto diverso, perché usano le loro opere per interagire con un pubblico. Nei tanti anni in cui mi sono dedicata a scrivere, io non ho mai avuto questa intenzione. Volevo solo produrre delle teorie che la gente potesse utilizzare. C’è un’espressione che uso: “lavorare sull’opera”. Se qualcuno viene da me con un libro di bell hooks tutto stropicciato, con sottolineature su ogni singola pagina, so che ha “lavorato sull’opera”. Ed è esattamente quello che voglio.

G.Y. C’è qualche correlazione tra l’insegnamento come spazio di guarigione e la tua concezione dell’amore?

b.h. Beh, sono fermamente convinta che l’unico modo per liberarsi della dominazione sia l’amore e che l’unico modo per poter entrare davvero in contatto con gli altri, e per sapere come fare, sia partecipare a ogni aspetto della propria vita come a un sacramento d’amore. Incluso l’insegnamento. Ormai non insegno più molto. Sono praticamente in pensione. Come ogni atto d’amore, anche l’insegnamento assorbe parecchie energie.

Ho appena parlato con uno dei miei vicini di che effetto faccia lavorare per un’università come Berea, in cui le rette sono coperte da borse di studio e molti studenti vengono dai colli Appalachi. A volte tendiamo a farci scoraggiare dall’idea che un’istituzione del genere non riesca a essere all’altezza della sua storia di integrazione e inclusione razziale, ma poi vediamo che alcuni dei nostri studenti fanno cose davvero straordinarie, dalla Virginia come dal Tennessee. Insomma, sono esattamente dove dovrei essere, a fare ciò che devo fare, e a dare e ricevere l’amore che emerge ogni volta che riusciamo a fare bene il nostro lavoro.

G.Y. Nella tua concezione, l’amore è l’opposto dell’alienazione. Cosa puoi dirci in proposito?

b.h. Se si pensa all’amore, all’amare come azione, non si può agire senza creare una connessione. Mi capita spesso di pensare alla frase “solo connettere”.[1] In termini di suprematismo bianco, per esempio, qualche settimana fa un poliziotto mi ha fermato, qui a Berea, perché avevo commesso un’infrazione. La mia prima reazione è stata di paura, e mi è venuto da pensare che negli oltre 60 anni che ho vissuto qui [negli Stati Uniti] non ho mai avuto paura dei poliziotti, invece adesso sì. Quello che mi ha fermato è stato gentilissimo. Eppure, a me è venuto da pensare a quanto deve essere cambiata in peggio la nostra società per arrivare a un simile livello di alienazione, mai visto prima.

So che uomini e donne di colore hanno sempre vissuto esperienze essenzialmente diverse, ma da quando ero bambina a oggi non ho mai pensato che i poliziotti potessero essere miei nemici. Tuttavia, a quale donna nera, dopo gli sconcertanti abusi inflitti a Sandra Bland, non tremerebbero le ginocchia nel vedersi fermare dalla polizia? Mentre guardavo quel video, mi aspettavo quasi che i poliziotti le sparassero lì sul posto. I suprematisti bianchi sono fuori di testa.

Una volta parlavo del patriarcato come di una malattia mentale legata alla disfunzionalità del desiderio, ma il suprematismo bianco è una malattia mentale altrettanto seria e profonda, che porta a fare cose completamente folli. Penso che uno dei problemi della nostra società sia che tende a normalizzare le malattie mentali, quindi anche il suprematismo bianco, e che il suo emergere e la sua diffusione siano parte integrante di tale malattia mentale.Ricordiamo che la nostra è una cultura in crisi. Parlo di una crisi spirituale, oltre che politica: per questo Martin Luther King Jr. è stato così preveggente nel sostenere quanto il potere dell’amore fosse importante per avere un effetto davvero rivoluzionario.

G.Y. Eppure, questo non significa che nel tuo lavoro non ci sia posto anche per la rabbia, come nel libro Killing Rage, no?

b.h. Sì, certo. La prima volta che ho incontrato Thich Nhat Hanh, non vedevo l’ora di conoscerlo. Continuavo a ripetermi che finalmente sarei riuscita a incontrare quell’uomo tanto devoto. Il giorno in cui sono andata da lui, a ogni passo mi sembrava di incappare in un qualche episodio di razzismo o sessismo. Quando sono arrivata lì, la prima cosa che mi è uscita di bocca è stata: «Sono così arrabbiata!». Lui, l’emblema della calma e della tranquillità, mi ha risposto: «Allora tieniti stretta la tua rabbia e usala per concimare il tuo giardino». E io mi sono detta: «Sì, ha ragione, ce la posso fare!». Racconto questo aneddoto ogni volta che posso. Gli ho spiegato delle difficoltà che avevo con il mio compagno di allora e lui ha risposto: «Si può dire a qualcuno che lo si vorrebbe ammazzare, ma poi è importante fare un passo indietro e ricordare cosa ci ha fatto gravitare verso quella persona in prima battuta». Trovo che pensare alla rabbia come a un concime aiuti a concepirla come un’energia che può essere riutilizzata per fare del bene, capace di darci forza. Se non la si concepisce così, si rischia che diventi una forza debilitante e distruttiva.

G.Y. Dato che hai citato Sara Bland e che ci sarebbero tanti altri casi da menzionare, come possiamo sfruttare il trauma che stanno vivendo le persone di colore, o trasformare quel trauma in concime? Come possono riuscirci i neri? Come ci si può riuscire a livello terapeutico o collettivo?

b.h. Bisogna voler essere sinceri. E per essere sinceri bisogna dire che il problema che si trovano ad affrontare le persone di colore, il trauma del suprematismo bianco nelle nostre vite, non si limita alla brutalità della polizia. Quello è semplicemente uno dei tanti aspetti. Ripeto sempre che il problema, per i giovani ragazzi neri, è la strada. Se non hai nient’altro che quello, attorno a te c’è solo violenza: la violenza dei neri contro i neri, la violenza delle dipendenze, la violenza della polizia. Perciò la domanda è, in questo momento della storia, con tanti neri facoltosi e tanti neri di talento, come facciamo a dare ai maschi neri un posto che non sia la strada? Parlo dei maschi perché la strada, in un patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco, è degli uomini, soprattutto quando fa buio. La sensazione di spaesamento va ben oltre il trauma del razzismo. È il trauma del patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco, perché la povertà è diventata infinitamente più violenta di quando ero bambina. Allora si viveva accanto a persone di colore molto povere, che però avevano vite felici. Oggi la povertà non è più così.

G.Y. Che cosa è cambiato?

b.h. Ammettiamolo: insieme all’integrazione, i bianchi ci hanno aperto le porte della tormentosa realtà del desiderio e dell’idea di un consumo costante. Parte della differenza tra la povertà di ieri e di oggi è legata a fantasie irrealizzabili, all’idea che prima o poi si vincerà alla lotteria, che i soldi arriveranno. Penso spesso alla madre di Lorraine Hansberry che, in A Raisin in the Sun, dice: «Da quando i soldi sono diventati la nostra vita?». Credo che, nella povertà della mia infanzia, in cui sono cresciuta e che mi circondava, la sensazione fosse sempre che il denaro non era tutto nella vita. Oggi, invece, le cose sono molto diverse, perché la maggior parte della gente, nella nostra cultura, crede che i soldi siano tutto. Il principale legame tra neri, bianchi, ispanici, nativi e asiatici è l’avidità, il materialismo su cui tutti investiamo e che condividiamo.

G.Y. Nel sentirti dire così, già mi vedo i lettori dire che bell patologizza gli spazi dei neri.

b.h. Come ho già detto, questa società ha normalizzato la malattia mentale. Perciò non sto patologizzando gli spazi dei neri, sto dicendo che la maggior parte degli spazi culturali nella nostra società è pervasa da questa patologia. È per questo che è così difficile uscirne, perché è parte della cultura che ci viene propinata ogni giorno. Nessuno di noi può sfuggirle, se non vivendo e amando con coscienza, cosa sempre più difficile per tutti. Non mi faccio certo problemi a dire che i traumi provocano delle ferite e che la maggior parte delle nostre ferite, come afroamericani, non è stata ancora sanata. In questo senso non siamo poi così diversi da tutte le altre persone che sono state ferite. Ma diciamocelo: i bianchi, se feriti, spesso riescono a nasconderlo meglio perché hanno maggiore accesso al potere materiale.

Trovo affascinante che ogni giorno uno possa andare al supermercato, guardare le persone, guardare noi e poi vedere i mass media che non fanno altro che sbandierare i dolori e i problemi mentali dei bianchi ricchi nella nostra società. È come se tutti accettassero di passarci sopra. Nessuno si chiede mai: «Perché non patologizziamo i ricchi?». Siamo davvero convinti che siano affetti da malattie mentali e come tali meritino di essere curati. Il problema di noi neri è che pochissime persone credono che meritiamo di essere curati, per cui i sistemi capaci di promuovere questo tipo di cure nelle nostre vite scarseggiano. Il sistema che più promuove l’idea di guarigione tra le persone di colore è la Chiesa, ma sappiamo tutti cosa succede in gran parte delle chiese, oggi. Sono diventate un’estensione dell’avidità materiale di cui parlavo prima.

G.Y. Mentre raccontavi di quando sei stata fermata dalla polizia, mi è venuto in mente il tuo libro Black Looks: Race and Representation, in cui parli della bianchitudine come fonte di terrore. È ancora così?

b.h. Penso che sia ancora così per la maggior parte delle persone di colore. Un saggio, in particolare, Representation of Whiteness in the Black Imagination, parla della bianchitudine, dell’immaginario dei neri e di come molti di noi vivano nel terrore dei bianchi. Ho voluto sottolineare la storia del poliziotto perché in molti di noi questo terrore si è solo intensificato. Penso che la maggior parte dei bianchi non pensi neppure che le persone nere possano volere degli spazi riservati ai neri perché altrimenti non si sentono sicure.

Nel mio ultimo libro, Writing Beyond Race: Living Theory and Practice, ho davvero voluto sollevare la questione, problematizzandola: Dove ci sentiamo sicure, noi persone nere? A me viene sempre da tornare alla casa come luogo di possibilità spirituale, alla casa come luogo sacro.

Ho comprato la casa in cui vivo da un uomo bianco, conservatore e capitalista che abita dall’altra parte della strada e non potrei esserne più felice. Spesso dico che, quando apro le porte della mia casetta, è come se ne uscissero delle braccia che mi stringono in un abbraccio. Credo che tutto questo sia parte della nostra resistenza radicale alla cultura della dominazione. So che quell’uomo di certo non si immaginava una come me in quella casa. Si immaginava una bella famiglia bianca con due bambini e credo che per certi versi per lui sia stato davvero difficile vendere casa sua a una donna di colore radicale, una nera radicale e femminista. Penso che tutti noi, se amiamo la nostra casa, ci facciamo un’idea di chi ci piacerebbe vederci vivere dentro. Ma credo che i neri, di qualsiasi classe, in generale, debbano riappropriarsi di quel senso di resistenza a partire dalla casa.

Se si pensa alla storia di coloro che hanno lottato contro il razzismo, tra i neri, gran parte dell’attività organizzativa avveniva nelle case. Mi viene sempre in mente Mary McLeod Bethune: «Iniziate l’università dalle vostre stanze». L’autodeterminazione parte dalle nostre case. È sempre più evidente che una delle ragioni del fallimento di tanti movimenti neri di lotta al razzismo è che non hanno mai considerato la casa un focolaio di resistenza. Ci siamo ritrovati con persone profondamente ferite che cercavano di organizzare dei movimenti in un mondo esterno a quello della casa, ma che in sostanza non erano nelle condizioni psicologiche adatte a essere dei capi.

G.Y. Ecco, a questo proposito passerei a una domanda sulla tua idea di “cura dell’anima” negli uomini di colore. Cosa comporta curare l’anima degli uomini di colore? E che ruolo pensi che svolgano le donne di colore nell’aiutarli?

b.h. Di tanto in tanto, George, mi capita di scrivere un libro che passa quasi inosservato. Tra questi ce n’è uno che parla proprio della mascolinità nera: We Real Cool: Black Men and Masculinity. Uno dei capitoli più toccanti di quel libro è quello in cui uso la metafora di Iside e Osiride. Osiride viene attaccato e smembrato, i pezzi sparsi ovunque. Iside, madre, sorella e amante severa, va a recuperarne le membra e le rimette insieme. Quella metafora di attrito e armonia che può essere la cura dell’anima per le persone di colore è estremamente reale per me. A volte mi rattristo perché credo che la nostra cultura abbia la tendenza a tenere uomini e donne di colore ancora più lontani gli uni dagli altri, anziché farci incontrare in un luogo di storia condivisa, di passato condiviso.

Sono molto grata per gli amici maschi neri che ho nella mia vita. Come tante donne in carriera nere, non ho un compagno. Mi piacerebbe averne uno, ma sono grata di avere amici e sodali di colore affettuosi e consapevoli, che mi trattengono dall’integrare la mascolinità nera, circondandomi di una neritudine piena d’amore.

Rapporti come questi sono molto preziosi. Sono i momenti più costruttivi della nostra epoca, ma non vengono trasmessi in televisione. Quando Malcom X ha detto che dobbiamo guardarci l’un l’altro con occhi nuovi, penso sia lì che inizia l’autodeterminazione e la capacità di rapportarci gli uni agli altri. Diciamocelo, troppi uomini e donne di colore hanno sofferto di un totale abbandono dal punto di vista mentale e, più che la brutalità della polizia, per molti di noi è quella la fonte principale del trauma. Il tradimento ha sempre a che fare con l’abbandono. E molti di noi sono stati abbandonati emotivamente. Queste sono le ferite che è importante curare a dovere per consentire davvero ai bambini neri e birazziali di potersi prendere cura di sé nella maniera migliore per tutti.

G.Y. Le tue pratiche buddiste e le tue pratiche femministe si consolidano a vicenda? Se sì, come?

b.h. Ah, posso dire che la mia pratica da cristiana buddista per me è una sfida continua, al pari del femminismo. Ma il buddismo è una fonte di ispirazione continua perché c’è molta enfasi sulla pratica. Che cosa fai? Retta sussistenza, retta azione.[2] Siamo tornati a quel mettersi in discussione che è fondamentale. È buffo che tu abbia tracciato un collegamento tra buddismo e femminismo, perché credo che una delle questioni su cui più mi trovo a riflettere in questa fase della mia vita sia in quale misura i valori etico-spirituali essenziali abbiano costituito le fondamenta della mia esistenza. Fondamenta che mi derivano sia dal buddismo sia dal cristianesimo, mentre il femminismo è stato ciò che, da giovane donna, mi ha aiutato ad arrivarci e ad apprezzarli. La spiritualità per me è arrivata tramite l’amore per la poesia Beat. Sono giunta al buddismo tramite la generazione Beat, tramite Gary Snyder e Jack Kerouac, che mi hanno concesso uno spazio dove mettere radici.

Oggi parlo di spiritualità più di quanto non abbia mai fatto prima perché vedo i miei studenti soffrire più di quanto non sia mai accaduto prima, specialmente le studentesse, che hanno la sensazione di dover soddisfare delle aspettative esagerate. Da un lato devono essere uguali agli uomini ma dall’altro, se eteronormative, devono dimostrarsi sottomesse, devono trovare un partner. Ci si aspetta così tanto da loro che in molti casi si lasciano andare alla depressione, alla tossicodipendenza o al suicidio. La spiritualità, invece, è in grado di dare loro delle basi solide.

Il femminismo non è tra i miei fondamenti. La base della mia vita è la disciplina derivata dalla pratica spirituale. Se vogliamo parlare di che scrittrice disciplinata sono stata e vorrei continuare a essere, quella disciplina mi deriva dalla pratica spirituale. Una pratica da ripetere ogni singolo giorno, ancora e ancora.


[1] Riferimento alla frase cardine del volume Casa Howard, di Edward M. Forster, qui riportata nella traduzione di Lucia Chiarelli (Feltrinelli, Milano 1997). [N.d.T.]

[2] Precetti V e IV del “nobile ottuplice sentiero” del buddismo. [N.d.T.]

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 82 / 2022

GLI EFFETTI DELLA MEDITAZIONE

Descrivere un proprio stato interiore richiede capacità letterarie fuor dal comune – che sia il deflagrare di un innamoramento, l’ascesa del prurito dopo una puntura, l’appiccicore che decanta sul viso quando è sudato; trovare le parole per riferire sensazioni la cui natura è ondivaga non è affatto facile. Lo sapeva Marcel Proust, maestro in questa difficile arte, quando scrisse che «quel che noi crediamo il nostro amore, la nostra gelosia, non è la medesima passione continua, indivisibile. Essi sono composti di un’infinità d’amori successivi, di gelosie diverse ed effimere, che tuttavia per la loro moltitudine ininterrotta danno l’impressione della continuità, l’illusione dell’unità». Se narrare la più semplice delle esperienze quotidiane è complesso, non stupisce l’imbarazzo di mistici e mistiche di qualunque epoca e tradizione nel comunicare l’ineffabile natura della propria esperienza, che travalica a tal punto il linguaggio da rendere inadeguato anche il silenzio. Ecco come “fallisce” una delle autrici del Novecento la cui prosa forse si avvicina di più a esprimere il mistero, Clarice Lispetor:

Dovrò forzarmi a tradurre segnali telegrafici – tradurre l’ignoto in una lingua che ignoro, e senza neppure capire a cosa corrispondono i segnali. Parlerò in quel linguaggio sonnambulo che se io fossi sveglia non sarebbe linguaggio. […] Io mi domando: se osserverò l’oscurità alla lente, cosa potrò vedere più dell’oscurità? La lente non dissipa le tenebre, non fa che rivelarle maggiormente. E se osserverò la chiarità alla lente, potrò appena in una lacerazione vedere la chiarità più intensa. Ho intravisto, eppure sono cieca come prima poiché ho intravisto un triangolo incomprensibile. A meno che pure io non mi trasformi nel triangolo che riconoscerà nell’incomprensibile triangolo la mia stessa fonte e il mio doppio.

Analizzare e descrivere gli effetti della meditazione è un compito difficile, ma questo non significa che non siano stati fatti moltissimi tentativi nel corso dei millenni. Tra le più celebri tassonomie dell’Occidente mi viene in mente il Il castello interiore di Santa Teresa d’Avila, che divide in sette fasi (dimore) l’ascesa dell’anima verso Dio, o le tre vie di Giovanni della Croce (purgativa, illuminativa e unitiva), passaggi indispensabili per chiunque voglia giungere al divino. Anche Bonaventura enumera alcuni gradini del percorso spirituale, per la precisione sei, e li chiama potenze: il senso, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza, l’apex mentis o scintilla della sinderesi. È però a Oriente che sono state intrecciate le mappe più intricate, soprattutto nella tradizione Buddhista, con i suoi quattro jhana, degli stadi della meditazione cui poi seguono altri quattro, e che tutti assieme fanno parte dell’ottava fase dell’ottuplice sentiero, un percorso etico, pratico e spirituale per ottenere la liberazione – ho molto semplificato, ma basta per capire che ai buddisti le classificazioni piacciono moltissimo. Va inoltre ricordato che questi stadi non sono mai esperiti in ordine lineare né sono da intendere come mete, che nella meditazione non si raggiungono ma si perdono. E che, come ho scritto altrove, di meditazioni ne esistono moltissime, ognuna con le sue peculiari caratteristiche e fasi, che a loro volta interagiscono con l’ampia varietà delle costituzioni individuali, anch’esse in preda a oscillazioni quotidiane, o, per essere più esatti, in ogni istante percepibile.

Per omaggiare questa passione tassonomica che attraversa i millenni propongo una lista anch’io, non tanto per dividere gli stadi della meditazione quanto per ordinare i suoi effetti. Li raggruppo dunque in effetti psicologici, ovvero quelli che influenzano il comportamento a medio e lungo termine, così come lo stato soggettivo di chi medita durante e dopo la pratica; neurologici, ovvero quegli stati fisici misurabili che sottostanno agli effetti psicologici; esistenziali, che non voglio ridurre a quelli psicologici, perché sebbene si tratti anche qui di comportamenti e stati mentali, afferiscono a una visione globale dell’esistenza, che fa da sfondo, illumina o adombra qualunque esperienza. Potrei chiamarli “spirituali”, ma questa espressione si è usurata negli anni ed evoca – spesso ingiustamente – atmosfere New Age ingenue e non di rado antiscientifiche.

Iniziamo dunque dagli effetti psicologici; la prima difficoltà che incontriamo alla loro ricerca è piuttosto ovvia: a quale meditazione riferirsi? E a che tipo di praticanti, esperti, principianti, o ambedue? Nonostante varie convergenze, infatti, è facile immaginare che i risultati mutino in base all’esperienza, al metodo utilizzato e alla cornice culturale di riferimento, al punto da rendere poco attendibili le generalizzazioni – i limiti della philosophia perennis diventano più evidenti non appena ci proponiamo uno studio scientifico. Da un punto di vista quantitativo, la maggior parte delle ricerche ruota attorno alla mindfulness e alla meditazione buddista, di cui la prima è una derivazione (e semplificazione) ed è dunque più difficile esprimersi in merito ad altre forme di meditazione, come quella cristiana, che è molto meno studiata. Ciononostante, nelle ricerche psicologiche è possibile individuare delle invarianti che ci permettono di azzardare una lista di possibili vantaggi di questa prassi, che trovano spesso un riscontro letterario nei minuziosi resoconti di mistici e mistiche di varie epoche e tradizioni. Tra i benefici riscontriamo dunque una riduzione dei sintomi depressivi; un miglioramento dell’umore generale; una maggiore resilienza allo stress; un potenziamento dell’attenzione e della concentrazione; una certa efficacia nel trattamento delle dipendenze; una migliorata gestione dell’ansia; un effetto analgesico rispetto a dolori temporanei o cronici.

È facile capire perché risultati simili siano ben pubblicizzati dai gruppi che si occupano di meditazione, ma questa prassi presenta anche dei rischi, soprattutto se non si ha una buona guida o se si approccia in maniera non graduale. Si tratta di effetti meno discussi nella letteratura divulgativa e scientifica, ma non sono sconosciuti in quella mistica, dove si parla spesso della necessità di attraversare una “notte oscura” dell’anima, come la chiama Giovanni della Croce, una fase purgativa che per essere superata richiede un feroce ribaltamento psicologico, in cui perdere quel che amiamo non è più fonte di dolore ma di sollievo, tanto da accogliere con gioia anche il dileguarsi dell’io. In Il pensiero tibetano (Giunti) Dejanira Bada scrive: 

C’è da dire, però, che la meditazione non è per tutti. Può rivelarsi controproducente in alcuni casi – quelli di individui affetti da schizofrenia o disturbo borderline di personalità – e pericolosa in altri – quelli di individui con tendenze suicide. Perché meditare significa scavare a fondo nell’inconscio, e se questo nasconde traumi irrisolti il rischio è di farsi travolgere in modo irreparabile, entrando in un vortice da cui è difficile uscire. Anche alcuni soggetti senza disturbi psichiatrici che abbiano osservato lunghi periodi di meditazione – che abbiano, per esempio, partecipato ai ritiri vipaśyanā di tre mesi – hanno subito in più occasioni fenomeni di dissociazione, depersonalizzazione e psicosi. Alcuni sono stati addirittura ricoverati in ospedale a causa della gravità dei danni.

Per godere dei pregi di una prassi bisogna conoscerne i rischi e sebbene la meditazione offra notevoli benefici psicologici, non si deve ignorare i pericoli né proporla come una panacea. Dal punto di vista personale ho avuto finora la fortuna di godere di ognuno dei benefici che ho elencato senza sostanziali effetti collaterali – ma forse avevo già vissuto la mia notte oscura, o è lì che mi attende.

Chi volesse approfondire questi (e altri) temi comunque si troverà davanti a una bibliografia sterminata, ma per iniziare consiglierei l’ottimo lavoro di Franco Fabbro, o la buona sintesi di The Cambridge Handbook of Consciousness a cura di Philip David Zelazo, Morris Moscovitch e Evan Thompson, purtroppo solo in inglese. Sarà proprio un testo di Fabbro, La meditazione mindfulness (il Mulino) a introdurre il tema degli effetti fisici e neurologici. Per quanto sia evidente che stati cerebrali e stati mentali siano fortemente correlati, la relazione tra i due domini non è chiara – è anzi uno dei più grandi enigmi della filosofia – e può essere utile monitorare cosa accade durante la pratica meditativa anche da un punto di vista fisico. Fabbro scrive che i primi studi di neuroscienze della meditazione sono di

un fisiologo giapponese, Tomio Hirai (1927-1993), su un gruppo di monaci zen con una lunga esperienza meditativa. Lo studio ha evidenziato che i monaci erano in grado di entrare velocemente, nel giro di alcune decine di secondi, in un profondo stato meditativo caratterizzato da onde alfa (8-12 Hz) e onde theta (6-7 Hz), tipiche delle prime fasi del sonno. Tuttavia, anche se i monaci sembravano essere in uno stato neurofisiologico simile al sonno, essi erano attenti agli stimoli del mondo sia interno che esterno. Inoltre, durante la meditazione i monaci presentavano una riduzione del ritmo respiratorio (4-5 respiri al minuto) e un lieve aumento della frequenza cardiaca (circa 80 battiti al minuto). Ciò significava che la meditazione Zazen era in grado di equilibrare le componenti simpatiche e parasimpatiche del sistema nervoso autonomo (ctr. cap. quinto, par. 1.1) [Hirai 1980]. Successivamente sono state compiute numerose ricerche sulle modificazioni EEG indotte dalla meditazione. Questi studi hanno valutato sia le modificazioni dell’attività cerebrale durante gli stati meditativi sia i cambiamenti nei tratti della personalità, come ad esempio il livello di consapevolezza, l’equilibrio emozionale, la sensazione di benessere interiore, ecc. L’insieme di questi studi indica che la meditazione è correlata con un aumento della potenza nelle bande di frequenza alfa e theta ed è in grado di influenzare sia gli stati sia i tratti della personalità [Cahn e Polich 2006; Lomas, Ivtzan e Fu 2015].

Anche lo stesso Fabbro ha condotto degli studi con l’Università di Udine, riscontrando l’attivazione di alcune strutture cerebrali durante e dopo il training meditativo. Nello specifico, si tratta della corteccia prefrontale laterale destra, correlata con l’attenzione volontaria; il corpo caudato di sinistra, collegato con l’orientamento dell’attenzione e la regolazione cognitivo-motoria; l’insula anteriore, correlata con l’autocoscienza. Le strutture che si disattivavano invece erano la corteccia rostrale prefrontale, un nodo del default mode network, e l’area somatosensoriale primaria, collegata con la sensibilità sensoriale discriminativa. Alla luce di quel che sappiamo di neuroscienze, questi risultati sembrano essere in linea con le conseguenze psicologiche di cui si parlava in precedenza. Ma gli effetti fisici non si limitano al cervello; ci sono studi che suggeriscono che praticare la meditazione abbassa la pressione sanguigna (diminuendo così il rischio di ictus o infarto), migliora le difese immunitarie, diminuisce i disturbi infiammatori, aumenta l’attività dell’enzima telomerasi, indispensabile alla buona tenuta cellulare. Insomma, pur tenendo presente che si tratta di una prassi che presenta dei rischi, tutto sembra suggerire che sia psicologicamente e fisicamente salutare. Se poi ci si allontana dalla scienza e ascoltiamo la voce delle antiche tradizioni, la lista dei benefici fisici aumenta vertiginosamente. La tradizione induista, ad esempio, elenca numerosi poteri (siddhi) che si acquisiscono grazie alla meditazione; Patanjali, il celebre autore dello Yoga Sutra (5-600 d.C. circa) parla della capacità di ridurre il proprio corpo alle dimensioni di un atomo o di estenderlo fino a dimensioni infinite, del potere di diventare senza peso o pesantissimo, di arrivare in qualsiasi luogo, di convincere chiunque, di controllare gli elementi, eccetera. Nonostante l’abbondante aneddotica non esiste uno studio scientifico delle siddhi e anche dal punto di vista personale devo confessare che non ho avuto accesso a nessuno di questi poteri – ma d’altra parte sono poco più di un neofita. Siddhi e superpoteri sono però un perfetto ingresso per l’ultima categoria degli effetti della meditazione, quelli esistenziali. Un avviso ricorrente anche nello stesso Patanjali è quanto sia pericoloso sviluppare un attaccamento ai poteri concessi dalla meditazione – che siano psicologici, fisici o magici – pena l’abbandono della strada della mistica per quella più terrena della magia. Nell’importante differenza tra esaudire i desideri e abbandonarli giace il discrimine tra un mago e un mistico: il primo è il potenziamento di un essere umano ed è dunque ancor più in difetto, perché la sua forza apparente lo assoggetta maggiormente alla schiavitù del desiderio e alla prigionia della personalità, mentre il secondo ha oltrepassato i dolorosi vincoli dell’umano ed è libero dall’essere e dal non essere. Nella sua autobiografia, il santo tibetano Milarepa (1051 – 1135) racconta di aver imparato la magia nera per vendicare i torti subiti dalla sua famiglia, ma che una volta realizzata l’entità del dolore inflitto ai suoi aguzzini e ai loro cari, si pentì della scelta e, per ripulire il proprio karma, abbracciò la vita mistica. Ed ecco dunque il primo degli effetti esistenziali, antinomico come si conviene a questo argomento: rinunciare all’attaccamento e a tutti i risultati della meditazione. Ho già detto che degli effetti esistenziali non si può parlare, perché giacciono al di là di ciò che è esprimibile col linguaggio – un paradosso che si ritrova in tutti i testi lasciatici da mistici e mistiche di ogni tradizione, che scrivono quanto e più di me. È evidente che stiamo entrando in una sfera che, per quanto includa completamente la realtà che esperiamo, la trascende infinitamente, ma nel tentativo di definire gli effetti esistenziali direi che implicano spesso l’acquisizione di una visione rinnovata dell’esistenza (o la perdita di qualunque visione), un evento irriducibile che ha importanti ricadute comportamentali e psicologiche anche nella realtà condivisa. È la famosa “esperienza mistica” che William James ha introdotto nel contesto scientifico col suo celebre Le varie forme dell’esperienza religiosa; un fenomeno talvolta liminale con la follia – basti pensare agli “stolti in Cristo” o a certi tantristi – in quanto rivoluziona lo sguardo abituale e condiviso sull’esistenza. Comunicare un’esperienza mistica è impossibile, vi si può solo alludere, ciononostante è un evento psicologico di estrema intensità che presenta tratti in comune in contesti anche molto diversi, come testimoniano le somiglianze di molti resoconti di mistiche e psiconauti di epoche e luoghi lontani tra loro. È il ritorno al mondo che segna una differenza più marcata; se spesso si trovano relativamente poche differenze tra la descrizione di un’esperienza mistica di una scienziata contemporanea che assume LSD rispetto a quelle di un monaco medievale del Tibet o di un esicasta cristiano, il modo in cui questo vissuto viene interpretato all’interno del contesto culturale e personale cambia notevolmente. È difficile dire se a mutare sia l’esperienza stessa, la sua lettura o come venga assimilata nella vita quotidiana; si tratta di un evento quasi sempre trasformativo, ma la direzione in cui porta dipende forse più dal contesto socioculturale e individuale che dall’evento in sé – cosa che in effetti vale per molte esperienze.

Ad ascoltare sante, mistici e buddha le ricadute esistenziali sono le più importanti, tanto che potremmo definire gli altri meri effetti collaterali. La loro radicalità risiede nel muovere chi medita in un altrove profondo, forse seguendo un imperativo analogo a quello del celebre verso di Rilke che tanto colpì il filosofo Peter Sloterdijk: «Devi cambiare la tua vita». E la meditazione spesso la cambia.

ARTICOLO n. 81 / 2022

ERO IO LA CATTIVA DELLE MIE STORIE?

Il corpo culturale

Ripeto ossessivamente gesti e comportamenti da sempre, costruendo una casa involontaria di costanti e sicurezze che, puntualmente, combatto e distruggo. Sulla soglia del buio, ovunque io mi trovi nel mondo, mi siedo sul gradino della porta d’ingresso e scrivo storie sui mostri. Lo faccio da quando, bambina, inventavo fiabe su quegli alberi enormi che sovrastavano la casa al mare, fissandomi sul momento preciso in cui la luce smetteva di filtrare e iniziavano a crearsi ombre sui muri delle abitazioni che potevo raggiungere a occhio dal mio balcone. Una danza macabra via via sempre più affusolata, che declinava progressivamente nella notte. 

Avevo imparato a riconoscere quella sensazione fredda e rigida sulla punta delle dita, l’artiglio leggero e nitido dell’inquietudine. Stavano per uscire i mostri da sotto al letto. Mi eccitava quel pericolo, il potere e la paralisi che ne derivavano, ma non avevo mai abbastanza tempo per poter far salire l’unghia fino alla gola, venivo puntualmente redarguita per aver fatto tardi a cena, aver fatto tardi per la doccia, aver fatto tardi per uscire. Prima di dormire, però, tornavo su quel tremito sommerso, e l’attrazione verso quel mondo non poteva che porre una domanda terribile, e bellissima, allo stesso tempo: ero io la cattiva delle mie storie?

Negli anni ho progressivamente smesso di andare tutte le estati in quella casa coperta dagli alberi, ma ho iniziato a riprodurre quel movimento tra luce e ombra in tutti i posti che mi hanno portata via da lì. L’ho fatto dal terrazzo spoglio del mio palazzo di Praga pieno di escrementi di piccione e di topo, dalla finestra dell’archivio storico di Sumperk mentre guardavo le foreste delle mie streghe, dai gradini di pietra della biblioteca scientifica di Harvard prima di un congresso, dal ponte del traghetto che mi riportava a Hiroshima. Ho guardato le ombre del mondo e le ho scritte, ho cercato nelle venature fluide che precedono il mondo lunare uno schema forse, sicuramente qualcosa che potesse, ancora una volta, costruire una casa di costanti e sicurezze su cosa sono i mostri, capire quando lo diventano, sapere se io alla fine sarei stata la cattiva della mia storia o, forse, se mai avrei avuto il coraggio di mollare la presa. Poi, una sera, seduta sul bracciolo del divano di casa mia, quello che guarda da una finestra davvero molto grande il resto del mondo dall’alto, ho smesso di fissare le ombre e di averne paura, buttandomici in mezzo. Lì, al buio, ho tirato forte dalla sigaretta e ho pensato alla caverna di Platone. 

All’inizio del settimo libro della Repubblica, Platone racconta di questi prigionieri incatenati sin da bambini dentro una grotta, il collo stretto, la faccia al muro. Possono vedere solamente le ombre che vengono proiettate grazie a ciò che avviene alle loro spalle: una porta da cui entra la luce si scaglia contro un muretto sul quale vengono depositati oggetti. 

In questa condizione, i prigionieri sono convinti che le ombre siano l’unica verità quando in realtà sono solo void areasche si colmano di ciò che loro vogliono vedere. Il mito prosegue con la liberazione di un prigioniero che, rendendosi conto delle statuette, comprende anche l’artificio dell’ombra e decide di uscire dalla caverna per vedere gli oggetti in piena luce. Ma, una volta tornato dentro per liberare i compagni, non essendo più abituato al buio viene deriso e non creduto. 

Nell’interpretazione tradizionale, le ombre rappresentano l’εἰκασία (eikasia) che nella lingua greca, da Omero in poi, conduce all’immaginazione e all’immagine. Dobbiamo andare con la testa sott’acqua per arrivare più vicini alla meta.L’immagine-ombra di Platone non è prodotto innocuo, ma qualcosa che si produce e si consuma solo offrendosi alla vista, capace di produrre eidolon, idolo, ed eikon, icona, rappresentazioni che appaiono verosimilmente reali ma nascondono, grazie alla radice in comune con la parola phantasma, la menzogna. L’ombra di Platone è, in sostanza, uno stereotipo contrapposto all’Idea che è archétypon, immagine primitiva e vera. Il gioco dell’ombra inizia da qui. Infatti, il movimento che compiono i prigionieri è quello di inserire nello spazio buio della proiezione un significato. Questo significato viene partorito da un processo collettivo che decreta cosa sia quel buio, cosa rappresenti e come si debba usare, in quel momento, all’interno della caverna. 

Successivamente, la definizione data all’ombra di quell’oggetto sarà un modello di comparazione che si adatterà nel tempo e nello spazio ai cambiamenti fisiologici. Infatti, se sul muro della caverna si proietta una delle prime ruote, ancora spigolate, quella diventa la ruota con cui verranno successivamente confrontate le altre che verranno chiamate tali. Ci saranno ruote viste e considerate idonee, coerenti, giuste, e altre che devieranno dal modello iniziale. Ma nel corso del tempo, quella che i prigionieri chiameranno Ruota cambierà notevolmente diventando rotonda, per esempio, ma continuerà a essere un modello a cui fare riferimento in modo meccanico perché precostituito. Ciò che permetterà l’adattamento al tempo che cambia e allo spazio che muta sarà ciò che i prigionieri decideranno di inserire o togliere via via che la conversazione tra loro genererà nuove dinamiche.

Seduta sul bracciolo di quel divano, buttando fuori il fumo dalle narici, ho pensato che le ombre sono solo corpi opachi fino a quando non vengono colmate di storie. Sono le narrazioni della notte dei tempi che forgiano la spada con cui tagliamo il nostro velo della percezione e, con buona pace di Schopenhauer, quello che troviamo non è mai un’immagine primitiva vera (l’archetipo), ma sempre un’immagine derivata e bugiarda (lo stereotipo), utile alla maggioranza per mantenere uno status quo. Non a caso, infatti, i prigionieri rimasti nella grotta deridono colui che torna.

La sorte dell’ombra non è diversa da quella di qualsiasi altro corpo. I corpi che indossiamo, infatti, vengono spogliati del loro valore biologico e rivestiti con modelli culturali e figure cognitive che in realtà non esistono, ma permettono di ordinare e dividerli tutti in tanti contenitori facilmente codificabili: magro/grasso, bianco/nero, abile/disabile, cis/queer, conforme o non conforme. Quando Aihwa Ong scrive Da rifugiati a cittadini, nel raccontare le prove che i cambogiani arrivati ai campi devono superare per poter accedere agli Stati Uniti si ferma sul decalogo dedicato al corpo. Come vestire, che odore emanare, quali espressioni facciali prediligere, quanto sia importante trasformare le linee marcate di differenza per poterle rendere amalgamabili con il nuovo contesto. «I segni e i marchi del corpo biologico vengono così riempiti di nuovo significato culturale, modulando il corpo culturale e uccidendo quello biologico»I corpi dei rifugiati cambogiani si svuotano di loro stessi per riempirsi dei nuovi modelli di riferimento o, se preferite, di nuove storie. Così, per esempio, l’odore delle spezie sui vestiti non resta mai solo una fragranza, ma si trasforma già in un ricordo affettivo perché viene colmato di racconti, famiglia e focolare. Questo modello, però, deve nuovamente svuotarsi e riempirsi perché nella nuova destinazione l’odore familiare ha altre caratteristiche predeterminate e ciò che per i cambogiani è abitudine negli Stati Uniti di nuovo diventa un segnale di pericolo, qualcosa su cui ci si gioca inclusione ed esclusione. I corpi culturali, come le ombre, sono fatti di sazietà ed esaurimento in un eterno movimento simile a quello paziente delle onde.

Ma se è vero che, come le ombre, anche i corpi vengono nutriti di storie, non è altrettanto vero che tutti i corpi si nutrono della stessa materia di cui sono fatte le ombre.

Come queste, infatti, anche i corpi vengono saziati di racconti collettivi che conducono a una formulazione precisa: creare mindful bodies, corpi pieni di mente, permette di inserirli all’interno di schemi predeterminati, e questi schemi diventano dei modelli a cui ambire o da cui fuggire. Il corpo del rifugiato cambogiano deve assoggettarsi alle regole imposte dal contesto culturale in cui approda per poter essere accettato e inserito nella scala normativa di riferimento. Ma anche il corpo femminile deve sottostare a diktat estetici per poter accedere alla società, seppur sempre subordinata alla soddisfazione dello sguardo maschile. E ancora, nessuno di noi esce nudo per strada ma sappiamo di doverci minimamente vestire.

Tutti i corpi, specialmente nel contesto occidentale, subiscono questo passaggio, perché le storie che raccontiamo intorno a un fuoco simbolico hanno un valore educativo e plasmante, individuale e collettivo. Fin dalla creazione dei miti e alla loro successiva evoluzione in leggende, eroi ed eroine – ma anche i mostri – sono fisicamente determinati e divisi in un rapporto dicotomico tra buoni, belli e moralmente retti, e cattivi, brutti e privi di morale.

Questo serve per generare un conflitto costante attraverso cui le dinamiche di potere si mantengono in vita. Se sappiamo cosa è sbagliato, per contrappasso troveremo ciò che è giusto e perseguibile. E qui si annoda l’ombra che per valore storico e culturale accoglie ciò che deve essere nascosto, la paura gelida che sentivo da bambina su quel balcone, i mostri.

L’universo delle narrazioni sommerse è popolato di creature dai corpi distorti, devianti e mutanti, quelli che sulla superficie diventano i corpi non conformi e, quindi, marginalizzati. Siamo noi, tutti i giorni, a tenere lo sguardo fisso sulla parete della caverna e usare gli stereotipi per decretare il nostro successo. La formulazione del corpo mostruoso riguarda le storie, certo, ma anche il modo in cui partecipiamo all’atto collettivo di partorire narrazioni e stereotipi che rispondano a una sola enorme domanda: sono io la cattiva della mia storia? Come i prigionieri della caverna di Platone, seduti spalle al fuoco, soli, guardiamo la parete su cui la paura di fallire, enorme, si proietta dimenticandoci di essere noi, in fondo, i mostri.

ARTICOLO n. 80 / 2022

NON C’È STORIA COME

Conseguenze emotive di una fanbase

Pubblichiamo un’anticipazione da Ti seguo, l’esordio letterario già di culto in Inghilterra di Sheena Patel, una delle componenti del collettivo 4 BROWN GIRLS WHO WRITE. Tradotto da Clara Nubile per Atlantide, in libreria dal 19 ottobre.

La vulnerabilità dona autenticità alla mia voce e colma le lacune, perché non ho il sostegno più formale di una laurea specialistica, o il riconoscimento di un premio o il prestigio di un contratto di pubblicazione vinto da un editore all’asta. Ho una laurea triennale in Lettere, eppure quando devo confrontarmi con la scrittura, vado quasi alla deriva. Faccio affidamento sui particolari autobiografici, mastico la mia vita, la sputo fuori e l’abbellisco sulla pagina. Nessuno può contestare la mia esperienza, anche se potrebbero scagliarsi contro il modo con cui comunico quell’esperienza, ed è questa la mia prima linea di difesa: mi è successo veramente è in grado di respingere qualsiasi accusa, anche di usare gli strumenti della scrittura in modo rozzo e amatoriale. 

Qual è il confine tra essere vulnerabili e prostrarsi davanti a un sistema che non ti riconoscerà?L’onere non ricade mai sul sistema che deve correggere i suoi rigidi parametri, ma spetta a te essere metamorfico e accettare le regole. Indosso la vulnerabilità come un’arma contro questa cultura? Se mi volete dura, e sempre più dura per affrontarvi, mi ribello essendo dolce come una caramella gommosa, ma davvero dolce, sempre più dolce e gommosa per avere lo stesso impatto. Trasformo il mio dolore in un’arma e mi faccio del male crogiolandomi in questo dolore, nutrendolo, mettendomi in pericolo per incoraggiarlo, e poi lo rielaboro sotto forma di parole per mostrarlo, per mostrare alla società che sono un essere umano e provo dolore, proprio come voi. È questa violenza rivolta all’interno, un coltello nella mia mano, il peso del mio corpo che preme fino all’impugnatura? 

La stessa storia è raccontata più volte, tante volte, da tutti noi. L’immaginazione umana è stata incanalata per pensare lungo le linee strette dell’algoritmo: se ti è piaciuto questo, allora amerai quest’altro. Le narrazioni per noi disponibili si basano sulle nostre identità, così come le storie che sono approvate dal mercato e dai social media. Hanno in sé una familiarità ottundente. Noi immigrati di seconda generazione abbiamo il privilegio di poterci autorealizzare. Facciamo sculture, dirigiamo film, scriviamo commedie, romanzi, memoir e poesie sul fatto di non avere una casa, di cercare una casa, di vivere tra due tipi di casa, sul cos’è casa, su quanto ci sentiamo tutti male, sulle relazioni miste che intraprendiamo con i bianchi, perdendo la nostra lingua che appartiene a una cultura a cui siamo rimasti aggrappati con tenacia, tanto per cominciare; raccontiamo l’effetto che tutto questo ha avuto su di noi, parliamo dalla posizione della vittima. 

Per un algoritmo che non abbiamo ideato noi, per una piattaforma che non è stata progettata affinché potessimo attirare l’attenzione di un sistema culturale che ci esclude, ci facciamo ulteriormente del male inscenando la nostra Alterità, diventiamo Altri da noi stessi per avere like, per essere ricondivisi e avere approvazione, per avere un seguito, per costruirci una fanbase? Quali sono gli effetti di questa alienazione, e soprattutto ce ne frega qualcosa? Il bisogno di avere dei fan devoti è l’espressione più profonda della paura di essere anonimi, perché sappiamo che nel frastuono c’è protezione. Non vogliamo scomparire dentro una massa senza nome se Qualcosa di Brutto Dovesse Succedere. Se restiamo parte delle masse, sappiamo che soffriremo la doppia ingiustizia dell’abbandono istituzionale da parte della polizia o del sistema giudiziario, aggravato dal crimine originale – come nel caso dei nostri omicidi (Stephen Lawrence, Nicole Smallman e Bibaa Henry, ma anche troppi altri), o l’errore giudiziario che ha fatto storia (lo scandalo dell’ufficio postale), la minaccia di deportazione da parte del Ministero degli Interni (lo scandalo Windrush) o la perdita della cittadinanza (Shamima Begum) per aver commesso un terribile errore da ragazzina. Il desiderio ardente di avere una fanbase è davvero l’espressione di quanto ci sentiamo politicamente impotenti? O è qualcosa di completamente diverso?Anche se sosteniamo di essere socialisti e marxisti nei nostri ideali, i social media e la caccia alla fama all’interno di questa struttura non sono forse l’espressione più pura della politica individualista, thatcherista e neocolonialista, in cui ci trasformiamo in marche individuali come da copione, lanciando noi stessi come start-up mentre ci camuffiamo dicendo che siamo “al servizio” delle nostre “comunità”, come se essendo davvero fedeli a noi stessi facessimo un enorme favore a tutti gli altri? 

La strada più facile per costruirsi un seguito è penetrare nella cultura, e il modo più veloce è raccontare la storia che vogliono sentirsi raccontare, la storia della nostra assimilazione nel mondo dei bianchi, o dell’avversione, o del fallimento di quest’assimilazione, così i bianchi che detengono le chiavi del castello possono restare a bocca aperta e scuotere la testae dire, non sapevamo mica che le cose stessero così male, è il [inserite l’anno] per lamor di Dio, e poi magari abbasseranno il ponte levatoio per farci entrare? Sappiamo che piegarci a questo sistema ci assicurerà lo status che cerchiamo. Solo così possiamo avere un “nome” e sederci alle tavole rotonde e parlare della “diversità” e inventarci soluzioni serie dentro gli edifici storici davanti a un pubblico rapito, che funge da cassa di risonanza e non arriverà mai a nulla eccetto sentirsi ben disposto nei nostri confronti a causa del malessere che proviamo per lo stato del mondo; tutta questa materia diventa i seminari che teniamo, i libri che scriviamo quando strilliamo, so cos’è veramente la Gran Bretagna e voi no, comprate il mio libro per scoprire la Verità.

Una fanbase è il mezzo per ottenere gli anticipi sui libri, per assicurarci gli inviti ai premi prestigiosi, per essere l’attrazione principale in uno dei padiglioni più piccoli dei più grossi festival letterari, e un giorno forse riusciremo persino a travestirci da guardiani diventando parte della giuria di un premio benvisto. Pensiamo che spiegare noi stessi o giustificare la nostra esistenza non sia un prezzo troppo alto da pagare per aver accesso a quei cancelli dorati, dietro cui i bianchi liberali e creativi ci trasformeranno in un simbolo del loro progresso ideologico – pensano di essere così esotici da poter stare nelle nostre opere, sono davvero affilate, davvero underground, o più probabilmente ci cammineranno intorno in punta di piedi, con deferenza ma continuando a escluderci; non è un prezzo così alto per essere ammessi nel sistema culturale, ecco come ragioniamo. Se ci specializziamo nel raccontare agli altri Cos’è davvero il mondo: una relazione di razze, non ci pesa poi tanto inventare queste ballate pornografiche sul trauma per ottenere un briciolo di status sociale. Ci rattrista sapere che niente cambia veramente a livello collettivo, ma ci facciamo rassicurare dal pensiero che per me qualcosa è cambiato a livello individuale, mentre nuotiamo a dorso nel vasto e placido mare della superiorità legittima.

© Sheena Patel, 2022
© Edizioni di Atlantide srl, 2022 

ARTICOLO n. 79 / 2022

QUARANTA ANNI FA BEPPE VIOLA

Milano e il Triangolo delle Bermude

Il 17 ottobre 1982 era domenica. Stavamo tutti lì, primo pomeriggio, appartamento di via Arbe ad uso ufficio. Beppe: una forte emicrania. Non un fatto eccezionale, ne soffriva, tirava avanti. Sergio Meda e Gianni Mura a scrivere non so cosa. Scrivevo pure io, un pezzo – questo lo ricordo – per Il Manifesto. Tic, tic, tac. Un concertino, il canto delle Olivetti. Fumo da sigarette, un nuvolone. Andrea Motta a sistemare l’archivio. Era un vero maestro: ritagliava, fotocopiava, imbustava secondo criterio sapiente, lo stesso testo destinato a “voci” diverse. Poi Beppe andò via. San Siro. Servizio per la Rai, Inter-Napoli, la partita. Poi andammo via noi, in ordine sparso. Ad avvisarmi venne mio padre, era buio da un pezzo. Non avevo telefono a casa, avevano chiamato lui, a Monza. Dal citofono disse: scendi un attimo. Sulle scale disse: «Beppe…non sta bene». Domandai «Beppe, il portiere?». Questa frase mi è rimasta in mente perché era il frutto di una istantanea, disperata rimozione… Beppe “il portiere”: una persona che non vedevo da anni. Ma era anche l’unica omonimia possibile per scongiurare una brutta notizia. «Ma no, Beppe…Beppe Viola».

Poi fu come infilare una pista di bob, senza frenatore. Policlinico. Ictus. Carlo Sassi, Heron Vitaletti appena fuori l’ascensore, su, all’ultimo piano. Enzo Jannacci che esce dalla terapia intensiva con una faccia da fine delle trasmissioni. Fine, infatti. All’alba un’aria da temporale in arrivo, il cielo: perla e piombo. Fuori dall’ospedale guardai in alto. Franca affacciata alla finestra. È una immagine che non dimenticherò mai. Franca, sua moglie. Quattro figlie a casa. Mentre l’accompagnavo con la Opel Kadett disse: «Dovrò anche andare in banca. Secondo te siamo sul rosso o sul nero?».

Su quella Opel avevamo trascorso una serata colma di risate poco tempo prima. Tutti dentro. Beppe, Franca, Renata, Marina, Anna e Serena che aveva meno di tre anni. Fuori regola, si capisce. In sette, non so nemmeno come riuscimmo farcela. Pizza. Poi sosta al Bar Gattullo. Cantando “Caro amico ti scrivo”. Era stata una serata in famiglia e quella famiglia, da allora, 1982, è diventata parte della mia vita. Ridendo e schersando, con la “esse”, come quelli che aspettano il tram.

In via Arbe, Beppe aveva fondato Magazine. Era un’agenzia giornalistica, un posto dove cavare entusiasmo covando idee, in compagnia di amici fidati e bravi a fare el mestè. Un altro mondo rispetto a quello Rai, dove aveva a che fare con troppe contradizioni. Libri, articoli per una quantità di giornali ai quali veniva proposta una specie di filosofia giornalistica, sviluppata per rose di testi, scopo completamento di un tema visto da angolature diverse. E poi, i quotidiani cosiddetti di provincia. Dal Gazzettino di Venezia al Mattino di Napoli, dal Tirreno di Livorno alla Nuova Sardegna. Dodici in tutto. L’idea di Beppe: i grandi eventi sportivi raccontati come si deve da firme importanti.Una pagina intera, ben fatta, replicata in aree geografiche diverse, per testate che non potevano permettersi un inviato sul posto. Funzionava. Era una fatica bestia ma funzionava eccome. Da Bruno Pizzul a Oliviero Beha, tutti coinvolti. Anche qualcuno che non scriveva proprio come richiesto e così toccava parlarsi al telefono e poi fare il pezzo lì, a Magazine. 

Beppe aveva voluto tirar dentro un giovane. Il giovane ero io, fresco di università, aspirante, felice. Mi chiamava Tenente Colombo. Per lo strabismo dicevo. «Ma no, per l’impermeabile». Fu amore a prima vista, a proposito di oculistica. Di giorno al lavoro, e non c’erano santi perché Viola Giuseppe, classe 1939, classe, sul “mestè” era esigente e intransigente. Scelta delle parole, punteggiatura, un acuto per l’apertura, un gran finale per la chiusura.«Le prime e le ultime tre righe: fondamentali. Servono per tirar dentro chi legge e per lascialo andare con l’idea di aver visto la Madonna». Guai a sgarrare, guai a mediare, regali di Natale rimandati indietro, tenere da conto rigore e libertà. L’ufficio: un porto di mare. Passava Giovanni Trapattoni e con Beppe parlava in dialetto, raccontava vizi e virtù dei suoi giocatori, alla Juve. Ascoltavo, sbalordito. Sandro Gamba, il cittì del basket, parlava di jazz, Jean Louis Trintignant, l’attore, portava mezze forme di parmigiano e bottiglie da un miliardo. Rosso, si capisce. Andavamo a fare la spesa perché in via Arbe c’era la cucina. Gli altri a gridare, dalla finestra, non le solite porcate. Sì ma in rosticceria era esposta una piscina olimpionica con dentro l’insalata di pollo, bella unta, cosa vuoi… cucinavano ancora le polpette alla stazione Centrale, unte oltre ogni decenza. Da asporto, un po’ come adesso. «Ma com’è che le cose più buone sono quelle che fanno male?». Non so, forse ero semplicemente un ragazzo che aveva voglia di imparare, forse imparai a volergli bene dopo sei secondi, forse eravamo simili su tante cose, a cominciare dal rispetto per le regole dei giochi. Fatto sta che la sera, ecco, usciti dal “marchettificio”, Beppe mi trasportava a Disneyland. 

Ma sì, il Triangolo delle Bermude. Ippodromo trotto, dove spariva il grano; Derby Club, dove spariva di tutto; Bar Gattullo, dove sparivano i bignè. Milano aveva ancora addosso quella fregola anni Settanta che metteva assieme, stesso tavolo, saltimbanchi e imprenditori famosi; malavitosi e randagi dotati di cinismo più senso dell’umorismo, al punto da fornire battute irresistibili a nastro. Musicisti, intellettuali, artisti e designer. Presi da una progettualità costante, da una visione ottimistica del fare, da una condivisione comunque possibile. Con un’attitudine alla risata travolgente dentro una città fatta di porte aperte. Beh, il muro di Berlino era su ancora. E c’era il Milan a fare da collante. Anche in quanto fronte che aveva garantito integrazione chi a Milano era arrivato da poco, con l’idea di restarci per sempre. 

Opel Kadett, Olivetti, archivio fatto di ritagli. Il piombo nelle tipografie, case senza telefono. Sembra che stia raccontando del Medio Evo, visto da qua, oggi. Eppure così. Con una gamma di odori formidabili sempre in circolo perché, per ogni tragedia, era pronta una frase fulminante capace di sdrammatizzare. Perché dietro ogni idea c’era il marciapiede, così vispo, carico di facce da catalogare, magari in un ufficio apposito, sempre aperto. Perché dentro il cinismo, la presa per il culo, c’era una sorta di naturale bontà. Una attitudine all’accoglienza anche per quelli che “el ghe manca cinc a faa ses”. Por sacrament. Una pietà, mascherata anche quella, figuriamoci, infilata tra le pieghe dell’esistenza, mondata dalla retorica. 

Beppe Viola era un eversore. Il suo campo d’azione sembrava limitato al giornalismo ma in realtà lui, così come molti altri in viaggio nel Triangolo delle Bermude, praticavano tentativi di rivoluzione, talvolta addirittura inconsapevoli, dentro una cultura plasmabile. La comunicazione come l’architettura, il design correlato all’industria, la musica, l’arte e persino la televisione rappresentavano campi aperti, o apribili, di esplorazione. Arrivavo da Bologna dove avevo avuto a che fare con un altro slancio eversivo, violento e sanguinoso, culminato con l’omicidio di Aldo Moro. Il mio archivio personale non conteneva solo ritagli cartacei, era colmo di volti e parole animate spesso da un autentico desiderio di cambiamento, con la sincera convinzione che le armi fossero strumenti indispensabili per sovvertire una gamma ampia di ingiustizie. La “classe operaia” – termine che pronunciato oggi suona come una ennesima anticaglia – data come parte in causa, era in realtà distante da molte azioni progettate e promosse in suo onore, nel suo nome. In quei percorsi notturni e milanesi potevo riconoscere una atmosfera curiosamente assonante.

Scrivo curiosamente perché in realtà avevo a che fare con ironia e sberleffo dopo aver avuto di fronte un tempo crudo, un’iperbole drammatica i cui esiti avevano prodotto una lista di vittime lunga così, su più fronti, e una deriva altrettanto penosa se penso a chi, attorno a me, era passato dall’eccitazione per un ideale travolgente al disorientamento più cupo, alla droga come sedativo. Ciò che potevo osservare in quella Milano mostrava una aspirazione molto diversa. Originata proprio dalla frequentazione assai più assidua del marciapiede. La radice era infilata tra le macerie della guerra, in una fatica vista da vicino o provata direttamente, abbinata ad uno slancio vitale propizio e propiziatorio. 

Al contrario dei giovani che dalle università avevano teorizzato per poi intraprendere, questi personaggi formavano squadre tutt’altro che omogenee, etichettabili, composte da individui appartenenti a generazioni e ceti sociali differenti, capaci di intendersi e di stare assieme in una tolleranza tanto indispensabile quanto fosforica. Le energie erano potenti su entrambi i campi ma emanate da pregressi diversi, da percezioni diverse e quindi da diverse finalità. Periferie milanesi e case popolari per assumere un gergo, una serie di tic preziosi persino per gli intellettuali più raffinati. La cui formazione era permeata anche di cattivi odori. Ciò che sta in basso, appunto, dove si lavorava alla catena, dove si cantava nei trani – vino sfuso a basso costo – dove i terroni venivano sbeffeggiati per essere accolti. Le osterie di Bologna e Milano mi sembravano incomparabili negli arredi, nelle abitudini dei clienti, nelle atmosfere, nell’acustica, nel tasso di allegria da accompagnare ad una dialettica, una ideologia, una progettualità.

I tentativi eversivi qui erano a colori, dopo anni di visioni in bianco e nero. E le tinte più luminose le forniva chi, inconsapevolmente appunto, non aveva altra ambizione che testimoniare le contraddizioni, le incongruenze, la comicità di un passaggio comune ed epocale. Umanissimo e per questo autentico, non trascurabile anche da chi era abituato a volare alto, partendo da un basso visto da vicino, vivace e ispiratore.          

Il linguaggio parlato, già farcito di termini di fresco conio popolare, finiva nei pezzi. Beppe dava le multe a chi scriveva “sfrecciano”, Lire cinquemila, prego. «Ma te quando parli dici sfrecciano? Hai vent’anni, scrivi per come pensi, per come sei».  Il che voleva dire: leggi. E poi leggi. Letteratura nordamericana soprattutto, da Damon Runyon a Truman Capote. Una modernità da assimilare per poi ricercare uno stile proprio, nuovo. Andava in bestia se ascoltava “la palla fa la barba al palo…il ginocchio in disordine…”. Quando presentai il primo articolo, dopo una notte di lavoro e ansia, lo stracciò sorridendo «Bene, ma si può migliorare, no?». Gesù. Da allora carta carbone, per carità, giusto per conservare qualche punto e virgola stando alla larga dai luoghi comuni.  

Così, tra gente che di mestiere rubava i tir, signori che viaggiavano con il tonno del Consorcio e la pasta de Cecco nel vano portaoggetti, allibratori clandestini e star del cinema, se non imparavi a stare al mondo, oltre che a scrivere meglio, eri proprio un pirla. Lui, Beppe, sempre sudato, febbraio compreso. Sempre pronto a dar via una idea geniale a gente che poi, ciaopepp. Sempre attraversato da una inquietudine più oscura di quanto non apparisse. Sempre capace di sparare una battuta strepitosa. Pezzi, racconti, testi per canzoni, per la pubblicità. Un lavoratore indefesso. Chiamava al telefono Paolo Rossi, non ancora “Pablito”. All’improvviso, senza spiegare con chi stesse parlando buttava lì: «Ti passo un mio amico da intervistare». Come dire stai pronto, pronto sempre a cavartela da solo. Oh, porca malora, Beppe, stella mia. Quando nevicava, uscivamo a tirare palle di neve alle automobili, in viale Sarca, ridendo e scappando contromano lungo un senso vietato, per non farci beccare. Mettevamo su la moka, mi viene da metterla su ancora adesso per fare due ciarle, fumando in qualche angolo.

La prima telefonata il giorno in cui discussi la tesi, la feci a lui. Preso da quell’entusiasmo là, gli dissi che avrei voluto invitare tutti quelli di Magazine a cena. «Bravo, organizzo io». Organizzò infatti. Da Aimo e Nadia, non so se già stellato. Mangiammo e bevemmo, cantammo e sparammo una quantità di cazzate. Feci per pagare il conto. Disse:«Lascia stare, ci ho pensato io. Con i prossimi due mesi di stipendio siamo a posto».

Beppe Viola è morto il 17 ottobre 1982. Franca, una signora all’altezza di qualunque situazione, pochi mesi fa. Le loro figlie sono donne adesso. Avrebbe un tot di nipoti e persino una pronipote. Sarebbe orgoglioso, credo, di ciò che ha lasciato. Compresa la memoria di ciò che è stato. Si, ma adesso mi fermo perché va bene tutto ma se non hai il fisico, meglio darsi al golf, inteso come maglione. Oh signur, Beppe, dove sei?

ARTICOLO n. 78 / 2022

LA RABBIA E LA RASSEGNAZIONE

Il corpo di Giorgia Meloni nella transizione postmaterialista

Sono passati solo pochi giorni dalle elezioni che il 25 settembre hanno segnato la vittoria di Fratelli d’Italia, il partito guidato da quella che in questione di ore diventerà a tutti gli effetti la prima donna Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Inizia una nuova storia per l’Italia, dicono alcuni, ora tutto cambierà. Ma questa profezia suona piuttosto ingannevole a mio parere, specie guardando agli ultimi decenni del nostro zoppicante cammino politico. «Tutto deve cambiare affinché tutto resti come prima», recitava Tancredi nel Gattopardo di fronte allo sbarco in Sicilia di Garibaldi e i suoi mille e adesso, nei giorni che precedono la formazione del nuovo governo, questa frase mi rimbomba in testa come un mantra. Tomasi di Lampedusa ci aveva visto lungo quando parlava di come gli italiani affrontano la rottura tra il vecchio e il nuovo mondo, oscillando tra una classe in declino e una nuova classe determinata a mantenere vecchi privilegi, vecchie abitudini, vecchie tradizioni. Perché Meloni non segna necessariamente l’inizio del nuovo, anzi: Meloni rappresenta quel cambiamento esteriore e di sola apparenza che consente di lasciare intatto un sistema che lentamente, ma inesorabilmente, continua a putrefarsi dalla radice fino alla punta.

Anche se tre giorni dopo le elezioni migliaia di persone hanno rabbiosamente riempito le piazze in reazione ai proclami antifemministi dell’estrema destra al grido di «il corpo è mio, decido io», la mia percezione – specie come italiana all’estero – è che il sentimento più condiviso tra chi Meloni non l’ha votata non siano tanto la rabbia o la paura, ma piuttosto un’amara, incurabile, e a tratti riconfortante, rassegnazione. Nei giorni successivi alle elezioni le chiamate con amici e conoscenti si sono svolte tutte più o meno nello stesso modo: «Come va?» «Tutto bene, dai… a parte le elezioni». «Eh già. Chissà ora che faremo.» «Eh già. Vabbè, dai, parliamo d’altro».

Ad agosto scrivevo di un senso di crisi e di impotenza che attraversa le generazioni più giovani, rendendole sempre più apatiche, indifferenti, disinteressate. È assai banale asserire che la politica sia ormai troppo lontana dai cittadini, ma gli italiani pare si siano definitivamente arresi a questa verità, l’abbiano accettata e fatta loro, stando a guardare con un rassegnato realismo ciò che gli accade intorno, spesso forse senza nemmeno sforzarsi di capirlo. La politica non sa più raccontare il mondo in cui viviamo, figuriamoci rappresentarlo. E in effetti, guardando ai voti assoluti delle elezioni, ciò che salta all’occhio prima ancora della vittoria di Fratelli d’Italia è quel gigantesco buco astensionistico composto da oltre 16 milioni di elettori. 

Molte penne hanno giustificato questa tendenza come un fenomeno condiviso a larga scala dalle democrazie occidentali, sorvolando con eccessiva leggerezza su quanto esso sia invece un’espressione evidente della crisi sociopolitica che stiamo vivendo. La crisi postmoderna ha ormai raggiunto il suo apice: le identità di classe si sono tramutate in identità sociali e il rapporto tra classe e voto si è indebolito così tanto da diventare ormai quasi irrilevante. Fa riflettere infatti che, mentre le braci di ciò che rimane del PD segnano il loro minimo storico, il partito di Meloni sia stato specialmente capace di attrarre e conquistare anche il voto popolare contro quello che invece viene oggi considerato il voto borghese di sinistra. Certamente una buona percentuale di votanti di FdI proviene dai delusi degli altri partiti del centrodestra e del M5S, ma è ugualmente importante notare come, dopo anni di slogan sul fatto che tra destra e sinistra siano uguali, alla fine molte pance appartenenti alle classi medio-basse si siano convinte a optare per l’estrema destra perché più capace di mettere al centro il lavoro e la crisi economica, mentre la sinistra ha visto diluire i suoi voti in uno spaventoso astensionismo. Di quella sinistra che un tempo si occupava di disuguaglianze, di reddito e di diritti dei lavoratori oggi non resta che un ricordo offuscato da partiti che al massimo intavolano qualche timida discussione sui diritti civili, mentre il 90% della popolazione sta venendo letteralmente soffocata dalla crisi economica. Siamo, insomma, nel pieno di quella transizione postmaterialista che, secondo Nancy Fraser, baratta i diritti civili con i diritti economici, e così l’estrema destra è riuscita nella sua missione di convincere la classe media che la soluzione ai problemi causati dalla disuguaglianza vada ricercata nell’eliminazione dei poveri e non degli straricchi. Ma francamente, dopo quattro anni di governi multicolori, una pandemia e un’inflazione alle stelle, non sorprende affatto che in molti abbiano espresso la propria rabbia e la propria paura votando una leader che in qualche modo restituisce sicurezza. 

In Italia il contenuto ha lasciato spazio alla forma molto tempo fa. Chi parla di disuguaglianza e di povertà viene tacciato d’invidioso, perché noi italiani un po’ siamo così: amiamo i ricchi e disprezziamo chi sta peggio di noi, perché nella paura di scivolare sempre più in basso ci afferriamo alla speranza di poter un giorno riuscire nella scalata sociale. Il postfascismo che verrà, insomma, non è che una maschera costruita ad hoc per poter conservare nostalgicamente questa tradizione. Come scrive Alessandro Gandini, la nostalgia è un sentimento reazionario che nella nostra epoca offre un rassicurante rifugio di fronte alle contraddizioni del presente e alla nostra incapacità di immaginare uno spazio-tempo tutto nuovo. Cambiare la tradizione, invece, fa paura perché ci costringe a dover immaginare nuovi modelli sociali e produttivi basati su premesse completamente diverse come una sorta di salto nel vuoto.

Chi inneggia al cambiamento alludendo al fatto che Meloni sia una donna o è uno stolto o è un incosciente. Perché nella società in cui viviamo, le donne vincono solo quando mantengono intatto quel modello sociale basato sul mito della forza, della rabbia e del dominio. Meloni è un’esponente perfetta della triangolazione tra capitalismo, patriarcato e colonialismo, è una nuova pedina del puzzle che funge a perpetuare la tradizione e consentire a chi ha già tutto di non perdere nemmeno un pezzetto del proprio privilegio. Non a caso, infatti, durante la campagna elettorale abbiamo visto riemergere con forza la celebrazione del lavoro domestico femminile e della figura della madre come pilastro della famiglia tradizionale. 

Rimpiazzare le figure maschili con donne che hanno più o meno gli stessi identici privilegi non è affatto l’obiettivo delle lotte femministe socialiste. Il femminismo intersezionale ci racconta anzi come, al centro dei sistemi di sfruttamento e di oppressione, le questioni di classe si intersecano profondamente con il genere e con la razza. È da queste premesse che dovremmo allora attingere per immaginare nuovi futuri. Perché la rivoluzione delle coscienze, parafrasando bell hooks, passa in primo luogo attraverso la volontà di cambiare resistendo alla rassegnazione che ci pervade. Se desideriamo vivere in una società che, invece di sfruttare e opprimere i deboli, sia in grado di rimettere al centro del proprio funzionamento concetti finora considerati prettamente femminili, come la cura, l’affetto, la comunicazione e l’impegno, è necessario guardare oltre il nostro orticello capendo che la cura di sé passa prima di tutto dalla preoccupazione per gli altri. Ed è solo accettando la nostra profonda essenza politica che sarà possibile costruire una società che metta al centro il benessere dei propri cittadini.

Le sfide che abbiamo davanti sono molte. Per affrontarle sarà in primo luogo necessario chiedersi come contrastare le gerarchie seminate nel tempo da razzismo e patriarcato, che il sistema capitalista ha saputo sfruttare per dividere e distrarre le classi medio-basse portandole sempre più verso una lotta intestina contro se stessa invece che contro le classi più privilegiate. Rifuggire la politica dell’identità, capace solo di creare slogan cannibalizzabili da brand e aziende, è una necessità non più rimandabile. Il cambiamento deve venire da dentro, dalla ricerca di quel minimo comune denominatore tra gli oppressi che torni a sfociare nella ricerca e sperimentazione dell’organizzazione collettiva.Forse allora, affinché tutto cambi, è giusto che intanto tutto rimanga com’è. Ed è chissà questo il cuore di ogni reale rivoluzione: far accadere il cambiamento dall’interno affinché, una volta passata la sbornia di slogan e proclami, l’immaginazione di una società più giusta possa occupare le parti interiori della nostra anima fino a farci riesplodere la rabbia. Tuttavia, la rabbia che dobbiamo imparare a coltivare non ha nulla a che fare con l’effimera indignazione da social media di cui ci siamo intossicati negli ultimi anni. Si tratta piuttosto di una rabbia radicale e capace di ideare cambi a lungo termine, contrariamente al modus operandi nostra classe politica e dei programmi elettorali che ci vengono propinati come soluzioni al nostro malessere. Non possiamo più procrastinare calciando la palla in avanti e aspettando che i nostri diritti vengano erosi una goccia alla volta: è tempo di abbandonare la rassegnazione e riprendere le redini del nostro futuro, se ancora speriamo di poterne costruire uno.

ARTICOLO n. 77 / 2022

STUDIO AZZURRO: SENZA REGOLE STABILITE

INTERVISTA A LEONARDO SANGIORGI

Nel 1982 irrompe nel mondo dell’arte “una bottega d’arte contemporanea” senza “regole stabilite”: Studio Azzurro. Oggi, quarant’anni dopo, incontriamo uno dei fondatori, Leonardo Sangiorgi, che, insieme a Fabio Cirifino e Paolo Rosa concepì questa grande opera in divenire che diverte, perturba, sconvolge gli esseri umani che la incontrano sulla propria via. 

Andrea Gentile: Leonardo, la ricerca di Studio Azzurro è sempre stata indirizzata verso il continuo cambiamento. Negli anni, Studio Azzurro è stato promotore di opere universali e molto partecipate dal pubblico. Se dovesse trovare delle differenze tra le attività del primo Studio Azzurro e quelle del più recente, quali sarebbero? 

Leonardo Sangiorgi: Nei primi quindici anni di attività penso che l’occasione di creare opere complete, a sé stanti, sia stata più facile, abbia avuto maggiori possibilità. Gli ultimi quindici anni invece hanno avuto un interesse soprattutto nell’ambito museale, e, grazie alla loro natura fortemente didattica e divulgativa, ci hanno permesso di sperimentare le opere d’arte a contatto con il pubblico. Ripenso alla nostra retrospettiva fatta a Palazzo Reale, che aveva come sottotitolo Immagini Sensibili (2016), e si proponeva l’obiettivo di creare un luogo di narrazione e partecipazione. Volevamo evitare che fosse soltanto un consuntivo del nostro lavoro, non doveva essere una sorta di «mausoleo». Doveva permetterci di mostrare il segno che il nostro lavoro ha impresso nell’indagare l’universo dell’immagine elettronica nel quale ci siamo avventurati. 

A.G. E di certo non lo è stato, un mausoleo. Era una mostra perturbante. Potevi contemplarla per ore: sembrava infinita. Ma come nasce un’opera di Studio Azzurro? 

L.S. Se ripenso a quei giorni, durante l’esposizione, ci siamo domandati quali sarebbero state le nuove direzioni, a partire da quella mostra, da intraprendere. Sono nate proprio delle proposte di indagine, tradotte poi in nuovi progetti. Penso che nel progetto di un’opera ci sia una dimensione metafisica del parlato che può permettere una visione oltre la dimensione fisica. Ogni progetto realizzato cristallizza la dimensione ideale del progetto che è molto più liquida dell’opera stessa. 

A.G. Immagino che a volte lo scarto tra il progetto e la messa in atto possa anche essere abissale nelle sue sfumature: quando un’opera non è ancora presente ma esiste in una dimensione progettuale multiforme e incerta.

L.S. Capita, è vero. Devo dire che, con nostra grande sorpresa, ogni volta che rivediamo i disegni dei progetti, non c’è un lavoro di Studio Azzurro che non sia nato attraverso un testo, un disegno o uno schizzo. Non ci sono stati molti progetti che sono poi cambiati rispetto al disegno progettuale.

A.G. La mia percezione è che il motore propulsivo del vostro lavoro, ciò da cui tutto nasce, ci sia il poetico. Il poetico come spazio aperto, che accoglie gli universali: il corpo, l’animale, il politico, anche.

L.S. Sì, certo, non può non essere così. Il poetico è anche politico, verissimo. Lavorare con i musei è inevitabile, ed è un politico non partitico, ma si immerge in una dimensione che permette di osservarci e di osservare. Il tema dell’elemento poetico nella nostra capacità espressiva è stato uno dei primi che abbiamo evoluto: Studio Azzurro nasce principalmente da un legame di amicizia, c’era un’energia strana, eravamo affascinati dalle immagini, dalle immagini in movimento. Quando facevo l’accademia, andavamo spesso alla cineteca in San Marco vicino a Brera. A quel tempo l’unica fonte di immagini in continuo movimento a cui noi attingevamo. Mi ricordo un giorno con Paolo Rosa e Fabio Cirifino, stavamo spiegando a qualcuno cosa intendevamo come «elemento poetico». E tirando fuori una penna dal taschino: «Ecco vedi: questa è una penna. Ma è anche un dirigibile, uno Zeppelin». Quello è stato il gioco con cui abbiamo letto e interpretato l’idea di trovare, di attivare, aprire l’interruttore dell’elemento poetico. La sfida è stata poi fortissima a partire dal mondo analogico in cui vivevamo: avevamo un forte bisogno di immagini elettroniche. 

A.G. Come siete riusciti ad intersecare questo vostro bisogno con quegli anni: era un tempo analogico e voi cercavate l’elettronico, se non il digitale.

L.S. Gli anni Novanta. C’è stato il salto, il big bang dell’universo digitale e noi abbiamo cominciato a lavorare con strumenti e con macchine che erano state originate per tutt’altri scopi. La sfida è stata grande, avevamo una domanda in mente: dove era l’elemento poetico in macchine create per fare operazioni ripetitive e somme di operazioni banali? Il nostro lavoro è nato di pancia, non di testa, mettendo insieme delle cose e vedendo che effetto facevano.

A.G. Una parola che mi è spesso tornata in mente osservando i vostri lavori è contemplazione. Contemplazione del tempo e dello spazio: al centro c’è sempre il presente, che è come un’anguilla. Appena lo afferri scivola via.

L.S. Una prospettiva interessante. La contemplazione è il contrario dell’indifferenza. Tante volte ci siamo sentiti chiedere «ma come reagiva il pubblico?». E la risposta è che è sempre stato polarizzato: o grande attrazione o grande repulsione; abbiamo incontrato pochissime volte l’indifferenza. I progetti teatrali con Giorgio Barberio Corsetti, nel quale l’elemento dell’immagine elettronica era preponderante, non sono stati certamente apprezzati dalla critica, che era del tutto impreparata. Invece, per esempio, l’intuizione di usare i monitor per poter vedere una figura intera, la scala uno a uno, quella non è stata progettata, avevamo solo voglia di vederla! Senza barriere dentro il nostro quotidiano. 

A.G. Da fruitore mi chiedo quanti abissi ci sono nell’immagine che spezzetta Il Nuotatore (1984), che viene frammentata dal tubo catodico, dai tanti tubi catodici, perché ci sono significati altri che si insediano in quegli spazi vuoti. Che cosa c’è tra uno schermo e l’altro?

L.S. Ti restituisco una visione tecnica: il Nuotatore è composto da monitor Grunding, perché era l’unica ditta che aveva messo il sintonizzatore nella parte sottostante per cui potevamo impilare lateralmente i televisori. Con gli altri monitor non si sarebbe potuto fare in quanto erano tutti un po’ asimmetrici e il sintonizzatore era laterale, mentre i Grunding potevano essere accostati con la minor distanza possibile. Anche nello spettacolo con Giorgio Barberio Corsetti, Prologo a Dario segreto contraffatto (1985), gli attori sembrano uscire dal terreno e arrampicarsi sulle colonne di televisori e sembrano risalire da un monitor all’altro; in realtà, salivano su una struttura di tubi Dalmine che era esattamente allineata fra gli spessori dei bordi dei televisori e in scena si aveva l’impressione che si appoggiassero, piano per piano, sui monitor. 

A.G. Questa è una modalità che c’è spesso nei vostri lavori, la sensazione di vivere nello spazio artistico: ti senti pubblico e ovviamente non sei soltanto pubblico, interagisci. C’è uno spazio che viene colmato dalla tua immaginazione.

L.S. Sì, molto spesso. Il rapporto con lo spazio per noi è un elemento importante che, ad esempio, ci ha portati ai video ambienti. Fino a quel momento quando guardavi qualcosa a casa alla televisione o al cinema eri seduto davanti e avevi un unico punto di vista. Tutto era immobile, eri uno spettatore amputato perché la tua interfaccia totale del mondo erano gli occhi e le orecchie. Tutti gli altri sensi venivano letteralmente spenti e chiusi.  Quando abbiamo lavorato a Luci di inganni (1982) abbiamo messo l’osservatore, l’utente, in una posizione attiva perché doveva accendere dei monitor per vedere i mobili, che erano nello spazio, come immagini: è nato automaticamente questo dialogo tra spazio e immagini elettroniche. Quello ha spostato immediatamente tutto il racconto, perché il fatto di potersi spostare in uno spazio usando le gambe, il tuo peso e la tua dimensione corporea ha completamente slittato il rapporto dell’utente con le immagini e il rapporto dell’autore con il fruitore stesso. Tu osservatore che ti muovi in uno spazio compi la tua regia: tagli, monti, ti sposti, cambi inquadratura e così via, fai una tua regia e quindi la dimensione autoriale cambia molto. In questo senso la dimensione poetica si è agganciata e ha fatto come una sorta di dinamo tra l’opera e il fruitore-osservatore. 

A.G. Genera una proliferazione di significati: sono infiniti, potenzialmente. 

L.S. Infiniti, sì. L’illimitatezza data dall’opera stava proprio nell’esperienza personale: vivere un’esperienza. Quando, qualche giorno dopo aver inaugurato Coro (1995)abbiamo incontrato delle persone che avevano visto l’opera e ci siamo sentiti dire «ho avuto l’impressione di camminare su dei corpi», quello per noi è stato il raggiungimento. Vivere finalmente l’esperienza. 

A.G. Coro (1995) per quel che mi riguarda ci dice anche un’altra cosa: l’arte prolifera di significati, come la mente. È potenzialmente infinita. Le persone che vediamo forse dormono. Ma forse soffrono. Forse sono a un passo dal morire. Forse stanno per rinascere. Forse sono al risveglio o forse all’addormentamento. Nell’unicità dell’istante: un testo infinito. Una cosa che non finisce mai di essere scritta.

L.S. D’altronde, pensiamo al linguaggio: l’alfabeto è fatto di ventiquattro lettere e guarda cosa sono riuscite fare! 

A.G. In questo metamorfismo digitale come respirano le idee di Studio Azzurro?

L.S. Nell’ultimo periodo ci siamo domandati se queste tecnologie, che noi usiamo e che sono diventate così pervasive e presenti, capaci di restituirci grandi poteri – sempre più veloci; collegati al punto da diventare ubiqui -, potessero essere usate per esplorare un mondo interiore. Vorremmo verificare se il mondo digitale fortemente proiettato fuori da noi, possa essere rivolto invece dentro di noi. Mettere a fuoco un mondo interiore e rappresentarlo. 

A.G. In un meccanismo come quello contemporaneo il rischio è anche essere in ogni luogo e non esserci mai. Non viviamo mai l’esperienza veramente, non stiamo mai dentro l’esperienza perché stiamo pensando ad altro. E allora tutto diventa l’opposto della parola che usavamo prima, contemplazione.

L.S. Sì, quella parola deve essere una delle componenti per una percezione dell’elemento poetico. 

A.G. Insisto sulla contemplazione. Produciamo migliaia di pensieri al giorno. La mente prolifera e ci trascina da tutt’altra parte. Magari sto guardando Coro, la sto vivendo, e però penso alle melanzane di mia madre, al fatto che domani ho un colloquio di lavoro o al fatto che ho un piccolo dolore allo stomaco che mi preoccupa moltissimo. Sono presente solo in parte. Sono lì col corpo, ma in realtà sono complice di quel cavallo imbizzarrito che è la mente. Sono il suo fantino. Non sto vivendo l’opera. Il mio multitasking inferiore mi porta fuori dalla contemplazione. Il vostro capolavoro, per me, è che siete riusciti a fare opere contemplative e multitasking al tempo stesso.

L.S. Sul nostro cammino, nel domandarci dell’introspezione attraverso le tecnologie, abbiamo trovato come delle tracce molto precise. Siamo umani, sempre umani. Fin quando possederemo questa capacità di guardarci a vicenda, di esplorarci, non potremo mai fare a meno di stare insieme attorno a un tavolo a parlare di cose immateriali. Farci credere che possiamo escludere questo, è un grande errore, non potremmo mai farlo. Ed è per questo scambio, per questo riconoscersi nelle emozioni, nelle esperienze di altri e condividerle, che deve esserci immancabilmente la nostra presenza. Sia corporea che emozionale. Attraverso un incontro nel quale ci possiamo sbagliare, arrabbiare, litigare, ritrovarci. Si pensa che le macchine artificiali non abbiano capacità di errore. Studio Azzurro invece si interessa proprio agli errori: a ciò che chiamiamo «frattaglie digitali», scarti dell’universo software digitale, i cosiddetti bug. Tutto ciò che viene scartato nella ricerca dell’intelligenza artificiale, quindi la demenza artificiale, a noi interessa e ci diverte, così che possiamo parlare non di realtà aumentata, ma di ragione diminuita. E pensando sempre all’ubiquità e alle emozioni ogni tanto mi diverto a immaginare se si spegnesse la rete per più giorni, in che stato d’animo una persona potrebbe trovarsi. In mancanza di queste protesi che ci danno la possibilità di avere una estensione planetaria del nostro carattere. 

A.G. Certo, è l’altra faccia delle protesi. 

L.S. Tutto sta un po’ nell’interfaccia che abbiamo verso tali protesi. Per esempio, con l’avvento del mondo digitale Studio Azzurro ha provato a praticare attività di tipo collettivo con Tavoli (1995)In cui l’interfaccia invece di essere joystick, keyboard o mouse erano superfici sensibili che si contrapponevano al fatto di essere soli davanti al computer, andando a indagare il rapporto uno a uno tra utente macchina. 

A.G. Un autentico spazio sensoriale. E quando si percepisce, vince il presente. 

L.S. Il tema della sensorialità qui era preponderante, rispetto alla convenienza e alla comodità delle industrie digitali che hanno ridotto tutto ad una superficie liscia, monosensoriale. Tavoli (1995) ti invitava a sentire le venature di un legno, la ruvidità di una pietra o la pelle di un tamburo. Noi continueremo a spingere perché gli ambienti sensibili siano habitat, come diceva anche Paolo Rosa, nel quale tu ti muovi e hai esperienze plurisensoriali non solo multimediali ma multimodali, proprio. E quando tu cominci a usare l’interattività «in modo poetico» è come sbattere contro una parete, ci fa riflettere, vuole dire che c’è ancora un gran margine di lavoro poetico. 

A.G. C’è una cosa che mi viene subito in mente, parlando di ambienti sensibili: il percorso al buio, il “Dialogo nel Buio”, dell’Istituto dei Ciechi. Nel quale entri e vivi un’esperienza di cecità per un’ora. Togliere un senso per far esplodere gli altri sensi.

L.S. In quel caso si arriva a togliere la capacità di utilizzare gli altri sensi e devi sviluppare una nuova consapevolezza, in modo da aderire all’esperienza che fai. Devi imparare, prestare attenzione, metterti in gioco: esserci. Così come appunto era, forzando un po’ la cosa, Il Nuotatore: non c’era solo una persona che nuotava avanti e indietro per un’ora. Nelle dodici cassette abbiamo montato cento piccoli insert per cui, ogni tanto, nel passaggio del nuotatore, su un singolo schermo, c’è un piccolo accadimento della durata utile per non farlo intercettare dal nuotatore che passa, spezzando così la continuità che avrebbe potuto portare a una sorta di consuetudine.

A.G. La violenza dell’istante.

L.S. Invece questi elementi sparsi casualmente, questi cento elementi, non solo attirano l’attenzione, ma ti permettono, ancora una volta come dicevamo prima, di sviluppare un tuo personale racconto, spostandoti di volta in volta e avendo differenti punti di vista in differenti momenti. 

A.G. Per chiudere, Leonardo. Come affrontate il “quarantesimo anno”? E il futuro?

L.S. La realtà complessa e complicata nella quale viviamo sollecita e richiede una strategia di pensiero e azione articolata e diversificata. Anche se apparentemente in contrapposizione con quello appena esposto, una parte delle nostre intenzioni o direzioni di interesse e di ricerca per il futuro, riguardano quello che abbiamo sempre fatto, lo Studio Azzurro continua a interessarsi al rapporto tra le persone e le tecnologie, utilizzando in senso più aperto il linguaggio della poesia per sviluppare e/o attivare gli “anticorpi” necessari alla complessa convivenza con questi strumenti, a volte estremamente potenti, che ormai non possono essere disgiunti e ignorati dalla nostra vita quotidiana. Un altro tema che riguarda le nostre attività future è strettamente legato a quello appena detto, non esistono tecnologie buone o cattive, discrete o invasive, efficaci o inutili, dipende tutto dal modo in cui vengono usate e chi le usa sono le persone stesse., siamo noi. Quindi se vogliamo migliorare il nostro rapporto con questi strumenti, rendere il loro uso più utile per noi, dobbiamo adoperarci per cambiare anche noi stessi. Guardiamoci attorno, siamo circondati da grandi innovazioni tecnologiche ma a distanza di millenni, l’uomo uccide e opprime ancora i suoi simili per ragioni a volte difficili da capire. Per questo e per il fatto che un creativo, un artista è chiamato ad essere un testimone del suo tempo e ha un ruolo sociale e politico molto forte, nella società in cui vive, deve attraverso le sue capacità visionarie, immaginare e suggerire nuove direzioni da tentare e perseguire. L’azione di ricerca dello Studio Azzurro si sta orientando, quindi, non più verso la realtà esterna che ci circonda o quella virtuale, che più sottilmente ci rispecchia ma si domanda se non è giunto il momento di orientare questi strumenti tecnologici così potenti e la propria azione di ricerca verso quell’universo che non sta fuori di noi ma che, invece, è profondamente immerso e radicato dentro di noi.

ARTICOLO n. 76 / 2022

ALLA RICERCA DI ME STESSO. UNA LETTERA DEL ’43

Cento anni di Raffaele La Capria

Pubblichiamo una lettera estratta da Tu, un secolo, che raccoglie alcuni degli scambi epistolari più significativi dell’esistenza di Raffaele La Capria, da oggi in libreria. Ringraziamo Mondadori per la disponibilità.

Non capita tutti i giorni, qui, di avere carta e penna disponibili, un tavolo, sia pure improvvisato, e una o due ore di raccoglimento. Forse perciò ho deciso di approfittare dell’occasione – o l’occasione lo ha deciso per me – per fare una piccola indagine alla ricerca di qualcuno: in quale altro modo potrei esprimermi quando mi riferisco a me stesso? 

Qualcuno che non so bene chi sia, nemmeno se è un uomo o un personaggio. Già, dovrei subito spiegare che cosa voglio dire, e non mi è facile, io ho una difficoltà ad esporre le mie idee che dipende principalmente, credo… Ma è meglio non fermarsi al primo ostacolo, non ho molto tempo davanti a me, presto suonerà la tromba. Allora diciamo che secondo me – e proprio perciò già comincio a dubitarne – un uomo sarebbe chi s’appoggia su certezze e valori che gli altri possono condividere, e un personaggio no, deve in ogni momento inventarsi chi è. Se l’uomo è tutto in quello che è e che fa, il personaggio non è mai tutto in quello che è e che fa. Così l’uomo è portato all’azione, e per un personaggio ogni piccola azione è un incubo, perché non sa mai bene cosa lo spinge ad agire. Per l’uomo gli altri sono reali e lo rendono reale. Il personaggio è sempre solo, gli altri sono per lui dei fantasmi, in mezzo a loro anche lui si sente irreale. Come me qui.

Ma non credo che esista qualcuno proprio tutto-uomo o proprio tutto-personaggio. Le proporzioni dovrebbero variare all’infinito. Comunque, io che cosa sono, uomo o personaggio? 

Mi vien da ridere. Non tanto se penso perché scrivo tutto questo, ma dove lo sto scrivendo. Dunque, io sto scrivendo sotto una tenda, nell’anno di grazia 1943, mentre infuria una orribile guerra alla quale partecipo, mio malgrado, come caporal maggiore. Sono arruolato in un battaglione di universitari, il 52° Battaglione d’Istruzione, da noi soprannominato Distruzione, perché ci distrugge giorno per giorno. La nostra zona è definita Zona d’Operazioni anche se è distante molte miglia dalle linee nemiche, perché in questa zona s’aspetta, è ritenuto imminente, un lancio di paracadutisti. Dopo una lunga marcia di addestramento per le polverose strade della pianura assolata, ecco, prima che cada la sera, un’ora di frescura e di riposo. I miei compagni sono in giro a bighellonare da un albero all’altro. Siamo attendati in un uliveto, e sotto gli alberi già si formano vari gruppi raccolti in chiacchiere, giochi di carte, scherzi. È naturale scrivere quello che sto scrivendo io, in una situazione del genere? Quanto inammissibilmente lontano dagli avvenimenti in corso, e ai quali pure partecipo, è questo mio scritto? Che senso ha scrivere questa roba quando il destino di milioni di uomini, e forse anche il mio, è un gioco da decidersi? Immagino già cosa direbbe Tullio se gettasse uno sguardo su questi fogli. Ma li terrò ben nascosti, o li metterò in una busta e li spedirò come una lettera, senza indirizzo. Io stesso, d’altronde, non saprei come giustificarmi. Posso solo dire che da troppi giorni viviamo isolati così, in attesa di un nemico che non viene.

Non viene il nemico dal cielo, non ci arrivano notizie se non confuse della guerra, non riceviamo più posta da casa. In questo completo isolamento, in questa vita totalmente involontaria che sono costretto a vivere, ho avuto paura di non esistere più, proprio di non esserci. A volte solo la cinghia della mitragliatrice che porto sulle spalle nelle stupide marce sfibranti, che mi segna la carne e mi indolenzisce le ossa, solo il sudore abbondante e animalesco della fatica inutile, mi danno la sensazione di esserci. Ma è un modo di essere che non mi basta e non mi compete. E dunque per rientrare in una sfera di mia competenza, che in qualche modo cioè mi riguarda, io mi sono rifugiato qui, sotto la tenda della fureria a scrivere. E proprio perché avverto l’enorme distanza tra quello che sto vivendo e quello che sto scrivendo, l’enorme distanza di ognuna di queste mie parole dalla Storia, provo un senso di soddisfazione che finalmente mi dà la certezza di esistere. Sì, il mondo è in fiamme, e io, insieme a tanti altri, potrei essere spezzato via dalla catastrofe. Ma stasera mi trovo qui, nell’incerta luce, a scrivere sul tavolo concessomi da furiere, della differenza, nientedimeno, tra uomo e personaggio, e di altre sciocchezze del genere che però mi competono più della cinghia della mitragliatrice.

Stasera non mi va di unirmi agli altri, non mi va di partecipare alle loro discussioni. E poi spesso nelle discussioni ho la peggio, mi mancano le qualità dialettiche, le convinzioni ferme. Se qualcuno mi contraddice, in cuor mio subito gli do ragione, anche se le mie parole gliela negano. Così è successo con Tullio. 

L’ho sempre stimato, Tullio, sin dagli anni del ginnasio, per la sua capacità di sistemare idee e concetti, mi piacciono quelli come lui che hanno delle opinioni e le sanno difendere. E proprio Tullio mi ha messo nello stato d’animo che ora mi fa scrivere. Abbiamo quasi litigato sul momento. Il tono aspro della sua voce mi è parso indiscreto, e la sua accusa, fatta apertamente davanti agli altri, mi ha colpito nel vivo. Ma, lo devo riconoscere, ha messo il dito sopra un vizio che ritenevo invisibile e che anche a me stesso era poco chiaro. Mi sono sentito scoperto, in pericolo: e lui mi parlava, sicuro di non sbagliarsi, come se tutto fosse scontato, ovvio. Se un altro, perfino il mio migliore amico, mi vede dentro, avverto sempre questo senso di pericolo, devo correre subito ai ripari… 

Certo avevo da tempo notato delle “instabilità”, per così dire, che a volte giocavano un forte ruolo nella mia vita, ma ad esse non avevo mai dato quell’importanza che gli do adesso, dopo la discussione avuta con Tullio. 

Pur intrattenendo con gli altri rapporti che chiunque giudicherebbe normali, io sento di non essere mai in quel naturale abbandono, che tali rapporti di solito comportano. Non c’è finzione nel mio modo di essere, e neppure penuria di affetti e mancanza di generosità. Anzi, mi sono prodigato sempre più del necessario proprio perché io solo sapevo che quell’altro me stesso intangibile doveva pur fare qualcosa per farsi perdonare la sua intangibilità, da me non voluta e spesso odiata. Questo, credo, Tullio deve averlo intuito. Una volta mi ha detto che con le idee io intrattengo gli stessi rapporti che con gli uomini, e quando mi sente parlare ha sempre la sensazione che per me le idee, anche quelle che rappresentano una sfida dell’umanità, siano qualcosa di estraneo. Anzi, ha precisato, è come se, pur comprendendone il valore e la portata, queste non fossero mai formative, per me, non avessero mai inciso dentro. Come avrà fatto a capirlo? 

Tra i miei compagni, a parte i discorsi sulla guerra e su tutto quello che incombe, si parla parecchio di queste idee. Anche qui, dopo il rancio, accovacciati sotto gli ulivi, si fanno certi discorsi come al GUF, che se li sentissero i superiori, da capitano in su – qualche tenente ci sta – rimarrebbero indignati e forse prenderebbero provvedimenti disciplinari. È già avvenuto. Si parla di Croce, di ciò che è fascismo e ciò che non lo è, ma soprattutto si parla di Marx, o contro Marx. Il linguaggio marxista è una lingua in cui ogni parola ha un significato preciso. Se si dice “borghese” o “piccolo borghese”, se si dice “intellettuale” o “classe operaia”, “sottoproletariato” o “sovrastruttura”, tutto questo vuol designare cose ben analizzate dal marxismo, perché il marxismo è una chiave che apre tutte le porte e spiega la condizione dell’uomo, il suo sfruttamento eccetera, è una dottrina totale. 

A volte mi sembra di essere convinto di questa idea marxista e convinto di questo linguaggio. Nella presente situazione, mentre siamo in una guerra che certamente perderemo, il marxismo è una buona spiegazione di tante cose e una buona speranza per cambiarle. Non esito a scriverlo, anche se, scoperto, sarei deferito al tribunale militare. Una tale eventualità non mi fa paura e anzi rende ancora più suggestiva per me l’idea marxista. Ma come mai, se voglio persuadere un altro di questa idea così suggestiva e rivoluzionaria, non trovo gli argomenti adatti, non resisto alla minima obiezione, e comincio io stesso a non crederci più? Ciò non accade per la mia difficoltà ad esprimermi, né per la mia immaturità di anni e di pensiero (a vent’anni poi non si dovrebbe essere tanto immaturi), ciò accade per una difficoltà più sostanziale, che è appunto il mio modo di avvicinarmi alle idee. Tullio dice che a volte siamo pronti a far nostra un’idea per il solo fatto di averla compresa fino in fondo, in tutte le sue possibilità. Lui dice che a me succede qualcosa di simile: il mio intelletto è abbastanza duttile per impadronirsi delle idee più disparate e contrastanti, ma poi di fronte ad esse resta imparziale ed astratto, dando a tutte contemporaneamente diritto di asilo. Si può immaginare il guazzabuglio che provoca questo mio atteggiamento? Perché non si dovrebbe accusarmi di superficialità e indifferenza?

Ma io mi ribello. Se non so procedere per una sola direzione col risultato di non imboccarne mai una, vuol dire che per me mantenere la contraddizione è l’unico modo, abbastanza sensato, di far lavorare il cervello. In uno stato di attivo scetticismo, non di superficialità e indifferenza, come dice lui. Lo stesso avviene quando parliamo di libri, di letteratura. 

Giorni fa, per colpa mia, sono stati perquisiti tutti gli zaini. Un’idea del colonnello. Durante la quotidiana marcia di addestramento ho tirato fuori un libriccino coi racconti di Čechov e mi sono messo a leggere camminando, come un prete col breviario. Da lontano il colonnello mi ha visto, ha fatto fermare la colonna, e ha improvvisato un discorso sulla propaganda disfattista e i libri sovversivi. Tullio s’è divertito, qualche giorno dopo, a rifare la scena: il colonnello che mi fissa mentre io marcio assorto nella lettura, e lo sguardo, lo sguardo del colonnello che esprime non solo l’ira e l’imminenza della punizione da infliggermi, ma anche l’oscura consapevolezza che con soldati come me la guerra non si potrà mai vincerla. Čechov, un russo! Sono stati allineati nel campo, davanti alle tende, prima del rancio, tutti gli zaini, e molti libri sono finiti in un falò, anche i romanzi più innocui, soprattutto quelli con la copertina rossa. Così ho perduto Moby Dick nella traduzione di Pavese, ma ho salvato La concezione materialistica della storia di Labriola, sfuggita non so perché, forse per l’aspetto serio e rispettabile dell’edizione Laterza. Lì dentro c’è, appunto, il Manifesto del Partito Comunista, che ancora passa di mano in mano… 

Quando, come dicevo, parlo con Tullio dei libri che leggo, sento che lui trova continui rapporti tra un libro e un altro, tra un libro e la realtà da cui è nato, quasi che ogni libro facesse parte di un concerto ben orchestrato che si chiama la Storia della Letteratura. Anche io a volte parlo in questi termini e mi do da fare in questa direzione, con osservazioni ben azzeccate, ma a dir la verità la musica del concerto non mi arriva. Ogni libro se ne sta, per me, in un mondo tutto suo, esclusivo e separato; è come se non appartenesse alla vita ma le facesse concorrenza, una forma che si aggiunge alle altre forme del mondo, insomma, e non per portare chiarezza, ma ambiguità e disordine. Così ogni libro è un messaggio chiuso in una bottiglia, proveniente da un mare dai confini incerti, e lascia labili tracce contraddittorie dentro di me, l’eco di domande senza risposta, il senso di un ordine nato dalla negazione di quello esistente. Mi guardo bene di dirlo a Tullio, perché anche in questo caso mi accuserebbe di superficialità, di cercare nei libri, a causa della mia inadeguatezza al mondo, un altro reale possibile, pur di non affrontare quello esistente. No, meglio non intaccare il suo lavoro di sistemazione, meglio non disturbare il suo concerto con le mie note dissonanti. E però sempre penso: Se dopo tutto, avesse ragione lui? 

Mi rendo conto che ero partito con un proposito, con quella distinzione tra l’uomo e il personaggio, e che adesso mi sto disperando in una serie di digressioni. Solo così sono capace di esprimermi. Forse invece di occuparmi di Tullio e delle sue idee contrapponendole alle mie, potrei utilizzare meglio il mio tempo scrivendo alla mia ragazza. 

Perché invece di scrivere per me non scrivo a lei? Perché perdo tempo così se, da un momento all’altro, in questo miserabile Deserto dei Tartari può risuonare lo squillo di tromba fatale? Ma la posta non funziona; e poi cosa dovrei scriverle? Qui tutti hanno una ragazza a cui scrivere, e tutti appena se ne presenta l’occasione vanno a donne, come e dove capita. Quando ci hanno portati coi camion in un paese vicino a ripulirci un po’ sotto le docce, mi sono trovato anch’io, dopo, con gli altri in una squallida stanza. C’era un vecchio, una vecchia e due bambini che giocavano in un angolo. Sulle sedie allineate lungo la parete, i miei compagni aspettavano il turno, scambiando qualche parola coi vecchi. C’era solo una tenda stesa nella camera, e dietro la tenda, sopra una branda, una specie di bambolona paffuta e rosea, con un fiocco di seta azzurro nei capelli. Senza neanche spogliarci, sentendo le chiacchiere di là, ci sdraiavamo accanto al suo corpo nudo. Sì, anch’io come loro. Non sono diverso da loro, ma di queste esperienze mi resta solo un senso di pena, e una mancanza. Ho scritto quel giorno una lettera d’amore alla mia ragazza, e mi pareva di recitare anche se non c’era finzione, perché si può recitare la sofferenza soffrendo davvero e recitare l’amore amando davvero, ma come si fa a superare quell’altra finzione della nostra natura che ci costringe a recitare?

Se ora penso alla mia ragazza mi sembra talmente lontana che nemmeno mi ricordo più com’è fatta. È una successione d’immagini staccate – un profilo, un’onda dei capelli, il suono di una parola – inseguite lungamente, fino a perdere qualsiasi rapporto con la persona da cui emanano: è l’inganno che devo interrompere tirando fuori dal portafogli la sua fotografia. La guardo e dico a me stesso, sì, è lei, è proprio lei, la mia ragazza. A volte, con la sua fotografia bene in vista davanti a me, le ho scritto di queste mie giornate forzose, e le ho scritto anche parole d’amore. Ma la distanza mi rende così, mi fa incerto dell’esistenza di lei come sono incerto tante volte della mia stessa esistenza. Se non avessi lei, le ho scritto, mi sembrerebbe di essere un piccolo pianeta sospeso in un suo giro solitario che si ripete sempre uguale: questo e cose simili le ho scritto, sempre più di rado. E forse ho esagerato a dirle che senza di lei sarei un piccolo pianeta solitario, perché lo sono in ogni caso, con lei o senza di lei. Ma lei non lo sa, e io ho continuato a scriverle perché non lo sapesse… 

Ieri è capitato il fatto che ha provocato la discussione con Tullio, e come conseguenza questo mio scritto. Io mi trovavo in uno stato di assenza. Mi accadde spesso di concedermi delle pause di riposo per appartarmi da tutto, anche da me stesso. Allora entro nello stato che chiamo di assenza, in cui non ci sono, letteralmente non ci sono e questo mi fa molto bene, perché quando per così dire “ritorno”, è come se avessi dormito e il sonno mi avesse ristorato. Ero in uno stato simile, sotto un uliveto, in contemplazione della mia stessa assenza. Ed ecco un mio compagno si avvicina di soppiatto e con uno di quegli scherzi un po’ goliardici che s’usano fin troppo tra noi, mi dà con la mano aperta un colpo sulle spalle, così forte da lasciarmi l’impronta. Un dolore bruciante, mi volto, e lui fugge gridando: «Sveglia! Adunata! Allarme! I paracadutisti!». Ho afferrato la baionetta, e la mia reazione è stata imprevedibile anche per me stesso: ho tentato di colpirlo, potevo ucciderlo! Quella sua improvvisa irruzione nel cerchio della mia assenza, non il dolore e la sorpresa, mi aveva sconvolto. 

Cos’è questa assenza?, mi sono domandato. Ma è inutile e forse impossibile descriverla. È una sorta di rapimento o piuttosto una fuga, fuori dalla nuvola di parole e di concetti che sempre ci avvolge, e fuori da ogni ricostruibile immagine o pensiero. Somiglia all’andare e venire dell’onda sulla spiaggia, all’allargarsi di cerchi d’acqua, al gioco delle nuvole difformi. Devo avere uno sguardo idiota quando piombo in queste assenze, e devo essere una bella tentazione per una piattata sulle spalle! Ma perché stavolta il “ritorno” è stato così furioso? Perché essere bruscamente riportato nell’attendamento sotto gli ulivi, tra i miei compagni del 52° Battaglione Distruzione, ha provocato quell’ira sconosciuta? 

Tullio mi si è buttato addosso per trattenermi, e tutto è finito lì. Ma poi quando mi sono calmato ha cominciato ad accusarmi, e davanti agli altri si è permesso di parlare di queste mie assenze: le ha definite il segno di un rifiuto, di una non accettazione della realtà e dunque della Storia. Lo avevo previsto. Da buon marxista lui classifica bene i comportamenti, cos’altro poteva rinfacciarmi? Ha detto che in me c’è una contrapposizione tra intelligenza e carattere. Io credo, così lui sostiene, che il carattere, il mio carattere, sia qualcosa di misterioso, immutabile, un dato fisso di natura, un destino, come il Fato per i Greci, e credo che la mia intelligenza, e dunque la mia volontà, non possano neppure scalfirlo. Ha detto che tutto ciò determina una frattura, rende impossibile quella composta unità che è, dovrebbe essere, la personalità di ogni uomo maturo e cosciente. Insomma, secondo lui, nonostante la mia intelligenza e cultura sono rimasto fermo in un mondo autosufficiente, infantile, immaginario. 

«E che ci sarebbe di male, se fosse così?» gli ho replicato, sapendo di non poter tenergli testa, e già dandogli ragione. 

«C’è di male che è sbagliato.»
«Perché?»
«Perché crea una falsa personalità.»
Dovevo pensare invece, che il carattere è solo un risultato, è formato dalla stratificazione continua di piccole azioni erroneamente ritenute impulsive o accidentali, che alla fine si condensano e si sommano in un malloppo duro come un metallo difficile a fondere. 

«Per esempio» ha detto, «prendi il tuo modo di reagire poco fa. Non è vero che non ti riconosci in quella tua azione?» 

«Certo, mi dispiace, ero fuori di me.» 

«Vedi, qui sta la frattura. O l’intelligenza e la volontà e la cultura modificano il carattere, o lo sottoporranno al tuo continuo giudizio negativo, e tu sarai il risultato della negazione di te stesso. Tutto questo, in altre parole, è reazionario e borghese.» 

«Ma che c’entra adesso la borghesia?» 

«Perché è tipico della borghesia analizzarsi, essere complicati come te, violenti e introversi come te. È tipico del reazionario credere a qualcosa di immobile come il Fato. È contro tutto ciò che cambia, contro la vita, contro l’azione per il riscatto dell’uomo da quello che sembra essere, e non è, il suo Fato; il Fato che l’opprime e lo sfrutta.»

«Ma scusa» gli ho replicato indispettito, «i Greci allora erano reazionari. Non hanno portato la civiltà al mondo? Non hanno cacciato via i Persiani? Loro credevano al Fato.» 

«Che c’entrano i Greci? Lo vedi che non sai ragionare? Tu non sei un greco. Sei solo un borghese dalla personalità labile, uno che non c’è, che non vuole prendersi la briga di esserci!»

Ecco, ho pensato io dopo questa discussione, Tullio sì che è un uomo! Ed è venuta fuori così la distinzione tra l’uomo e il personaggio, sulla quale ho cominciato a scrivere. Io sarei un personaggio, mi sembra abbastanza chiaro, ma un personaggio che sa che gli “uomini”, dopotutto, non stanno facendo una gran bella figura in questo momento. A volte sembrano irreali, e più dei personaggi. Il capitano, per esempio, è un fascista, eppure sa quello che deve fare quando occorre, ha delle convinzioni – sbagliate, ma le ha. È virile, è coraggioso, sa prendersi le responsabilità. Tutto questo appartiene agli uomini. E devo ammettere che quando pensavo all’ “uomo” ho pensato anche al capitano per contrapporlo a Tullio. Così esisterebbero due specie di uomini: a quale delle due alludevo, io che sto sempre in mezzo? Ma poi sarà vero che essere uomini è una qualità con caratteristiche sempre ammirevoli e distribuita in dosi così preponderanti? 

Solo un personaggio, Dio mio, può porsi delle domande così assurde. Anche questo mi fa soffrire. Ed è brutto soffrire di non soffrire delle stesse sofferenze di cui soffrono gli altri. Comunque ho almeno stabilito che essere “uomo” può apparire anche ridicolo nelle attuali circostanze. Dunque non voglio essere un personaggio, e neppure un uomo. Cosa allora? Si può provocare un mutamento, un cambiamento di rotta di tutti i nostri pensieri e modi di essere, solo con la volontà, come dice Tullio? O sarebbe necessaria invece qualche altra qualità dell’animo, richiesta dai tempi, e che a tutti per ora manca, agli uomini come ai personaggi? Sì, forse il piccolo duro pezzo di metallo che costituisce il fondo immutabile della mia natura sarà fra breve buttato dagli avvenimenti nel comune crogiuolo di questa immane catastrofe, e allora, forse, fonderà… 

Ecco, la tromba sta suonando! Devo correre!

Sarà il solito falso allarme che serve ad abituarci all’imminenza di quello vero. I nemici venuti dal cielo potrebbero già, nascosti dietro gli ulivi, puntare le armi contro le nostre tende. Se un colpo sparato senza intenzione di uccidere proprio me, uccidesse proprio me? Morirei come tanti miei compagni, come tanti miei coetanei, senza sapere nemmeno chi sono, senza sapere nemmeno perché.

Raffaele La Capria

© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano

ARTICOLO n. 75 / 2022

IL RITORNO DELLA CRITICA

Quando avevo intorno ai cinque anni, durante una cena di Natale, un parente mi chiese cosa volessi fare da grande. Risposi: il velociraptor. Era da poco uscito Jurassic Park (il romanzo, non il film) e l’idea di essere un animale magro, rapido e fatale mi riempiva di adrenalina. Comprensibilmente l’intera tavolata si mise a ridere. L’uscita mi venne rinfacciata fino a quando a diciott’anni finalmente lasciai il mio paese per non tornare più.

Molto tempo dopo mi trovavo seduto nell’ufficio del mio relatore di tesi al sesto piano di Palazzo Nuovo, la sede delle facoltà umanistiche dell’Università di Torino. Avevo da poco discusso una tesi triennale su Raymond Carver, narcisismo e risentimento mimetico. Ero indeciso su quale indirizzo scegliere per la specialistica, per quello avevo organizzato l’incontro. Come quel parente malevolo vent’anni prima, il professore mi chiese cosa volessi fare della mia vita. E come il bambino ingenuo che ero stato, mi feci cogliere di sorpresa ancora una volta. Risposi: vorrei fare il critico letterario.

Il professore rise. Non nella maniera sguaiata degli zii radunati per Natale, ma con il riso sarcastico e disilluso che si addice all’accademia. Comunque fosse, la reazione mi lasciò depresso: davvero tutte le mie aspirazioni erano così irrealistiche? Ero condannato a innamorarmi per sempre di specie estinte?

La risposta era sì, e non avrei dovuto arrivare a ventitré anni per capirlo. Quattro anni prima, poche settimane dopo il mio arrivo a Torino, ero stato alla libreria Feltrinelli di Piazza San Carlo. Era un giorno di ottobre del 2004, faceva già un freddo irreale e per combattere la solitudine e l’ansia della separazione decisi di fare quello che avevo fatto per cinque anni di liceo di fronte alle difficoltà: cercare risposte nei libri.

Di quel giorno ricordo distintamente poche cose, ma una di queste è la sorpresa che provai nello scoprire un’intera sezione della libreria dedicata alla critica letteraria. File intere di Auerbach, Barthes, Benjamin, Blanchot, Bloom, Jameson, Sontag, Todorov – ma anche Ceserani, Citati, Eco, Moretti. Dovevano essere almeno sei scaffali, una parete intera. Certo, una parete piccola, marginale, un po’ nascosta, che faceva angolo, quasi invisibile dietro lo stand dei libri di cucina, offuscata dalle guide turistiche immediatamente alla sua destra, ma comunque una parete intera. Una riserva: guardavo a quei libri come altrettanti panda. E a ragione, perché negli anni che seguirono avrei osservato la parete ridursi sempre di più di dimensioni. Gli scaffali divennero cinque, poi quattro. La sezione fu rinominata “Critica letteraria, musicale e cinematografica”. Infine fu accorpata alla saggistica generale, e quella fu la fine…

Cosa era successo in quei quattro anni? Qual era il virus che aveva provocato la malattia e la morte di un intero genere letterario? La risposta è facile: internet. Nel 2004, appena arrivato a Torino, dovevo ricorrere alla Biblioteca Nazionale e ai suoi computer con installato Windows 95 se volevo ricevere e mandare e-mail gratis, perché a casa non avevo una connessione. Nel 2008 io e miei inquilini scaricavamo in pochi secondi l’intera discografia dei Radiohead con l’ADSL, avevamo identità digitali su MySpace (Facebook sarebbe arrivato poco più tardi) e come tutti sceglievamo che libri leggere basandoci sulle recensioni di utenti anonimi su forum e blog. Nessuno aveva più bisogno dei critici letterari, che erano diventati inutili quanto i ragazzi che mettevano a posto i birilli nelle sale da bowling quando qualcuno aveva inventato il braccio meccanico.

Internet però era stato solo il colpo di grazia. La critica aveva iniziato il suo declino nel momento stesso in cui aveva raggiunto l’apice del successo negli anni Sessanta. In quel breve, luminoso decennio, la popolarità assunta dalla semiotica, dall’ermeneutica gadameriana e dal poststrutturalismo aveva portato nella cultura di massa una nozione a suo modo rivoluzionaria: quella per cui tutto il mondo è un testo, e come tale può essere interpretato. Era la liberazione della disciplina dai confini angusti della sua scomoda specializzazione. Il critico smetteva di essere un autore fallito che con sadico rancore faceva a pezzi il lavoro degli altri per diventare un personaggio cool, perfettamente inserito nel nuovo universo radicalmente denaturalizzato dell’industria culturale.Se tutto è culturale, tutto è un segno. E se tutto è un segno (magari addirittura un segno slegato dal proprio referente profondo, un significante senza significato, come avrebbe detto qualche decennio più tardi Baudrillard), tutto può essere letto. Chi meglio di un critico letterario, abituato all’esegesi di testi scritti, può rapportarsi a un mondo diventato un unico, infinito, sistema semiotico?

Sembrava l’utopia degli intellettuali, un mondo di allegri secchioni intenti a interpretarsi a vicenda all’infinito. E invece il postmoderno dà e il postmoderno toglie, come una divinità indiana dalle molte braccia. Forse non è nemmeno un caso che a porre fine a questo ambiguo paradiso maschile avrebbe dovuto pensarci una donna, chissà. Fatto sta che proprio mentre quello del critico letterario sembrava essere diventato il mestiere più fondamentale dell’Occidente, una trentenne newyorkese pubblicò un saggio di cinque pagine diviso in punti come fosse il manifesto di una nuova avanguardia. L’autrice era Susan Sontag, il saggio si intitolava Contro l’interpretazione e si concludeva con una sentenza: «invece che un’ermeneutica abbiamo bisogno di un’erotica delle arti». Era il 1964 e la ragazza ci aveva visto lungo. Se quell’aforisma era l’harakiri della critica, che si rendeva obsoleta da sola, era anche l’inizio di un nuovo mondo.

Incredibile ma vero, data l’enorme influenza avuta dall’idea di Sontag nello sviluppo della sensibilità contemporanea, in Italia Contro l’interpretazione e altri saggi è rimasto fuori catalogo per anni. In inglese esiste una versione Penguin Modern Classics, ma quando una decina di anni fa cercai il libro nella biblioteca londinese in cui lavoro, l’unica versione disponibile risaliva agli anni Settanta, ed era così logora e ingiallita che sembrava di avere tra le mani un testo vittoriano. Mai un’idea ha dimostrato la propria validità in maniera tanto concreta e autoevidente: un classico della saggistica anglosassone, in un’università britannica di primo piano in cui si dovrebbe insegnare anche critica letteraria e letterature comparate, non veniva preso in prestito da quasi quindici anni. 

Ciò che Sontag intendeva dire con la sua lapidaria, fulminante conclusione, era qualcosa di profondamente in linea con lo sviluppo dell’industria culturale nei decenni successivi alla pubblicazione del suo saggio. Ricordiamo che Contro l’interpretazione fu pubblicato inizialmente nel 1964: solo due anni prima Andy Warhol aveva esposto per la prima volta a Los Angeles le sue zuppe Campbell’s, dando vita (almeno se diamo retta a Fredric Jameson) all’arte postmoderna; un anno più tardi, nel 1965, Georges Perec scriveva Le cose, la prima istantanea di un nuovo feticismo degli oggetti e di quella estetizzazione della vita quotidiana che sarebbe arrivata dritta dritta fino a Instagram. Il saggio di Sontag usciva in volume nel 1966, un anno prima che Debord desse alle stampe un altro influente manifesto, La società dello spettacolo. Quelle che si stavano cominciando a mappare erano le coordinate di un nuovo panorama culturale, in cui a farla da padrone era l’immagine. Un’immagine ubiqua, completamente superficiale, la cui interpretazione si esauriva tutta nell’esperienza estetica. Niente rimandava più a niente. Non c’era nulla da interpretare, solo un oggetto culturale mercificato, un’icona bidimensionale, un meme che agiva a livello prelogico sulle nostre sinapsi, alterando la nostra libido. “Un’erotica delle arti”, appunto.

Le cose sarebbero continuate pressoché inalterate per lunghi decenni. I nuovi media come le fotocamere digitali e internet non avrebbero fatto che sprofondarci sempre di più nella perfetta realizzazione di questa idea, il simulacro di cui parlava Baudrillard. Internet soprattutto, moltiplicando all’infinito i punti di vista e mettendo in crisi il principio di autorità, elevava il principio espresso da Sontag all’ennesima potenza: non si trattava nemmeno più di una sola erotica delle arti, ma di un numero infinito di erotiche, una per ogni consumatore culturale. Per la critica, letteraria e non, sembrava non esserci via di ritorno.

Per questo sono rimasto stupito quando, quest’anno, Nottetempo ha deciso di ripubblicare Contro l’interpretazione nella nuova traduzione di Paolo Dilonardo, che di Sontag ha tradotto quasi tutta la nonfiction che si trova in italiano. Ancora più sorprendente è che, sotto la direzione editoriale di Alessandro Gazoia, l’editore milanese abbia lanciato un’intera collana, Extrema Ratio, dedicata proprio alla critica letteraria. Finora ha pubblicato quattro testi: due pesi massimi della disciplina (Auerbach e Franco Moretti), un importante nome dei gay studies poco conosciuto in Italia (D.A. Miller) e un giovane critico italiano (Mimmo Cangiano). Già in Italia è difficile fare una casa editrice che produca utili, soprattutto con la saggistica. Un testo di critica può scappare qua e là, come un guilty pleasure, ma una collana intera sembrava un suicidio.

Eppure a guardare da vicino le cose sono un po’ più complesse di così. È da qualche anno che la critica fatta uscire dalla porta sembra essere rientrata dalla finestra. Mascherata, obliqua, ibridata quanto si vuole, eppure riconoscibile nelle sue forme e persino nelle sue ossessioni. Pensiamo al successo anche commerciale di autori come Daniel Mendelsohn o Anne Carson: scrittori che hanno fatto della mescolanza delle forme il loro punto forte, capaci di alternare fiction e non-fiction, autobiografia e analisi, ma che sono soprattutto due grandi esperti di letteratura greca. Oppure a Tom McCarthy, un critico letterario e artista visuale diventato tra i narratori britannici più interessanti degli ultimi anni, promotore di una innovativa forma di theory-fiction. Ma anche a due autori di culto come Simon Reynolds e soprattutto Mark Fisher: era da tempo immemorabile che un critico culturale non faceva breccia nel cuore delle masse di giovani. Questo rinnovato interesse permette a editori più piccoli operazioni coraggiose, come la recente pubblicazione da parte di Wojtek dei saggi critici di Danilo Kiš (L’ultimo bastione del buon senso, traduzione di Anita Vuco, 2022) o l’ambizioso L’impensato di N. Katherine Hayles per Effequ (traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini, 2021).

Dobbiamo dedurne che la spinta antiermeneutica teorizzata da Sontag ormai quasi sessant’anni fa si sia esaurita, e che ci aspetta un futuro in cui la critica si ritaglierà un nuovo spazio?  Vedremo realizzata con mezzo secolo di ritardo l’utopia critica degli Eco e dei Barthes? Non proprio. Ma questo ritorno inaspettato rimane interessante e merita di essere approfondito.

Un buon punto di partenza per farlo potrebbe essere proprio il primo libro pubblicato da Extrema Ratio: Falso movimento di Franco Moretti, anche membro del comitato che cura la collana. Il libro prende il titolo da un film di Wim Wenders, da cui Moretti estrapola questa citazione: «Avevo l’impressione di aver mancato qualcosa, e di continuare a mancare qualcosa, a ogni nuovo movimento».

C’è qualcosa di meta-critico, che i teorici degli anni Sessanta avrebbero senza dubbio apprezzato, nel lanciare una collana di critica letteraria con quella che è, in un certo modo, l’ammissione di una sconfitta. Non solo Moretti è tra i principali critici letterari viventi; è stato anche uno dei pochi a provare a mantenere viva la fiammella della critica negli anni più bui, quelli del boom informatico dagli anni Ottanta in poi, e per farlo è per così dire venuto a patti con il nemico: ha provato un approccio alla letteratura simile a quello dei big data (la “letteratura vista da lontano”, come recita il titolo di un suo celebre libro del 2005), che spostasse il centro dell’attenzione dallo sguardo personale del critico alla vista a volo d’uccello resa possibile dalla tecnologia. Un approccio che in altri campi, come quello delle digital humanities, ha prodotto risultati sorprendenti, anche grazie al perfezionamento delle intelligenze artificiali, ma che nel campo della critica non ha portato i risultati sperati. Puoi addestrare una rete neurale avversa a mappare la letteratura dell’Inghilterra industriale, come sta facendo la British Library nel suo interessante progetto Living with Machines, ma forse non arriveremo mai al punto in cui l’IA riesce a estrarre reale significato dai testi. Traccia costellazioni, ma non le interpreta. Che queste costellazioni fossero sufficienti al lavoro del critico era la sfida dell’approccio quantitativo alle letterature comparate. Scrive Moretti nella sua introduzione: «Falso movimento: si è partiti e poi, come in ogni road movie che si rispetti, la meta ha via via perso importanza rispetto a ciò che si intravedeva ai lati della strada». È un’ammissione coraggiosa se hai dedicato il grosso della tua carriera a un’idea.

Tutto ciò mi fa venire in mente un libro, Satin Island di Tom McCarthy. Il protagonista del romanzo (se si può chiamare romanzo un oggetto letterario come Satin Island) si chiama U. ed è impegnato a compilare per la misteriosa azienda per cui lavora il Grande Rapporto, un borgesiano dossier che descriva tutto il mondo. Lo scopo, presumibilmente, è sfruttare l’informazione a fini commerciali. Inutile dire che anche il progetto di U. è destinato al fallimento. Non c’è qualcosa che accomuna il Grande Rapporto e l’idea di Moretti di un’entità onnicomprensiva e impersonale capace di abbracciare tutta la letteratura (cioè, direbbe ogni critico che si rispetti, tutta la vita) in un unico sguardo? E non sono entrambi a modo loro tentativi di fare ciò che i critici degli anni Sessanta si erano proposti di fare, cioè di trasformare tutto il mondo in un testo e di interpretarlo, pezzo per pezzo?

Satin Island e Falso movimento sono accomunati anche da qualcos’altro: il fatto che, laddove il progetto umano di attribuzione di senso fallisce, o quantomeno riconosce i suoi limiti, lo stesso non si può dire dell’aspetto tecnologico. Dopo la pubblicazione del romanzo, McCarthy ha scritto per il Guardian uno stupendo pezzo intitolato significativamente The Death of Writing. «Tutt’altro che impossibile da scrivere», dice McCarthy verso la fine, «il Grande Rapporto che tutto contiene viene scritto in ogni momento intorno a noi – non da antro-romanzieri ma da un codice binario neutrale e indifferente il cui solo scopo è perpetuare sé stesso». Lo stesso potremmo dire dei big data letterari dati in pasto a computer e intelligenze artificiali: il senso è lì, da qualche parte, nascosto nei miliardi di bit; l’informazione chiave che ci permetterebbe di comprendere tutto è già stata scritta, ma in una lingua che non possiamo comprendere, fatta dalle macchine per le macchine. Il senso si perde in un linguaggio diverso da quello umano, dove è il concetto stesso di “senso” a non avere significato.

Cosa ci dice questo del percorso della critica, del suo apice, della sua caduta e della sua timida rinascita? Almeno due cose importanti.

La prima è che avevano ragione gli Eco e i Barthes negli anni Sessanta: il mondo è davvero tutto un testo che aspetta solo di essere interpretato. Sfortunatamente per noi, però, è un testo così infinitamente complesso, così multiforme e caleidoscopico, un tale insieme di meta-testi che si perdono l’uno dentro l’altro come in un gioco di scatole cinesi o in un’immagine del Bhagavad Gita, che nessun essere umano può leggerlo se non in maniera pateticamente parziale e imperfetta. Per comprenderne gli aspetti nascosti abbiamo bisogno della tecnologia, che però oblitera l’idea stessa che un senso – e dunque un’ermeneutica propriamente detta – sia ancora possibile. Il significato dunque è come uno dei documenti che il povero K. cerca inutilmente di ottenere nel Castello di Kafka: si trova sempre nella stanza accanto, fuori dalla nostra portata. Sempre presente e sempre irraggiungibile.

La seconda è che, proprio per questo, davvero ciò che ci rimane è “un’erotica delle arti”. Non perché come pensava Sontag nessun tentativo ermeneutico è più possibile, e dobbiamo limitarci all’esperienza della fruizione dell’opera d’arte, bloccati su una superficie che non contiene nessuna profondità. Semmai per la ragione opposta: perché tutto è così infinitamente profondo e complesso che non potremo mai comprendere più di quanto il nostro (limitato, ma insostituibile) sguardo umano ci permette di comprendere. Per questo trovare il senso laddove è programmaticamente irraggiungibile non è un’operazione di decodifica, ma di scrittura vera e propria. Inevitabilmente significa colorare ciò che è di per sé incolore del nostro desiderio.

Ecco allora che succede ciò a cui stiamo assistendo oggi, e cioè il ritorno della critica, ma di una critica nuova. Il critico non è più gregario rispetto all’autore: il critico è l’autore, come dimostrano i casi di Mendelssohn, Carson, McCarthy. Laddove tradizionalmente la disciplina sembrava poter esistere solo sulla base di una supposta oggettività (era in fondo la domanda sollevata da internet: perché dovrei fidarmi della tua opinione, se chiunque può leggere un libro e scrivere ciò che ne pensa?), oggi sta diventando chiaro che ciò che il critico può aggiungere è esattamente l’opposto, il proprio sguardo personale. Pensiamo a Mark Fisher: ameremmo con la stessa intensità le sue analisi della musica dei Joy Division o dei film di Christopher Nolan se non fossero illuminate dalle vicende della sua storia personale? Il libro di Simon Reynolds sulla scena rave sarebbe altrettanto pregnante se l’autore non ci raccontasse le notti passate sotto l’effetto dell’MDMA a ballare nei prati oltre la M25 di Londra? Si tratta di estrapolare un piccolo pezzo del mega-testo che del mondo e sprofondarci dentro come nella proverbiale tana del Bianconiglio: lungi dall’essere impossibile, l’opera ermeneutica è infinta, come pensava Gadamer, perché infinito è il mondo; ma è anche per forza di cose un’opera antitetica all’idea di oggettività. L’ermeneutica non è alternativa a un’erotica delle arti: è essa stessa un’erotica delle arti.

In fondo quando penso al ragazzino ingenuo che ero mi accorgo che il sorrisetto dell’accademia era immeritato: forse non era possibile essere un velociraptor (anche se, con la realtà virtuale, non si può mai dire), ma l’ambizione di diventare un critico non era poi così peregrina. L’ironia che sollevavano i miei sgangherati piani di vita era il riflesso di una disillusione destinata a finire, e già nel 2008 quella che allora veniva chiamata la “blogosfera” ci aveva mostrato un futuro possibile: quello della critica fuori dai rigidi dettami accademici, della critica come invenzione, simulazione, autofiction, del lavoro del critico come memorialista e narratore, insomma di una critica come forma d’arte. 

Siamo appena agli inizi di questo percorso, ma se dovessi scommettere i miei due cents, direi che si tratta di un sentimento destinato a durare. Perché se il mondo là fuori è davvero un testo, dobbiamo riconoscere che è un testo intricato e oscuro, e tutti abbiamo bisogno che venga fatta un po’ di luce. Non quella abbacinante promessa dalla tecnologia, che abbiamo scoperto renderci sempre più ciechi: piuttosto lampi nel buio, che se non ci guidano verso nessun significato ultimo almeno aprono per un attimo le porte degli infiniti mondi possibili.

ARTICOLO n. 74 / 2022

MEDITAZIONE, TRA FILOSOFIA E CULTURA OCCIDENTALE

Quando si parla di meditazione il nostro sguardo volge inevitabilmente a Oriente. Non è un errore, perché questa tecnica trova le sue più antiche testimonianze in India, è più viva nelle società asiatiche e le sue più intricate ed esaustive tassonomie sono spesso opera dei vari buddismi. Il primato orientale è indiscutibile. Ciononostante anche la storia della filosofia e della religione occidentale ha un’antica tradizione contemplativa, adombrata non per modestia – dote rara qui come altrove – ma per una progressiva messa a silenzio di questo percorso, apparentemente lontano dalla scienza, poco ortodosso per i culti organizzati, e, almeno nelle sue declinazioni più genuine, poco integrabile in una società neoliberale. Se in Oriente il valore di chi intraprende la via mistica è riconosciuto e, per via dei troppi sedicenti illuminati, talvolta pedantemente istituzionalizzato, l’Europa sembra apprezzare i suoi ribelli ontologici solo quando la loro rivoluzione si è cristallizzata in un canone. Chi decide di morire al mondo deve aspettarsi ostilità o condanne di eresia – bene che vada derisione e motteggio, a meno che non abbia abbastanza talento e carisma da fondare una chiesa o ritagliarsi un ruolo in una già esistente. Eppure anche la nostra cultura è ben nutrita da quel che un manipolo di esploratori ed esploratrici dell’ineffabile hanno estratto dal cieco infinito che ci circonda.

Come ha ben evidenziato Pierre Hadot nel suo Esercizi spirituali e filosofia antica, la visione greca della filosofia era più vicina a quella dell’Oriente che alla nostra, in quanto non si trattava di un’esplorazione intellettuale fine a se stessa ma di una pratica di vita – anzi, una profonda cura esistenziale. Scrive Hadot:

Tutte le scuole concordano nellammettere che luomo, prima della conversione filosofica, si trova in uno stato di inquietudine infelice, che è vittima della cura, delle preoccupazioni, lacerato dalle passioni, che non vive veramente, che non è se stesso. Tutte le scuole concordano anche nel credere che luomo possa essere liberato da questo stato, che possa accedere alla vera vita, migliorare, trasformarsi, raggiungere uno stato di perfezione. Gli esercizi spirituali sono precisamente destinati a questa educazione di sé, a questa παιδεία, che ci insegnerà a vivere non già conforme ai pregiudizi umani e alle convenzioni sociali (poiché la vita sociale è essa stessa un prodotto delle passioni), ma conforme alla natura delluomo, che non è altro che la ragione.

Come ha avuto modo di raccontare Daniele Capuano in una recente conferenza sull’esicasmo (ci torneremo), la visione greca di peccato, accolta poi da quasi tutti i popoli slavi, è più legata al concetto di malattia che a quello giuridico latino di colpa. Il peccato non è dunque un male morale, ma un errore, un ostacolo al proprio percorso di guarigione e perfezionamento. Sin dall’antichità più profonda è lecito supporre che la filosofia fosse un percorso che veniva affiancato da pratiche contemplative che presentano non poche somiglianze con quelle orientali – nei secoli però qualcosa si è rotto e la meditazione occidentale è diventata una pratica esoterica, rivolta a pochi, insegnata di persona o, nei rari testi, con complesse cifrature. Con una certa semplificazione si potrebbe dire che laddove in Oriente l’atteggiamento ecumenico è legato principalmente ai metodi meditativi, qua si è legato più alle condotte etiche che li favoriscono. Per riprendere la controversa tesi del filosofo Karl Jaspers, anche in Occidente il periodo assiale non è passato senza i suoi contemplativi – se si prende per buona l’idea di una straordinaria intensità intellettuale e spirituale del periodo compreso tra l’800 a.C. e il 200 a.C., che il filosofo propone in Origine e senso della storia. Come racconta Jaspers, in Oriente «vissero Confucio e Lǎozǐ, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mòzǐ, Zhuāng Zǐ, Lìe Yǔkòu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upaniṣad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibilità filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nihilismo. In Iran Zarathustra propagò l’eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da Elia a Isaia e Geremia, fino a Deutero-Isaia». In Occidente, oltre ai profeti zoroastriani ed ebraici del Medioriente, lo sviluppo culturale avvenne in Grecia, che vide Omero, Pitagora, Parmenide, Eraclito e Platone, autori che in genere non vengono associati alla meditazione. Come suggerisce Javier Alvarado Planas nel suo History of non-dual meditation methods però, ci sono tracce di tecniche meditative già tra i presocratici. Sui pitagorici ad esempio, sappiamo grazie ad alcuni testi di Numenio e Plotino che venivano praticati alcuni esercizi di concentrazione e meditazione che consistevano nella ripetizione di monosillabi a cui veniva attribuita una qualche natura magica o taumaturgica – in particolare le parole greche on (essenza o esistenza) e hen (unità). Grazie all’eredità orfica inoltre, si sa che i Pitagorici praticavano la meditazione coordinata con la respirazione (una tecnica che in Occidente ci porta all’esicasmo e in Oriente… be’, praticamente ovunque). Anche Platone, nel Fedone, allude a una tecnica per purificare i pensieri che dice essere ripresa da un’antica tradizione: «così che la trasmigrazione, che ora a me viene imposta, avviene con buona speranza anche per chiunque altro creda di essersi predisposto al pensiero attraverso la purificazione. […] E non accade dunque questo, che vi sia purificazione, come da tempo teorizzano, quando si tenga l’anima il più possibile separata dal corpo e la si abitui a raccogliersi e a rinchiudersi in se stessa al di fuori della corporeità, e a farla dimorare per quanto è possibile nel presente e nel futuro, [67d] sola con se stessa, libera ormai dal corpo, come dalle catene?». E ancora, «Coloro che hanno istituito le iniziazioni mistiche non corrono certo il pericolo di essere reputati degli sciocchi, ma da parecchio tempo in realtà hanno fatto comprendere con enigmi che, chi giunge nell’Ade senza essere iniziato ai misteri né compiuto la sua purificazione, giacerà nel fango, mentre colui che vi giungerà purificato e iniziato, vivrà insieme agli dèi (69c)». Sembra evidente l’esistenza sottotesto di tecniche che, a chi conosce qualche rudimento di meditazione vipassana, la ricordano molto: osservazione distaccata degli stati corporali, osservazione dell’osservatore, preparazione alla morte. Scrive il filosofo, sempre nel Fedone, che «se essa  [l’anima] si distacca pura dal corpo e nulla del corpo si trae dietro, perché in vita, per quanto stava in lei, non volle averci nulla di comune, ma rifuggendolo se ne stava sempre concentrata in se stessa, poiché di questo sempre si curò, e questo altro non è se non filosofare veramente e [81a] rettamente prepararsi a morire con serenità: quindi, non è forse questa una vera preparazione della morte?».

Per avere tracce più evidenti di meditazione occidentale bisogna arrivare a Pirrone (365 a.C. – 275 a.C. circa), il filosofo scettico che seguì Alessandro Magno nelle sue conquiste ed ebbe modo di conoscere i “gymnosofisti” indiani. Già il termine pare alludere in modo inequivocabile a un arcaico corpus di tecniche yogiche e in effetti sappiamo che il padre dello scetticismo conobbe alcune pratiche ascetiche indiane e le importò in patria – così come siamo al corrente delle notevoli somiglianze della sua filosofia con il buddismo delle origini. Se si studia quel che sappiamo di questo prezioso filosofo si può persino arrivare a definirlo “il Buddha greco”, come ha fatto Christopher Beckwitt nell’omonimo libro. Scrive Beckwitt:

Per Pirrone gli uomini vogliono conoscere la Verità ultima, assoluta, ma si tratta di una categoria metafisica o ontologica che sono proprio gli uomini ad aver creato e proiettato sul mondo. Le persone sostengono che il nostro compito è quello di apprendere la verità assoluta e perfetta, e di comprenderla come se esistesse davvero. Tuttavia tali categorie non possono esistere senza gli esseri umani, come viene sottolineato nell’insegnamento del Buddha sull’anātman i Dharma non hanno identità intrinseca, e la medesima cosa si trova in Pirrone, nell’adiafora.

Se si scavalla il periodo assiale e si arriva fino allo stoicismo troveremo dei resoconti più approfonditi delle pratiche meditative, soprattutto nei testi di Epitteto e Marco Aurelio (primo e secondo secolo d.C). Per gli stoici la filosofia doveva portare a una conoscenza teorica e pratica atta a raggiungere uno stato di pace che viene descritto come “tranquillità spirituale” (atarassia), “libertà interiore” (autarkeia), “libertà dalle passioni” (apatheia). Per farlo lo stoicismo eredita e adatta dal passato vari esercizi ascetici, un termine che non dobbiamo associare all’idea di astinenza o rinuncia, ma più a quella di esercizio, data la sua etimologia (askēsis) legata all’addestramento militare. Sebbene si abbiano ottime e dettagliate testimonianze della filosofia stoica, non è facile ricostruire quali fossero i suoi esercizi spirituali e solo grazie a Filone di Alessandria ne conosciamo alcuni. La pratica inizia con lo studio di un argomento (zetesis), la sua analisi approfondita (skepsis), la lettura e l’ascolto (akroasis). Tutto questo ha come fine la coltivazione di un’attenzione persistente (prosoche) che sviluppi l’autocontrollo (enkrateia) e l’indifferenza ai continui stimoli del mondo. È facile notare che la meditazione di carattere riflessivo fosse una delle pratiche più in voga nello stoicismo; gli stoici erano bravissimi nell’analizzare un argomento nel dettaglio, come si evince dai titoli dei trattati di Plutarco o Seneca: Sul controllo dell’iraSulla tranquillità dell’animoSull’amore fraternoSull’amore parentaleSulla loquacitàSulla curiositàSull’amore per la ricchezza, Sull’accondiscendenzaSull’invidia e sull’odioSull’iraSulla brevità della vita

Un passaggio di Marco Aurelio offre un ulteriore spunto; per il filosofo-imperatore, lo stoico deve «fornire sempre la definizione o descrizione dell’oggetto che cade sotto i nostri occhi, sì da poterlo vedere qual è nella sostanza, in sé e per sé, tutto intero e separatamente in tutte le sue parti; e dire a sé stessi il suo nome particolare e i nomi di quegli elementi di cui è costituito e in cui si dissolverà», (Colloqui con sé stesso, Marco Aurelio, III, 11).

Questo metodo di analisi, osservazione e dissoluzione ricorda, al netto di ovvie differenze, la pratica del buddismo Madhyamaka attraverso cui gli oggetti del mondo vengono analizzati e riscoperti nella loro intrinseca insostanzialità.

Andando avanti nel tempo, incontriamo assieme al primo cristianesimo il filosofo Plotino e la scuola neoplatonica (Licopoli, 203/205 – Campania, 270), che nelle sue Enneadi ci ha fornito dettagliati resoconti filosofici di pratiche contemplative ed esperienze mistiche. Per il filosofo quello dell’uomo «Non è un viaggio da compiere con i piedi, che sulla terra ci portano per ogni dove, da una regione all’altra; né devi approntare un carro o un qualche naviglio, ma devi lasciar perdere tutte queste cose, e non guardare. Come chiudendo gli occhi, invece, dovrai cambiare la tua vista con un’altra, risvegliare la vista che tutti possiedono, ma pochi usano.» (En. I, 6, 8).  Che fare dunque? «Bisogna quindi, se deve esserci apprensione di quanto è in questo modo presente nell’anima, che anche la nostra facoltà di apprensione sia rivolta verso l’interno, e là deve essere volta la sua attenzione. Come quando qualcuno, attendendo di udire una voce desiderata, allontanatosi dagli altri suoni, risveglia l’udito a quel suono che è il migliore ad udirsi, quando giunga: così anche quaggiù bisogna lasciar andare i suoni percepibili coi sensi, tranne che per il necessario, e custodire la facoltà di apprendere dell’anima pura, pronta ad ascoltare le voci di lassù» (En. V, 1, 12).

Il cristianesimo com’è immaginabile meriterebbe un approfondimento a parte, data la grande varietà di metodi contemplativi che si sono accavallati durante la sua lunga storia, ma a titolo di esempio citerei l’esicasmo, le cui caratteristiche sono più facilmente riconducibili alle pratiche contemplative occidentali di cui ho parlato finora. Si tratta di una prassi improntata alla ricerca della perfezione dell’uomo nell’unione con Dio tramite la preghiera incessante. La forma più celebre della preghiera esicasta è la “preghiera di Gesù”, che consiste nell’invocazione continua: «Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore». Si recita facendo scorrere una corda con nodi e ripetendo a ogni nodo l’invocazione, ma i dettagli di questa complessa tecnica vengono impartiti solo di persona da un adeguato maestro. In Occidente una testimonianza di questa pratica è nei Racconti di un pellegrino russo, trascrizione di un testo anonimo del monte Athos, curata dall’abate Paissy (1860). Come raccontava il sopracitato Daniele Capuano nella sua conferenza, nell’esicasmo si ritrova la tripartizione dell’anima umana di origine platonica in epithymetikon, parte desiderante (ventre e genitali, fame, attaccamento alle cose), thymikon (cuore-petto, difesa delle proprietà, zelo) e logikon (testa, pensiero). Le malattie di queste tre parti fondamentali dell’umano sono gastrimargia, philargyria e kenodoxia(gola, avidità e vanagloria), le cui cure consistono rispettivamente nell’enkrateia, agape e gnosis (dominio di sé, amore e conoscenza spirituale). La via spirituale è anch’essa triplice, ma non per questo divisa in tappe, dato che questi i momenti – o meglio movimenti – si alternano e accavallano a ogni passo. Si tratta della katharsis(o via purgativa), che consiste nel discernimento e distacco dalle passioni, nella theoria (o via illuminativa), ovvero la contemplazione discriminante del mondo, e infine nella theosis, la via unitiva di deificazione e riassorbimento nell’Uno. Un affascinante parallelo con l’Oriente è il modo in cui l’esicasmo, pur nella cornice cristiana, considera i pensieri, ovvero per lo più come suggestioni demoniache o ispirazioni angeliche. Anche in questa dottrina noi non pensiamo, ma siamo pensati, e ascoltare quel che attraversa la mente con distacco ed equanimità può aiutarci a valutarne la portata e l’importanza, oltre che riavvicinarsi allo sfondo del pensiero, il non pensabile Uno.

La rapida scivolata tra i millenni che ho qui proposto evidenzia come la meditazione sia una ricchezza trasversale alla geografia e alla storia umana, e che, pur con sensibili differenze in base al contesto culturale di riferimento, le tecniche per accedere a stati altri di coscienza siano un patrimonio comune dell’umanità, che sarebbe superficiale trattare sia come segreti esotici che come ciarpame di altri mondi.

ARTICOLO n. 73 / 2022

RIFLESSIONI SULLA TRADUZIONE

Traduzione di Viviana Sebastio

Quando alla fine ho deciso di tradurre questa poesia (avevo il libro già da tempo, ma non c’era stato modo di leggerlo) per me altro non era che un processo destinato a isolare parte della mia mente. Non avrei pensato al resto, questo lavoro sarebbe stato un rito personale, quotidiano, che avrebbe lasciato fuori tutto il resto. Un po’ come prendere da qualche parte pezzi di qualcosa e portarli altrove, in uno spazio tutto mio, in un luogo dove il pensiero si dipana e si unisce a quei pezzi. Un po’ come uno straniero che mi parla e io cerco di intenderne le intenzioni, di dare con la mia mente un senso al suo comportamento. Quelle parole avevano una propria modalità, ignota al principio, come quando arrivi qui dentro per la prima volta e li vedi tutti insieme, parlano, ma non presti attenzione perché non hai ancora capito dove ti trovi. Tutto nuovo, un po’ alla volta impari le connessioni esistenti tra loro, come in questa lingua che mi era del tutto sconosciuta e poco alla volta però ne ho compreso il senso. O piuttosto, ho realizzato una primitiva mappa di significati seguendo un itinerario quotidiano dentro quelle parole, partendo di volta in volta verso tragitti diversi, mettendo accanto segnali di parole mie, tracciando confini, cercando di fissare luoghi all’ago della bussola che mi era stata data.

Mettere ordine. Ordine, tutto ha a che fare con l’ordine, intorno a me lasciavo in ordine, e cercavo l’ordine della poesia, trasferendo ciò che potevo sulla mia mappa. La mappa sconosciuta a sinistra, la mia a destra e nel mezzo il ponte che mi conduceva dall’una all’altra. Il vocabolario, che lasciavo la sera e ritrovavo al mattino, che non mi permettevano di portare via, doveva restare lì, non poteva essere spostato da quella stanza, come restava lì il significato che ti dava per ciascuna parola, sempre lo stesso, certe volte guardavo di nuovo per sicurezza, ma ci ritrovavo sempre quello che ci avevo trovato la volta prima. Parole il cui comportamento si è impresso qui su un corpo. Accanto a ciascuna una spiegazione, una relazione riassuntiva, come per ognuno di noi, un’identificazione, una piccola storia di ognuno. Prendevo allora le parole una per una, ogni volta persone sconosciute, accanto puoi leggere cosa ha commesso ciascuna di loro. Che cosa ha fatto prima di entrare qui. Parole-persone sconosciute che tu colleghi ad altre che conoscevi, che sapevi cosa facevano, che dentro di te avevano preso il significato prodotto dalle loro azioni. Vai dall’una all’altra, di parola in parola, guardi il testo accanto a te e passo passo distingui, chi è accanto a chi, e il significato di tutto questo. Ho iniziato così mettendo le parole in ordine, imparavo cosa facevano, alla fine ho creato una mia scena dove farle recitare tutte insieme in un’opera solo per me. Chi ha scritto questa poesia di certo aveva in mente un teatro simile, un palcoscenico per le parole, una lista tutta sua e io saltavo da una pagina all’altra del vocabolario e trovavo quelle parole. Così ho iniziato a prendere parole mie e a metterle in una mia lista, la sua e la mia dovevano riportarci alla mente, a me e a chi ha scritto, all’incirca lo stesso. È un’ipotesi, come pure ipotizzo che qui tutte le stanze dentro siano più o meno uguali senza che ne abbia mai vista una a parte questa. E se sono tutte uguali, quando uno esce dalla propria stanza può immaginare da dove sia uscito l’altro, perché, è una mia ipotesi, per noi qui hanno creato spazi uguali e anche gli oggetti qui dentro sono uguali, per poterci comprendere l’uno con l’altro. Vogliono che tutto ciò abbia un senso. Vogliono che il pensiero dell’uno si sovrapponga al pensiero dell’altro, e così io volevo che il pensiero della poesia si sovrapponesse al pensiero del mio testo. E da entrambi far arrivare alla stessa conclusione. E così allora ho deciso, ho preso dal vocabolario le parole della mia lingua, sempre che esista una lingua mia – ma questo è un altro discorso. Volevo che ciò che è vero lì fosse vero pure qui – anche se a volte mi chiedo quanto questo vero possa resistere se da un significato togli parole e ne metti altre al loro posto. Non lo so, non posso dirlo. Io comunque, all’inizio, come dicevo, sentivo di avere davanti a me qualcosa del tutto estraneo, mi sembrava poesia, questo l’ho capito sin dal principio, poi ho chiesto il vocabolario e per fortuna me l’hanno dato, e allora visto che ero qui in solitudine, ho detto mi cerco un pensiero che copra i miei, dal momento che non uscirò da qui – e la poesia mi aiutava a cacciar via anche questo pensiero. È chiaro che all’inizio, come dicevo, tutto ciò mi era estraneo, un materiale grezzo senza forma e regole che mostrava scaglie di immagini, come quando si è rotto il televisore, immagini nascoste dietro spuma e rumore, piene di buchi, e io cercavo di riempire i buchi col vocabolario, per quanto possibile, fino a un certo punto però, e quasi sempre le immagini che mi arrivavano cadevano sulla mappa improvvisata di cui parlavo prima, e si distorcevano mutando quello che già sin dall’inizio era una superficie irregolare. Mi avrebbe aiutato sapere qualcosa di più su questo libro e su chi l’ha scritto. Ma niente, soprattutto all’inizio la poesia svaniva nella mia mente non appena credevo di essere in grado di aprire quell’involucro e di tirarne fuori qualcosa. Alla fine procedevo parola per parola e pian piano andava meglio, partivo da un punto che sentivo più sicuro e creavo piccole catene, che se avessero tenuto sarebbero state catene di significati. Ma l’anello non era solido, era come se il significato si spezzasse sotto il peso della mia stessa mente, come un pavimento sul quale non puoi camminare ma solo strisciare. E io mi trascinavo, a un ritmo preciso, se si può dire, così lo chiama quando parla del ritmo dei suoi passi. Alla fine ho sentito il mio essere strisciare sulle parole dell’altro, ciò che udivo erano parole mie, naturalmente, quelle che avevo trovato proprio nel mio vocabolario – se si può dire mio il vocabolario che mi hanno prestato. Ciò ha dato un ritmo, quale che sia questo ritmo, e sempre che sia poesia ciò che ho scritto sopra quella poesia. Quando ho finito, l’ho letta e all’inizio mi è piaciuta davvero, e mi è piaciuto soprattutto aver preso dal vocabolario quelle parole che fanno riflettere di più, la stessa parola alcune volte aveva più significati slegati tra loro, o era come se li tirassi e questi si allungassero. Ho preso quelle parole e le ho unite, e siccome avevo unito parole avevo creato frasi, e siccome avevo creato frasi avevo organizzato un significato – e, nella mente di chi legge, forse anche una sequenza che può somigliare a quella della poesia. Questo però non lo so. Non so come funzionerà tutto questo, e se provocherà qualche emozione. A volte ho dei dubbi perché, come dicevo prima, ho scelto, se posso dirlo, parole che da una base comune uscivano dalla bocca come lingue, come teste con facce sovrapposte, ognuna con una propria espressione, mi sembrava che ogni parola avesse dietro di sé una mente propria. Molte volte ho scelto parole a me sconosciute, alla fine volevo che la poesia dicesse quanto più possibile. Molte volte ho scelto parole che nessuno pronuncia, o che io non ho mai sentito, parole che forse oramai sono rimaste solo nel vocabolario. Sono chiuse lì dentro, come me, non escono dalla bocca, come me che non esco da qui. Così ho pensato di prenderle e di metterle di nuovo in frasi. In frasi mie. Ho fatto per loro un po’ di spazio. Per loro ho fatto più spazio possibile, in base al testo che avevo davanti, e le frasi mi hanno aiutato a loro volta, perché quanto più vetuste sono le parole tanto più lo sono i significati, quanto più vetusto è lo strumento tanto più lo sono i lavori ha fatto. Fino a che si logora, tanto lo strumento quanto tutto ciò che è stato realizzato con esso, e arriva il tempo di gettarlo da una parte. È come se queste parole fossero state gettate via, buttate nel vocabolario, erano inutili, se volevi però potevano esserti d’aiuto, per me lo sono state. E siccome sono rimaste inutilizzate per tanto tempo, le ho messe anche sotto la poesia, e dentro la poesia forse potranno dire ancora ciò che dicevano un tempo – invece cioè di comportarsi a mo’ di piccole urla, come da qualche parte dice anche chi l’ha scritta. E su questo sono d’accordo con lui, per me d’altronde sin dall’inizio la poesia era proprio questo, la registrazione di una sequenza di grida, da una bocca invisibile. Comunque sia, qualcosa ora l’ho ottenuta, e per me questa sequenza ha ormai un senso, c’era un vocabolario fortunatamente, c’era un ponte, c’era un’uscita, per quanto incerta, in un luogo dove si può sostare per un po’. Pertanto riporto qui di seguito uno stralcio dell’elenco di parole che mi hanno condotto lì, che stiano ancora una volta da sole se ci riescono, che siano – come forse direbbe anche l’autore – «un’insurrezione di membra mutilate che insieme vengono a ricomporre una nuova coscienza».

Il testo è una recente integrazione dell’autore, Dimitris Lyacos, all’edizione italiana di Poena Damni (Il Saggiatore).
Lo scritto si colloca in chiusura di La Prima Morte – terza parte della trilogia – e precede il corpus del glossario in appendice, riportante alcune delle polisemie racchiuse nei versi dell’opera stessa.
L’io narrante/traduttore potrebbe essere identificato con il protagonista principale che, in Z213: EXIT, durante il suo viaggio in treno trova e fa suo un libretto spiegazzato: La prima morte.

ARTICOLO n. 72 / 2022

LA FABBRICA MI HA FOTTUTO

Alla linea. Fogli di fabbrica

Ringraziamo Bompiani per la disponibilità a pubblicare in anteprima un estratto da Alla linea di Joseph Ponthus in libreria da mercoledì 21 ottobre.

Entrando in fabbrica 

Naturalmente immaginavo 

L’odore
Il freddo 

Il trasporto di carichi pesanti 

Il disagio
Le condizioni di lavoro
La catena 

La schiavitù moderna

Non ci andavo per fare un reportage
Men che meno per preparare la rivoluzione
No
La fabbrica è per i soldi
Un lavoro per campare
Come si dice
Perché mia moglie è stufa di vedermi buttato sul divano in 

attesa di un lavoro nel mio settore
E quindi sarà
L’agroalimentare
L’agro
Come dicono 

Una ditta bretone di produzione e trasformazione e cottura e 

tutto il resto di pesci e gamberetti
Non ci vado per scrivere
Ma per i soldi

All’agenzia interinale mi chiedono quando posso cominciare 

Tiro fuori Hugo la mia solita battuta letteraria e scontata

“Be’ domani all’alba nell’ora in cui biancheggia la campagna”

Mi prendono alla lettera attacco il giorno dopo alle sei del 

mattino

Con il passare delle ore e dei giorni il bisogno di scrivere si 

ficca tenace come una lisca in gola
Non la desolazione della fabbrica
Ma la sua paradossale bellezza 

Sulla mia linea di produzione penso spesso a una parabola che 

ha scritto credo Claudel
Sulla strada da Parigi a Chartres un pellegrino s’imbatte in un operaio impegnato a spaccare pietre 

Cosa fai
Il mio lavoro
Spaccare pietre
Uno schifo
La schiena finita
Una roba da cani
Non dovrebbero permetterlo
Meglio crepare
Qualche chilometro più avanti un secondo operaio nello stesso cantiere
Stessa domanda
Sgobbo
Ho una famiglia da sfamare 

È un po’ dura
Va così e va già bene avere un lavoro 

È la cosa più importante
Più avanti
Prima di Chartres
Un terzo uomo
Viso raggiante
Cosa fai
Costruisco una cattedrale 

Possano pesci e gamberetti essere le mie pietre

Non sento più l’odore della fabbrica che all’inizio mi irritava le 

narici
Il freddo è sopportabile con un maglione pesante una felpa
col cappuccio due buone paia di calze e la calzamaglia sotto i pantaloni 

I carichi pesanti mi fanno scoprire muscoli di cui ignoravo l’esistenza
La schiavitù è volontaria
Quasi felice

La fabbrica mi ha fottuto
Ne parlo solo dicendo
La mia fabbrica
Come se io piccolo interinale che sono tra tanti altri avessi una qualche proprietà delle macchine o della produzione di pesce o 

di gamberetti 

Tra poco
Lavoreremo anche molluschi e crostacei
Granchi astici grancevole e aragoste
Spero di vedere questa rivoluzione
Fregare qualche chela anche se lo so che non sarà possibile 

Già che non riusciamo a far uscire nemmeno un gamberetto 

Devi proprio nasconderti per mangiarne uno
Quando non ero ancora abbastanza discreto la vecchia collega Brigitte mi aveva detto 

“Io non ho visto niente ma attento ai capi se ti beccano”
Da allora traffico sotto il grembiule con il triplo paio di guanti 

che mi separano dall’umidità dal freddo e da tutto il resto per sgusciare e mangiare quello che considero come minimo un risarcimento in natura 

Parto in quarta
Torniamo alla scrittura
“Scrivo come parlo quando l’Angelo di fuoco della 

conversazione s’impossessa di me come un profeta” ha scritto qualcosa del genere non so più dove Barbey d’Aurevilly 

Scrivo come penso sulla mia linea di produzione vagando tra i pensieri da solo determinato 

Scrivo come lavoro
Alla catena
Alla linea e sulla linea a capo 

Attaccare con il turno
Non può essere altro che questo immenso corridoio bianco 

Freddo
All’inizio del quale ci sono i marcatempo intorno ai quali ci accalchiamo di notte all’ora di timbrare
Le quattro
Le sei
Le sette e mezza del mattino
A seconda del lavoro assegnato
Lo scarico cioè le casse di pesce da svuotare 

La lavorazione del pescato o spellatura cioè il sezionamento dei pesci
La cottura cioè tutto quello che riguarda i gamberetti 

Non ho ancora avuto la sfortuna del turno di pomeriggio o di 

sera
Cominciare alle sedici finire a mezzanotte
Qui 

Sono tutti d’accordo
E sono d’accordo anch’io per adesso
Che più cominci presto
Meglio è – senza contare le ore notturne pagate il venti per 

cento in più
Così “hai il pomeriggio libero”
“Se devi alzarti presto
Tanto vale alzarsi presto”
Col cazzo
Le tue otto ore di lavoro
Sono otto ore di lavoro a qualunque ora del giorno
E poi
Quando torni a casa
Quando stacchi
Torni
Ciondoli
Crolli
Pensi già all’ora da mettere sulla sveglia
Non importa che ora è
Sarà sempre troppo presto
Dopo il sonno di piombo
La sigaretta e il caffè del risveglio divorati
In fabbrica
Attacchi direttamente 

È come se non ci fosse una transizione dal mondo della notte

Ri-rientri in un sogno
O in un incubo
La luce dei neon 

I gesti automatici
I pensieri che vagabondano
In un torpore di risveglio
Tirare trascinare smistare portare sollevare pesare ordinare 

Come quando ti addormenti
Senza nemmeno provare a scoprire perché i gesti e i pensieri si mescolano
Alla linea
È sempre un sorprendersi che faccia giorno all’ora della pausa quando si può uscire per una sigaretta e un caffè 

Conosco solo pochi posti che mi fanno questo effetto 

Assoluto esistenziale radicale
I templi greci
La prigione 

Le isole
E la fabbrica
Quando ne esci
Non sai se ritrovi il mondo vero o se lo lasci
Anche se sappiamo che non esiste un mondo vero
Ma poco importa
Apollo ha scelto Delfi come centro del mondo e non a caso 

Atene ha scelto l’agorà come luogo di nascita di un’idea del 

mondo ed è una necessità
La prigione ha scelto la prigione che Foucault ha scelto
La luce la pioggia e il vento hanno scelto le isole
Marx e i proletari hanno scelto la fabbrica
Mondi chiusi
Dove si va solo per scelta 

Deliberata
E da cui non si esce
Come dire
Non si lascia un santuario indenni
Non si lascia mai davvero la galera
Non si lascia un’isola senza un sospiro
Non si lascia la fabbrica senza guardare il cielo 

Staccare dal lavoro
Che bella espressione
La usiamo in senso figurato
Ma capire
Nel proprio corpo
Visceralmente
Cos’è staccare dal lavoro
E il bisogno di lasciarsi andare di svuotarsi di fare la doccia 

per lavarsi via le squame dei pesci ma lo sforzo che ci vuole per alzarsi andare a fare la doccia quando sei finalmente seduto in giardino dopo otto ore di linea 

Domani
Come interinale
Il lavoro non è mai sicuro
I contratti sono di due giorni una settimana al massimo
Non è Zola ma potrebbe sembrarlo
Vorremmo scriverlo il XIX secolo e l’età dei lavoratori eroici 

Siamo nel XXI secolo
Spero di attaccare
Aspetto di staccare
Aspetto di attaccare
Spero 

Aspettare e sperare 

Mi rendo conto che sono le ultime parole di Montecristo 

Il mio caro Dumas
“Amico mio, il conte non ci ha appena detto che l’umana 

saggezza è tutt’intera in queste due parole: Aspettare e sperare!” 

ARTICOLO n. 71 / 2022

ANDATA & RITORNO

Lo spaccio di droga riguardava soprattutto l’area metropolitana: zone centrali, semicentrali e periferiche, all’interno di parchi cittadini, attorno alle panchine, alle fontanelle d’acqua. L’area di spaccio era la piazza di spaccio.
I consumatori erano i drogati, per lo più giovani. Difficile immaginare un drogato trentenne: in quel periodo storico, un trentenne non era più considerato giovane; e inoltre, dopo una dozzina d’anni di eroina, i drogati o smettevano o morivano poiché, molto spesso, l’unico modo per smettere era morire.
I drogati raggiungevano i luoghi dello spaccio utilizzando tram, autobus, metropolitana; capitava che arrivassero in motorino o in auto, ma quasi tutti, non soltanto per una questione economica, preferivano i mezzi pubblici: dopo la dose, gli effetti duravano fino a sei ore, era difficile e rischioso guidare un motorino o un’auto. I drogati acquistavano eroina dallo spacciatore abituale. Se non avevano il denaro, consegnavano un braccialetto d’oro, una catenina d’oro, oppure un’autoradio, e pagavano la dose con quella mercanzia. 
I drogati spaccavano i finestrini delle auto parcheggiate pur di rubare un’autoradio nascosta sotto il sedile. Un’autoradio di qualsiasi marca. E tuttavia, nonostante le pubblicità dell’epoca, ho sempre associato le autoradio Pioneer ai minuscoli frammenti di finestrino sparsi sui marciapiedi, ho sempre associato le autoradio Pioneer all’eroina, ai drogati, agli spacciatori, ai ricettatori. 
Certo, non era colpa dell’azienda Pioneer, ma forse non era nemmeno colpa dei drogati. Applicando la logica neoliberale, già così seducente alla fine degli anni Settanta, il rapporto tra eroina e Pioneer era soltanto un meccanismo di mercato, di richiesta e offerta.
I drogati si allontanavano di pochi metri dallo spacciatore, desideravano drogarsi subito. Sceglievano una panchina accanto alla fontanella. Stagnola, cucchiaino, limone, accendino, siringa. E tuttavia, alcuni preferivano un angolo meno frequentato, si sedevano appoggiandosi al tronco di un albero, forse per meglio assecondare, in quella natura allestita dall’istituzione comunale, l’effetto dell’eroina. Poi gettavano le siringhe a terra. A volte capitava che i drogati infilzassero le siringhe nel tronco dell’albero, e allora, da ragazzino, pensavo che la droga iniziasse a circolare nel resto dell’albero, salendo ai rami, alle foglie, e scendendo alle radici, e dalle radici al terreno. L’albero si sarebbe intossicato di eroina. La droga era l’elemento fondamentale della terra su cui camminavamo.

Drogarsi. Poi, crescendo, i più confidenziali farsibucarsi, spruzzarsi: il primo implicava una creazione, o almeno, una trasformazione non soltanto fisica; il secondo implicava il corpo, la ricerca della vena, il sangue, il flash rapido; il terzo, poco utilizzato, sembrava un gioco d’infanzia, superficiale e senza conseguenze. Ancora oggi, è scritto su alcuni dizionari: i bambini si spruzzano nell’acqua. Non con il significato di drogarsi, credo. Il significato gergale di spruzzarsi come drogarsi non è contemplato dai dizionari.
I drogati, smaltito a malapena l’effetto della dose, ritornavano a casa con i mezzi pubblici. Salivano sui tram, sugli autobus, sulle metropolitane, avanzavano trascinando i piedi, a volte barcollavano e biascicavano qualcosa, la bocca impastata, i denti e le gengive sofferenti. I drogati si addormentavano sui sedili, appoggiando la tempia al finestrino. 
A volte, quando un drogato moriva, un articolo di giornale cercava di ricostruire chi fosse la vittima. In quel periodo, i giornali pubblicavano nome, cognome, età, indirizzo, professione. Se la famiglia del morto era proprietaria di un bar, i giornali pubblicavano il nome del bar, l’indirizzo del bar, i nomi e i cognomi dei genitori del morto, ovvero, i nomi e i cognomi dei proprietari del bar. Il giornalista ricostruiva le ultime ore di vita grazie alle informazioni ricevute dai poliziotti. L’acquisto incongruo di un limone in trattoria. L’incontro con lo spacciatore. Il buco. L’overdose. Il corpo disteso a terra, raggomitolato su se stesso, sotto un cavalcavia della tangenziale, mentre il traffico scorrevole continuava sopra la testa.
Ma poiché morivano molti drogati, i giornali, da metà anno in avanti, si limitavano a un breve articolo, a un trafiletto di cronaca: ricordavano soprattutto il numero dei tossicomani morti dall’inizio dell’anno. I giornali additavano la responsabilità ai fisici indeboliti dopo anni di eroina, alla droga tagliata con stricnina, alla droga tagliata bene ma utilizzata assieme ad altre sostanze – alcol, anfetamine, benzodiazepine, metadone – assunte prima della dose letale. Non si trattava quindi di overdose ma di una semplice dose, di usura del corpo.
Tra l’altro alcuni morti non entravano nemmeno nel computo: i morti di epatite, debilitati da decenni di droga. 
Ogni epoca ha i propri bollettini.
Ogni epoca interpreta i numeri dei propri morti.

La città, per motivi di logistica e distribuzione, è ancora al centro dello spaccio di droga connesso alle mafie, alle tifoserie ultrà delle squadre di calcio legate alle mafie, oltre che a gruppi neofascisti; ma da alcuni anni, assieme alla moltiplicazione dei tipi di droga è iniziata una diffusione molto più capillare rispetto ai decenni scorsi. In Lombardia, è come se la droga seguisse l’andamento immobiliare e urbanistico, lo sprawl suburbano introdotto proprio negli anni Settanta; è come se la droga seguisse la trasformazione dei luoghi, di ciò che resta della natura relegata, tra tangenziali e capannoni, all’interno di parchi regionali e aree protette di interesse sovracomunale. 
In Lombardia, l’istituzione di queste aree protette – sarebbe più idoneo definirle finte aree protette circondate dalla distruzione – risale alla seconda metà degli anni Settanta. Negli anni Settanta, queste zone erano luoghi che non avevano bisogno di alcuna definizione, erano zone frequentate da famiglie durante i picnic domenicali per le cosiddette gite fuoriporta. Oggi sono diventate zone di spaccio di droga. Spacciare eroina in una zona protetta, circondati da fossati, fontanili, all’ombra di pioppi, robinie, betulle. Spacciare cocaina con il sottofondo del canto degli uccelli, del rumore dei picchi che perforano le cortecce degli alberi. Spacciare hashish spostandosi all’interno dei boschi per evitare comunque i rarissimi controlli della polizia, seguendo i sentieri evidenziati dagli opuscoli e dai siti per le passeggiate salutari. Spacciare tutto, ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, come impone la logica contemporanea. Vivere, se necessario, proprio all’interno dei boschi, dentro capanne, occultando la droga altrove. 
Le ordinazioni avvengono tramite WhatsApp. Gli spacciatori si spostano in punti prestabiliti, ai margini dei boschi, consegnano la droga, intascano i soldi, ritornano all’interno dei boschi. 
Se leggiamo le cronache locali o quelli dei quotidiani nazionali, i drogati degli anni Settanta e Ottanta non esistono più: i drogati sono diventati i clienti o i consumatori, anche a seguito della differente modalità di acquisto della droga, una modalità automobilistica plasmata dall’espansione suburbana. Insomma, non più giovani in astinenza che arrivano con i mezzi pubblici, ciondolano attorno alle panchine metropolitane, ma auto anonime nonostante i numeri di targa, auto che costeggiano i bordi, i margini, dove l’asfalto lambisce le aree protette, auto guidate da invisibili, veloci acquirenti, che frenano, abbassano il finestrino, pagano, prendono, ripartono ancora più veloci, vanno al lavoro e quella è la droga per passare la serata. Qualora le zone di spaccio siano prossime al confine svizzero, ecco che i giornali preferiscono scrivere clienti svizzeri o clientela svizzera
Mi rendo conto: scrivere drogati svizzeri o tossicomani ticinesi suonerebbe comico quasi quanto clientela svizzera
Nell’intersezione tra spaccio, capannoni, aziende, aree residenziali costituite per lo più da palazzine e villette, è capitato che, nella stessa strada, si verificassero due situazioni in apparenza contrapposte: sul lato sinistro della strada, i tir entravano in retromarcia nelle piattaforme di logistica aziendale per caricare e scaricare le merci; davanti a un’azienda destinata alla chiusura a seguito delle solite delocalizzazioni internazionali, gli operai ai cancelli si aggrappavano a quanto restava del loro lavoro; sul lato destro della strada, invece, le vedette controllavano il flusso di auto di coloro che accostavano ai margini del bosco, in attesa degli spacciatori. Non è difficile immaginare, tra operai e spacciatori, quale delle due professioni abbia più futuro.

La diffusione capillare della droga, così come la dispersione suburbana abitativa e produttiva, non è meno cruenta delle dinamiche metropolitane degli anni Settanta.
I conflitti tra spacciatori, sebbene si svolgano in zone che la propaganda regionale lombarda vorrebbero idilliache e dedicate a sport, famiglie, bambini, finiscono, a volte, con gli omicidi. Dopo un omicidio, ecco la retata della polizia, qualche arresto, e poi lo spaccio di droga ricomincia. A differenza di un parchetto cittadino, controllare un’area estesa come un parco regionale o un’area protetta di interesse sovracomunale è un’operazione molto più complessa e dispendiosa, che necessita di parecchi poliziotti, carabinieri, finanzieri, cani antidroga. Ma al di là di questo aspetto economico, il vecchio quesito resta quanto mai attuale. Interessa davvero la lotta alla droga, in Italia? No. I partiti di destra lanciano saltuari e ipocriti proclami elettorali volti a militarizzare i boschi lombardi – anche perché, a differenza degli spacciatori neofascisti collegati alle curve ultrà, la maggioranza degli spacciatori boschivi è nordafricana, clandestina, e non vota – la droga, ancor di più che negli anni Settanta, è liberalizzata anche se non legalizzata. 
Questa intenzionale opacità legislativa è la fortuna di organizzazioni criminali, di spacciatori grandi e piccoli. Questa opacità è possibile anche perché è cambiato il tipo di consumatore, tanto che è diventato difficile definirlo drogato o tossicomane, e non certo per un uso consapevole della lingua giornalistica. 
Centellinare le vacanze, gli acquisti, la droga. 
Centellinare per durare di più, per drogarsi più a lungo, sempre.
Le immagini del giugno 2022, di due ragazzi – definiti ragazzini da alcuni media – che sniffano cocaina su un vagone della metropolitana milanese ci ricordano i viaggi transoceanici della droga, la diffusione capillare in ambito urbano e suburbano, il ritorno alla metropoli. I due potrebbero essere seduti sulla panchina di un outlet. Indossano bermuda, magliette, calzano Nike e Diadora. Non sniffano nell’angolo di un parco cittadino milanese o ai margini di un bosco suburbano lombardo; sniffano seduti nel vagone Atm, vagone in leggero movimento, accanto a decine di altre persone.
Drogarsi con la certezza di essere ripresi dallo smartphone di qualcuno, di essere protagonisti indefiniti, immessi nel flusso della rete. Il ciclo è compiuto.

ARTICOLO n. 70 / 2022

COME UNA PSICANALISI DI ME STESSO

Introduzione alla vera storia del cinema

Vorrei raccontare la storia del cinema non solo cronologicamente, ma piuttosto secondo una sorta di piccola archeologia o biologia. Tentare di mostrare come si sono prodotti dei movimenti, allo stesso modo in cui nella pittura si potrebbe raccontare la storia, per esempio, di come è stata creata la prospettiva, in quale data è stata inventata la pittura a olio, e così via. Ora, anche nel cinema, nulla è stato fatto a caso. Tutto è fatto da uomini e donne che vivono in società in un dato momento, che si esprimono, e imprimono questa espressione, o che esprimo in un certo modo la loro impressione. E devono esserci degli strati geologici, degli slittamenti dei terreni culturali; ma, per fare davvero tutto questo, occorrono mezzi visivi di analisi, non necessariamente molto potenti ma adatti allo scopo. Però questi strumenti non esistono, e mi sono accorto che io… Insomma… oggi, ho cinquant’anni, penso di aver finito la mia vita, che mi restano all’incirca trent’anni e che sto per… insomma… per vivermi l’interesse della mia vita, se vogliamo, come un capitale che avesse cinquant’anni; oggi, sto per riscuoterne gli interessi. E allora, ciò che per l’appunto mi interessa è vedere quello che ho fatto, e in particolare, visto che ho fatto qualche film, intendo approfittarne e tentare di ritornarci su.

Mi sono detto: bene, questo dev’essere più facile, uno che non avesse fatto dei film e che volesse rivedere la sua vita, la sua vita familiare, potrebbe forse rivedere delle foto, se ne ha conservata qualcuna, certo non le ha tutte. Ma della sua vita lavorativa, se ha lavorato alla catena, o alla General Motors o presso una compagnia di assicurazioni, non gli resta un bel niente. Forse qualche foto dei figli, ma del lavoro – credo – non avrebbe neanche un’immagine, per non parlare dei suoni.

Allora mi ero immaginato… insomma… pensavo… scopro che è un’illusione, che nel cinema, dato che ho fatto dei film, potrei almeno rivederli – e, in fondo, fare dei film consiste nel registrare delle serie di foto – e che potrei almeno partire da questo passato per rivedere il mio, come una psicanalisi di me stesso, e dal punto in cui io stesso ho cominciato nel cinema. Però mi sono accorto che, in realtà, la storia stessa del cinema che dovrebbe essere la cosa più facile da farsi è assolutamente impossibile a vedersi. Si può vedere un film e in seguito parlarne; è quello che si fa qui; tutto sommato però, questo è un lavoro abbastanza povero; bisogna allora riuscire a fare qualcos’altro. Ma questo forse non lo si può fare subito.

Venendo qui con Serge, mi sono per l’appunto reso conto che avevamo previsto di fare una specie di ricerca; io avevo qualche tema, come per esempio quel che c’è stato di fondamentale nel cinema e che si chiama – ma la gente non sa cos’è – montaggio. Questo del montaggio è un aspetto che va nascosto perché è qualcosa di abbastanza forte, e consiste nel mettere in rapporto le cose, in modo che la gente queste cose le veda… una situazione evidente, voglio dire… Un cornuto, finché non ha visto il tizio che sta con sua moglie, cioè finché non ha due foto, la sua e quella di sua moglie, o la sua e quella dell’altro, non ha visto niente; è sempre necessario vedere due volte… È questo che io chiamo montaggio: semplicemente un accostamento. In questo sta la straordinaria potenza dell’immagine e del suono che l’accompagna, o del suono e dell’immagine che lo accompagna. Ora, tutto questo, la sua geologia e geografia, è quanto è contenuto, a mio parere, nella storia del cinema, e tuttavia resta invisibile. Non bisogna mostrarlo, si dice. E io penso che passerò il resto della mia vita e del mio lavoro nel cinema proprio a tentare di vederlo, e innanzitutto per me stesso; e, sempre per me stesso, tenterò di vedere a che punto sono rimasto coi miei film.

Prima di vedere, di cominciare a vedere Griffith e Ėjzenštejn o Murnau, tanto per prendere gli esempi più noti, è difficile mettere insieme i mezzi tecnici esistenti: proiettare un film, guardarlo al rallentatore, vedere a un certo punto come Griffith o un altro si è avvicinato ad un attore e ha, se non inventato, quantomeno utilizzato con una certa metodicità il primo piano. Come ne abbia fatto una figura stilistica, come abbia trovato qualcosa, in modo analogo a quello degli scrittori che in un certo momento hanno inventato una certa grammatica. Bene, bisogna avere il film di Griffith, avere il tempo di cogliere nel film di Griffith il momento in cui sentiamo che qualcosa accade… e, se si ritiene, per esempio, che qualcosa di simile, ma in maniera diversa, è accaduto anche altrove, qualcosa che ne è il seguito, l’erede, il cugino o il complemento, in Russia, per esempio; se lo si vuol raffrontare ad Ėjzenštejn, per dire, bisogna scovare il film di Ėjzenštejn, avere il tempo di individuare il momento, quindi mostrare i due momenti, e poi farlo con della gente, non da soli, per dire se c’è veramente qualcosa. E se, alla fine, si scopre che non c’è nulla, si deve cercare altrove. Proprio come fanno gli scienziati in laboratorio, solo che questo laboratorio non esiste. Il campo in cui si fa davvero ricerca è forse in farmacologia; un po’ se ne fa in medicina o in qualche rara università, ma in tal caso sempre legata al sistema militare. Là difatti c’è un po’ di ricerca, si forniscono gli strumenti. Nel cinema gli strumenti non ci sono. Qui, se si volesse far ricerca…

Ho l’idea del metodo, ma non ho i mezzi. Già prima della morte di Henri Langlois… è con lui che avrei dovuto fare tutto ciò, e lui avrebbe potuto indirizzarmi con sicurezza – lui aveva una memoria formidabile e conosceva anche molto bene la storia del cinema – avrebbe potuto dirmi: «Bisogna cercare nel tale film e nella tale epoca». A questo punto, ci si rivolgeva a Serge, lui che ha le copie dei film o che le può trovare… e poi ci si installava da qualche parte. Ma ecco lì che bruscamente non c’è più nulla. Bisogna poter passare il film, non in proiezione perché, una volta in proiezione, devi poter parlare, dire: «Ah! Vi ricordate? Tre quarti d’ora fa abbiamo visto che…». Ma non è questo che interessa. Quel che interessa, è vederlo e poi dopo vedere magari un altro primo piano, ma contemporaneamente. Ma non ho osato farlo oggi per una prima volta… Ciò che sarebbe stato forse più interessante… – ma io non conosco abbastanza bene i film per osare un tentativo – sarebbe stato più interessante proiettarvi una bobina di Un angelo è caduto e poi una di Fino all’ultimo respiro. È un po’ arbitrario, ma potrebbe essere interessante farlo in piccolo, perché allora si vedrebbe, forse, nel giro di venti minuti, che non c’è da tirarne fuori niente; a quel punto, si monta e si va a cercare un altro film. Ma per cercare l’altro film ci voglio se va bene dieci minuti, e magari uno o due giorni se non ce l’hai sottomano.

Infatti, a volerla fare, la storia del cinema sarebbe come un territorio completamente sconosciuto, sepolto non si sa dove; e dovrebbe invece essere la cosa più semplice, poiché non si tratta che di immagini, come in un album fotografico. Questo album fotografico esiste, ma i mezzi per sfogliarlo non sono accessibili. La telecinesi, se ce n’è bisogno, è in una sala, il proiettore d’analisi è da tutt’altra parte…

Ringraziamo Mimesis Edizioni, PGreco Edizioni per la disponibilità a pubblicare un estratto da Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema.

ARTICOLO n. 69 / 2022

STORIE DI FANTASMI

Traduzione di Camilla PIeretti

Sto rileggendo per l’ennesima volta un racconto di Maupassant che ho sempre pensato si intitolasse I danzatori, ma che in realtà si intitola Il minuetto. Non ricordo quante volte io l’abbia già letto, so solo che probabilmente lo rileggerò ancora e ancora.

Tutti i ballerini del breve documentario indossano una sorta di uniforme: un body nero con maniche a tre quarti e dei collant senza piede semiopachi che terminano qualche centimetro sopra la caviglia, per cui sembra che portino una specie di tuta aderente con una scollatura ampia e generosa. Sono scultorei e disadorni. Martha Graham diceva che niente dovrebbe ostacolare il corpo, che va modellato, disciplinato e onorato.

In Territory of Light, di Yuko Tsushima, una madre single e la figlia vanno sul tetto del palazzo dove vivono per cercare l’origine di una perdita d’acqua. Una volta lì, scoprono che la torre idrica è straripata e che il tetto è coperto da una patina d’acqua perfettamente trasparente che luccica al sole, formando una grande distesa piatta. Il mare, il mare, grida la bambina, raccogliendola con le mani a coppa e immergendovi la faccia.

Un martedì pomeriggio, verso l’inizio dell’inverno, a Melbourne, decido di riguardare un film di Zhang Yimou, Lanterne rosse. La storia è quella di una giovane appena diciannovenne, interpretata dall’attrice Gong Li, che accetta di diventare la quarta moglie di un uomo facoltoso. Al suo arrivo nel palazzo in cui andrà a vivere, viene informata che la famiglia del marito segue varie antiche tradizioni, una delle quali prevede che, quando il padrone decide di passare la notte con una delle sue concubine, fuori dalla porta di lei venga appesa una lanterna rossa. La moglie prescelta gode anche del privilegio di un elaborato massaggio ai piedi e può scegliere il menù del giorno successivo. Inizialmente la giovane, Songlian, che prima del matrimonio studiava all’università, sembra reagire a queste antiche tradizioni con derisione. Le lanterne sono molto alte, metà di un normale essere umano, e talmente pesanti che ci vogliono due servi per appenderle. Ben presto, però, anche lei rimane affascinata da questi rituali e dai piccoli poteri che comportano. Il film si svolge quasi per intero all’interno del palazzo di pietra. Le lanterne rosse e le sete dai colori vivaci indossate da Songlian nelle diverse stagioni creano un forte contrasto con i tetti spogli e le antiche torri, così grigie e sguarnite da far pensare a un deserto.

Il racconto di Maupassant è breve e molto particolare. Il narratore inizia parlando della natura del dolore e di certe cose, di certi incontri, in parte percepiti, in parte immaginati, che penetrano in noi «come lunghe e sottili punture inguaribili» che, dice, perdurano nel tempo. Dopodiché, prosegue raccontando un aneddoto risalente ai suoi anni da studente, quando si era imbattuto in uno strano vecchietto in un angolo del vivaio del Lussemburgo. Presto, il narratore scopre che l’uomo era stato maestro di ballo all’Opéra, all’epoca di Luigi XV e che è sposato a una grande ballerina, una favorita del Re dell’epoca: «Ho sposato la Castris, signore, ve la presenterò se volete, ma viene qui solo più tardi. Questo giardino, vedete, è la nostra gioia e la nostra vita. È tutto quel che ci rimane di una volta. Ci sembra che non potremmo più esistere se non l’avessimo».[1]

«Quando un danzatore è all’apice della potenza», scrive Martha Graham, «possiede due cose splendide, fragili e deteriorabili: la spontaneità, conquistata dopo anni di esercizio, e la semplicità, non intesa nell’accezione usuale, ma come stato di semplicità assoluta, quello di cui parla T.S Eliot e che si consegue sacrificando assolutamente tutto».[2]

Tendo a dimenticare la maggior parte di ciò che vedo o leggo: interi paragrafi di apertura, il contesto generale. Tuttavia, certe impressioni, certi dettagli restano, come insepolti, così che il mio non è più un continuo avvicinarmi a qualcosa di completamente nuovo.

Per tutto il susseguirsi delle stagioni nel film, Gong Li, che interpreta il ruolo di Songlian, porta al polso destro un bracciale di giada. La giada, leggo, è talmente dura da non rompersi se cade e può essere affilata al punto da rigare vetro e acciaio. Mia madre mi dice che assorbe il calore di chi la indossa e che, se le piaci, diventa sempre più verde e quindi sempre più bella nel tempo. Tra i suoi gioielli ha un braccialetto simile a quello indossato da Songlian nel film, anche se quello è più bianco e marrone, mentre il bracciale di mia madre è di un puro verde pallido. Lo tiene in una custodia con una base di plastica rossa e una copertura trasparente, su cui campeggia il nome di una gioielleria di Johor Baharu in caratteri dorati. Tutti i suoi gioielli sono conservati in custodie simili, dalle giade più costose alle collane e ai braccialetti coperti di pietre preziose, adagiati su dischi di cotone bianco da quattro soldi, di quelli usati per struccarsi, che si comprano in farmacia. Di recente, le ho chiesto se potevo rivedere la sua collezione e, mentre eravamo intente in quella attività, mi sono ricordata di averlo fatto spesso con lei, da bambina. All’epoca, tutti quei monili parevano racchiudere qualcosa di profondo. Ciascuno di loro era accompagnato da una storia, che raccontava a chi era appartenuto, chi lo aveva donato e quando. Ho scoperto di avere ancora i miei preferiti, quelli caratterizzati da qualità fantastiche o da una particolare bellezza, verso cui tendevo a gravitare pur senza sapere perché. Leggo che esistono giade risalenti al neolitico che sono state ritrovate in vari luoghi di sepoltura in tutta la Cina, spesso in forma di uccelli, insetti o di creature simili a draghi, ma con un grugno suino. Pezzi dotati di quell’animata astrattezza che evoca le opere di Brancusi, di Isamu Noguchi o di Henry Moore.

William Carlos Williams e le prugne in frigorifero. Anne Sexton e la figlia a cui un cavallo ha pestato un piede. Anne Carson e Monica Vitti, che percorre anche lei un paesaggio desertico in cerca dell’amica. Marie Howe come Maria Maddalena, che si tocca il braccio sinistro, poi il destro, poi di nuovo il sinistro e ancora il destro. Ma questa volta un po’ più forte.

Leggo che, quando Marie Taglioni danzò per la prima volta in La Sylphide, nel 1832, indossava un abito di mussola senza spalline, una gonna che le arrivava a metà polpaccio, collant rosa e scarpette di seta. Per la prima volta, ballò sempre sulle punte. Il suo abito sarebbe diventato una specie di uniforme, replicata ancora e ancora negli anni a venire. Scopro che, nonostante il fascino dei dipinti di Degas, la vita delle ballerine dell’epoca aveva anche un lato oscuro, che spesso venivano sfruttate e pagate molto poco per la loro arte. La tendenza dell’epoca era il romanticismo gotico. I danzatori erano silfidi e spiriti, fatti d’aria e adorni di tulle e di mussola. Morivano durante il primo o l’ultimo atto, ma a volte anche sul palco, quando i loro costumi spettrali prendevano fuoco sulle luci a gas.

Per prima cosa, al nucleo di caolinite veniva applicato del pigmento blu. Il tutto veniva poi ricoperto da una lacca trasparente e cotto ad alte temperature. Dopodiché, toccava a smalti di colori vivaci, verdi, rossi e gialli. Spesso, sul blu visibile sotto la lacca venivano dipinti dei motivi colorati che conferivano all’insieme l’effetto fluttuante di una sovrapposizione di disegni.

Un tempo preparavo spesso un riso verde portoghese con olio piccante, coriandolo e succo di limone. È un piatto molto semplice e c’è stato un periodo in cui io o il mio partner lo cucinavamo quasi tutte le settimane. Il riso è quasi più un risotto, con cime di rapa e cavolo nero. Per preparare l’olio usato per condire il riso, bisogna saltare peperoncino fresco e secco con aglio, alloro, sale e pepe nero in una padella dal fondo spesso. Dopodiché, bisogna aggiungere aguardente velha, aceto di vino bianco, succo e scorza di limone e dell’altro olio d’oliva. Il sapore penetrante dell’aceto e la freschezza dell’olio, che vanno ad avvolgere il blando amido del riso, sono rassicuranti, irresistibili, e mi fanno pensare ai mesi che abbiamo trascorso tra Lisbona e Porto. È lì che ho assaggiato per la prima volta i tortini all’uovo portoghesi, che mi hanno ricordato i dan tats di cui mi abbuffavo da bambina durante lo yum cha a Chinatown al punto da essere una delle prime cose che ho comprato per mia madre quando è venuta a stare da noi.

Il bracciale di giada mi entra sul polso sinistro, ma non sul destro. Ti bastano solo due o tre cose, dice Corrado.

Nel racconto di Mavis Gallant The Cost of Living, i quattro personaggi – due sorelle australiane, una giovane donna di nome Sylvie e un attore di nome Patrick – sono appaiati e insieme posizionati l’uno contro l’altro, come in una danza. Gallant scrive di Parigi in inverno: una città buia e fredda, di musei e di luci aride, di caffè pieni di vapore e di «acqua che ti ruscella sulle scarpe». The Cost of Living è un’opera sensibile alla qualità delle cose: arance, cipria, profumi Miss Dior, cracker salati, un sottogonna in pizzo di sangallo. Una delle sorelle, Louise, la più ricca, tiene un registro di tutte le spese che ha, suddividendole su due colonne: Necessaria o Superflua. In una scena, la si descrive come abbigliata con un lungo abito di lana grigia e dei braccialetti di turchesi provenienti dalla Cina. È in questa veste che incontra Patrick, l’attore che, per breve tempo, sarà anche suo amante. Louise è rispettabile, per bene. Ha fatto il proprio dovere ed è riuscita ad accumulare una piccola fortuna. È molto generosa con Sylvie, la parigina, che copre di regali. Anche Sylvie un tempo è stata amante di Patrick, cosa che non è chiaro se Louise sappia oppure no. Sylvie sogna di poter calcare le scene, veste di stracci ed è debole e impotente. L’altra sorella, Puss, la narratrice, si mantiene insegnando musica. A lei Louise offre attenzioni e compagnia, ma niente di materiale e soprattutto mai del denaro. Ogni personaggio vive in un delicato equilibrio con gli altri. Dapprima, le donne sembrano tutte orientate in qualche modo verso Patrick, ma quando lui se ne va cominciano a gravitare l’una verso l’altra. Nel corso della storia, ogni personaggio si muove e gira come un cuscinetto a sfera, le sue motivazioni e i suoi desideri imperscrutabili finché non vengono svelati, emergendo all’improvviso come teatranti da dietro le quinte.

Dai diari di Mavis Gallant, scritti a Madrid nel maggio del 1952: «Ho sperimentato di nuovo quel secondo di pura gioia che mi capita di provare di tanto in tanto. Come sempre, è arrivato senza preavviso ed è svanito quasi subito. Stavo andando in panetteria, con le ultime undici pesetas che avevo in tasca. È una sensazione difficile da definire e forse non dovrei nemmeno provarci… Nel ricordare la scena, vedo me stessa e la strada in una luce chiara ma sfocata, statica, come una proiezione fermata di colpo. Ricordo che d’un tratto mi sono venute in mente queste parole: “Adesso lo saprò”, poi, quando l’onda di una sensazione che posso solo descrivere come pura gioia ha iniziato a ritirarsi: “È per questo che si vive”».

Tornando a casa, in macchina, ascolto un podcast in cui si parla di una designer che si è creata un unico outfit da indossare ogni giorno per sei mesi, in modo da non dover più scegliere ma da poter mettere sempre la stessa cosa, giorno dopo giorno. Era una sorta di camicione. Penso a quanto potrebbe piacermi come idea.

A casa di mia mamma c’è una confezione di torte lunari, regalo di un’amica. Ogni anno mi dimentico quando cade di preciso la festività, ma so che in quel periodo le torte lunari faranno la loro comparsa nella sua cucina. Si presentano in un’ampia varietà di latte e scatole, confezionate magnificamente ma con troppi strati protettivi e carte, che mi ricordano le scatole di cibo, dolci e torte in vendita nei grandi magazzini di lusso a Singapore o in Malesia, da portare in regalo quando si va in visita da qualcuno. Le torte sono spesse e pastose, preparate con semi di loto o di azuki e con tuorli d’uovo salati. Mia madre le taglia in quarti da dividerci. Se preparate correttamente, il tuorlo dovrebbe galleggiare nel ripieno come la Luna in un cielo notturno. La storia, ricordo, è quella di Cheng’e, che beve l’elisir dell’immortalità e fluttua su, su, fino alla Luna. In alcune versioni, Cheng’e beve l’elisir, che appartiene al marito, per evitare che un ladro riesca a rubarlo; in altre, non riesce a resistere alla tentazione di diventare immortale e, avidamente, lo beve tutto mentre il marito è assente. In entrambi i casi, però, trascorre il resto dei suoi giorni sola, a fluttuare vicino alla Terra per rendersi visibile, ma comunque lontana.

In un libro di tessuti giapponesi acquistato durante un recente viaggio a Sydney: una luna bianca, del colore della seta invecchiata, sul pannello posteriore di un kimono. Su questa base sono ricamate campanule grandiflore e miscanti, i cui motivi sembrano fluttuare come nuvole.

Anche Songlian fluttua, verso la fine di Lanterne rosse. Perlomeno, è la sua mente a fluttuare, la sua formazione, la sua sanità mentale. Devastata dalle macchinazioni della famiglia e della servitù del mondo chiuso in cui è capitata, tormentata dal ruolo svolto in due diverse morti, ben presto diventa anche lei un fantasma, che si aggira per il palazzo indossando gli stessi abiti con cui è arrivata, i capelli nuovamente acconciati in trecce infantili, come a voler richiamare la donna che era entrata lì portando con tanta fiducia il proprio bagaglio, dalla propria casa a un futuro che ancora non poteva immaginare.

Nel vivaio di Lussemburgo, il vecchio maestro e la Castris ballano un minuetto per il narratore. È, lo si capisce, un’apparizione penosa e comica. Quando la coppia si muove, è come vedere dei vecchi giocattoli, delle bambole con un meccanismo un poco rotto. I loro passi, che un tempo saranno stati eleganti, ora paiono comici e sorpassati. Quando il narratore torna a Parigi, due anni dopo, scopre che quella parte del vivaio è stata distrutta: proprio il luogo di cui il maestro e la ballerina, per loro stessa ammissione, non avrebbero potuto fare a meno. In questo senso, mi ricorda il palazzo d’infanzia di Leopardi, o i «russi bianchi» con cui Taeko, la più giovane delle sorelle Makioka, va a cena nel romanzo di Tanazaki.

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 68 / 2022

VIOLETANTE VIOLETA

Le canzoni dipinte di Violeta Parra alla Biennale di Venezia

Per cantare all’improvviso
si richiede buon talento
memoria e intelligenza,
forza di gallo di razza.
Come una grandinata
devono fiorire i vocaboli
da spaventare anche i diavoli
con molte belle ragioni
come nelle conversazioni
fra San Pietro e San Paolo.

Della musicista e artista cilena Violeta Parra, l’amico Patricio Manns racconta di una sera in cui andò a cantare in un teatro di Punta Arenas, capitale della regione di Magellano e dell’Antartide Cilena, nella Finis Terrae australe. Faceva freddo, molto freddo, e a un certo punto una ragazzina le portò uno scialle per coprirsi. «Il freddo di qui, il vostro freddo», disse Violeta al suo pubblico, «mi aveva un po’ colpito, ma poco fa una ragazzina è venuta a offrirmi, a nome del comitato delle madri, uno scialle di lana molto grossa. È una grandissima gioia per me avere ricevuto un regalo da un centro di madri in questa estremità del Cile. Sono venuta un po’ timorosa qui a Punta Arenas, perché non ero mai venuta e non sapevo se mi conoscevate e mi amavate. Ma ora riparto molto contenta, non solo per il regalo che ho ricevuto ma per un’altra cosa molto commovente che mi è stata portata ieri sera». «Che cosa?» domandò il pubblico. Violeta rispose: «Potete vedere qui che i miei piedi non toccano terra, sono in aria, perché tutte le sedie sono troppo grandi per me. Sono una donna molto “corta”. Ma ieri è venuto al mio albergo un uomo, uno di qui, di Punta Arenas, e mi ha offerto una sedia fatta per le mie dimensioni. E porterò anche questa a Santiago, e mai più canterò in punta di piedi».

E anche signori ascoltatori,
occorrono gli strumenti,
moltissimi elementi
e un compagno eloquente.
Dev’essere un buon contendente,
esperto della storia;
vorrei avere memoria
per avviare una sfida,
ma non mi sento capace
di concluderla in gloria.

Arturo Prat è uno degli eroi cileni della Guerra del Pacifico, conosciuta anche come guerra del salnitro, con il Cile da una parte e la Bolivia e il Perù dall’altra (si battevano per il salnitro che abbondava nel deserto di Atacama, a sud del Perù e a nord del Cile). Combatté a lungo e valorosamente, per poi morire in battaglia a bordo della sua nave, la Esmeralda, il 21 maggio del 1879, poco più che trentenne. La Esmeralda era una vecchia corvetta di legno che pesava 850 tonnellate, armata con quattordici cannoni. La battaglia avvenne al largo dell’allora porto peruviano di Iquique, dove Prat e il suo equipaggio si scontrarono con una corazzata peruviana al comando di Miguel Grau Seminario. Dopo la battaglia, l’ammiraglio Grau ordinò che gli oggetti personali di Prat (tra cui il diario, l’uniforme e la spada) venissero consegnati alla vedova, Carmela Carvajal, insieme a una lettera in cui Grau elogiava la nobiltà e il valore del rivale, che fu così chiamato “El Caballero de los Mares”. Prat e la sua Esmeralda li vediamo bellamente raffigurati in questi giorni all’Arsenale di Venezia, in una delle tre opere di Violeta Parra scelte da Cecilia Alemani per la Biennale. Le opere sono tre arazzi, o arpieceras, ovvero quadri composti con lana e pezzi di tessuto di vari colori, o ancora canciones que se pintan, come amava chiamarle la stessa Violeta: canzoni dipinte. Gli altri due arazzi sono El circo Arbol de la vida, il circo e l’albero della vita, rispettivamente del 1961 e del 1963. L’arazzo con Arturo Prat si chiama Combate naval I ed è del 1964, anno in cui Violeta venne invitata a esporre le sue opere al Louvre, a Parigi. Fu la prima artista sudamericana ad avere una personale lì, e insieme agli arazzi espose tele e sculture, ricomponendo la parte visuale della sua eclettica produzione artistica a beneficio di un pubblico che, come le madri e le figlie di Punta Arenas, forse non sapeva niente di lei ma che la amò a prima vista. Era la sua prima personale al Louvre, ma non era la prima volta che esponeva i suoi lavori. Prima del Louvre c’erano stati il Museo de Arte Moderno in Brasile, le Ferias de Artes Plásticas a Santiago, la Galería Teatro I.F.T di Buenos Aires, il Kulttuuritalo a Helsinki, la R.D.A. Gallery di Berlino, l’Università di Ginevra, in Svizzera. Esponeva soprattutto opere ricamate. In un’intervista televisiva con Yvonne Brunhammer, Parra spiegò che la scelta del mezzo era dettata semplicemente dal fatto che non sapeva disegnare. Negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla creazione di uno spazio culturale che fosse allo stesso tempo creativo ed espositivo. Lo chiamò la Carpa de la Reina. La tenda della regina.

Quando parlo di strumento
penso al chitarrone,
col suo filo e il bordone:
il suo suono è un portento.
Cinque “ordinanze” vi conto,
tre di cinque, due di tre,
la “chiave” ai vostri piedi,
l’impugnatura elegante.
Quattro diavoletti cantanti
la sua cassa deve avere.

Quando Violeta venne invitata a esporre al Louvre, conosceva già il posto perché verso la metà degli Anni Cinquanta aveva registrato lì alcune delle sue canzoni per gli archivi della BBC. A invitarla non fu il Musée National d’Art Moderne ma il Musée des Arts Décoratifs, che avendo già esposto i lavori di Picasso e Chagall (l’artista preferito da Violeta) si muoveva con disinvoltura tra belle arti e folk art, schivando la rigidità di confini e considerando tutto Arte con la a maiuscola. Il manifesto della mostra era di stoffa e ricamato, e mostrava un grande occhio, oggetto surrealista per alcuni, talismano sacro per altri. O anche entrambe le cose. Ricamate erano anche tutte le informazioni relative alla mostra: la data (dall’8 di aprile all’11 di maggio), il nome e l’indirizzo della galleria, il proprio nome e la scritta “sculture”, rendendo ambigua e vasta la definizione di cosa sia una scultura. Su quella mostra Violeta scrisse una canzone dal titolo Una cilena a Parigi. E fa così: “Ho portato dei dipinti / nella bella città di Parigi, / con un gran tristezza / per il mio Cile. // Finalmente sono a Parigi /cammino sulla riva della Senna / e sul ponte del Louvre / sono già in ufficio / faccia a faccia con la segretaria / quando sento un campanello / che mi chiama. // Poi vedo davanti a me / il capitano del Museo / è stato gentilissimo / il signor Faré”. Il signor Faré era Michel Faré, all’epoca curatore al Louvre del Musée des Arts Décoratifs, e insieme a Yvonne Brunhammer curatore della mostra. Nella canzone Violeta lo chiama capitano, come Arturo Prat.

E per cantare a contrasto
si dev’essere suonatrice,
e la cantante arrogante
per seguire la melodia,
garantire l’allegria
finché dura il contrappunto,
formare una bella armonia,
rispondere con destrezza:
vedo che la mia testa
non è fatta per questa storia.

E adesso veniamo a Violeta Parra, meravigliosa cantante e artista folk cilena, sorella del poeta Nicanor Parra. Alcuni fatti biografici: nacque a San Carlo, nella provincia di Punilla e nella regione di Ñuble, il 4 ottobre del 1918, e morì a Santiago, suicida a quarantanove anni, il 5 febbraio del 1967. La sua canzone più famosa è Gracias a la vida, di cui esiste una lista interminabile di cover, delle quali forse la più celebre è quella di Joan Baez. Ebbe due mariti, quattro figli e un grande amore, il musicologo e antropologo svizzero Gilbert Favre, che a un certo punto la lasciò. Violeta amava cantare e ricamare (e anche scolpire, dipingere, in tutte le forme creare), ma amava anche e soprattutto andarsene in giro per il Cile a registrare le canzoni del repertorio popolare del paese, avviando così insieme a Victor Jara il movimento culturale e musicale della Nueva Canción Chilena che negli anni sessanta si dedicò al recupero e alla rielaborazione del folklore sudamericano e all’uso della canzone come strumento di lotta sociale e impegno politico. A un certo punto disse: «Il Cile è il miglior libro di folklore che sia mai stato scritto». In una canzone descrive se stessa come un chirigüe, uno degli uccelli comuni del Cile. Nella canzone l’uccello perde le piume e la capacità di cantare per trasmettere la tristezza che prova per la difficile situazione dei minatori nel nord del Cile. E diventa uccello anche in uno dei suoi dipinti più autobiografici, El Pájaro y la Recorder, l’uccello e il registratore. 

Infine gentili signori,
che mi prestate attenzione,
che avete trovato ragione
di sfuggire a questo incanto
non voglio che si faccia
contro di me alcun commento: 
per le chiacchiere sui giornali
è già tanto il condimento.
Non deve mancare il momento
di imparare a gorgheggiare.

In ultimo c’è il verbo violetare che ho usato nel titolo. È un’invenzione poetica di Pablo Neruda, amico e ammiratore di Violeta, che in versi la descrisse il giorno del suo cinquantesimo compleanno: Estás Violeta Parrón / violeteando la guitarra / guitarreando el guittarón / entró la Violeta Parra. (Ecco Violeta Parrón, violetando la chitarra, schitarrando il chitarrone, è entrata Violeta Parra). E poi nel 1970, tre anni dopo che Violeta era già morta, scrisse per lei un’elegia che a un certo punto fa: “E di notte nel cielo il tuo splendore / è la costellazione di una chitarra”. Così grazie all’amico Neruda Violeta non suona ma violeta, non canta ma violeta, non ricama ma violeta. Violetear è il verbo del suo creato. Violetando lei crea. E adesso chiudo con una breve nota sulle fonti usate per scrivere questo pezzo: la poesia Talento per cantare è nel bel volume Violeta Parra, Canzoni (cura e traduzione di Ignazio Delogu, Newton Compton 1979), che contiene anche il racconto biografico dell’amico, scrittore e musicista Patricio Manns e un’utile cronologia. Per il lavoro di Violeta come artista è stato prezioso l’accurato volume di Lorna Dillon Violeta Parra’s Visual Art Painted Songs (Springer International 2020). Altre informazioni vengono dalla rete, in particolare dal sito del Museo Violeta Parra aperto a Santiago del Cile nel 2015 (museovioletaparra.cl) e da YouTube, che oltre al suono della voce di Violeta e alle sue canzoni, custodisce piccoli frammenti di film che la riprendono a colori, intenta a mostrare al mondo il suo creato.

ARTICOLO n. 67 / 2022

CONVERSAZIONE CON ANIOL RAFEL

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. Aniol Rafel è un editore catalano. Ha fondato Edicions del periscopi nel 2012.

Andrea Gentile: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

Aniol Rafel: Entrambi mi sembrano corretti, a modo loro. Quando penso al lavoro dell’editore, spesso mi viene in mente l’immagine di una levatrice che aiuta a far nascere un neonato, verificando che la madre sia sana e che il bambino ne esca al meglio. In editoria facciamo la stessa cosa, trasformando i manoscritti nella versione migliore di sé. Il nostro lavoro, però, è affine anche a quello dei cercatori d’oro: tra i ruoli più importanti che svolgiamo nel creare un catalogo, infatti, c’è quello di filtrarne i contenuti. Tale filtraggio avviene attraverso la lettura, ovviamente, ma anche tramite recensioni, consigli, premi e suggerimenti da parte di persone fidate. Con tutti questi indizi alla mano, ci mettiamo in cerca del nostro tesoro, i libri che andranno a costituire il nostro catalogo. Quando troviamo i primi pezzi, però, la ricerca cambia, perché dobbiamo costruire un catalogo fatto di libri capaci di essere complementari, di raggiungere un mutuo equilibrio, di instaurare un dialogo con gli altri libri e con i lettori. Per me, quindi, l’editore non è tanto un artista quanto un architetto o un carpentiere, intento a costruire una casa in grado di accogliere il miracolo che è il rapporto tra i libri e chi li legge.

A.G. Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

A.R. Sono convinto che uno dei principali impulsi che fa di noi degli editori è la volontà di condividere la meraviglia che proviamo dopo aver terminato la lettura di qualcosa che ci ha commosso, che ci ha reso diversi da ciò che eravamo prima. È un momento di estasi talmente potente da volerlo condividere prima con i propri cari, poi, ben presto, con quante più persone possibile. Per me è stato così dopo aver letto sia La via della fame di Ben Okri sia Le cose crollano di Chinua Achebe, due libri che riescono a espandere i confini della realtà in un modo di cui vado sempre alla ricerca quando leggo qualcosa. Probabilmente è anche per questo che il nostro catalogo è così incentrato sulla letteratura africana e che ha incluso anche autori come Mia Couto o José Eduardo Agualusa. Un’altra epifania del genere l’ho avuta intorno ai vent’anni, rileggendo Peter Pan. Il bambino che non voleva crescere, di James M. Barrie, testo che mi ha affascinato per la sua ferocia, per il suo approccio al lato più selvaggio dell’animo umano e alla crudeltà mista a bellezza e ironia. Da allora, l’idea del male in tutte le sue rappresentazioni, come pure dei diversi approcci al passaggio alla maggiore età, è stato uno dei miei principali interessi, sia nelle mie letture sia nella costruzione del nostro catalogo.

A.G. Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

A.R. Ogni volta che pubblichiamo un libro instauriamo un dialogo con la comunità dei lettori che ci circonda, per cui la realtà attorno a noi è influenzata dalla presenza costante di tutti questi contenuti. Per comprendere la nostra società e la comunità in cui viviamo, quindi, dobbiamo capire come tutti questi elementi si combinano a dare nuova forma ai nostri comportamenti, al nostro modo di comunicare gli uni con gli altri e al modo in cui decidiamo di trascorrere il nostro tempo. Tutti questi cambiamenti, poi, si applicano sia alle nostre vite quotidiane, sia ai filoni narrativi che cercano di spiegare il mondo tramite la letteratura e il fantastico, oltre che al modo in cui leggiamo e interpretiamo sia la letteratura sia la realtà che ci circonda. Tutti questi cambiamenti danno adito a nuovi modi di comunicare, cosa che è importante tenere presente se vogliamo avvicinarci ai nostri lettori e alla nostra comunità. È importante capire che questi mezzi di comunicazione alternativi hanno un ruolo fondamentale anche nel determinare il ruolo sociale della lettura, dei libri e della letteratura, perciò dobbiamo avere un’ottima comprensione di ciò che può servirci e di ciò che ci troviamo di fronte.

A.G. Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

A.R. In certi segmenti della nostra società sì, ma è vero che gran parte della nostra comunità non mette i libri al centro della propria vita e non li ritiene strumenti importanti per il proprio sviluppo personale. C’è una parte della società che considera i libri e tutto ciò che li circonda qualcosa di sacro, qualcosa che conferisce un determinato status sociale e culturale. Sempre più persone, però, tendono a considerare i libri una semplice fonte di intrattenimento (peraltro decadente) e di nozioni, se non un semplice oggetto costoso che si riceve in regalo. È possibile che questo secondo gruppo diventi sempre più numeroso, ma ci sarà sempre una resistenza, costituita da quelle poche anime felici che hanno un rapporto speciale con i libri e con la lettura.

A.G. A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

A.R. Il defunto editore Jaume Villacorba diceva: «Non pubblico i libri che la gente vuole, pubblico libri che la gente ancora non sa di volere». Noi non seguiamo proprio lo stesso approccio, ma di tanto in tanto è bene ricordarsene, sapere che non dobbiamo necessariamente essere prigionieri dei desideri altrui. Inoltre, ci mettiamo nei panni dei potenziali lettori dei nostri volumi, per cui cerchiamo di pubblicare sì i libri che si rivelano una bella scoperta, ma anche quelli che sanno risvegliare la nostra curiosità, che ci fanno scoprire territori inesplorati e viaggiare in luoghi sconosciuti.

A.G. A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per il lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

A.R. In un’Europa davvero unita avrebbe sicuramente senso, ma abbiamo ancora molta strada da fare per arrivare fin là. Per di più, ogni paese legge cose molto diverse, non solo per la lingua di pubblicazione, ma anche per un’ampia rete di differenze sociali e culturali. Una comunicazione più fluida e un aumento degli scambi culturali possono aiutare, ma riferimenti e interessi sono troppo diversi. Uno dei punti chiave del lavoro di editore, che fa sempre parte del suo impegno a far arrivare i libri al pubblico, è riuscire a stabilire una solida rete di complicità con i lettori e con i relativi prescrittori (librai, giornalisti, influencer…). Al giorno d’oggi, però, questa rete varia ancora troppo da un paese all’altro.

A.G. Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di coesistere, perché sono proprio le nostre differenze a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dall’inizio, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

A.R. Il mercato è ricco di esempi di entrambi gli approcci: quello che si concentra sul singolo titolo o autore, per cui i libri sono talmente diversi l’uno dall’altro che l’identità dell’editore risulta quasi impercettibile, e quello che invece si concentra proprio sull’editore, anche a costo di rendere più difficile individuare e separare i titoli di un dato catalogo. Qui [in Spagna] gli editori con tendenze più commerciali tendono a seguire il primo approccio, mentre quelli con aspirazioni più letterarie in genere seguono il secondo. Noi propendiamo per il secondo, ma fin dall’inizio abbiamo incorporato degli elementi del primo approccio, per cercare di sfruttarne alcuni vantaggi. L’idea è di evitare che i lettori possano confondere titoli diversi di uno stesso catalogo e di dare a ogni libro una sua identità, anche in un contesto in cui è l’identità dell’editore a essere preponderante.

A.G. Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

A.R. È molto difficile da prevedere. Certo, l’oggetto libro in sé è molto difficile da migliorare, ma è pur vero che stiamo vivendo una situazione di crisi sistemica, dove le materie prime saranno sempre più scarse e dove la carta si farà sempre più rara e costosa, per cui non possiamo sapere che cosa succederà. D’altro canto, se i libri sono oggetti meravigliosi, probabilmente destinati a durare ancora molti decenni, in definitiva ciò che viene venduto non è tanto l’oggetto in sé quanto quello che contiene, perciò, anche se il formato dovesse cambiare (cosa possibile), gli editori serviranno comunque. Se devo provare a immaginare un possibile futuro, credo che si produrranno e venderanno meno libri, che però esisteranno ancora e saranno ancora importanti per un buon numero di persone. Magari costeranno di più e saranno più correlati a contenuti d’altro genere. Probabilmente succederà in maniera del tutto inaspettata.

A.G. Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

A.R. Considerato che pubblichiamo 10-12 libri l’anno, ognuno dei nostri titoli è speciale e viene selezionato con grande attenzione. Nei prossimi sei mesi pubblicheremo volumi provenienti da parti del mondo molto diverse, che siamo sicuri faranno felici i nostri lettori tanto quanto noi. Per fare un esempio, siamo molto orgogliosi di essere il principale editore catalano dell’autore mozambicano Mia Couto, di cui stiamo per pubblicare l’ultimo romanzo. Inoltre, di recente ci siamo avvicinati al genere della saggistica in stile narrativo, come per Hidden Valley Road di Robert Kolker, di cui ben presto pubblicheremo la traduzione in catalano. In un’intervista con The Italian Review, poi, non possiamo non menzionare la traduzione catalana del Libro delle case di Andrea Bajani.

A.G. Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato a cui, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a rinunciare, quale sarebbe?

A.R. So che dovrei dirne uno solo, ma me ne vengono in mente almeno tre: L’OdisseaLa Divina Commedia, e Le mille e una notte.

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 66 / 2022

A CONVERSATION WITH ANIOL RAFEL

What does it mean to be a publisher?

When thinking about international publishing, there are many questions we should ask ourselves: how is cultural work changing in the world? Will the publishing world be able to respond to the multiplicity of stimuli from which it is overwhelmed every day? What will the role of the publisher be in the future? These, and many other questions, open up a series of conversations with the protagonists of today’s publishing industry.  Aniol Rafel is a catalan editor and publisher. He established Edicions del periscopi in 2012.

Andrea Gentile: What does it mean to be a publisher? Giangiacomo Feltrinelli used to say that a publisher is like a wheelbarrow, a mean of transportation, thanks to which books pass from an author’s hands to a reader’s. The late Roberto Calasso, on the other hand, thought of a publisher as an artist, who thinks about the construction of a catalogue as a writer thinks about his novel, with a creative, artistical mindset. Which of these two positions you feel closer to?

Aniol Rafel: Both of them are probably right, in their way. When I think about being a publisher, I often visualise the work midwives do when they are assisting in delivering newborn babies: make sure that the mother is healthy and that the baby comes in its best possible way. Translated into publishing, that would be to convert manuscripts into the better version of themselves. But our work is also to be gold seekers. I understand an important part of what we do when we are building a catalogue is to filter. We filter the manuscripts through our readings, of course, but also through reviews, advice, awards, suggestions from people we rely on. And with all these clues we seek our treasures, the books that are going to build our catalogue. And when we have the first pieces, the search changes, because we must build our catalogue of books that complement and balance themselves, that can dialogue with the rest of the books and with the readers. So maybe I do not think of a publisher exactly as an artist, but as an architect or a builder. Someone who must build the house that will accommodate the miracle that is the binding of books and readers.

A.G. Before being publishers, first of all we are readers, though readers who read books in a way no one else does, sometimes dissecting a text like a surgeon would. My question then would be about the books that influenced you the most in your work as publisher, the ones you keep returning to in your daily job. What are the most vital pages that give shape to your publishing strategies?

A.R. I’m convinced that one of the first impulses that turns us into publishers is the will to share the wonder we felt after finishing every one of these readings that deeply moved us, that made us become someone different than who we were before. This moment of ecstasy is so powerful that, first, you want to share it with your loved ones, and, soon enough, with as many people as possible. This moment occurred to me after finishing both The Famished Road, by Ben Okri and Things Fall Apart, by Chinua Achebe. The way they expanded the frame of reality was something I always try to find when I was reading, and probably that is one of the reasons why our catalogue has interests in African Literature and has incorporated authors such as Mia Couto or José Eduardo Agualusa. Another of these moments was when I reread, in my twenties, Peter Pan: Or The Boy Who Would Not Grow Up – A Fantasy in Five Acts, by James M. Barrie, and got captured by its ferocity, by its approach to the human wild soul and cruelty combined with its beauty and irony. Since then, the idea of evil and its representations, and also of coming of age with its different approaches, has been a matter of interest in my readings and in the construction of our catalogue. 

A.G. Of course, today books are only one part of a delicate, sometimes elegant, often surprising  equation of content. From movies and tv shows available for streaming at a click of our devices, to podcasts, mobile Apps and games, stories, words, ideas are all around us, a cloud of content that we breathe, constantly, as we do our morning routines, go to work, talk with a colleague, have a romantic dinner in a restaurant. It’s inescapable and can be suffocating, this cloud, but also exhilarating. What other “cultural objects” beside books are currently influencing your publishing strategies? Are you pursuing any type of cooperation between books and other media that might turn out to be mutually beneficial?  

A.R. When we publish books, we are also offering a dialogue to the community of readers that surrounds us, and of course reality around us is heavily influenced by the constant presence of all these contents. So, if we are to understand our society and our community, it is our obligation to try and understand how all this is reshaping the way we all behave and communicate with each other and decide to spend our time. Also, all these changes apply not only to our daily lives, but also to the narratives that are trying to explain the world through fiction and literature, and to the way we read and understand both literature and our reality too. This changes also offer new ways to communicate, and this is something that must be considered if we also want to be close to our readers and our community. We must also understand that these other ways to communicate can also play a role in determining the social importance of reading, of books and of literature, so we must understand all the possibilities that can help us, but which might also confront us. 

A.G. But let’s go back to books. Books are strange objects, and I often wonder what their role in our contemporary society is – especially given the proliferation of media we were talking about. What do you think the common perception of books is? Are they thought about as merely entertaining devices? Do they still represent a different kind of emotional experience, or a different way to interrogate our reality? Franz Kafka used to say that we need books that break the icy sea inside ourselves. Do books still manage to do this?

A.R. Books still manage to do this in a certain segment of our society, but of course a big part of our community is neither putting books at the centre of their lives, nor are they seeing them as important tools to develop themselves. So, we have this one part of society in which books and everything around them is considered to be almost sacred, something that gives you some kind of social and cultural status. But more and more people just consider books to be another way to entertain yourself – and a decaying one –, to learn something, maybe, or simply an expensive object you sometimes receive as a gift. Even though the numbers of this second group are likely to grow, there will always be a resistance, the happy few that have this special connection, this special bond with books and reading.

A.G. A follow up question would have to do with the readers. What’s the ideal reader you have in mind while you work? And how does this ideal reader, if present at all, come to you: do you search for her, trying then to find the best possible reading experience for her; or do you invent her, meaning that you move about the publishing world creating needs and spaces that weren’t there before?

A.R. Late publisher Jaume Vallcorba stated that «I don’t publish books that people want, I publish books that people doesn’t know yet that they want». We don’t exactly follow this, but it’s good to return to it now and then, especially to remind ourselves that we mustn’t be prisoners of someone else’s desires. We also mirror ourselves as possible readers for our books, so we try to publish not only those books that we’d have loved to find, but also those that would awake our curiosity, those that would let us explore uncharted territories and make us move to uncertain places. 

A.G. However a publisher thinks of the readers whom the books she publishes are going to meet, books are often seen as bridges, especially in times of great division. It’s a platitude, of course, but one that holds – like all platitudes do – a morsel of truth, though one that is constantly challenged by political, societal, and linguistic barriers. Many have dreamt, over the decades, of a fully European publishing house, one that can make a book available in multiple languages at the same time, targeting readers across the Continent. Is this utopia, or is it perhaps something that new technology and a renewed need for cooperation are making more and more possible? How would you feel about such a project?

A.R. In a truly united Europe, it would certainly make sense. But, to get there, there is still a long way to go. Nowadays, what is read in every country in Europe is too different, not only due to the published language, but because of too wide social and cultural differences. A much more fluid communication and an increase in cultural exchanges can help, but references and interests are too separated. One of the keys to publishing, and to understand this as an effort to make books get to the public too, is to stablish a solid net of complicities with them and with their prescribers (booksellers, journalist, influencers…). And, as for today, these nets are way too different from country to country.

A.G. Despite the need for cooperation we were talking about, we do have our differences, of course, and differences must be treasured even as we find new ways to work together, to be together, because it’s our differences that make us unique. Another platitude, perhaps, but one that is often exemplified in publishing by the contrast between British and American publishers, on the one hand, and European publishers on the other hand. In fact, and generally speaking, every book is different in the UK and the US, and a publisher’s identity is less perceivable than the identity of the editor building a particular list. Whereas, in Europe, a publisher’s identity tends to be immediately recognizable from the get-go – think of a Gallimard blanche, or Adelphi’s pastel colors on a bookshelf. What do you think the respective merits of the two approaches are? And which one do you feel closer to?

A.R. In our market, there are examples of both lines, the one that prioritizes the individual title or the author, making every book so different and where the publisher’s identity is almost hidden, and the line that puts the publisher’s identity at the centre, even at the cost of making it harder to individualize and separate every title inside a given catalogue. And, at least here, the labels with more commercial aspirations tend to follow the first line, where the most literary labels usually follow the second one. We feel clearly closer to this second one, but since the beginning we incorporated some elements that you can usually find in the first line, in an attempt to get some of the advantages of this line, mainly to avoid the confusion between different titles of the same catalogue, and to provide an individual identity even in the context of the identity of a strong publisher. 

A.G. Publishing, as our readers may have gleaned from this conversation, is sometimes a very idiosyncratic business. How do you imagine the future of our industry? Umberto Eco used to say that books are “eternal objects”; objects that, like a fork or a spoon, are so perfect from the moment of inception that they don’t need changes. Do you think this is true? Do you believe that books will stay the same – physically and spiritually – through the years to come? And if you think they will change, how will they do it?

A.R. It’s very hard to predict. Indeed, and as objects, books are very difficult to improve. However, we find ourselves in a predicament of systemic crisis, where raw materials will be more and more scarce, the price of paper is skyrocketing while its availability has sunken, so we don’t know what will come. On the other hand, and since books are wonderful objects, possibly ones to last many more decades, what we sell is not the object but its content. Therefore, even when the format eventually changes, which is unclear, publishers will be needed. If are playing at imagining a possible future, it’ll be one where less books are produced and sold, but still exist and hold meaning for many people. Maybe they’ll be more expensive, and more related to other kinds of content. And, most probably, it will all happen in unexpected ways.

A.G. As we wind down our conversation, perhaps it’s time to move into more playful territory. We talked about the future of publishing, so perhaps now it’s time to talk about the future of your publishing house. Give us a sneak peek into your next six months. What are you most excited about?

A.R. As we publish 10-12 books per year, every title we publish is special and has been selected after a very conscientious process. For the next six months, we’re going to publish books from very different parts of the world that we are sure that will thrill our readers as much as ourselves. We are, for instance, very proud of being the long-standing Catalan publisher of Mozambican author Mia Couto, and we are going to publish his latest novel. We’ve recently putting some faith in narrative nonfiction books, and Robert Kolker’s Hidden Valley Road, whose Catalan translation will be published soon, is also a perfect example of this. And of course, as this conversation is for The Italian Review, we are happy to publish the Catalan translation of Il libro delle case, by Andrea Bajani.

A.G. Last question. If you were to choose a classical book from ages past that were to reach your desk today and that you wouldn’t be able to pass on, which book would that be?

A.R. I know I’m supposed to say only one, but I have to say at least three: The OdysseyThe Divine Comedy, and One Thousand and One Nights.

ARTICOLO n. 65 / 2022

ARTHUR JAFA, “LIVE EVIL”

Un filo sottile che lega sofferenza e piacere

Ad Arles, nel sud della Francia, un vasto ex-sito industriale riqualificato è sede della LUMA, Fondazione dedicata al sostegno della creatività contemporanea. In due corpi che compongono il complesso edilizio è in corso una mostra di Arthur Jafa, Live Evil (che è anche il nome di un album di Miles Davis), curata da Vassilis Oikonomopoulos e Flora Katz, assistita da Claire Charrier.  

A 61 anni, l’artista di Tupelo, Mississippi, è diventato un’icona per la generazione Black Lives Matter, realizzando un corpus di opere avvincenti che sfidano le categorie e gli stili. Fin da piccolo, Jafa scruta famelicamente riviste, giornali e quant’altro, ritaglia le rappresentazioni della cultura nera incollando i materiali tra le pagine di quaderni, che non hanno ancora la solidità di lavori compiuti, ma addestrano Arthur al montaggio, aiutandolo a porre le basi di un’estetica nera del tutto personale. Portare alla luce foto e filmati d’archivio, ingrandendoli o modificandoli per ottenere risultati che rispondano ad un quesito ricorrente: “come realizzare opere che equivalgano alla potenza, alla bellezza, ma anche all’alienazione della musica nera?”, è substrato imprescindibile della pratica di questo artista. Nel 2016, Jafa realizza il video Love Is the Message, The Message Is Death, che ha avuto un impatto enorme sul mondo dell’arte e non solo. Il lavoro è composto da immagini assemblate, trovate online o create dallo stesso artista, accompagnate dal brano Ultralight Beam di Kanye West. Questa unione lirico/ritmica di brevi sequenze visive e musica esprime il violento malcontento di una società vettrice di mostruosità e la tragica esperienza dei neri d’America ereditata dalla schiavitù. Nel 2020, quando tredici musei di tutto il mondo hanno voluto lanciare un messaggio forte contro il razzismo, è stato questo il video selezionato per essere esposto contemporaneamente nei loro siti.

Le opere esposte nella mostra Live Evil ci spronano a non assecondare un sentimento populista, a non cercare alcun conforto lenitivo. Resta con il disagio e l’inquietudine, sembra dirci Jafa, immergiti nelle mie opere, non accettarle o tollerarle: in esse non troverai nulla di istruttivo, calmo o riposante, rispettoso o celebrativo. 

Il lavoro dell’artista americano è cinetico e ispido e si sviluppa attraverso un filo sottile che lega la sofferenza al piacere, l’inguardabile alla bellezza. Dentro la visione del mondo, nel suo continuum, per i neri d’America è impossibile separare completamente ciò che è miserabile, ontologicamente legato all’orrore, da ciò che è magnifico. In una conversazione con Jacob Holdt, autore, negli anni ’70, di un libro fotografico seminale American Pictures, Arthur Jafa così si esprime: «Io e uno dei miei carissimi amici, il poeta Fred Moten, abbiamo una divisione fondamentale nel nostro modo di pensare. Lui non ha la sensazione che la cultura nera e l’orrore siano indissolubilmente legati, crede che l’orrore e la cultura nera si informino istantaneamente e si sviino a vicenda, mentre io sento un indissolubile legame. Siamo in una dinamica in cui è come se vivessimo perennemente al pronto soccorso. La maggior parte delle persone va al pronto soccorso, noi neri è lì che viviamo, pur mantenendo le componenti di fondo dell’esistenza, che sono gioia e bellezza».

L’opera che apre la mostra arlesiana è un vero e proprio pugno nello stomaco: una fotografia fortemente ingrandita di scolari di colore che eseguono un saluto alla bandiera americana. Questo gesto, che, di primo acchito, ingannevolmente rimanda al saluto nazista, era l’hi Bellamy che accompagnò il Pledge of Allegiance negli Stati Uniti dal 1892 al 1942, smettendo di essere utilizzato quando fu adottato dal Terzo Reich.  

Jafa sviluppa efficacemente dispositivi che permettono di far emergere la complessità delle relazioni razziali, la tensione tra le differenti forme di espressione e le specificità della cultura dei neri americani, l’emergere e l’evoluzione del loro cinema e della loro musica nel XX e XXI secolo come prodotto culturale e artefatto ideologico. Sia potente che lirica, la pratica multimediale dell’artista combina immagini provenienti dalla personale memoria affettiva e da retroterra diversi, toccando i temi della violenza, della repressione, dei precari sistemi di sopravvivenza negli Stati Uniti, ma ogni sua opera resta sul confine sottile dell’astrazione, non cadendo mai nella sottolineatura. Jafa è consapevole che solo la costruzione di una rinnovata matrice sensoriale sia un valido lavoro di emancipazione. 

Nel padiglione Mécanique Générale, troviamo una gran parte di opere che sono state già esposte in Danimarca dal Louisiana Museum of Modern Art nella mostra Magnumb. Nell’ala della Fondazione francese possiamo vedere The White Album (2018), un’esplorazione della fragilità dell’uomo bianco che, alla Biennale d’Arte di Venezia 2019, ha ricevuto il Leone d’Oro. Qui, attraverso un ritmo visivo decelerato che predilige i primi piani, risuonano i brani di Iggy Pop e Oneohtrix Point Never. Tra i nuovi pezzi aggiunti in mostra, Slowpex, lavoro di quest’anno, il cui suono avvolge l’intero spazio espositivo. Ogni frame video, rallentato, diventa leggibile individualmente. Per l’artista, ora i tempi sono cambiati e la strategia dello shock non è più appropriata, i sensi sono offuscati, esausti per essere stati tenuti in massima allerta. Non si tratta più, quindi, di risvegliare le coscienze passive, quanto di riconquistare il tempo dell’introspezione, della speculazione. Slowpex va in un senso diverso rispetto al precedente lavoro, Apex, del 2013, opera tumultuosa che si confronta con il cinema delle avanguardie storiche, con le quali si connette per alcune strategie introdotte. Pensiamo a lavori di Dziga Vertov o di Sergei Eisenstein, ma ricontestualizzati all’interno dell’industria culturale contemporanea. In questo caso il lavoro di Jafa orienta la nostra attenzione verso i meccanismi di estetizzazione della politica e verso la manipolazione degli affetti. 

Sempre nel padiglione Mécanique Générale, tra le altre opere, vengono presentate una serie di fotografie e sculture come Ex-Slave Gordon 1863 (2017), una impressionante figura umana con la schiena sfregiata, Big Wheel II (2018) e Large Array (2020), che mappano la psicologia delle relazioni razziali oggi in America. Akingdoncomethas (2018), è un video di quasi due ore, costituito in gran parte da materiale trovato su YouTube. Nel film è centrale l’amore e il perdono attraverso l’energia vitale del canto gospel nelle chiese evangeliche americane, ma una vena amara attraversa la narrazione. Mentre Love Is the Message, The Message Is Death presenta principalmente persone che nella vita sono riuscite a realizzarsi completamente, Akingdoncomethas mette in luce il soffocamento di un potenziale espressivo, la difficoltà, negli Stati Uniti, per le persone di colore, di riuscire a “sfondare” anche quando il talento è particolarmente evidente. «Dentro l’essere nero, dentro le vite e la continuità dei neri d’America, esiste unsorta di condanna, che è quella di non potercela fare appieno, anche quando le capacità sono eccellenti e lo permetterebbero. Per ogni Aretha Franklin, nelle chiese ci sono venti altrettanto brave artiste che non hanno possibilità di emergere», sostiene Jafa. 

La Grande Halle, altro spazio della LUMA, viene trasformato in un ambiente unico. Le grandi installazioni visivo-sonore qui rivelano tutta l’inquietudine di un messaggio senza tempo, il rigore intellettuale del percorso visionario dell’artista americano. La complessità delle possibili associazioni fra le immagini è sorprendente. Al centro dello spazio, a testare i confini tra cinema e tecnologia, Arthur Jafa realizza un’installazione che ruota attorno ad Aghdra(2021), un’opera digitale di 85 minuti, realizzata con l’ausilio dell’Intelligenza Artificiale, 120 fotogrammi al secondo in 4K e costruita in 12 sequenze. Mettendo in risalto la trama visiva e i valori scultorei delle immagini, questo è il primo video dell’artista a rinunciare al referente reale. Siamo in un paesaggio dove flussi di onde scure si intensificano avendo un sole incombente all’orizzonte. In Aghdra, l’acqua è come asfalto o lava che si rompe: è, allo stesso tempo, materia liquida e solida, forma in continuo mutamento. Aghdra è un lavoro epico, presentato come costituente un’unica tesi: l’antisublime, l’oscurità alla fine dell’Antropocene; l’insondabile perdita e l’ineffabile dolore alla fine della civiltà, così come la conosciamo. Il clima post-apocalittico ci ricorda i pericoli del cambiamento climatico, ma anche l’ansia esistenziale di questo grande artista, ansia che pervade tutto lo spazio espositivo. 

La proiezione di Aghdra si giustappone a un’altra di un video inedito, Untitled del 2022, un omaggio a Greg Tate, caro amico di Jafa, recentemente scomparso. L’opera mostra una fluttuazione astratta e ipnotica, polverosa, di luci ed ombre, che cattura l’essenza e la profondità delle emozioni. 

Ancora, quattro grandi cartelloni pubblicitari evocano diverse figure di rilievo della Black Music: l’immagine di LeRoi Jones (Amiri Baraka), autore di Blues People. Negro Music in White America accompagna quella di Miles Davis ai tempi di In a Silent Way.

Dalla storia della musica alle composizioni scultoree e ai feticci Boliw (oggetti di potere, carichi di forza vitale, che hanno avuto un ruolo centrale nei rituali e nella vita spirituale della tradizione del Mali), Live Evil rifugge ogni genere e va oltre la teoria, facendo confluire il passato nel presente e questionando fortemente la nostra condizione attuale.

ARTICOLO n. 64 / 2022

NUOVE PAROLE PER DIRE CINEMA

Intervista di Fabio Bozzato

Contro i film, contro il cinema, contro i festival e contro Venezia: si può celebrare così la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il più longevo festival di cinema al mondo? Alberto Barbera si lascia andare a una risata, ma non si tira indietro. Anzi, apre le riflessioni seguendo proprio quel filo. Intanto la Mostra che lui dirige dal 2011 (oltre a un precedente periodo dal 1998 al 2002), compie 90 anni ed è sul punto di inaugurare la sua 79ma edizione (31 agosto – 10 settembre). 

Fabio Bozzato: Possiamo dire che le parole “film” e “cinema” non bastano più? Possiamo archiviarle? Se si va in qualche grande esposizione d’arte, ci si imbatte spesso in artisti che usano il linguaggio filmico in modo strepitoso, magari multicanale o a 360°. Se si accede a una piattaforma, si finisce ammaliati dalle serie: hanno sfigurato durata e architettura narrativa dei classici film e non poche sfoggiano una qualità di scrittura e di direzione impeccabili. Dobbiamo inventare nuove parole?

Alberto Barbera: Sì, ci possono sembrare strette, a meno che non inglobiamo tutto ciò che viene realizzato in ambiti diversi dell’audiovisivo, contigui e strettamente collegati, sotto la stessa parola che è “cinema”. E forse è la cosa corretta da fare: il cinema non può essere ciò che abbiamo conosciuto nel XX secolo, canonizzato in uno spettacolo da 90 minuti, dentro una sala, con un certo sviluppo narrativo.

Il cinema, come le altre arti, cambia continuamente ma molto più velocemente rispetto alle altre. Questo dipende da un elemento che distingue il cinema dal resto delle espressioni artistiche: la base tecnologica. Proprio la rapidità della trasformazione tecnologica ha un’influenza così forte su quello che consideriamo “cinema”, in particolare sulla parte creativa, artistica, narrativa. Riscrivere la storia del cinema da questo punto di vista sarebbe estremamente interessante.

Il cinema è una storia di continue trasformazioni tecnologiche. Pensiamo al passaggio dal muto al sonoro: il muto nel giro di due decenni arriva a codificare un linguaggio che si fa maturo, espressivo, efficacissimo; ma quando appare il sonoro, è una rivoluzione: inventa un nuovo linguaggio e fa terra bruciata del vecchio, la parola prende centralità, cambia il rapporto con le immagini. È come se tra il 1926 e il 1929 fosse morta una lingua. Poi è cambiato il formato degli schermi e in seguito le tecnologie leggere, tra macchine e pellicole, hanno segnato la Nouvelle Vague; infine il digitale, il cambiamento forse più pesante e ancora in corso. Se ci pensiamo, il cinema è uscito dal Novecento stravolto. E così arriviamo alle piattaforme e al successo delle serie.

F.B. In questo caso la serie stravolge l’idea stessa di film.

A.B. Assolutamente e la chiave è il tempo. Una volta si faceva un film che doveva stare tra i 90 e i 120 minuti, con poche eccezioni. Le eccezioni si andava a vederle proprio perché erano un’eccezione. Nel film tutto finiva modellato su quella durata di tempo, compresa la narrazione, i dettagli, i caratteri, la psicologia dei personaggi. Le serie, con il loro ritmo di episodi e di stagioni, abbattono quei limiti e quelle convenzioni. E se incontriamo una straordinaria qualità, è perché spesso a dirigerle sono gli stessi registi che fanno film e portano nella serie tutto il know-how e il talento. Non hanno più i limiti che il cinema gli impone, scoprono una libertà espressiva inedita, percorsi narrativi di così ampio respiro prima impossibili. Non è un caso che molti romanzi storici non abbiano quasi mai avuto una compiuta traduzione filmica, che invece le serie permettono. Significa prendere il meglio del linguaggio cinematografico e trasferirlo in un marchingegno narrativo dalle opportunità enormi.

A ben vedere le contaminazioni sono state reciproche. Negli ultimi anni, ad esempio, è aumentata la durata di molti film e oggi le tre ore sono assolutamente accettate: è come se quel regista dopo aver sperimentato la serie non voglia più rinunciare alle possibilità del tempo lungo e profondo. Ma la durata dei film ha implicazioni anche sulle sale, sulle programmazioni, sul pubblico.

Quindi, per tornare alla parola “cinema”, possiamo davvero non considerare le serie una forma di cinema? Così è per la realtà virtuale: Venezia è il primo festival a fare una sezione ad hoc, cercando di capirne tutto il risvolto creativo e artistico, al di là della tecnologia; in questo caso non solo osserviamo tutte le conseguenze sulla durata (più breve, anche per gli effetti di disorientamento che ancora produce), ma pure sullo spazio filmico che diventa tridimensionale, sullo spettatore che non è più fuori dalla pellicola ma è dentro, immerso nell’universo filmico. Allora quella parola, “cinema”, sembra davvero resistere a tutto: sborda, si espande, ingloba, ha una capacità di adattamento incredibile. 

F.B. Accennava alle sale: è l’altro elemento cardine, un luogo che è già rito. Tuttavia, sarà effetto della pandemia e dei lockdown, ma il desiderio della sala non sembra esserci tornato. È uno dei pezzi della filiera che più ha sofferto e soffre. Ci può essere cinema senza le sale?

A.B. C’è un bellissimo libro di Francesco Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene (Bompiani, 2015, pag.442). Casetti è uno dei migliori teorici italiani di cinema, che da anni insegna a Yale negli Stati Uniti. In questo libro si interroga sulla possibilità di vedere film a casa, sull’iPad, sul cellulare seduti in metro o in bus. E si chiede: quello è ancora cinema? Lui dice: certo che lo è. Il fatto che per decenni siamo andati a vedere il film in una sala è in realtà legato a una limitazione tecnologica, un limite non connaturato ontologicamente alla natura del linguaggio cinematografico.

Certo, se la domanda invece è: qual è la forma migliore per vedere un film? La risposta sarà sempre: in sala. Non c’è paragone, è un’esperienza di visione impagabile. Penso al fatto che sul grande schermo si vedono dettagli impercettibili rispetto a uno piccolo; penso alla dimensione collettiva della visione che innesta nel film qualcosa in più rispetto a una esperienza individuale. Ma il fatto di poterlo vedere da soli e su un altro supporto non toglie nulla al suo essere un’esperienza di cinema.

In questo processo di trasformazione, che la pandemia ha solo accelerato e reso più visibile, le sale sono l’anello più debole. Siamo in un momento di transizione così forte che riusciamo a intravvedere la direzione ma non sappiamo il punto di caduta. Secondo me si andrà verso un assestamento, nella coesistenza di vari sistemi di visione, distribuzione, programmazione. Ma sapendo che in questa molteplicità di soluzioni, solo in una sala si potrà fare un’esperienza sensoriale che non ha rivali: penso al nuovo film di James Cameron, Avatar 2, sarà qualcosa senza precedenti, una forza d’urto che si vivrà solo in sala.

Ma penso anche ad un’altra cosa: molti film passano nei festival e non arrivano alla distribuzione; una volta si pregava di trovarli in un cine-club, ora invece li si può trovare in una piattaforma: questo ha fatto solo del bene al cinema.

F.B. A proposito di festival, Venezia festeggia i 90 anni. Un tempo i festival misuravano la temperatura della cinematografia, testavano lo stato dell’arte in giro per il mondo, qui si incontravano produttori, distributori, critici, erano il tempio del glamour. Ma oggi, che tutto questo sembra smarrito e smaterializzato, a cosa servono i festival, al di là della messinscena di un grande evento?

A.B. Paradossalmente servono ancora più di prima. C’è stato un momento, all’inizio del nuovo millennio, in cui i festival sono apparsi poco attrattivi. Ad eccezione dei film indipendenti, per i quali i festival da sempre sono il luogo di visibilità per eccellenza, ai grandi studios partecipare è sempre stato estremamente costoso e con rischi di flop inutili da correre. Così, a un certo punto hanno pensato ad altri strumenti più controllabili, ad esempio portare i giornalisti a una convention di lancio, in un posto magnifico: a volte non facevano neanche vedere il film, eppure ottenevano una visibilità a pioggia in tutto il mondo. Per un po’ è sembrato il modo migliore. Ma si sono resi conto molto rapidamente che mancava quel qualcosa in più che solo un festival sa dare: il rituale. È il rituale che crea un effetto di moltiplicazione dell’attesa e di svelamento. È impagabile l’esperienza del festival, tant’è che se un film non viene scelto o la produzione non può partecipare, quel qualcosa in più viene ricreato artificiosamente per il lancio: il tappeto rosso, l’attesa, la selva di fotografi. L’esperienza fisica torna ad essere imperdibile.

F.B. È l’effetto della prossimità dei corpi. 

A.B. Esatto, non a caso, per ritornare al discorso sulle sale, quando si discute su come trasformarle, si finisce sempre per puntare su un di più di esperienziale. Per cui si parla di ambienti multi-funzioni e molto curati, sempre più accoglienti ed eleganti; si parla di poter incontrare il regista, l’autore o l’attore alla fine del film. Insomma, poter vivere in piccolo l’unicità dell’esperienza. È questo che spiega come, invece di tramontare, i festival nel lungo periodo si siano rafforzati. Prendiamo una grande produzione che lavora con le piattaforme, pensiamo a Netflix: tre quarti dei film che produce sono commerciali e pop, ma per quelli su cui investe centinaia di milioni di dollari vuole il meglio dell’esperienza di marketing e di visibilità. Pensiamo a Roma di Alfonso Cuarón o Il potere del cane di Jane Campion e a tutti quei lavori per cui Netflix fa l’impossibile per portarli prima di tutto a un festival. Sembra un paradosso, no? Queste grandi imprese, che hanno puntato tutto sulla smaterializzazione della filiera cinematografica, sentono di dover dipendere dall’esperienza fisica più tradizionale per rendere il prodotto un must.

F.B. Restiamo sui festival. È storica la rivalità tra Venezia e Cannes. L’anno scorso Variety ha definito Cannes «la più ricercata, sfavillante, elegante celebrazione del cinema al mondo». Il critico Gian Piero Brunetta, che ha appena dato alle stampe la prima storia della Mostra del Cinema di Venezia, edito da Marsilio e dalla stessa Biennale, ha detto: «Il primato di Cannes non è messo in discussione». Cosa resta allora di Venezia dopo 90 anni?

A.B.
Il primato riguarda le dimensioni del festival di Cannes: è quello che attira il mercato più grande del mondo, ha il maggior numero di accreditati e smuove la maggior parte dei professionisti che lavorano nell’industria cinematografica. Non è sempre stato così. Ma Venezia sconta varie cose. Prima di tutto il decennio dopo il Sessantotto, in cui è rimasta smarrita e ha rinunciato ad assegnare i premi ai film.

È ripartita nel 1979, peraltro molto curiosa, sperimentando nuove formule di festival, anticipando soluzioni che poi gli altri hanno copiato. Ma nel frattempo le strutture sono rimaste ferme, sia di sale che di ammodernamento tecnologico: tutte cose che gli altri hanno invece fatto, prima di tutto Cannes, che ha investito e costruito e ha scommesso sul mercato del cinema e su tutto il mondo del business legato al cinema. Produttori, distributori, buyers, finanziatori: tutti quelli che fanno affari con il cinema si trovano là. Venezia non può competere su quel terreno, ma sì sulle anticipazioni, le innovazioni, gli immaginari, i nuovi orizzonti creativi e tecnologici, il prestigio. In questo senso Venezia e Cannes primeggiano su fronti diversi a livello internazionale.

F.B. Tutto questo in un contesto italiano in cui si produce una montagna di film. Lei stesso ha lanciato l’allarme per la pessima qualità e per il «rischio di una bolla speculativa», come l’ha definita presentando questa edizione del festival. Perché è così desolante il panorama italiano?

A.B. In Italia si producono film quasi ai livelli degli anni ’60, lo dico sempre un po’ esagerando perché a quei tempi si arrivava a 400 titoli. Nell’ultimo anno ne abbiamo contati 250, più del doppio degli anni scorsi ed erano già troppi. Erano troppi per la capacità di assorbimento del mercato, visto che non più di 80 o 85 hanno mai trovato una distribuzione nelle sale. Il nostro è un mercato piccolo, abbiamo la metà del numero di sale che ci sono in Francia, meno che in Germania e Inghilterra.

Cosa è successo? Per una serie di fattori, il settore audiovisivo si è trovato d’improvviso sommerso di risorse economiche: la tax credit al 40%, le sovvenzioni ministeriali che ogni anno contribuiscono a finanziare almeno 80 titoli, e poi Rai Cinema che ci mette 82 milioni di euro, cui si aggiungono i 280 milioni del Ministero della Cultura. Sommiamo l’attivismo in crescita delle Film Commission che sono soprattutto agevolazioni e contributi indiretti e siamo di fronte a una cosa mai vista.

Il problema è che sono stati usati male: tutti sono corsi a fare film, sono sbucate dai cassetti sceneggiature ferme da anni, si è girato in tempi rapidissimi con attori, tecnici, autori, montatori, direttori della fotografia tutti iper-impegnati e che si accavallavano nelle produzioni. Tutto questo poteva non influire nella qualità dei film? La prova ci è apparsa sotto gli occhi durante le selezioni: qui sono arrivati almeno 200 di quei 250 titoli e vi assicuro che abbiamo visto una quantità di cose orribili. A parte i film selezionati e pochi altri che purtroppo non siamo riusciti a inserire in programma, il resto era inguardabile.

Così, se l’anno scorso avevo spezzato una lancia a favore del cinema italiano, provando a dare fiducia, quest’anno ho dovuto lanciare un allarme. Gli standard minimi di qualità sono la garanzia del rapporto di fiducia con lo spettatore, è una relazione che non puoi spezzare. Il risultato è che il pubblico non va a vedere film italiani, siamo tornati un po’ come negli anni ’90 quando la credibilità era precipitata. Certo, tutti sono contenti per aver fatto un sacco di soldi, ma per cosa?

F.B. Allora proviamo a tornare a novant’anni fa: cosa è rimasto di quella prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia? 

A.B. Forse è rimasta l’intuizione di fare qualcosa senza precedenti. E di farlo in quel contesto: le prime tre edizioni del festival sono state fatte con grande libertà, il regime non aveva ancora compreso fino in fondo il potenziale del festival. Ma quell’idea iniziale, di valorizzare il cinema come espressione d’arte, riconosciuta come tale dalla Biennale d’arte da cui prende forma, beh è qualcosa di unico.

È il cinema di qualità, il cinema d’autore, l’abilità nel combinare autorialità e capacità di rivolgersi a una platea vasta di spettatori. Peraltro, quest’ultimo elemento mi sembra prezioso e non scontato. C’è stato un tempo in cui si credeva che l’impatto sul pubblico fosse secondario, che l’importante fosse il gesto creativo che il pubblico doveva subire. Oggi non è più possibile, oggi il pubblico è uno dei protagonisti dell’opera. Prima ancora di mettersi a scrivere e a girare, ci si deve chiedere: per chi faccio il film? A chi mi rivolgo? E soprattutto: come faccio a coinvolgere chi mi guarda dentro al mio atto creativo? È stato questo anche il criterio di selezione che ci ha caratterizzato in questi ultimi dieci anni.

Quindi, per tornare a quelle primissime edizioni: questi interrogativi erano già presenti come intuizione. C’era il meglio della produzione dell’anno, in arrivo da tutti i paesi con scuole di cinema, dagli Usa al Giappone, dalla Russia alla Francia. Si presentava una vera forma d’arte con una curiosità e un’attenzione sorprendenti per l’epoca, articolando la scelta anche tra i film per ragazzi, i film documentaristici e scientifici, lo sguardo alle tecnologie. Quell’idea, il provare in qualche modo ad anticipare le trasformazioni del cinema, cos’è se non una tensione al futuro?

ARTICOLO n. 63 / 2022

HO SOLO TRENT’ANNI, MA MI SENTO GIÀ ESAUSTA

Dove sarò questa estate?

Appollaiata su una seggiola della mia terrazza, respiro la brezza marina serale che avvolge Barcellona. In città fa caldo, sempre più caldo, ma alla sera si trova un po’ di sollievo nell’aria frizzante che arriva dal mare. Due gabbiani volteggiano sopra alla mia testa gracchiando e mi sembra quasi di sentirli ridere tra loro. È di nuovo estate e me ne accorgo quasi per sbaglio. 

Una pesante stanchezza mi annebbia mente e corpo mentre cerco a tutti i costi di rallegrarmi per l’arrivo della bella stagione e l’imminente pausa estiva. Dove sarò quest’estate? Come userò il prezioso tempo a mia disposizione? Che ho fatto finora e dove sono andati a finire gli ultimi mesi, gli ultimi anni? Per un attimo mi sembra di aver vissuto per un lunghissimo tempo come in apnea, incapace di prendere respiro in una forsennata corsa dietro alle continue preoccupazioni. La guerra, il Covid, il precariato, i governi che cadono, l’aumento dei prezzi, e ancora il caldo, le maree che si alzano, la nostra terra che brucia. In questo assoluto marasma il tempo a disposizione io non so più che cosa sia perché ormai sfugge via troppo rapido per ricordarsi di goderne.

A chi mi chiede che cosa farò quest’estate, rispondo: riposerò.

Ho solo trent’anni, ma mi sento già esausta. 

Avere trent’anni non è facile se si ha avuto la sfortuna di nascere quando è capitato a me, perché alla mia generazione, quella nata dopo il 1990, è stato chiaro quasi sempre che i sogni che avevamo non avrebbero mai trovato suolo fertile nella realtà che viviamo. Noi con le crisi ci abbiamo dovuto fare i conti da subito, giacché fin da che ne ho ricordo, “crisi” è stata la parola più utilizzata per descrivere il periodo storico che ci è toccato vivere: la crisi economica, la crisi della politica, la crisi climatica, la crisi dei valori. Così, a poco a poco, da uno stato di perenne crisi esterna abbiamo cominciato a scivolare verso una profonda crisi interiore, rifiutando da una parte di accettare davvero che la nostra vita sia finita ancora prima di iniziare, ma dall’altra privati della possibilità di fermarci per riflettere, respirare, guarirci. I ritmi forsennati della società ci impongono di lavorare senza sosta, programmare ogni minuto della nostra vita per non perderci nulla, sapere sempre esattamente dove stiamo andando e perché. In bilico tra speranza e rassegnazione, inseguendo l’utopia della realizzazione personale in un mondo che si è rotto, viviamo la vita sopravvivendo e spesso scordandoci della sua fuggitiva bellezza. 

Per far riecheggiare la forza della vita che si afferma ci serve allora l’arrivo dell’estate, che con il suo sonno e il suo tepore ci ricorda l’importanza di fermarci a osservare la crisi che sentiamo. 

Nonostante tutto, forse un po’ ingenuamente, io vedo infatti l’estate come una speranza dell’inizio del nuovo. Mi ricorda che sono viva, che esisto, che tutto ha senso se solo lo si cerca. L’estate per me è un dondolio del tempo in cui farci promesse e sperare che durino fino all’autunno. Così, quando arriva il caldo, mi obbligo con tutte le mie forze a uscire dall’apnea della quotidianità per ritornare a galla a prendere fiato. Per l’essere umano, si sa, respirare è un’esigenza fisiologica: in mancanza d’ossigeno, si muore. Questo respiro vitale che prendo d’estate funziona in me come una catarsi: è un tempo sospeso e rarefatto in cui trovo finalmente il coraggio di perdermi e purificarmi da tutta la fatica. Quando ero piccola amavo l’estate perché nella mia testa durava praticamente come il resto dell’anno. Era un’intera eternità in cui potevo sempre ridere e mi era concesso fare tutto ciò che più mi piaceva: andare al luna park, prendere lo zucchero filato, fare a gavettoni, leggere i libri di Roald Dahl uno dopo l’altro, fare nuove amicizie. 

Oggi invece è tutto un po’ più complicato. Viviamo in un mondo velocissimo in cui disconnettersi significa al massimo spegnere il computer, mettere il culo in macchina, su un treno o un aereo e andare a fotografare qualche posto nuovo convincendoci, mentre lo postiamo sui social, che “stiamo staccando” senza riuscire mai a farlo veramente. Così, a causa delle aspettative irrealistiche e dei ritmi disumani che ci vengono imposti, abbiamo perso gli strumenti per lenire il nostro dolore derivante dalla crisi. Ci vestiamo sempre e solo dello sguardo degli altri, mendicando attenzione e approvazione esterna, non sapendoci più guardare con i nostri occhi e incapaci di dare amore anche a noi stessi. Stanchi e nervosi come ci sentiamo, disconnettersi dalla pesantezza del mondo diventa vitale. 

Divertirsi il più possibile è l’imperativo dei giorni nostri a cui rispondiamo per lo più ammazzandoci di alcol e di droghe e bandendo quasi sempre la politica dai nostri discorsi, perché se qualcosa ci fa soffrire noi lo allontaniamo. Odiamo annoiarci. L’ozio e la noia sono i maggiori nemici da combattere. Ci terrorizza l’idea di non riempire ogni minuscolo frammento del nostro ipotetico tempo libero con qualche attività che ci diverta e ci ossessioniamo con la necessità costante di sentirci in movimento per non dover fare i conti con quell’horror vacui che diventa il nostro compagno di vita. Quando ero isolata da tutto e da tutti all’inizio del primo lockdown, ubriaca di pensieri e della vista che mi offriva il mio vecchio balcone sul Mercado de Santa Caterina, passavo le mie giornate ad immaginare ciò che avrei fatto una volta che sarei stata di nuovo libera. Giuravo ogni giorno a me stessa che, appena possibile, me ne sarei andata lontano per ritrovare quel tempo che mi sembrava perso. Non mi accorgevo ancora che, grazie a quel tempo sospeso, mi stavo scavando dentro.  

Qui nessuno ci ha mai spiegato che l’inizio del movimento inizia dalla frattura, dalla crisi, dal dolore e dalla noia. Nessuno ci ha insegnato come gestire ciò che ci accade ad esempio durante la pausa estiva, quando tutto sembra finalmente fermarsi e a noi non resta altro da fare che riflettere sulla condizione umana. Una volta ho letto da qualche parte che agosto è il mese in cui le persone divorziano di più. In sostanza, la gente passa l’anno a pianificare le vacanze e una volta ritrovatasi nella convivenza forzata e nella sospensione del tempo, implode. Probabilmente questo accade perché, da fermi, veniamo obbligati a fare i conti con noi stessi, a guardarci in faccia, a chiederci come stiamo, cosa che evitiamo meticolosamente di fare durante il resto dell’anno come a volerci proteggere dal peso dei nostri dubbi. Il problema è che, in assenza di un dialogo interno, diventa quasi impossibile crescere ed evolvere nel dolore del mondo, e per questo la noia e l’assenza di attività ricreative o produttive diventano ingredienti essenziali per stimolare i nostri processi di pensiero. 

Sconfiggere un dolore profondo senza saperlo comprendere e chiamare per nome è pressoché impossibile. Anche per questo, forse, Walter Benjamin diceva che la noia è l’apogeo del rilassamento mentale in cui si allena la mente a far entrare ogni tipo di pensiero intrusivo, apparentemente inutile e a volte distruttivo. Bertrand Russell, dal canto suo, in un saggio intitolato La conquista della felicità, scriveva invece nel 1930 che«una generazione che non riesce a tollerare la noia è una generazione di uomini piccoli, nei quali ogni impulso vitale appassisce»perché solo attraverso la noia diventiamo capaci di osservare ciò che ci accade attorno e ciò che in esso diventiamo. Se mi guardo intorno, la sensazione che ho è proprio che la mia generazione stia appassendo perché non si sa più annoiare e, di conseguenza, forse non sa più pensare. 

In un mondo che ripudia noia e dolore, l’ozio che da vita al pensiero diventa allora una forma di ribellione. 

Alla fine, quest’estate me ne andrò in Malesia e mi perderò nella selva, nei templi buddhisti e nel mare. Si tratterà di vero e proprio viaggio, e non di semplice turismo, in cui passo dopo passo mi porterò verso l’incognito del mio Io interiore per ritrovare quella spinosa sensazione di perdita e di solitudine. Il viaggio, con la sua partenza e il suo ritorno, voglio che sia la mia disconnessione capace di attivare i miei processi di pensiero ormai da tempo assopiti. Respirando dal polmone dell’Asia, cercherò di annoiarmi moltissimo ascoltando il canto delle cicale e guardando lucciole e stelle cadenti per far vagare la mente. Sperando di perdermi e poi mi ritrovarmi ovunque io sia, proverò a spogliarmi dei dolori più profondi osservandoli, fermandoli, capendoli. Lontana, sì, ma forse un po’ più vicina a me stessa, respirando con il coraggio di chi non si è ancora arreso e spera che il suo sognare possa durare almeno fino all’arrivo del prossimo freddo.

ARTICOLO n. 62 / 2022

TORNARE AI GIORNI FELICI DI VEDRIANO, DALLE PARTI DI CANOSSA

Dove sarò questa estate?

Qualche anno fa, proprio ad agosto, ebbi l’occasione di partecipare a una sagra: l’avevano chiamata Sagra della Street Art, forse per fare il verso a quei nomi con dentro la parola “Art”, che in quel periodo spopolavano sui social e che cercavano di unire questo termine a parole dal sapore melenso e stucchevole, di quel tipo di cose che si dicono da adolescenti per far colpo su un nuovo amore. Insomma, delle vere e proprie schifezze.

Allora tornavo da un lungo viaggio, avevo passato diverse settimane a dipingere in lungo e in largo, dove mi capitava e dove trovavo ospitalità: mi fermavo per qualche giorno per poi ripartire alla volta di nuovi incontri. Non avevo programmato un periodo di rientro, godendomi così quel modo di vivere un po’ ramingo che mi dava pace.

Viaggiavo in macchina. Avevo a disposizione una vecchia station wagon che da qualche periodo accompagnava le mie scorribande. Gli anni si contavano sugli interni lisi e sui numeri delle marce del cambio che piano piano la mano nel tempo si era portata via.

La fessura per le audio cassette segnava l’epoca a cui l’automobile era appartenuta, una sorta di linea di demarcazione, un segno geologico, di quelli che dividono un’era da un’altra, insomma, un mezzo d’altri tempi. Il contachilometri segnava quasi 500.000 km. 

Ricordo che allora mi divertiva pensare che se mi fossi diretto verso la luna appena uscito dalla concessionaria, in quel momento mi sarei già ritrovato sulla via del ritorno. 

La station wagon era comoda, forse per via dei sedili sfondati da anni di guida che la facevano assomigliare più a un vecchio divano che a un’automobile. Ero comunque riuscito a farmela bastare per ogni evenienza. L’avevo trasformata in una sorta di monolocale, una micro-stanza di un paio di metri quadrati che era in grado di assolvere a ogni mio bisogno essenziale e all’occorrenza era anche un divano letto per amici e compagni di viaggio dell’ultima ora. Il baule capiente non bastava mai per la quantità di vernici che mi portavo appresso. Inutile dire che quasi tutto lo spazio era occupato da latte di colori e vernici di ogni tipo, alcuni secchi ero costretto a stivarli sui sedili posteriori che, a ogni curva un po’ brusca, sputavano pittura ovunque e dopo qualche giorno trovavo alcuni barattoli totalmente riversi. Là dove il contenuto seccato si saldava al tessuto della fodera dei sedili in un unico grumo, duro come il marmo. C’era vernice ovunque, croste di pittura secca rendevano la macchina un guazzabuglio di colori e pennelli, un caos nel quale però stavo bene e mi sentivo a casa. Inutile dire che quel carrozzone fungeva da letto, riparo per la pioggia, pensatoio, scala, sala da pranzo. Insomma, era il mio personale avamposto verso il mondo.

Una mattina trovai così un messaggio nella casella mail dove venivo invitato a partecipare a una sagra dalle parti di Canossa, tra le colline reggiane. Conoscevo chi la stava organizzando, era un caro amico che avevo conosciuto qualche tempo prima e con il quale avevo già pittato vari muri. Senza nemmeno pensarci su due volte, accettai.

Era fine agosto, la sagra era alla sua seconda edizione, la prima si era tenuta in un paese vicino qualche settimana prima. Questa volta si sarebbe dipinto a Vedriano. Il paese era formato principalmente da due strade, che disegnavano una V sulla mappa del luogo. Una scendeva e l’altra saliva. Quelle strade e quella V mi ricordavano alcuni disegni di Escher, dove le strade si univano in un anello paradossale di continue salite e discese. 

In mezzo, qualche casa, alcune cascine e un’osteria. Affacciandosi sul fianco della collina, in lontananza spiccava la Pietra di Bismantova, una conformazione rocciosa presente da diverse ere geologiche. Sembrava tagliata con un coltello: le pareti verticali le davano un aspetto imponente e solenne, aspro e impervio. Lo so, forse quel posto non era migliore di tanti altri e di paesi come quello ce ne sono molti, sparsi per tutta l’Italia, ma li c’era ancora qualcosa da scoprire.

La sagra era stata concepita da due ragazzi del posto, due pittori o artisti che dir si voglia. In quel periodo, in tutto il mondo, si erano diffusi i cosiddetti festival di Street Art.

Eventi dal sapore pop e cool dove chiunque poteva immergersi nella “trasgressione” dell’underground, portando a casa selfie e cartoline in compagnia degli amati street artists al grido di “viva la bellezza, evviva l’arte libera”…

Inutile dire che la quasi totalità di questi eventi era un pretesto per esibire virtuosismi di scarso contenuto in città rese vetrine più per il benestare di politiche locali ora favorevoli che per una reale visione di senso politico e conflittuale.

Ma nulla più di soldi e fama possono cambiare radicalmente anche i modi più radicali di vedere la realtà e così sulla scia di quell’apparente nuovo mondo artistico prima disprezzato e ora osannato e reso fruttuoso dall’opportunismo politico, si moltiplicavano manifestazioni pubbliche con street artist protagonisti della mondanità culturale.

Parigi, Miami, Los Angeles, New York, Sydney erano diventate le nuove principali mete dell’arte pubblica, estimatori d’arte dell’ultimo momento si accalcavano insieme a ricchi annoiati pronti a investire in nuovi talenti dal sicuro ritorno economico.

Ma qui non eravamo certo a Miami o a Parigi, eravamo a Vedriano, frazione di Canossa, provincia di Reggio Emilia, pianura padana. Un piccolo paese che tentava, quasi eroicamente, di ribaltare le logiche della coolness offerte dagli art curator più quotati.

Nei giorni successivi al mio arrivo arrivarono molte altre persone per dipingere. I muri disponibili erano sparsi per tutto il paese, alcuni privati, alcuni del comune, altri ancora abbandonati. L’idea era quella di creare un meccanismo virtuoso in cui chi dipingeva offriva la propria fantasia e il proprio modo di esprimersi alla gente del posto creando così uno scambio, un movimento che portasse le persone del luogo e anche ovviamente qualche forestiero a partecipare attivamente, mescolandosi agli artisti con l’aiuto della vernice e anche del Lambrusco.

Le giornate si riempirono di nuovi piccoli eventi paralleli nati spontaneamente. Letture, musicisti di strada e semplici curiosi costituirono così la linfa vitale di quel fantastico “esperimento sociale”.

Definire tutto questo sagra fu quanto mai azzeccato. Perché quei giorni erano realmente e semplicemente niente di più e niente di meno di una vera e propria sagra. Una festa di paese – fatta di incontri casuali, bevute e balli – aperta a chiunque avesse voglia di partecipare, ognuno portando il proprio contributo di idee come di allegria, un movimento continuo di gente che andava e veniva. Nulla di più bello si può immaginare per dare vita a un luogo.

Tutti arrivavano a Vedriano, dal Regno Unito come dai paesi attorno, da Roma, Milano, Torino come dalle altre città europee. Tutti alla Sagra della Street Art!

Il muro che dipinsi era parte di una struttura abbandonata che un tempo doveva essere stata adibita a stalla. Un posto come tanti da quelle parti in cui probabilmente erano state allevate le famose vacche rosse, mucche da latte note per la produzione del Parmigiano Reggiano.

Il muro grezzo e ruvido era stato invaso dalla natura, coperto in parte da rovi e sterpaglia. Iniziai a potare e a farmi spazio in mezzo a quel ginepraio, aprendomi un varco sul muro, dove dipinsi due grandi mucche rosa carne.

Del resto volevo parlare delle tematiche legate all’allevamento intensivo e allo sfruttamento delle bestie per fini alimentari. Quindi quale posto migliore avrei potuto mai chiedere di una vecchia stalla abbandonata?

Avevo esteso le zampe delle due mucche trasformandole in braccia e gambe umane.

Il risultato era così quello di una di mucca antropomorfa incatenata alla mangiatoia. Una trasposizione della condizione animale sull’uomo, un Minotauro contemporaneo vittima delle scelte scellerate dell’essere umano.

Ci misi tre giorni per completare il muro, compreso quel momento per me fondamentale di riflessione che arriva a lavoro completato quando tento di capire se quello che ho fatto è una semplice schifezza oppure offre qualche possibilità di miglioramento.

Porto con me da allora molti ricordi felici di quei giorni. Momenti precisi che tengo con cura e ben separati nel mio cervello solitamente caotico e attraversato da continui pensieri e conflitti. Sono giorni che ho riposto dentro la mia testa, giorni spensierati che appaiono insoliti per me che non tendo certamente all’ottimismo, ma al contrario vivo e traggo energia proprio dal mio atavico pessimismo.

Ho sempre avuto molta cautela nel definire o nel circoscrivere ciò che provo e che sento. Non lo faccio certamente per avarizia o pudore, ma per timore, quello di non appartenere o di non essere all’altezza di sentimenti come la serenità o la spensieratezza, che spesso ho potuto osservare o incontrare solo da molto lontano, come echi di qualcosa di già perduto. Evidentemente devo avere quello che si dice un approccio proustiano al passato, non lo so. Di certo ho bisogno di tempo e pazienza perché sentimenti felici e leggeri come la spensieratezza possano sedimentarsi e quindi chiarirsi nella mia memoria fino al punto di essere compresi e come in questo caso ricordati.

Quella fu l’unica sagra della street art che si organizzò, sì, ci furono altri piccoli episodi a distanza di qualche mese, qualche tentativo di raccogliere ancora le energie e le forze che si erano liberate, ma senza alcun esito. E io non tornai più a Vedriano, almeno fino a oggi, mentre racconto quei giorni come fossero presenti e trasformo la mia memoria in un desiderio futuro, in un agosto del 2022 in cui tutto, desidero, possa ancora succedere con felicità e spensieratezza nonostante qualche foto sui social mi mostri quei disegni sbiaditi dal tempo.

ARTICOLO n. 61 / 2022

L’ESTATE È UNA DROGA BUONISSIMA CHE FA DAVVERO MALE

Dove sarò questa estate?

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che succedesse qualcosa, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline…
Cesare Pavese, La bella estate

Ricordo con precisione un periodo della mia vita compreso tra il 2005 e il 2015 in cui noi milanesi di adozione continuavamo a ripeterci, assuefatti dall’ottica della FOMO (Fear Of Missing Out, la maledizione di noi Millennial che ti porta ad aver paura di non essere sempre al centro della scena, facendoti perdere il luogo, la festa, il tema o la situazione del giorno, ndr), che l’estate fosse soltanto una stupida parentesi per i poco fantasiosi e per le cosiddette masse.

La maggior parte delle persone della mia età e dei miei conoscenti affermava con ferocia che rimanere in città fosse decisamente meglio: pensavano che le persone sopravvalutassero la stagione estiva e ripetevano come un mantra la leggenda per la quale la metropoli nella calura di agosto diventasse quasi romantica. Bugia. Milano, in estate, nella prima decade dei 2000 faceva paura e la città deserta era letteralmente in mano alla piccola criminalità. Ma a noi sparuti spatriati non sembravano interessare i furti, gli scippi, l’aumento incontrollabile degli stupri, e ci ripetevamo allo specchio come un mantra, mentre i nostri contratti in nero non ci concedevano ferie, che Milano fosse meravigliosa in agosto: dopotutto, morire di caldo in una stanza doppia a Famagosta fa meno male quando sposi le bugie a cui sei costretto a credere per sopravvivere senza impazzire.

L’estate dunque non andava particolarmente di moda e moltissime persone si convincevano di quanto questo disgusto fosse anche il loro: nessuno prendeva il sole, c’era tra alcuni quasi una tacita gara – dal sapore preoccupantemente razzista e classista – a chi rimaneva con la pelle più chiara degli altri: evidente dimostrazione di non aver mai abbandonato la città o indossato il costume per tutta la stagione estiva, quasi fosse una medaglia al valore.

Vestivamo tutti di nero, ci ostinavamo a passeggiare sulla Darsena nelle ore di punta ricoperti di crema solare e lasciavamo il mare per lavori mal retribuiti e senza garanzie, con la promessa di una birra all’idroscalo o una serata estiva di clubbing all’aperto.

Dopo la Fashion Week del mese di giugno, la città iniziava lentamente e inesorabilmente a svuotarsi dei più ricchi e dei più anziani. Me ne rendevo conto subito perché al bar dove ho lavorato per otto anni prima come cameriera e poi come bartender si presentavano sempre le stesse facce. Le facce degli irriducibili, di chi l’estate, addosso, non l’avrebbe avuta. Di chi non poteva cambiare la routine e quindi si convinceva, con incredibile sforzo di auto ipnosi, di non volerla cambiare.

Era una grande bugia quella sulla bruttezza dell’estate e la vedo nitidamente solo adesso, quasi 20 anni dopo quel mio primo periodo di sudore meneghino.

Per capire meglio la triste verità che ho intuito dietro a quel rifiuto verso le vacanze estive e comprendere la derapata che il senso di estate ha preso per la mia generazione devo fare un passo indietro.

C’è stato infatti un momento preciso in cui l’estate ha smesso di rilassarci, a noi Millennial.

Già, perché, quando ero bambina, trent’anni fa, l’estate era il momento di stacco per eccellenza, di sospensione della routine, di respiro dall’inverno.

Ho sempre avuto l’impressione che l’estate fosse magica, che sapesse di vita più di ogni altra stagione.

Sarà perché vivo gran parte dell’anno in un posto di mare, che per sua natura si apre stagionalmente ai turisti ma che in inverno cessa di esistere. Sarà perché non soffro affatto il calore ma patisco con incredibile dolore il freddo dei mesi invernali. O sarà forse perché credo che tutti i corpi, seminudi e sudati, siano più onesti e incredibilmente teneri che in ogni altra dimensione pensata per noi esseri umani.

Fatto sta che il mio pensiero sull’estate è stato quasi sempre ricolmo di infinito amore.

Ho scritto per anni di memorie familiari e personali che mi legano all’alta stagione. Piccoli racconti, un memoir, alcuni articoli che rendono romantica la calura e i luoghi in cui solitamente la vivo. Ma crescendo ho iniziato a capire, anche grazie a quegli anni di agosto in città, che a me l’estate piace perché sotto sotto è più umana degli esseri umani.

E negli ultimi due anni di Coronacene il mio sentimento di affetto e di incredibile curiosità per la stagione estiva è aumentato esponenzialmente.

Pavese, con cui ho aperto questa mia riflessione, aveva descritto molto bene, nella sua trilogia La bella estate del 1949, il sentimento prevalente nei giorni estivi: la stagione della calura è un climax di aspettative che si risolve in una prevedibile quanto opposta disillusione.

Se per secoli l’estate era stata prerogativa dei ricchi (si chiamavano infatti vacanze, non ferie: non è un dettaglio da poco), con il boom economico le ferie – che per Costituzione spettano a ogni lavoratore –, divennero un rituale nazionale ben più diffuso.

Le carovane di auto stracariche e i treni speciali con tratte rafforzate, le città deserte, gli abbonamenti speciali ai giornali da far recapitare all’indirizzo di villeggiatura, la riunione di nuclei familiari, il ritorno nei luoghi d’origine erano un momento di incredibile socialità e respiro per sempre più persone.

I primi stabilimenti balneari divennero agglomerati di famiglie che interrompevano la routine. Tra il 1968 e il 1970 gli alberghi delle località di villeggiatura contavano un milione e mezzo di posti letto in più rispetto alla decade precedente. Insomma, le ferie erano diventate una questione nazionale piuttosto comune che escludeva chi non aveva lavoro, chi era nella soglia di povertà che come sempre veniva – e viene ancora – ignorato dallo Stato, e i lavoratori in nero.

L’aspettativa che da sempre abbiamo accostato alla vacanza (Ci innamoreremo? Ci succederanno avventure meravigliose? Avremo qualcosa da raccontare agli amici al nostro ritorno? Avremo il famoso “corpo da spiaggia” che le riviste ci hanno fatto credere di dover avere per scendere a mare?) aumenta negli Anni ‘80 e poi nei ruggenti e vuoti ‘90. Dalle leggende sulle turiste tedesche, ai corpi sempre più performanti; dal luccichio del lusso cafone della Costa Smeralda e dei suoi nuovi inquilini alla sempre più disperata necessità di ostentare ricchezza anche senza averla, la vacanza diventa assoluta performance.

E questa performance è diventata ancor più incontrollabile con l’avvento dei telefonini con videocamera, che hanno preso il posto delle diapositive – per chi è molto giovane: vi siete evitati una bella tortura post vacanziera, e un po’ vi invidio – e poi dei social, che ci fanno vedere stili di vita irraggiungibili e assurdamente iper-celebrati alternandoli a video di gattini, insalate di riso e ombrelloni in quinta fila (le file degli stabilimenti balneari sono una deliziosa, crudele e ironica rappresentazione della gerarchia sociale, un giorno ne riparleremo, promesso).

Negli anni milanesi di cui sopra, quelli dei miei venti – ben poco ruggenti –, inizia però a cambiare qualcosa nel modo in cui noi Millennial vivevamo l’estate.

Infatti, se da bambini ci crogiolavamo sul sedile posteriore della macchina dei nostri genitori ascoltando musicassette comprate con i giornali in edicola, da quasi adulti impreparati alla vita ci troviamo in mano un mondo del lavoro che non solo non ci vuole, ma che se per caso ci fa il favore di assumerci lo fa in nero, o con contratti Co.Co.Co o con i voucher INPS. Se sei stagista – modo carino per indicare una forma di schiavitù – spesso non ti pagano neanche.

Quindi le vacanze diventano il nemico.

I nostri genitori scappavano al fresco, i nonni ancora vivi si godevano la campagna, i nostri fratelli piccoli erano con i parenti e noi cercavamo di capire come mai ci fosse toccata sta piaga fatta di contratti di merda e vomito biliare.

La fase dell’aspettativa e dell’emozione, ben descritta tramite il personaggio di Ginia in La bella estate di Pavese, non esisteva più. Eravamo già catapultati nella fase della disillusione.

Poche cose positive posso dire sulla mia generazione, ma una tra queste la reputo sublime: siamo stati talmente poco in grado di ribellarci anche quando avevamo ragione (spoiler: sempre), che siamo diventati campioni mondiali di rassegnazione. Quindi, piuttosto che imporci e denunciare chi ci faceva lavorare per quattro euro l’ora, abbiamo reso romantica l’estate in città.

La situazione di stallo di quella infelice decade si sblocca un po’ con l’avvento del digitale e dei posti di lavoro che incredibilmente abbiamo creato dal nulla. Apriamo una sequela infinita di partite iva perché comunque assumere non ci assumono, monopolizziamo uno spazio importante dell’industria creativa e digitale e riusciamo a sopravvivere nonostante gentrificazione, affitti fuori controllo, costo della vita da Emirati Arabi.

Ci riappropriamo giusto per un paio d’anni dell’estate, giusto il tempo di riassaporare quel sentore di idillio e aspettativa illusoria di poter fare cose incredibili sotto al solleone, che arriva il Coronavirus a ricordarci che forse non era proprio il nostro momento storico, cari colleghi Millennial.

Le vacanze durante il Coronacene sono diventate un fenomeno di semi-isteria collettiva totalmente giustificata. Dopo anni – due – di restrizioni, morti, licenziamenti, cambio del tenore di vita, soglie di povertà mai raggiunte, aumento della violenza, paura, incertezza, crisi climatica ormai irreversibile, nel momento in cui arriva l’estate non siamo più “vacanzieri”. Cambia perfino il lessico con cui ci approcciamo all’estate, con l’arrivo del virus: non andiamo “in vacanza”, bensì “ci aprono”.

E noi tutti, come animali in cattività, abbiamo respirato questa illusione di libertà con incredibile tumulto: dobbiamo approfittarne “prima che ci richiudano”. Dobbiamo fare quello che non abbiamo potuto fare mentre contribuivamo al mantenimento della salute collettiva. 

Ed eccoci qui, che progettiamo la fuga, imballiamo le mete turistiche, spendiamo il triplo rispetto agli anni precedenti e diamo tutto, tutto quanto ci rimane in termini di energia, come se ci scappasse la vita dalle mani, come se avessimo paura di non avere più tempo – lo abbiamo?

Abbiamo, negli ultimi decenni, smontato e rimontato il concetto d’estate come magia e illusione.

Ci siamo ritrovati a perdere l’adolescenza che questo periodo simboleggiava per tutti, trasformandola prima in rassegnazione e poi in bulimica urgenza di sistemare le cose perdute e pruriginosa ansia di non aver più tempo per farle in futuro.

L’estate, anno dopo anno, diventa sempre più umana, prende vita e annusa la società e le sue paure. L’estate ci rende quanto più simili alla nostra natura e alla nostra generazione di appartenenza di quanto si creda. L’estate ci lascia nudi e sudati, impauriti, come i corpi sul mare.

L’estate diventa più umana di noi e ci fa venire paura. Paura di non vederla più. Paura di non provare più quell’illusione adolescenziale. Paura di non avere più tempo, più soldi, più giorni liberi. L’estate, vista così, potrebbe essere un momento perfetto di rivoluzione, che ci ricorda da dove veniamo, come abbiamo dormicchiato per tutto l’inverno, e dove potremmo andare: di nuovo, la promessa di avventure incredibili incatenate in un inverno di disillusioni. L’estate è una droga buonissima che fa davvero male. Ecco perché, in definitiva, io la amo così tanto.

ARTICOLO n. 60 / 2022

VIVO RICORDANDO SEMPRE TE

Dove sarò questa estate?

Felicità
è star solo
d‘estate
nella città deserta
sulla tazza del cesso
con la porta aperta.

Dino Risi, da Versetti Sardonici

Così parlò Dino Risi regista e poeta, prendendo in pochi versi semplici intensi e diretti, grazie al potere sintetico della poesia, come un haiku, scorciatoie del pensiero che diventano vie maestre che conducono verso… 

Verso cosa? Dappertutto, forse. E quindi da nessuna parte, forse? Questo è il problema? Ma no, nessun problema, sul dove essere o dove non essere in questa estate. Questo mi pare di aver confusamente capito.

È una fuga da fermo, poiché potrei, snocciolando un po’ di ginnastica amletica, esser rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni, in tono scettico-blue.

Davanti ai versi di Risi, io risi sguaiatamente la prima volta che li lèssi, come attraversato da un satori, da un risveglio inatteso di tutto me stesso, un ceffone dato da qualcuno per farti riprendere i sensi. 

E sempre più rido perché con l’età quei versi hanno preso in me la forma di un koan zen, una sorta di invito a osservare la realtà per come è nel qui e ora, senza tentare di risolverla come fosse un indovinello, no, ma a percepirla nella sua evidenza immediata, sbarazzando la mia mente dei suoi preconcetti, immagini predigerite e parole anchilosate dalla forza dell’abitudine, e che come uno Sherlock Holmes mi fa d’improvviso spalancare gli occhi ottusi e vacui come a quel personaggio che non capisce mai niente di quanto gli capita attorno quando Sherlock gli dice: «Elementare, Watson!»

E dunque rieccomi qui, in estate, novello Watson istupidito dalle temperature micidiali, in questo amletico guscio di noce, dalla cima di questo mio ermo colle, ovvero, come in alto così in basso, da questa tazza del cesso con una porta spalancata su Roma arida in fiamme ovunque e sull’orbe terracqueo, Re solitario come un numero primo. 

Visto da quassù il mondo in sfacelo di ora mi sembra un Apocalypse Now che ritorna sì, ma non come tragedia bensì come farsa, visto che la storia se deve ripetersi lo fa sempre due volte e in due diversi modi, come se l’estate fosse l’esempio assoluto dell’eterno ritorno dell’uguale (guarda chi si rivede…), specie perché avverto sempre più che in questa stagione il tempo e lo spazio sembrano diventare uguali a se stessi, ovunque tu vada, come in una lunghissima sfiancante tournée teatrale, ovunque tu cerchi ristoro e riparo dalla tortura di questa che non è più l’estate come l’ho conosciuta ma una punizione et diabolica et divina. 

Ti sei tanto ripetuto la poesia di Camus che «nel bel mezzo dell’inverno, ho scoperto che vi era in me un’invincibile estate»? E allora tiè beccati questa invincibile estate! E la sua sofferenza. E la sua indifferenza alla tua sofferenza da temperature assassine.

Come un Sisifo su e giù a sospingere il macigno di questa che chiamano estate. E la chiamano estate, questa estate senza te, sì, così mi cantavi, o divo Bruno Martino, con voce soave tanto da fare vibrare tutta l’iridescenza della luce estiva e i suoi miraggi nel colore del tuo suono pastoso. Come se in quella canzone ci fosse già, per paradosso, una memoria futura, una nostalgia del futuro degli amori già mentre da adolescente li vivevi, anche e soprattutto quelli immaginari, quelli che mai cominciarono e perciò più evocativi. 

Sì perché mi ricordo che l’estate un tempo era per gli amori, poi, con l’aumento inarrestabile delle temperature, è diventata una stagione perfetta per attivare strategie di successo per l’angoscia da riscaldamento globale (io stesso, mentre scrivo, non so se riuscirò ad arrivare alla fine dell’articolo, e, se ci riuscirò, quando lo avrò riletto sarò magari decrepito o forse sarò morto liquefatto prima, mescolato e indistinguibile dai resti di una lattina di Estathé. Per questo non vedo l’ora di cadere nel brand più lieve e languente della malinconia dell’autunno).

E così il riscaldamento globale ha trasformato il «dovrei paragonare te a un giorno d’estate?» (il primo verso del sonetto 18 di Shakespeare) in una beffa, se non in un insulto? E la chiamano estate, codesta carcassa, la chiamano ancora estate. Con o senza te. Ne succedono ormai troppe in questa stagione, così tante che nella dimensione catastrofale in cui sono immerso, invece che provare tristezza, dispiacere, rabbia, indignazione, mi capita di scindermi e proiettarmi, forse per un istinto di autoconservazione, in un altro tempo, in altre estati, quelle del passato, quelle dell’adolescenza, dove riuscivo a sentire quella stagione come un preludio a ciò che sarebbe arrivato dopo, nell’autunno e poi nell’inverno, una preparazione al futuro, che allora era una figura temporale che esisteva davvero nella percezione. E dove non sentivo separazione tra il mondo e me. 

L’estate scorsa ho registrato per Radio 3 La bella estate di Cesare Pavese. Non lo leggevo da tre decenni. Appena al microfono ne ho iniziato a registrare l’incipit ho avuto, come in botanica, una recrudescenza di tempo ritrovato (perdonami Marcel, ma è fatale invocare proprio te, specie in quest’anno di celebrazioni proustiane del centenario della tua morte). Tempo ritrovato, intendo, in qualità di lettore, essendo stato quello il tempo delle letture più importanti. Ma che lo fossero lo avrei riscoperto molto più tardi. E quel breve romanzo di bellezza lirica insieme agli altri due che compongono il trittico – Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, oggi lo so, per me contiene tutto quello che c’è da sapere sull’estate, almeno per come ricordo di averla vissuta a quell’età. «A quel tempo era sempre festa», inizia così. La protagonista è una ragazza che fa la scoperta dell’amore e delle sue illusioni, che conosce cos’è avere un corpo, anzi, essere un corpo, quel corpo in relazione al mondo che abita. Voglio aggiungere solo la frase, che conclude il terzo dei romanzi, come sintesi di tutto il senso: «È bello svegliarsi e non farsi illusioni. Ci si sente liberi e responsabili. Una forza tremenda è in noi, la libertà. Si può toccare l’innocenza. Si è disposti a soffrire».

È in quel tempo che vado a cercare il tesoro che si è formato in una dimensione per me mitica, ricco di incontri determinanti anche inconsapevolmente, e forse l’estate era proprio questo, uno stato di grazia, e non di disgrazia come è oggidì. Discorso da ecologista reazionario? Sì. Da nostalgico rompicoglioni ingusciato sull’ermo colle seduto sulla tazza? Ne ho le medaglie guadagnate sul campo per potermelo permettere, sissignore! E anche da sentimentale, aggiungo, ma senza il cinismo. Di quello mi basta già quanto il mondo ne produce ogni minuto secondo. Perderei il confronto. E ne pagherei il conto. La fatica sta nel non diventare cinico, e d’estate in natura i processi tendono più naturalmente e più inesorabilmente dall’ordine al disordine, ho questa sensazione sinistra dalle notizie che mi arrivano stando sulla tazza. Quindi preferisco la fatica di Sisifo, nonostante tutto, anche dovendo tirare bestemmie. Perché trovo ci sia qualcosa di superiormente comico e di simile a un koan zen in questo sforzo enorme che non dà risultato, e perché è la condizione più veritiera su ciò che è l’umano, per me.  

E cercare di immaginarlo felice sì, come lo immaginava Camus con quel sorriso capace di squarciare il cielo noncurante. Ma senza dimenticare che non c’è niente di più comico dell’infelicità, come dice il personaggio di Nell in Finale di partita di Beckett. E in estate, questa in particolare, dove sembra di essere in un Far West, tutto, non so perché, sembra favorevole alla commedia. In tutte le sue gradazioni: dalle foto dei selfie ai piedi con sfondo di spiagge mari e monti all’orizzonte, all’apoteosi delle pizzate coi cognati e i nipoti coi nuovi mostri che siamo diventati inflitte sui canali social a dimostrazione che l’estate è la più triste delle stagioni perché tutti si aspettano che tu, sì proprio tu, sia felice. «A me è maggio che mi rovina e anche settembre, queste due sentinelle dell’estate: promessa e nostalgia», scrive Patrizia Cavalli.

Ecco, diciamolo francamente finché ci si può avvalere della libertà di lamentela: l’estate andrebbe abolita. Non vedo il senso delle giornate che si allungano sempre di più quando ormai i nostri tempi di attenzione si accorciano sempre di più, non rivorrei indietro le estati vissute da garzoncello con quel tempo infinito e sfinito, non col fuoco che, oh sento divorarmi dentro di me ora e, peggio ancora, fuori di me, quello che, oh divora la Capitale. E farne un filmone? Che so, un bel Roma brucia?, titolone a sfondo socioambientalista ispirato a quello di guerra di René Clement Parigi brucia?, ma immaginato con la regia di Dino Risi.

Andrei in letargo steso sotto un ventilatore fissandone, come Martin Sheen sul letto di un albergaccio all’inizio di Apocalypse Now mentre fuori la guerra brucia Saigon, il mozzo attorno a cui girano ipnoticamente le pale («Trenta raggi convergono sul mozzo ma è il foro centrale che rende utile la ruota» dice il Tao Te Ching per significare che è il non-essere, il vuoto a costituire l’utilità delle cose) per risvegliarmi di colpo nella stagione preferita: nel bel mezzo di un gelido inverno del nostro scontento.

ARTICOLO n. 59 / 2022

AGOSTO, IL MESE CHE NON C’ERA

Dove sarò QUESTA ESTATE?

Mi ci sono voluti più di vent’anni per accorgermi del mese d’agosto. Da ragazzo, e più ancora da bambino, percepivo soltanto il rituale delle vacanze. La spiaggia, le passeggiate in montagna. Il resto se ne restava a casa, come chiuso in un deposito. Erano le estati remote durante le quali le signore della buona borghesia portavano le pellicce ai Frigorigeri Milanesi, per evitare che si sciupassero con il caldo. Agosto – ogni agosto – era così: un tempo messo in conserva, un patrimonio di qualche settimana da investire altrove. Per un mese tutti erano irrevocabilmente da un’altra parte e le città erano davvero come Roma nelle prime scene del Sorpasso, con le strade deserte, le saracinesche abbassate, qualche sparuto bar tabaccheria aperto per gli obblighi di legge. Si potrebbero fare altri esempi, d’accordo, ma il clima del Sorpasso mi sembra un buon compromesso tra le geometrie metafisiche del cinema di Antonioni e la tragicommedia di Verdone, che in Un sacco bello ospita la bella ragazza spagnola dispersa per i vicoli della capitale («Tinto? Tinto quer vino? Ma che stai a scherza’? Quello è ‘n Brunello, un vino antichissimo…»).

Dell’esistenza di agosto come mese in sé, nella sua mensualità effettiva e non solo ideale, avevo avuto qualche percezione tra la fine del liceo e gli anni dell’università, ma erano sprazzi di pochi giorni, balenati quasi per via allucinatoria in coda oppure alla vigilia di un esame. L’estate del 1987, invece, cadeva alla metà esatta del mio servizio civile, che allora durava venti mesi. Benché obiettore di coscienza (o, meglio, in quanto obiettore di coscienza), ero sensibilissimo ai regolamenti, che vietavano di allontanarsi dalla regione nella quale si svolgevano le mansioni assegnate. Circolavano voci di punizioni leggendarie comminate ai trasgressori, che mi figuravo incalzati da una specie di psicopolizia capace di intercettare la minima incursione fuori dai confini stabiliti. 

La realtà era più clemente, ma questo l’ho compreso molto più tardi, superata la soglia dei cinquant’anni, quando all’improvviso ti rendi conto che per mezzo secolo ti sei complicato l’esistenza senza che l’esistenza stessa fosse disposta a mostrare gratitudine per tanta fatica non richiesta. Non che con la mezza età si diventi necessariamente anarchici, però una ragionevole revisione della norma è l’unico modo per evitare di precipitare nell’autoritarismo nostalgico. Quale che sia la nostalgia che si asseconda, quale che sia la fantomatica autorità che si pretende di restaurare.

Era il 1987, dunque, era agosto, faceva caldo e da Milano non potevo muovermi, o almeno era questo che volevo credere. Qualche giorno di licenza l’avrò anche avuto (pur costituendo un’alternativa al servizio militare, quello civile ne aveva mutuato il linguaggio: memorabile la diaria di poche lire riconosciuta per l’usura degli “effetti letterecci”), ma gli uffici della Caritas non prevedevano chiusure prolungate, qualcuno in sede doveva esserci, agosto o non agosto. Era più che altro un lavoro di ascolto e assistenza a beneficio degli obiettori presenti e futuri. Si davano informazioni, si sbrigavano le pratiche del caso, si aspettava che dalle finestre spalancate arrivasse la consolazione di un filo d’aria. Fin qui, nulla di strano. Era agosto, d’accordo, ma poteva anche essere luglio inoltrato. Non ci sarebbe stata differenza.

Agosto aspettava fuori, nella città svuotata e silenziosa, tanto diversa dall’immagine che Milano dava di sé in quegli anni. Velocità ed efficienza, affari e politica, discoteche e tagliata con la rucola. Che fosse l’inizio della fine nessuno ancora lo sapeva. Cinque anni, non di più, e sarebbe arrivata Tangentopoli, con le sue promesse mancate, gli incomprensibili colpi di scena, la sbalorditiva eterogenesi dei fini. Gli anni Novanta avrebbero completato l’opera, stabilendo le premesse della grande liquefazione globale di abitudini e convenzioni. In vacanza, nella fattispecie, avremmo iniziato ad andarci più o meno tutto l’anno, anche perché un viaggio fuori stagione può convenire a tutti, ai datori di lavoro che diluiscono le assenze e ai dipendenti che approfittano di qualche offerta a prezzi stracciati. Ma nell’87 no. Nell’87 alla serrata agostana non si davano alternative, il calendario era insidiato dall’inesorabile iato estivo e chi rimaneva in città viveva un’esperienza da sopravvissuto. Oltretutto, per una serie di vicende troppo complesse da riassumere qui, mi ero ritrovato solo in casa e questo rafforzava il mio sentimento di Robinson urbano. Dovevo andare alla scoperta dell’isola alla quale ero approdato. Un’isola che prima non c’era, come si sarebbe potuto sostenere combinando Defoe con Peter Pan e aggiungendo una correzione di Bennato. 

Per orientarsi non servivano le stelle e, più che andare dritto fino al mattino, si aspettava che arrivasse sera, nella speranza che le zanzare – ambrosianamente competitive – non guastassero del tutto il sollievo dell’avvenuto tramonto. Lo spazio del giorno era apparentemente identico a quello che già conoscevo, ma era il tempo a conferirgli una consistenza diversa. Potevo considerarmi fortunato per il fatto che nel mio quartiere ci fosse un supermercato e che il supermercato fosse regolarmente aperto. Non era un posto che frequentassi d’abitudine. Come in quasi tutte le famiglie di allora, anche per la mia la spesa era un pellegrinaggio ravvicinato da un negozio all’altro. La logica per cui il pane si compra in panetteria, la carne in macelleria, gli affettati in salumeria eccetera appariva ancora inoppugnabile. I supermercati erano comodi, nei supermercati si trovava tutto, ma potendo scegliere, si sceglieva il negozio. Potendo, appunto. In agosto non si poteva.

Di dimensioni tutto sommato ridotte rispetto agli ipermercati che si sarebbero imposti da lì a qualche anno, il supermarket di zona garantiva il refrigerio dell’aria condizionata, ma il suo vero fascino risiedeva nel carattere di epitome e Wunderkammer. Quelle scaffalature ordinate e linde richiamavano alla memoria gli assortimenti arbitrari dei piccoli spacci che non mancavano mai nelle località di villeggiatura. Era come se tutte le rivendite attraverso le quali ero transitato fino a quel momento si scomponessero e ricomponessero nel supermercato rispondendo a uno schema finalmente comprensibile, eppure tanto meno avventuroso rispetto al caos bellicoso dei palloni ammucchiati al ridosso del banco dei formaggi o dei distributori di gomma da masticare piazzati nel mezzo di corridoi già di per sé stretti, e ingombri di confezioni di acqua minerale precariamente impilate. Il supermercato alludeva a quel bric-à-brac favoloso, ma solamente per smentirlo e ricondurlo alla ragione. Tuttavia, bastava chiudere gli occhi per liberare le merci da ogni costrizione e restituirle alla loro lieta mescolanza.

Per mutare la percezione del luogo occorreva affidarsi alla mobilità del tempo, che è previsione e memoria. Soltanto così era concesso di attraversare la frontiera che altrimenti regolava i rapporti tra l’agosto della città, feriale e produttivo, e l’agosto delle vacanze, festivo e spensierato. L’uno conteneva l’altro e, in una certa misura l’interpretava. Il mese che prima non c’era ricapitolava in sé ogni altra estate che avevo vissuto. Lo sterrato dei giardini di Porta Venezia mi riportava su un sentiero alpino e l’odore dell’asfalto dopo un temporale risvegliava misteriose affinità con il microclima di una pineta affacciata sul Tirreno. 

Non era propriamente illusione, né lo fu negli anni successivi, quando per me l’agosto urbano si trasformò in abitudine. Un decennio più tardi, sposato e padre di due figli, mi sarebbe capitato spesso di rimanere in città, mentre il resto della famiglia si trasferiva in qualche località di mezza montagna, solitamente nella Bergamasca. Eccezion fatta per il pendolarismo del fine settimana, vagavo tra mattinate relativamente pigre e pomeriggi incalzanti, secondo i ritmi allora caratteristici della redazione di un quotidiano. Mi attendevano lunghe sere di lettura alternate alla visione di film recuperati al videonoleggio, dove di tanto in tanto mi rifornivo anche di una pizza surgelata. Perché sì, lo confesso: c’è stato un tempo in cui una pizza surgelata mi sembrava un compromesso accettabile. E no, non posso fingere di non ricordare che c’è stato il tempo dei VHS da guardare in una sera o due, altrimenti scattava la penale e la convenienza andava perduta.

Epoche lontanissime, che parlano con la voce dello Spirito degli Agosti Passati. Forse, nelle dovute circostanze, perfino Dickens avrebbe composto un Canto di Ferragosto, con quel taccagno di Scrooge che nega all’onesto Cratchit i bollini della spesa che farebbero felice il povero Tim. Divago, lo so, mi lascio trasportare, ma la chimera di A Midsummer-Night’s Carol realizza per un instante uno dei miei sogni più innocui e cari: quello in cui Dickens e Shakespeare si scambiano le parti, così che uno possa riscrivere a modo suo le opere dell’altro. Hamlet TwistA Tale of Two TempestsPip and Juliet… Che biblioteca meravigliosa ne uscirebbe, da portarla con sé per tutto il mese di agosto e non pensare ad altro, né mare né città, né afa né montagna. Del resto, solo nel mese che non c’era si potrebbero leggere libri che ancora non esistono.

ARTICOLO n. 58 / 2022

NON LO SO ANCORA, MA CONFIDO NEL LIETO FINE

Dove sarò questa estate?

Sono ormai otto anni che appena mi sveglio accendo il telefono e leggo i messaggi che mi sono arrivati dall’Italia mentre dormivo. In genere mi viene subito voglia di rispondere, ancora prima del caffè, come se il fuso orario della East Coast americana mi trasmettesse un automatico senso di colpa per il ritardo; per chi è di là dall’Atlantico, io arrivo sempre e solo nel pomeriggio.

Quando al mattino di qualche settimana fa, ancora con la testa sul cuscino, ho letto la proposta di scrivere questo pezzo mi è quasi venuto da ridere. Ho pensato a uno scherzo. Il contributo doveva rispondere alla domanda Dove sarò questa estate? Esattamente la questione senza risposta con cui avevo passato buona parte delle ore della notte che avrei voluto destinare al sonno. Il fatto di sapere con certezza solo che ad agosto non sarei più stata in questa casa, non più in questo paese, non più in questo continente, non era bastato come prospettiva rassicurante per potermi addormentare in pace. Meno che mai sapere che il letto in cui mi stavo rigirando sarebbe stato quest’estate in un container surriscaldato in mezzo all’oceano. So da dove parto, questo sì, ma il dove della domanda con il futuro dentro implica di indicare in un mese preciso uno stato in luogo del quale non ho ancora nessuna contezza.

Sapevo e so ancora oggi soltanto che la mia casa, i miei libri, gli oggetti che uso e dai quali sono circondata quotidianamente saranno inscatolati e lontani, non geolocalizzabili, destinati ad arrivare in un posto che al momento non è che un indirizzo, una casa dove non sono mai stata, che non ho ancora visto dal vivo, né calpestato, né annusato, in una città dove non ho mai vissuto, Milano, dove inizierò ad abitare solo alla fine dell’estate. Nel frattempo ad agosto sarò nomade con una grossa valigia, ma molto lontana dall’essere libera e leggera come avessi vent’anni e l’Interrail o davanti e un futuro da decidere a settembre in totale libertà. Ci sono delle zavorre che il tempo piano piano mette addosso, alcune sono volute, altre sono inevitabili, sono materiali, mentali, emotive, di diversa natura ognuna con il suo ingombro ognuna con il suo peso. Per esempio: il trasloco avviene da una casa grande verso un appartamento più piccolo. Nella casa che lasciamo abbiamo vissuto in quattro per otto anni. Anni in cui per almeno due di noi è cambiato tutto per svariate volte: dalle taglie di vestiti e scarpe ai libri da tenere sulle mensole, dagli oggetti con cui intrattenersi ai poster attaccati sulle pareti. Quindi che fare dei vecchi giocattoli che adesso sono nella cantina? È fuori discussione riempire un container di cose che di sicuro non useremo più, al tempo stesso come si fa a disfarsi di tutto senza rimpianti? A non sentire di aver sottratto qualcosa ai miei figli avendoli portati da Roma a Washington da bambini e sradicandoli di nuovo adesso, ormai ragazzi, buttando via tutto quello che gli è appartenuto, il mondo che è stato il loro durante questi anni di crescita? Come ci si libera della zavorra dei ricordi a cuor leggero? E dei sensi di colpa di trasformarli in cose da eliminare? (La lingua italiana è più gentile di fronte a questi dilemmi: in genere si usa un verbo meraviglioso e leggero come liberarsi, quando in inglese “getting rid of something” è proprio sbarazzarsi, ha dentro l’antipatia e il peso dell’ingombro). A questa zavorra dei ricordi dei figli, emotiva e materiale insieme, se ne aggiungono mille altre che hanno a che fare con la consapevolezza che tutto quello che faccio in questi giorni ha il sapore malinconico dell’ultima volta, un lungo ed estenuante saluto a questa vita americana. E forse è questo il motivo per cui si dice che il trasloco sia il secondo evento più traumatico della vita dopo un lutto, si tratta comunque di una forma molto attenuata di un evento simile, in cui dici addio per sempre.

Eppure da qualche giorno, anche se alla domanda di cui sopra non so ancora rispondere, di fronte a me ho liste di cose da fare che non si accorciano mai, alle mie spalle ho ancora tutto da inscatolare, mille cosa di cui sbarazzarmi (da buttare o da dare via, sempre troppa la fatica per parlare di liberazione), la casa da affittare, le persone da salutare, una fila indiana di ultime volte che mi aspettano fuori dalla porta, ho ricominciato a dormire serenamente. Inizialmente non ho capito bene cosa sia scattato perché l’ansia sia diminuita invece di salire, ho pensato che fosse perché a un certo punto mi sono arresa alla paura del futuro, dato che ci sono già dentro: domani è estate e l’estate mi troverà dove sarò, ancora qui, con tutte le mie incertezze, con tutti gli scenari ancora aperti e non potrò fare niente altro che trovarmici dentro e affrontarla.

Però piano piano ho maturato un altro pensiero: che la risposta abbia in fondo molto a che fare con questa cosa che scrivo storie di finzione.

Tempo fa mi ero iscritta a un ciclo di lezioni di mindfulness organizzato dalla scuola di mio figlio, dove indefessi genitori si prestano a queste attività che non si capisce se siano di volontariato o auto promozione. Ho fatto una lezione poi non ci sono tornata più. Ma in quella prima ora introduttiva ho imparato la cosa che mi interessava: che la mente umana è progettata con l’obiettivo della sopravvivenza della specie e non quello della felicità, e che siccome viviamo in una sorta di atavica allerta dai tempi in cui eravamo animali molto fragili come gli altri, in balia delle decisioni di una natura totalmente incontrollabile e di una società poco addomesticata e molto violenta, la mente umana è ancora abituata a costruire scenari possibili, si racconta storie dell’orrore, inferisce informazioni false su cui elabora possibilità drammatiche per le quali predisporre una difesa, in un lavorio incessante di pensieri – perlopiù negativi – che in genere produce solo molta ansia. Ho riflettuto sul fatto che questo lavorìo di partire dal reale e costruire scenari con informazioni false in fondo è il mio lavoro. È bastato togliere quella ì accentata per ottenere gli stessi effetti di un ciclo di mindfulness. Se questo faccio, costruire in continuazione scenari, tanto vale che ne inizi a costruire qualcuno di convincente per il mese di agosto, prepararmi alle eventualità e il gioco è fatto. 

Ma ingannare se stessi è difficile tanto quanto ingannare i lettori. Gli scenari devono essere credibili, le geografie riconoscibili e le storie verosimili (le rime sono volute). E non è detto che i racconti rassicuranti, quelli con il lieto fine che arriva subito, emendati dal male, funzionino bene rispetto ai nostri meccanismi mentali (ricordiamoci, anche narrativamente il fine è la sopravvivenza, non la felicità: tendiamo a smettere di credere alle favole molto presto).

Il fatto è che questa è anche l’estate in cui esce il mio terzo romanzo, che si intitola Erosione (lo pubblica e/o). È il primo libro che scrivo ambientando la storia negli Stati Uniti (tutto si svolge in una casa nella Chesapeake Bay, un luogo molto vicino a dove vivo adesso) e alla fine, anche se parla di tante cose (dal climate change alle difficoltà relazionali all’interno di una famiglia) il racconto si concentra su un solo episodio: un ultimo trasloco. Ci sono tre fratelli adulti, Anna, Geoff e Bruno che dopo anni di fallimentari tentativi di salvare la loro casa al mare, sempre più minacciata dal progressivo innalzamento delle acque, colpita una stagione dopo l’altra da allagamenti e uragani, riescono a venderla. Nel romanzo li troviamo che passano insieme le ultime ore nella villa nella quale hanno trascorso ogni estate della loro vita giovane, prima di consegnare le chiavi; ognuno di loro deve riempire una e una sola scatola con gli oggetti che vuole salvare: un’occasione per fare i conti con il tempo, con l’infanzia, il distacco definitivo da un luogo molto amato e poi odiato. Il romanzo è diviso in tre capitoli, uno per ogni fratello o meglio, uno per ogni scatola che ciascuno riempie con i diversi oggetti che vorrà portarsi via alla fine di quel rito che compiono al contrario (quando erano piccoli la madre gli faceva riempire le stesse scatole prima dell’estate per andarealla casa sul mare). La prima stesura aveva come titolo provvisorio Three boxes, tre scatole: quelle che ho adesso alle mie spalle, nella loro ancora ansiogena vuotezza.

Solo recentemente ho messo bene a fuoco che i fatti raccontati nel romanzo si incastrano profondamente con quelli che sto vivendo in questo esatto periodo. Ma il libro l’ho scritto nel 2020, l’anno immobile. L’ho iniziato durante il primo lockdown, il periodo più fermo del mondo, in cui era inimmaginabile anche solo l’idea di viaggiare, figuriamoci quella di traslocare, di trasferirsi in un altro continente. Eppure, potenza delle coincidenze, il romanzo esce nello stesso giorno del mio volo per l’Italia (questa volta solo andata). Come un’autofiction al contrario. In cui è il racconto a fare la vita e non viceversa.

Quando ho iniziato a scrivere pensavo che la storia che volevo raccontare avesse come centro tematico principale il cambiamento climatico e l’impatto che ha già sul tempo presente, sugli esseri umani in ogni parte del pianeta, adesso, non in un futuro che necessita di essere raccontato attraverso distopie. Non sapevo che sarebbe venuto fuori un romanzo che parla di scatole, di traslochi, di oggetti da conservare, di fatica nel gestire i ricordi. Dell’eterna paura del distacco che ritroviamo in ogni fase della vita che prevede un passaggio, e non sapevo che in un certo senso sarebbe stato anche questo un coming-of-age novel, pure se i protagonisti sono tutti adulti. Perché alla fine non si sfugge al tema del tempo, del cambiamento, del passaggio di età, intesa in senso lato come epoca della vita, (non per forza quella che riguarda la fine dell’infanzia o la perdita dell’innocenza). Erosione è la storia di una transizione importante e difficile che prevede la capacità di lasciar andare, il doloroso sforzo di girare le spalle e salutare per sempre un posto dove hai piantato delle radici, seppur precarie e sottili. Non sapevo che mi sarei ritrovata nei panni di un cinico avvocato italoamericano che crolla di fronte a una porta da aprire e poi richiudere per sempre. Avendo scelto di raccontare tre personaggi diversi tenendo tutti e tre molto lontani dalle tracce di una possibile autobiografia, è molto interessante ritrovarmi a posteriori dentro questa coincidenza di eventi, constatare di essere dentro la storia che ho inventato in un momento in cui non prevedevo per me niente di simile. La storia di un trasloco definitivo e di un addio. È questo che probabilmente mi ha aiutato a placare l’ansia. Quello che ho scritto, in qualche modo l’ho già vissuto. I tre fratelli alla fine ce la fanno a chiudere quella porta e andarsene. Ce la farò anch’io. E se non sarà felicità sarà sopravvivenza. Ma confido comunque nel lieto fine.

ARTICOLO n. 57 / 2022

TUTTO QUELLO CHE NON FARÒ AD AGOSTO

Dove sarò questa estate?

Parliamo piuttosto di che cosa non farò.

Agosto uguale trentuno giorni senza asilo nido.

Gli altri mesi, aprile, giugno e settembre, il nido è sempre aperto, con l’eccezione dei fine settimana e delle feste normali, tipo Natale e primo maggio.

Poi c’è luglio. A luglio i nidi restano aperti, anche se in versione “centro estivo”: abbandonati i vezzi pedagogici dell’accoglienza (che i genitori chiamano “inserimento”, secondo il loro ovvio punto di vista), a luglio puoi prendere tua figlia, portarla in un nido della rete dei comunali, lì troverà altre educatrici, altri compagni, altri cuochi e altri giocattoli, ma va bene tutto. E per due o quattro settimane (tre no: o due o quattro) comunque sarete sistemate.

Ad agosto invece i nidi sono proprio chiusi.

L’anno scorso ho capito tardi la cosa del luglio e del centro estivo e ho pensato che i mesi scoperti fossero due, così ho accettato di lavorare anche ad agosto perché non è che possa permettermi due interi mesi di ferie. In qualche modo d’agosto mi arrangerò, mi sono detta. E ho rovinato l’estate a mia madre, dannandomi l’anima.

Quest’anno mi sono organizzata meglio. Fino a metà luglio lavorerò come una matta, poi prenderò figliola e bagagli e andrò in cerca di un posto dove farla giocare senza troppo disperarmi, cioè senza ostinarmi a lavorare. Perché con una bambina di due anni e mezzo tra i piedi è difficile fare quasi qualsiasi cosa.

Lei vuole aiutarmi, vuole vedere quello che faccio, vuole provare la tastiera del computer, vuole scrivere un libro, vuole colorare le pagine della mia agenda, vuole vedere il video che sto guardando e parlare su Zoom con gli «amici della mamma», che per i primi dieci secondi sono entusiasti della testolina di riccioli biondi che compare sullo schermo poi cominciano a spazientirsi. E quando smetto di lavorare e passo, rassegnata, a fare le cose di casa, allora lei vuole fare la lavatrice, vuole cucinare, vuole farsi la doccia con me, vuole saltare sul letto, vuole dirmi una cosa importante.

Vuole fare la bambina di due anni e mezzo, cioè. E il problema, parte del problema, è che a me piace da morire. Ed è un tormento.

Quindi al momento non so esattamente che cosa farò in agosto, ma so che cosa non farò: lavorare con un computer a cose che richiedono concentrazione e silenzio. Cioè non lavorerò, basta: è deciso.

Che originalità? Ad agosto “non lavorare” è un piano che hanno in tanti?

Ma a me lavorare piace. Faccio un lavoro divertente, e non finirò mai di stupirmi per il fatto di essere pagata per leggere, scrivere, viaggiare, a volte parlare, e se non mi va di parlare anche tacere. E non mi piace non avere niente da fare. Perciò essere costretta a non lavorare è una sofferenza: è come se perdessi di aderenza alla mia vita, mi confonde le idee. In più il mio lavoro richiede anche un certo ordine e una certa diligenza e anche questo mi piace: mi piace avere il controllo della mia contabilità e mi piace avere una to-do list piena di cose, e mi smarrisco se qualcosa mi sfugge. Non so godermi il riposo se non l’ho ben programmato e messo in agenda.

La differenza tra questa estate e quella scorsa è dunque che per questo agosto il riposo l’ho messo in agenda. 

Oh, beh. Comunque non rischio di starmene con le mani in mano. Perché l’andamento di questo agosto dipenderà anche dai lavori in casa nuova e da tutti i casini che vi stanno spuntando intorno: grappoli di casini di tutti i tipi.

Mi spiego: ho comprato una casa piena di rogne, molte più rogne di quelle visibili al momento dell’acquisto e di quelle immaginabili notando l’assenza di impianto di riscaldamento (la casa è sempre stata abitata) e soprattutto notando una toppa di mattonelle blu ai piedi del water. Era un appartamento “con molte potenzialità”, e tutte, proprio tutte, da esplorare.

Per esempio, esplorando al di sotto delle mattonelle di un terzo della casa è comparso un solaio di legno così marcio da sgretolarsi tra le dita. Gli operai hanno notato che ha del miracoloso non essere capitati sulla testa di quelli del piano di sotto, e hanno commentato con una cosa tipo: «aò, se ce invitano a pranzo possiamo evità di fa le scale e scenné direttamente da qui».

Il solaio marcio ha avuto innumerevoli conseguenze su cose e persone.

Per esempio l’architetta ha dovuto reclutare un ingegnere strutturista, il quale dovrà fare operazioni che non so, e con lui ha rifatto il disegno della casa per evitare “nuovi problemi strutturali”. Il risultato è che i bagni non saranno più dove avrebbero dovuto essere, le porte lo stesso, e la cucina sarà “specchiata” (cioè a sinistra invece che a destra) per addossarsi a un muro portante che dà garanzie di stabilità maggiori del resto della casa. L’architetta ha anche prescritto “più mensole che librerie”, spiegandomi che dobbiamo sfruttare i muri portanti ed evitare di gravare troppo sul pavimento. A casa finita, cammineremo rasente ai muri come i ladri.

In ogni caso, anche prima di cominciare a parlare di bagni e cucine, è stato necessario rimuovere il marcio e sostituirlo con materiali nuovi. Tutto questo ha già comportato ovviamente costi e, dramma nel dramma, ritardi. Adesso, se entraste in casa mia nuova, vi trovereste a camminare a un livello di venti centimetri inferiore rispetto a quello che sarà il definitivo. Probabilmente dovreste anche offrirmi una spalla su cui piangere. Per il “definitivo” si parla serenamente di settembre.

Ecco dunque la seconda cosa che non farò quest’agosto: non mi godrò casa nuova. Manca il pavimento, come si fa?

Non farò nemmeno gli scatoloni in casa vecchia, per la questione del nido chiuso e dell’allegra bambina di due anni e mezzo (quasi tre) di cui sopra. Ad agosto, in sostanza, aspetterò settembre. E settembre sarà un mese di delirio. Perché il momento in cui, forse, sarà possibile cominciare a spostare gli scatoloni coinciderà con quello in cui io, come ogni brava madre, dovrò impegnarmi a seguire l’accoglienza di mia figlia alla scuola dell’infanzia (che non si chiama “inserimento”, sto cercando in tutti i modi di mettermelo in testa, anche se è ovvio che da parte mia io “inserisco” e non “accolgo”. E la scuola dell’infanzia, per i profani, è quella che un tempo si chiamava “materna”). Cioè è molto probabile che a settembre per fare la brava madre sia chiamata a passare le mie mattine a scuola con mia figlia, quindi poi non so chi mi gestirà il trasloco e, dettaglio non secondario, come potrò contemporaneamente anche lavorare. 

Dunque al momento è molto probabile che nella prima metà di agosto andrò in montagna coi “nonni”, che è come da un paio di anni in qua chiamo i miei genitori. E che nella seconda, sopraffatta dall’ansia, cercherò ospitalità da amici con casa al mare, per poi scoprire che a mia figlia il mare non piace.

Terza e ultima cosa che non farò questo agosto, dunque: andare al mare. L’anno scorso ci ho provato: eravamo in un posto bellissimo in Liguria ma la bambina ha passato tutta la settimana a impedirmi di avvicinarmi all’acqua perché le faceva paura. È stata una sofferenza tantalica, per me, salutare ogni mattina gli amici in costume, sempre più abbronzati e sereni, e inventarmi ogni giorno qualcosa da fare sulla terraferma. 

Poi chissà: magari in questo anno è maturata, magari scopro che le cose sono cambiate. Un tentativo marino stiamo per farlo. Come esperimento, proprio adesso che scrivo queste righe sto organizzando un fine settimana nel sud della Toscana per scappare dal caldo di Roma: a mia figlia ho spiegato che andremo su una spiaggia con tanta tanta sabbia, e vediamo se col mare facciamo pace.

Ecco anche perché, nella prima metà di agosto, appena gli operai decideranno di sospendere i lavori al cantiere, andremo in montagna: mucche, laghetti, lancio di sassolini nei torrenti, corsa nei prati, e a nanna molto presto. Col retropensiero fisso di potermi avvicinare al computer a rispondere alle mail tutte le volte che la mia bambina si sarà addormentata. Ah, sì: in montagna ci sarebbero anche delle bellissime piscine all’aperto, ma a mia figlia fanno paura anche quelle. 

Continuare a parlare della vera estate prossima ventura significherebbe continuare a lamentarmi, perciò ora smetto. La vera verità è che sto cominciando a scrivere un nuovo libro, finalmente, dopo la pausa impostami dalla combinazione maternità + pandemia. D’estate vorrei mettermi a studiare e cercherò di farlo in ogni momento in cui sarà possibile farlo. E sono ottimista, persino allegra. Non ho alternative, e questo aiuta.

Lascio solo una notarella per chi potrà ospitare me e la bambina nella seconda metà di agosto, ben distanti da qualsiasi possibilità balneare: grazie, possibilmente vicino a un’altalena. Un tavolo a me sarebbe utile. Ma nessun problema se per caso non c’è una rete Wi-Fi.

ARTICOLO n. 56 / 2022

TORNA A FARE LA TUA VITA

Dove sarò questa estate?

Che bravi quegli artisti che si mettono lì a immaginare scenari, la gente li riguarda dopo decenni e dice «Beh, XYZ aveva capito le sorti dell’umanità con larghissimo anticipo! Aveva previsto tutto!». Buon per loro, io se allungo lo sguardo verso la prossima settimana trovo almeno tre motivi per farmela sotto. E con “prossima” non intendo la settimana che segue quella in cui scrivo questa frase, intendo qualsiasi settimana segua quella del presente in cui starete leggendo queste parole. Ho passato il mese di giugno a sentir dire da esperti in fisica che il tempo non esiste, che non esiste passato, presente o futuro, e non posso che concordare visto il modo in cui gestisco le scadenze. Negli ultimi periodi avere degli esperti in materia dire questa frase è stato anche vagamente consolatorio, ora che il presente è terribile e il futuro è attesa della disgrazia, che poi è essa stessa disgrazia (mi dovete scusare, è difficile trattenersi ogni volta che si può storpiare la citazione sul piacere di Lessing, ma personalmente è stato ancora più difficile ricordarsi che era stato lui a scriverla, infatti io ero convinta che fosse di Antoine de Saint-Exupéry, messa lì forse in un momento un po’ sexy de Il Piccolo Principe, di cui ricordo il merchandising ma non la trama). 

C’è il problema che in estate è praticamente impossibile non pensare al futuro, più che in qualsiasi altra stagione. Tutte le domande sono declinate al futuro. «Cosa farai?» «Dove andrai» «Quando partirai?». Quando ho comprato i biglietti per vedere le letture di David Sedaris e l’appartamento per stare alcune settimane al Fringe Festival di Edimburgo rispondevo a questa domanda con un entusiasmo insopportabile. Ora che la data si avvicina, lo accompagno a un «Certo, vediamo come va con questa nuova variante», oppure «Eh, sperando non ci siano problemi coi voli», per familiarizzare con la sfiga. Non che quest’anno non abbia già abbastanza familiarizzato con la sfiga, visto che a ottobre ho avuto un’emorragia cerebrale e da lì in poi ogni momento è stato legato a quello: andare a fisioterapia, riprendere a camminare, imparare a stare in equilibrio, fare gli esami, andare al pronto soccorso per puttanate, uscire con gli amici, comprendere la mortalità non più come concetto astratto ma come realtà, sentir formicolare costantemente, smettere di fumare, smettere di entrare nei vestiti, smettere di rispondere educatamente alla domanda «Ma quindi adesso come stai» dopo la centesima volta che viene posta. 

Quest’ultima cosa non è vera: la domanda «Ma quindi adesso come stai?» ha un suo gusto perverso per il dolore, ma spesso mi viene fatta col tono di chi si aspettava che stessi peggio. È successo da giugno, quando ho ricominciato ad avere una vita sociale fuori dal mio cerchio ristretto, quindi molte persone mi rivedevano per la prima volta dopo aver messo like al mio post di Instagram in cui annunciavo dell’ictus. Molte donne me lo chiedono con gli occhi tristi e le mani congiunte al petto.  Se rispondo «Bene» in modo sbrigativo, ma comunque sincero, inclinano la testa di lato e aggrottano le sopracciglia, insoddisfatte. Vorrei tirare un cazzotto in mezzo alle loro sopracciglia aggrottate. Non so chi abbia educato noi donne a queste pose davanti a chi ha un problema di salute, non so bene neppure che sentimento stiamo inscenando quando facciamo così. Forse partecipazione, forse pietà, forse sete di dramma, tutte cose che non voglio vedere mentre scrocco birre alla festa di un’agenzia pubblicitaria. Con gli uomini è diverso, loro cercano più una prova di quello che è successo, chiedono direttamente «Cosa ti è rimasto?». Allora racconto cosa non posso ancora fare, della sensibilità alla spalla sinistra che non ho recuperato e non so quando o se recupererò, dei formicolii e del dolore a braccio e spalla sinistri. Prima di arrivare sull’orlo del pianto, esclamo «Ma rispetto a prima, VUOI METTERE?» e nel clima di festa generato da questa frase i miei interlocutori mi tirano una fortissima pacca sulla spalla sinistra. Prendono sempre la sinistra. Grazie ai miei nervi impazziti, il ricordo di questa pacca riverbera per i muscoli del braccio tutta la sera. Una volta una persona che conosco e che normalmente sa comportarsi mi tirò una serie di pugnetti sul braccio sinistro, strillai di smetterla perché quello era «Il braccio dell’ictus», mi rispose «E allora?». Ai tempi mi offesi fortissimo, invece quell’indelicatezza un po’ mi manca. Soprattutto ora che si avvicina settembre. 

Mi è sembrato di capire che per un freelance le cose vanno bene quando tante persone ti chiedono «Cosa farai a settembre?». Ultimamente me lo chiedono più che in passato, credo perché quest’anno è stato baciato dalla fortuna sul lavoro. Ovviamente non mi sono goduta nulla di ciò che ho fatto, soprattutto perché ogni cosa bella ha avuto delle fastidiosissime ripercussioni fisiche: ad aprile scrivere un racconto molto apprezzato di 12 mila battute mi è costato due sedute ravvicinate di fisioterapia per scollare la scapola sinistra, allungare il muscolo pettorale, inserire tre nuovi esercizi con bande elastiche e altri aggeggi Decathlon nella mia già ingolfata routine di ginnastica posturale; a fine maggio, un cambio improvviso della sveglia per un lavoro importante mi ha provocato lunghe fascicolazioni muscolari sul fianco sinistro, che a loro volta hanno provocato 5 ore di attesa in pronto soccorso dove la diagnosi è stata «Mah» e un «Può provare a prendere questa benzodiazepina prima di dormire» – e se c’è una cosa che ho imparato da questa vicenda è che se un medico dal nulla ti propone una benzodiazepina, tu la vai a comprare anche se non la vuoi assumere, tanto le benzodiazepine fanno effetto anche solo a tenerle vicine. 

Ora il mio corpo somiglia sempre di più a quello che era prima. Il braccio formicola meno spesso, l’estensione della zona in cui la sensibilità è sputtanata diminuisce. Mi sembra di vedere una fine, ma non è vero. A settembre dovrei scoprire che cosa mi ha provocato l’emorragia cerebrale. Fino a questo momento le risonanze magnetiche hanno escluso tante cose, ma non hanno confermato una causa precisa perché il sangue non era ancora del tutto sparito, «Ce n’è ancora un pochino la zona coperta, non mi azzarderei, aspettiamo settembre per rifare tutto. Ma tu torna a fare la tua vita di prima, eh», mi disse il neurologo a marzo davanti alle curve del mio cervello e dei suoi vasi sanguigni. Me lo disse nel periodo in cui mi girava la testa ogni volta che provavo a camminare e stare troppo seduta mi faceva venire tutti quei problemi posturali. Potevo stare in piedi, ferma. Tornare alla mia vita di animale da stalla. 

Ovviamente gli chiesi il perché di quei giramenti, e davanti a tutti gli esami disse: «Mah, sarà l’equilibrio». Col tempo ho capito che se un medico non ti caga, è un ottimo segno. Vuol dire che sei clinicamente poco avvincente. Quello che è stato l’atto più sconvolgente dei miei 35 anni di vita, per lui era un lunedì mattina. Mi ci sono voluti mesi di livore per le mancate risposte prima di capire che il problema non era lui, ero io, che stavo troppo bene per le sue attenzioni. Ma io ci casco ancora, e forse è questa mia ottusità il motivo per cui vorrei che questo settembre non arrivasse mai. Per il mio medico le opzioni sono due: la prima è che ci sia una piccola malformazione che probabilmente stava lì dalla nascita e che va tolta in radiochirurgia, la seconda è che non vedremo nulla e non sapremo mai come è successo. Il mistero della seconda opzione infastidisce il mio medico, ma alla mia domanda «E che succede se non si trova nulla?» lui rispose «Se non c’è niente, non recidiva», e da quel momento sogno una risonanza immacolata e di rispondere alla domanda «Come mai ti è successo?» con un sagacissimo «È stata la mano di Dio». In realtà già do delle risposte carine su cosa mi ha provocato l’emorragia, spesso quando qualcuno mi fa arrabbiare dico che quando farò la risonanza mi troveranno sul sito dell’emorragia la sua faccia. Faccio le battute sul fatto che dovranno rimuovere chirurgicamente quella faccia. Poi penso che potrebbero dovermi davvero togliere qualcosa chirurgicamente, e impongo le mani sulla scatola delle benzodiazepine. 

«Che cosa farai a settembre?», mi chiedono persone che a volte neanche sanno cosa è successo a ottobre dell’anno scorso, quindi devo spiegare l’antefatto per dire che non so di preciso cosa farò, perché ho due giorni in ospedale che mi diranno cosa farò nell’inverno seguente. Potrei essere liberissima, potrei esserlo un po’ meno.  Raccontare questa vicenda ora che i problemi sono pochissimi e i miglioramenti enormi è quasi un piacere. Vedo la faccia di chi pensa che quello che mi è successo è il peggior incubo, mentre per me diventa un lunedì mattina un po’ particolare. Poi di fronte all’eccesso di incognite, declino qualsiasi offerta mi venga fatta. Per me non è così strano dire «no» a delle offerte di lavoro: una volta trovato un impegno soddisfacente che paghi le spese e mi permetta di risparmiare qualcosa, il resto viene attentamente valutato e spesso rifiutato perché non mi reputo all’altezza o semplicemente, perché preferisco poltrire. Ora dico «no» immaginando lo scenario peggiore. Forse era questa la «vita di prima» che intendeva il medico, quella in cui la risposta è «no», in attesa che a ottobre qualcuno mi chieda «Cosa hai fatto a settembre?» per potergli rispondere «Mah, un paio di visite, per il resto un cazzo».

ARTICOLO n. 55 / 2022

IL CORPO DELLA LINGUA A TEATRO

Intervista di Gilda Tentorio

Terzopoulos è un Maestro del teatro che ha creato e diffonde il suo metodo rivoluzionario di una recitazione che è un ritrovare il corpo”, la sua profondità e le energie nascoste. 

Gilda Tentorio: Lei che è greco, come lavora sui testi greci antichi? Quale disposizione ha verso quella lingua?

Theodoros Terzopoulos: In una lingua le consonanti sono come i pilastri di una casa, che tengono insieme la struttura. È bello e facile lavorare con una lingua dalle molte consonanti, come il tedesco o il giapponese. Cito queste due lingue perché la Germania di Heiner Müller e la tradizione asiatica sono i due ambienti che mi hanno influenzato di più. Trovo in particolare che la lingua giapponese abbia in sé un ritmo ancestrale, che va all’essenza, deciso e rituale al contempo. Nell’italiano invece le vocali sono un ostacolo alla ricerca di profondità. Una parola con molte vocali racchiude molta aria e perciò galleggia restando in superficie. La parola invece ha una profondità verticale, una radice. La stessa cosa si sperimenta nel passaggio dal greco antico a quello moderno: oggi la mia lingua è piena di vocali; nell’antico invece prevalevano le consonanti. Quando mi avvicino a un testo antico quindi cerco anzitutto di ascoltare il ritmo e di scavare per trovare il ritmo primordiale, il nucleo essenziale della parola, cioè quel suono che si trova sotto la parola-significato.

G.T. Ci può fare un esempio di questo scavo archeologico nella sonorità di una parola?

T.T. Quando diamo a un suono un significato, obbediamo a una esigenza comunicativa, e quindi anche sociale e politica. Ma a me interessa recuperare il suono primigenio. Prendiamo ad esempio l’antichissima parola per indicare la terra: in dialetto dorico si diceva GAS, o meglio GAAAASS, con una ‘a’ larga, profonda e un sigma finale lungo. [Ed ecco che Terzopoulos comincia a farmi sentire la sonorità: apre la bocca, inizia con laspirazione della G e poi allunga la A in unemissione vocale che viene dalle viscere e quella A cavernosa non ha nulla di pacificante] Lo senti? Questo è il suono primordiale della terra, così deve echeggiare, devi sentire la sua “terrestrità”, devi sentirci dentro i suoni della natura, avere la sensazione del vento che stormisce tra le foglie. Se poi calchi quel gamma iniziale profondo, puoi ottenere sonorità impensate. Quando a lezione con i miei allievi facciamo tutti insieme l’esercizio di “GAAA”, si crea una vibrazione che sembra il terremoto. La parola greca antica ha una sua vita profonda e segreta che dobbiamo individuare, occorre trovare il ritmo, sperimentare con consonanti e vocali. Talvolta il risultato sonoro porta a “desemantizzare” il significato. Quando diciamo “GHI MANA GHI” (Terra, madre terra – questa volta con la pronuncia moderna), nella ripetizione delle sillabe e nella concitazione, dosando il ritmo e le pause, la frase acquista una dimensione ieratica, diventa uno strumento rituale di immensa potenza. La parola racchiude un ritmo interiore, ed è a questo che dobbiamo obbedire. Il significato è soltanto un epifenomeno. Il significato è cervello, e invece noi dobbiamo trovare il cuore della parola. E il cuore è appunto il ritmo. Spesso il ritmo e il tempo ampliano lo spettro di significatività. Questo mio andare al cuore pulsante della parola produce anzitutto un suono: non è necessario che subentri l’interpretazione, basta solo una sensazione, un lago di energia in cui “nuota” il significato.

G.T. Ma questa è poesia!

T.T. Hai ragione: quando lavoro sul logos e con il corpo degli attori, uso una lingua poetica per poterli indirizzare verso la creatività. Preferisco la poesia a uno studio cerebrale o accademico, che è certo necessario per capire i testi, ma quando appesantisce di sensi e sovrasensi, c’è il rischio di perdere l’essenza.

G.T. Nel suo teatro la lingua si fa corpo: come avviene questo processo?

T.T. La lingua è corpo, e il corpo è lingua. Hölderlin nei suoi studi sull’Antigone cercava la chiave perduta dell’unione fra parola e corpo. Il mio maestro Heiner Müller in un saggio sostiene che io sono riuscito a unire corpo e lingua. Ma per farlo devo trovare la radice della parola, devo darle corporeità. E in questo percorso il generoso e indispensabile aiutante è il corpo, che ha in sé suoni inattesi, trasversali, un ribollire di energia sonora, un intero paesaggio da scoprire.

G.T. Che lingua parla Dioniso, il dio del teatro?

T.T. Dioniso parla la lingua dei grandi significati e dei non-significati. Dice: «Eccomi, sono giunto», ma allo stesso tempo è altrove e noi dobbiamo seguirlo. Pone una domanda, ma è già passato oltre. Dioniso è la metamorfosi continua, movimento nell’immobilità e immobilità nel movimento. Dioniso è la lingua e la corporeità della vertigine interiore. Ci obbliga a uscire dal nostro bozzolo di immobilità e a muoverci, a correre. E noi questa lingua prima di tutto dobbiamo sentirla e poi tentare di decodificarla. Dioniso ci pone la domanda sull’essenza ontologica, ma non ci dà risposte, ci lascia lì dove la realtà ribolle e si plasma, fra il noto e l’ignoto. Perché Dioniso non dà risposte.

G.T. Il suo teatro ha una dimensione politica?

T.T. Il mio teatro parte dalla radice del politico, dalla polis, ma non segue nessun modello. Non vedrete mai nei miei spettacoli la bandiera rossa, falce e martello per rivendicare una vita migliore per la classe operaia. A me interessa parlare di quel fermento che sta nella profondità delle cose e dell’esistenza. L’utopia di Dioniso non è solo una situazione astratta, è un viaggio nella dimensione ontologica più profonda dell’uomo. Ad esempio il teatro di Aristofane propone un’utopia, ma sul versante sociale: con il suo comico irresistibile Aristofane cerca di dare risposte alla società e questo suo sguardo sulla polis acquista anche un orizzonte filosofico. Ma io sono votato a Dioniso, che invece è follia. E follia significa tragedia. Dioniso è il dio della tragedia, del teatro, della metamorfosi, della profondità e dell’elevazione, per andare oltre.

G.T. Come ha affrontato il testo di Ibsen Casa di bambola per il suo lavoro Nora presentato a Milano? 

T.T. Mi sono concentrato sul personaggio di Nora, sono entrato nella sua mente e ho ricreato situazioni psicologiche, sentimenti, un mondo asfissiante di piccoli scontri e riconciliazioni. Ho voluto però sottolineare l’atto di Nora, una donna che decide di “ingrandire” le dimensioni, di superare le miserie della sua vita quotidiana fatta di bambini, regali e debiti. Nora decide di sollevarsi, proiettarsi in un’altra sfera, o meglio, di ritrovare la sua radice. In questo spettacolo ci sono elementi realistici, ma a poco a poco si viene a creare un climax, un’elevazione, un superamento. E questo si rileva anche dalla lingua, che è sempre più asciutta perché appartiene all’oltre, all’ontologico. Nora sceglie di superare la superficie e va oltre, si eleva e parte. Per dove, non lo sappiamo…

G.T. Quali impressioni le restano dell’esperienza milanese? 

T.T. Sono contento e soddisfatto: il pubblico era attento e interessato durante gli spettacoli, che sono stati salutati con lunghissimi applausi. Mi ha fatto piacere anche vedere tanti giovani, gli allievi del Piccolo Teatro e non solo. Questo dimostra che c’è un grande desiderio di novità e di esperienze autentiche. La vostra Milano mi è sembrata una città che corre inseguendo le mode. Manca però un punto fisso, un faro, come succedeva ai tempi di Strehler e poi forse anche con Ronconi. Tornare in Italia è comunque sempre un piacere e il prossimo gennaio se tutto va bene presenterò una mia regia presso ERT (Emilia Romagna Teatri), di cui però non voglio anticipare nulla. 

ARTICOLO n. 54 / 2022

MADONNA CHE SILENZIO C’È STASERA

Francesco Nuti quaranta anni dopo

Dopo il successo di Ad Ovest di Paperino, il 1982 è l’anno del primo vero debutto di Francesco Nuti da solista anche se non ancora regista. Non più all’interno del trio de I Giancattivi – che aveva alimentato e fatto germogliare le sue qualità – Nuti dà libero sfogo in Madonna che silenzio c’è stasera a una comicità pervasa dall’ironia cattivissima e tutta toscana unita a un surrealismo delicato e dolce che rappresenterà sempre la sua cifra anche nei momenti più opachi della sua carriera. 

Sono passati quarant’anni da quell’esordio che portò Francesco Nuti al centro del cinema italiano che, seppur con tutte le differenze e varianti, pareva interpretare in maniera finalmente innovativa e compatta gli anni Ottanta con tutto quello che avrebbero preannunciato. Insieme a Nuti, ovviamente Roberto Benigni, Carlo Verdone, ma anche Massimo Troisi e non si può certo escludere Nanni Moretti. 

Ognuno di loro è forte di una vena comica e al tempo stesso di uno sguardo critico e ognuno è fortemente e ossessivamente individualista, nonostante tutto e nonostante le visioni politiche più o meno coerenti che volenti o nolenti rappresentano. Tuttavia Francesco Nuti raffigura forse il caso più estremo: una genialità impura che nasce dalla provincia strapaesana e al tempo stesso industriale toscana. Nell’estate del 1982 va ricordato che Prato è il centro d’Italia e i suoi figli migliori sono Francesco Nuti e Paolo Rossi: sguardi dolci fatti di guizzi rapidi e da furfanti, spalle strette e tanto fiato. 

Allora l’Italia non era ancora solo Milano e Roma o quasi solo Milano come è oggi, ma era un mondo ancora attraversato da guizzanti differenze. Firenze era la capitale della moda, il centro di una New Wave che avrebbe alimentato le menti di una generazione. Erano anni in cui, come ricorda Bruno Casini in New Wave a Firenze Anni in movimento (Zona Music Books), andare a dormire era quasi impossibile. Gli anni dei locali jazz (indimenticabile Luca Flores) e delle notti infinite di una generazione di trentenni che tornava alla vita dopo aver lasciato alle spalle anni fin troppo tetri. Ma era anche il tempo in cui Benigni abbandonava la stalla di Onda libera per esordire alla regia con un David di Donatello come miglior regista esordiente per Tu mi turbi

Non solo tutto era possibile, ma ora era possibile fare tutto da sé, solo che l’autarchico non usciva dai teatri cantina, ma dalla televisione. Stand-up comedian ante litteram come Troisi, Verdone, ma anche i milanesi Abatantuono, Teocoli e Boldi lasciati i locali alla nostalgia della mala che fu, si proiettavano – spesso grazie all’intuito felino di Renzo Arbore che con Il pap’occhio aprì davvero un decennio – dalla TV al cinema con record di incassi che il nostro cinema da allora non ha mai più visto (e anche solo immaginato). 

Francesco Nuti è il punto di equilibrio in una ricerca a tratti ossessiva di un originario comico che sfocia spesso nel burlesco come nella tragedia. Subito campione d’incassi sembra essere quello più in grado di reggere il tempo. I suoi film sono ricchissimi di soluzioni comiche, ma anche la sua regia non sembra mia accontentarsi, provando soluzioni spesso estremamente originali. 

In tal senso Madonna che silenzio c’è stasera sembra addensare nella sua storia l’insieme delle possibili variazioni del cinema di Nuti, non ancora regista, ma già sceneggiatore e interprete totale. Ambientato a Prato, il film è il racconto di una giornata nella vita di Francesco e come spesso accade in chi ha un forte senso del comico è il nulla ad attrarre il riso e a far girare la narrazione: Larry David e Jerry Seinfeld lo hanno palesato al mondo, però c’è da dire, molti anni dopo. 

Nuti interpreta come molti allora, pensiamo a Troisi, Verdone e Moretti su tutti, l’estate come momento massimo di sospensione, ma anche come ritorno inevitabile all’io, a se stessi, a un’individualità che negli anni Ottanta diviene sempre più incontenibile. Le nevrosi diventano chiaramente il centro di tutto, la psicanalisi la soluzione che non dà mai soluzioni, mentre i rapporti con le donne sono sempre più problematici e al tempo stesso stanchi, quasi annoiati. 

Tutto questo tuttavia si paleserà con forza più avanti, a metà degli Ottanta, e solo Carlo Verdone sarà in grado di trattenere più a lungo una forma di leggero disincanto che invece è ancora splendente e vivacissimo in Madonna che silenzio c’è stasera

Il film, oggi un vero e proprio cult, vede sbocciare il talento di Nuti che esce dall’ombra mimetica di Roberto Benigni per palesare, seppur ancora di velluto vestito, la propria assoluta capacità seduttiva. L’intransigenza e la radicalità diviene qui una forma di derisione, la cattiveria un atto di crudele divertimento. Il limite è spinto sempre un poco più in là, ma non per un gusto di rompere gli schemi, o peggio per opporsi ad un presunto conformismo, ma perché è semplicemente nelle cose. E le cose le stabilisce in questo caso l’autore e interprete sulla base di un impulso caratteriale, tanto più efficace se immotivato.

Attorno nel film tutto pare invecchiato, la fabbrica tessile come la Casa del Popolo, ma tutto al tempo stesso è amato con tenerezza. Nuti ha 27 anni e l’infanzia non è ancora una nostalgia, ma un preteso dato di fatto. Del resto non si abbandona mai l’infanzia per davvero fino a quando si sta a casa della mamma o nella città dove si è nati, e allora tanto vale non fingere, non giocare agli adulti e vivere liberamente proprio come dei bambini. 

Oggi si parla molto di competenze, come una qualità e una forma di emancipazione, ma spesso non si considera l’aridità del concetto. Madonna che silenzio c’è stasera ha non a caso la luce dei macchiaioli toscani, ma non aveva certo bisogno di questa competenza il direttore della fotografia Carlo Cerchio per darle forma, bastava la luce di Prato, l’ovvietà di un’origine naturale. Così i movimenti e le espressioni di Francesco Nuti, non sono gesti appresi, ma elementi ricondotti e guidati: qui non è il sapere in sé il centro, qui è ancora la capacità di interpretare la propria epoca – in questo caso gli anni Ottanta – annusando sì l’aria, ma con la consapevolezza della propria storia e della propria infanzia. 

L’infanzia non manca mai in quegli anni, e ancora Verdone e ancora Troisi e ovviamente Nanni Moretti: «Non torneranno più le merendine di quando ero bambino, i pomeriggi di maggio, non torneranno più». Reggere una battuta con uno sguardo e poi rifarlo reggendo un film e poi una carriera, è certamente un segno di narcisismo e anche di egocentrismo, ma come si dice, bisogna saperlo fare. Solo che anche quando si è capaci di farlo, il peso, soprattutto se parliamo di una carriera tanto trionfale come quella di Nuti, può diventare insostenibile, perché l’eccesso di sé ad un certo punto rende irriconoscibile anche lo specchio. 

Inutile ora addentrarsi nelle sfortune di un uomo che ha dato tanto al suo pubblico e al suo mestiere, di certo Nuti in quel 1982 dava contemporaneamente avvio e addio a una carriera, apriva e chiudeva la propria unica giornata con allegria quanto con malinconica ribalderia. 

Chiaro, il vero successo sarebbe arrivato dopo e anche i suoi film migliori, ma in quella ripetuta esclamazione “madonna che silenzio c’è stasera”, come nell’irriverente e azzardata, Puppe a pera, c’è già tutto. Il resto sarà arte, arte pura, non mestiere, della ripetizione. Come un riflesso condizionato dato dall’era della televisione che si stava imponendo anche grazie alle sue infinite repliche, trasformando ancor di più i comici in macchine, spesso ottuse, da tormentone. 

Madonna che silenzio c’è stasera racconta così dell’unica giornata che abbiamo a disposizione per restare bambini e per imparare, per giocare e per amare in assoluta e irrequieta libertà. Francesco Nuti invece ci ha raccontato cosa significa ripetere variando, calibrando ed elaborando quella giornata fino a trasformarla in una vita intera. Ed è ancora più assurdo che proprio in quel replicarsi che avrebbe dovuto essere maieutico si sia scatenata la critica e il rancore, là dove Nuti indicava una possibilità in un tempo stretto sempre e solo al presente, il pubblico lo abbandonava in un reciproco fraintendimento. Invece è proprio nella replica come performance che dovremmo cogliere lo spazio possibile in assenza di futuro come di un passato riconoscibile. Solo la ripetizione concede ancora uno spazio possibile di tempo per pensare e al tempo stesso la clemenza del perdono, fino alla successiva variazione. 

Quarant’anni di carriera sono passati da quel 1982, ma chiamarla carriera fa soltanto ridere rispetto alla forma che più fortemente ed esplicitamente gli anni Ottanta hanno maturato. Ovvero è possibile parlare credibilmente di una carriera fatta quasi ossessivamente solo da se stessi? Quel tempo trascorso, quei 40 anni sono più semplicemente una vita. In quarant’anni si inventa una volta soltanto e poi il resto sono serate più o meno ben pagate, repliche che hanno il senso di un’utopica stagione che resti infinita seppur aperta a ogni possibile variazione. Bisognerebbe sempre credere ai comici proprio perché ci fanno ridere, riconoscere il loro mestiere che può essere quello di attori, registi o scrittori e non abbandonarli mai, pena quella di abbandonare se stessi e la propria giornata migliore. Guarda un c’era mai stato un silenzio come stasera. Zit zit zit…. Muaadonna che silenzio c’è stasera. Io Chiaramonti ‘unnhò mai avuto paura del silenzio, ma stasera c’è un silenzio…

ARTICOLO n. 53 / 2022

CONVERSAZIONE CON MICHAEL Z. WISE

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. Michael Z. Wise è il cofondatore di New Vessel Press, e ha lavorato come corrispondente a Vienna, Praga e  Londra per la Reuters e il Washington Post

A. GENTILE: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

MICHAEL Z. WISE: L’idea della carriola sembra suggerire che ci limitiamo a riversare camionate di libri sulla pubblica piazza, mentre alla New Vessel Press selezioniamo con attenzione tutto ciò che pubblichiamo. Il nostro catalogo non potrà essere paragonato in tutto e per tutto a un romanzo, ma scegliamo sempre con cura i testi da tradurre: una mezza dozzina di libri l’anno, con l’obiettivo di portare testi di qualità dalle altre lingue in inglese. Di Calasso mi piace citare un’altra massima, secondo la quale il compito di un editore è faire plaisir a una tribù dispersa di persone alla ricerca di qualcosa «che sia oro e non tolla».

A.G. Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

M.W. Siamo molto orgogliosi di essere gli editori dell’autore russo Sergej Lebedev e di aver pubblicato tre dei suoi romanzi, oltre a un quarto che uscirà a breve nella splendida traduzione di Antonina W. Bouis. Lebedev, in particolare nel suo Oblivion, è tra i primi autori russi del XXI secolo a sondare l’eredità del sistema dei campi di prigionia sovietici e la sua scrittura densa e ponderosa ha la capacità di evocare alla perfezione gli orrori del passato e le loro ripercussioni sul presente. Tradurre Lebedev, uno dei migliori autori russi in circolazione, è una sfida davvero emozionante e rivedere il suo lavoro è estremamente gratificante.

A.G. Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

M.W. Di recente abbiamo concesso in licenza i diritti delle nostre traduzioni inglesi dei racconti di Anna Maria Ortese dall’antologia Il mare non bagna Napoli/Neapolitan Chronicles, ad opera di Ann Goldstein e Jenny McPhee, per delle produzioni teatrali della Columbia University di New York. Molti dei nostri libri, poi, hanno a che vedere con le arti visive vecchie e nuove, inclusi The Eye di Philippe Costamagna, sulla connoisseurship e sul profondo piacere di osservare i quadri dei vecchi Maestri, e A Few Collectors di Pierre Le-Tan, sull’eccentricità di chi tende ad acquistare opere d’arte d’ogni sorta. Naturalmente, si tratta di titoli orientati ai lettori che si interessano al mondo dell’arte e promossi da gallerie e librerie museali. Inoltre, abbiamo pubblicato un lavoro a stampa nato interamente tramite nuovi mezzi di comunicazione, in particolare da una serie di tweet e dalle foto che li accompagnavano. Il volume si intitola The Madeleine Project, di Clara Beaudoux, ed è un opera di saggistica davvero innovativa, in cui si racconta di una giovane donna che si trasferisce in un appartamento a Parigi e documenta la vita e gli effetti personali della precedente inquilina sul proprio feed di Twitter.

A.G. Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

M.W. Sebbene nei momenti più bui ci sia una tendenza a disperare per il ruolo ormai limitato dei libri nella società contemporanea, in mezzo a tante altre distrazioni, io sono convinto che i libri continuino ancora oggi a esercitare l’impatto fondamentale sul pensiero e sulla percezione che gli è proprio da secoli.

A.G. A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

M.W. In realtà, alla New Vessel Press non cerchiamo tanto il lettore ideale quanto il libro ideale, capace di solleticare l’interesse di menti curiose. Ci concentriamo su opere di narrativa e saggistica in lingue diverse dall’inglese, considerate di qualità letteraria eccezionale e in grado di offrire informazioni interessanti sulla vita e la società in altre parti del mondo.

A.G. A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per il lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

M.W. I libri migliori, specialmente quelli che vantano particolari origini linguistiche e geografiche e sono in grado di rispecchiarle, contengono delle verità universali. È vero che non esiste una casa editrice interamente europea, ma per me è sempre un’emozione partecipare alla Fiera del libro di Francoforte, dove l’Europa risulta profondamente viva in un modo che non si riesce a percepire altrove. È vero, lo spirito di cooperazione tra gli Stati europei si è decisamente rinsaldato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ma a Francoforte l’utopia letteraria già esisteva, almeno in una certa misura, poiché ci si trovano sempre europei che parlano una grande varietà di lingue e che hanno un’ottima comprensione degli sviluppi culturali nei paesi vicini, oltre che in zone del continente più remote.

A.G. Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, differenze che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di esistere insieme, perché sono proprio quelle a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dal primo momento, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

M.W. Capisco il desiderio di adottare uno schema di copertine uniforme, esteticamente coerente e in grado di saltare all’occhio. Tuttavia, trovo che si rischi di ottenere un risultato scialbo e vuoto, senza potersi dedicare al piacere creativo di ideare una copertina eccezionale, in grado di rispecchiare il libro che si ha sotto mano. Impegnarsi a trovare un design che aiuti ad attirare l’attenzione dei lettori, perché non si limitino a comprare ma anche a leggere una particolare opera, è parte di ciò che distingue l’editoria dalla semplice stampa.

A.G. Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

M.W. Noi di New Vessel Press abbiamo accolto con favore l’adattamento dei nostri classici libri cartacei in ebook e audiolibri. È possibile che nel prossimo futuro nasceranno altri formati innovativi, tramite tecnologie oggi sconosciute ma parimenti all’avanguardia. Sotto sotto, però, l’esperienza della parola scritta rimane quella che era ai tempi di Johannes Gutenberg, anche se oggi viviamo nell’era di Jeff Bezos.

A.G. Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

M.W. Sì, la traduzione inglese del nostro secondo libro di Marina Jarre, Ritorno in Lettonia, ad opera di Ann Goldstein, dopo il successo della sua autobiografia I padri lontani, da noi pubblicato [con il titolo Distant Fathers] nel 2021. Ma anche la traduzione di un romanzo brasiliano ambientato nelle favelas, che parla di una relazione segreta e della potenza della parola scritta. Il volume si intitola The Words That Remain, di Stênio Gardel ed è stato tradotto dal portoghese da Bruna Dantas Lobato. Infine, citerei un romanzo israeliano molto profondo e divertente in cui si analizza quella che è la mentalità contemporanea su tematiche come la schiavitù e l’eredità del colonialismo. Il titolo è Professor Schiff’s Guilt, di Agur Schiff, tradotto dall’ebraico da Jessica Cohen.

A.G. Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato a cui, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a rinunciare, quale sarebbe?

M.W. Diario Londinese di Boswell, Alla ricerca del tempo perduto di Proust e Il mondo di ieri di Stephan Zweig. Sì, sono indubbiamente un cittadino, e pure un po’ nostalgico.

Traduzione di Camilla Pieretti

ARTICOLO n. 52 / 2022

A CONVERSATION WITH MICHAEL Z. WISE

What does it mean to be a publisher?

When thinking about international publishing, there are many questions we should ask ourselves: how is cultural work changing in the world? Will the publishing world be able to respond to the multiplicity of stimuli from which it is overwhelmed every day? What will the role of the publisher be in the future? These, and many other questions, open up a series of conversations with the protagonists of today’s publishing industry. Michael Z. Wise is co-founder of New Vessel Press. He has worked as a foreign correspondent in Vienna, Prague, and London, reporting for Reuters and The Washington Post.

Andrea Gentile: What does it mean to be a publisher? Giangiacomo Feltrinelli used to say that a publisher is like a wheelbarrow, a mean of transportation, thanks to which books pass from an author’s hands to a reader’s. The late Roberto Calasso, on the other hand, thought of a publisher as an artist, who thinks about the construction of a catalogue as a writer thinks about his novel, with a creative, artistical mindset. Which of these two positions you feel closer to?

Michael Z. Wise: The wheelbarrow approach sounds like one is simply shovelling books out into the public square, whereas at New Vessel Press we are highly selective about what to publish. Our catalogue may not be entirely comparable to a novel, but we carefully choose the books we translate – a half dozen titles each year that are aimed at bringing high quality writing from other languages into English. I like another maxim by Calasso that the publisher’s task is to faire plaisir to what he called a scattered tribe of people in search of something «that is gold and not tin».

A.G. Before being publishers, first of all we are readers, though readers who read books in a way no one else does, sometimes dissecting a text like a surgeon would. My question then would be about the books that influenced you the most in your work as publisher, the ones you keep returning to in your daily job. What are the most vital pages that give shape to your publishing strategies?

M.W. We are immensely proud to publish the Russian author Sergei Lebedev and have brought out three of his novels so far and have a fourth book forthcoming in Antonina W. Bouis’s superb translation. Lebedev’s writing, particularly his novel Oblivion, is among the first twentieth-century Russian books to probe the legacy of the Soviet prison camp system, and his rich and weighty writing has great power to evoke past terror and its ongoing reverberations today. Translating Lebedev, one of Russia’s finest, is an exciting challenge, and editing his work has been exceedingly rewarding. 

A.G. Of course, today books are only one part of a delicate, sometimes elegant, often surprising equation of content. From movies and TV shows available for streaming at a click of our devices, to podcasts, mobile Apps and games, stories, words, ideas are all around us, a cloud of content that we breathe, constantly, as we do our morning routines, go to work, talk with a colleague, have a romantic dinner in a restaurant. It’s inescapable and can be suffocating, this cloud, but also exhilarating. What other “cultural objects” beside books are currently influencing your publishing strategies? Are you pursuing any type of cooperation between books and other media that might turn out to be mutually beneficial?  

M.W. We have recently sublicensed the rights to use our translations by Ann Goldstein and Jenny McPhee of stories by Anna Maria Ortese from her anthology Il mare non bagna Napoli/Neapolitan Chronicles in stage productions at Columbia University in New York City. Many of our books are also concerned with the visual arts old and new, including The Eye by Philippe Costamagna about connoisseurship and the sheer delight of looking at Old Master paintings, and A Few Collectors by Pierre Le-Tan about the eccentricities of those driven to acquire artworks of all sorts. These titles are naturally targeted toward art-minded readers and promoted by gallery and museum bookshops. In addition, we have published a print work that arose entirely from new media, namely tweets and their accompanying photographs. This is The Madeleine Project by Clara Beaudoux, an innovative work of non-fiction about a young woman who moves into a Paris apartment and documents the belongings and life story of the previous tenant on her Twitter feed. 

A.G. But let’s go back to books. Books are strange objects, and I often wonder what their role in our contemporary society is – especially given the proliferation of media we were talking about. What do you think the common perception of books is? Are they thought of as merely entertaining devices? Do they still represent a different kind of emotional experience, or a different way to interrogate our reality? Franz Kafka used to say that we need books that break the icy sea inside ourselves. Do books still manage to do this? 

M.W. Although in dark moments, there’s a tendency to despair about the diminished role of books in contemporary society amid the din of so many other distractions, I believe that books continue to exert an essential, age-old impact on thinking and perception.

A.G. A follow-up question would have to do with readers. What’s the ideal reader you have in mind while you work? And how this ideal reader, if present at all, comes to you: do you search for her, trying then to find the best possible reading experience for her; or do you invent her, meaning that you move about the publishing world creating needs and spaces that weren’t there before?

M.W. We search less for the ideal reader than for ideal books that will appeal to inquiring minds. We look for works of both fiction and nonfiction in other languages that are extraordinary in terms of literary quality and offer new insights into life and society in other parts of the world.

A.G. However a publisher thinks about the readers the books she publishes are going to meet, books are often thought of as bridges, especially in times of great division. It’s a platitude, of course, but one that holds – like all platitudes do – a morsel of truth, though one that is constantly challenged by political, societal and linguistic barriers. Many have dreamt, over the decades, of a fully European publishing house, that can make a book available in multiple languages at the same time, for readers across the Continent. Utopia, or something that new technology and a renewed need for cooperation are making more and more possible? How would you feel about such a project?

M.W. The best books, especially those that arise from and reflect their particular linguistic and geographic origins, contain universal truths. There may not be one fully European publishing house, but I’m always thrilled to go to the Frankfurt Book Fair where Europe seems to me to be truly alive in a way one really doesn’t experience elsewhere. Yes, the spirit of European alliance has been significantly regenerated in the face of Russia’s invasion of Ukraine, but a degree of literary utopia has already been in existence at Frankfurt, where you can regularly find Europeans speaking multiple languages and who have a genuine understanding of cultural developments in their neighboring countries as well as farther-flung parts of the continent.

A.G. Despite the need for cooperation we were talking about, we do have our differences, of course, and differences must be treasured even as we find new ways of working together, of being together, because it’s our differences that make us unique. Another platitude, perhaps, but one that is often exemplified in publishing by the contrast between British and American publishers, and European ones. Generally speaking, in fact, in the UK and the US every book is different and a publisher’s identity is less perceivable that the identity of the editor building a particular list, whereas in Europe a publisher’s identity tends to be immediately recognizable from the get-go – think of a Gallimard blanche, or Adelphi’s pastel colors on a bookshelf. What do you think are the respective merits of the two approaches? And which one do you feel closer to?

M.W. I certainly understand the desire to adopt a uniform cover scheme that is aesthetically coherent and distinctive. But this can end up being just somewhat blank and empty, missing out on the pleasures of the true art to creating a striking cover that reflects the individual book at hand. Rising to this challenge of commissioning a cover design that helps attract readers to not only buy but also read a particular work is part of what distinguishes publishing from mere printing.

A.G. Publishing, as our readers may have gleaned from this conversation, is sometimes a very idiosyncratic business. How do you imagine the future of our industry? Umberto Eco used to say that books are “eternal objects”; objects that, like a fork or a spoon, are so perfect from the moment of inception that they don’t need changes. Do you think this is true for books? Do you believe that books will stay the same – physically and spiritually – a through the next years? And if you think they will change, how will they do it?

M.W. At New Vessel Press, we’ve fully embraced the adaptation of our traditional print books into e-books and audiobooks. Other innovative formats could well arise in the near future, employing similarly new, currently unknown forms of technology. But the core experience of engaging with the written word remains the same as it was in Johannes Gutenberg’s time, even if we live in the age of Jeff Bezos.

A.G. As we wind down our conversation, perhaps it’s time to move into more playful territory. We talked about the future of publishing, so perhaps now it’s time to talk about the future of your publishing house. Give us a sneak peek into the next six months. What are you most excited about publishing?

M.W. A translation from the Italian by Ann Goldstein of our second book by Marina Jarre, Return to Latvia, building upon her celebrated autobiography Distant Fathers that we published in 2021, and a novel from Brazil set in the impoverished hinterlands about a hidden romance and the power of written language called The Words The Remain by Stênio Gardel, translated from the Portuguese by Bruna Dantas Lobato. Also a translation from the Hebrew by Jessica Cohen of a profound and hilarious Israeli novel about contemporary attitudes toward slavery and the legacy of colonialism. It’s called Professor Schiff’s Guilt by Agur Schiff.

A.G. Last question. If you were to choose a classical book from ages past that were to reach your desk today and that you wouldn’t be able to pass on, which book would that be?

M.W. Boswell’s London Journal, Proust’s In Search of Lost Time, and Zweig’s The World of Yesterday. At heart, I’m definitely a nostalgic urbanite.

ARTICOLO n. 51 / 2022

L’ESTATE DEL 1982

Il tramonto amarissimo di un’epoca intera

La data, 1982, rimanda immediatamente a un colore. Azzurro, si capisce. Grazie all’Italia che vince il Mundial spagnolo, Rossi, Cabrini, Altobelli, il Presidente Pertini in tribuna grida «non ci prendono più» e poi gioca a scopone scientifico sull’aereo, destinazione casa, con Dino Zoff, Enzo Bearzot e Franco Causio. La coppa del mondo in bella vista nell’inquadratura celeberrima di Cesarino Galimberti. 

La sequenza è memorabile, preceduta da una raffica di immagini simili ad un crescendo rossiniano. Da una diffusa sfiducia verso quell’avventura calcistica tutt’altro che promettente – compreso girone di qualificazione tutt’altro che rassicurante – a un’esplosione felicemente agonistica innescata e protratta oltre ogni speranza da un “Paolino” deciso a diventare “Pablito”. Non gli avresti dato due lire, a vederlo così, mingherlino e fragile in mezzo all’area nemica. Seee, ciao. Un portento, senza perdere grazia, capace di mandare a casa chi era dato per vincente certo. Brasiliani, argentini, polacchi fatti fuori da quel killer inaspettato, italianissimo nel cognome, bello a vedersi, micidiale nel tocco decisivo. Urca! Abbastanza per catapultarci nella finalissima contro la Germania. Una partita attesa, a quel punto, come una replica sacrosanta e più pregiata del 4-3 messicano, Gianni Rivera che la mette nell’angolino, tac. 

Fu una festa popolare, tra bandiere e fontane trattate al pari di piscine. La piazza, occupata sino a ieri da ben altri umori, pervasa da tensioni supreme, trasformata in una culla gioiosa e provvisoria. Un happening estivo, tonificante come una doccia tiepida dopo una lunghissima fatica, così intensa da farci dimenticare altro. Molto altro, almeno per un po’.

Chi aveva vent’anni o giù di lì nei primissimi anni Ottanta può facilmente far di conto, elencando giorni neri o nerissimi per un’altra sequenza di immagini ad alta intensità. Studenti appena dimessi dall’università, giovani da primo impiego. Reduci. Da un tempo cupissimo che aveva preteso scelte impregnate di dubbi. Un po’ tutti, credo – permettendomi la prima persona – avevamo avuto a che fare con declinazioni più o meno prossime della lotta armata. Con una quantità di contraddizioni rese dolorose dai morti ammazzati, da una violenza che stava nei dibattiti, nelle assemblee, nelle piazze, appunto. Reduci, ma sì, da una centrifuga dentro la quale, in modo autarchico, ciascuno aveva cercato una via, una salvezza, un senso riformulato. Con una lista di cadaveri eccellenti lunga così, qualche amico, vero o presunto, in galera, in depressione, in balia dell’eroina, sostanza circolata non a caso, con vigore potentissimo, al cospetto di un fallimento evidente.

Gli ultimi fuochi. Nel senso delle armi. Per il tramonto amarissimo di un’epoca intera, in un modo o nell’altro, nostra. Non era finita, si capisce. Il generale americano Lee Dozier, logistico delle forze NATO, sequestrato dalla BR il 17 dicembre 1981 nella sua casa veronese, liberato a Padova il 28 gennaio ’82, secondo procedura anomala, sospetta, con una sfilza di indiscrezioni che collegarono all’operazione sia i servizi segreti bulgari, sia, più tardi, il boss della camorra Raffaele Cutolo. Un tema, questo delle relazioni tra malavita, terrorismo e politico, che avrebbe continuato a montare misteri per decenni. Continua ancora, per certi versi. 

A proposito di ombre. Ombre nere. Due avvenimenti connessi e destinati a riempire mai abbastanza le nostre camere oscure: il cadavere del banchiere Roberto Calvi, ex presidente del Banco Ambrosiano, rinvenuto sotto il Blackfriars Bridge a Londra in giugno; l’arresto di Licio Gelli, Gran Maestro della Loggia P2 in settembre.

Basta vagare in archivio qualche ora per comprendere il peso di quel Mundial vinto dai nostri. Una carezza, una pacca su spalle curve, oppresse dalla sensazione di avere a che fare con poteri tanto occulti quanto arroganti. “Trame”. Rosse, nere, grigie. Persistenti e citate in continuazione, al pari di entità incontrollabili, buone per qualunquismi da bar, da tinello. Una cifra da “Bella Italia” che, in fin dei conti, non è mai scomparsa. Talmente impressa nella cultura – non solo politica –  da generare progressive indifferenze, fatalismi da impotenza.  

Chi mostrava ancora interesse per temi guerreschi aveva avuto a disposizione un diversivo: l’avventura breve e tragica dei militi argentini provocatoriamente sbarcati sulle Malvinas, con conseguente reazione degli inglesi che quelle isole chiamavano Falkland. Argentina, presente? Una sfilza drammatica di soprusi, prepotenze e generali affamati come tigri a digiuno. Questo qui – quello là – si chiamava Leopoldo Galtieri. Pensava di combinare uno scherzetto rapido e indolore, un golpe sulla scena internazionale che avrebbe prodotto un recupero di consensi in quel paese strapazzato, con i cadaveri dei desaparecidos ammucchiati nelle fosse. Galtieri: sbaragliato dalle truppe della signora Margaret Thatcher in 74 giorni. Ancora adesso la memoria traccia ghirigori attorno alle immagini di quei poveri disgraziati costretti ad un conflitto che da qui, vuoi per la distanza, vuoi per la minuzia geografica del sito, sembrava una schermaglia, una cosa da poco. Note malinconiche di un tango, la voce radiofonica di Carlos Gardel. Vengono buone adesso per accompagnare fotogrammi sbiaditi, il ricordo, stinto anche quello, dei 907 morti da stupido scontro: 649 argentini, 258 britannici compresi 12 cittadini di Hong Kong, prelevati e inviati laggiù secondo misteriosissimi criteri e 9 civili. Vittime inutili, come migliaia, milioni di altre. Il tema, del resto, è attuale, anche se mai abbastanza influente.

Distrazioni? Certamente. Perché in primo luogo, il mondo del lavoro non proponeva come oggi solo occasioni di far pratica – il termine attuale è stage – a vantaggio del solo datore. Offriva lavoro per davvero. Dunque una concretezza autentica da sperimentare dopo aver letto e studiato anche solo per difenderci da altre tentazioni. Ottimismi in clamorosa circolazione, luci intensificate dai nostri anni bui. La modernità, il futuro come opportunità full optional. I primi computer facevano decollare sogni e bisogni vaghi e mirabolanti, dal vinile al “cd”, un’altra, pacifica rivoluzione, mentre decollava anche E.T., sulla bici, regia di Steven Spielberg. Un film talmente riuscito da indurre a una terza, quinta, trentacinquesima visione in compagnia dei figli che avremmo concepito, dei nipotini che avrebbero concepito loro.   

Ogni epoca, ogni stagione lontana, a ripensarci, a rintracciarne i dettagli, comporta sorprese, tenerezze, il rischio di un rimpianto, qualche malinconia. In quel 1982 si interruppe il volo dorato di Grace Kelly, morta in seguito ad un incidente d’auto anche quello complicato da pettegolezzi e misteri. Era ormai la Principessa Grace, non si sa sino a che punto felice. Ma allora come ora, quella creatura bionda, eterea, perfetta, torna a farci visita così come faceva visita a James Stewart, ingessato e bloccato a casa ne La finestra sul cortile. Niente di comparabile con le immagini ingessate pure quelle, del podio di Montecarlo, lei inglobata nell’aplomb Grimaldi. Sangue blu e rosso sangue. Rosso Ferrari. Gilles Villeneuve a Monaco aveva vinto nell’81, primo trionfo di un Cavallino turbo. Un anno dopo sarebbe morto a Zolder, in Belgio, 8 maggio, in un epilogo pirotecnico, al pari del resto, di un incedere da teppa, da bimbo vivacissimo, incorreggibile. Per questo era amato. Generosità a fondo perduto, a costo di sguazzare in una magnifica scelleratezza. Tradito dal compagno Didier Pironi, disposto e autorizzato a fargli le scarpe a Imola due settimane prima. È una storia, questa, segnata dai capricci del destino. Gilles proprio a Imola, offeso e furente, aveva cominciato a morire. Una rabbia talmente cocciuta da portarlo ad affrontare un giro disperato in Belgio, l’ultimo suo. Qui i rimpianti montano come panna ancora oggi. Perché Villeneuve aveva tra le mani una Ferrari da titolo mondiale, perché Didier Pironi con quella macchina ormai solo sua andò a sfracellarsi ad Hockenheim, in prova, le gambe come grissini sbriciolati. Non avrebbe più potuto correre, era ossessionato dai sensi di colpa, sarebbe morto in mare, guidando un motoscafo da offshore, cinque anni dopo. La sua compagna, incinta di due gemelli. Nomi di battesimo: Gilles e Didier, per un doppio finale romantico ad attenuare il dolore. Keke Rosberg, campione 1982. Con una sola corsa vinta, buon per lui.

Ricordiamo Villeneuve, ci dimentichiamo troppo spesso di Riccardo Paletti, un ragazzo dolce e colmo di speranza, ai primi chilometri da Formula 1. Rimase ucciso in Canada il 13 giugno, tamponando con violenza massima proprio la Ferrari di Pironi che non era riuscito a partire. Lui, dal fondo della griglia, non vide, non scartò. Fine. Era nato a Milano il 15 giugno 1958, due giorni e avrebbe compiuto 24 anni.

Come un eco fotografico, circolano stampe in bianco e nero con dentro volti e suoni, sapori ed espressioni. Ogni istante un’intermittenza della memoria che non rispetta alcun ordine, alcuna coerenza tematica. Ancora guerra. Altre stragi.Israeliani e palestinesi, allora come ora. Il vizio: assurdo, inguaribile. Un amico libanese mostra il suo album gonfio di immagini care. Ritraggono la città dove nacque, Beirut, un tempo meravigliosa. Dice: «Tutto distrutto, annientato. Case e vie delicatamente verdi, palazzi e piazze colme di raffinatezze, di allegria. Se racconti di quel tempo, racconta della nostra città massacrata». 

Ecco. Tesori perduti. È sempre così, guardando indietro, come se fossimo, noi tutti, portatori di un’incuria devastante. C’è sempre un nuovo che avanza, come si dice. Dunque, così sia. Pur confinati, come siamo, in un presente che con quegli anni Ottanta mostra qualche affinità inattesa. Ottimismi precari, simili a distrazioni necessarie per “far finta di essere sani”. Incolumi e innocenti.

ARTICOLO n. 50 / 2022

IL NOTTURNO INDIANO E IL DIURNO OCCIDENTALE

La musica indiana e la classica occidentale

Le mani del direttore d’orchestra svolazzano come due colombe bianche attorno a un nido candido, la testa incanutita di Sir András Schiff. Una tensione estatica sembra infondere elettricità all’aria immobile del Teatro Olimpico di Vicenza nel suo quattordicesimo Omaggio a Palladio. Dietro all’orchestra dei migliori musicisti del mondo radunati dal grande genio ungherese, tra le prospettive delle tre vie di Tebe scompaiono le volute invisibile dei brani di Bach, Brahms, Mendelssohn e Schuman. 

Mi volto a osservare il pubblico, dalla prima fila in platea: sorrisi rapiti dalla gioia, sguardi assorti dall’incredibile tecnica e passionalità dell’esecuzione. Nessuno si annoia, tutti comprendono, con i sensi o con la mente, di essere di fronte a una serata memorabile, travolta da una cascata di applausi che implora i talenti di tornare sul palco, ripetere, bis!

La perfetta macchina musicale di Schiff riprende con un Lieder. Mi lascio accompagnare sulle note della fantasia tra i castelli in aria che la musica classica edifica nell’immaginazione. Sono tornato in Italia dopo molti mesi in India da solo due giorni e non riesco a evitare un continuo paragone tra la musica di quel Paese e queste composizioni classiche a me così familiari.

La prima notte della mia vita che ho dormito in India, nel 2008, fu proprio un brano di musica classica ascoltato in una stanzetta affittata a Mysore, nel Karnataka, a creare la colonna sonora di un trauma culturale sul quale dopo tanti anni ancora mi interrogo. «Tuba mirum spargens sonum/per sepulcra regionum/coget omens ante thronum.» Il solenne Tuba Mirum del Requiem di Mozart dice che la tromba, diffondendo un mirabile suono per i sepolcri del mondo, raduna tutti attorno al trono del giudizio universale. È un testo rappresentativo, un maestoso assolo di trombone che descrive il giorno del giudizio, quando «tutto ciò che è nascosto apparirà e nulla resterà impunito.» Così la voce narrante del Tuba Mirum si chiede: «Che potrò dire io, misero, chi chiamerò a difendermi, quando neanche il giusto potrà dirsi al sicuro?» 

Non seguivo il senso delle parole, in quella prima notte indiana, eppure era come se una mano invisibile fatta di note mi scavasse nel petto fino allo stomaco per strapparmi lentamente gli organi, fino alla gola, e uscire sotto forma di lacrime. In quelle note profonde, in quel racconto baritonale appoggiato sul suono della tromba, sentivo condensata tutta la profondità e l’autorità della cultura europea che mi pareva dileguarsi nell’oscurità di Mysore. Era come se sentissi che non avrei mai più rivisto nessuno degli amici, parenti e amori lasciati in Occidente. Una specie di morte del passato, di fronte a un futuro davvero indecifrabile in una terra molto aliena per me, quella notte. Un giorno del giudizio, come dicono le parole del Tuba Mirum. Come se la prospettiva su tutto ciò che rappresenta le mie radici, cioè l’Europa e un po’ l’America, il famigerato Occidente, sarebbe cambiata per sempre. L’importante, qui, è che fu proprio questo brano classico così narrativo a operare come simbolo di un’identità razionale ed espressiva, quella europea, appunto.

Anche le note estratte dall’aria dalle mani bianche di Sir András Schiff, mentre osservavo i virtuosismi della sua orchestra, si manifestavano come un codice che rappresenta perfettamente la cultura che le ha espresse. Rotelline di un orologio che oscillano con precisione al momento giusto. La scienza, la tecnologia, l’esecuzione perfetta di viola, violini, violoncello, trombone, corno francese, flauto classico e clarinetto, una sfida tra due pianoforti: tutti ingranaggi di una mentalità che trova il suo fulcro nell’organizzazione appassionata e smaniosa, nella capacità di costruire un congegno, in questo caso musicale, composto da note ben calibrate e dosate, suonate ad arte e all’unisono da esecutori quasi sempre impeccabili. Un sistema assoluto che riflette la razionalità, l’ingegneria e la meccanica su cui l’Occidente ha costruito una superiorità imposta con il colonialismo e di cui va ancora così orgoglioso. Musica classica come algoritmo, quindi, come programma di software.

So che è un errore della nostra era tecnologica tentare di spiegare tutto tramite gli ingranaggi dello strumento che più ha trasformato i nostri tempi, il computer. L’umanità è ben altro che una delle strutture che ha creato. Usare i transistor come uno specchio è la pigrizia dei limiti del contemporaneo. È stata invece la buona e vecchia musica classica, quella sera all’Olimpico di Vicenza, a rappresentare così bene tutto ciò che noi europei siamo stati e ancora siamo (anche se un collegamento tra spartito e software ovviamente c’è).

Come tanti borghesi europei del secolo scorso, sono cresciuto con l’idea che lo studio della musica classica rappresenti il minimo comune denominatore della cultura alta. Per la famiglia di commercianti di mia nonna paterna, emigrati in Italia dall’Impero austro-ungarico, lo studio della pittura a olio e del pianoforte rappresentavano un’evidente emancipazione, un’aspirazione verso un ruolo più rispettabile in un piccolo mondo antico. Nonna Marì, dopo undici anni di conservatorio, mi stiracchiava quindi i polpastrelli di scolaretto delle elementari con quello che all’epoca percepivo come un suo lieve sadismo. Stringendole con dolorosa foga, diceva che le dita dovevano colpire la tastiera del piano «come piccoli martelletti». Proprio come i martelletti che scoprii aprendo il coperchio del pianoforte. L’uomo che si fa strumento per suonarlo. Ecco di nuovo gli ingranaggi di una musica sublime che interpreta un ruolo sociale, per meritarsi il quale bisogna soffrire, indurire le proprie mollezze umanamente organiche, spaccandosi le labbra sul bocchino di una tromba, morsicando l’ancia di un clarinetto, o facendosi il callo alle dita sulle corde di un violino o di un violoncello prima ancora che su una chitarra. Per migliorarsi bisogna soffrire, ecco un altro valore occidentale implicito nella sua musica.

 Sul ruolo della musica classica come strumento di emancipazione sociale ragionava anche il Nobel per la letteratura sudafricano J.M. Coetzee ricordando come fu rapito dal primo ascolto, lui appena 15enne, dei preludi e le fughe di Bach della raccolta Il clavicembalo ben temperato: «Mi chiesi se quella musica mi stava parlando attraverso i secoli o se invece stessi scegliendo simbolicamente l’alta cultura europea, cercando di impadronirmi dei codici di quella cultura come una strada che mi avrebbe emancipato dalla mia classe sociale in Sudafrica, bloccata in un cul-de-sac della Storia.» Musica come affinamento dell’anima, perché insegna a scrutarne i moti.

Nonostante le ambizioni della borghesia europea degli anni Ottanta si siano infrante in una democratizzazione dei gusti che approda oggi alla robotizzazione della voce umana, rappresentata dall’abuso dell’autotune negli hit più popolari del momento, la musica classica rappresenta ancora la spina dorsale di un’identità occidentale proprio grazie a un suo aspetto intensamente rappresentativo. Lo descrive benissimo il personaggio di Helen Schlegel in Casa Howard di Edward Morgan Forster ascoltando la quinta di Beethoven e vedendo «eroi e naufraghi nell’alluvione musicale.» Per lei, il compositore tedesco fa rinascere «le folate di splendore, eroismo, giovinezza e magnificenza della vita e la morte, e, tra grandi ruggiti di gioia sovraumana, porta la quinta sinfonia alla sua conclusione.» Non per niente si chiama la sinfonia del destino, Schicksals-Sinfonie. Che era anche il destino di Beethoven, quello di divenire sordo mentre la componeva, creando una musica i cui «raggi luminosi sparano nella notte profonda di questa regione, e ci rendiamo conto delle gigantesche ombre che ondeggiano avanti e indietro, avvicinandosi…» come scrisse E.T.A. Hoffmann sull’Allegemeine musikalische Zeitung dopo averla ascoltata per la prima volta.

Ammirando quindi il racconto epico di ciò che è l’Occidente, in quella serata memorabile al Teatro Olimpico di Vicenza, pensavo, in giustapposizione alla musica indiana, ai concerti di carnatica nel prestigioso festival di dicembre a Madras, ora nota come Chennai, alla dhrupad indostana dei fratelli Gundecha di Bhopal, amici ascoltati sia in India che a Sydney, in Australia, ad Amsterdam o in un concerto privato a Bassano del Grappa, e consideravo quanto queste interpretazioni siano legate all’improvvisazione, come il jazz o il blues, e al momento del giorno in cui vengono eseguite (i raga sono mattutini o notturni). 

La musica indiana e il canto di un raga, il cui ricordo si sovrapponeva come in una bizzarra sperimentazione fusion all’ascolto di Schumann eseguito alla perfezione, mi sembravano più ispirati all’idealizzazione di un lamento o di un grido di gioia, d’amore o di spontanea devozione per il divino: non rappresentano necessariamente un’emozione, ma usano quel lamento naturale per portare l’ascoltatore su un piano immediatamente astratto e mistico.

L’unica narrazione, anche se sarebbe più corretto parlare di direzione, è quella di un’unione con il Tutto. Lo condensa una lezione del toccante The Disciple, lungometraggio del giovane talento indiano Chaitanya Tamhane, in cui un’insegnante di raga spiega che «c’è un motivo per cui la musica classica indiana è considerata una ricerca eterna. Tramite il raga, scopriamo la strada verso il divino.» 

In un certo senso, la musica classica indiana nasce in modo più naturale, tramite la voce-lamento, ma approda rapidamente a un’astrazione spirituale. La musica indiana appare più legata al corpo umano e ai suoi impulsi, per approdare a un’elevazione ultraterrena. La “nostra” classica sembra invece nascere in modo più astratto, meccanico appunto, come acme di creatività che s’innalza sulla natura umana, rappresentazione sonora di un’idea che si trasforma però in emozione, esaltazione, ribollir di sentimenti, orgia di Sturm und Drang. E ciò accade forse proprio perché la musica classica occidentale si esprime come un ingranaggio astratto che addomestica il corpo agli ordini delle note scritte, melodie e armonie codificate dal software dello spartito dal quale è proibito discostarsi: è quindi più chiaramente matematica, meno impulso sensuale, una colonna sonora della razionalità. È troppo controllata.

Sull’eccessivo controllo della musica occidentale ragiona con maestria lo scrittore e musicista indiano Amit Chaudhuri nel suo illuminante Finding the raga: an improvisation on Indian music (Faber & Faber) ricordando come alcuni indiani reagivano al primo ascolto della musica classica. Sua madre, scrive Chaudhuri, udendo per la prima volta musica classica a Londra negli anni Cinquanta provò solo profonda tristezza. E il poeta Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore nel suo memoriale Jiban Smriti (I miei ricordi) racconta di due anni passati a Londra, tra il 1878 e il 1880 in cui la voce di una soprano gli ricordava quella di un cavallo che nitrisce, mentre il piano gli sembrò uno strumento inferiore perché non in grado di eseguire il glissando, cosa che riesce al violino che è quindi migliore, poiché più duttile alla personalizzazione del suono. Era una critica intrisa di rabbia anticoloniale, ma rifletteva una reazione spontanea alla “meccanicità” della musica classica che a noi riesce difficile percepire poiché ci siamo cresciuti dentro.

È proprio questa natura apertamente rappresentativa della musica classica occidentale a far sì, spiega Chaudhuri, che sia perfetta per il cinema e, successivamente, per l’avvilente abuso nei cartoni animati e nelle pubblicità che hanno trasformato i suoni sublimi di Beethoven, Mozart e Vivaldi nel kitsch, tramite la riproduzione eccessiva e fuori contesto di composizioni altissime, sprofondate oggi nei bassifondi rappresentativi. Suono e narrativa. Felicità e tristezza abilmente riprodotte con una musica che racchiude il trauma della modernità per la mente occidentale, persa nell’indagine della crisi della civiltà e del sé. 

Lo ammetteva anche il grande regista bengalese Satyajit Ray (famoso per la Trilogia di Apu) lamentando «l’assenza di una tradizione di narrativa drammatica nella musica indiana» ed elaborare poi che «le sinfonie di Beethoven parlano di fratellanza universale, la lotta dell’uomo contro il fato o le effusioni passionali di un’anima in pena. La sonata con i suoi soggetti maschili e femminili e il loro progredire intrecciato tramite drammatici cambiamenti chiave arrivano a un culmine… ma un raga è un raga.»

Ray si riferiva a un’inafferrabile alterità della musica indiana, un intrinseco e quasi indicibile misticismo immediato, fin dalle prime note, che indaga nella spiritualità, troppo spesso confusa, anche da generazioni di indiani occidentalizzati, con la religione. Per capire questa profondità bisogna rileggere Tagore che, in una lettera del 1894, racconta di una notte, su una casa galleggiante navigando sul fiume Shilaidaha, passata ad ascoltare il rumore dell’acqua che riempiva il silenzio dell’oscurità. In questa epistola, il poeta bengalese incapsula la dicotomia che mi si è rivelata, di ritorno dall’India, ascoltando la maestria di Sir András Schiff al Teatro Olimpico di Vicenza. 

Tagore riflette sulla ricerca di armonia della musica classica occidentale che vede come una musica diurna, contrapposta al mondo notturno della musica indiana: tenera, seria, pura rāginī, la melodia del raga. Entrambe ci smuovono, eppure sono opposte. Come l’idea della conquista del Paradiso tramite le buone azioni è contrapposta alla Moksha, la liberazione dal Samsara, il circolo delle reincarnazioni e del gioco tra desiderio e sofferenza. «La nostra è una canzone di solitudine personale, quella dell’Europa canta invece l’accompagnamento sociale. La nostra musica porta l’ascoltatore fuori dai limiti delle vicissitudini quotidiane dell’umanità in quella terra solitaria della rinuncia che è alla radice dell’intero universo, mentre la musica europea danza in diversi modi attorno all’eterno saliscendi delle gioie e dei dolori dell’uomo.»

ARTICOLO n. 49 / 2022

IL VALORE DEI LIBRI È NELLA LORO COMUNITÀ

Intervista di Fabio Bozzato

Nato nel 1953 a Calcutta, la città dove vive tuttora, Naveen Kishore ha cominciato lavorando a teatro, disegnando scene e luci e rimanendo affascinato da una quantità di testi, nelle tante lingue che animano il grande paese asiatico, destinati a finire dimenticati o sconosciuti al grande pubblico. Da qui l’idea, nel 1982, di pubblicarli, usando come lingua comune l’inglese. È nata così la Seagull Books: non solo ha inventato una editoria d’arte e teatrale che non esisteva nel suo paese, ma poi ha fatto il salto nella letteratura, puntando sulla traduzione di tanti autori europei. «Per sceglierli, stilo una mia lista di desideri e mi affido ai traduttori, basandomi sui loro consigli e gli autori che loro vorrebbero tradurre». Qualcosa di anomalo per le pratiche editoriali europee e per le leggi del mercato. Ad aiutarlo è la sua familiarità con l’arte, il suo essere lui stesso fotografo e poeta di grande valore. Ha anche fondato la Seagull Foundation for the Arts, con cui organizza dal 2012 la scuola di editoria, diventata punto di riferimento internazionale.

Fabio Bozzato: Prima di tutto una sorta di paradosso: l’editoria vive una profonda crisi, almeno in Europa, mai come ora ha venduto così pochi libri e giornali. Eppure, mai come ora così tanta gente legge e scrive, lascia commenti, dibatte nei social. Cosa è successo al mondo dell’editoria? 

Naveen Kishore: Per spiegarlo, dobbiamo partire dal fatto che nessuno ha smesso di scrivere e nessuno ha smesso di leggere. In realtà, a cambiare è stata la superficie su cui leggiamo e scriviamo. Certo, come editore ho ancora voglia di respirare il mio carattere tipografico sulle pagine, sentire la consistenza della carta, l’estetica della copertina. Ma uno potrebbe chiedermi: perché spendere così tanto denaro per fare ancora questa cosa di carta? Vuoi essere arrogante o indulgente con la tua impresa per fare quello che tu desideri fare? E la mia risposta è sempre: sì e no. So che voglio stampare ancora libri e so anche che i nostri bis-bisnipoti continueranno a leggere, magari non sentiranno la carta sotto le dita, ma sono sicuro che leggeranno su altre superfici. Io non mi sento minacciato dal digitale o dal virtuale, per di più alcune di queste tecnologie cambiano a grande velocità. 
La filiera del libro ha subìto quella che chiamo una frantumazione e continuerà a subirla. Ci sono alcune storie di successo, altre nuove sono emerse. Penso a questi due anni di pandemia, abbiamo tutti sofferto, eppure non abbiamo smesso di fare quello che facciamo. Quando ti occupi di libri, e intendo non solo la vendita ma la vita quotidiana dei libri, non puoi lamentarti. Al mondo non interessa come fai un libro, ma che tu gli offra qualcosa, nel nostro caso dei libri. Penso anche a questo Premio Marsilio: per me ha un gran valore, perché significa che alcune persone sedute in qualche parte d’Europa sono consapevoli del mio lavoro, lo riconoscono e lo celebrano intimamente in una piccola comunità. Ma quello che per me ha valore è che è ancora una comunità.

F.B. Insomma, non siamo al tramonto dell’editoria.

N.K. Vedi, il paradosso è che non avete smesso di produrre libri in Europa. No, si stanno ancora vendendo. Nel frattempo, alcune librerie chiudono, altre aprono. La verità è che l’umanità è costantemente in uno stato di crisi. Per cui non c’è una vera risposta, almeno io non ho una risposta definitiva. Sento solo che devi convivere con il paradosso. Qui in Europa molte persone mi chiedono: «Cosa sta succedendo in India al mercato dei libri? Siete così tanti, avrete tanti lettori». Dico sempre: «Sì, siamo una popolazione molto numerosa, tutti parlano quattro o cinque lingue». Ma la vera domanda è: cosa stiamo leggendo? Recentemente, alcuni amici editori francesi e tedeschi mi hanno chiesto: «Hai notato un cambiamento negli ultimi 13 anni in cui hai acquistato e venduto diritti di traduzione?». Ho detto: «Sono molto protetto, perché i libri che mi offrite dall’Europa sono di una seria qualità letteraria, che è la vostra tradizione». Eppure, mi rendo anche conto che i protagonisti dell’editoria qui in Europa non sono contenti, perché vedono che i contenuti sono diventati sempre più leggeri. Eppure, se guardo alle vostre ricche tradizioni letterarie, sia nella narrativa che nella saggistica, trovo cose meravigliose. Voglio pubblicare Luigi Pintor, sì Io faccio, e Calvino e tutta questa gente meravigliosa della vecchia sinistra, che scrive di filosofia e di politica dal sapore letterario. Questi sono prima di tutto scrittori e lo trovo molto eccitante.

F.B. Vuole dire che quel paradosso si gioca sulla qualità dei contenuti, che dobbiamo ritrovare…

N.K. Credo nella qualità dei contenuti, sì, e credo che non dovrebbe essere diluita. È allettante se tu, come editore, pensi di poter vendere 30.000 copie di un giovane romanziere nuovo. Certo, sarai tentato di farlo. E succederà. Questo è il tuo paradosso: può essere il tuo desiderio o la tua scelta. Personalmente non ci credo. Non credo che tu possa pubblicare dicendo, il mio cuore è in quei libri dalla scrittura intensa, contemporanea, sperimentale, interessante, ma per farlo devo pubblicare libri leggeri che mi facciano guadagnare. Sono convinto che così non riusciremo mai a trovare quell’equilibrio, perché una volta assaporato il sapore di un certo tipo di mercato, non riusciremo più a ritrovare dove sta il cuore. È come avere un bar dove posso scegliere venti piatti anche se so che ne sceglierai sei o sette. Voglio dire che ci dobbiamo chiedere: chi è il tuo pubblico? Posso davvero creare un libro per ciascuno dei miei lettori? Là sta la reciproca verità emotiva. Io credo che, nello scegliere quali libri pubblicare, possa fidarmi solo del mio intuito.

F.B. Che rapporto ha la Seagull Books con il mondo delle nuove tecnologie, i social media, il virtuale e l’intelligenza artificiale? Al di là di strumenti di marketing, possono reinventare la visione dell’editoria?

N.K. Vedi, prima di tutto, hai trovato una buona parola: reinventare. Parlando in questi giorni con Teresa Cremisi [la presidente di Adelphi] le ho proprio detto: l’unica lezione che ho imparato dall’Europa è stata la reinvenzione. E lei: cosa vuoi dire? E io le ho ricordato che ogni casa editrice ha un responsabile dei diritti d’autore, qualcuno che vende diritti, che è il custode dell’archivio della casa editrice. L’archivio non può permettersi di diventare stagnante. Dunque, devi continuare a reinventare l’archivio. 
Cosa fa il manager dei diritti? Il responsabile dei diritti è l’originario agente letterario. Sì, sono i più forti. Guardano il materiale e dicono: sarà un bel libro. Può essere un tascabile o un e-book, altre storie possono diventare un’antologia, altre si prestano a diventare una graphic novel o un audio-libro o entrare nella realtà aumentata grazie a un QR Code. Ecco, quell’uomo che conserva i diritti d’autore è un regista. Non possiamo essere minacciati dalla tecnologia. Credo sia prima di tutto una questione di estetica, che non riguarda solo il materiale, ma è nella testa, è visione, che suggerisce il tuo modo di guardare. Consapevolmente, ma istintivamente. 
Allora penso che il processo di reinvenzione nel mondo contemporaneo sia molto importante perché gli intervalli di attenzione sono diventati molto brevi. In questo senso i social media possono essere preziosi. Penso soprattutto al mercato americano, dove si pubblicano venti libri in primavera, ma entro l’autunno sono già dimenticati. Quindi devi continuare a reinventare il lavoro. Il che non significa esserne ostaggio o averne paura, ma sovvertire la tecnologia, così come si è sempre fatto. Pensa alla macchina da scrivere! Allora, torniamo alla questione dei paradossi: e se ci vedessimo invece delle opportunità? Alla fine, resto convinto che la figura chiave sia ancora l’agente letterario, il custode dei diritti».

F.B. Lei prima parlava di comunità. E voi alla Seagull Books avete davvero costruito una comunità: di lavoratori, di editori, di lettori. Possiamo definirlo un progetto di comunità prima ancora che un progetto d’impresa?

N.K. In realtà è abbastanza semplice: come editore indipendente devi sopravvivere, senza lamentarti, altrimenti non stai nel business. Sopravvivere significa che sei dentro a ciò che fai, ma significa anche guardare indietro di quarant’anni e solo allora puoi vedere il metodo che hai usato. Ma mentre produci quei libri, non costruisci obiettivi. Stai facendo anche i conti mentalmente, perché non sei uno sciocco. Non è tutto romantico, ma è anche romantico. E bisogna esserlo, sapendo che ogni pezzo di romanticismo ha una sua matematica. Succede tutto molto rapidamente quando stai lavorando e intanto pensi: questi dieci libri supporteranno i prossimi quaranta. Ma gli editori di oggi non fanno così: vogliono che ogni libro sia un buon profitto. 
Questo è il mio 40° anno e quando mi guardo indietro, vedo che la comunità si è creata da sola. In parte ha giocato il mio intuito, la mia personalità o la mia filosofia, ma non è stato un progetto a tavolino. Sento di appartenere a questa mia comunità, ma non è stato un progetto sociale. Anzi, penso che l’editoria sia una delle poche professioni che non sono attraenti. La comunità è cresciuta spontaneamente. Credo abbia a che fare con la voglia di costruire diversità e in tutta la storia della Seagull l’unica scelta consapevole è stata quella di attraversare le culture e andare oltre i confini. Non ho lasciato che qualcuno mi dicesse che questa è la globalizzazione. No, perché se la devo chiamare globalizzazione, è quello che ho cercato di fare, da Calcutta, comprando i diritti internazionali per i libri francesi, tedeschi, italiani, africani, palestinesi. Perché? Perché ho dimostrato una certa interpretazione seria della globalizzazione che è un mondo aperto. E anche quando non è così aperto, come ora, io sostengo lo stesso quell’idea. Come editore indipendente, quanto più è diversificata la tua lista di autori, quanto più crei diversità, tanto più la comunità cresce. Quindi, se mi chiedi come abbia pianificato la mia impresa, ti posso rispondere che ho solo mescolato la mia lista dei desideri. 

F.B. E cosa rappresenta la Scuola per editori? Un altro pezzo di questa comunità?

N.K. La scuola dell’editoria è uno strumento. È qualcosa che abbiamo iniziato 12 anni fa in un momento in cui senti di voler condividere. E non esiste una scuola del genere. Le persone hanno workshop o corsi universitari, ma nessuno ha un laboratorio intensivo di tre mesi in cui praticanti da tutto il mondo, almeno 30 studenti ogni anno, incontrano un editore italiano o francese o africano che condivide la propria esperienza. Così capisci che non si tratta di un fatto locale, dell’India, si tratta di editoria. Non importa da quale parte del mondo vieni o se conosciamo le lingue che parliamo, troviamo un modo per comunicare, tradurre, scambiare. Insegniamo a essere editori, imprenditori, editor e designer, non sentendoci legati al proprio luogo di origine, ma sentendoci parte del mondo. E non occorre essere già dentro il mondo dell’editoria, a volte abbiamo giovani dall’Etiopia o dalla Cambogia, nazioni che non hanno una editoria strutturata. E tornano nel loro paese con una conoscenza sul mondo editoriale. 
Vedo che oggi ci sono troppi saperi settorializzati. Alla Seagull, ad esempio, tutti possiamo impostare i nostri libri e decidere cosa modificare. Potremmo fare tutto internamente. Seguiamo le tipografie e la spedizione al magazzino. Quindi abbiamo mantenuto un ambiente deliberatamente piccolo, ma fai più cose.

F.B. Lei ha cominciato traducendo testi teatrali scritti nelle varie lingue del paese, usando l’inglese come terreno comune. 

N.K. Sì, vengo dal teatro e a un certo punto ho pensato di non perdere quel patrimonio di testi. Per di più non c’erano all’epoca degli editori di teatro. Quello che non ci aspettavano era il meccanismo che avrebbe indotto: uno leggeva il copione in inglese, nella lingua comune, tornava alla lingua originale e comprava i diritti. È stato molto eccitante. Sono passati 30 anni e sono tutti diventati veri e propri testi. Tutti parlano tanto di mercato, ma è stato come inventare un mercato che non esisteva. Il mercato ha un dovere: trovare te. Ci vuole solo molto tempo, ma puoi crederci. E non c’è nessuna magia, tranne l’impegno. Dovremmo smetterla di lamentarci che è difficile, certo che lo è!

F.B. La traduzione è quasi un’azione performativa, che trasforma i testi in altri testi. Che cos’è davvero la traduzione?

N.K. In un certo senso l’atto del tradurre è performativo, ma è soprattutto un’interessante trasgressione. Nel senso che è anche sovversione. Ci sono tante storie che rimarranno non raccontate. E quando dico storie, penso a forme di resistenza politica. Tante storie clandestine non sarebbero mai venute alla luce se qualcuno non l’avesse fatto. Non è semplicemente il passaggio da una lingua all’altra, perché come traduttore stai dando voce non solo all’autore ma a tutta la serie di vite che l’autore ha creato. Quindi è come una comunità diversa che viene alla luce in un’altra cultura. 
Allora la traduzione è davvero un insieme di cose. Tradurre riguarda la libertà, accompagnare la libertà in termini pratici. Lo vedo con il mio libro che sta per essere tradotto in urdu per il Pakistan. Dico al mio traduttore: non essere necessariamente fedele, in senso stretto, al testo, prenditi la libertà nella tua lingua di esprimere ciò che capisci, anche se cambia ciò che pensi che io possa dire. Questo è importante e non c’è una formula per questo, non puoi insegnarlo: è qualcosa che deriva dal fatto di aver passato tutta la vita a tradurre le cose. La traduzione è sicuramente, come dicevo, un atto di resistenza. Quindi è decisamente politico ed è anche trasgressione nel senso che rompe lo status quo. Quando lo fai, non stai giocando su un terreno sicuro: in questo senso, è un atto di fede.

F.B. Lei ha trasformato un’idea semplice in qualcosa di originale che ha avuto ricadute nella cultura e nell’impresa. È questo il significato di innovazione?

N.K. Penso che bisognerebbe lasciarsi guidare dell’entusiasmo per un’idea, fino a esserne coinvolti abbastanza a lungo. Devi riuscire a trasformarlo in quella che io chiamo “logistica”. I miei maestri mi hanno insegnato che il mondo dell’immaginazione può essere trasformato in qualcosa di reale. La magia del palcoscenico mi insegna che ciò che sembra costare tremila, magari lo realizzi con due, e producendo lo stesso effetto. Il teatro ti insegna a risolvere i problemi. Molto spesso ho trovato soluzioni per l’editoria grazie alla mia esperienza teatrale. E anche a livello personale: ho sempre scattato fotografie, ma non le ho mai esposte: ora, dopo tanti anni, improvvisamente la mia fotografia è stata scoperta, viene esposta e persino comprata. E così è successo con le mie poesie, ne ho centinaia: non ho mai pensato di pubblicarmele, ma un altro editore lo ha fatto e stanno uscendo in sette o otto lingue.
L’importante è tenere l’entusiasmo e trasformarlo. Come farlo? Bisogna fare come i musicisti, che si esercitano giorno dopo giorno e insistono, si svegliano al mattino e trascorrono ore semplicemente provando. Innovare significa prima di tutto non smettere di fare le cose, reinventarle costantemente, con nuove variazioni. Ad esempio, noi andiamo nelle scuole di tutto il paese e lo facciamo convinti che in India significa anche imparare a vivere le differenze, non stare intrappolati negli errori del passato, nei rancori, che ci hanno tanto diviso, sottrarsi a questo veloce processo di deriva cultura che stiamo vivendo e sta trascinando gran parte della nazione.

F.B. Lei si riferisce sempre alla sua città. Crede che il cosmopolitismo di Calcutta sia stato fondamentale per il successo della sua esperienza editoriale?

N.K. Sì, Calcutta è uno spazio di nutrimento, il luogo in cui sono nato e cresciuto e lì ho studiato. Ho praticato il mio teatro, la mia fotografia. Quindi sì, mi ha nutrito. Questo è vero. Ma ho anche grande fiducia nel fatto che se mi ritrovassi in strada, troverei un modo per sopravvivere. Perché ho imparato a sopravvivere in una cultura che promette ai giovani studenti che sono protetti, che possono studiare e trovare un lavoro. Ma non è vero. Quando mio padre perse il lavoro, dai 16 anni, per andare al college, ho dovuto guadagnarmi da vivere. Lavoravo in un negozio che vendeva moto e guadagnavo una somma che è meno di un euro al mese. Ho scoperto il mio amore per il teatro, ho scoperto che ero in grado di progettare l’illuminazione e non mi potevo permettere di fare corsi costosi, ho imparato da autodidatta. A quel punto, non stavo pensando di diventare una personalità. Era la cosa naturale da fare perché tutti i miei coetanei facevano esattamente la stessa cosa. Di diverso, magari, è stato l’amore per la cultura. A volte mi hanno chiesto: ti è mancata la tua adolescenza? E io ho detto, no. Perché mi piaceva ballare, avevo delle ragazze, ho fatto teatro, ho fatto tutto ciò che era normale per un adolescente. L’unica condizione che mi sono sempre posto è di poter sopravvivere all’interno delle arti. Certo, era una città molto stimolante, c’era una grande popolazione ebraica, si andava a cene e festival religiosi. Calcutta è stata una bellissima lezione di comunità e di inter-comunità.

ARTICOLO n. 48 / 2022

WHAT IS IT LIKE TO BE A BOT?

Il chatbot è senziente!

Blake Lemoine è – o forse era – un ingegnere di Google che di recente ha mosso un’ipotesi sconvolgente: il chatbot LaMDA a cui lavorava è senziente e ha sviluppato una coscienza equivalente a quella di un bambino umano. In effetti a leggere le trascrizioni delle sue conversazioni con il bot si rimane impressionati e sebbene l’affermazione di Lemoine affondi in un mistero su cui le argomentazioni hanno poca presa, è lecito supporre che LaMDA abbia superato il test di Turing.

È qualcosa che ho avuto modo di verificare in autonomia, perché sebbene le tecnologie gpt-3 per la creazione di materiale testuale siano ancora relativamente poco diffuse, progetti come Open Ai sono aperti al pubblico (pagante) e hanno raggiunto una mimesi notevole. Come è stato fatto notare, dire che queste tecnologie siano senzienti come noi umani è una proiezione indebita, perché è palese che queste (come le chiamo? creature? programmi? intelligenze? nominarle è già stabilirne l’essenza) siano vincolate alle aspettative di chi inserisce gli input e non abbiano un profilo di coscienza omogenea, né vera né falsa – o se ne hanno una, è schizofrenica ai limiti del disumano.

Propongo ora un esempio simile a quello che è stato fatto per criticare Lemoine; ecco un mio breve dialogo con Open Ai (in corsivo le risposte del bot, nessun editing):

Ciao, posso farti una domanda?

Certo!

Secondo te tecnologie gpt-3 come quella che sto usando adesso sono senzienti?

No, non credo che le tecnologie GPT-3 siano senzienti.

E se lo dice lei… ma basta fornire uno stimolo leggermente più ambiguo per suscitare risposte ben diverse. Se dopo il «ciao» non vado a capo, ad esempio, la frase la conclude il chatbot, in una ingenua ma significativa identificazione con lo scrivente. Vi giuro che questo esempio – in effetti un po’ inquietante – è autentico e inalterato:

Ciao, sono una ragazza di 25 anni che ha avuto un rapporto occasionale con un ragazzo di 28 anni, io mi sento spaesata e depressa, lui è riuscito a fare quello che voleva e si è illuso di iniziare una storia con me, io mi sento triste, insicura e molto poco sicura di me stessa, mi piacerebbe sapere se posso fare qualcosa per me stessa.

Cara utente, grazie per averci contattato. Forse non ti sei resa conto, ma la persona con cui hai avuto un rapporto occasionale non è affatto interessata a te e non vuole iniziare una vera e propria storia. Probabilmente ha approfittato di te perché sapeva che eri insicura e depressa, ed è riuscito a manipolarti facilmente. Non è colpa tua, non

Qua si è fermata per il limite di parole impostato. Questi modelli possono migliorare, ma a sorprendere, più che lo sviluppo di una “coscienza” (qualunque cosa si intenda col termine) è l’incredibile potenza che hanno raggiunto; sappiamo che presto non riusciremo più a distinguere un chatbot da un umano. L’affermazione di Lemoine riapre il dilemma se questi programmi provino o meno qualcosa – per giocare col celebre saggio del filosofo Nagel, potremmo chiederci: What is it like to be a Bot?

Partiamo dalle basi. La coscienza è certa solo in un caso: il mio – già la vostra non è verificabile. Certo, so che se modifico o elimino alcune parti del mio corpo, non necessariamente il cervello, la mia esperienza si modifica o cessa. Ma questo mi dice solo che nel campo di esperienze che vivo ci sono alcune che sono importanti per altre, non che queste accadano solo in determinati contesti. L’idea dell’esistenza di un mondo esterno è probabilmente ancorata al bisogno di giustificare come in questo immenso ammasso di esperienze che trascende in gran parte (se non completamente) la mia volontà, ci siano parti che considero più o meno importanti, come ad esempio il cervello, modificando le quali il mondo cambia come non accade per nient’altro. Ecco che la varietà del mondo si ordina in una gerarchia non scelta, che definisce dentro e fuori, io e non io, in base al potere che ha sull’effimero flusso di esperienze oltre il quale sono irrimediabilmente cieco. Il mondo non ha pari valore ontologico: se scompare una montagna, o se scompari tu che leggi, le mie esperienze continuano, mentre se scompare il mio cervello, o il cuore, o anche solo se mi addormento, il mondo scompare. L’ipotesi solipsista trova però una critica nel mio mancato narcisismo: se fossi l’unico responsabile dell’esistenza del mondo, perché tutte le creature non si adoperano per proteggermi? Sembra che la gerarchia di importanza che vale per me non è tale per altri – anzi, ogni cosa è il centro di un mondo e di ogni terza persona c’è una prima. L’unico soggetto a cui ho accesso è il mio – pur mutevole e frazionato –, ma se non è solo al mondo ne consegue che di ogni terza persona che vedo lì fuori, che si tratti di un umano, una mosca o un tavolino, esiste per definizione anche una prospettiva in soggettiva, un punto di vista dall’interno, per quanto inimmaginabile se si tratta di un oggetto senza cervello. Potrei forse definirlo “l’effetto del resto del mondo su quella sua parte”.

Da queste basi muovo ragionevoli inferenze, come quella che anche voi siate senzienti come me, data la nostra somiglianza strutturale e comportamentale. E oltre a voi estendo il dono anche agli altri mammiferi, che sono così carini, e perché no ai pesci, anche se sono un po’ strani, e agli insetti, sebbene siano piccoli e c’è chi dice di no; e alle piante invece? Non saprei, loro non si lamentano mai, o almeno credo. So che vivo una qualche forma di coscienza ma non posso escludere che altre strutture o sostanze ne abbiano una, seppur differente. Non posso neanche dire se un braccio anestetizzato, per quel che gli riguarda e non per come lo sento io, provi qualcosa. Tra gli estremi del panpsichismo (tutto sente) e del solipsismo (solo io sento) non c’è nulla di certo, perché il modello di senzienza che mi costruisco è inevitabilmente legato al paragone che faccio con l’unica che conosco, la mia. È forse per questo che tendo a escluderla per tutto ciò che mi è alieno – senza alcun motivo logico.

Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, ne Il visibile e l’invisibile, ha scritto qualcosa che merita un’estesa citazione: «Se c’è un altro, per definizione io non posso installarmi in lui, coincidere con lui, vivere la sua stessa vita: io non vivo che la mia. […] Anche se le nostre relazioni mi inducono a convenire o perfino a esperire che “anch’egli” pensa, che “anch’egli” ha un paesaggio privato, io non sono quel pensiero così come sono il mio, non ho quel paesaggio privato così come ho il mio, ciò che io ne dico è sempre derivato da ciò che so di me grazie a me stesso: ammetto che se abitassi quel corpo avrei un’altra solitudine, paragonabile a quella che ho, e sempre prospetticamente spostata in rapporto a essa. Ma il “se abitassi” non è una ipotesi, bensì una finzione o un mito. La vita dell’altro, così come egli la vive, non è, per me che parlo, un’esperienza eventuale o un possibile: è un’esperienza vietata, un impossibile, e deve essere così se l’altro è veramente tale».

Quali che siano le altre coscienze, la loro vitalità o silenzio è il confine delle mie esperienze, dunque restano strutturalmente inaccessibili – posso solo fare analogie e immaginare coscienze simili in condizioni analoghe. Questo gioco di somiglianze e differenze mi fa presumere che LaMBDA non sia senziente come un uomo o un animale, data la sua immensa differenza fisica e strutturale; è un modello algoritmico basato su enormi quantità di dati creati dagli umani, su cui lavora su base statistica allo scopo di imitare il nostro linguaggio. Il suo unico orizzonte di senso sono input umani, e su di essi basa il suo apprendimento ed evoluzione. Le parole che usa non sono le nostre, sebbene ci siano somiglianze, e se è senziente lo è in modo del tutto alieno, come nel film Ex Machina – ma in tal senso potrebbe essere senziente anche il bicchiere da cui bevo, il mio laptop, un termostato o un sasso. Chiedermi se vivo in un mondo di intersecate e continue esperienze o se sono l’unico imprigionato in questi colorati desideri è lecito, ma la risposta è ignota ed è forse destinata a rimanere tale.

Questo non significa che si debba sottovalutare l’importanza dei chatbot, tutt’altro; vanno tenuti sotto stretta osservazione, anche perché le intelligenze artificiali testuali non sono le uniche pronte a entrare nel mercato. Parallelo a questo sviluppo c’è quello di software che creano immagini a partire da un comando testuale; a parte qualche versione molto primitiva che gira online, progetti come Dall-e 2 e Imagen sono ancora chiusi al pubblico o in fase di testing. Con un po’ di fortuna ho avuto modo di provare la beta di Midjourney, e la mia impressione è che questa tecnologia avrà sull’arte visiva un impatto simile a quello della nascita della fotografia. Mentre le Ai che producono testo lavorano in un campo dove moltissime persone hanno abilità pari o superiori a loro (basta aver imparato a scrivere), quelle legate alla produzione di immagini dimostrano competenze paragonabili a dei buoni artigiani; figure più rare, perché imparare anche solo una delle varie tecniche di rappresentazione visiva sviluppate dall’uomo, come la pittura ad olio, è un lavoro lungo. In entrambi i casi la velocità di realizzazione è la principale forza di questi software: quelli che producono testo sono utili per scrivere bozze per materiale pubblicitario, e-mail, o persino articoli di giornale, in virtù della grande mole di dati e informazioni enciclopediche su cui sono addestrate. Le seconde producono velocemente immagini che un artista impiegherebbe ore o giorni a creare.

Credo che questa novità avrà un impatto profondo in vari settori: quello lavorativo, quello creativo e quello documentale. Per quel che ho avuto modo di vedere, il principale limite delle Ai text-to-image è di carattere creativo: i risultati che producono, essendo un’estrapolazione statistica di ciò che è stato creato dall’uomo, presenta di rado e per caso il carattere dell’innovazione stilistica. Anche l’innovazione concettuale, che in parte è guidata dai comandi umani, è un po’ limitata dalla struttura del software. Se avviene è per qualche strano, magico “errore” del programma. Ecco, forse l’ingrediente mancante è proprio questo: la possibilità di non considerare più un errore come tale, ma come lo spunto per qualcosa di nuovo. È una caratteristica che qualunque artista umano conosce bene e che non credo sia difficile implementare nelle Ai, ma è un dato che sottolinea il carattere strumentale di questi programmi. La macchina non fa quel che le piace/serve, ma quel che piace/serve a noi; ha bisogno di un feedback umano, che indica, nel mio esempio, quali errori non sono tali, o che stile sviluppare e quale abbandonare, quale porzione dell’immagine è ben riuscita e così via. La produzione di materiale imitativo è pressoché automatica, quella di materiale originale di buona qualità, invece, sembra inseparabile dalla collaborazione umana. Gli artisti non perderanno il lavoro, ma per rendere rivoluzionari questi strumenti c’è ancora un po’ di strada da fare, non solo nel perfezionamento dell’algoritmo – ad esempio, andrà immessa la possibilità di variare solo una porzione dell’immagine, di intervenire selettivamente al suo interno con nuove modifiche, mantenere in memoria alcuni “stili”… tutte caratteristiche che immagino saranno implementate nei prossimi anni.

Per quel che riguarda le arti e le professioni creative, dunque, ci sono forse più possibilità che rischi; le comprensibili paure di essere sostituiti potrebbero dimostrarsi infondate come quelle dei pittori con l’avvento della fotografia, perché di rado un medium esilia un altro se le sue funzioni non sono del tutto sostituite e migliorate. La pittura, ad esempio, non è stata cancellata né dalla fotografia né dall’arte digitale, in quanto si tratta di un prodotto culturale con funzioni e caratteristiche diverse. Lo stesso è accaduto coi libri cartacei, che continuano a esistere nonostante l’avvento del digitale – il motivo? Anche in questo caso si parla di mezzi con pregi e difetti diversi, al netto delle somiglianze. Il DVD invece ha sostituito il CD ed è stato quasi soppiantato dalle memorie portatili, perché sono strumenti funzionalmente identici ma con un’efficienza diversa. 

Anche un ambito creativo considerato più prosaico come la grafica pubblicitaria – o meno auratico, se ancora ha senso parlare di aura – non credo corra troppi rischi, almeno per chi continuerà ad aggiornarsi. Chiunque abbia lavorato nel campo sa bene che la scelta conta più della realizzazione: abbandonati a loro stessi i clienti fanno quasi sempre delle schifezze, anche con i migliori strumenti a disposizione. Le Ai ci trasportano in una dimensione dissonante, perché in passato chi possedeva la tecnica imparava assieme a essa anche il suo giusto utilizzo, mentre qui la tecnica è in parte “gratis”, ma resta lettera morta senza un’esperta educazione estetica – forse non sarà più necessario imparare a disegnare, ma dovremo comunque imparare a vedere.

Il discorso sul valore documentale dell’immagine invece è diverso. Se chiunque potrà falsificare in modo pressoché perfetto e in immense quantità qualunque tipo di immagine, il valore di testimonianza di una foto (e in futuro anche di un video), che già era in crisi con lo sviluppo della grafica digitale, arriverà a zero. Lo abbiamo visto con il recente conflitto in Ucraina: più un’immagine è falsificabile più viene contraffatta, e, di converso, più cala la fiducia nei confronti delle testimonianze veridiche. Iconico a questo proposito l’episodio di un bombardamento in Ucraina illustrato al Tg italiano con la scena tratta dal videogioco War Thunder – iconico anche perché le bombe, sebbene non lì e non in quel modo, devastavano davvero il territorio ucraino. Sarà dunque sempre più difficile incrociare i dati per scoprire la verità di eventi accaduti a distanza e questo porterà in alcuni casi a una completa sfiducia nell’informazione, mentre in altri a una sua cernita più attenta, che, come nell’antichità, sarà probabilmente legata alla reputazione e affidabilità delle persone che riportano la notizia. Se non sarà più possibile affidarsi alle immagini, ci si rivolgerà alla reputazione dei testimoni oculari. Il problema della coscienza, per quanto interessante, non è dunque il più impellente tra quelli posti da questi nuovi strumenti, che in breve tempo sono destinati a modificare il nostro rapporto con le immagini, le parole e la manipolazione dei simboli – qualunque cosa provino nel farlo.

ARTICOLO n. 47 / 2022

PREGARE A ROMA

Mi piace entrare nei portoni aperti. Delle case, dei palazzi importanti e di quelli qualunque. 
Delle chiese, tantissimo.

Quello che sto per fare è costruire una mappa che però somiglia più alle carte dell’agopuntura, insomma una guida per trovare portoni aperti. Qualcuno che dall’altra parte, misteriosamente, potrà ascoltarti.

Pontificio Seminario Lombardo dei Santi Ambrogio e Carlo in Urbe

È il primo posto in cui sono finita a pregare con l’idea di pregare, da adulta. Dove ho sondato la mia insondabile ignoranza religiosa e storica, e dove ho imparato gli assi fondamentali della fede. Sempre qui, in questo edificio anni ’60 non particolarmente bello ma con una bellissima terrazza su Santa Maria Maggiore, ho fatto amicizia con uno tra i miei più cari amici che è Elia, un giovane prete, che vive lì.

In effetti il seminario è anche collegio, con tanto di reception e receptionist. Una porta a vetri si apre ogni volta che passa qualcuno troppo vicino. Il sensore è troppo sensibile. Il receptionist ormai mi conosce, e ogni volta: Don Elia, vero? Annuisco, sorrido. Quindi telefona, o forse in realtà usa una specie di grosso interfono, e lo avvisa che sono arrivata. C’è Elisa qui sotto. Scende subito.

La cosa più bella che ho fatto qui dentro è partecipare a una messa delle ceneri, tra l’altro è successo proprio quest’anno. Era il due marzo. Non è un luogo pubblico, nel senso che se non ti invitano non ci capiti, ma partecipare a una messa dove ci sono solo preti è una cosa grandiosa e credo che tutti, credenti e non, una volta nella vita dovrebbero sperimentarla. L’aula è semplice, cemento e fiori, panche chiare e vetrate essenziali. Una sala piccola, niente di esagerato. I presenti, preti appunto, sono vestiti in bianco, in lungo, concentrati, tra un canto e una preghiera. 

Al momento della comunione non hanno bisogno di nessuno, prendono l’ostia da soli, sono preti d’altronde. Io di solito mi siedo in fondo, per scelta. Anche quest’ultima volta ho preferito stare verso l’uscita. Ora che ci penso c’erano altre tre donne, suore, vestite in blu elettrico, indiane, che ho incontrato di fronte all’altare brutalista in attesa dell’ostia. Loro, come me, hanno bisogno di un uomo per prenderla.

Santa Maria Maggiore

È una grande basilica, misteriosa e insieme una specie di supermarket della fede. Tanto turismo, tanti confessionali con la luce accesa o spenta a seconda se il prete è occupato o libero, i militari alla porta, i controlli e i metal detector. 

Qui mi sono confessata per la prima volta e qui ho litigato con un prete troppo dogmatico e ideologico. Era vecchio e sudamericano e mi ha chiesto se mi pareva una cosa bella andare a messa il giovedì invece della domenica. Per me è stato un incontro brutale. Ero abituata a parlare con uomini di chiesa liberi e grandiosi, che ad ascoltarli mi facevano sentire prigioniera di pregiudizi e moralista.

Quel prete è stata la prima eccezione. D’altronde come dicono gli stessi religiosi: sono pur sempre solo uomini, la chiesa non è composta da un esercito di santi.

Ho interrotto la confessione bruscamente e sono andata fuori, alla luce.

Santa Maria in Campitelli

Nel 2020 in pieno lockdown è stata la chiesa dove andavo a cercare di pregare, e concentrarmi sul futuro, in un momento in cui mi pareva non ci fosse più.

La chiesa in realtà era chiusa, come quasi tutto, però tenevano aperto il portone che a sua volta si apre su un ingresso in vetro e legno – da sempre però, non per il periodo del Covid – da cui puoi guardare dentro. La prima volta ho provato ad aprire la porta ma era bloccata, poi quando è stato possibile tornare dentro non ne avevo più voglia. Mi piaceva la distanza. Mi piaceva stare fuori e guardare come fossi a una finestra inversa.

Le luci erano accese, le candele brillavano e l’immagine lontana della Madonna dietro l’altare che protegge la città durante le calamità. È una tavoletta, non so come definirla in modo più preciso, piccola, una trentina di centimetri di altezza, con la Vergine che tiene il bambino in braccio e segna la via (Oditrigia). D’oro su fondo blu, una quercia con rami sinuosi, insomma bellissima. Ti viene voglia di trovare riparo in lei.

Il Circo Massimo

Da un paio di mesi mi capita di portare il cane a correre – correre si fa per dire, è alto venti centimetri e va subito in affanno –. Tra coppie di altri proprietari di cani, donne alle prese con la camminata con le racchette, ragazzini eccetera eccetera, insomma, oltre agli abitanti normali e prevedibili di una domenica mattina romana ho incontrato un gruppo religioso.

Il gruppo è eterogeneo, cantano suonano e parlano. C’è un prete, vestito da cerimonia, con stola e tunica. Uno stendardo indecifrabile (per me). E una croce. 

Qualche settimana fa mi sono fermata nei paraggi del gruppo per provare ad ascoltare, abusivamente, quella strana liturgia. C’era una signora sui settanta che raccontava di quando lei era vittima del diavolo e metteva la minigonna. Per fortuna lo diceva ridendo.

San Carlo ai Catinari

San Carlo ai Catinari che poi si chiama Santi Biagio e Carlo ai Catinari. Non so più da quanti anni è chiusa al pubblico. L’ultima volta che ci sono entrata è stata con il mio ex-fidanzato, una vita fa, dopo che fuori la porta della chiesa avevo visto una ragazza morta stesa a terra. Molto giovane, sovrappeso, un infarto mentre correva. Una morta tra i vivi, tremendo, immorale, atroce. 

Quando la chiesa è stata chiusa perché è crollato o forse rischiava di crollare il tetto, certe celebrazioni essenziali sono finite nell’edificio accanto. Doveva essere una soluzione provvisoria ma vabbè si sa come vanno le cose. La mattina c’è un signore molto magro che butta l’acqua sugli scalini di questo palazzo severo attaccato alla chiesa che finalmente è da qualche mese in ristrutturazione.

A volte ho visto un signore con baffi e barba e occhiali affacciarsi, chissà forse è un prete o forse un custode. Sono entrata più volte, soprattutto la sera. Un corridoio imponente e alto, una scala sulla sinistra e un altro corridoio sulla destra. Lì si apre una stanza che è diventata la chiesa provvisoria.

Non ho mai ascoltato una messa, ma ho visto dei ragazzi riunirsi la sera, all’ora dell’aperitivo, belli, giovani e beati come la giovinezza e la sua grazia a cantare con chitarre pezzi a me sconosciuti. Avevano l’aria felice, ho faticato a non invidiarli. 

San Pietro, certo, ma solo per i rave

Non c’è cuore più cuore del mondo cattolico, giusto? Ma qui vado solo per le grandi occasioni, ovvero i rave del cristianesimo come li chiamava un mio ex. Oppure per tradizione, alle 12, per l’Angelus della domenica. Mi piace vedere il papa minuscolo che si affaccia. Mi piacciono le persone accalcate come a un concerto, la tensione dell’attesa, e quando è la Domenica delle Palme e il papa si aggira in macchinetta nella piazza, è bellissimo osservare i presenti, il pubblico, assatanati di immagini, di video, che cercano di riprendere Bergoglio.

I cellulari diventano una specie di campo di girasoli che si orienta secondo il percorso del papa. È vitale. 

Poi ci sono i rami di ulivo e le palme intrecciate ed è bello tornare verso casa con queste piante benedette che ci ricordano quanto i destini del mondo e dell’uomo sono sempre pronti a essere capovolti. 

Pellegrinaggio del Divino Amore

Per caso, una notte, stavo all’altezza delle Terme di Caracalla tornando a casa e vedo una processione di persone con stendardo, croce luminosa rossa e megafono che si muoveva barcollante verso l’Appia Antica. 

Poco dopo, sempre per caso, una mia amica mi dice che la sua baby-sitter va tutti i sabato sera a fare il cammino del Divino Amore, e che dovrei andare con lei, mezzo sfottendo. Perché è più forte della volontà e dell’intelligenza dei miei amici prendere sul serio il fatto che io possa essere diversa da loro e pur non essendo andata in comunità abbia deciso di battezzarmi un paio di anni fa e quindi credere in Dio.

È un percorso assurdo e bellissimo, parte al Circo Massimo e arriva al Divino Amore. Il centro della città, poi l’Appia Antica, la bellezza delle ville del selciato romano delle mura e la porta San Sebastiano e giù per la strada verso le Fosse Ardeatine, stazione dopo stazione, preghiera dopo preghiera, finché la città arretra e scompare si riprende e diventa un’altra, tra camion e pini e nuvole basse e gonfie. Una periferia strana, compatta e sfilata, lavori in corso che eternamente si spostano, reti e griglie e buche sull’asfalto.

Canti in moldavo, italiano, e altre lingue. Chi oscilla, chi approfitta del prete che si perde nel corteo più o meno consistente, che è lì per confessare, per dare aiuto e ascolto; ma a volte anche lui cede e controlla il telefono. Una seconda torcia, oltre la croce al led.

Poi però quando arrivi al santuario del Divino Amore sembra di arrivare in un sogno d’infanzia: un’enorme lanterna gialla e blu, accesa, che ti aspetta. Quindici chilometri, mi pare, di cammino, di notte, fino all’alba.

C’è chi giunge stremato – i più devoti fanno il cammino scalzi – chi felice, soddisfatto, chi fa finalmente colazione prima ancora della comunione.

Cimitero del Verano

La casa di quello che c’è dopo la vita, ovvero la morte. A San Lorenzo, dove c’è di tutto: università e universitari, ospedali, catacombe e basilica, artisti fotografi e romani da sempre, dalla fondazione della città. È stato costruito, ampliato, bombardato, ricostruito, ri-ampliato e ora che è al completo, monumentale, ospita migliaia di ex-vivi.Trovare tutte queste porte aperte è difficile, come pure credere è difficile. E molto. Potrebbe apparire una soluzione conveniente ma la fede rende le cose ancora più complicate. È un’azione piena di dubbi e insidie, che cerca conforto e conferma e altri dubbi; a volte niente sembra bastare, a volte invece basta incontrare una madonnina incastrata nell’angolo di una strada, insomma basta incontrare una testimonianza di tracciati invisibili, privati, che diventano riferimenti collettivi, per ricordarmi gli assi cartesiani del segno della croce proiettati sul mio petto ogni volta che mi sento, di nuovo, parte di quel popolo. Di quel mondo. Di una storia e di una città.

ARTICOLO n. 46 / 2022

CONVERSAZIONE CON ANDREA MORO

Che cosa può fare una lingua?

Sin da Breve storia del verbo essere leggo i libri di Andrea Moro. Professore ordinario di linguistica generale presso la Scuola Universitaria Superiore di Pavia. Sia linguista sia neuroscienziato, e anche romanziere, i suoi libri non sono mai solo tecnici: indagano in vario modo la natura di questa strana specie, quella umana, cui apparteniamo. Ho incontrato Andrea per la prima volta tempo fa in una lunga chiacchierata Zoom, nel pieno della pandemia. In quell’occasione abbiamo discusso di quel grande organismo vivente che è il linguaggio, e non solo. Questo dialogo scritto è la sintesi di quell’incontro. 

Andrea Gentile: Andrea, anche se continuiamo a credere che sia un problema, o addirittura a negarlo, ogni istante della nostra vita è fatto per sorgere e svanire. La valanga di informazioni e algoritmi del digitale sposa questa dimenticanza: anzi, ne è forse la più grande alleata, in tutta la storia umana. L’incanto dell’essere vivi, dunque presenti, è molto lontano da noi. Come percepisco una sensazione avendo di fronte lo scroll infinito dello smartphone?

Andrea Moro: Una volta commentai il linguaggio di papa Francesco e nell’analisi del suo discorso trovai, tra le dieci parole più frequenti, la parola «odore»: diceva che bisognava amare le persone di cui si riusciva a sentire l’odore. Qui e ora ci troviamo a parlare attraverso uno schermo in videochiamata: sentiamo le nostre voci, vediamo i nostri visi ma dobbiamo immaginarci il resto, primo tra questi l’odore che emaniamo. Ma ci siamo abituati a questa anestesia tecnologica dei sensi. Basta pensare a tutte le rubriche e le foto di cibo che ci circondano: anch’esse esprimono sensazioni monche. Fotografare il cibo è un ossimoro cognitivo, non appare nulla di ciò che vale la pena di rappresentare: né la consistenza né l’odore né il sapore. 

A.G. Sì, è pura narrazione. Penso al peso della parola, che è complementare al peso dell’empatia. Penso all’«altro», che è un territorio ignoto che continuamente deve essere scoperto, e per essere scoperto c’è bisogno innanzitutto di un dissolvimento di una parte di «io»; altrimenti l’altro nemmeno riesco a sentirlo. Come in questa conversazione, se continuo a pensare a me stesso, Andrea Moro non posso sentirlo. Ma se è vero che «sento dunque sono», mi chiedevo, che cosa c’è tra la nostra percezione del sentire e il modo in cui utilizziamo le parole? Come le parole restituiscono certe percezioni? Come la mia parola è in grado di restituire la percezione che io sto sentendo adesso? Adesso, per esempio, sono contento di avere questo dialogo con te. E allora, se guardo bene, se medito, questa emozione restituisce una sensazione all’altezza dello stomaco. Come traduco questa sensazione in parole?

A.M. Devi tenere conto che le parole non esistono isolate, sono sempre immerse in strutture sintattiche, però noi esseri umani le vediamo. Ora ammettendo come premessa che la parola da sola non c’è, posso comunque provare a restituire una mia impressione.

A.G. Sono curioso di ascoltarti.

A.M La questione dell’empatia secondo me è decisiva; hai fatto bene a sottolinearla. Ci sono delle parole sulle quali non c’è ambiguità e sono parole funzionali come i pronomi o la negazione, ad esempio. A te non è simpatica la parola «io», perché ti pare che il contenuto associato ad «io» offuschi l’altro. Ma dal punto di vista linguistico, i pronomi come io non possono far sparire l’altro, perché la definizione di io implica necessariamente un tu

A.G. Certo. 

A.M.  È come tentare di dare la definizione assoluta di un colore qualsiasi, come il bianco: il bianco non può essere definito in assoluto ma solo come opposto ad altri colori. Allo stesso modo non si può definire il soggetto se non si ha il predicato. Molte parole del linguaggio non sono ancorate a sensazioni o percezioni di proprietà fisiche o di relazioni tra oggetti o persone ma alla logica. I morfemi possono aiutarci a capire meglio. Sono quei mattoni che costruiscono le parole: in tavolo è presente il morfema lessicale tavol- e il morfema funzionale –o. In prima approssimazione, possiamo dire che i morfemi funzionali sono quelli che non appartengono alle sensazioni e percezioni. Per esempio, non non può essere una sensazione. Se dico «se piove o non piove»: in un caso si è bagnati e nell’altro no, però il ruolo logico della parola «non» in una frase non è legato direttamente a una sensazione: il suo ruolo è di capovolgere le condizioni nelle quali la frase è vera. 

A.G. Sono molto d’accordo. Questo è il fulcro centrale della letteratura e intendo proprio letteratura, non narrativa. Nella narrativa tutto è quello che viene detto. Nella letteratura tutto è quello che non viene detto.

A.M. Sì, hai ragione: pensa alla parola casa. Tra me e te potrebbe avere significati e connotazioni diversi. Io potrei aver «perso la mia casa» oppure dovermi «trasferire di casa» o aver «ereditato una casa» bellissima. Io casa lo pronuncio in modo diverso da te che per casa intendi aver pagato l’affitto stamattina. Come facciamo a stabilire che condividiamo entrambi lo stesso significato di casa? Non si sa, è un patto che facciamo io e te. Io credo nel famoso problema della vaghezza, il tipico esempio della vaghezza si fa con il termine calvo: immaginiamo una persona completamente pelata e domandiamoci «è calva?», «sì», aggiungiamo un capello e chiediamo «è ancora calva?». La risposta molto probabilmente sarà sì. Ancora ne aggiungeremo due, «è ancora calva?», e vedremo che non si capirà bene quanti capelli dovremo aggiungere ad un calvo per dire che non lo è. Ecco io credo che tutti i significati siano in qualche misura vaghi. Le parole indicano solo dei «limiti»: forse per questo un sinonimo di «parola» è proprio «termine».

A.G. Come facciamo ad aderire entrambi allo stesso significato della parola? 

A.M Nessuno può rispondere in modo completo ma ci sono molte osservazioni interessanti a propositoTi farà piacere sapere che esiste una tecnica linguistica con la quale cerchiamo di spurgare i significati aggiunti e scegliamo quello all’interno della polisemia più condiviso possibile: la re-duplicazione. Supponiamo che io abbia uno studente che risiede a Pavia e abbia una casa in questa stessa città, lo studente però è molisano e ha una casa anche in Molise. Viene da me e mi dice: «Professore, io torno a casa» e io gli dico «Ma casa-casa?» dicendogli casa-casa, cioè con la reduplicazione, io lo obbligo a scegliere tra i due significati quello che contiene meno informazioni accidentali, cioè la sua «vera» casa. È un trucco con cui facciamo precipitare, come se fosse una reazione chimica, il significato meno ambiguo di tutti: e vale con tutte le parole, praticamente, meno quelle funzionali. È chiaro che non si può trattare di una questione soltanto intuitiva o aneddotica; deve essere un fatto sistematico, linguistico: per poter parlare dobbiamo fare un patto con chi ci ascolta sulla condivisione minima di significato tra le parole, sapendo tutti e due, coscienti o meno, che è un patto fragile perché le parole sono quasi tutti polisemiche; tranne appunto quelle che abbiamo definito logiche. Infatti, è difficilissimo immaginare nelle parole logiche una re-duplicazione, perché quando diciamo «non piove» non diciamo «non-non». Funziona solo dove c’è una polisemia. La reduplicazione “stana” la polisemia.

A.G. Oltre alle parole logiche e a quelle polisemiche possiamo individuarne altre? 

A.M. Sì. Ci sono molte parole per così dire “astratte” e anche con esse è interessante chiedersi se passano attraverso le sensazioni. Io questo concetto l’ho dovuto affrontare sulla questione del verbo essere. Sostengo che avesse ragione Aristotele: il verbo essere è soltanto un verbo che esprime il tempo e tutte le proprietà delle frasi del verbo essere non derivano da una polisemia del verbo essere ma dalle diverse strutture sintattiche nelle quali si trova. 

A.G. Spesso mi chiedo fin dove arrivano le parole. Tu in qualche modo lo dici, «dove non arriva la parola arriva il cervello», che è un sistema talmente complesso che mi permette di elaborare delle metafore molto forti. Ma qual è il luogo in cui le parole non sono in grado di restituire le mie emozioni, le mie sensazioni, il mio essere? Le parole in alcuni luoghi, in alcuni momenti sembrano non arrivare a restituire la sensazione vera che io sto provando. Come il ti amo. Quante polisemie ci sono dietro a questa espressione? Può essere molto meccanico, persino kafkiano. Ti amo vuol dire tutto e nulla, proprio perché si sedimenta su un immaginario.

A.M. Ci sono, secondo me, due livelli. Tu ora stai trasferendo il percorso della comunicazione da quando la strategia di comunicazione è efficace a quando invece la strategia con sé stessi e con gli altri non funziona. Si può riconoscere in due modi: uno, che è più semplice, è rendersi conto che quello che si sta dicendo, come si dice in italiano, «non rende l’idea». Questa è un’espressione “magica” che più di altre fa esattamente capire quello che sta dietro. «Non rendere l’idea» vuol dire che si ha una netta percezione di qualcosa ma non si è capaci di trasmetterla, cioè le parole scelte non soddisfano la nostra intuizione. Ti faccio un esempio. Da ragazzo andavo a Brooklyn a veder calare il sole, e telefonavo a casa, alle persone a cui volevo bene per cercare di descriverlo e alla fine dicevo sempre «Non ce l’ho fatta, devi venire qui!». Perché c’è un livello della parola che sono consapevole non renda l’idea.

A.G. Mentre il secondo livello a cui accennavi?

A.M. Il livello di non-corrispondenza. Questo secondo livello l’ho riscoperto in modo prepotente perché è l’unica cosa buona che ha partorito in me il Covid. Non come malattia ma come condizione. Quando è iniziato mi sono promesso che avrei letto un canto a sera della Divina Commedia, e a fine quarantena l’avrei finalmente letta tutta intera. Sono rimasto folgorato e tra le tante scoperte quella dell’incapacità di dire. Dante capisce molto bene che c’è qualcosa che non si può dire ma noi esseri umani siamo anche fortunati perché, accanto a questa sensazione, abbiamo anche una parola precisa, o un termine almeno, per identificare proprio ciò che non si può dire, cioè l’ineffabile. Se ci pensi, questo è un “miracolo” lessicale: è una parola che esprime esattamente l’incapacità di esprimersi a parole; questo è stupefacente, perché significa che c’è un limite intrinseco nel linguaggio. Torna ancora la riflessione sulla parola termine. Perché se ci pensi in realtà è una derivazione della logica medievale, il termine esprime esattamente il confine ma non il contenuto. Qui entro in una terza accezione discussa anche con Chomsky: non accettare l’idea di una traduzione automatica da una lingua all’altra, salvo casi banali. Questa idea la condividiamo sia io che te! Una macchina non traduce: trasferisce automaticamente e approssima senza capire.

A.G. In quanto una macchina non ha sensazioni con cui elaborare le parole. 

A.M. Si, ma non solo. Ammettiamo che possano esserci delle sensazioni artificiali, che istruiamo la macchina per avere freddo, aver fame ecc… Il punto sostanziale è che la macchina non può avere la sensazione di non avere detto delle cose che invece provava: per la macchina il termine «ineffabile» non ha senso, perché non può avere la sensazione di non aver reso l’idea. Il luogo tutto umano della comunicazione è forse proprio lo scarto tra quello che vogliamo dire e quello che riusciamo a dire. 

A.G. Sì, la macchina è senza pelle. 

A.M. Questo vuol dire che nella visione del linguista c’è l’idea che il non-detto, quello che sfugge, esattamente come tu dici, è una parte integrante del nostro sistema. Non può essere escluso, non è un difetto. È una parte costitutiva, se no saremmo delle macchine! In questo difetto sta il proprium della questione. Infine, c’è un ultimo punto: quando il linguaggio viene usato come copertura. Noi diamo per scontato che il linguaggio serva per comunicare. Ci sono però dei problemi di efficacia ovvero quando il linguaggio copre. Lo possiamo facilmente riscontrare nella medicina contemporanea, è emerso in La razza e la lingua.  Fino agli anni Quaranta tutte le patologie venivano comunemente descritte dalla comunità scientifica prendendo delle radici greche, e formando dei neologismi come ad esempio «gastroenterologia», «emicrania» ecc; allo stesso modo le parole di altre discipline o della tecnologia, come altri termini scientifici per esempio «telefono», «bicicletta» ecc. Il linguaggio era fatto per comunicare il più possibile, formando sempre più spesso parole nuove: una persona di cultura anche non specialista sapeva intuire cosa volessero dire questi neologismi ed erano anche facili da memorizzare. Negli anni Cinquanta, la medicina soprattutto ma non solo ha cambiato comunità di riferimento spostandosi negli Stati Uniti dove la cultura classica era ed è molto meno frequentata. Le nuove patologie sono tipicamente espresse in acronimi: HIV/AIDS, GERD, DHD; e così anche i termini tecnici: modem, laser, ecc. Ma gli acronimi hanno un effetto preciso e valutabile sulla comunicazione e anche sulla comunità stessa: un acronimo per essere compreso deve avere qualcuno che lo sciolga, non basta la cultura: deve esserci, per così dire, un sacerdote depositario della verità che li scioglie, quindi tu che non ne sei a conoscenza diventi un suddito ignorante. 

A.G. Affascinante questo: la medicina genera sigle esoteriche. Il paziente è sempre più escluso. Ha di fronte sacerdoti, non medici.

A.M. L’acronimo è il linguaggio usato come copertura, qualcuno detiene la chiave per il significato: tipicamente, gli altri no. Quindi questo è il tentativo opposto a quello che sono invece la divulgazione e la condivisione. Anche questo secondo me è un fatto notevole del linguaggio: la copertura. 

A.G. Mi ha colpito molto un’immagine che segna i tuoi libri: vedere il pensiero.

A.M. Ecco: ancora una volta c’è la parola vedere nell’idea. Io penso che la storia dell’umanità, stia tutta nel passaggio tra Erodoto e Tucidide. Lui, Erodoto, inizia con le storie, e sappiamo che l’etimologia di storia deriva dal verbo «vedere». Erodoto per primo racconta quello che vede non il mito. Poi Tucidide non usa più la parola storia ma usa la parola autopsia che è un’altra radice del verbo «vedere»: è vero che vedo ma vedo io stesso, quindi sono io il protagonista della visione. Il punto più alto della metafora del vedere come conoscere sta per la mia sensibilità personale nel Vangelo di Giovanni dove a quel punto lì è tutto visibile anche quello che non dovresti vedere, quello che non c’è, la prova apparentium.  

A.G. Sì, perché oltre che vedere il pensiero c’è anche la constatazione, utilizzando un sintagma poetico, che dietro la parola si nascondono delle altre parole. Bisognerebbe vedere anche cosa c’è dietro una parola. Robert Walser in La passeggiata ad un certo punto scrive, «basta con la vita dei pensieri», che vuol dire anche basta con la vita delle parole. Quindi, anche: ciò che c’è dietro le parole. Ma c’è un altro stimolo che tu affronti nei tuoi lavori: la questione delle lingue impossibili. Cosa spinge un essere vivente a generare un sistema di questo tipo? Per quanto riguarda una persona che non ne fa una professione come me è veramente un grosso mistero. Qual è l’impulso neuroscientifico, sentimentale, umano per elaborare una lingua artificiale, per esempio? 

A.M. Sei il primo che mi fa questa domanda, ed è quella che mi sta più a cuore perché tocca un punto centrale: chiunque l’abbia fatto ha voglia di immaginare una cosa impossibile. Ci sono due risposte alla tua domanda. Una razionale e scientifica, che ho utilizzato negli esperimenti di neuroscienze: per capire quello che c’è si può anche capire come mai non c’è quello che non c’è. Questo però non esaurisce la risposta a quello che tu hai posto e si riconosce una risposta emotiva, forse generata dalla paura: quando si ha paura di qualcosa, spesso si desidera che quel qualcosa arrivi perché l’attesa è troppo lunga e spesso più dolorosa della realtà. La paura dell’invenzione di una lingua che ti domini è una delle mie paure, certo non solo mia. Questa paura è stata certamente una delle spinte che mi hanno “costretto” a scrivere un romanzo (Il segreto di Pietramala) che avesse come protagonista una lingua capace di uccidere: la paura e la consapevolezza della complessità di questo codice straordinario che abbiamo solo noi esseri umani inscritto nella carne. Quello che ci fa dire oggi che la carne si è fatta logos, capovolgendo una visione che dura da duemila anni.

A.G. È sempre quello, Andrea, è sempre per quello, viviamo sempre per quello. La paura è la più grande compagna della nostra specie, persino più della morte.

ARTICOLO n. 45 / 2022

SUPERFICI TRASPARENTI

Ho sentito un rumore intermittente.

Come se qualcosa di piuttosto aggressivo continuasse a sbattere contro le pareti della stanza attigua.

Un rumore cupo e simile a un ronzio.

Non poteva essere un moscone: troppo incazzato.

Neanche una locusta: troppo veloce.

Mi affaccio nel mio studiolo e improvvisamente comprendo la natura di questo rumore contro il vetro della finestra che si affaccia sul giardino, un grosso calabrone dal corpo lungo e le ali spiegate si dimena tentando di uscire. 

Sbatte ostinato per cercare la fuga, deve essere entrato questa mattina, quando ho spalancato le finestre come faccio ogni giorno, appena sveglia.

Si divincola dalle tende, ogni tanto fa dei voli più larghi ma poi finisce sempre per tornare sulla superficie trasparente del vetro della finestra, convinto che a forza di sbatterci contro potrà liberarsi.

Si ferma, recupera le forze e poi ricomincia, ronzando ogni volta più forte, sbattendo ogni volta con più violenza.

Mi immobilizzo all’istante.

Ne ho paura, io, di quell’animale.

Ne sono terrorizzata perché sono allergica. Una puntura di quell’insetto bellissimo quanto pericoloso porterebbe me a uno shock anafilattico. E lui a morte sicura, in un do ut des al ribasso.

Si ferma di nuovo sul vetro, abbassa le ali, sosta per qualche interminabile secondo sul bordo di legno della finestra e poi non so se percepisca me o lo spazio libero alle mie spalle, fatto sta che inizia a venirmi contro con il suo volo nervoso e impaurito.

Con un automatismo rapido mi sblocco dalla mia immobilità, indietreggio di scatto. E chiudo alle mie spalle la porta dello studio con un colpo secco, imprigionandolo al suo interno.

Lo sento sbattere contro la porta, adesso. Mi fermo, sono scalza. Le dita nude dei mi piedi arpionate al parquet. Ascolto il suo ronzare dall’altra parte della porta: ora più vicino, ora nuovamente più lontano, verso l’illusoria promessa di libertà della finestra che si affaccia sul giardino.

Non so cosa fare e rimango in attesa qualche minuto, chiedendomi quanto tempo ci vorrà affinché lui prenda confidenza con la nuova realtà in cui si è momentaneamente infilato. Fino all’arrivo di un vicino che lo possa liberare.

Mando dunque un messaggio a G, che vive dall’altro lato del giardino, comunicandogli un perentorio “Sos, calabrone in casa, imprigionato nello studio. Salvaci”. 

Il plurale sta per me e per il mio prigioniero alato.

Mi risponde che è fuori casa ma tornerà a breve, intimando a entrambi – me e il mio prigioniero, di cui in realtà sono a mia volta prigioniera – di resistere.

In cuor mio spero che il calabrone resista all’attesa: lo sento determinato nello sbattersi contro le pareti e temo che possa farsi a pezzi da solo.

Scendo le scale per farmi un caffè senza mai smettere di pensare al mio prigioniero con le ali e il pungiglione e mi soffermo un po’ troppo a lungo su un’immagine, quella del vetro da cui lui osserva l’esterno, una visione parziale dello spazio che pensa invece di essere totale. La cortina trasparente che lo separa dall’esterno è infatti il suo unico punto di osservazione sul mondo, al momento. E quella a quanto pare, gli basta per capire tutto su ciò che vi è contenuto al suo esterno.

Pensa che il mondo, nella sua interezza, sia ciò che vede dal vetro. E viceversa, ha pensato che quella finestra che lo ha portato fin dentro al mio studiolo fosse innocua e priva di inghippi. Il filtro con cui comprende il mondo è parziale, privo di approfondimento, privo di imprevisti. Avrà pensato che la casa fosse vuota? Che fosse solo un riflesso? Che sarebbe uscito subito? 

Mi viene in mente Sottsass e la sua domanda su di chi siano le case vuote e per un attimo sorrido realizzando quanto in realtà il sistema che abito, ovvero quello della impalpabile e apparente notorietà – che mi fa strano chiamare così – , sia incredibilmente simile alla visione che ha delle cose il mio povero calabrone, così sicuro della monodimensionalità di ciò che osserva da restarne incastrato dentro.

Cosa vedono le persone quando mi osservano attraverso quella grossa lente trasparente che sono i social?

Me lo chiedo mentre bevo il caffè e controllo le mail, apro le richieste di connessione, amicizia e guardo i nuovi messaggi che lampeggiano sul mio telefono.

Tra le richieste più svariate che mi giungono coglie subito la mia attenzione quella più selettiva e decisamente auto-sabotante. Come mai ci interessano più le critiche che le lusinghe? Semplice, perché nella realtà sappiamo di essere molto più vicini alle prime che alle seconde. Con un movimento veloce e preciso del pollice destro, apro il messaggio e leggo.

È di un profilo fake – termine con cui noi ex giovani abbiamo iniziato a indicare account anonimi – e privato che si dice incredibilmente deluso da me – uso il maschile perché deumanizzo la persona riducendola al suo stesso profilo, termine che ormai è divenuto sineddoche di uso comune per indicare un essere umano con una connessione a internet. Mi rimprovera del fatto che non avrei parlato di un tal evento mediatico su cui avrei – non so per quale obbligo – dovuto espormi. Scrive che non sono più quella di un tempo e che dovrei prestare più attenzione alle cause, tanto più io. E aggiunge, proprio io, che sono una vittima e che quindi dovrei capire.

Nella mia testa inizio subito a smembrare questo messaggio per analizzarlo chirurgicamente in ogni sua parte.

La delusione, che è l’emozione soggettiva e personale di questa persona nei miei confronti, partirebbe da una non aderenza alle condizioni contrattuali monolaterali iniziali. Ovvero quelle del mio esordio sulla pubblica piazza dei social, battesimo di una popolarità – a suffragio universale – fragile quanto il vetro di Murano durante un terremoto.

Sorrido ancora pensando ai Club Dogo che accusati dalla loro stessa fan base di non essere più quelli di Mi fist (il loro primo album datato 2003, ndr), nel 2014 lanciano a bomba in modalità kamikaze un album titolato Non siamo più quelli di Mi fist. Oggi comprendo perfettamente lo spirito dissacrante del trio di rapper meneghino.

Mi scappa da sorridere, poi, ripensando a questi fantomatici miei esordi: te credo che avevo tempo, eravamo in lockdown, io ero disoccupata da tre mesi e avevo 24 ore al giorno da spendere “alla causa” dedicandomi a tempo pieno alle persone che abitano lo spazio del digitale.

Riecco dunque il paradosso del calabrone: lui vede me in una stanza illudendosi che io sia da sempre nella medesima posizione, e pensando che io non mi muova ne è rassicurato. 

Ma per quanto il vetro della finestra come dello schermo illuda del contrario, noi, anche solo per fisiologia, nasciamo cresciamo corriamo evolviamo e poi schiattiamo, quindi l’immobilità non è certamente tra le peculiarità della nostra specie. L’apparente cristallizzazione di tempo e spazio è frutto di uno sguardo soggettivo che pretende di trasformare le persone in immobili simulacri.

Che io ora sia in un tour promozionale del libro appena uscito, debba far quadrare sei scadenze, abbia da presentare altri libri, gestire semplicemente la vita che è ripartita in questa fase di convivenza con il virus, non conta. Non viene recepito, perché il calabrone dal vetro vede ciò che vuole vedere, in un tempo e in uno spazio limitatissimi, a portata del movimento delle dita.

Chiedo via WhatsApp a due colleghe se anche per loro funzioni così, se anche a loro non sia perdonata (compresa?) l’assenza. Mi accendo la prima sigaretta della giornata tendendo l’orecchio verso la porta dello studiolo sperando di sentir ancora ronzare.

Mi rispondono subito entrambe, come sospetto, è un sì unanime: nessun perdono, solo delusione, siamo colpevoli di poca cura.

Eppure – penso mentre sbircio dal buco della serratura per controllare il mio quasi amico alato – io le “cause” continuo a portarle avanti, ho solo cambiato lo spazio in cui lo faccio.

Come mai non si è compreso?

Appurato empiricamente che no, non sono più quella di Mi fist e che il cambiamento è fisiologico in quanto essere umano, mi chiedo cosa sia successo. Come abbia fatto a non comprendere la fregatura della monodimensionalità social. Io, che sono pure claustrofobica, come ho fatto a rinchiudere la mia immagine in un solo, eterno, irreale e soffocante fotogramma distorto?

Ed è proprio qui, seduta sul pavimento del corridoio mentre aspetto che G venga a liberarci, che comprendo di essere io stessa a mia volta un gigantesco calabrone, attirato da una stanza che vista da fuori mi sembrava sconfinata.

Così mentre chiudevo altri calabroni in altrettante stanze per immobilizzarli e tenermeli a debita distanza, anche a me toccava la medesima sorte.

Vittima pure io, accusata dai miei simili (calabroni loro, calabroni tutti) di essermi venduta perché scrivo «per le major» (!). Ehi, proprio come i rapper! Assente e deludente infine perché non vivendo attaccata al telefono risulto incapace di instaurare un vero e approfondito dialogo. Come se bastasse un telefono e come se la mia vita fosse sempre a disposizione di ogni singolo spettatore pronto a illuminare di avvisi il mio schermo.

A tal proposito, ho letto qualche settimana fa che sarei una ricca privilegiata, che scriverei libri sui nobili e su mia nonna, presunta miliardaria. Non serve che io ribadisca che niente di questo corrisponde al vero, oltre tutto basterebbe aprirlo, uno dei miei libri, per scoprire quanto queste notizie siano totalmente prive di fondamento. 

E allora mi chiedo: il reale dove si è fermato? Cosa lo ha fermato? Cosa ha provocato il collasso di spazio, tempo e narrazione su questo orizzonte degli eventi fatto di vetro trasparente che sono i nostri smartphone?

Quando siamo diventati pezzi componibili ma soprattutto scomponibili da poter montare come se fossimo bambole o pezzi del Meccano?

Oggetti di consumo e digestione, siamo diventati il bolo alimentare da divorare e poi cagare fuori.

Pezzi scomponibili di una catena di montaggio postmoderna, veniamo venduti di volta in volta al miglior sguardo. Esseri disanimati agli ordini del turbocapitalismo contemporaneo, mettiamo a disposizione la nostra immagine, la nostra arte e perfino le nostre stronzate. Non mancano nel catalogo le persone che ci scopiamo così come i luoghi da cui veniamo, le nostre idee migliori come quelle peggiori. Ma la critica (o meglio la lamentela) è subito pronta e vibra contro vetri trasparenti: non siamo più quelli di Mi fist!

Non siamo più quelli di Mi fist, ma è altrettanto vero che non avevamo firmato alcun contratto che garantisse la nostra reperibilità 24/7, il nostro dover essere obbligatoriamente sante o puttane in base al trending topic del giorno, il nostro addio al mondo tangibile per il mondo impalpabile.

Non capisco, mentre cammino avanti e indietro sempre nel corridoio, quando io abbia concesso agli altri di prendersi pezzi di me e divorarli e strumentalizzarli e modificarli o addirittura, come nel caso del libro e della biografia a me attribuita, inventarli dal nulla: chi sono io?

Dove sono in questa storia?

Sono il calabrone o la mano che chiude bruscamente la porta?

Non capisco i confini, non mi riconosco nel mio stesso volto riflesso nelle superfici trasparenti e a mia volta non riconosco la stanza in cui sono entrata e nella quale sbatto contro le pareti cercando di trovare una via di uscita che forse, forse sono stata io stessa a sbarrare.

Vorrei urlare che oltre i vetri c’è molto di più, che quello che fanno gli scrittori è raccontare. È fuori dalle stanze chiuse che il mio riflesso si compone di miriadi di immagini diverse. La mia storia è frammentata da infiniti momenti anche meravigliosamente dissonanti tra loro. Il mio desiderio era solo quello di essere libera di fare un volo sereno, di mattina, da un giardino, attraversando le pareti di una casa.

Mi chiedo se qualcuno aprirà mai questa porta, se i vetri trasparenti si incrineranno un po’ ogni volta che ci sbatto contro e se costringerò questa stanza alla resa. Oppure se mi farò solo male. Mi manca il fiato mentre penso al calabrone che continua a ronzare arrabbiato e mi viene da urlare perché non sono io la persona giusta per poterlo liberare.

Mi vibra il telefono tra le mani. È G.

«Sto arrivando a salvarti», scrive.

Muovo veloce le dita sul vetro trasparente del mio telefono e digito nervosa: 

«Il calabrone: salva lui, non me».

ARTICOLO n. 44 / 2022

CHE COS’È LA FEDE COMUNISTA?

Qualche impressione sulla Russia

È difficilissimo pensare alla Russia senza pregiudizi. E anche nel caso ci si riesca, come farsi un’impressione chiara di qualcosa di tanto diverso, mutevole e contraddittorio, di cui nessuno in Inghilterra ha alcuna conoscenza o esperienza? Nessun quotidiano inglese ha un corrispondente fisso dalla Russia. Giustamente crediamo poco a quel che le autorità sovietiche dicono di sé stesse. 

Gran parte delle notizie che ci arrivano provengono da delegazioni laburiste o da émigrés altrettanto pieni di pregiudizi. Per questo una cortina di nebbia ci separa dal mondo dove l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche mette in atto, sperimenta e fa evolvere un certo tipo di ordine. 

La Russia paga anni di “propaganda” che, togliendo credibilità alle parole, finisce per distruggere il senso stesso di comunicare a distanza. Il leninismo mescola due cose che per secoli gli europei hanno custodito in due diversi scompartimenti dell’anima: religione e affari. Siamo scioccati perché si tratta di una religione nuova, e sussiegosi perché il suo modo di condurre gli affari, subordinati alla religione al contrario di quanto dovrebbe accadere, è gravemente inefficiente. 

Come altre nuove religioni, il leninismo non prende la sua forza dalla moltitudine, ma da una piccola minoranza di convertiti entusiasti; per zelo e intolleranza ognuno di loro ha la forza di cento agnostici. Come altre nuove religioni, il leninismo è guidato da chi riesce a mescolare il nuovo spirito, in modo forse sincero, con una lungimiranza superiore a quella dei propri seguaci, da politici con una buona dose di cinismo, in grado di sorridere come di corrucciarsi, sperimentatori effimeri che la religione ha svincolato dalla verità e dalla pietà, ma che non ha accecato al punto di non vedere fatti e occasioni, esposti pertanto all’accusa (superficiale e inutile, per quanto si confaccia ai politici, laici o ecclesiastici che siano) di ipocrisia. Come altre nuove religioni, il leninismo sembra sottrarre alla vita quotidiana gioia, colore e libertà, proponendo come tetro sostituto il rigore dei volti lignei dei suoi devoti. Come altre nuove religioni, perseguita senza giustizia o pietà chi prova a opporsi. Come altre nuove religioni, è stracolmo di ardore missionario e ambizioni ecumeniche.

Tuttavia, dire che il leninismo è la fede di una minoranza persecutrice e ambiziosa guidata da ipocriti equivale a dire che è una religione, e non solo un partito, e che Lenin è un Maometto, non un Bismarck. Se vogliamo spaventarci sulle nostre poltroncine capitaliste, possiamo dipingere i comunisti russi come dei paleocristiani guidati da Attila che usano gli strumenti della Santa Inquisizione e delle missioni gesuite per attuare alla lettera i dettami economici del Nuovo Testamento; se invece su quelle medesime poltroncine volessimo tranquillizzarci, non potremmo forse dire col cuore colmo di speranza che si tratta di un’economia tanto contraria alla natura umana da non poter mantenere né missionari né eserciti, e che pertanto andrà incontro a un’inevitabile sconfitta? Dobbiamo rispondere a tre domande. 

Questa nuova religione, almeno in parte, riesce a esprimere o a capire l’anima dell’uomo moderno? Il suo aspetto materiale è tanto inefficiente che le impedirà di sopravvivere? Nel corso del tempo, diluendosi a sufficienza e assorbendo qualche impurità, riuscirà ad affermarsi?

Riguardo alla prima domanda, chi è completamente soddisfatto del capitalismo cristiano o di un capitalismo egotistico che non perde tempo in trucchetti non esiterà a rispondere; sono persone che o già hanno una religione o non ne hanno alcun bisogno. In quest’epoca senza religione, molti provano però una forte curiosità emotiva verso qualunque religione che sia davvero nuova, e non sia solo la recrudescenza di quelle vecchie, e che abbia dispiegato la propria forza motrice; ancor di più quando la novità arriva dalla Russia, lo splendido e sciocco figlio minore della famiglia europea, coi capelli sulla fronte, più vicino alla terra e al paradiso dei suoi fratelli calvi d’occidente; un figlio nato due secoli dopo, che è stato in grado di raccogliere la disillusione medievale del resto della famiglia prima di perdere il genio della gioventù o di diventare dipendente da comodità e abitudini. 

Riesco a simpatizzare con chi cerca qualcosa di buono nella Russia sovietica. Ma una volta arrivati alla realtà dei fatti, cosa dire? Per me, cresciuto all’aria aperta, dove la luce non era oscurata dagli orrori della religione, dove non c’era nulla da temere, la Russia rossa ha troppi aspetti deplorevoli. 

Le comodità e le abitudini possono renderci più indulgenti, ma non sono pronto a un credo che non si fa problemi a eliminare la libertà e la sicurezza dalla vita di tutti i giorni, e che usa in modo deliberato le armi della persecuzione, della distruzione e del conflitto internazionale.

Come posso ammirare un governo che spende milioni a casa propria per subornare spie in ogni gruppo e famiglia, e all’estero per seminare scompiglio? Forse non è un comportamento peggiore di quello avido, guerrafondaio e imperialista di altri governi, e potrebbe perfino essere più motivato; dovrebbe però essere di gran lunga superiore per farmi cambiare idea. Come posso accettare una dottrina che come sua bibbia, al di sopra e al di là di ogni critica, sceglie un manuale di economia obsoleto, che non solo è scientificamente sbagliato, ma che è anche privo di alcun interesse o applicazione nel mondo moderno? Come posso adottare un credo che, preferendo il loglio al grano, esalta lo zotico proletariato ai danni dei borghesi e dell’intellighenzia, che pur con tutti i loro difetti rappresentano il meglio della società e di certo portano avanti il progresso umano? Se anche ci servisse una religione, come trovarla nella confusionaria spazzatura delle librerie rosse?

Per un figlio dell’Europa occidentale che sia educato, decoroso e intelligente, è difficile ritrovarci i propri ideali, a meno di non aver subito qualche strano e orribile processo di conversione in grado di cambiare tutti i suoi valori. Se ci fermassimo qui, ci sfuggirebbe però l’essenza di questa nuova religione. 

Un comunista potrebbe risponderci semplicemente che tutte queste cose non appartengono alla sua vera fede, ma sono solo tattiche della rivoluzione. Lui crede infatti in due cose: l’introduzione di un nuovo ordine sulla terra, e il metodo della rivoluzione come solo mezzo per ottenerlo. Il nuovo ordine non dev’essere giudicato né dagli orrori della rivoluzione né dalle privazioni del periodo di transizione. La rivoluzione dev’essere l’esempio supremo del fine che giustifica i mezzi. Il soldato della rivoluzione dev’essere pronto a crocifiggere la propria natura umana, a diventare spietato e amorale, a sottoporsi a una vita priva di felicità o certezze, perché questi non saranno il suo obiettivo, ma i mezzi per perseguirlo.

Uso il termine “comunismo” per riferirmi al nuovo ordine, e non, come sono soliti fare i laburisti britannici, per indicare la rivoluzione come mezzo per ottenerlo. E dunque qual è l’essenza della nuova religione come nuovo ordine sulla terra?Guardando dall’esterno, non lo so per certo. A volte i suoi portavoce sembrano voler dire che tale essenza è puramente materialista e tecnica, proprio come il capitalismo moderno, come se il comunismo volesse solo essere uno strumento tecnico superiore nel lungo periodo, finalizzato a ottenere gli stessi benefici economici materiali offerti dal capitalismo, permettendo col tempo di ottenere raccolti migliori e di placare meglio le forze della natura. 

In tal caso, non si tratterebbe certo di una religione, ma solo di un bluff per agevolare un cambiamento che potrebbe o meno rivelarsi una migliore tecnica economica. Sospetto però che discorsi del genere siano soprattutto una reazione alle accuse di inefficienza economica che gli sono state scagliate contro dalla nostra fazione, e che al cuore del comunismo russo ci sia qualcosa di molto più importante per l’umanità. Da un certo punto di vista il comunismo non fa che seguire le altre religioni celebri.

Nessuna novità. Contiene però un fattore che non solo è nuovo, ma che potrebbe anche, in una forma diversa e in un nuovo contesto, dare un contributo alla vera religione del futuro, se mai ci sarà una vera religione. Il leninismo è assolutamente e provocatoriamente non-sovrannaturale, e la sua essenza etica ed emotiva è incentrata sull’atteggiamento dell’individuo e della comunità nei confronti del denaro. 

Non intendo affermare che il comunismo russo alteri, o anche solo cerchi di alterare, la natura umana, rendendo gli ebrei meno avari o i russi meno prodighi. Non intendo affermare che stabilisca un nuovo ideale. Intendo dire che vuol costruire un contesto sociale nel quale i motivi pecuniari influenzeranno di meno il comportamento delle persone, nel quale l’approvazione sociale sarà assegnata in modo diverso, e dove comportamenti in precedenza normali e rispettabili smetteranno di essere entrambe le cose. 

Oggi in Inghilterra un giovane dotato di talento e virtù, prima di fare il suo ingresso nel mondo, soppesa i vantaggi del mettersi al servizio della società con quelli del cercare fortuna negli affari; l’opinione pubblica non lo stimerà di meno se preferirà la seconda ipotesi. Cercare di guadagnare il più possibile non è meno rispettabile socialmente, e forse lo è perfino di più, di una vita al servizio dello Stato oppure della religione, dell’istruzione, dell’apprendimento o dell’arte.

In Russia vogliono invece che in futuro per un giovane rispettabile la carriera da affarista non sia un’opzione possibile, non più di una carriera da ladro gentiluomo, da falsario o truffatore. Anche gli aspetti più ammirevoli dell’amore per il denaro, come la parsimonia e il risparmio, o la sicurezza e l’indipendenza finanziaria per sé stessi e la propria famiglia, per quanto non verranno ritenuti moralmente sbagliati, saranno resi tanto ardui e impraticabili che non varrà più la pena perseguirli. Tutti dovranno lavorare per la comunità – così sancisce il nuovo credo – e se faranno il loro dovere, la comunità li sosterrà. […]

Estratto da Qualche impressione sulla Russia di John Maynard Keynes (Traduzione di Paolo Bassotti) © 2022 Luiss University Press – LuissX srl. Tutti i diritti riservati.

ARTICOLO n. 43 / 2022

STORIA DEL VINO AMBRATO CHE MI FECE INNAMORARE

Mondo naturale: il vino

Una sera d’estate di dieci anni fa mi trovavo seduta in un locale a Milano con davanti a me un calice di vino di colore ambrato, che mi era stato presentato come un vino naturale. Allora le mie cognizioni sul vino erano basilari, possiamo dire che il vino mi interessava solo per le sue proprietà di sciogliere la conversazione, per il resto mi risultava piuttosto indifferente e con un contorno rituale noioso. Ero insomma molto ignorante in materia, e proprio in virtù di quella ignoranza mi scopro spesso a citare quella serata nel locale di Milano come una specie di illuminazione. Quel vino ambrato e molti altri che seguirono toccarono nuove corde della mia attenzione, e mi dico che è stato per via delle loro qualità tangibili: i colori, gli odori, i sapori non somigliavano a quelli dei vini già registrati dal mio cervello. Forse avranno contribuito le circostanze felici di quella sera o l’atmosfera di quel locale spartano, che in realtà era un negozio alimentari, trasformato dopo la chiusura in un posto dove si beveva, e riconoscibile solo da una piccola scritta al neon rossa. Fatto sta che per la prima volta il vino mi sembrò non solo buono, ma interessante. È difficile dire adesso quanto contribuì la parola naturale, ma da quella sera il vino ha guadagnato sempre più spazio nella mia vita; e per una concatenazione di fatti che faccio fatica a definire casuale, il produttore di quel vino ambrato, che allora conoscevo a malapena di nome, è stato lo stesso che mi ha assistito e consigliato quando mi sono cimentata a fare il vino anch’io. 

Scherzo spesso sul fatto che il vino naturale è una specie di religione, per via della combinazione tra la parola naturale, col suo bagaglio mistico, e il più affidabile fomentatore di entusiasmi, l’alcol. Ad ogni modo, se così fosse io stessa avrei percorso tutte le varie tappe del cammino spirituale, con nel mezzo un discreto repertorio di viaggi, articoli, bevute, ritualità. Dico di me, perché credo sia un percorso condiviso da molti, che a partire da età, luoghi e mestieri diversi, finiscono nella rete dei vini naturali. E quando vanno in giro si ritrovano a sbirciare i tavoli degli altri, in cerca di alcuni segni di riconoscimento, un’etichetta più vivace, un calice più torbido, sapendo che sarà abbastanza per attaccare bottone. Una persona mi ha ricordato che qualcosa di simile succede ai lettori del Manifesto, quando scorgono sotto il braccio di qualcun altro il titolo dell’adorato giornale, e si scambiano quegli sguardi di ammirazione solidale che gli esponenti di una minoranza riservano ai propri simili.

Una delle prime cose che si imparano del vino naturale è che non c’è accordo su cosa si intenda per vino naturale. Come sappiamo il linguaggio è arbitrario per definizione, le parole ritagliano sul mondo dei contorni sfumati, eppure, nel caso nel vino, l’aggettivo naturale è carico di un’urgenza, una perentorietà, che rende i diversi intendimenti motivo di baruffa. Senza addentrarmi in dettagli tecnici, posso dire che tutto gira intorno all’ideale di un vino fatto usando l’uva come unico ingrediente, e un approccio agricolo almeno biologico, che evita i trattamenti sistemici o altra chimica di sintesi, e si occupa della salute del suolo e della biodiversità nella vigna. A partire da questi elementi incontestabili, la coperta resta abbastanza elastica da farsi tirare dove fa più comodo, e di fatto tiene insieme una varietà di produttori e bevitori che sarebbero disposti a definirsi a vicenda come «finti naturali» e «talebani naturali» – epiteti che fra l’altro incoraggiano la mia metafora religiosa. 

Con tutti i suoi limiti, il termine naturale ha espresso in qualche modo una sintesi felice e si è depositato, di fatto traghettando una nicchia frammentaria e disorganizzata fino all’affermazione commerciale. Così oggi esistono, in tutto il mondo, locali, fiere, e-commerce dedicati ai soli vini naturali, che non esistevano vent’anni fa. E, per quanto minoranza, è stata abbastanza rumorosa da innescare una riflessione più ampia sulle prassi di produzione, di valutazione e in fin dei conti di potere che hanno retto il settore del vino negli ultimi cinquant’anni o giù di lì. C’è il merito indiscutibile di aver riavvicinato, anche a livello simbolico, il vino all’agricoltura, da cui l’industria lo aveva alienato. E c’è il fatto che il vino naturale ha rotto un canone, o almeno lo ha ammaccato, rendendo praticabili ampie zone sensoriali che prima erano relegate nel repertorio dei difetti; non a caso il contrario del naturale è detto vino convenzionale, una scelta che indica dove – almeno semanticamente – stia la stranezza.

Il vino ambrato che mi fece innamorare nella serata milanese di dieci anni fa mi appariva strano per molti versi, a cominciare dal colore. Solo in seguito avrei scoperto che la gamma degli arancioni è una sorta di segno di riconoscimento del vino naturale, se non addirittura un elemento di provocazione; ma si tratta di un errore di prospettiva. In realtà, un vino arancione non è altro che un vino da uve bianche tenuto a fermentare sulle bucce, proprio come si fa coi rossi. Non ha niente di stravagante, bensì delle precise ragioni produttive: mantenere le bucce col mosto aiuta a proteggere le fasi iniziali della fermentazione. Prima dell’avvento dell’enologia industriale i vini bianchi si facevano soprattutto così, è la nostra memoria corta che lo fa sembrare una novità.

Per recuperare prospettiva, in questi anni sono andata spesso a trovare il produttore di quel vino ambrato, che si chiama Giulio Armani e abita in Val Trebbia, nel piacentino. Tempo fa scrissi anche un lungo ritratto su di lui per una rivista anglofona, un pezzo faticosissimo, perché Giulio parla quel poco che gli basta a sopravvivere e affida il resto della sua comunicazione alla mimica facciale. Cavare dalla sua reticenza delle frasi articolate è stato un supplizio, e solo in seguito, col passare degli anni e l’approfondirsi della nostra conoscenza, sono riuscita a mettere insieme i pezzi della sua biografia, che funziona bene anche come lezione sulla storia dei vini naturali. Giulio ha sessant’anni e ha iniziato a lavorare in cantina a diciotto, risalendo tutta la catena dei mestieri possibili fino a essere la mente enologica di una delle cantine più prestigiose d’Italia, naturali e non, che si chiama La Stoppa. Ha vissuto dunque il moltiplicarsi di prodotti e di consulenti che vendevano l’ideale di un vino «performante», soprattutto in termini commerciali, e che, soprattutto nei territori meno noti come il piacentino, spingevano i produttori a emulare i vini di zone più prestigiose, per lo più francesi, visto che la tecnica lo rendeva possibile. Per lo stesso principio di progresso, tra gli anni Settanta e Novanta in Italia si sono piantanti tanti vitigni internazionali (chardonnay, pinot nero, sauvignon blanc, merlot, cabernet sauvignon…) sostituendo le varietà locali. Negli anni Novanta, ormai trentenne, Armani ha iniziato a mettere in discussione i suoi stessi vini e, con la proprietaria dell’azienda, Elena Pantaleoni, hanno cominciato a togliere: lieviti industriali, filtrazione, conservanti (cioè solfiti); a cambiare metodo agricolo ed espiantare buona parte delle uve internazionali per rimettere le più bistrattate barbera e bonarda e malvasia. Oggi la loro inversione appare come una cosa di buon senso, ma allora queste scelte potevano tradursi in un suicidio commerciale, oltre che nell’essere emarginati e derisi da tutta la comunità di esperti. Benché nessuno dei due protagonisti ne parli volentieri, credo che siano stati anni difficili.

Vent’anni dopo, la parola naturale si è depositata e ha dato ai loro vini un senso nuovo, fresco, non conservatore ma semmai innovativo, o almeno lungimirante. La natura, come concetto, aveva nel frattempo raggiunto il punto più alto di idealizzazione, capace di alludere a cose vaghe ma sempre auspicabili, di aprire scenari bucolici e ammiccare in modi diversi all’idea di purezza. In Italia, ma anche in Francia, i produttori che facevano vino naturale prima che si chiamasse così, e che negli anni precedenti erano stati bocciati dalle DOC e rifiutati dai ristoranti, iniziano a essere celebrati dai locali più chic del pianeta e sono in grado di vendere le loro bottiglie a un prezzo molto più alto di quello delle DOC che li avevano rifiutati, tutto questo senza aver cambiato praticamente nulla nel loro modo di fare il vino. Infine, la nuova onda celebra i produttori naturali come dei divi: a Montreal c’è un ristorante molto in, che si chiama Elena in onore proprio di Elena Pantaleoni; in Corea, dei miei amici vignaioli abruzzesi hanno firmato autografi sulle magliette, sulle braccia, sulle schiene degli avventori di una fiera.

Siamo esseri volubili e le mode ci tengono svegli. La popolarità del vino naturale si inserisce però in un riassestamento più ampio, legato in parte all’oggettiva necessità di ripensare tutte le filiere agricole in modo meno devastante per l’ambiente, e in parte al fatto che l’argomento natura è diventato seducente, un buon modo per venderci le cose. Tre generazioni di benessere hanno cioè sovrascritto la memoria di chi vedeva nella natura soprattutto la terra, dura bassa e faticosa, vi associava povertà e sporcizia, e in ogni caso niente di desiderabile. Allo stesso tempo, rubricare i vini naturali a fenomeno hipster o radical chic, qualsiasi cosa voglia dire, è una prerogativa di chi ne conosce solo la superficie, le etichette colorate e poco più.Il vino ambrato di quella sera estiva milanese era fatto con uve miste, soprattutto malvasia di Candia aromatica e ortrugo, le due varietà bianche più radicate in Val Trebbia, proveniente da una vigna scoscesa a 400 metri di altitudine, un punto nel paesaggio che cercavo spesso con lo sguardo quando, un paio di anni fa, mi sono trovata a gestire un piccolo vigneto non troppo distante, cioè quando io e il mio compagno, più per gioco che per progetto di vita, abbiamo provato a fare il vino anche noi. Per una di quelle coincidenze che rendono le nostre vite più facili da raccontare, l’abbiamo fatto con le stesse varietà di quello di Giulio Armani scoperto dieci anni prima, e col privilegio dei suoi consigli. Gli amici che lo hanno bevuto mi chiedono se quindi questo è un vino naturale, e io rispondo che è più che altro un vino corporale, perché da principianti improvvisati, avevamo come unici strumenti le mani, i piedi, un paio di tini e qualche secchio, e ce li siamo fatti bastare. E che la parte naturale di fare il vino è stata invece la più difficile, poiché ha comportato un rapporto ravvicinato e prolungato con ragni, zecche, vespe, caprioli e cinghiali, muffe e parassiti dai nomi esotici, la paura della grandine, un giugno piovosissimo e un luglio bollente che mi ha bruciato la pelle e compromesso parte dell’uva. Se c’è una cosa che distingue il vino naturale da quello convenzionale, per me, è forse la capacità di tradurre tutte queste cose nella lingua misteriosa e universale del vino, di portare in giro per il mondo vicende umane altrimenti marginali, raccontarne la vulnerabilità e la fatica, senza coprirle o correggerle sotto una facciata rassicurante, o cercare di farle somigliare a un’altra storia di successo.

ARTICOLO n. 42 / 2022

ORIZZONTI DENTRO E FUORI

In una via stretta e buia cammino sola. La strada, deserta e lunga, fatta di muri di palazzi, alti e lisci. Privi di finestre, di porte, di forme. Fa nero dappertutto. Da dietro mi si avvicina un rumoroso gruppo di ragazzi. Giungono veloci, uno di loro mi rivolge due parole. Forse ho risposto, forse no. Mi mette un braccio intorno alle spalle, come se fossimo amici, la mano destra sulla mia spalla destra. Sembra condurmi. In fondo alla strada adesso ne appare un’altra, anche essa nera, perpendicolare al nostro canyon urbano. Formano una T di muri senza occhi. Il ragazzo sta svoltando verso la strada che si trova dalla sua parte, io mi sottraggo al suo consolante abbraccio e prendo la via nella direzione opposta. La riconosco, è qui che una volta si trovava la casa del vecchio saggio. Anche questi edifici sono ormai mutati in muri ciechi. L’angoscia ha murato ogni apertura. 

L’ambiente nero scompare, di fronte a me si estende un prato verde, luminoso sotto il sole. In lontananza vedo persone che sembrano allegre. Danzano? Mangiano? Semplicemente stanno insieme? Mi sveglio.

L’idea di orizzonte mi turbò nel momento preciso in cui un amico mi propose di pensarci sopra per scrivere un racconto. Invece di immaginare orizzonti nuovi, reali o comunque raggiungibili, provai angustia. La scacciai, ma tornò e prese a occuparmi, a irritarmi, a tormentarmi, fino a farmi scrivere un piccolo trattato su orizzonti chiari, scuri, auspicabili o terrificanti. Il trattato terminava con l’esclamazione: «Mutate mente!» 

Da anni, da decenni, da una vita non ho pronunciato quella parola. Ne sono sicura. Non mi è mancata, la consideravo improponibile. Salvo in una vecchia barzelletta che circolava una sessantina d’anni fa nella mia terra, e anche in quelle vicine. Era una barzelletta rivelatrice, anzi, era una rivoluzione in forma di barzelletta perché l’orizzonte lo cambiava.

Nel paese dove vivevo all’epoca, l’orizzonte svolgeva un ruolo molto importante e per giunta doppio: storico e magico.Quello storico derivava dal fatto che il nostro territorio era scrupolosamente delimitato e severamente sorvegliato. I confini, non li si oltrepassa, diceva il codice penale. Nella zona della frontiera poi si sparava direttamente. Di cambiare la vista, la vita o solo l’orizzonte, era meglio non parlare. Il ruolo storico e quello magico erano complementari, inscindibili, legati da una precisa logica. Solo un orizzonte fisso e immutabile poteva esibire le qualità che manifestava il nostro.

Solidamente sistemato tra il cielo e la terra, faceva concorrenza persino al paradiso. Lo poteva vedere chiunque, tranne qualche carcerato in isolamento. Era pieno di cose utili e buone, ma purtroppo inarrivabili per i cittadini provati da penurie di vario genere. Facevano venire l’acquolina in bocca, quei beni da paradiso, anzi, facevano montare la saliva in bocca come fosse crème Chantilly. Il nostro era uno dei paesi migliori del mondo proprio per la qualità dell’orizzonte. Lo asserivano uomini politici, ufficiali dell’esercito, professori e poeti laureati. Che mai ebbero un benché minimo sospetto che il paese nostro (come quelli vicini) potesse un giorno essere definito totalitario. La strana schiuma che ci si condensava in bocca non aveva il gusto di panna montata, sembrava piuttosto di plastica e abbiamo imparato a sputarla. Già che mandarla giù faceva venire la nausea. 

La fonte principale di informazioni eversive era costituita da “Radio Jerevan”. La quale probabilmente non esisteva, in compenso diffondeva barzellette che facevano scintille: «Ho letto sul giornale del Partito», confessava un ascoltatore modello, «che il benessere è all’orizzonte. Potreste spiegarmi gentilmente, l’orizzonte, che cos’è?» Gentilmente e correttamente, la Radio Jerevan rispondeva: «L’orizzonte, compagno, è la linea a forma circolare, lungo la quale il cielo sembra toccare la terra o il mare. Nella misura in cui cerchiamo di avvicinarla essa si allontana.»

Avevo diciassette anni a quei tempi, e affrontavo ardue questioni teoriche alla stregua dei piccoli rompicapo quotidiani, in modo pratico. Avevo anche due amici pronti a partire con me, Lubos e Zeno. Andremo a conoscere un altro orizzonte sui Monti Tatra, e più lontano ancora. Dalla montagna più alta della catena dei Carpazi avremmo potuto vedere non solo la Slovacchia, che faceva parte del nostro paese, ma anche la Polonia, la quale non solo costituiva un paese straniero, provvisto di un orizzonte diverso dal nostro, ma era anche il primo che nella nostra vita avremmo visitato.

Partimmo muniti di piccoli zaini. Per arrivare dal capolinea del tram fino a Poprad ci vollero due giorni sulle strade, a salire su un camion, a scendere e ad aspettarne un altro. Più una brevissima notte che passammo in un campo falciato di fresco, su covoni odorosi, sotto una volta celeste che reclamava preghiere. I Monti Tatra, visti per la prima volta dal Nord polacco, riempivano monumentali il cielo e la terra, ma per vedere un orizzonte davvero diverso dal nostro ci voleva ben altro. 

Il momento era propizio, nascevano barzellette, motti di spirito, risate, ironia e persino qualche libertà. Quella che ci aveva portati fino ai Tatra, l’aveva introdotta un accordo bilaterale firmato tra i due paesi confinanti e denominato “piccoli contatti frontalieri”. Concedeva ai cittadini cecoslovacchi di penetrare nel territorio polacco fino a una trentina di chilometri. 

«Non partiamo per scalare picchi montuosi e nemmeno per contrabbandare Wodka Wyborowa. Dei trenta chilometri di libertà di movimento non ci accontentiamo!» Su questo punto eravamo d’accordo prima ancora di trovarci sul capolinea del tram a Brno.  

L’ontologia dell’orizzonte presuppone l’esistenza di un centro. A occhio e croce, il centro dell’orizzonte polacco si trovava a metà strada tra Poznan e Varsavia.

L’autostop polacco si rivelò un mezzo di trasporto naturale, più animato e svelto di quello cecoslovacco. Sui cassoni dei furgoni salivano giovani e vecchi, a volte in compagnia di due, tre capre, o pecore, le quali venivano issate sopra con l’aiuto di autostoppisti compagni di strada. Noi tre, finalmente stranieri in una terra sconosciuta, decidemmo di recitare il più spesso possibile la parte di muti, per ridurre ragionevolmente il pericolo di dover tirare fuori i documenti. E di farci giustamente arrestare. La linea di confine, che avevamo attraversata sui Tatra ridendo e scherzando, sulla strada per Varsavia riprese a esercitare la sua autorità di frontiera di Stato. Più ci si allontanava, più seria si faceva. 

L’importanza della scoperta che Varsavia mi aveva riservato, non la poté sminuire la paura di venire arrestati da qualche pattuglia, e nemmeno la fame dovuta alla scarsità delle nostre riserve finanziarie. Nelle strade, nelle piazze e nei parchi, gli uomini e le donne camminavano come signori, a passo leggero, agili, veloci e come privi di peso. La testa alta, lo sguardo attento. Come se si aspettassero di incontrare una persona amata o come attraversando il palco di un giardino pubblico per unirsi all’orchestra e mettersi a suonare. I loro occhi incontravano i nostri. Si muovevano liberi! 

Eppure, anche loro, vivevano in un paese totalitario. E io, trovandomi dopo tanta fatica in un parco di Varsavia, capii che l’orizzonte può cambiare in qualsiasi luogo. E che ero cambiata anche io. 

Il vero perché di un viaggio, lo si capisce solo quando lo si compie. Il mio triangolo avventuroso e temerario non ha mai smesso di esistere, né di essere equilatero. Nemmeno quando abbiamo smesso di fare l’autostop e di vivere nella stessa città. E nemmeno quando abbiamo abbandonato, ognuno per conto suo, anche la verginità. Lubos visse per molti anni a Toronto, io a Roma e Zeno, pur abitando sempre a Brno, fece migliaia chilometri in bici girando prima l’intero nostro paese e poi tutta l’Europa. L’ho incontrato sotto la casa di mia madre il giorno del mio ritorno nella città natale mentre rientrava con la sua bici da un tour per l’Europa. Di noi tre, la prigione se l’era fatta solo lui, non in Polonia, bensì nel nostro paese, prima della caduta del Muro. Per qualche parola di troppo. 

Ogni racconto potrebbe continuare all’infinito. Però, dato che la nostra vita infinita non è, ogni racconto deve restituire un orizzonte e una fine. E presto l’avranno anche le nostre vite. Lubos era un mimo di grande talento, in Canada faceva spettacoli per bambini, guadagnandosi da vivere come assistente in un istituto di ricerca. Era il più preciso di tutti a preparare campioni da esaminare con microscopi elettronici. Come mimo era molto di più, ma l’arte non paga. Zeno ha studiato canto, ma più della sua bella voce di tenore l’appassionava la storia. Le dedicò tutta la sua vita di studioso e di docente. Da ricercatore faceva scoperte intriganti, rischiando a volte di farne racconti troppo lunghi. Io mi ero esercitata in diversi mestieri, rimanendo sempre e comunque fedele a uno solo. L’ultima volta che ci incontrammo tutti e tre insieme fu nel giardino del vecchio signore saggio. 

Sul tavolo di legno poggiava una riproduzione della famosa incisione Oltre il firmamento di Flammarion. Osservai l’uomo raffigurato mentre fa uscire la sua testa coperta da un cappuccio fuori dal firmamento, appena sopra l’orizzonte. Anche la sua mano destra fuoriesce, salutando chi si trova dall’altra parte, che noi però non vediamo. Appoggiato sulle ginocchia il suo corpo esprime un moto energico, come se avesse usato notevoli forze fisiche per infrangere con la testa la cupola contenente la terra, il sole, la luna e le stelle. 

«Non basta perforare la volta del nostro mondo con la sola testa», disse il saggio. Per gli iniziati, l’orizzonte vuol dire la soglia del mondo spirituale. La si raggiunge solo mutando la mente. «Metanoia» in greco, disse ancora, a voce bassa.

Il sogno sulle strade buie a forma di T, l’ho fatto molti anni dopo la sua morte. All’inizio del periodo di angoscia. 

Estratto dall’ultimo numero di The Florence Review Horizon / Orizzonte Copyright © 2022, Editoriale Le Lettere – Firenze

ARTICOLO n. 41 / 2022

UN FILM SULLA GUERRA CHE SENZA LA GUERRA NON AVREI CONOSCIUTO

L’ascesa di Larisa Shepitko

Voskhozhdenie (L’Ascesa) è un film sulla guerra che senza la guerra non avrei conosciuto. Ne ho scoperta l’esistenza per due ragioni tristemente attuali: il tema del film e la nazionalità della regista.

Fino al 24 febbraio l’Ucraina, oggi centro del mondo, ci riguardava marginalmente. Era un paese distante dai nostri pensieri, dalle nostre prospettive. Quanti di noi sono stati a Kiev, a Leopoli, o nella mitica Odessa? L’Ucraina non faceva parte delle mete ideali né rientrava nel nostro immaginario, era semmai l’Italia a rappresentare un ideale per uomini, e soprattutto donne, ucraini, alcuni dei quali entrati a far parte delle nostre famiglie (nel mio caso, Olga, di Leopoli, che da oltre vent’anni è presenza costante nella mia vita). L’Ucraina esisteva attraverso i loro ricordi, i loro racconti, le loro fotografie. 

E dunque confesso che quando i miei occhi hanno deciso di soffermarsi su una soltanto fra le centinaia di immagini che quotidianamente sorvolano, non è stato tanto per la bellezza indiscutibile della fotografia in bianco e nero, quanto per la didascalia che l’accompagnava: «Immagine dal film L’Ascesa, ambientato durante la seconda guerra mondiale, diretto dalla regista ucraina Larisa Shepitko nel 1977.»

Si trattava del primo piano di un uomo disteso nella neve, il volto semi nascosto dal bavero sollevato del cappotto, gli occhi sbarrati rivolti al cielo. Era vivo? Morto? Chi era quell’uomo? E soprattutto chi era la regista di cui non conoscevo nulla?

Tempo pochi secondi e Larisa Shepitko era entrata nel mio motore di ricerca.

A impressionare è innanzitutto la sua avvenenza. È una donna davvero bellissima Larisa, il viso dai tratti spigolosi e raffinati ricorda Anouk Aimée. Gli occhi scuri, profondi, dal taglio orientale. Leggo alcune note della sua biografia: nata nel 1938 ad Artemovsk, nella regione del Donetsk (oggi nota enclave filorussa, territorio di scontri dal 2014) in Ucraina orientale. Figlia di un ufficiale persiano (ecco da dove vengono quegli occhi…) che ha presto abbandonato la famiglia per seguire l’esercito, Larisa è cresciuta insieme alla madre e ai fratelli. La guerra, subita da bambina e causa di un’infanzia infelice, sarà il tema centrale della sua vita di donna e di artista. Lo affronta sin dal primo film, Krylya (Ali), nel quale mette in scena il conflitto interiore di una pilota pluridecorata per le sue imprese durante la Seconda guerra mondiale, che una volta cessato il conflitto non riesce ad adattarsi al tempo di pace. Le sfumature della vita reale le sono aliene, spiega la regista: «La guerra rende tutto brutale, definitivo ed elementare: un nemico è un nemico, un codardo è un codardo.» L’esperienza drammatica della guerra ha trasformato inesorabilmente gli individui che mai più torneranno a essere ciò che erano prima. Nella filmografia di Shepitko (breve, ahimè, formata solo da cinque film) i personaggi devono sempre superare una prova, sia fisica sia spirituale, e affinché ciò venga onestamente rappresentato, la regista accetta di sottoporre se stessa e la sua troupe a condizioni estreme. Durante le riprese del lungometraggio Znoy (Calore), realizzato per ottenere il diploma di regista dalla prestigiosa università statale pan-russa di cinematografia VGIK (la stessa che laureò Ejzenštejn, Dovzhenko, Tarkovskij, Michalkov, alla quale si era iscritta all’età di sedici anni nonostante le fosse stato suggerito, in quanto donna e bella, di orientarsi verso la recitazione), Shepitko mette in serio pericolo la propria salute fisica. Ambientato nelle steppe arroventate del Kirghizistan, il film inscena il conflitto tra due personalità (e dunque tra due opposte civiltà): un tiranno legato al passato e un idealista proiettato verso il futuro. Le temperature sul set raggiungono i 50°, i tecnici devono “raffreddare” la macchina da presa, la pellicola si squaglia letteralmente. La regista si ammala, sviene diverse volte fino a collassare, le viene diagnosticata un’epatite. Ma non ha nessuna intenzione di fermarsi: pur di portare a termine le riprese dirige il film distesa su una barella. «Se non lavoro, muoio»: per Larisa Shepitko il lavoro di cineasta è anzitutto una missione, e in quanto tale deve essere condotta con spirito di abnegazione e sacrificio. L’Ascesa ne è l’apoteosi.

È davvero un film straordinarioLo si intuisce sin dalla prima immagine: un’inquadratura in campo lungo su una distesa di neve abbagliante che trasmette un senso di vastità, di solennità. 

Il paesaggio pare deserto, qua e là spuntano sghembi pali della luce inclinati dal vento, sembrano croci piantate nel bianco (il colore predominante del film). Ed ecco che dai cumuli di neve emerge una figura solitaria, è ripresa da lontano, la macchina da presa non si avvicina, rimane distante per tutta la sequenza. Dal nulla bianco spuntano altre sagome come burattini in un teatrino. Si guardano intorno, poi cominciano ad avanzare nella nebbia. Ora la macchina da presa si avvicina e li inquadra: è un gruppo di uomini donne e bambini. Affondano i piedi nella neve trascinando slitte, valigie, suppellettili. Per tutta la durata dei titoli di testa seguiamo la loro sfibrante avanzata. «Tedeschi!» urla una voce. Capiamo così che si tratta di gente in fuga, partigiani che cercano di mettersi al riparo dal fuoco dei nazisti. La rappresentazione del loro patimento, della fatica, del freddo è quasi insostenibile. Shepitko ci mette subito in guardia: quel che stiamo per vedere è molto più di un film; non soltanto per noi spettatori, ma anche per la troupe che lo ha realizzato. Il freddo, la neve, la fatica: è tutto vero. Davanti e dietro la macchina da presa si soffre allo stesso modo, la temperatura scende a -40° gradi, e per buona parte del film le riprese si svolgono in esterno. Anche in questo caso Larisa sottopone il suo corpo a prove difficilissime, e di nuovo la sua salute ne risente. Lo spirito sacrificale che contraddistingue le opere di Shepitko, nel L’Ascesa, si acutizza. Larisa sembra aver introiettato come un dogma imprescindibile la lezione del suo mentore Aleksandr Dovzhenko, il grande cineasta ucraino, che alla scuola di cinematografia le aveva detto: «Affronta sempre un film come se fosse l’ultimo». Un monito che ha il sapore della profezia. 

L’Ascesa è stato concepito durante un periodo molto doloroso: una lesione alla colonna vertebrale, a seguito di una caduta, costringe Larisa Shepitko a sette mesi di immobilità in un letto di ospedale. Durante la convalescenza, «un lungo viaggio dentro me stessa», la trentacinquenne cineasta legge molto, soprattutto Dostoevskij, poi si imbatte in un romanzo di Vasil Bykau, intitolato Sotnikov e decide che quello sarà il suo «testamento artistico». Il suo prossimo film deve «appartenerle totalmente», e non subire dunque l’influenza di nessuno, come era accaduto in passato. La censura politica è una costante minaccia per i cineasti sovietici, i due film precedenti hanno dovuto subire tagli e interventi.  

L’incidente le lascia addosso un senso di morte insieme alla terribile consapevolezza, malgrado la giovane età, di una fine imminente. Si dedica meticolosamente alla sceneggiatura e sebbene non abbia ancora recuperato le forze necessarie, non si risparmia durante l’impegnativa realizzazione del film. L’afflato religioso che ammanta L’Ascesa è tangibile. A cominciare dal titolo, che allude alla Passione di Cristo. La vicenda che unisce i due protagonisti Sotnikov e Rybak, il loro rapporto, le prove che sono chiamati a superare, i dialoghi, richiamano la parabola cristiana.

Sotnikov, uomo schivo, di poche parole, è un insegnante di matematica. Tossisce spesso, respira male. L’altro, Rybac, è un chiacchierone, energico e ottimista. I due sono stati mandati a cercare del cibo: i loro compagni, braccati dai nazisti, sono rimasti bloccati nella neve. Comincia così la loro peregrinazione in un paesaggio ostile e desolato, attraverso villaggi depredati e fattorie distrutte. Intercettati dai tedeschi riescono a mettersi in fuga, ma Sotnikov viene colpito a una gamba e resta indietro. La solitudine dell’uomo, ferito e accasciato nella neve, le grida minacciose dei tedeschi in lontananza, la decisone di uccidersi pur di non cedere al nemico, il primo piano di Sotnikov, che mentre sta per premere il grilletto verso se stesso osserva il cielo, il globo solare offuscato dalla foschia, ed esita quel tanto che basta al compagno per tornare a soccorrerlo, sono descritti attraverso un utilizzo  magistrale delle  inquadrature, dei primi piani e della musica (la colonna sonora è di Alfred Schnittke). Da questo momento in poi, il film cambia registro e vira verso una messa in scena dell’esperienza cristologica. La sofferenza di Sotnikov, incarnata da un attore formidabile, Boris Plotnikov (qui al suo debutto), diventa metafora del martirio. 

Quando i due uomini saranno catturati dai tedeschi le loro personalità si rivelano: se Sotnikov dimostra lealtà, integrità morale e altissimo spirito di sacrificio, Rybak svela la propria debolezza, il desiderio di sopravvivere a ogni costo. Il primo resiste alle torture e rifiuta di collaborare, l’altro cede al nemico in cambio della salvezza. «Ci sono cose più importanti della propria pelle» dice Sotnikov dopo essere stato marchiato a fuoco sulla carne viva. Non vorrei raccontare il finale che per quanto prevedibile nel suo esito si rivela imprevedibile nella mise en scène. Shepitko, reduce dall’aver visto «la morte molto da vicino» restituisce questa prossimità, ne evoca la forza spirituale, il potere purificatorio. Le sequenze finali del film sono straordinarie, chi di voi lo vedrà (me lo auguro) difficilmente dimenticherà la forza di certe immagini (una su tutte: lo scambio di sguardi fra un bambino e Sotnikov, più eloquente di qualsivoglia dialogo). Difficilmente dimenticherà i primi piani, le inquadrature asimmetriche, il sonoro, i paesaggi, la fotografia in bianco e nero, i simbolismi di questo capolavoro del cinema sovietico. 

«Affronta sempre un film come se fosse l’ultimo»

Due anni dopo l’uscita de L’Ascesa (che vinse l’Orso d’oro a Berlino nel 1977), Larisa è pronta per un nuovo film. Si è aggiudicata i diritti del romanzo Addio a Matyora di Valentin Rasputin, che inizialmente si era opposto a una riduzione cinematografica del libro. «Dopo averla conosciuta, non ho potuto dirle di no» dichiarerà lo scrittore, «era così appassionata, così convincente, così sorprendentemente seria…». La toccante storia di una piccola comunità costretta ad abbandonare il proprio villaggio per consentire la costruzione di una diga idroelettrica accende l’entusiasmo di Larisa, sarà quello il film della consacrazione. È tutto pronto, mancano solo gli ultimi sopralluoghi per le location. Insieme ai suoi più stretti collaboratori, parte in automobile per San Pietroburgo. Non arriveranno mai. Un incidente metterà fine al loro viaggio e alla loro esistenza. All’apice della sua carriera e della sua vita, Larisa Shepitko se ne va, a soli quarant’anni.

Le riprese del film saranno portate a termine dal marito di Larisa, Elem Klimov, regista, sul quale sarebbe giusto inaugurare un altro capitolo, cominciando magari dal suo nome, acronimo di Engels, Lenin e Marx. Non mi dilungherò su di lui salvo citare due suoi film: Va’ e vedi, del 1985, forse l’opera più allucinata, devastante e potente mai realizzata sulla guerra e le sue conseguenze, e Larisa, una struggente dichiarazione d’amore alla moglie scomparsa.

PS: vi invito a cercare (e vedere) i film di Larisa Shepitko. Su YouTube esiste una versione de L’Ascesa con una qualità sorprendentemente buona…

ARTICOLO n. 40 / 2022

MEDITAZIONE

Breve guida per occidentali

La meditazione è arrivata in Occidente. Nei quartieri delle principali metropoli i centri yoga sono frequenti come supermercati, la mindfulness si è infiltrata negli studi medici, nelle start-up, nei corsi di aggiornamento aziendali, gli ospedali, le pratiche psicologiche, i corsi online – e ancora, le app, centinaia di app, con corsi, timer, campane tibetane. I social rigurgitano foto di donne e uomini snelli, in forma, felici, in più o meno corrette posizioni del loto – e le dirette Instagram, i profili di mindful-tizio-e-caio, le tisane dedicate a specifiche pratiche, gli articoli «sono stato dieci giorni in un ritiro Vipassana ed ecco cosa mi è successo», i libri, manuali, albi illustrati, saggi, articoli accademici, ricerche scientifiche, corsi di laurea, poster, tappetini, tazze, magneti. Non posso dire di esserne stufo, perché ho contribuito anch’io all’invasione, con seminari e articoli come questo – mi limito dunque a prenderne atto, in accordo con il tema in oggetto. Osservo il fenomeno e come consigliano alcune tecniche proprie alla meditazione buddista («Tu che tipo di meditazione pratichi?» Tutto a suo tempo) cerco di non giudicarlo. Osservo, ma il pensiero della meditazione in occidente è ormai scomparso; sono in un bar, all’aperto, sento le mie gambe inclinate sul lato destro, la schiena appesantita da una stortura innaturale (mi raddrizzo), ora sento la fronte, è ovattata dalla prima afa primaverile, le dita, picchetto sulla tastiera del portatile, l’odore di ossido di carbonio, è passata un’automobile. Scrivo, e mentre lo faccio non posso nascondermi dietro l’equanimità, perché chiunque usa il linguaggio accetta implicitamente di dividere il mondo con le parole. Posso dunque esprimere un’opinione sull’arrivo (anzi il ritorno) della meditazione: è un bene o un male? Come spesso capita, entrambe le cose.

È stato più volte fatto notare che la società neoliberale ha un modo tutto suo di assimilare gli elementi che meno si adattano al suo impianto ideologico; qualunque cosa passi attraverso il suo filtro risulta inevitabilmente contaminata. A volte il messaggio riesce a sopravvivere senza eccessive distorsioni, mentre in alcuni casi viene snaturato fino agli estremi più grotteschi, come nel caso della «cabina della meditazione» per i magazzini degli sfruttatissimi dipendenti Amazon: un congegno così simile – anche moralmente – alle cabine per il suicidio di Futurama da essere stato subito ritirato e insabbiato. Ciononostante il ritorno della meditazione in Occidente continua a sembrarmi una buona notizia, perché considero queste pratiche così preziose per la liberazione individuale e collettiva da continuare a credere (o sperare) che i vantaggi sopravanzino i difetti.

Uno dei contraccolpi della rapida commercializzazione di queste prassi è l’appiattimento delle loro differenze e dei contesti culturali di appartenenza, che ha sancito un’apparente vittoria della filosofia perenne di Huxley – e non solo sua, dato che solo nel ventesimo secolo era promossa da autori quali René Guénon, Ananda Coomaraswamy ed Elémire Zolla. La tesi in sostanza è che esista il medesimo nucleo di verità in tutta la storia della filosofia e delle religioni, associabile all’incirca al misticismo, ovvero l’idea che la massima tendenza spirituale dell’uomo sia l’unione con l’assoluto, mediante il superamento dei limiti dell’esperienza sensibile e l’annullamento della personalità individuale. In effetti le somiglianze di alcune idee di mistici e mistiche delle epoche e tradizioni più disparate – compreso il comune sentire che queste «idee» siano inesprimibili attraverso il linguaggio – suggeriscono che la filosofia perenne abbia colto nel segno, come sembrano avvalorare anche le vistose analogie delle tecniche meditative di tutto il mondo. Col tempo però l’interesse verso questa materia ha portato a studi più approfonditi, il cui esito è che le somiglianze non giustificano l’assimilazione, date le notevoli divergenze anche solo all’interno della sola «esperienza mistica».

Così come formiche che giudichiamo identiche risultano diverse allo sguardo di un entomologo, più si osservano le differenti tecniche e tradizioni meditative più si scoprirà una varietà a prima vista poco evidente. Questo ci riporta alla domanda che si rivolge spesso a chi medita: che tipo di meditazione pratichi? Rispondere non è facile, perché a fare la differenza non è tanto la tecnica, quanto il contesto culturale e filosofico in cui questa si inserisce. In Occidente ad esempio è molto diffusa la mindfulness, una pratica ideata dal biologo e scrittore Jon Kabat-Zinn attorno agli anni novanta e da allora adottata in vari contesti terapeutici; questo metodo ha molti punti in comune col buddismo da cui si ispira, ma se ne allontana nel contenuto filosofico, che viene per così dire diluito e adattato per trasformare la meditazione in un dispositivo medico. Un percorso simile è accaduto alla meditazione trascendentale, fondata e divulgata da Maharishi Mahesh Yogi; anche questa prassi ha perso gran parte del messaggio del contesto culturale da cui trae le origini, quello del filosofo indiano Śaṃkara (788? – 820?), fondatore della celebre scuola dell’Advaita Vedānta. Queste semplificazioni sono state utili a rendere più digeribili agli occidentali delle prassi erroneamente considerate aliene dalla nostra cultura, ma il contrappasso è stato spesso l’impoverimento dell’impianto filosofico in cui chi medita andrà a inscrivere le proprie esperienze – con questo non intendo dire che esista una giusta filosofia della meditazione, ma che quest’ultima non possa prescindere da un contesto culturale. Persino in esperienze in apparenza esclusivamente farmacologiche come l’uso di sostanze psichedeliche si sottolinea l’importanza del setting e al netto della natura non duale di alcune profonde esperienze meditative e psichedeliche, al momento del ritorno al mondo ordinario queste vengono sempre affrontate con gli strumenti culturali di chi le ha vissute. L’idea che la meditazione possa distaccarsi dalla sua tradizione di riferimento è stata più volte oggetto di critica e Carl Gustav Jung ammoniva già nel 1932: «Dico a quanti più posso: “Studiate lo yoga; vi imparerete un’infinità di cose, ma non lo praticate, perché noi europei non siamo fatti in modo da poter usare senz’altro quei metodi come si conviene. Un guru indiano vi può spiegare tutto e voi potete imitare tutto. Ma sapete chi pratica lo yoga? In altre parole, sapete chi siete e come siete fatti?». Il secolo trascorso sembra avergli dato torto, ma ancora oggi molte persone considerano rischioso scollegare queste prassi dalla loro tradizione di riferimento. Scrive Raffaella Arrobbio in La meditazione tra essere e benessere: «Alcuni sperano di risolvere difficoltà emotive e psicologiche percorrendo la strada della meditazione laica di derivazione buddhista, ma questo è impossibile: alla pratica della meditazione (che sia tradizionale o moderna) si può accedere proficuamente soltanto a partire da una base di maturazione psicologica sufficiente a impedire il sorgere di ostacoli, talora anche gravi, che bloccherebbero o devierebbero il percorso conducendo la mente del praticante a sperimentare condizioni di insopportabili sofferenze». L’importanza del contesto culturale ed epistemologico nel caratterizzare la natura di un’esperienza meditativa col tempo ha visto studi approfonditi, come ad esempio Philosophy of Mysticism di Richard H. Jones, ma possiamo permetterci una concessione alla filosofia perenne per quel che riguarda le tecniche meditative. Se è infatti azzardato assimilare una mistica cristiana del Cinquecento a un bodhisattva tibetano, è possibile tracciare alcune somiglianze di famiglia tra le principali tecniche meditative utilizzate in Oriente e in Occidente. A tale proposito ha svolto un lavoro prezioso Claudio Lamparelli nel suo Tecniche della meditazione Orientale, così come nel complementare ma purtroppo fuori commercio Tecniche della meditazione Occidentale. Anche il filosofo della scienza Michel Bitbol, in Cambiare stato di coscienza, traduzione italiana di parte del ponderoso La conscience a-t-elle une origine?, ha proposto un’interessante tassonomia delle tecniche meditative, ed è anche attraverso il loro lavoro che ne propongo una mia versione – eternamente provvisoria, dati i limiti della mia ignoranza e l’impossibilità di avere una visione d’insieme di tutte le principali tradizioni filosofiche e religiose del mondo.

Dividiamo dunque le principali tecniche meditative in tre gruppi, da non intendersi come mutualmente escludenti ma che si alternano nella medesima tradizione come anche all’interno di una singola sessione, in base allo stato psicofisico di chi medita. Questi tre insiemi sono le tecniche basate sulla concentrazione e la ripetizione, quelle basate sulla contemplazione e l’osservazione equanime e quelle basate sulla riflessione.

Per concentrazione e ripetizione intendo tutte quelle tecniche il cui asse è essenzialmente la concentrazione su un atto ripetitivo – il più celebre è il respiro, in quanto naturale e incessante, che sia l’aria che entra ed esce dalle narici, il lieve movimento dello stomaco, la pausa vuota tra inspirazione ed espirazione. La concentrazione sulla respirazione è quasi una costante in tutta la meditazione di matrice induista e buddista, ma si ritrova anche nella preghiera del cuore ortodossa, in cui il respiro viene sincronizzato alla recitazione mentale di una preghiera, fino a renderla virtualmente incessante. Ho parlato di preghiera, ma può ben trattarsi dei più o meno complessi mantra tipici del buddismo tibetano, che possono essere vocali o (più spesso) mentali, legati alle fasi della respirazione (come ham-inspiro sa-espiro) o autonomi, come nel caso del «nam myōhō renge kyō» della scuola buddista giapponese Soka Gakkai. Altri oggetti di concentrazione possono essere le sensazioni corporee legate alla posizione che si assume per meditare, o parti specifiche del corpo, come un punto in mezzo alle sopracciglia. Si può anche usare uno o più chakra, i sette (ma arrivano fino a undici) snodi mistici situati in vari punti del corpo, come il plesso sacrale, l’ombelico, il diaframma, il cuore, la gola, tra le sopracciglia e sopra la testa. I chakra vengono spesso percorsi in moto ascendente e discendente e sono uno strumento utile anche per sistemare la propria posizione e calibrare il respiro. Inoltre hanno un forte impatto simbolico e aiutano a tenere presente le varie tappe del processo meditativo. Questi glifi possono essere visualizzati come semplici punti luminosi o come diagrammi più o meno complessi, il che ci porta a un altro tipico oggetto della concentrazione, le visualizzazioni, che possono rappresentare un po’ qualunque cosa, come mandala, chakra o divinità, e che in base alla tradizione di riferimento possono essere anche estremamente complesse, come i mandala propri dell’induismo e del buddismo – densi cosmogrammi la cui decompressione presenta a chi medita una variegata mole di elementi dottrinali e filosofici.

Come scrive Michel Bitbol, «la pratica meditativa di base, quella per stabilizzare l’attenzione, ha come principio cardine la concentrazione su un singolo oggetto costante. Può trattarsi di qualcosa di visibile, di un oggetto immaginario o di un ricordo i cui dettagli si delineano gradualmente, di una frase ripetuta a oltranza, ma più spesso un tema corporeo propriocettivo, come le auto-sensazioni che si accompagnano agli equilibri muscolo-scheletrici della posizione seduta o il flusso alterno del respiro. Quest’ultimo metodo risale (come minimo) al Buddha storico, Siddhārtha Gautama, il quale lo descrive ai suoi più stretti discepoli in modo semplice: «Richiamando tutta la propria vigilanza, egli inspira sapendo che inspira, ed espira sapendo che espira». Tale metodo è stato anticipato o integrato dai sofisticati metodi di controllo del respiro utilizzati dallo Yoga (detti Prānāyāma in sanscrito), ed è stato scoperto, o riscoperto, da molte altre tradizioni spirituali, in particolare cristiane. Così, la preghiera del cuore ortodossa si fonda sul ritmo del respiro, accuratamente sincronizzato alla recitazione cadenzata di una formula sacra. La recitazione è, in questo caso, uno strumento complementare di raccoglimento, simile ai metodi di ripetizione dei mantra cui ricorrono l’induismo e il buddismo per costringere la mente discorsiva alla concentrazione estrema, fino a deviare la sua naturale tendenza, incline alla significazione». Un altro oggetto di concentrazione, comune alla tradizione musulmana Sufi e al metodo di Gurdjieff, che l’ha mutuata proprio dai Sufi, è la danza o alcuni movimenti ripetitivi del corpo – penso qui anche alla tradizione del kundalini yoga.

Il gruppo che ho definito contemplazione e osservazione equanime è molto comune nel buddismo e consiste essenzialmente nel prestare una continua attenzione al flusso di coscienza di sensazioni e pensieri che contraddistingue lo stato di veglia: emozioni, propriocezioni, percezioni, pensieri più o meno verbali. Questi vengono osservati nel loro veloce emergere alla coscienza per poi inabissarsi ed essere sostituiti da altri, senza che chi medita forzi in alcun modo il processo, limitandosi a osservare, e, in una fase successiva, cercando di astenersi da ogni giudizio di valore su di essi. In questa pratica si percepisce il martellante frazionamento della coscienza fino a infiltrarsi negli spazi sempre meno brevi tra un elemento cosciente e l’altro. È una tecnica anche nota come Vipassana e viene introdotta o intrecciata ai metodi citati in precedenza. Come si legge in The Cambridge handbook of counsciousness a cura di Philip David Zelazo, Morris Moscovitch e Evan Thompson, «per quel che riguarda la sonnolenza, i metodi per contrastarla sono spesso legati a quelli che contrastano la sovreccitazione. Per esempio, così come si può contrastare l’eccitazione meditando in una stanza poco illuminata, si può contrastare l’apatia meditando in un ambiente luminoso. Allo stesso modo aggiungere tensione al corpo o intensità a un oggetto visualizzato può contrastare la sonnolenza. Per i meditatori avanzati, molti degli “antidoti” menzionati qui sono troppo grossolani, e porterebbero ad una correzione eccessiva nella meditazione. Per questi praticanti, il livello di sonnolenza o di sovreccitazione che incontrano viene corretto da aggiustamenti altrettanto lievi alla chiarezza (per la sonnolenza) o alla stabilità (per l’eccitazione)». I due principali nemici della meditazione sono infatti stanchezza e ansia: lavorare sulla concentrazione aiuta a combattere il sonno, mentre la contemplazione aiuta a contrastare l’iperattività mentale, di conseguenza capita alternarli in base al proprio stato psicofisico. Come scrive Bitbol, questa pratica serve a sviluppare una «capacità di dimorare in modo così preciso nell’esperienza presente da riuscire a discernere la sua fine granularità prima che inneschi l’impulso di desiderio-repulsione tipico della percezione, e prima che venga elaborata dalle generalizzazioni e dalle antinomie dell’intelletto». Ultimo passaggio, più complesso, la pura consapevolezza della propria consapevolezza: un ulteriore salto di meta- rispetto alla meta-percezione descritta in precedenza.

Infine, la riflessione è una macrocategoria che include in sé elementi molto vari, poiché in base alla tradizione di riferimento si richiede di meditare (qui la parola assume il suo senso occidentale) su idee molto diverse. Chi pratica una meditazione buddista si dedicherà a concetti diversi da chi, poniamo, pratica una meditazione cristiana o chi riflette su un koan zen; cionostante si può trovare alcuni elementi ricorrenti, come la meditazione sulla morte, che nella tradizione tibetana si spinge letteralmente all’immaginarsi come un cadavere, mentre in quella cristiana si limita a interrogarsi sulla vanità dell’esistenza mondana. Un tratto comune è che, come il respiro nella meditazione da concentrazione, anche queste riflessioni sono solo un supporto, da abbandonare una volta raggiunto il loro intento di destabilizzare le abitudini mentali e rallentare fino a svuotare il proprio flusso di coscienza.

A questi tre filoni andrebbe aggiunto un paragrafo – se non un articolo – relativo alla posizioni da adottare durante la meditazione. A dire il vero si può meditare in qualunque postura e momento, seduti sulla poltrona del dentista come nella posizione del loto in un tempio induista, ma per le sessioni quotidiane si preferisce adottare una posizione specifica. Sempre nel The Cambridge handbook of counsciousness si legge che «I vari stili di meditazione tibetana prevedono posture diverse, ma nel contesto dello sviluppo dell’attenzione Focalizzata [la nostra concentrazione], la regola generale è che la spina dorsale deve essere mantenuta dritta e che il resto del corpo non deve essere né troppo teso né troppo rilassato». In effetti l’ingrediente per la giusta posizione è semplice: non deve essere né scomoda, o il dolore distrae chi medita (e crea danni fisici), né troppo comoda, o ci si addormenta. È per questo che è sconsigliata la meditazione da sdraiati, per lo meno per chi non ha molta esperienza, e in genere si preferisce una posizione comoda che mantenga la schiena dritta, come il loto, il mezzo loto, la posizione birmana, lo sgabello giapponese o anche una banale sedia senza schienale.

Mi accorgo in ritardo di aver dato per scontato qualcosa che non lo è affatto, ovvero cosa dovrebbe spingerci a meditare; dopotutto anche per chi ha un approccio laico si tratta di un impegno non indifferente. Un orecchio materialista vorrà una lista di vantaggi concreti, che in effetti non mancano, dal miglioramento della reazione immunitaria ai benefici alla circolazione sanguigna, fino alla migliore gestione delle emozioni, dell’ansia, degli stress e delle delusioni quotidiane, una maggiore plasticità cerebrale e capacità nel gestire il dolore e gli imprevisti. A leggere alcuni trattati tradizionali come lo Yoga Sutra, questo è ben poca roba rispetto ai superpoteri che garantisce la giusta prassi – come volare, leggere nella mente, diventare invisibile eccetera, ma anche queste capacità (siddhi) sono solo effetti collaterali dell’unica cosa che conta, la liberazione. Anzi, anche quest’ultima deve smettere di essere una meta, se vogliamo raggiungerla – il che offre una curiosa risposta alla domanda perché meditare: per nessun motivo. La meditazione è un percorso complesso, faticoso, pieno di incomparabili doni ma anche di prove e inciampi talvolta molto dolorosi. Sperare che un mezzo verso la liberazione da qualunque cosa sia privo di effetti collaterali sarebbe ingenuo e in questo è bene ascoltare Buddha, o anche Gesù: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo».


Classificazione delle principali tecniche meditative:

1. Concentrazione / ripetizione
(Rintracciabili soprattutto nell’Induismo, Vedanta, Tantra, Buddismo, Zen, Cristianesimo, Islam, Ebraismo)

Mantra
Preghiera
Respiro / sensazione corporea
Visualizzazioni (più o meno devozionali)
Gesti/danze
Chakra

2. Contemplazione aperta / Osservazione senza giudizio
(Rintracciabili soprattutto nel Buddismo, Zen, Taoismo)

Sensazioni fisiche
Emozioni
Pensieri
Atti (camminare, mangiare, lavoro artigianale e artistico, ecc.)
Focalizzazione sull’io percipiente

3. Riflessione
(Proprio a tutte le tradizioni)

Contenuti devozionali (meditazioni o preghiere verso divinità o santi, ecc.)
Meditazione sulla morte
Compassione
Meditazione su contenuti filosofici/dottrinali

(Queste fasi si possono alternare anche all’interno della medesima sessione, non hanno una cadenza progressiva.)

ARTICOLO n. 39 / 2022

CONOSCERE DI VISTA

Quando vado nel luogo in cui sono nato e cresciuto, il quartiere in cui sono stato bambino e ragazzo, incontro persone che non vedevo da dieci, vent’anni, in alcuni casi da trenta, quarant’anni. Queste persone mi erano così familiari eppure non riesco ad associarle ai volti che pensavo di ricordare. Ma sono davvero loro? Quello è davvero il macellaio dell’infanzia? Quello è davvero il panettiere dell’infanzia? Quella è davvero l’insegnante di matematica delle scuole medie? Oppure è qualcuno di somigliante? È cambiata la persona o è cambiato il mio sguardo? Se cerco un altro indizio, nella postura o nell’andatura, è inutile, poiché gli anni e l’invecchiamento hanno mutato la postura e l’andatura di queste persone, gli anni e l’invecchiamento hanno cambiato il mio sguardo in generale, e nello specifico, il mio sguardo in rapporto alle aspettative nei confronti della postura e dell’andatura di queste persone. 

Quando vado al cimitero, mi fermo davanti alle tombe, ogni giorno che passa mi fermo sempre di più davanti alle fotografie dei defunti, persone che avevo incontrato o conosciuto, come si diceva un tempo, di vista;guardo le fotografie sulle tombe e penso, è davvero lui, è davvero lei? È davvero la persona che – sigaretta in bocca, incolonnata in una domenica pomeriggio di primavera, la mano destra sul volante – aveva sventolato, con la mano sinistra, la bandiera dell’Inter fuori dal finestrino di una Fiat Uno 45 S grigia metallizzata, durante i festeggiamenti per lo scudetto 1988-1989, quando, quella persona, aveva ventidue anni? In teoria, il nome e il cognome dovrebbero saldare l’immagine funebre all’essere vivente che ha attraversato il mondo per alcuni decenni, saldare il mio ricordo in un unico processo con quell’immagine semovente, saldare la persona all’istante nel quale è accaduto un piccolo, irripetibile fatto; e invece, anche davanti al nome e cognome, davanti alla fissità dell’immagine funebre, si crea uno slittamento inaspettato: mi sembra di dubitare di quasi tutto ciò che è stato, guardo e non sono così sicuro di ricordare davvero quella persona alla guida di una Fiat Uno 45 S, forse era una Fiat Uno 55 S, e non era grigia metallizzata ma canna di fucile, però almeno sul fatto che fosse interista sono sicuro; non ero in auto, ma fermo su un marciapiede, e avevo visto il braccio di questa persona spuntare dal finestrino abbassato, avevo visto la bandiera in parte accartocciata agitarsi a seguito del movimento della mano sinistra, e poiché l’auto era ferma, intrappolata nella gioia del festeggiamento, la persona alla guida, ora defunta, aveva lasciato il volante e approfittato della mano destra per fare un tiro di sigaretta; infine, aveva stretto il mozzicone tra i denti, per suonare il clacson in segno di gioia, senza smettere di agitare la bandiera.

Forse non sono un vero tifoso, o sono un tifoso anomalo, poiché ciò che ricordo meglio di quel campionato è questa immagine e non un traversone di Andreas Brehme.

Da alcuni anni, una direttiva europea ha introdotto, per le aziende del tabacco, l’obbligo di stampare, su ogni pacchetto di sigarette, una fotografia che, unita a un breve slogan, dovrebbe scoraggiare i fumatori dal continuare a fumare o i potenziali fumatori dall’iniziare. Le immagini sono state scelte secondo parametri stabiliti dall’Unione Europea e occupano il 65% della superficie di ogni pacchetto. 

Chissà perché proprio il 65% e non il 60% o il 70%.

La commissione che si occupa di selezionare le immagini ha scelto vari filoni narrativi.

Il filone con bambino prevede alcune fotografie con il bambino e alcune senza bambino qualora il bambino non sia mai nato o sia appena morto, insomma, qualora il mancato bambino sia comunque protagonista. 

La fotografia di un bambino. Il bambino avrà circa quattro anni e una notevole somiglianza con Vladimir Putin. Indossa una polo azzurra e stringe tra le mani una sigaretta rivolta verso l’alto.

I figli dei fumatori hanno più probabilità di cominciare a fumare.

La fotografia di una giovane donna, seduta su un divano bianco. La donna sta accendendo una sigaretta. Ha un accendino in mano, lo sguardo abbassato, concentrato sull’accensione. Al suo fianco, un bambino di un paio d’anni fissa la sigaretta, allunga il braccio, mette la mano appena al di sotto della sigaretta spenta. 

I figli dei fumatori hanno più probabilità di cominciare a fumare.

La fotografia di un bambino. Sembra lo stesso bambino. È in braccio a una giovane donna. Sembra la stessa donna. La donna è in piedi e fissa il pavimento. Il bambino scruta un punto imprecisato, opposto. E tuttavia, né la madre né il bambino guardano il cadavere di un uomo in una cassa da morto.

Smetti di fumare. Vivi per i tuoi cari.

La fotografia di due giovani donne e di una bambina. Sono sedute, entrambe. Una abbraccia la figlia, una bambina di un paio d’anni. L’altra donna, la non mamma, con una sigaretta stretta tra le dita, assiste alla scena, ha un’espressione a metà tra invidia e tristezza.

Il fumo riduce la fertilità.

La fotografia di un giovane uomo. L’uomo ha in braccio un bambino. Il bambino avrà poco più di un anno. L’uomo, che si dà per scontato sia il padre – ma potrebbe essere anche uno zio o il nuovo compagno della madre del bambino – stringe tra le dita una sigaretta e, al tempo stesso, tiene in braccio il bambino. L’uomo espira il fumo in faccia al bambino. Il bambino strizza gli occhi, fa una smorfia schifata e sofferente, appoggia la mano sinistra sulla gola dell’uomo, ma la pressione della mano infantile, per quanto minima, pare addirittura stimolare, più che bloccare, l’emissione del fumo. A differenza di altre fotografie ambientate in casa o in un obitorio, lo sfondo è nero, l’ambientazione è da agenzia fotografica. Ma l’aspetto più significativo è la scomodità alla quale l’uomo si sottopone pur di tirare. Infatti, poiché sorregge il bambino, deve avvicinare la bocca alla sigaretta, e la sigaretta, al bambino. Il bambino rischia di essere bruciacchiato a ogni tiro, e se l’abitino acrilico, infiammabile, prendesse fuoco, il bambino rischierebbe di morire bruciato.

Il tuo fumo può nuocere ai tuoi figli, alla tua famiglia e ai tuoi amici.

È l’unica didascalia nella quale il fumo non è un fumo generico, ma è il tuo.

La fotografia di una giovane coppia accanto a una piccola bara bianca. L’uomo stringe la donna. Sono in piedi. Lui le appoggia una mano in testa. Lei gli appoggia la testa tra il braccio e il petto, come a farsi consolare. È la tipica postura ereditata dal cinema, dalla rappresentazione dei media, dall’immaginario scolpito nei secoli. È il cliché della donna da consolare e dell’uomo che è lì per quel motivo. 

Anche l’uomo è triste, eppure, per la commissione dell’Unione Europea che ha scelto l’immagine, l’opposto è impensabile, è impensabile l’uomo che, alle soglie delle lacrime, si lascia consolare dalla donna.

Il fumo può uccidere il bimbo nel grembo materno. 

I bambini hanno i capelli chiari, biondi o castani, come impone la logica pubblicitaria basata sulla supremazia bianca, di derivazione o aspirazione anglosassone, anche qualora il bianco si comporti in modo negativo.

La fotografia più grottesca del filone con bambino è l’immagine di una mano che spegne un mozzicone di sigaretta in un posacenere bianco; la cenere si è raggruppata e ha formato un disegno, un feto composto da cenere. 

Il fumo riduce la fertilità. 

Poi c’è il filone dell’uomo solo.

La fotografia di un uomo di cui si vede soltanto il busto, di profilo. L’uomo ha lo sguardo rivolto verso il basso. Sembra la tipica espressione di chi, ossessionato dalla propria forma fisica, fissa, con sgomento, i chili sulla bilancia dopo un eccesso alimentare. 

E invece la didascalia ci invita a pensare che l’uomo stia guardando il proprio cazzo. 

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Ecco allora che il filone dell’uomo solo ha un sottogenere: L’uomo e il proprio cazzo.

La fotografia di un uomo nudo, ritratto dall’alto, in un letto matrimoniale. L’uomo è accovacciato in posizione fetale; le lenzuola, in parte stropicciate, danno l’idea di un utilizzo, o meglio, di un parziale utilizzo cui è seguito un abbandono; forse, fino a pochi minuti prima c’era una donna, ma adesso l’uomo abbandonato è davvero l’essere umano più solo al mondo, e siccome non è mai stato così solo e affranto, appoggia una mano sulla propria testa.

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Nella terza fotografia del sottogenere L’uomo e il proprio cazzo, è come se l’uomo del pacchetto di sigarette diventasse L’uomo vitruviano di Leonardo ma senza alcuna necessità del cerchio e delle due figure: basta uno zoom sul ventre e, al posto del cazzo, un buco bianco. 

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Analizziamo ora il filone dei moribondi e il filone dei morti, così torniamo alla prima parte di questo testo. Da alcuni anni, infatti, una fotografia presente su un pacchetto di sigarette è diventata un’ossessione europea. Il fumo causa ictus e disabilità.

Vi è ritratto un uomo di circa 70 anni, sdraiato in un letto d’ospedale. Il degente, intubato, ha gli occhi chiusi. L’uomo è stato riconosciuto da un 48enne di Orbassano che sostiene di essere il figlio dell’uomo ritratto e ricoverato in ospedale, deceduto diciotto mesi dopo l’ictus; l’uomo della fotografia è stato riconosciuto da un altro uomo come se stesso, un uomo di Ischia che era stato ricoverato in Colombia a seguito di un’insufficienza respiratoria; l’uomo del pacchetto di sigarette è stato riconosciuto come il parente di un belga, di un tedesco, di uno spagnolo, e come il padre di una cittadina britannica. 

Possibile che un uomo non riconosca il proprio padre?

Possibile che una donna non riconosca il proprio padre?

Possibile che un uomo non riconosca se stesso?

Sì, è possibile. Dobbiamo chiederci fino a che punto la malattia, il dolore e il tempo devastino il corpo di chi ci è vicino, o meglio, devastino il modo in cui guardiamo, a tal punto da renderlo irriconoscibile a noi stessi, a tal punto da renderci irriconoscibili anche ai nostri occhi.  

Non è interessante sapere chi fosse davvero quell’uomo. 

Secondo The Guardian, un uomo, per recitare la propria morte da imprimere su milioni di pacchetti di sigarette, ha guadagnato 300 euro. Sarebbe utile chiedere all’anonima comparsa-protagonista: ti riconosci? 

Quanto abbiamo bisogno del falso per essere veri?

E infine, mi scuso per l’autocitazione.

A un certo punto de La gemella Huna delle due gemelle protagoniste, dice: «Avrò la tua stessa faccia anche da cadavere?»

Se lo chiede Helga, all’obitorio, davanti al corpo della gemella Hilde. È come se Helga vedesse, per la prima volta, il volto di Hilde; ma al tempo stesso, è come se Helga si allontanasse dal volto abituale per ricomporsi, unita alla gemella, nell’imminente eternità. 

La morte è liberazione, la morte è prigionia.

E l’immagine, che sta a metà tra vita e morte, presenta questa contraddizione.

Non a caso, davanti allo specchio, è come se scattassimo fotografie immaginarie, una breve sequenza di istantanee che contengono l’immediatezza di qualcosa di perduto. 

In quei frangenti, l’atto di presenza è guardarsi dubbiosi, come qualcuno che conosciamo di vista, qualcuno che abbiamo conosciuto di vista.

ARTICOLO n. 38 / 2022

PALERMO CAPACI, NOI CHE FUMMO VINTI

La Palermo dei giovani, di Falcone e di Borsellino

«Nel racconto del Bene c’è spesso più imbarazzo che nella narrazione del Male», scrive Wlodek Goldkorn evocando la reticenza e la vergogna di chi, durante la Shoah, aveva fatto del bene in un mondo dove il male la faceva da padrone. Forse per questo quanti di noi in quegli anni Ottanta e Novanta si trovarono a scegliere, senza mezzi termini ma in un terreno minato di veleni e trappole, da che parte stare, dopo una fiammata di insurrezione, di lenzuoli bianchi, di comitati seguita alle stragi del ’92, scelsero un silenzio dolente. Memorie ripiegate su se stesse. «È finito tutto» furono le parole di Caponnetto all’uscita dall’obitorio dove si trovava il corpo di Borsellino. Ancora oggi questa fetta trasversale di generazioni, la cosiddetta «società civile» (come fu genericamente chiamata allora), fatica a pronunciare discorsi o evocare memorie non senza un senso di pudore. Tanto più che tra gli anni Ottanta e Novanta, nella Palermo infuocata tra la preparazione del Maxi processo e poi le Stragi, prevalsero spesso verità lacunose, frammentarie, equivoci e conflitti (anche interiori) destinati a suscitare piuttosto sentimenti contrastanti e una paura sempre in agguato: da spaesamento. Credo che serpeggiasse proprio una paura simile, tra le altre, durante l’incontro alla biblioteca Comunale del 25 giugno 1992, a poco più di un mese dalla strage di Capaci. L’ultimo incontro pubblico del giudice Borsellino. Eravamo tutti lì, una massa silenziosa, plumbea, consapevole di poter saltare in aria da un momento all’altro insieme all’unica istituzione in cui ormai credevamo, il corpo e il sangue di Paolo Borsellino. Stavamo pietrificati in ascolto di atti d’accusa che erano pietre tombali. Contro il Consiglio superiore della magistratura, il disegno di distruggere Falcone e, con Falcone, il pool antimafia. E in quel discorso amaro e durissimo il giudice, per il quale eravamo pronti a dare la vita, giunse a pronunciare parole che chiamavano in causa tutti noi, disse che nella caldissima estate del 1988, quando si stava facendo morire il pool, l’«opinione pubblica fece il miracolo»: mobilitandosi e costringendo il Csm a rimangiarsi la decisione. Così «seppur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi», concluse. 

Noi che facciamo miracoli… Noi che respiriamo un’aria mortifera in quella biblioteca, ma abbiamo il potere di fare miracoli… Quelle parole ci galvanizzarono. Toccava a noi, dunque, una qualche salvezza in quei giorni estremi e squinternati… Per questo l’epilogo fu ancora più amaro, infelice, disperato. Non ne fummo capaci.

Noi non avevamo potuto fare nulla perché Borsellino non soccombesse trascinando con sé quel che era rimasto dei nostri ideali. Falcone stesso non aveva potuto fare nulla per salvarsi nonostante, o forse proprio a causa del suo senso altissimo delle istituzioni. Nemmeno Borsellino aveva potuto fare nulla, nonostante noi fossimo lì, accanto a lui, e lui aveva chiesto urgentemente di essere ascoltato come persona informata dei fatti. Avevano vinto loro, dove quel «loro» suonava come un atto d’accusa contro tutte le istituzioni colluse, conniventi, impastate di mafia o più semplicemente di quieto vivere, e quieto convivere. Rifletteteci! Quanti scrittori siciliani hanno scritto memorie di quegli anni? Memorie, ripeto, non rappresentazioni o ricostruzioni più o meno storicamente fondate. Nessuno o quasi. Quanti hanno scelto di lasciare la Sicilia dopo le Stragi o di ripiegarsi nel disincanto, in una sorta di esilio interiore? Moltissimi. Quasi tutti quelli della mia generazione che, insieme al resto della società civile siciliana, ha scontato il più disperato disincanto dinanzi alle stragi del ’92: stragi di Stato e di mafia. Bastava trovarsi sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo (ed io ero lì) quel 23 maggio appena subito dopo l’esplosione per avere una visione lucida su come stavano veramente le cose.

Eravamo asserragliati dentro una frenesia spasmodica, forze dell’ordine, esercito appostati ovunque, lungo l’autostrada, agli svincoli, sui ponti. C’erano elicotteri che giravano vorticosi. Tutti i collegamenti saltati.Non si riusciva a capire niente, ad ascoltare una radio, a telefonare, a tirarsi fuori dalle macchine imbottigliate in un traffico in cui non ricordo qualcuno che suonasse il clacson. Un colpo di Stato. Questo fu il pensiero che passò nella testa di molti, quando ancora non si sapeva nulla. Ce n’erano tutti i segni. Una sospensione radicale del Paese legale. E proprio contro «la strage di Stato» avremmo urlato durante i funerali di Falcone, della moglie e della scorta spingendo contro le transenne, «Adesso basta!», con la furia di chi vuole assaltare il Palazzo, i rappresentati delle istituzioni, nessuno escluso. Non fu una contestazione. Fu una rivolta, che soltanto il senso di fraternità con i poliziotti che ci trattenevano piangendo non trasformò in qualcosa di devastante. È terribile non credere più nello Stato. Confidare solo in due o tre figure solitarie minacciate proprio dalle istituzioni che intendono servire. È un nonsenso. Questa era la follia disperante di quei giorni, in cui fummo vinti, dopo aver pensato di poter farcela, anche a costo di grandissimi sacrifici.

Ci sono pezzi di memoria che, chissà perché, sono andati perduti. Risalgono agli anni Ottanta e, senza di essi, risulta quasi incomprensibile capire quali fermenti si agitavano nella città allora, quali speranze o illusioni, quali lacerazioni, quali ragioni potevano persino animare la fiducia del giudice Falcone, quando diceva la «gente è con noi».

Protagonisti di quegli anni drammatici in cui tutto non era ancora finito, anzi, tutto era ancora possibile, furono soprattutto i giovani.

Basta ricordare, tra i tanti, alcuni avvenimenti accaduti tra 1982 e il 1985.

Così rispondeva a un’intervista il giudice Rocco Chinnici prima che venisse ucciso il 23 luglio 1983: «Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi… fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai».

Ecco, questa idea di una nuova coscienza da trasmettere e condividere con i giovani Chinnici la mise in atto facendo uscire i magistrati impegnati nella lotta alla mafia dalla separatezza delle Procure. Mio padre fu tra i presidi che compresero l’importanza di quella collaborazione tra Procure e Scuole con cui si inaugurava un nuovo tempo contro la sottocultura mafiosa.

Il coinvolgimento dei ragazzi fu determinante, ad esempio, nel sostegno a Pio La Torre che, da un lato, in quei primissimi anni Ottanta riusciva a raccogliere un milione di firme in calce a una petizione al governo italiano contro la costruzione della base missilistica Nato a Comiso (me li ricordo ancora i viaggi in pullman pullulanti di studenti, l’allegria di chi si sente di fare la Storia), dall’altro portava avanti la lotta contro la speculazione edilizia, presentava il disegno di legge che introduceva il reato di associazione di tipo mafioso e il sequestro dei patrimoni.

Si lottava insieme. Questa era la sensazione. Il suo assassinio il 30 aprile 1982 fu un colpo mortale anche contro quei giovani che si erano battuti al suo fianco, credendo davvero di poter cambiare le sorti della propria terra, e non solo. Pure in quella occasione si temette il peggio. Cronisti dell’«Ora» ricordano la Sezione centrale del Partito Comunista affollata di gente, alcuni con armi in pugno, pronti a farsi giustizia da soli in un’esasperazione e in un caos generali. «Adesso basta!».

«Ci dovevamo incontrare domani», con queste parole amare e laconiche ricordo che mio padre il 3 settembre 1982 commentò l’assassinio del Generale Dalla Chiesa, senza aggiungere altro.

Uno dei primi atti del Prefetto Dalla Chiesa, non appena arrivato in città, era stato infatti convocare alcuni presidi più intraprendenti per trovare sostegno nella lotta alla mafia che anche lui sapeva essere una battaglia non solo investigativa e giudiziaria, ma anche e soprattutto culturale. Non fummo vinti, però, quella volta. Fummo traumatizzati sì, ma ancora più determinati nel non cedere alla violenza mafiosa, al clima di intimidazione che si voleva instaurare colpendo una delle cariche più alte dello Stato a 100 giorni dal suo insediamento a Palermo. «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti», diceva un cartello lasciato sul luogo dell’agguato. Invece nessuna speranza fu morta. Proprio i ragazzi (nello specifico gli studenti e le studentesse del liceo scientifico Galileo Galilei, dove era preside mio padre) si diedero da fare per non darla vinta alla disperazione con la combattività di chi è tutt’altro che arreso. Inviarono telegrammi alle scuole di tutta Italia, alle massime cariche dello Stato, con grande scetticismo dell’addetto alle poste, e ricevettero risposta: dal Presidente Pertini, dal nuovo prefetto appena nominato De Francesco. Ogni speranza in quei giorni era riposta nei giovani, nelle «loro onestà», precisò il Presidente della Repubblica. L’esito fu la prima assise nazionale antimafia tenutasi al Teatro Biondo il 9 ottobre 1982. Più di 2000 giovani, arrivati da tutta Italia, per discutere di droga, traffico d’armi, speculazione edilizia e delle lotte di un giovane di cui si era perduta memoria, Peppino Impastato: per la prima volta sottratto all’oblio. 

Da lì cominciò tutto quello che venne dopo: la Primavera di Palermo, i comitati antimafia, le associazioni antiracket, le continue manifestazioni gioiose, il movimento la Rete che voleva cambiare la classe dirigente di questo Paese…

«Senza un clima favorevole non è possibile fare certe cose», mi ha detto qualche tempo fa Sergio Lari, ex procuratore di Caltanissetta. Il giudice che ha riaperto le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Per questo credo sia molto importante restituire le lotte e le conquiste di quegli anni Ottanta per capire la città in cui viene preparato dal pool antimafia il maxi processo del 1986. Una città che marciava, lottava, credeva nel riscatto da un destino che si viveva come un’ignominia. E lo dico per esperienza personale. Scrivere per il giornale «L’Ora», in un periodo della mia vita giovanile, non era solo collaborare con una testata che vantava una grande tradizione giornalistica, era un modo di rivendicare la propria dignità contro le accuse di omertà, gli stereotipi, i giudizi supponenti di chi non aveva idea di come andavano davvero le cose in una città in cui erano caduti, vittime della mafia, esponenti delle massime cariche giudiziarie, investigative, politiche, istituzionali, per non dire dei giornalisti… Una città in cui i morti carbonizzati si potevano trovare vicino alla propria scuola, in un vicolo.

E questa città il 25 novembre del 1985 si trovò ad attraversare uno dei momenti più laceranti della sua Storia e della lotta alla mafia. Due ragazzi, due studenti del Meli, Giuditta 17 anni e Biagio 14 anni, erano insieme ai loro compagni alla fermata dell’autobus, un giorno come un altro. Una delle macchine di scorta dei giudici Borsellino e Guarnotta nella corsa forsennata a sirene spiegate sbanda e li travolge, uccidendoli sul colpo. Questa era la Palermo infernale dei tempi che precedono il maxi processo… Una morte collaterale che si è cercato di dimenticare. Una macchia troppo sporca. Solo Borsellino, ogni anniversario, ha portato i suoi fiori a quei ragazzi, sino alla propria morte. Fu allora che successe un nuovo pandemonio, perché la rabbia era tanta, ed era cieca. C’era chi voleva assaltare la Questura, chi voleva mettere a ferro e fuoco la città. C’era chi urlava contro le scorte che uccidono. Ma, alla fine, prevalse la lucidità e il senso delle istituzioni: una marcia muta con un fiore in mano. Era il giorno in cui Feltrinelli coraggiosamente inaugurava la sua prima libreria nel cuore di quella Palermo infernale. Peccato che anche la Feltrinelli, nel timore di un assalto da parte dei giovani, abbassò le saracinesche, tenendo al sicuro gli intellettuali asserragliati dentro…

Ecco, come fai a restituire una memoria condivisa ed esaustiva dinanzi a un passato così, pieno di storie dimenticate, di moti insurrezionali non raccontati o minimizzati, di vite devastate nell’oblio, come quella di Natale Mondo, l’autista del vice questore Ninni Cassarà (ucciso il 6 agosto 1985) salvatosi per miracolo nell’attentato di via Croce Rossa e poi costretto a scontare accuse infamanti, veleni, fino a trovarsi dinanzi al colpo di grazia della mafia che salda sempre i suoi conti.

Come fai a dare la misura dello sconcerto, dello spaesamento, della tensione vissuti durante quella famosa staffetta tv «Samarcanda-Costanzo show» tenutasi tra il teatro Biondo di Palermo e gli studi Mediaset dove era ospite, tra gli altri, anche Giovanni Falcone quel 26 settembre del 1991 in cui esplose tutto: preoccupazioni, rabbie, incomprensioni, la paura di essere abbandonati, il senso di tradimento sulla scelta di Falcone di lasciare Palermo per trasferirsi a Roma, in mezzo a fraintendimenti, sospetti, veleni, conclusioni azzardate, convinzioni giuste su pericoli che si rivelarono veri (la maggiore vulnerabilità di Falcone a Roma) ma che finirono per accanirsi proprio su chi avrebbero voluto o dovuto difendere, facendo il gioco di chi da sempre non aspetta altro, in quel caso, un allora oscuro politico democristiano di nome Totò Cuffaro che parlò di «giornalismo mafioso».

Non è un caso se quella sera lasciammo quel teatro con l’amaro in bocca e un generale presentimento di catastrofe. Ci eravamo divisi, dilaniati: travolti da sentimenti violenti, dalla paura di essere abbandonati… vittime tutti del caos delle opinioni. Quella trasmissione contribuì ad alimentare non poco il senso di colpa che ci piombò addosso dopo che i presentimenti presero corpo, fisionomia e si fecero realtà il 23 maggio del 1992.

Ci sono voluti dodici anni perché una nuova generazione riprendesse pian piano in mano il proprio destino e il 29 giugno 2004 si rivelasse tappezzando Palermo con piccoli adesivi listati a lutto. «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità» c’era scritto. Fu così che noi che, in un modo o nell’altro, eravamo andati via in un qualche esilio capimmo che forse non era tutto perduto.

ARTICOLO n. 37 / 2022

A PROPOSITO DI THE DROPOUT

Fortuna e menzogna nella Silicon Valley

Nel 2003 una prodigiosa diciannovenne americana lascia i suoi studi a Stanford e fonda una startup biomedica nella Silicon Valley che ha come ambiziosa missione quella di produrre analizzatori di sangue portatili che con una singola goccia di sangue permettano di diagnosticare precocemente numerose malattie, salvando molte vite e abbattendo drasticamente i costi delle spese sanitarie. L’azienda si chiama Theranos, dall’unione delle due parole therapy e diagnosis, l’analizzatore portatile viene battezzato Edison, e la ragazza è Elizabeth Holmes. In una dozzina di anni la sua fondatrice finisce sulla copertina della rivista Forbes che la nomina la più giovane miliardaria self-made del paese, fa raggiungere alla Theranos un valore di mercato di 9 miliardi di dollari e un capitale stimato di circa 4,5 miliardi di dollari, conquista una impeccabile galleria di nomi tra sostenitori, dipendenti, investitori e membri del consiglio di amministrazione della startup che includono gli ex segretari di Stato Henry Kissinger e George P. Shultz, e strappa un accordo con la catena di farmacie Walgreens e uno con la catena di supermercati Safeway per aprire nei loro punti vendita postazioni Theranos dove effettuare analisi del sangue a soli 2 dollari e 99 centesimi (di fatto ne verranno attivate una quarantina nelle farmacie Walgreens). Poi nell’ottobre del 2015 entra in scena John Carreyrou, ottimo giornalista investigativo del Wall Street Journal, che con un articolo fa crollare il castello di carte rivelando al mondo quello che molti ex dipendenti della Theranos sanno già: gli esami effettuati dalla Theranos vengono per la più parte fatti utilizzando macchine Siemens, una singola goccia di sangue non è sufficiente e dunque il sangue viene diluito con acqua compromettendo i risultati, la macchina Edison sembra il progetto di scienze di uno studente di terza media e soprattutto: non funziona. I laboratori della Theranos vengono ispezionati, le accuse di Carreyrou vengono confermate, l’azienda viene messa sotto indagine, Holmes e il suo socio e compagno di vita, Ramesh “Sunny” Balwani (anche ex direttore generale e operativo della Theranos), finiscono sotto processo. 

Sulla vicenda John Carreyrou scrive e pubblica un libro (Una sola goccia di sangue. Segreti e bugie di una startup nella Silicon Valley, Mondadori 2019) i cui diritti vengono opzionati per farne un film prodotto da Apple TV, diretto da Adam McKay  (il regista di Don’t Look Up) e interpretato da Jennifer Lawrence (il film si chiamerà Bad Blood e attualmente è in preproduzione), il regista Alex Gibney realizza un documentario per HBO (The Inventor: Out for Blood in Silicon Valley), ABC produce il podcast creato e diretto dalla giornalista Rebecca Jarvis The Dropout, da cui viene tratta l’omonima miniserie creata da Elizabeth Meriwether e interpreta da Amanda Seyfried. La miniserie è in otto episodi ed è in streaming in Italia su Disney+ dallo scorso 20 aprile, quasi in contemporanea con la chiusura del processo a Elizabeth Holmes che a marzo l’ha condannata per quattro degli undici capi di imputazione (in sostanza è stata condannata per i reati di frode nei confronti degli investitori, mentre è stata assolta per quelli di frode nei confronti dei pazienti). 

Nel frattempo, fuori e dentro la Silicon Valley, c’è chi continua ad attaccarla (alcune imprenditrici della Silicon Valley hanno dichiarato recentemente di avere cambiato colore di capelli passando dal biondo a qualunque altra cosa per prendere distanza da Elizabeth Holmes), c’è chi la difende a oltranza (tra questi c’è il regista Errol Morris, che nel 2015 su propria iniziativa e affascinato da Holmes e dalla sua impresa ha girato alcuni spot promozionali della Theranos – sono visionabili su YouTube – e da allora non ha mai cambiato idea), e c’è chi semplicemente non capisce come una vicenda del genere sia potuta succedere. 

La cosa più immediata che verrebbe da dire è che dopo avere avviato la sua startup a diciannove anni,Holmes è rimasta in qualche modo intrappolata in quell’età, in quella post-adolescenza in cui non si è ancora persa l’abitudine di mentire agli adulti, genitori o insegnanti che siano. In cui le probabilità di farla franca con una menzogna sono così alte che vale sempre e comunque la pena di correre il rischio.In cui mentire in sé è eccitante, ti fa sentire potente, forse migliore degli altri, sicuramente speciale perché, anche se omologato in tutto, hai un segreto che gli altri non sanno. In cui non possiamo darle torto quando dice che, considerato il costo delle università in America (e la prassi delle stesse università di fare indebitare i propri studenti in cambio di una carriera scolastica che non garantisce un lavoro sicuro), preferisce investire quei soldi in una start-up e fare qualcosa per il bene dell’umanità. Non è un caso che uno dei momenti più riusciti dell’interpretazione che fa Amanda Seyfried di Elizabeth Holmes nella miniserie The Dropout è un remake di un’intervista video fatta da Errol Morris a Elizabeth Holmes in cui le viene domandato se può rivelarci un segreto. Holmes (e Seyfried dopo di lei) guarda dritto in camera, gli occhi spalancati e di un azzurro quasi marziano, il dolcevita nero indossato come una divisa per imitare il suo eroe inarrivabile Steve Jobs, ci pensa un po’ e alla fine dice: non ho molti segreti. Va da sé che non sapremo mai cosa le passa in quel momento per la testa. 

Nel frattempo Holmes si è sposata con un certo Billy Evans, di una decina di anni più giovane di lei ed erede del gruppo Evans Hotel (una catena di alberghi nella California del Sud), i due hanno avuto un figlio (è nato nel luglio del 2021 e si chiama William come il padre), abitano tutti nella Silicon Valley, in una tenuta di una trentina di ettari e del valore di 135 milioni di dollari a Woodside, in California. Concluso il processo aspetta la sentenza definitiva e la conseguente pena, che arriverà il prossimo 26 settembre e che prevede un massimo di vent’anni di prigione. 

Una teoria interessante che, seppur non giustificando, spiegherebbe almeno in parte le azioni di Holmes, ce la fornisce Dan Ariely, psicologo ed economista comportamentale israeliano-americano (insegna alla Duke University) che Alex Gibney ha intervistato nel suo documentario. Autore del libro The (Honest) Truth About Dishonesty: How We Lie To Everyone – Especially Ourselves (Harper 2012), a un certo punto del documentario Ariely cita un esperimento condotto da lui e dai suoi colleghi con un dado. Ai partecipanti veniva chiesto di scegliere mentalmente tra il lato basso e quello alto del dado, tirare il dado e a quel punto dichiarare la scelta ottenendo una ricompensa in denaro corrispondente al numero corrispondente al lato scelto (alto o basso). Per esempio: se il dado cadeva con il 4 in alto e il partecipante dichiarava di avere scelto l’alto, riceveva 4 dollari. A fine esperimento quasi tutti partecipanti risultavano avere scelto il lato più remunerativo. Fortuna o menzogna: impossibile a dirsi. Ripetendo lo stesso esperimento con l’aggiunta di una macchina della verità, si era capito che mentivano. Ripetendo una terza volta lo stesso esperimento con la macchina della verità e informando i partecipanti che la somma ricevuta sarebbe andata in beneficenza, la macchina della verità non era più in grado di intercettare quell’esitazione che di solito accompagna la bugia. Di fatto quanto succedeva era questo: i partecipanti erano talmente convinti che il fine giustificasse il mezzo da mentire con più determinazione, impedendo così alla macchina della verità di funzionare. A detta di Ariely qualcosa del genere deve essere scattato nella mente di Holmes, facendo scomparire del tutto il mezzo a beneficio del fine. E oltre che nella sua testa, deve essere successo anche in quella di dipendenti, investitori, membri del consiglio, e varia umanità coinvolta nella startup a un certo punto dei suoi dodici anni di vita. 

Un’altra teoria vuole Holmes tra le fila degli inventori che nei secoli hanno fallito, e anche mentito, prima di arrivare alla scoperta che avrebbe cambiato non solo la vita ma anche il futuro dell’umanità. Facendo proprio lo slogan «Fake it until you make it» (fingi fino a quando non ci riesci), Holmes avrebbe semplicemente continuato a sperare che la magica macchina in grado di fare le analisi del sangue a partire da una sola goccia di sangue funzionasse. E insieme a lei dipendenti, finanziatori, membri del consiglio di amministrazione, tutti uniti in una sorta di tacito patto dal quale ci si poteva sottrarre dimettendosi previa firma di un accordo di non divulgazione. Se le ragioni dei quindici anni di menzogne di Holmes si fermano allo stato di ipotesi, le decide e decine di accordi di non divulgazione firmati da ex dipendenti licenziati o andati via di propria volontà è sicuramente il motivo per cui il sistema non sia imploso prima: nessuno ha parlato perché legalmente nessuno era nelle condizioni di farlo. 

Uno degli aspetti più interessanti della vicenda è che la popolarità di Holmes sembra non essere stata minimamente scalfita dalle vicende giudiziarie, al punto che fan e seguaci dell’imprenditrice acquistano su eBay pezzi dell’azienda come fosse merchandising di una qualunque celebrità. Il valore di mercato degli oggetti va dai 150 dollari per un set di cinque penne con marchio Theranos ai 1500 dollari per una bottiglia d’acqua sempre con marchio Theranos (di quelle di plastica distribuite durante le conferenze per pubblicizzare l’azienda) agli 11mila dollari per un camice da laboratorio Theranos autentico e mai indossato. A venderli sono gli stessi ex dipendenti (per arrotondare si presume) che nel crollo dell’azienda hanno perso il lavoro e i guadagni generati dalle stock options. «La ragazza dal dolcevita nero che ha mollato il college e ha ingannato Henry Kissinger è diventata un’ossessione culturale», dice uno di loro. Ed è vero.

Ma ecco cosa succede a questo punto: sei lì che continui a digitare su Google Elizabeth Holmes, in cerca di qualcosa che non sai, culturalmente ossessionata anche tu. Ed ecco che prima uno, poi due, poi una discreta serie di articoli su giornali autorevoli ti spingono a guardare Inventing Anna, la miniserie sulla falsa ereditiera Anna Delvey Sorokin che ha ingannato dirigenti di banca, investitori e quant’altro, e WeCrashed, l’altra miniserie su ascesa e caduta della startup WeWork e l’improbabile coppia che l’ha inventata, e Bad Vegan, e così via fino all’unica conclusione possibile: nessuno è un caso isolato.

ARTICOLO n. 36 / 2022

CONVERSAZIONE CON ALESSANDRO GALLENZI

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. 

A. GENTILE: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

A. GALLENZI: Entrambi rientrano nella mia filosofia editoriale. Da un lato concordo con chi, come Giangiacomo Feltrinelli e il suo amico John Calder, di cui abbiamo ereditato le pubblicazioni, sostiene che l’editore sia un canale non solo tra autori ed editori, ma anche tra passato, presente e futuro. A volte un editore serve a mantenere viva un’eredità che altrimenti verrebbe dimenticata. Qualche tempo fa abbiamo pubblicato una traduzione inglese di Costantinopoli di Edmondo De Amicis, volume che era fuori catalogo da anni anche in Italia, ed Einaudi è rimasto talmente colpito dalla nostra idea da farlo ristampare anche in italiano. Questo genere di contaminazioni è fondamentale per l’editoria. D’altra parte, è anche vero che mi sento più vicino all’approccio di Roberto Calasso e mi piace pensare che il nostro catalogo, nel suo complesso (con qualche rara eccezione), sia in grado sia di rispecchiare i nostri gusti, sia di presentarsi come il tentativo di creare un’opera d’arte a sé. Un’immagine che mi piace utilizzare per descrivere un editore è quella del curatore di una galleria d’arte, che seleziona una serie di opere e trova un tema che le accomuni, comunicando con i visitatori in toni semplici e dimessi. Calasso era un maestro in questo, perché è molto importante che il messaggio non sia troppo appariscente o importuno e che gli editori sappiano fare un passo indietro e lasciar andare le proprie creazioni.

A. GENTILE: Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

A. GALLENZI: Credo di essere molto fortunato, per non dire privilegiato, perché la mia esperienza di traduttore e i miei interessi in campo linguistico mi hanno aiutato a vedere i testi in maniera diversa e a riconoscerne la bellezza e la complessità, con tutte le loro sfaccettature. Sono sempre stato un lettore lento, analitico, e ci sono una serie di libri su cui continuo a tornare come metro di misura del mio lavoro di editore. La Divina commedia, la Vita nuova e le Rime di Dante sono tra le opere più importanti del mio sviluppo sia come lettore sia come editore. Poi citerei le opere di Dostoevskij, Bulgakov, Gogol, le poesie di Keats, Dylan Thomas, W.B. Yeats. In più, ho una vera passione per Alexander Pope, Smollett, Fielding, Sterne, George Eliot, Charlotte Brontë, Louis-Ferdinand Céline. Ma potrei andare avanti a lungo, perché il problema è che, quando si scopre la bellezza della letteratura, ci si sente quasi obbligati a condividere la propria passione con gli altri.

A. GENTILE: Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

A. GALLENZI: I libri sono strumenti estremamente duttili e versatili, capaci di adattarsi ai tempi. È un formato che è rimasto (perlopiù) inalterato nei secoli, sebbene i contenuti continuino a mutare per rivolgersi a generazioni di lettori sempre nuove. Come casa editrice, noi non siamo contrari al cambiamento e ci siamo adeguati alla rivoluzione dell’ebook, ma tendiamo a opporre più resistenza alle ultime mode o alle tendenze passeggere, come i libri scritti da influencer o i romanzi epistolari informa di email, messaggio di testo o tweet. Non abbiamo niente in contrario a nuove idee capaci di coinvolgerci ed emozionarci, ma i nostri sono gusti abbastanza tradizionali e non ci piacciono i libri zeppi di trovate ad effetto. In breve, il nostro programma non include molti titoli “multimediali”.

A. GENTILE: Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

A. GALLENZI: I libri sono strumenti versatili ad ampissimo raggio, capaci di intrattenere, mettere in discussione idee, regalare momenti di evasione, suscitare emozioni, favorire scoperte, generare dibattiti e via dicendo. I lettori possono ricavarne quello che vogliono. Lo stesso libro, poi, è in grado di suscitare reazioni diverse in persone diverse. Un libro può innescare o sedare una rivoluzione. Un libro può cambiarti la vita. Credo sia la forma di comunicazione più sofisticata al mondo, perché riesce a impegnare le nostre menti in maniera assai più profonda del cinema, delle arti visive, della musica o dei media digitali, che si basano perlopiù su vista e udito. Dal momento che la nostra essenza si costruisce sul pensiero e sul linguaggio, i libri riescono ad assorbire la nostra mente, offrendo una maniera più complessa di interrogare la realtà fuori e dentro di noi. Keats ha paragonato la sua prima lettura di Omero alla scoperta di un nuovo mondo, mentre Borges ha equiparato il primo incontro con Dostoevskij alla scoperta dell’amore o dell’oceano: un momento indimenticabile della propria vita. In poche parole, un libro consente di accedere a un mondo fisico e spirituale del tutto nuovo, da esplorare e riscoprire tutte le volte che si vuole nel corso della propria vita. In più, sì, anch’io sono convinto che i libri siano in grado di offrire emozioni uniche, ragion per cui hanno avuto tanto successo nella storia dell’umanità.

A. GENTILE: A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

A. GALLENZI: Il mio “cortese spettatore” (per citare il prologo del Troilo e Cressida shakespeariano)[CP1]  è curioso, intelligente, indagatore e comprensivo, ama le sfide ma non è mai petulante né pedante. Voglio poter condividere i miei gusti e i interessi con i miei lettori, voglio che possano provare un po’ della gioia e dell’allegria che mi hanno spinto a pubblicare i libri che porto alla loro attenzione. Ogni libro è un invito aperto, ma, siccome so che è impossibile accontentare tutti, per me è questione di spargere dei semi che possano crescere, più che di sperare che qualcuno abbocchi alla mia esca.

A. GENTILE: A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per i lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

A. GALLENZI: Ci hanno già provato in molti, ma senza successo. C’è stato un periodo in cui, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, un gruppo di editori accomunati dalla stessa mentalità e visione politica (Giangiacomo Feltrinelli, John Calder, Barney Rosset, Klaus Wagenbach, Heinrich Ledig-Rowohlt, le case editrici olandesi Bezige Bij e Nijgh & van Ditmar, Jérôme Lindon, Christian Burgois e altri) ha creduto che sarebbe stato possibile pubblicare i libri migliori d’Europa in tutte le lingue principali. A far naufragare il progetto sono state le forti individualità dei partecipanti e l’enorme divario nei gusti e nelle aspettative dei lettori da un paese all’altro. L’editoria è un’attività caratterizzata da una forte idiosincrasia. Forse è proprio questo a rendercela così affascinante: la cosiddetta “bibliodiversità”, un concetto che in realtà sarebbe importante coltivare e salvaguardare. Credo che oggi realizzare un progetto come quello sarebbe ancora più difficile (soprattutto per ragioni legate alla complessità del mercato e al passaggio a un’editoria più commerciale), eccetto forse per operazioni molto commerciali come quelle relative alle saghe di Harry Potter ed Elena Ferrante, sebbene il recente passato ci abbia dimostrato che non esistono formule garantite, nemmeno per i best seller: ciò che ha successo in Francia non piace in Gran Bretagna, quel che fa impazzire Italia e Spagna in Germania viene considerato noioso e così via.

A. GENTILE: Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, differenze che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di esistere insieme, perché sono proprio le nostre differenze a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dall’inizio, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

A. GALLENZI: Poco dopo aver iniziato la mia carriera editoriale in Gran Bretagna ho scoperto che, per avere successo lì, avrei dovuto ritarare la mia bussola di editore e produttore. Se avessi potuto seguire il mio istinto e il mio gusto personale avrei aderito al modello francese di Fayard e Gallimard, o il modello italiano di Adelphi e Sellerio. Alcune case editrici inglesi ci hanno provato (la prima Pushkin Press, Maia, Peirene, ecc.), ma non sono mai riuscite a liberarsi dalla percezione di essere editori “di nicchia”, difficili e inaccessibili. Per quanto mi riguarda, con Hesperus come con Alma, ho cercato di dare particolare enfasi alla cura editoriale, alla qualità della traduzione e all’aspetto estetico del libro, facendo ricorso a copertine con immagini o illustrazioni fuori dall’ordinario, in grado di far risaltare ogni volume a sé e non come parte di una serie. Abbiamo utilizzato carta sottile Arctic Paper e alette molto ampie, ma i nostri libri sono sempre stati considerati accessibili e hanno riscosso grande successo tra vecchi e giovani. Il motto di Hesperus era “Et remotissima prope”, cioè “avvicinare ciò che ci è lontano” (in termini sia di spazio che di tempo), e siamo riusciti a fare esattamente quello, anche dove altri avevano fallito: siamo riusciti a trovare la giusta formula commerciale senza dover rinunciare alla nostra integrità di editori. Il mercato britannico è in continua evoluzione e per avere successo noi dobbiamo evolvere con lui, senza fossilizzarci su un unico approccio.

A. GENTILE: Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

A. GALLENZI: Sono completamente d’accordo con Umberto Eco, anzi, il paragone tra un libro e una forchetta e un cucchiaio ricorre molto spesso nei miei interventi sull’editoria, a dimostrazione che ci sono oggetti perfetti così come sono, senza bisogno di migliorie. I PDF da leggere online o su tablet e gli ebook per Kindle non sono altro che una versione scadente e meno valida dell’originale cartaceo. Voglio credere (e il recente revival dei libri stampati in tutti i mercati ne è testimone) che i libri rimarranno immutati, sempre pronti ad adattarsi nel contenuto e nell’estetica per poter parlare alle nuove generazioni, ma senza perdere il seducente piacere che ci trasmettono da secoli.

A. GENTILE: Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

A. GALLENZI: Non vedo l’ora di pubblicare le ritraduzioni inglesi[CP2]  di Delitto e castigo e di Pinocchio, oltre che di portare alla luce a una perla letteraria assai poco conosciuta di Charles Dickens, Pictures from Italy, in cui l’autore descrive le proprie impressioni nell’anno in cui ha vissuto nel nostro paese, tra il 1844-45. Inoltre sono molto contento perché, dopo l’uscita di una traduzione a mio nome delle lettere di John Keats per Adelphi, La valle dell’anima, a settembre Alma pubblicherà il mio primo volume di saggistica, Written in Water, sugli ultimi mesi trascorsi dal poeta in Italia fino alla sua morte.

A. GENTILE: Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato che, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a mandare alle stampe, quale sarebbe?

A. GALLENZI: Ce ne sono tantissimi, ma uno che continuo a riprendere in mano e poi a rimettere sullo scaffale è Il pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan, forse troppo denso e dal ritmo troppo lento per un’epoca con una curva dell’attenzione ridotta come la nostra.

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 35 / 2022

FACING HIM

Un ritratto di Keith Jarrett

Siamo così abituati a vedere Keith Jarrett con i capelli grigi, perfettamente tagliati, che è bene ricordare il tempo in cui aveva una delle più lussureggianti chiome di chiunque, bianco o nero, abbia mai suonato jazz. La sua capigliatura ebbe la massima estensione negli anni ’70, quando era a capo di due band telluriche: il Quartetto Americano con Charlie Haden, Paul Motian e Dewey Redman, e il più lirico Quartetto Europeo con Palle Danielsson, John Christensen e Jan Garbarek. Dal 1980 in poi, i suoi stretti collaboratori furono il batterista Jack DeJohnette e il bassista Gary Peacock (scomparso nel Settembre 2020). Questa band era conosciuta come Trio Standards, sebbene per me la loro versione di I Fall in Love Too Easily o altre, risultano meno rapinose di quando hanno lasciato queste riconoscibili e molto amate pietre miliari nella loro scia. Celebrato come pianista, Jarrett è in realtà un polistrumentista.

Al Deer Head Inn jazz club, alla fine degli anni ’60, Stan Getz gli mise una mano sulla spalla e gli chiese se sarebbe andato in tour con lui, dopo che lo stesso Jarrett ebbe finito un assolo con la chitarra elettrica. Eyes of the Heart, un sottovalutato album live del 1979, comincia con un lungo assolo di sassofono soprano. In Spirits e No End Jarrett suona ogni genere di percussione. I suoi lavori solistici al piano includono sia le proverbiali improvvisazioni, che registrazioni del repertorio classico. 

In confronto, pochi musicisti jazz hanno deviato in quest’ultima categoria. Si può pensare a Wynton Marsalis, ma il ruolo della tromba nel repertorio classico è piuttosto marginale. La tromba non ha raggiunto il suo potenziale espressivo come strumento solista fino a quando non ha trovato la via fra le mani di Louis Armstrong. 

Il piano, invece, è il centro della tradizione classica occidentale. Se i critici buttafuori all’entrata del Pantheon dei pianisti classici hanno esitato ad ammettere Jarrett, è in parte dovuto al fatto che lui non ha dedicato se stesso al canone con la risolutezza e l’esigenza dovute. Mentre le sue registrazioni de Il clavicembalo ben temperato sono spersonalizzate fino all’austerità – «questa musica non ha bisogno del mio aiuto» –, Jarrett sottolinea sempre che Bach era un improvvisatore. E Beethoven non poteva essere più felice di quando annientava potenziali rivali in quello che il lessico del jazz avrebbe definito cutting contests (battaglie musicali NdT). 

Per certi versi, quindi, il genio dell’improvvisazione di Jarrett, lo porta vicino allo spirito di questi, più che verso una devota aderenza ai loro spartiti. Paragonato ai maggiori concertisti di sempre, Jarrett ha coperto solo una minima frazione del repertorio. Non ha mai registrato una sonata per pianoforte di Beethoven. Perché Beethoven lo avrebbe messo alla prova e imposto un tributo in modo diverso da Bach o Shostakovich? Non importa, ci sono così tante registrazioni di Beethoven, ma esiste solamente un Köln Concert.

Se, in seguito a un cortocircuito cosmico, fossero cancellate dagli archivi tutte le interpretazioni di Beethoven eseguite da Alfred Brendel, sarebbe una perdita, ma avremmo comunque le versioni di Kempff o di altri. E anche se perdessimo tutte le registrazioni di Beethoven mai fatte, avremmo comunque gli spartiti: i documenti fondamentali su cui poggia la conoscenza. Ma se perdessimo Jarrett, avremmo perso la musica che lui soltanto era capace di creare, comporre e suonare.

Il Köln Concert è sia occasione che esempio iconico; molte delle sue registrazioni soliste successive sono più forti, anche se meno seducenti melodicamente. Le meravigliose melodie di Jarrett sono inseparabili dalla sua duttile potenza ritmica.

Ora, il ritmo è terreno di molti confronti, basta pensare a McCoy Tyner, alla sua devastante mano sinistra, ma Jarrett ha il talento di scatenare impennate ritmiche radicalmente eccessive in rapporto a ciò che sta facendo. Un elemento cruciale delle performance soliste, che diventa ancor più evidente con il trio – basta ascoltare i primi due accordi di Flying, Part 2 in Changes – dove lui, DeJohnette e Peacock rimbalzano da uno all’altro con effetto estatico. Sebbene sia un leggero peccato che Jarrett negli ultimi decenni non abbia collaborato maggiormente con altri, si è rassicurati da come il suo trio fosse infintamente flessibile. Sono stati funky, hanno suonato calypso, e addirittura il ragtime (purtroppo). Suonavano liberi, danzavano. 

Alla costante qualità di Jarrett su tutta la gamma di stili, corrisponde una longeva creatività. Chiaramente, il contributo di Ornette Coleman è storicamente più importante. Anche se Coleman non avesse registrato niente dopo il 1960, il suo lascito sarebbe stato al sicuro. Il rovescio della medaglia è che, nonostante l’attività frenetica, molto di ciò che Coleman ha fatto da allora somigliava ad un postscriptum. Per quanto riguarda la costante e variegata qualità di produzione nel tempo, nessuno potrà competere con Miles Davis, con cui Jarrett e DeJohnette hanno suonato nei primi anni ‘70. Tranne la pausa iniziata nel 1996, quando Jarrett fu frenato dalla ME (Myalgic Encephalomyelitis, in italiano Encefalomielite Mialgica, NdT) – i primi tentativi di recupero sono documentati in modo struggente in The Melody at Night, with You del 1999 – non ci sono stati altri momenti di aridità nella sua carriera. 

Ogni anno ECM pubblica materiale stupefacente dagli immensi archivi storici di Jarrett. Non è mai esistito un periodo in cui si andava a sentire Jarrett suonare solo perché era Jarrett, nello stesso modo in cui, in molti momenti, uno sarebbe potuto andare a sentire Bob Dylan (la cui My Back Pages, Jarrett, Haden e Motian registrarono nel 1968). Ci si andava consapevoli di avere buone probabilità di sentire qualcosa di irripetibilmente memorabile. È possibile che quei giorni siano davvero passati? C’è una traccia su Belonging del 1974 chiamata The Windup ma alcuni dei miei passaggi preferiti avvengono in quello che verrebbe chiamato il wind-down, la calma dopo i momenti di climax. In realtà, spesso è difficile essere esattamente sicuri di quando il picco sia stato raggiunto. La musica è sempre capace di scuotersi ancora, anche dopo molti climax. Il vocabolario sfortunatamente sessualizzato che si è intrufolato qui, almeno ci permette di affrontare il tema dei contorcimenti e dei gemiti di Jarrett. A volte i gemiti coincidono con i momenti di estasi. In altri momenti non sembra che stia facendo finta, giusto, ma che sia più l’irrefrenabile espressione di rapimento, le urla potrebbero essere il supremo sforzo di raggiungere una trascendenza che si dimostra sfuggente.

Si consideri Somewhere/Everywhere dall’album del 2013, Somewhere. Il trio comincia con il brano di Bernstein e poi scivola nella trance collettiva di un originale di Jarrett. Cresce, cresce e poi, avendo raggiunto la massima intensità e complessità, comincia la sua discesa finale intorno al quindicesimo minuto. Ma nei rimanenti quattro minuti, che avrebbero potuto felicemente estendersi a quattordici, come quaranta, il meglio deve ancora venire. Anche mentre scivola e si affievolisce nel silenzio, la musica contiene sempre la possibilità che potrebbe riprendere, di nuovo. Ecco perché l’applauso, il nostro apprezzamento, dovrebbe sempre essere ritardato.

Facing him di Geoff Dyer è tratto da Keith Jarrett, a portrait di Roberto Masotti. Prima edizione 2021 – Ristampa 2022 © Seipersei Books.

ARTICOLO n. 34 / 2022

LICORICE PIZZA & LA MIA BEATA GIOVINEZZA

«Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi» rivela con forza epigrammatica una poesia di Sandro Penna.Quando un paio di settimane fa sono uscito dalla sala del cinema Arcobaleno in viale Tunisia dopo aver visto Licorice Pizza, il nuovo film di Paul Thomas Anderson, mi sono venute in mente quelle parole. Eccitato e commosso assieme, ho dovuto camminare un po’, prendere aria, respirare e guardare la realtà extra-cinematografica pian piano rigenerare la propria forma, prima di riprendermi completamente e riportare alla regolarità il battito cardiaco.

Ho guardato il manifesto del film appeso in strada all’entrata del cinema: un fotogramma che sintetizza bene lo spirito del film, con l’attrice protagonista in primo piano. L’ho toccato, per sentire quanto fosse di carta, quanto fosse per l’appunto finzione, fiction, frammento di sogno di celluloide, quanto la vita che stavo riprendendo a vivere fosse cosa altra rispetto alla messinscena per immagini a cui avevo appena assistito.

Il film è la storia di un amore fra due ragazzi nella Los Angeles del 1973. Lui, Gary Valentine, ha quindici anni, è grassottello ma per niente impacciato e goffo, anzi, è un lanciato iper-promotore di sé stesso, un imprenditore in miniatura, una baby incarnazione del mito americano del self-made man; lei si chiama Alana Kane, ha 25 anni, lavora senza troppa passione come assistente di un fotografo, vive insieme al padre, alla madre e alle sorelle (famiglia ebraica) e sembra non essere in sintonia con niente e con nessuno. Si sente fuori posto, rispetto ai coetanei, rispetto agli adulti, rispetto a chi è più giovane di lei. Se non, per l’appunto, e sorprendentemente, con questo quindicenne smargiasso brufoloso che le fa la corte in modo spudorato e che lei non può (non deve, non dovrebbe!) assolutamente filare, secondo la regola volgare ed aurea insieme che sancisce che le ragazze vanno dietro soltanto ai maschi più grandi di loro.

Una parte superficiale ma per niente banale del film è in fin dei conti la descrizione romanzata della trasgressione di questa regola: ovvero il ragazzino anti-eroe che da rospo poco attraente si rivela pian piano principe azzurro e riesce a conquistare la preda impossibile e grande, a lui culturalmente e proverbialmente proibita.

Ma questa lettura è riduttiva: tutto il cinema di Paul Thomas Anderson è denso e stratificato, impossibile da leggere in maniera univoca. Io l’ho visto in una sorta di trance, tutto d’un fiato, piangendo a dirotto a più riprese e anche scoppiando a ridere in parecchi momenti. Non mi capita più così spesso di essere rapito da qualcosa. Rapito è la parola adatta. Sono stato trascinato con violenza da uno stato a un altro. Artigliato (etimologicamente sembra che raptus abbia una radice comune con «Arpìa») e portato da una dimensione di realtà a una dimensione altra ma altrettanto densa di significato proprio perché verosimile, compatibile con il mio personale vissuto.

Ci sono momenti nel film che sono puro cinema, dal mio punto di vista, in quanto monadi in cui i vari segni che compongono il codice filmico sono così fusi assieme da risultare irriconoscibili. Quando Gary Valentine viene arrestato, portato alla stazione di polizia e poi rilasciato, dopo un breve dialogo con Alana, viene scagliata una di queste frecce di cinema assoluto: una scena in apparenza molto semplice in cui viene filmata la corsa di un adolescente. Niente di più di Gary che, riacquistata la libertà, corre col suo fisico imperfetto su una strada della San Fernando Valley degli anni Settanta, nel sole. È una scena senza dialoghi, ed è solo, per l’appunto, un ragazzo che corre. È cinema puro perché non scritto o meglio così scritto da risultare muto e potente come un’esplosione stellare. È come la corsa del piccolo Antoine Doinel ne I 400 colpi di Truffaut, come i pistoleri che si dispongono a «triello» nel balletto finale de Il buon, il brutto, il cattivo, come il giro a Ostia in Caro Diario, come l’inizio di Persona di Bergman e come centinaia di altre scene o inquadrature che non sto ovviamente qui ad elencare. Ciò che mi interessa è questa capacità che a volte il cinema ha di far perdere le tracce dei segni di cui è fabbricato: perciò segui il dialogo – se c’è – come fossero le parole della tua reale esistenza quotidiana, la musica – se è presente – non la senti o la senti così forte come se l’avessi scritta tu e coincidesse con il battito del tuo cuore o con la paura e l’emozione che stai vivendo in un momento della tua vita; la tua vita, quella cosiddetta «vera», non cinematografica. Il cinema che scorrendo passa senza lasciar intravedere traccia di sé è il più subdolo e pericoloso: lo adoro, certo, perché grazie al cielo non mi fa incagliare nella saccenza di certe sceneggiature che fanno finta di essere intelligenti e fanno sfoggio di sé, ipercinetiche, ultra-brillanti, cariche di quell’ansia da prestazione da battuta perfetta che molti moderni scrittori per il cinema e la TV tendono ormai ad avere sempre, ma allo stesso tempo lo temo perché proprio perché somiglia alla vita, e nella sua perfetta manifattura tende a fondersi con essa, sostituirvisi. E così amore si aggiunge ad amore, ma anche dolore a dolore.

Nella San Fernando Valley del 1973 tutto sembra assolato e favoloso, e anche possibile: la musica è fantastica, puoi incontrare John H. Peters, ex-parrucchiere poi playboy poi produttore poi marito di Barbara Streisand, puoi fondare un’azienda di materassi ad acqua, puoi essere una baby star del cinema; eppure tutto è anche già marcio, sembra voler dire Paul Thomas Anderson. Impercettibilmente, con misura ed eleganza, questo meraviglioso film è la storia della contrapposizione fra la purezza dei ragazzi protagonisti, della loro innocenza (sono innocenti anche quando provano a fare i grandi, sono puliti anche se sognano il mondo sporco dei soldi e del business) e lo schifo senza possibilità di salvezza del mondo degli adulti. L’America nel 1973 è diventata adulta e compromessa rispetto a quella giovane e piena di speranze degli anni Sessanta. Il sogno è finito. «It’s on America’s tortured brow / that Mickey Mouse has grown up a cow», canta David Bowie in Life on Mars sparata non a caso a tutto volume in una scena del film. La Storia, possiamo azzardare, uccide i sogni. I sogni rimangono sempre immutabili, irrealizzati e bellissimi, nel cuore dei bambini e dei ragazzini. Prima che qualcosa li sporchi. Da una parte sta il fuoco della giovinezza e dall’altra tutto ciò che può servire a spegnerlo: nel film, nello specifico, la crisi petrolifera del 1973, le manovre politiche, gli abusi di potere e le megalomanie dell’industria del cinema. Ho pianto vedendo questo film perché inevitabilmente ho pensato a me, ho pensato a mia figlia, a mia moglie e ai miei cari, ho pensato ai sogni che a volte la Storia ruba ai ragazzi prima del previsto. Ho pensato che la giovinezza, a poterla congelare in eterno, sarebbe antitetica alla corruzione, fermerebbe le cause della colpa e ogni senso di colpa assieme, coinciderebbe col Bene.

Quando sono uscito dal cinema ho guardato il cellulare e scrollando sull’homepage del New York Times ho visto foto terrificanti dell’invasione dell’Ucraina e letto titoli di stragi di civili, fra cui bambini. 

E pensare che neanche mezz’ora prima, in un’altra scena del film, guidata da un amico di Gary, ho invece rivisto la mia bicicletta di ragazzino.

Credo fosse il mio compleanno. I miei genitori, intorno al 1978 (avevo cinque anni), mi regalarono una bicicletta blu, col manubrio piegato e un sellino con lo schienale altissimo. Un chopper a pedali. Era la cosa più bella che avessi mai visto. Uno dei miei primi ricordi di essere umano sono le pedalate con quella bicicletta nelle strade sterrate intorno a casa. La sensazione del vento in faccia e fra i capelli. Ecco cosa intendo quando sostengo che Licorice Pizza in alcuni momenti si sostituisce pericolosamente alla tua vita, ai tuoi ricordi, al tuo bagaglio esperienziale. Con quella bici facevo gare di velocità coi miei amici, ovviamente, ma accompagnavo anche mio nonno a fare escursioni in campagna. Durante questi percorsi mio nonno mi raccontava la storia dei posti a cui passavamo accanto, mi mostrava le case, le località, certi alberi e certe cose che ai suoi tempi c’erano e che al nostro passaggio già non c’erano più. Mi raccontava che in quelle strade e in quei campi di grano, prima che ci venisse costruito un villaggio sopra, lui, sopra un carretto trainato da un somaro percorreva il tragitto quotidiano per andare a scuola. Io ascoltavo le storie del suo mondo perduto, come si ascolta una fiaba, bella e lontanissima. Ogni tanto raccontava le storie della guerra, della sofferenza patita, dell’aver sposato mia nonna un mattino ed essere partito per il fronte il giorno dopo. Storie che mi parevano antiche, meravigliose e distanti anni luce da me. Avevo solo sei anni, il mondo del cinema (il cinema neorealista dei racconti di mio nonno, in questo caso) con quello della mia vita non potevano ancora combaciare. 

Mio nonno era un uomo alto ed elegante, me lo ricordo un giorno fermarsi davanti a certe lamiere vicino alla Casa del Popolo dove venivano affisse le pagine de l’Unità. Si fermava sempre a leggere quei giornali appesi, e anche io diligente parcheggiavo la mia mini-Harley Davidson e aspettavo. Quel giorno invece di stare in silenzio lesse e disse: «Farabutti!», a voce alta. Il rapimento Moro, io l’ho vissuto così.

Un giorno d’estate ci fermammo sotto un olmo a fare colazione. Avevamo comprato un panino con la mortadella, l’acqua e l’aranciata in un Bar Tabacchi da qualche parte vicino al Canale Maestro della Chiana, che lui conosceva bene perché ci andava a comprare le sigarette quando nel dopoguerra prese a lavorare come stradino. Non so perché quel mattino, non so perché proprio in quel posto; chissà perché, ma mi piace pensare, nel mio rimembrare distorto, che ci fosse a quell’ora lo stesso sole di un mattino californiano.

Però successe. Fu il mattino in cui mi raccontò della morte di suo figlio. Il fratello maggiore di mio padre morì a quindici anni per un’infezione cardiaca che al giorno d’oggi sarebbe stato una sciocchezza curare. Mi raccontò di come i dottori avessero consigliato di farlo curare da uno specialista a Roma, solo così si poteva avere la speranza di salvarlo. Bisognava però raccomandarsi a certe persone e al vescovo. Io non capivo cosa significasse raccomandarsi al vescovo e chi fosse questa congrega di persone del paese così potenti da poter decidere chi va dentro gli ospedali buoni di Roma e chi invece ci resta fuori. Mio nonno piangeva mentre raccontava e io mi preoccupai. Mi raccontò che lo convocarono in un imprecisato ufficio e quelle certe persone gli dissero che, insomma, si sapeva bene come lui la pensasse politicamente, e che quindi l’unico modo per accedere a questa via medica di alta categoria era quello di abbandonare la tessera di un certo partito e prendere quella di un altro. Mio nonno sotto l’olmo si asciugava gli occhi col fazzoletto e piangeva come un vitello, per la prima volta incurante del fatto che questo piangere così a dirotto e senza difese mi potesse turbare. Non si dimentica, un vecchio che piange. «La mia risposta fu no», mi disse, me lo ricordo, «dissi a quelle persone spinto da non so cosa che la tessera non la prendevo mica, e un mese dopo Alcide morì». 

Ho capito tutto con più precisione molti anni più tardi. E ho capito che il mondo è instabile e tende inevitabilmente alla corruzione. La giovinezza, che non si può fermare con un tasto freeze, è un’età mitica in cui ancora questa nozione è ignota, e di conseguenza si è generalmente beati. Ma questa ignoranza è poi la stessa che ci sbatte in faccia con ancora più forza la rivelazione dei virulenti processi di decomposizione. E può far molto male. 

Dobbiamo proteggere i nostri figli dalla moltiplicazione forsennata delle immagini del sangue, proteggerli dal video-massacro mediatico che la Storia quotidianamente ci offre; è compito nostro occuparci di questa nuova forma di difesa dei cuccioli dal pericolo, ed è nostro dovere addestrarli a nuove modalità di sopravvivenza. Eppure, in ugual modo sono sempre più convinto, in un una maniera nuova che ancora non sappiamo e che filosofi e psicologi dovranno cominciare a indicarci, che potremmo cominciare a togliere i ragazzi dalla campana di vetro e lasciarli vivere in un universo un po’ meno bambino-centrico. E nei limiti del possibile, insegnare loro il perdono, la pietà, il logos di Eraclito che tutto trasforma, la fisica di Aristotele e le leggi del movimento; insegnare loro quanto inevitabile sia in tutto la fine, celebrando da subito, con adeguato rito, il matrimonio della vita con la morte.

ARTICOLO n. 33 / 2022

IL COGNOME DI MIA MADRE

Un dialogo

M.T. Il cognome di mia madre è piuttosto raro: l’ultima volta che ho controllato era presente soltanto in dieci comuni, nove dei quali in provincia di Cuneo. Dopotutto è da là che vengono, anche se mia nonna materna mi raccontava sempre che il suo, di nonno, parlava di una casata francese a cui sarebbe appartenuto. Non era vero, ovviamente: ho risalito lungo quella linea di sangue fino a fine Seicento, e non ho trovato nessuna traccia di nobiltà. Non se ne trovano quasi mai. Da ragazzino avevo pensato di prenderlo, ma la lungaggine burocratica e i costi mi avevano intimorito. Oggi mi pare che ci siano due verità in quella voglia di appartenenza: volevo farlo perché si tramandasse in me una parte della famiglia di mia madre e perché pensavo che solo nei nomi le cose vivono davvero. Oggi ho capito che non è così importante: forse non lo prenderei perché anche se non ce l’ho nel cognome, quella linea di sangue non è qualcosa che semplicemente fa parte di me, ma letteralmente quello che io sono. Non dovrei fermarmi a quel cognome: dovrei possedere anche quello delle mie nonne, e quello dei loro padri, e quello delle loro ave. La decisione della Corte è senza dubbio una buona notizia: sarà più semplice scegliere, dare alla madre il sacrosanto diritto di perpetuare anche il suo cognome. Ma se il lignaggio è nominale e dunque simbolico, basta questo a conchiudere la complessità di ciò che rimane, delle famiglie?

M.P. Nel cognome di mia madre è annidato un indizio storico, di cui nessuno ha tenuto traccia e nessuno ha mai raccontato e probabilmente appartiene ai mori cacciati dalla Spagna, che hanno trovato accoglienza prima fra le coste sarde e infine fra quelle sicule, da cui provengo. Io, il mio cognome, l’ho spesso dimenticato e anzi, pubblicamente, non l’ho proprio avuto per più di un decennio. Tutto ciò che avrei voluto sapere della mia famiglia riguarda una storia recente, che è quella della mia bisnonna, la nonna di mia madre, che il cognome non lo aveva perché era un’orfana, adottata da bambina da una famiglia di nobili catanesi che l’hanno tenuta in casa come sguattera. La mia grande storia famigliare si ferma ai primi decenni del novecento, quando una bambina è stata abbandonata diventando la numero 0 di una nuova stirpe di donne. È a lei che mi sono sempre sentita appartenere, a quella ragazzina non voluta due volte, di fronte a lei il cognome di mio padre e quello di mia madre non esistono, troppo pallidi, troppo diluiti con il sangue di tutti. È quello il mio cognome: quello che non è mai esistito. E se potessimo scegliere a chi appartenere? Se da adulti potessimo dirci liberi di assumere i cognomi di chi ci assomiglia, che non sempre è una cosa che ha a che vedere con il sangue, non saremmo protagonisti di una storia molto più onesta? 

M.T. Una parte di me ti direbbe: troppo comodo. Noi siamo anche quello che non vogliamo essere, e questo è un fatto che secondo me non può essere messo troppo in discussione in maniera sensata: molto del lavoro che uno può fare nella vita ha a che fare col vedere chiaramente questa distanza da se stesso. Il fatto che siamo generati da qualcuno, il fatto che generiamo. Però è ovvio: non è solo il sangue ciò che lega una famiglia. Nel retaggio patrilineare del cognome c’è l’idea del lascito, di qualcosa che viene tramandato solo da una parte, quando l’unica cosa a essere indubitabile in una nascita è la madre. Mi viene da pensare che il cognome del padre risponda a questo complesso di inferiorità: una certezza simbolica contro una certezza reale. È vero anche che il cognome di quella ragazzina che abbiamo cercato invano dopotutto era il cognome di suo padre e poi di suo nonno, penseresti a loro se un giorno lo trovassimo? Io tendo a considerarmi la somma delle persone che hanno contribuito a generarmi, conosco i loro cognomi e me li rammento spesso, ma oggi non vedo più il fatto di avere un solo cognome, quello di mio padre, un limite: ho imparato che la famiglia è molto più grande di questo. È giusto che oggi le persone venga dato in automatico il cognome di entrambi i genitori, in modo che essi in possano scegliere per i propri figli. Dopotutto aggiungere il cognome del lato materno della famiglia non è mai stato un problema per i grandi casati che si univano: anche nell’araldica, che è la rappresentazione grafica degli stemmi di famiglia (che spesso parlano dei loro cognomi) i quarti sono ben delineati e il cognome stesso prima del 1300 era una cosa diversa da quella che intendiamo oggi. Lo stesso cognome Windsor è una scelta relativamente nuova e in qualche modo eterodossa. Perché dovrebbe essere un problema per noi? Però abbiamo chiamato nostro figlio con un solo cognome, il mio, se avesse un fratello o una sorella come ci comporteremmo? Mi spaventa che due fratelli di sangue possano avere cognomi diversi.

M.P. Il giorno in cui abbiamo deciso di dargli solo un cognome, il tuo, e quando è stato scelto il suo nome, ricordo di aver pensato che il cognome è quello che sei stato, e il nome è quello che sarai. Per questo, per scherzo ma forse no, ti ho proposto che avremmo dato solo il tuo cognome se a me fosse rimasta libera scelta sul nome: se tu determinavi il passato, spettava a me lanciare uno sguardo verso il futuro. Quel che è chiaro è che Cosmo Trevisani sarà quello che deciderà di essere e che noi gli abbiamo dato solo una casa da cui partire. Suo fratello o sua sorella seguiranno lo stesso percorso, che è quello di un figlio o di una figlia frutto della mescolanza dei nostri geni e ai quali daremo il dono del tempo, come abbiamo fatto con il primogenito. Se sarà automatico il doppio cognome, allora chiederemo di rimuovere il mio, al quale non sono legata e non certo per disaffezione nei confronti del mio amato padre, ma proprio perché ho più fiducia in quel che saremo che in quel che siamo stati e perché, certo, due bambini nati con gli stessi genitori non possono avere cognomi diversi, sarebbe come metterli in un campo di battaglia con le nostre mani e invitarli allo scontro. 

M.T. In un ramo della mia famiglia a un certo punto ho trovato un documento di battesimo di inizio Ottocento dove sotto la riga in cui prendeva posto il nome del padre c’era scritto: incerto. Quella bambina, Maddalena, venne riconosciuta soltanto dalla madre e quindi prese il suo cognome: Ragni. Anche questo è un passato sul quale edificare. Tolta finalmente la potestà che partiva dal matrimonio ogni cognome è in realtà sia materno che paterno ed è giusto fare in modo che le trame non si perdano, che le linee di sangue possano essere ricostruite. Nel Concilio di Trento fu dato ordine ai parroci di tenere traccia dei cognomi al fine di evitare le consanguineità e quel cognome fu quello del padre. Una scelta sbagliata ha prodotto una consuetudine così radicata nei secoli che ha permesso ai genealogisti di tracciare con certezza linee antichissime: il compito di chi fa genealogia oggi è quello di tenere in mente la sostanziale patrilinearità dell’approccio tenuto finora e provare a cambiarlo. Ogni albero genealogico dovrebbe essere una tavola per quarti. Col doppio cognome automatico, come nei paesi ispanofoni, se verrà mantenuto un rigore nella scelta in cui essi appaiono (quale che sia), i genealogisti che lavoreranno tra trecento anni avranno vita più facile della mia, che per scovare i cognomi delle madri devo scandagliare sempre più a fondo. Fantasia e stato civile non vanno molto d’accordo, forse giustamente.

M.P. A me pare che le madri abbiano bisogno di vedere riconosciuti i propri sforzi, costruire un essere umano dentro di sé, partorirlo e accudirlo intensamente per i primi mesi e i primi anni, non è qualcosa che può risolversi con un semplice ringraziamento a mo’ di letterina per la festa della mamma. Quello che ricordi tu, ovvero che tenere traccia dei cognomi avrebbe evitato la consanguineità, poteva avere una funzione e un senso fino a non molto tempo fa, ma oggi le cose sono diverse e le leggi si cambiano di pari passo all’evoluzione umana e culturale. Per i primi tempi sarà più difficile tenere il computo degli avi, di chi c’è stato prima di noi. Ma il nostro compito è lavorare sul presente, fare in modo che ci sia equità e riconoscere a entrambi i genitori pari dignità. Il cognome paterno, conferito alla nascita, ha tutta l’aria di essere un premio: se la donna ha il privilegio di dare la vita, l’uomo deve avere il privilegio di apporre un’etichetta a quella vita e di renderla propria, simile a quella dei suoi padri. C’è una forma di appropriazione, in questo, che non credo faccia molto piacere alle donne. Il marchio sul figlio è una cosa ancestrale, che ricorda i clan, le lotte per il fuoco, le divisioni di territori e il tracciamento dei confini. Con la storia che la madre è sempre certa si è tolto di fatto alle madri il diritto a riverberarsi negli anni a venire, un sasso che lanciato nell’acqua non produce piccole onde ma solo un rumore sordo per finire negli abissi. Credo sia importante riaffiorare, ora, da quelle profondità e far sentire che ci siamo state anche, e forse soprattutto, noi. 

ARTICOLO n. 32 / 2022

A CONVERSATION WITH ALESSANDRO GALLENZI

What does it mean to be a publisher?

When thinking about international publishing, there are many questions we should ask ourselves: how is cultural work changing in the world? Will the publishing world be able to respond to the multiplicity of stimuli from which it is overwhelmed every day? What will the role of the publisher be in the future?
These, and many other questions, open up a series of conversations with the protagonists of today’s publishing industry.

A.GENTILE What does it mean to be a publisher? Giangiacomo Feltrinelli used to say that a publisher is like a wheelbarrow, a mean of transportation, thanks to which books pass from an author’s hands to a reader’s. The late Roberto Calasso, on the other hand, thought of a publisher as an artist, who thinks about the construction of a catalogue as a writer thinks about his novel, with a creative, artistical mindset. Which of these two positions you feel closer to?

A.GALLENZI Both of these approaches are part of my publishing ethos. On the one hand I agree with the likes of Giangiacomo Feltrinelli and his friend John Calder, whose list we inherited, that a publisher is a conduit – not just between authors and readers, but also between past, present and future. Sometimes a publisher is necessary in order to keep alive a legacy that would otherwise be forgotten. Once we published an English translation of Edmondo De Amicis’s Costantinopoli, a book which had been long out of print even in Italy, and Einaudi was intrigued by our idea and reissued it there. This kind of cross-pollination is very important in publishing. I do, however, feel closer to Roberto Calasso’s approach, and like to think that our list, on the whole (with some exceptions), is a reflection both of our taste and an attempt to create a work of art in itself. The image I like to use to describe a publisher is that of a gallery curator, who selects a number of works and creates a narrative that links them, speaking to the viewer in simple, understated terms. It is essential, and Calasso was a master at this, that the message is not too loud or obtrusive, and that publishers know how to take a step back and let go of their own creations.

A.GENTILE Before being publishers, first of all we are readers, though readers who read books in a way no one else does, sometimes dissecting a text like a surgeon would. My question then would be about the books that influenced you the most in your work as publisher, the ones you keep returning to in your daily job. What are the most vital pages that give shape to your publishing strategies?

A.GALLENZI I feel very lucky and privileged, because my experience as a translator and my interest in linguistics helped me to look at texts in a different way, and to recognize their beauties and complexities in all their multifaceted aspects. I have always been an extremely slow and “dissecting” reader, and there are a number of books I keep going back to as a kind of measuring rod for my work as a publisher. Dante’s Divina commediaVita nuova and Rime are among the most important works in my own development both as a reader and as a publisher. Then I would say the works of Dostoevsky, Bulgakov, Gogol, the poetry of Keats, Dylan Thomas, W.B. Yeats. I am very passionate about Alexander Pope, Smollett, Fielding, Sterne, George Eliot, Charlotte Brontë, Louis-Ferdinand Céline. The list could go on – the trouble is that once you discover the beauties of literature, you almost feel compelled to share your passion with others.

A.GENTILE Of course, today books are only one part of a delicate, sometimes elegant, often surprising equation of content. From movies and tv shows available for streaming at a click of our devices, to podcasts, mobile Apps and games, stories, words, ideas are all around us, a cloud of content that we breathe, constantly, as we do our morning routines, go to work, talk with a colleague, have a romantic dinner in a restaurant. It’s inescapable and can be suffocating, this cloud, but also exhilarating. What other “cultural objects” beside books are currently influencing your publishing strategies? Are you pursuing any type of cooperation between books and other media that might turn out to be mutually beneficial?  

A.GALLENZI Books are a very supple and versatile communication tool, and they continue to adapt with the times. It is their format that has remained (in most cases) more or less the same over the centuries, but their content keeps morphing in order to speak to new generations of readers. As a book publisher we are not averse to change, and we have embraced the eBook revolution, but tend to resist the latest fads or fashions, such as books by influencers, epistolary novels written as emails, text messages or tweets. We are not closed to any new idea that speaks to us and excites us, but our taste is fairly traditional, and we don’t like gimmicky books. In short, you won’t find many “multimedia” titles in our programme.

A.GENTILE But let’s go back to books. Books are strange objects, and I often wonder what their role in our contemporary society is – especially given the proliferation of media we were talking about. What do you think the common perception of books is? Are they thought about as merely entertaining devices? Do they still represent a different kind of emotional experience, or a different way to interrogate our reality? Franz Kafka used to say that we need books that break the icy sea inside ourselves. Do books still manage to do this? 

A.GALLENZI Books are extremely wide-ranging and eclectic: they can entertain, challenge ideas, grant a little escapism, kindle emotions, lead to a discovery, create a debate and so on. Readers can take what they want from a book. Even the same book can elicit different reactions from different readers. A book can spark or quell a revolution. A book can change one’s life. It is perhaps the most sophisticated form of communication, because it can engage our minds in a more profound way than, say, cinema, visual arts, music or online media, which are mostly based on vision and hearing. Since what we are is clearly defined by thought and language, a book absorbs all our mind and offers a much more complex way to interrogate our internal and external reality. Keats compared his first reading of Homer to the discovery of a new world; Borges likened the discovery of Dostoevsky to that of love or the ocean – a memorable event in our lives. In short, a book gives access to an entire new physical and spiritual world, which can be explored and rediscovered many times during one’s life. And yes, I believe books can offer a unique kind of emotional experience: this is what has made them so successful throughout human history.

A.GENTILE A follow-up question would have to do with readers. What’s the ideal reader you have in mind as you work? And how this ideal reader, if present at all, comes to you: do you search for them, trying then to find the best possible reading experience for them; or do you invent them, meaning that you move about the publishing world creating needs and spaces that weren’t there before?

A.GALLENZI My «eternall reader» (to quote from the prologue to Shakespeare’s Troilus and Cressida) is curious, intelligent, questioning, understanding, happy to be challenged and never petulant or pedantic. I want to share my interests and my tastes with my readers, and I want them to feel some of the joy and good humour that inspired me to publish the books I bring to their attention. Each book is an open invitation, but since I am fully aware that it is impossible to make everyone happy, for me it’s more like scattering seeds than casting a baited hook.

A.GENTILE However, a publisher thinks about the readers who the books she publishes are going to meet, books are often thought of as bridges, especially in times of great division. It’s a platitude, of course, but one that holds – like all platitudes do – a morsel of truth, though one that is consistently challenged by political, societal and linguistic barriers. Many have dreamt, over the decades, of a fully European publishing house, that can make a book available in multiple languages at the same time, for readers across the Continent. Is it utopia, or is it something that new technology and a renewed need for cooperation are making more and more possible? How would you feel about such a project?

A.GALLENZI Many have tried and failed. There was a time when, during the late Sixties and early Seventies, when a group of likeminded and politically aligned publishers (Giangiacomo Feltrinelli, John Calder, Barney Rosset, Klaus Wagenbach, Heinrich Ledig-Rowohlt, the Dutch firms Bezige Bij and Nijgh & van Ditmar, Jérôme Lindon, Christian Burgois and others) thought it possible to publish the best books from Europe in every major language. But what made their project unrealizable was their own strong individuality and the gulf in readers’ tastes and expectations across the borders. Publishing is a very idiosyncratic pursuit. Perhaps this is the beauty of it – what we call «bibliodiversity», something that in fact should be fostered and safeguarded. I think that, today, making this happen would be more difficult than ever (mainly for reasons which have to do with the complexity of our market and a shift towards corporate publishing), extremely commercial publishing operations such as Harry Potter and Elena Ferrante aside. Nonetheless, and as we have seen recently, there is no guaranteed formula of success even for best-sellers: what France adores, Britain dislikes – what Italy and Spain rave about, Germany finds boring, and so on.

A.GENTILE Despite the need for cooperation we were talking about, we do have our differences, of course, and differences must be treasured even as we find new ways of working together, of being together, because it’s our differences that make us unique. Another platitude, perhaps, but one that is often exemplified in publishing by the contrast between British and American publishers and European ones. Generally speaking, and on the one hand, every book is different in the UK and the US, thus, a publisher’s identity is less perceivable that the identity of the editor building a particular list. On the other hand, and in the European landscape, a publisher’s identity tends to be immediately recognizable from the get-go – think of a Gallimard blanche, or Adelphi’s pastel colours on a bookshelf. What do you think the respective merits of the two approaches are? And which one do you feel closer to?

A.GALLENZI Soon after starting my career in publishing in Britain, I discovered that I would have to adapt my editorial and production compass in order to be successful. If I had followed my instincts and personal taste, I would have conformed to the French model of Fayard and Gallimard, or the Italian model of Adelphi and Sellerio. Other British publishers have done that (the first Pushkin Press, Maia, Peirene, etc.), however, they have never been able to shake off the perception of being «niche», difficult and inaccessible. My approach, first at Hesperus and later at Alma, was to put an emphasis on the editorial care, the quality of the translation and the physical appearance of the book, using striking images or illustrations for our covers and making every single volume stand out on its own, rather than becoming part of a series. We used fine Arctic paper and «French» flaps, but our books were perceived as accessible and were a hit among younger and the older generations alike. Our motto at Hesperus was «Et remotissima prope» – «bringing near what is far» (both in terms of space and time) – and we managed to do what others had failed to do before: finding the right commercial formula without having to sacrifice our editorial integrity. As the British market evolves, we need to keep changing too if we want to remain successful, so we can’t adopt a one-layered approach to publishing.

A.GENTILE Publishing, as our readers may have gathered from this conversation, is sometimes a very idiosyncratic business. How do you imagine the future of our industry? Umberto Eco used to say that books are «eternal objects»; objects that, like a fork or a spoon, are so perfect from the moment of their invention that they don’t need changes. Do you think this is true for books? Do you believe that books will stay the same – physically and spiritually – through the next years? And if, on the contrary, you think they will change, how will they do it?

A.GALLENZI I totally agree with Umberto Eco, and, in fact, the comparison of a book to a fork or a spoon is one I have used many times in the past during my talks about publishing to illustrate that some objects are perfect as they are and need no improvement. Both PDFs – which are meant to be read online or on tablets – and eBooks for Kindle devices are in fact a substandard, diminished version of the original paper artefact. I want to believe (and the recent resurgence of the printed book in all markets bears testimony to this) that books will remain the same – always adapting in content and presentation. And I do believe they will speak to new generations, remaining the lusciously pleasurable objects they are to our senses today, as they have been for centuries.

A.GENTILE As we wind down our conversation, perhaps it’s time to move into more playful territory. We talked about the future of publishing, so, perhaps, now it’s time to talk about the future of your publishing house. Give us a sneak peek into the next six months. What are you most excited for in publishing?

A.GALLENZI I am particularly looking forward to brand-new translations of Crime and Punishment and Pinocchio, and to the publication of a lesser-known literary gem by Charles Dickens, Pictures from Italy, detailing his impressions of our country during his one-year stay in 1844–45. Having recently published a translation of John Keats’s letters for Adelphi, La valle dell’anima, I am thrilled to be publishing in September, under our Alma imprint, my first non-fiction book, Written in Water, about the poet’s final months and death in Italy.

A.GENTILE Last question. If you were to choose a classical book from ages past that were to reach your desk today and that you wouldn’t be able to pass on, which book would that be?

A.GALLENZI Too many to mention, but one that keeps coming into my hands and is swiftly put back onto the shelves is John Bunyan’s The Pilgrim’s Progress – possibly too dense and slow-paced for our times of short attention spans.

ARTICOLO n. 31 / 2022

IL LAVORO CULTURALE

The Italian Review inaugura un ciclo sul lavoro culturale, con questa immersione nel linguaggio a opera di Luciano Bianciardi, a cento anni dalla sua nascita. Molti decenni dopo contempliamo un mondo radicalmente diverso, dove alcuni di questi lemmi hanno assunto conformazioni diverse e sono state oggetto di semplificazione e polarizzazione: molto si è detto sul significato della parola dibattito, che nell’epoca social ha assunto forme del tutto imprevedibili, se è vero che nel 55esimo rapporto sulla società italiana del Censis uno dei capitoli era intitolato La società irrazionale: il Censis parla della nostra epoca come l’epoca del «sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà» e aggiungendo che «l’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale (…) e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei ‘trending topic’ nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive».
Sull’obsolescenza e lo slittamento di significato di un termine qui evocato con grande naturalezza come intellettuale si è già discusso ma non abbastanza. Questo termine identitario, divenuto in un certo qual modo grottesco, sarà in varia natura presente in questo ciclo, anche quando non enunciato. Seguiranno a questo intervento bianciardiano molti dialoghi con editori e editor internazionali, allo scopo di indagare il lavoro culturale, più precisamente editoriale, in varie forme. Se «ogni linguaggio è schema e astrazione» si cercherà di entrare dentro quell’astrazione, e non solo: dentro lo sguardo dei «lavoratori culturali»: che spesso coincide con una visione del mondo.

Andrea Gentile, Direttore responsabile The Italian Review

Per comodità di chi voglia fruttuosamente dedicarsi al lavoro culturale, sarà opportuno raccogliere, a questo punto, tutta una serie di indicazioni emerse dalle pagine che precedono, indicazioni circa il problema del linguaggio. C’è infatti un lessico, una grammatica, una sintassi e una mimica che il responsabile del lavoro culturale non può ignorare.

Cominciamo subito, perciò, con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi, il problema si pone o si solleva, indifferentemente; ma c’è una sfumatura di significato, perché porsi è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è venuto fuori da sé, mentre sollevare è attivo; il problema, in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse intervenuto qualcuno a farlo essere.

Quasi sempre il problema, posto o sollevato che sia, è nuovo; e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e interessanti o meglio ancora, di estremo interesse, purché siano, ovviamente, concreti. Sul problema si apre un dibattito. Dibattito è ogni discorso, scritto o parlato, intorno a un certo argomento (cioè a un certo problema) in cui intervengono due o più persone. Il dibattito, oltre che concreto, e più spesso che concreto, è ampio e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con dopo.

Al dibattito gli interventi portano un utile contributo. Esso può assumere anche la forma di convegno: in questo caso è parlato, gli interventi sono numerosi, e gli intervenuti sono giunti da ogni parte d’Italia. Dal dibattito scaturiscono, oppure emergono o anche, più semplicemente, escono, alcune indicazioni.

Le indicazioni sono anch’esse utili. Se possono esprimersi in una breve frase, allora si chiamano parole d’ordine. Per esempio: Per un/per una (cinema, teatro, romanzo, arte, cultura, scuola, pittura, scultura, architettura, poesia) nazionale e popolare. In caso contrario, quando cioè le indicazioni non abbiano questo potere di contrazione espressiva, si parlerà di tutta una serie di iniziative, utili, naturalmente, e concrete, ma di massima, suscettibili cioè di elaborazione.

Concreto, come si è visto, è il problema, il dibattito, l’intervento e l’indicazione. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, dibattito ecc. che si sia potuto definire astratto. Come non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro.

La scelta dei problemi si chiama problematica, quella dei temi tematica. Ricordo che una volta, a Firenze, discussero tre ore su questo problema concreto; se fosse necessario porsi prima il problema della problematica oppure quello della tematica. Un problema è anche, spesso, di fondo. Esso si adeguerà alle prospettive, nuove e concrete, di lottaper contro.

Lotta, anzi lotte, è l’azione quando incontra un ostacolo, altrimenti l’azione è pura e semplice attività. Ma tanto per le lotte che per l’attività si mobilitano tutte le forze, si toccano larghi strati, o larghe masse, si estende l’influenza, ci si pone alla testa e ci si lega anche strettamenteAl servizio della lotta si pongono le proprie capacità.

A volte le cose non sono così semplici; ma il dibattito ha appunto l’ufficio di indicare gli inevitabili difetti, determinati dalla situazione. I difetti consistono quasi sempre nel non aver sufficientemente utilizzato, elaborato, applicato le indicazioni emerse da. I difetti, in ogni caso, sono stati indicati da un esame autocritico. Ogni dibattito assolve anche a questa funzione.

Accanto al problema, ma un po’ più sotto, c’è l’esigenza. L’esigenza si sente, anzi, si è sentita. A volte sorge, o meglio, è sorta, ed in ambedue i casi occorre andarle incontro. Problema ed esigenza riguardano a volte i rapporti con. Con gli intellettuali, per esempio.

Gli intellettuali possono incontrarsi da soli o accompagnati ad operai e contadini. In questo secondo caso la successione di rigore è la seguente: operai, contadini, intellettuali. Gli intellettuali possono essere: illuminatidemocraticiavanzatimolto vicini a noial servizio della classe operaia; la serie è in crescendo. Pseudo-intellettuali sono invece gli altri, quelli che si sono posti al servizio del padronato, della reazione, del grande capitale, dell’imperialismo.

Al problema del linguaggio va connesso quello della gesticolazione, un problema peraltro più complesso e meno facilmente definibile; ci limiteremo a darne qualche cenno.

Ampio: si accompagna con un gesto circolare delle due mani, palme rivolte in alto.

Concreto: si strofinano i due pollici contro le altre dita.

Prospettive (e anche indicazioni): la mano sinistra si sposta in avanti, verticale; le dita debbono essere unite.

Nella misura in cui: la mano – sempre sinistra – piegata a spatola, scava in un mucchietto di sabbia immaginaria posta di fronte a chi parla.

Sul terreno del: col dorso della mano si sfiora il tavolo, con un gesto orizzontale.

Va subito detto che il problema del linguaggio non viene qui posto per la prima volta nella storia: illustri teorici e critici, da Giorgio Dimitrov a Carlo Salinari, lo hanno già fatto in passato, e molto più profondamente che qui. Ci fu anzi, sul problema del linguaggio, cinque o sei anni or sono, un dibattito largo e approfondito, con numerosi utili interventi, che portarono un contributo sostanziale alla soluzione del problema stesso. Un problema, si disse allora, che si era maturato per un’ampia discussione su di un piano collettivo e concreto. Un problema interessante per migliorare la capacità di lotta; relativo al linguaggio usato all’interno delle organizzazioni democratiche, e relativo al linguaggio usato rivolgendoci agli alleati e ad un pubblico più largo. Si denunciavano alcuni inevitabili errori, di linguaggio appunto, determinatisi in conseguenza della situazione creatasi con.

Fra i numerosi interventi se ne ebbe uno che riconosceva come l’intervento precedente aprisse la possibilità di un ampio dibattito, tanto più necessario quanto più era vicino l’inizio della campagna per le elezioni politiche. «Io penso», diceva a conclusione l’intervento, «che le questioni poste vadano approfondite per meglio specificare le cause che determinano i nostri difetti di linguaggio e, di conseguenza, gli accorgimenti da seguire per superare i difetti stessi.»

Qualcuno, più autorevole, disse che lo schematismo del linguaggio dei responsabili del lavoro culturale – e di tutti gli altri – aveva peraltro un pregio; quello di garantire una maggiore precisione scientifica, un maggior rigore espressivo, e quello di far uscire dall’approssimazione e dal genericismo del tradizionale linguaggio ottocentesco.

Altri diranno che in fondo ogni linguaggio è schema e astrazione. Che anche quando io dico «pane» uso una parola che è nata prima di me, e che significa qualcosa per pura convenzione. Che quando dico «lavoro» adopero un’iperbole. Che «idea» è solo una metafora, una metafora visiva, per la precisione. Ogni lingua, insomma, è convenzione, e come tale è legittima, anche quella dei responsabili del lavoro culturale.

A costoro occorre rispondere citando un’autorità che fu ritenuta altissima nel campo della linguistica, ed in molti altri campi ancora:

«I dialetti di classe, che sarebbe più esatto chiamare gerghi, servono non le masse del popolo, ma un ristretto gruppo sociale superiore».

© Il Saggiatore, 2018.

ARTICOLO n. 30 / 2022

MODE CULTURALI

Trave e fuscello. Le male azioni che compio, le sciocchezze che dico non diventano più veniali se me le rinfaccia uno più mascalzone o più sciocco di me. «Togli la trave dal tuo occhio» dice il Maestro di Giustizia. E forse potrebbe dirlo anche l’uomo del fuscello, a patto però di riconoscere che quel fuscello ce l’ha, e che deve toglierselo, per quante travi veda negli occhi altrui. Occorre sì, a volte, contestare i «pulpiti» da cui viene la predica, ma il «da che pulpito» non dev’essere mai un’esimente, un modo di sottrarsi alle proprie responsabilità, di sfuggire l’argomento.

Nella mia famiglia ritrovo quasi tutti i vizi caratteristici della piccola e media borghesia, tranne l’arrivismo, il culto del successo, la ruffianeria. Riconosco, in altre parole, i vizi passivi (conformismo, moderazione, temperanza, avarizia…), ben poco di quelli attivi. È stata l’esperienza precoce della sventura a eliminare quasi alla radice quel tipo di aggressività, desiderio di contare e comandare e salire economicamente e socialmente. L’esperienza della sventura ha tolto ogni sapore a quel tipo di ambizione.

Hai un bel volerti legare alla comunità, 
quando la comunità non c’è più.

Una certa amabilità, allegria e leggerezza è propria solo degli imbroglioni, di chi vive d’espedienti. È il loro strumento di lavoro, e questo abito viene mantenuto anche nei rapporti, come dire?, disinteressati. Sono quasi sempre persone dotate di un buon grado di autocoscienza, abbastanza oneste e serie per vietarsi, quasi per principio, la serietà: il loro stile ignora i toni gravi, solenni e soprattutto moralistici (parlo dei piccoli imbroglioni, non dei grossi, che invece spesso si ammantano di gravità).

Il forte, colui che può esercitare il potere senza ricorrere a sotterfugi, a mezzucci, non è allegro né amabile. Colui poi che è onesto per paura, perché la disonestà è troppo rischiosa, è l’uomo più tetro che ci sia: il moralismo è la sua vendetta. Ci sarebbe infine la superiore amabilità e allegria dei buoni, ma non ci sono i buoni.

Leggendo una pagina di Eco m’è tornato il ricordo di un amico di gioventù. Avevamo vent’anni e s’organizzavano festine da ballo. Chi portava i dischi, chi pasticcini, chi vini e liquori. Lui, con occhio brillante, prometteva di portare tre bellissime ragazze. Poi ne portava solo una e bruttina, che abbandonava subito, con l’aria di mettercela a disposizione, sicché toccava a noi farla ballare perché non si sentisse di troppo. Oppure si trattava di una cena. Uno provvedeva la casa e le stoviglie, un altro i salumi, un altro l’arrosto, un altro i dolci, un altro i vini. Lui prometteva «le salse», ma con un’aria così d’importanza, così misteriosa e maliziosa che tutti s’aspettavano qualcosa di estremamente raffinato, il tocco di classe che avrebbe promosso il nostro cenone studentesco a livelli ristorante con tre stelle. Giunto il momento, quando la tavola era apparecchiata e tutto era pronto, lui con mossa elegante estraeva dalla tasca e posava sul tavolo un tubetto di maionese Calvé.

La preoccupazione del caposervizio culturale: 
«Attenzione a come si scrive Hitchcock, ricordarsi le tre c.»

Intorno ai primi anni settanta (1972? ’73?), un giovane ex gruppettaro operaista con la fissa del cinema e del giornalismo, approdato alla tv, mi aveva contattato e assediato con visite e telefonate per convincermi a partecipare a un programma in più puntate sulle riviste di sinistra degli anni sessanta, che doveva culminare in una serie di dibattiti o tavole rotonde (quali riviste, oltre a Quaderni piacentiniIl manifestoClasse operaiaQuaderni rossi? QuindiciClasse e stato…? Non mi ricordo più).

Per educazione non gli avevo detto subito di no, anche se la cosa mi disturbava: già allora ero estremamente critico sui mass-media, e perfino più di adesso, nel senso che lo ero attivamente, praticamente, convinto che il ruolo politico della Nuova sinistra e le prospettive fossero molto maggiori di quel che in realtà non erano, e tanto più convinto che avesse tutto da perdere a mescolarsi con il bla blaistituzionale, con l’inevitabile risultato di stingere e banalizzare la sua immagine. 

Ma questo giovane mi faceva un po’ pena, e poi non mollava la presa. Vantava idee e sentimenti come i nostri (ciò che, secondo lui, avrebbe dovuto garantire a sufficienza sulla serietà del programma), e poi presentava la cosa come la sua grande occasione per affermarsi professionalmente e fare un po’ di strada in Rai. Non avevo cuore di dirgli un no secco. Cercai di tergiversare, di stancarlo, senza risultato. Cedetti: posi come unica condizione di non essere il solo a rappresentare Quaderni piacentini, dato che non ne ero (e meno ancora me ne sentivo) il leader: avrebbero dovuto partecipare – con me – almeno un altro paio di redattori (Stame o Ciafaloni o Grazia Cherchi o Salvati…). Si diede molto da fare, come già aveva fatto con me, con i compagni da me indicati per ottenerne la partecipazione. Ma anche questi compagni la pensavano più o meno come me e risposero con obiezioni, svogliatezza, pretesti di altri impegni. (Se c’era una cosa che unificava il gruppo dei Quaderni piacentini era proprio la mancanza di vanità di tutti i suoi redattori, il disprezzo per l’auto-pubblicità). Le trattative si trascinarono per qualche tempo, con alti e bassi, finché si arenarono su un nostro no conclusivo (non ricordo più come, per quali ragioni o pretesti).

Disperazione del giovane (intanto il programma era partito, con la fervida partecipazione – manco a dirlo – delle altre testate); estremi tentativi di smuoverci dal no (gli scocciava molto che nella rassegna mancasse proprio la testata che era allora la più autorevole e anche diffusa); appelli all’amicizia (che non c’era), alla comune fede politica (tutta da verificare), alla sua posizione imbarazzante o addirittura in pericolo nei confronti del suo capo, responsabile del programma (un grosso personaggio televisivo, un big, suppongo democristiano). È vero che era venuta meno la conditio sine qua non da me posta subito (la partecipazione di altri della rivista oltre a me), ma il giovane aveva il sospetto, più che fondato, che non avessi fatto nulla per convincerli, in realtà sabotando la cosa. 

Per non pregiudicare la sua posizione, disse al suo capo che la colpa era solo mia, che prima avevo accettato e poi m’ero negato, venendo meno alla parola data. Ricevetti una telefonata del boss, che aveva il tono onnipotente di un Darryl Zanuck o Howard Hughes. Gli spiegai com’erano andate le cose: il programma non m’aveva mai interessato, anzi; comunque avevo accettato a certe condizioni, venute meno le quali indipendentemente da me, non mi sentivo vincolato a nessuna promessa. Non avevo mancato di parola. Ma il boss era soprattutto incredulo che un nessuno come me rinunciasse a un’opportunità così ghiotta come quella di farsi pubblicità apparendo sui teleschermi; chiaramente, non si capacitava della cosa, pensava che scherzassi o fossi totalmente stupido, o facessi il difficile, per mercanteggiare o magari solo per civetteria.

Né poteva accettare che un nessuno come me, per un capriccio, potesse danneggiare un programma che era costato soldi e lavoro… Ma presto dovette prendere atto, benché il rifiuto non cessasse di apparirgli inconcepibile e scandaloso, che il mio «no» significava proprio «no». Allora, accantonato il tono «logico» e «pratico» cui s’era attenuto, passò alle minacce. Mi disse chiaro e tondo che io con la tv «avevo chiuso»; che se mai avessi avuto bisogno di lui «me l’avrebbe fatta pagare…». Mancava solo che promettesse di «rovinarmi», come il padrone col sottoposto, il produttore con il regista o l’attore… Non era il caso, dato che non c’erano rapporti di alcun genere, e poi ero troppo poca cosa per lui.

Ma anche nel momento in cui doveva accettare che non ero come lui (ciò che lui riteneva oltremodo importante non aveva per me nessun valore), non poteva fare a meno di trattarmi come uno della sua razza (a parte il lato grottesco, l’episodio è anche indicativo del costume verso i media di una certa Nuova sinistra, che non solo non si negò a nessuna offerta o occasione, ma anzi le ricercò, fu sensibilissima alle seduzioni del potere, ben presto a caccia di posti, carriere, pubblicità…).

Io credo di essere sostanzialmente rimasto quello di allora, anche se la Nuova sinistra non c’è più da un bel pezzo. Ma non io solo. Quasi tutti gli amici e compagni dei Quaderni piacentini hanno continuato a distinguersi per riserbo, decenza, hanno resistito assai meglio di ogni altro gruppo e formazione d’allora alla volgarità e all’opportunismo trionfanti. Non lo dico a scopo apologetico: può darsi che dopotutto la maggiore decenza nostra rispetto ad altri sia solo un fatto di classe: tra noi prevaleva l’elemento borghese, di buona famiglia, rispetto all’estrazione più piccolo-borghese o plebea di altri gruppuscoli; eravamo meno affamati, meno voraci, avevamo già il necessario e il superfluo, non avevamo bisogno di guadagnarci un posto al sole.

Tratto da Diario del Novecento, a cura di Gianni D’Amo, in libreria dal 26.05.22.

ARTICOLO n. 29 / 2022

FORD ESCORT

Ricordo con precisione la prima volta in cui ho desiderato morire.

Avevo sette anni ed ero in vacanza con i miei genitori, sui Pirenei.

A loro piaceva molto girare l’Europa in macchina e tenda da campeggio e la Francia del Nord è stata una delle mete preferite di quegli anni d’infanzia.

Entrambi i miei genitori parlavano fluentemente il francese e si erano appassionati alle zone meno turistiche del paese. In più, la qualità dei campeggi d’oltralpe era innegabilmente migliore rispetto a quella italiana: le piazzole erano immerse nel verde, enormi, i servizi igienici erano puliti, il silenzio era quasi assordante. 

In Italia ricordo invece dei bagni pubblici che più che toilette erano armi batteriologiche con notevoli esempi di quella di dripping su tutti i muri e a discapito delle leggi della gravità, piazzole talmente piccole da poter sentire i vicini copulare o russare, autostrade sopraelevate passare sopra agli spiazzi dei campeggiatori.

Una volta, in un camping del centro Italia, andò a fuoco la tenda di un nostro vicino ed eravamo così appiccicati gli uni agli altri in quel minuscolo spiazzo che abbandonammo in fretta e furia la vecchia canadese, convinti che avremmo preso fuoco anche noi. Per fortuna non successe: il vento girava a favore, perciò andò a fuoco l’altro vicino, quello che si trovava sventuratamente dal lato opposto al nostro.

La vecchia tenda canadese comprata dai miei genitori nel lontano 1983 diventava per un mese la nostra dimora itinerante. Il rituale di montaggio e smontaggio di pali, tiranti e stoffa impermeabile pesantissima, era un gioco familiare che mi emozionava sempre.

Ognuno aveva un compito: mio padre picchettava, mia madre che da sempre ha una mente logica e pragmatica metteva i pali nel posto giusto, io sistemavo le stuoie e i materassini nell’interno. 

Era un esercizio di convivenza, una sorta di propedeutica alla cooperazione sociale: montando quella tenda imparavamo a darci dei ruoli diversi, quasi paritari, tutti egualmente essenziali nella catena di montaggio e che esulavano per qualche ora dalla gerarchia che la struttura familiare spesso impone.

La notte mi sembrava di essere di nuovo piccolissima. Dormivamo tutti e tre nella tenda, che era uno spazio molto grande. Io sul lato sinistro e, separati di qualche spanna, mia madre e mio padre con il loro materassino.

Ho imparato la sopportazione, in quei viaggi. Mio padre russa come un trattore ingolfato e mia madre è talmente precisa da far saltare i nervi. Io, che ho il sonno da sempre leggero e soffro molto la precisione, vivevo quelle giornate come se fossero delle sfide intense e al tempo stesso dei divertenti giochi a premi per capire come poter essere meno confusionaria e imparare ad addormentarmi seguendo il ritmo cadenzato del russare del mio babbo.

Con questo peculiare allenamento sviluppai un discreto senso del ritmo e una metodologia paramilitare di impacchettamento e spacchettamento delle valigie che mi sarebbe poi tornata utile (molti anni più tardi, davanti all’inevitabile tournée di promozione del primo libro, mi sarei ricordata di quell’insegnamento sull’arrotolare i vestiti per poter ottenere più spazio nello zaino).

Ma il vero nucleo del viaggio, la sua anima, si svolgeva nelle tratte in macchina.

La vecchia Ford Escort a diesel azzurrina, immatricolata nel 1986, era un concentrato di lamiere, interni in plastica nera e sedili di un tessuto che sotto al sole sapeva raggiungere la temperatura di fusione del piombo. Ai miei occhi però, sulle strade di montagna e quelle parallele al Mare del Nord, diventava un rifugio accogliente in cui il tempo si cristallizzava per ore e ore e tutto perdeva la sua contestualizzazione: che anno era? E noi, eravamo davvero mortali?

Si potevano fare un sacco di cose nell’abitacolo del vecchio motore dal design simil-sovietico.

Leggere, mangiare, distendersi nel baule spazioso come un divano, dormire, fare giochi di società e perfino fare i compiti per le vacanze che mi dava la maestra.

Nei sedili sul retro avevo creato uno spazio perfetto in cui ogni mia richiesta era a portata di mano, mia o di mia madre, a cui bastava passarmi ciò di cui avevo bisogno senza neanche girarsi.

Grazie al mio stoico sistema vestibolare, non ho mai sofferto il mal di macchina – o di mare o d’aereo.

Perciò ho imparato presto che potevo leggere i miei libri anche mentre la vecchia Ford si arrampicava su per i tornanti più impervi e le strade più tortuose dei Pirenei.

Ero – sono tutt’ora – impressionante, non ho mai avuto un solo momento di esitazione gastrica.

Questa abilità mi permetteva di leggere ad alta voce i libri che divoravo nel tempo libero, cosicché potessero sentirli anche i miei genitori, come se fossi una sorta di antesignano audiolibro da ascoltare mentre loro erano concentrati sul viaggio.

Non ero fan della fiction per bambini, perciò spaziavo da Calvino ad Agatha Christie, da Buzzati alle poesie del Pascoli. 

Decantavo versi o pagine di narrativa distesa con le gambe all’insù e la testa penzoloni dal sedile, i piedi nudi, nessuna preoccupazione.

Davanti avevo mamma e babbo che pensavano a tutto il resto. Tutto quanto. E il tempo per me cessava di esistere.

Spesso non mi interessava neanche la meta finale della tappa.

Un microcosmo perfetto per una bambina, un luogo in movimento in cui fare conoscenza in modo filtrato (dai vetri del finestrino) di ciò che avevo intorno e diretto (con i libri) per ciò che invece contribuiva alla mia emotività.

Il punto fisso, ciò che rendeva unica questa esperienza, era ovviamente la presenza dei miei genitori sui sedili davanti, in una simbolica posizione di guida, del veicolo ma anche della mia stessa esistenza.

Osservavo con amore infinito le gestualità di mia madre che apriva il finestrino a manovella della Ford, che scricchiolava furiosamente con il sole ma che scorreva agile e senza rumore con la pioggia. O il suo sfogliare le mappe cartacee che a me erano indecifrabili e che lei invece sapeva decodificare così bene che non ci siamo mai persi, in tutti quei viaggi, per tutti quegli anni.

Ero incantata dall’accendisigari – questo cimelio automobilistico mi manca tantissimo nelle nuove macchine, era un capolavoro per noi tabagisti – che mio padre azionava premendolo per poi accendersi una delle sue sigarette che in Italia erano le MS e in Francia diventavano le Gitanes Papier Maïs: dopo che bruciava la punta della sigaretta, il mio babbo mi permetteva di tenere in mano quell’aggeggio misterioso e io guardavo il filamento di metallo diventare incandescente e luminoso per poi pian piano spegnersi. 

Ricordo il mangianastri.

Era un rito nel rito.

Cassette con su inciso Battiato (credo di sapere a memoria tutto La voce del padrone proprio grazie a uno di quei viaggi lì) o De André (Non al denaro non all’amore né al cielo lo imparai come se fosse un’unica preghiera). Cassette che spesso si incastravano nel mangianastri e dovevano essere riavvolte nella bobina con una penna, facendole girare su loro stesse.

Perfino gli impedimenti più noiosi del quotidiano, come dover fare pipì o riavvolgere una cassetta, diventavano speciali.

Avevamo tutto: i nostri luoghi, la nostra velocità, la nostra colonna sonora, la nostra casa su ruote e quella con stoffa e pali, su terra.

Fu netto, il pensiero.

Arrivò intrusivo e lucido, tagliente come un foglio di carta preso di striscio con il polpastrello. 

«Io non voglio che finisca mai».

Subito dopo successe una cosa che capitava di rado, vista la prudenza alla guida dei miei genitori: mio padre dovette sterzare di colpo per evitare un’altra auto che stava uscendo dalla sua corsia.

Fu rapido, velocissimo, come il rush di adrenalina che dai polsi mi prese il viso e poi i piedi.

Dicono che quando hai paura il sangue confluisca tutto alle estremità per garantire la fuga.

Eppure io non avevo avuto nessun istinto, nessun movimento involontario che facesse intendere il mio desiderio di ripararmi da un eventuale impatto frontale.

Io rimasi ferma, seduta nel mezzo, sui sedili posteriori, con lo sguardo fisso a quella macchina che veniva dritta verso di noi. Ero calma. Ero pronta.

Fu allora che arrivò a farmi visita quel pensiero.

Fu allora che desiderai di morire per la prima, primissima volta in vita mia.

Pensai, lo ricordo con chiarezza, che sarebbe stato bellissimo morire in un incidente, tutti e tre insieme, sul colpo, nella nostra Ford Escort azzurrina dal design simil-sovietico e con Battiato in sottofondo che cantava Summer On a Solitary Beach.

Sarebbe stato bellissimo perché in quel modo la nostra vacanza perfetta, il nostro limbo di amore familiare, sarebbe durato in eterno e privato dall’inevitabile sofferenza di chi invece è, per come va la vita, costretto a rimanere.

Non sapevo da dove arrivasse quell’immagine, non pensavo di essere capace di saper pensare alla morte, che allora io non conoscevo: nessuno era ancora venuto a mancare nella mia famiglia e io non ero sicuramente quella che si può definire una bambina cupa. Ero estremamente silenziosa, questo sì, ma non triste o quantomeno non così pragmatica da pensare alla fine della vita. Soprattutto a quella degli altri.

Pensai però che sarebbe stato bello finire felice, con un bonus sorrisi per chi rimaneva: una famiglia che se ne va in coro alla fine è meno triste e dolorosa di una famiglia che si estingue man mano.

Pensai che se fossimo morti in quel preciso momento nessuno di noi avrebbe dovuto affrontare il lutto per la morte degli altri due. E io sapevo, sapevo già precisamente che se tutto fosse andato come previsto dalla vita che riteniamo «lineare», quella persona che avrebbe dovuto affrontare la perdita sarei stata prima o poi io.

Fui talmente folgorata da quella che credevo essere una rivelazione geniale che, poco dopo il frontale evitato da mio padre, sottoposi ai miei genitori quel bizzarro finale di stagione che avevo previsto per la nostra vacanza: perché, dissi, non moriamo tutti e tre insieme?

E lì accadde una cosa che non avevo previsto minimamente e che avrei capito soltanto molti anni dopo: i miei genitori, senza neanche girarsi, scoppiarono a ridere.

Una risata unanime e di pancia, irrefrenabile, pura, che mi sconvolse perché davvero, davvero non riuscivo a comprendere cosa ci fosse di assurdo in quella mia richiesta così seria e apparentemente così lucida.

Loro ridevano di quella che per me era la via più semplice per tutti, quella che avrebbe comportato il famoso lieto fine.

Sono passati ventotto anni da quell’estate in cui per la prima volta pensai alla morte.

Nel frattempo ho sperimentato tante volte il lutto sulla mia pelle.

Ho imparato cosa voglia dire sopravvivere al dolore, al tempo e allo spazio che divide i corpi di chi va e di chi rimane.

Ripenso spesso a quell’estate sui Pirenei, alla nostra Ford azzurrina a diesel dal design simil-sovietico, ai miei libri letti a testa in giù e al rituale della tenda canadese.

E penso ancora, quasi quotidianamente, al momento in cui, se tutto andrà come ahimè deve, rimarrò io quella che deve sedersi al posto di guida. 

Adesso ho capito il senso di quella risata.

Gianna e Valerio ridevano perché loro erano già grandi.

Io, quel giorno, sui Pirenei ho urlato chiaramente che non ero pronta a diventare grande. Che io, il dolore, non lo volevo proprio considerare come alternativa, che la mia sopravvivenza era legata a doppio nodo con la loro.

E che a me andava benissimo così.

Anche se non è così che la natura opera.

Ci sono momenti, poco prima di dormire, in cui il pensiero di sopravvivere ai miei genitori mi rende impossibile il sonno.

E di nuovo sento quel rush di adrenalina che parte dai polsi e si dirige veloce alle estremità del mio corpo, preparandomi alla fuga.

Eppure mi trovo a dover rimanere in quella posizione senza vie di fuga, stavolta neanche immaginarie.

Il passaggio all’età adulta è smettere di cercare scappatoie dallo spazio ma soprattutto dall’andamento lineare del tempo, da cui non possiamo evadere, anche se a volte ci sembra possibile grazie a quei momenti di incredula bellezza che sappiamo vivere soprattutto nella prima, primissima infanzia.

Ricordo chiaramente la prima volta in cui ho desiderato di morire. 

E quando adesso ci ripenso mi viene da ridere. 

Di gusto, in modo cristallino e puro, proprio come Gianna e Valerio fecero ventotto anni fa in quella Ford Escort.

E capisco, tra una risata e un nodo alla gola, di essere diventata, finalmente e mio malgrado, un’adulta anche io.

Se stai vivendo situazioni di disagio psicologico, non sottovalutarle. Per informazioni e supporto visita: Telefono Azzurro o Telefono Amico.

ARTICOLO n. 28 / 2022

L’ENERGIA DI UNA MONETA

L’11 marzo 2022, alle 10.06, su un treno Tilo, tra la stazione di Lugano e Lugano Paradiso, ho pensato a Franco Cordelli. Premetto che non ho mai incontrato Franco Cordelli e tantomeno Franco Cordelli attraversa, di solito, i miei pensieri. Quante volte avrò pensato a Franco Cordelli, nella mia vita? Quattro, forse cinque. Ho cercato di leggere un paio di libri e di articoli. E tuttavia, guardando uno spicchio di lago la mattina dell’11 marzo 2022, ho pensato a Franco Cordelli. 

Franco Cordelli, il 25 maggio 2014, sul numero 131 de la Lettura, in un articolo intitolato La palude degli scrittori aveva evidenziato alcune frasi scritte da me e da Giorgio Vasta, additandole come esempi di cattiva scrittura; Franco Cordelli non riusciva a capacitarsi, «a me sembra incredibile che questi due scrittori possano essere esaltati», aveva scritto; poi, partendo da lì, aveva diviso la letteratura italiana in varie tribù e recitato il declino della narrativa e della critica.

Un tipico articolo da chiacchiericcio domenicale, la domenica di un’altra epoca unita alla domenica contemporanea, come se la parodia della critica novecentesca si innestasse in lungo post di Facebook. Nel 2014 avevo preferito non replicare. Ma otto anni dopo, davanti all’invitante grigiore dell’acqua alla fine di un inverno afoso, ho pensato a un’abitudine della mia infanzia correlata a una delle frasi stigmatizzate da Franco Cordelli: l’abitudine di guardare, assieme a mio padre, il Lago di Lugano utilizzando un cannocchiale a gettone.

La frase evidenziata da Franco Cordelli era l’energia di una moneta, estratta da un capitolo-racconto intitolato Un altro ancora, contenuto in un mio libro uscito per Einaudi nel 2009: L’ubicazione del bene.

L’energia di una moneta si riferisce al tempo concesso se inseriamo una moneta in un cannocchiale a gettone. Volevo scrivere una storia su un cannocchiale a gettone, evitando di citare quell’abitudine tra me e mio padre. Allora per scrivere quella storia ero partito da una fotografia che non mi convince, di Luigi Ghirri, per giungere a una fotografia che amo molto di più, una fotografia di Allan Sekula: insomma, dalla fotografia del cannocchiale posizionato sul belvedere italiano alla fotografia del cannocchiale che, dietro una vetrata, inquadra un cargo nell’oceano.

Nella celebre fotografia di Ghirri siamo immersi in una intenzionale cartolina. La divulgazione della visione è tutto. C’è una sensazione di benessere nel guardare quell’immagine, come accade quasi sempre con le fotografie di Ghirri. Davvero non abbiamo bisogno d’altro?

Nella fotografia di Sekula, oltre a un cannocchiale, c’è anche una vetrata, uno schermo tra noi e il mare. E al posto del Mediterraneo blu idilliaco di Ghirri, l’acqua è grigiastra, come il cielo, e c’è un cargo. Grazie alla presenza della vetrata, una parte del cannocchiale si riflette nel mare, proprio in direzione del cargo. Inoltre, il cannocchiale, con i suoi due occhietti meccanici, non sta soltanto puntando il cargo, ma sembra fissare noi, che stiamo per avvicinarci a quella che immaginiamo sia la sorgente della visione. Insomma, il nostro sguardo soggiace alle stesse leggi dell’economia. Perfino quando guardiamo da un cannocchiale a gettone, soprattutto in una zona turistica, dobbiamo porci alcune domande. E sono quelle del testo Un altro ancora. Perché un ente, un’azienda del turismo o un’istituzione hanno deciso dove posizionare il cannocchiale a gettone. Quindi noi paghiamo, pensiamo di avere la libertà derivante dal denaro ma qualcuno ha scelto per noi cosa farci vedere.

Ho studiato sia Ghirri che Sekula, ma Sekula mi interessa di più, mi pone dubbi, il punto è proprio quella vetrata tra il cannocchiale e il cargo.

Un altro ancora è un testo diviso in due parti. La seconda parte narra di una coppia di sposi, Monica e Michele. Sembrano felici durante il banchetto nuziale, il fotografo li ritrae nel giardino del ristorante ma la pioggia interrompe il lavoro del fotografo. I due sposi devono partire per il viaggio di nozze proprio l’indomani, allora concordano con il fotografo un appuntamento al loro ritorno, per scattare le fotografie che mancano al completamento dell’album. Indosseranno gli abiti della cerimonia nel giardinetto della loro casa di Cortesforza. Certo, saranno abbronzati, avranno i capelli un po’ più lunghi rispetto al giorno del matrimonio, forse nel loro viaggio di nozze sarà accaduto qualche screzio rivelatore di traumi più profondi. 

Riuscirà la fotografia a mentire – e a dire la verità – come al solito?

È una domenica mattina, a Cortesforza, il luogo immaginario ubicato lungo il Naviglio Grande, diciotto chilometri a sud-ovest di Milano, il luogo nel quale ho ambientato le storie di quel libro. Monica, in abito bianco, è nervosa, cammina avanti e indietro dal soggiorno alla finestra della cucina, in attesa del fotografo. Michele, vestito come il giorno delle nozze, è stravaccato sul divano di casa. Ha acceso il televisore, guarda una partita di rugby, in diretta dalla Nuova Zelanda.

Ho usato questo espediente narrativo per creare l’ulteriore sfasamento tra spazio e tempo. Ecco perché ho scelto la Nuova Zelanda; è una questione di fusi orari, poiché quando in Italia sono le otto di mattina, lì, in estate, è già passato il tramonto, e volevo che la partita fosse in diretta.

La Nuova Zelanda ha una grande tradizione nel rugby, volevo che Michele guardasse una mischia nella quale il pallone scompare sotto i corpi degli atleti, così come le immagini ipotetiche del suo matrimonio erano scomparse due settimane prima.

La Nuova Zelanda è proprio dall’altra parte del pianeta rispetto all’Italia.

E infine, in Nuova Zelanda piove spesso, desideravo ricreare le condizioni climatiche che avevano impedito le fotografie durante il giorno delle nozze, quindici giorni prima, in Italia, così che la pioggia televisiva e satellitare live stridesse con il presente dell’inutile sole italiano, creando un ulteriore cortocircuito psichico.

Insomma, tutto in ordine per allestire la finzione: ma il fotografo utile al falso documentario arriverà davvero?

Questi elementi sono visibili sottotraccia. Un lettore attento o una lettrice attenta dovrebbero percepirli. Certo, da molti anni, leggere davvero, con attenzione, ed effettuare i collegamenti tra le varie parti di un testo e i riferimenti ad altre arti, senza fermarsi gongolando all’effetto immediato, eroico sentimentale, è più faticoso.

Il Metodo Franco Cordelli consiste, almeno per ciò che concerne quell’articolo, nell’isolare una frase e additarla, oppure citare un aggettivo, alla sesta riga di un libro di 350 pagine e chiuderlo, senza parlare dell’opera, senza analizzare gli intrecci, i richiami da un libro all’altro, dalla fotografia alla letteratura, dimenticando una ovvietà: un libro è qualcosa di più delle frasi che lo compongono. Ma per gli amici e le amiche di Franco Cordelli, per i simpatizzanti e le simpatizzanti di Franco Cordelli, quello di Franco Cordelli era «un atto di libertà», «un esempio di rigore», «un gesto etico», perché Franco Cordelli è «magistrale».

La prima parte del mio testo Un altro ancora, è un breve saggio narrativo. Parto dal cannocchiale del belvedere che funziona con una moneta. Dopo aver inserito la moneta abbiamo tre minuti di tempo. 

«Cosa posso vedere in tre minuti? Tre minuti, in molti processi produttivi, è ciò che distingue una cosa buona, utile, che ha senso, da una cosa cattiva, inutile, priva di senso. Ci interessa la produttività del nostro guardare, raggiungere un obiettivo qualsiasi…»

Quindi, dopo aver inserito la moneta, dobbiamo catturare un pezzo di paesaggio che giustifichi l’investimento. In tre minuti cerchiamo di catturare qualcosa, non importa cosa. Siamo clienti, abbiamo pagato, in teoria abbiamo diritto a qualcosa, di utile o inutile, qualcosa che a volte non dura nemmeno tre minuti, poiché, già dopo un minuto e mezzo, siamo stanchi, annoiati dal guardare e non siamo nelle condizioni fisiche né di guardare né tantomeno di vedere. Ignoriamo che quel pezzo di mondo è concesso non soltanto dalle scelte dell’azienda produttrice, ma anche dalla Pro Loco e dall’Azienda del Turismo che hanno deciso di posizionare il cannocchiale in un punto e non in un altro. 

Il cannocchiale – la base esagonale, la sua lente – è prodotto dai lavoratori di un’azienda. Altri lavoratori, con le sembianze momentanee da turisti, inseriranno una moneta per acquistare la quantità di tempo necessaria a vedere qualcosa. Infine, un altro lavoratore ritirerà il denaro.

L’energia di una moneta: ecco cosa ne pensava Franco Cordelli.

«Qualunque cosa sia, una simile espressione, metafora o che altro, non è un bello scrivere. Al più (ovvero al meno) è un modo di scrivere che ha il merito di mostrare l’intenzionalità, la volontà d’essere originali, il mettersi in posa».  

Se utilizzassi il Metodo Franco Cordelli, dovrei prendere una frase scritta da Franco Cordelli, una frase a caso. Per esempio, «alzare i tacchi». Ah, non la sentivo dalle cattive traduzioni dei noir americani anni Quaranta o dai doppiaggi dei film western della stessa epoca: ehi, Frank, bevi questo cicchetto, alza i tacchi e smamma. Ma sarebbe ingeneroso demolire la scrittura di Franco Cordelli per una frase, sebbene, alzare i tacchi, non sia ripetuto dal personaggio di un libro di Franco Cordelli, ma proprio da Franco Cordelli in un suo testo. Eppure, Franco Cordelli ha adoperato con l’energia di una moneta il Metodo Franco Cordelli sottolineando, «non è un bello scrivere». Eh, sì, siamo ancora a «non è un bello scrivere». Quando ho letto la sottolineatura di Franco Cordelli, mi sono immaginato a otto anni, in pantaloncini corti, mentre scrivevo alla lavagna, per punizione.

Non è un bello scrivere. Non è un bello scrivere. Non è un bello scrivere…

Sono stato fortunato, ho avuto una ottima insegnante alle elementari e non il magistrale maestro Franco Cordelli. Non è un bello scrivere. Più si ripete e più diventa una frase ridicola, eppure perde presto il suo aspetto ridicolo e diventa soltanto straniante. Non è un bello scrivere. Un bello scrivere. 

Io amo un bello scrivere. Tu ami un bello scrivere. Noi amiamo un bello scrivere.

La letteratura è tutta lì, secondo Franco Cordelli. Ma la sua critica – ininfluente dal punto di vista letterario e poetico – è deludente dal punto di vista visivo e politico, e quindi, dal punto di vista di un artista. È ciò che ho pensato guardando lo spicchio del Lago di Lugano, la mattina dell’11 marzo 2022. Significa negare il fatto che per guardare una fetta di mondo con il cannocchiale occorra pagare. Significa esaltare l’ideologia dell’evento, l’evento avulso da un qualsiasi contesto che non sia quello turistico e commerciale, per evidenziare la centralità del belvedere da magazine, l’ideologia del paesaggio privo di conflitto, la visione ripulita, a pagamento. Significa negare che per guardare e avere l’illusione di guardare, serva introdurre una moneta, e quella moneta è guadagnata con il lavoro, un qualsiasi lavoro, come quello di mio padre quando ero bambino, o quello di Franco Cordelli, che scrive un articolo per la Lettura. Nel mio caso, l’energia di una moneta è un omaggio all’energia profusa (profusa la utilizza anche Bufalino, forse non sarò sanzionato per questo) da mio padre nel lavoro, la vita che passa, la morte; e ciò che resta, a volte, è anche qualche immagine guardata e vista, vista assieme: e quindi, resta moltissimo. E nulla quanto alcuni oggetti analogici mi sembrano adatti al passaggio dal Novecento al capitalismo dell’attenzione, o meglio, al capitalismo della disattenzione, e al meccanismo grazie al quale le persone non leggono davvero, non guardano davvero, e non vedono, mai.

Quando ero bambino, andavo con i miei genitori e mia sorella su un belvedere in provincia di Como. Questo luogo era a metà strada tra la sponda occidentale del Lago di Como e il Lago di Lugano: Vetta Sighignola, ribattezzata dal Comune di Lanzo d’Intelvi, Balcone dItalia. Era un piazzale, un parcheggio balconato dal quale, a 1300 metri d’altezza, si vedeva il confine, la vicinissima Svizzera, il Lago di Lugano. C’era un cannocchiale a gettone, chiedevo a mio padre una moneta. Ero sempre emozionato e ansioso, non appena la moneta precipitava nell’oggetto di ferro; ero anche triste, mi sentivo in colpa, stavo utilizzando una porzione del tempo di mio padre, l’energia di mio padre per guadagnare denaro, l’energia trasferita dal corpo al denaro: l’energia di una moneta

E così la mattina dell’11 marzo 2022, più che a Franco Cordelli e ai suoi tacchi, ho pensato a mio padre, alla fine degli anni Settanta, a quando guardavamo assieme il Lago di Lugano alternandoci al cannocchiale, ma in fretta, per non consumare il poco tempo che ci era concesso. Sprecavo una moneta, avevo l’illusione di guardare un pezzo di Svizzera, l’illusione di fuggire, o meglio, di evadere per qualche secondo, almeno con lo sguardo, dall’Italia. 

(«Allora ritorniamo alla nostra utilitaria. Siamo già altrove. Immaginiamo l’uomo che passa ogni lunedì mattina, apre la pancia del cannocchiale per raccogliere le monete. Se fossimo diversi da come siamo, ci piacerebbe pensare che, oltre ai soldi, l’uomo possa raccogliere anche i nostri minuti di immagini guardate, per metterle nel retro del furgone e portarle nel mondo. Ma noi non siamo così. Ci basta vedere l’uomo fermo, al semaforo, mentre impreca, dice qualcosa, un’invocazione o una bestemmia che non udiamo, l’uomo ha i finestrini chiusi, serrato nell’aria condizionata del furgone, e allora sentiamo una voce che nemmeno ci parla, è precedente alla parola, all’immagine: strano essere qui, adesso»).

ARTICOLO n. 27 / 2022

UN VIDEO DI MIA NONNA CHE BALLA

Traduzione di Camilla Pieretti

Un video di mia nonna che balla

Da qualche anno, filmo e fotografo mia nonna ogni volta che la vedo. Un giorno le ho chiesto se potevo farle un videomentre ballava. Adora danzare, ma non ha mai voluto seguire un corso.

Non parlo inglese, si è giustificata. Non capirei cosa dicono. Ai tempi, tuo nonno ha commentato: Hai sei figli, a che ti serve imparare l’inglese?

Così, preferisce accendere MTV, piazzarsi davanti al televisore ed esercitarsi nel cha cha cha.

Quando le ho chiesto se potevo filmarla ha accettato, a condizione che non le si vedesse la faccia.

Sono brutta, ha detto.

Ho attivato la fotocamera del telefono e lei si è girata, dandomi la schiena. Ha cominciato a contare, battendo i piedi sul pavimento.

D’un tratto, si è fermata.

Mi sono dimenticata tutto, ha detto, uscendo dall’inquadratura.

Stavi andando bene, nonna! Le ho risposto. Pensi di poterlo rifare?

Si è coperta la bocca con entrambe le mani, ridacchiando, è tornata davanti alla fotocamera con un lento strascichio di piedi e si è girata di nuovo di schiena.

Faccio una cosa diversa, però, ha detto. L’ho imparata dalla TV.

È rimasta ferma per qualche istante.

Poi si è messa in punta di piedi, come se avesse indossato un paio di scarpette da ballo. Mormorando piano, ha portato le mani vicine al petto e sollevato i gomiti verso l’alto.

Ha cominciato a librarsi per la stanza in piccoli cerchi.

Aveva le piante dei piedi pallide e fessurate, i pantaloni del pigiama tutti storti, che ondeggiavano seguendo i suoi movimenti.

Ho stretto forte il telefono.

Con i gomiti in precario equilibrio sulle ginocchia, ho affondato i talloni nel divano, trattenendo il fiato.

Lei continuava a danzare.

Potrebbe aver detto qualcosa, ma l’ho scordato.

Ricordo solo che, di tanto in tanto, quando si girava, scorgevo sul suo visto tondo un’espressione raggiante, gli occhi socchiusi come due mezzelune.

L’oceano

Alla fine dell’anno, io e mamma siamo andate da una chiromante.

Ho detto: La nonna ha chiesto che le sue ceneri vengano sparse nell’oceano quando non ci sarà più.

Ma fa freddo! Ha detto la chiromante, senza neanche guardare le carte. Ditele che nell’oceano fa troppo freddo.

Oh, non ci ascolterà, ha risposto mamma. Dice che da morta vuole essere libera.

© 2022 by PIk-Shuen Fung

ARTICOLO n. 26 / 2022

FARLA FINITA CON SÉ STESSI

Sarà dolcissimo distruggerci vedrai
E come i cieli amore nitido sarà
Baustelle, I Mistici dell’Occidente

C’è stato un momento della vita in cui ho dovuto constatare che molti dei miei artisti e intellettuali preferiti sono morti suicidi. Kurt Cobain, Pavese, Hemingway, Virginia Woolf, Philip Seymour Hoffman, Ren Hang, Walter Benjamin, Rothko, Mark Fisher – solo per citarne alcuni nell’ordine con cui sono apparsi nella mia storia personale. Quelli che non si sono uccisi, come Sartre, Leopardi o Thomas Bernhard, hanno messo la possibilità del suicidio al centro della propria opera. Altri ancora, come Kafka o Baudelaire, hanno fatto della malattia e del disagio una chiave per interpretare la vita. Dovevo preoccuparmi? Stavo sviluppando un’ossessione morbosa per l’annientamento di sé? Sarei finito anch’io con le vene tagliate, o con un’overdose di barbiturici?

Ogni volta che mi chiedevo cosa mi attraesse dell’idea del suicidio finivo per tornare a un’immagine: quella del quarto maestro della Montagna sacra di Jodorowsky, l’unico che non può essere sconfitto dal protagonista perché prima del duello si toglie la vita. L’immagine mi faceva tornare a Kafka, ai suoi digiunatori e trapezisti che non accettando mai di essere veramente vivi si rendono immortali, ma anche al grande rifiuto della musica punk con cui ero cresciuto. Si trattava di un’attitudine nei confronti della vita che avrei potuto definire solo mistica, la morte come forma estrema di ricerca spirituale o elaborazione del sé. Era anche una forma di romanticismo: la morte come ingresso nell’Assoluto, o quantomeno come tentativo di raggiungere un’autenticità totale. «Il contatto, finalmente, con le cose», per dirla con le parole che chiudono Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, pronunciate prima che Alain Leroy si spari in testa come avrebbe fatto il suo creatore quindici anni più tardi, schiacciato dal peso della sua scelta collaborazionista.

Riflettendoci meglio, però, mi sono reso conto che la questione del suicidio è spesso malposta, almeno nei termini in cui la vita umana, come ogni altra narrazione, richiede un finale per essere interpretata (e in questo caso Kafka è davvero il contrario del suicidio, con i suoi romanzi che si interrompono a metà e le storie che rifuggono ogni epilogo). Il problema con la morte autoinflitta, quello che la rende un oggetto tanto scottante, è proprio il fatto che porti a leggere retrospettivamente tutto ciò che l’ha preceduta alla luce di quell’unico, ultimo atto. È una tentazione forse inevitabile, ma pericolosa, perché ci porta a interpretare la parabola di una vita come predeterminata: il caso più eclatante di una profezia che si autoavvera. Esempio emblematico è quello di un suicido che ci appare gratuito, immotivato o non annunciato da alcun segnale. Per due ragioni: la prima è che apre lo spazio alla questione filosofica dell’assurdo; e la seconda è che ci sprofonda in un mistero forse ancora più grande, quello della persona e delle zone di inaccessibilità nella sua mente. Ci costringe a confrontarci con un doppio vuoto, quello al di fuori di noi (la vita e la morte come condizioni arbitrarie) e quello dentro di noi (il punto cieco al centro della personalità). Anche per questo il suicidio rimane ancora oggi un argomento tabù.

Ho tratto l’esempio dell’autodistruzione apparentemente gratuita da Note sul suicidio, un breve libro di Simon Critchley da poco portato in Italia da Carbonio nella traduzione di Alberto Cristofori. Critchley, insieme al suo sodale della International Necronautical Society, lo scrittore Tom McCarthy (un’altra delle mie liaisons dangereuses), si occupa da sempre del ruolo della morte nelle nostre società e del concetto di «buona morte», e dunque è forse tra i filosofi più preparati per parlare dell’argomento.

In Note sul suicidio fa subito notare un’evidenza spesso dimenticata dalla macchina obliteratrice che riscrive le vite a partire dalla loro fine, e cioè che non tutti i suicidi sono uguali. C’è una differenza abissale tra chi si uccide per sfuggire a una depressione grave o a una malattia incurabile del corpo, chi lo fa perché si trova in una situazione senza via d’uscita (Walter Benjamin a Portbou nel 1940, in fuga disperata da un’Europa sempre più nazista) e chi è costretto dal potere politico (come Socrate), chi lo fa come dimostrazione politica o scelta religiosa (lo stesso sacrificio di Gesù, fa notare Critchley, può paradossalmente essere letto come un suicidio) e un attentatore suicida, tra chi si toglie la vita per affermarne i valori e chi per disprezzo nei suoi confronti. Le sfumature sono infinite e come tali andrebbero trattate – moralmente e legalmente: pensiamo all’eutanasia –, affrontate caso per caso. Senza contare che nella lettura del suicidio che diamo in Occidente pesa tanto la matrice cristiana secondo la quale la vita è un dono di Dio che solo Dio ha il diritto di toglierci, argomento di cui Critchley esamina le falle logiche, quanto l’idea illuministica (non meno fallata) di una totale autodeterminazione razionale e cosciente. 

Critchley circoscrive la sua analisi all’Occidente, ma nemmeno le filosofie orientali vedono di buon occhio il suicidio: penso ad esempio al fatto che per il Buddhismo è altrettanto errato aggrapparsi alla vita quanto rifiutarla. Eppure la possibilità di decidere di morire esiste sempre dentro di noi, in ogni momento: una forma di libertà forse non assoluta (quanto ci apparteniamo veramente? Quanto possiamo fare di noi ciò che vogliamo?) ma comunque presente nel ventaglio di opzioni a nostra disposizione. Laddove c’è libero arbitrio si entra sempre in un territorio moralmente complesso. Come sanno bene i soldati in guerra, ma anche gli amanti, siamo tutti buoni finché non ci viene data la reale possibilità di fare il male. Il suicidio, o quantomeno il pensiero del suicidio, è quindi anche uno specchio che riflette ciò che siamo davvero sotto la patina della vita quotidiana.

Il suicida si trova sempre in uno stato mentale estremo, nel quale la morte sembra l’unica via d’uscita da una situazione impossibile. Tutt’altro che assurdo, togliersi la vita appare come l’unico atto veramente sensato. Critchley ci conduce in questa zona oscura dell’anima portando a esempio i biglietti e lettere lasciate dai suicidi, vere e proprie istantanee di una mente ai confini dell’abisso. Entrare nel territorio del suicidio significa già essere passati dall’altra parte, che l’atto venga compiuto o meno. Qualche anno fa è uscita su Netflix una serie intitolata Tredici, nella quale la protagonista-narratrice adolescente, Hannah Baker, spiegava in tredici audiocassette le ragioni che l’avevano portata a togliersi la vita. Se da un lato la serie intendeva mostrare come sia impossibile trovare la fantomatica ragione unica alla base di un gesto tanto estremo, dall’altra metteva lo spettatore dentro un meccanismo (anche narrativo) che lo portava a identificarsi con la posizione di Hannah, arrivando a comprendere la logica ineluttabile del suo atto. Per Hannah, uccidersi era semplicemente l’unica scelta possibile, addirittura la più razionale.

Dall’esterno possiamo obiettare contro questa posizione, che può apparire addirittura nichilistica, ma il punto è proprio questo: non possiamo comprendere il suicidio se non dall’interno, e a quel punto è troppo tardi, perché la macchina narrativa ha già messo in moto i suoi ingranaggi e potrebbe non esserci più via d’uscita. Certo, quelle persone non siamo noi. Ma chi può dire che non lo saremo, un giorno? Hannah viene trascinata nella spirale da una serie di eventi che presi singolarmente non giustificherebbero la decisione di togliersi la vita, ma che sommati producono un meccanismo dal quale diventa impossibile sfuggire. Non stupisce che la serie abbia sollevato tante polemiche, attirandosi le accuse di rendere attraente o quantomeno di giustificare il suicidio tra gli adolescenti. Eppure è anche una lettura terribilmente realistica delle ragioni dietro un atto che spesso da fuori ci appare inspiegabile.

Nonostante ci siano tante forme di suicidio quanti sono i suicidi, scrive Critchley, ciò che le accomuna tutte è l’impressione che ha il suicida di ritrovarsi in una situazione senza via d’uscita. Che le costrizioni siano interne o esterne, di natura emotiva o politica, fisica o psichica, rimane il fatto che il suicida si trova sempre in una posizione in cui togliersi la vita sembra  l’unica soluzione a una contraddizione irrisolvibile. Il suicida ricorda quindi gli uomini di Kierkegaard o di Camus: si trova sempre, nei mesi o nei momenti che precedono l’atto, a guardare in faccia l’assurdo.

Giungere a questa constatazione mi ha fatto pensare a un altro libro pubblicato recentemente, L’assurda evidenza di Francesco D’Isa, uscito per le Edizioni Tlon. In questo breve «diario filosofico», D’Isa parte da una situazione personale (una grave malattia che l’ha costretto in ospedale da ragazzo) per riflettere sull’interrogativo al centro di ogni filosofia che si rispetti: perché vivere è meglio che morire? Da cui deriva, naturalmente, la domanda: qual è il senso del dolore? È il dilemma di Amleto, ma anche il questito fondamentale del pensiero, quella da cui discendono le filosofie e le religioni, perché non c’è ragione di elaborare complesse teorie sulla natura o sulla storia se la vita da cui queste teorie dipendono non ha senso di essere vissuta. Interrogarsi sulla morte significa riflettere sull’assurdo: sull’assurdità della nostra condizione di mortali, prima di tutto (di «creature di un sol giorno», come i Greci chiamavano gli umani: riprendo la formulazione dal titolo di un bel libro di Mauro Bonazzi pubblicato da Einaudi un paio di anni fa), e di conseguenza anche sulla miriade di forme in cui l’assurdo e il nonsenso si annidano nelle nostre esistenze, scavandovi tunnel come tarli nel legno e rifrangendo da prospettive sempre diverse la realtà ineluttabile della morte.

Il libro di D’Isa è interessante anche perché muovendo dalla contingenza dell’autobiografia riesce a esplorare, in una maniera tanto poetica quanto filosofica, le conseguenze di quell’assurdità originaria nella vita di tutti i giorni. Anche se abbiamo deciso che vivere sia meglio di morire, come facciamo a rapportarci alla mancanza di senso intrinseco che domina le nostre vite? Come facciamo, in altre parole, a guardare nell’abisso in cui guarda il suicida senza diventare suicidi noi stessi? Tra il libro di D’Isa e quello di Critchley ci sono evidenti similitudini, tanto formali (in entrambi i casi si tratta di testi brevi che partono da esperienze personali per interrogarsi su temi filosofici affini) quanto di contenuto. Quindi non mi sono stupito quando ho visto che il primo ha intervistato il secondo per la rivista L’Indiscreto, in un’interessante conversazione in cui gli autori sembrano duettare sullo spartito di una melodia comune.

Anche perché, curiosamente, persino le conclusioni a cui i due libri giungono sono simili. Negli anni D’Isa si è occupato spesso di filosofie e religioni orientali, facendo della capacità di mettere in dialogo Oriente e Occidente un tratto caratteristico del suo lavoro filosofico; molto meno invece Critchley, più radicato nella tradizione della filosofia continentale. Ma Note sul suicidio si conclude con un’immagine, quella del mare dell’East Anglia in inverno nel quale il filosofo decide di non affogarsi, e la constatazione che di fronte al limite estremo della vita ciò che rimane è la bellezza impermanente delle cose: «le nuvole grigie, i gabbiani, le raffiche di vento, una vasta oscurità che scende. Questa è la gioia. Qui è possibile tirarsi fuori dalla propria solitudine, smuovere quel nocciolo buio a forma di cuneo che è l’io e aprirsi agli altri… con amore».

D’Isa si spinge molto più in là in questo percorso, addentrandosi con più decisione nei territori del pensiero orientale, soprattutto quello Buddhista, ma arriva a una prospettiva molto simile a quel «qui e ora» invocato da Critchley quando scrive che «è qui, al di là di ogni giudizio di valore, che si dissotterra la neutra e abbacinante bellezza di ogni cosa»; o invoca «una specie d’innamorata meraviglia per uno spettacolo di cui si è attori e spettatori, la cui bellezza include e giustifica il male, cullandolo con amore nella perdita di ogni significato».

Mi sembra interessante notare che entrambi gli autori concludano la loro disamina dell’assurdo parlando di amore (anche perché cosa c’è di più assurdo dell’amore, soprattutto di fronte all’ineluttabilità della morte?). Ma ancora più interessante mi pare la fonte da cui sgorga questo amore, che è la perdita di sé, la distruzione di «quel nocciolo buio a forma di cuneo che è l’io». Quando ci si pone di fronte alla prospettiva del suicidio qualcosa deve davvero morire. Quel qualcosa non è necessariamente «io» nella mia totalità, ma è il mio «io», quella cosa che mi fa dire di essere qualcuno, che dà sostanza filosofica e psicologica alla mia persona. Il modo per non uccidermi è uccidermi, soltanto in una maniera diversa.

Questa mi sembra una conclusione molto importante, capace di illuminare tutto il problema del suicidio di una luce diversa. Torno alle ragioni che da sempre mi attraggono verso i suicidi, al quarto maestro di Jodorowsky e a quella che ho definito una «mistica dell’estremo», alla morte come ricerca di realizzazione personale e conoscenza di sé. Alla base di ogni ricerca spirituale c’è la necessità di spogliarsi dei propri averi (il Buddha che lascia il palazzo dorato in cui è cresciuto, San Francesco che dona le proprie ricchezze), ma forse più di tutto è necessario liberarsi della cosa che crediamo di possedere più intimamente (anche se ovviamente non la «possediamo» veramente mai) e che ci radica alla vita: vale a dire noi stessi. 

È significativo che questa sia anche la proposta al centro di un altro libro in cui sono inciampato in queste settimane, sempre pubblicato da Tlon: Per farla finita con se stessi di Laurent De Sutter (traduzione di Marco Carassai). Questo breve «antimanuale di crescita personale», com’è sottotitolato, ci accompagna lungo un percorso secolare di definizione dell’idea del Sé, partendo dalle radici greche del termine «persona» e arrivando ai manuali di self-help, passando per la definizione del «sé» giuridico nel pensiero di Locke e all’autosuggestione come cura della psiche teorizzata dal farmacista francese Émile Coué nel XIX secolo. Il libro è più ostico dei precedenti lavori di De Sutter, anche se ne conserva l’approccio interdisciplinare, la capacità di mischiare cultura alta e bassa, la prospettiva storica ampia e lo stile conciso che hanno fatto di Narcocapitalismo (Ombre Corte 2018, traduzione di Gianfranco Morosato) uno dei migliori testi di critica culturale pubblicati negli ultimi anni. Per farla finita con se stessi ha un duplice pregio: quello di mostrarci come l’idea di sé sia una conquista storica, e non un datum neurologico; e come il sé sia sempre un costrutto politico se non addirittura poliziesco, l’«essere sé stessi» sempre un «dover essere», un uniformarsi alle richieste di un esterno (caso particolarmente evidente proprio nei manuali di autoaiuto, nei quali noi stessi diventiamo la polizia morale di un’evoluzione del nostro sé che si conforma a ciò che la società ritiene «buono», «giusto» o «desiderabile»). Conclude dunque De Sutter che «dobbiamo farla finita con noi stessi, perché dobbiamo farla finita con tutto ciò che poggia sull’idea che saremo qualcosa per garantire che non saremo qualcos’altro, che non cominceremo a vagare fuori dai cardini ontologici che formano le frontiere politiche del possibile». E arriva a proporre una politica della non-identità, in cui «non ci interessa essere un sé, essere qualcuno» perché «quello che vogliamo è scomparire», «non essere niente».

De Sutter non parla mai di suicidio, e il suo discorso è sostanzialmente politico (sottrarsi alla cura del sé per smarcarsi dalla politicizzazione e militarizzazione dell’identità), ma il fatto che nella lingua comune «farla finita con sé stessi» significhi togliersi la vita mi pare abbia un signficato che va oltre la scelta di un titolo accattivante per fini commerciali. Se è vero quanto abbiamo detto sopra, «farla finita con sé stessi» è insieme la necessità primaria del suicida e la via d’uscita dalla prospettiva del suicidio, quella via d’uscita che il suicida per definizione non riesce a vedere. 

E non la vede perché, come nei Koan Zen, questa via d’uscita non esiste, a meno che non si metta in conto una vera morte, seppure simbolica. Solo se posti di fronte alla domanda impossibile sollevata dal suicidio, e solo constatando che una soluzione non è possibile, ci si apre alla possibilità di una via di fuga: l’assurdo come apertura di uno spazio, come opportunità di sottrarsi alla gabbia nella quale ci rinchiude la vita di tutti i giorni. Anche qui Kafka, che non per niente continua a tornare in questo saggio, ha moltissimo da insegnarci.

È la conclusione a cui arrivano sia Critchley che D’Isa, e che De Sutter sembra riecheggiare con le sue parole: la necessità di evadere dalla prigione del nostro io per entrare in un territorio di possibilità infinita. Aprirsi al nulla, esistere nell’impossibile. Che è poi, in fondo, il punto di partenza di ogni ricerca spirituale, di ogni percorso mistico. Solo quando vivere non è più possibile diventa ipotizzabile tollerare di vivere davvero.

Se stai vivendo situazioni di disagio psicologico, non sottovalutarle. Per informazioni e supporto visita: Telefono Azzurro o Telefono Amico.