David Rieff

ARTICOLO n. 89 / 2023

CAPITALISMO WOKE

Una conversazione con Carlo Pizzati

La cultura woke è davvero una prova che l’America sta ancora esportando la sua cultura di massa su larga scala in tutto il mondo, compreso nel Sud Globale? La guerra in Ucraina ha risvegliato il bisogno di democrazia nel mondo, o non sta invece rafforzando una deriva verso l’autocratismo? L’erosione di alcuni fondamenti della democrazia indiana è forse più dannosa per i Paesi del Sud globale che non il modello della “democrazia con caratteristiche cinesi”? L’invecchiamento dell’America, con due presidenti in età più che pensionabile e la gerontocrazia che occupa tanto Hollywood quanto Wall Street sono la riprova della decadenza finale degli Stati Uniti o solo un normale processo fisiologico?

Si parla di questo con David Rieff, brillante saggista e acuto analista politico americano, che troviamo in partenza da New York verso l’Ucraina, Paese che l’autore sostiene spesso con la sua presenza oltre che con i suoi interventi scritti, da quando è iniziata la guerra nel febbraio del 2022.

Carlo Pizzati: L’anno scorso lei pubblicò su The New Republic un’analisi titolata con una domanda: “Lo tsunami globale delle autocrazie può essere fermato?” Cosa risponderebbe, dopo un anno e mezzo dall’invasione russa oltre i confini ucraini?

David Rieff: Non c’è alcuna prova che questa tendenza possa essere fermata. Il populismo cresce ovunque, dal Messico degli impulsi autoritari di Lopez Obrador fino al Sahel dell’ex-impero francese. La frana continua, da un golpe all’altro, fino alla crisi democratica dell’India di Modi. Le idee che propugnavano alcuni analisti come Francis Fukuyama all’inizio del conflitto ucraino, cioè che la democrazia nel mondo sarebbe stata stimolata a un risveglio da questa sfida, non trovano riscontro nei fatti.

Non possiamo nemmeno dire che la difesa riuscita dell’Ucraina potrà arginare questa lenta marea. Il conflitto ucraino è cruciale per l’Europa e, in misura minore, per gli Stati Uniti. Ma il futuro della democrazia indiana che si combatte nel Kashmir o nel Manipur è più importante per i Paesi del Sud globale che non quanto accade a Kherson. Pensare altrimenti è una visione molto eurocentrica del mondo.

Gli Stati autoritari hanno fatto enormi progressi a causa delle crisi dell’Occidente di cui l’Occidente stesso deve assumersi la responsabilità. Diciamolo: l’Occidente è da tempo nel pieno di una crisi di identità. Tutti mettono in discussione tutto. Un ritorno all’appeal della democrazia richiederebbe molta più coerenza. L’Occidente non ha molto da proporre mentre le nazioni che facevano parte degli imperi coloniali guardano al loro passato in maniera diversa, dopo essere stati emarginati così a lungo. Davanti a loro vedono che l’impianto autoritario è coerente, mentre la democrazia è in guerra con sé stessa.

C. P. Allora quest’illusione che la guerra di Putin potesse risvegliare un impulso democratico era vana? Non esistono speranze nemmeno per il rallentamento dell’erosione interna della democrazia causata dai populismi?

D. R. Putin gode di un certo sostegno nel Sud globale, ma si basa molto sulla logica: il nemico del mio nemico diventa mio amico. Certo, in Siria o nel Mali magari vediamo folle sventolare bandiere russe con l’effige di Putin… ma basterebbe che qualsiasi di queste nazioni provasse ad assaggiare il sapore della dominazione russa per capire subito che, tutto sommato, i governi post-coloniali, per quanto corrotti e fallimentari, sono comunque meglio dell’alternativa russa. 

Però, certo, se l’Ucraina perde la guerra le possibilità di una ristorazione di qualcosa che ricorda la vecchia Unione sovietica aumentano subito. Non importa la confusione della propaganda russa che propone un’accozzaglia di simboli improbabili, mescolando Stalin con lo Zar Pietro il Grande nelle manifestazioni di orgoglio nazionalista: questa spinta è reale. 

Ciò che è parecchio inquietante in questa guerra è la disumanizzazione che la Russia crea verso il nemico, annientando il diritto a esistere dell’Ucraina prima ancora di bombardarla, negando che esista la sua lingua, dicendo che la sua identità culturale è solo folklore, che è tutta una costruzione a tavolino. Non c’è ancora stato un genocidio in Ucraina, ma c’è stato un genocidio culturale. È vero che la democrazia in Ucraina ha avuto un inizio disastrato, un po’ come la Bielorussia. Ma dal 2014 si è trasformata in una nazione genuinamente democratica, con un arco di eventi dai quali si può trarre ispirazione e trovare speranze per il processo democratico, augurandosi che non finisca in tragedia. 

La vicenda ucraina non ha davvero risvegliato le forze democratiche nel mondo, nonostante abbia ricevuto più solidarietà da parte dell’Europa di quanto ci si aspettasse. Ma questa battaglia per respingere l’aggressione russa in nome dell’indipendenza democratica non è che abbia rafforzato le forze democratiche in Europa.

C. P. Quindi da un lato del mondo abbiamo il fallimento della guerra in Ucraina nel riuscire a catalizzare un risveglio della democrazia, e dall’altra parte del mondo, nel Sud globale, abbiamo l’esempio dell’India che, come lei dice, scivola verso l’autocrazia. Sono due forze contrastanti, la guerra che alcuni speravano avrebbe risvegliato un amore per la democrazia e poi l’India che il think tank svedese V-dem definisce ora come “autocrazia elettorale”. Allora viene da chiedersi se, per il bene della democrazia nel mondo, sia positivo il tentativo di Biden di sfilare l’India dall’alleanza multipolare dei BRICS, sfruttando l’ambito del G20, e aiutarla nella sua gara contro la Cina per guidare il Sud globale? Quali sono le implicazioni di dare man forte a chi sta partecipando nell’erosione della democrazia, anche se in maniera abile e ben celata?

D. R. Penso che lo smottamento verso l’autocrazia del governo o regime di Modi, a seconda di come lo si voglia definire, per ora non rallenta. Ma, ammettiamolo, quante possibilità ha Biden di spuntarla, realisticamente, in questa nuova guerra fredda con la Cina? L’America dipende dalla Cina per l’acquisto dei suoi buoni del tesoro, come la Cina dipende dall’America per l’acquisto dei suoi prodotti. Niente a che vedere con il template degli Usa e Urss nella Guerra Fredda. Ma la rivalità è reale, come lo è la possibilità di una guerra tra queste due potenze. La Russia non sarà un partner commerciale accettabile per gli Stati Uniti né a breve né a lungo termine, a meno che non avvengano cambiamenti incredibili nel Paese, cosa altamente improbabile. Quindi resta il Sud globale e soprattutto l’India. Ed è per questo che nonostante la retorica delle critiche antiamericane del presidente brasiliano Lula, l’amministrazione Biden in sintesi dichiara, di fronte alle dichiarazioni ostili da Brasilia, che in realtà “le nostre relazioni con il Brasile vanno bene.” E questi sono proprio i fondamenti della geostrategia, che altro possono fare a Washington? Guardano ai fatti. 

L’economia americana non va così male, Biden è senz’altro un presidente sottostimato, che ha attirato un sacco di industrie da tante parti del mondo, compresa l’Europa, per quanto Macron e altri ne siano scontenti. Quindi abbiamo una nazione in cui, nonostante tutti i seri problemi che ha, l’economia non va male e che ha una forza militare coerente, nonostante le lagne dei Repubblicani sul fatto che “il movimento woke sta rovinando l’esercito.” Non li prenderei troppo sul serio. Cioè, le forze militari americane hanno i loro problemi, ma non sono di certo a causa del “Trans Day” in qualche base navale. Sono casomai i veri problemi sull’approvvigionamento e veri problemi di strategia. 

Dobbiamo tenere a mente il fatto che ogni forza militare al giorno d’oggi è in crisi a causa dell’Ucraina, crisi dovuta a una serie di postulati che si sono dimostrati fallaci. Per esempio, la strategia americana delle forze pluriarma, integrando fanteria e artiglieria in contesti urbani, non funziona come si pensava. Quando parli con le fonti militari ucraine non ufficialmente, off the record, bevendo un aperitivo, ti confessano che, “anche se ci avessero dato il sostegno aereo di cui avevamo bisogno per queste tecniche combinate, non avrebbero funzionato comunque.” Perché la guerra è cambiata. Anche la tecnologia militare deve essere ripensata, sia quella della Nato che quella cinese. Questa è stata la lezione dell’Ucraina.

Ma per tornare al punto, vede, io non amo il regime di Modi, e penso che il Congress Party, con tutta la loro corruzione, e nonostante tutti i limiti della famiglia Gandhi e tutti i loro errori, sia infinitamente preferibile all’attuale governo. Perché il Congress e l’opposizione in India credono davvero in una società multiculturale e, fatto ancor più importante, multilingue. Credo che il destino dell’India sia decisivo per il destino delle democrazie liberali. Perché la realtà è che continua a essere in crisi. Bisogna chiedersi se la democrazia liberale sarà la formula efficace in posti come l’Uganda. Se li abbiamo già noi i problemi sulla democrazia di massa, come funzionerà in quelle nazioni? Tutte le critiche fatte dalla scuola di Francoforte sui limiti della democrazia saranno ancora più accentuate. I problemi della rappresentatività, e non intendo le bandiere del movimento dei trans, parlo dei normali partiti politici… i problemi sono immensi. A quel punto la Cina appare più interessante come modello da seguire per alcuni Paesi emergenti.  La Cina ha strappato dalla povertà più persone che qualsiasi altra civiltà nella Storia in così poco tempo. Se tu sei un leader intelligente di una nazione del Sud globale quali sono le tue priorità? E, certo, forse alcuni modelli di sviluppo democratico hanno funzionato. Ma in che misura? Se togli la Cina dalle cifre dello sviluppo globale in questi decenni, la distribuzione della prosperità delle persone nel Sud globale è disastrosa. Se calcoli la Cina sembra che ci sia stato questo incredibile progresso. Ma se togli la Cina i risultati non sono altrettanto positivi.  Allora se è vero che a Modi riesce di fare qualcosa di simile, certo, allora sarà molto difficile per i Paesi del Sud globale resistere alla tentazione di essere più autocratici, di diventare appunto “autocrazie elettorali.”

C. P. Ma c’è una differenza un po’ più inquietante tra i due modelli. Da un lato la Cina, con Deng Xiaoping che prova ad aprire le porte del sistema comunista all’economia capitalista, per spianare la strada alla modernizzazione. Poi con Xi Jinping che la porta di nuovo verso una dittatura di ispirazione maoista, mantenendo i vantaggi di un sistema con aspetti del capitalismo. E lì si può dire che comunque c’è ancora speranza che la Cina in futuro si sposti verso la democrazia. Ma nel caso di Modi lo si può riassumere così: fatemi prendere questa democrazia e lasciatemela trasformare in un sistema più autocratico di modo che funzioni meglio. Questo è molto diverso, e forse più dannoso come esempio, se guardiamo a questa gara con la Cina su chi sia il modello migliore per il Sud globale, visto che non pare proprio che l’America sia più di ispirazione per molti.

D. R. Non so se sia più dannoso. Ma penso che sia vero che l’Hindutva escluda una percentuale molto più alta di indiani che l’Han-centrismo in Cina, per quanto tragico e orrendo sia quanto i cinesi hanno fatto agli uiguri nello Xinjiang. Ma dire alla cultura profonda e radicata nel Sud dell’India: non c’è posto per voi, qui. Cioè imporre l’hindi e cercare di eliminare l’inglese come lingua in India accusandola d’essere un retaggio coloniale e non una lingua franca che mette le altre lingue indiane sullo stesso livello, beh, sì, questo è un problema. Ma non so cosa sia peggio. Ricordiamoci che Deng Xiaoping emerse dalla calamità della rivoluzione culturale e che tentò di rimettere in carreggiata la Cina in una direzione meno omicida e meno auto-lesionista. E che ci sono dei problemi reali in Cina che Xi non vuole ammettere… come la crisi degli scarsi consumi interni che dimostrano che i consumatori cinesi non credono davvero nella prosperità ottenuta. Pechino deve creare un vero mercato di consumi nazionali perché non è detto che la Cina possa continuare a essere la Fabbrica del mondo all’infinito, poiché ci stiamo spostando in un mondo multipolare anche nella produzione. Ricordo che 20 anni fa scoprii che in Burundi tutti i preservativi erano made in China. E non è difficile produrre preservativi. Vogliamo credere che come parte dello sviluppo non ci sia anche quello che nel Burundi riusciranno a produrre i propri preservativi? Questo inevitabilmente metterà in crisi le esportazioni cinesi, se non sta già accadendo.

C. P. A parte il modello indiano, quello cinese e quello americano, esiste un altro modello democratico che possa ispirare i Paesi del Sud globale mentre cercano di trovare una strada per lo sviluppo economico?

D. R. Non vedo molti elementi per sperarci. Come diceva Lenin, nulla succede per decenni e poi decenni accadono in settimane, quindi ci possono essere molte sorprese. Ma per ora mi pare che le forze per l’autocratismo siano più solide che mai.

C. P. Una sorpresa che alcuni temono è che Trump potrebbe tornare alla presidenza l’anno prossimo. In che modo potrebbe incidere sullo scenario globale?

D. R. Quello che molti non dicono è che se Trump fosse riuscito a fare quello che aveva promesso, molto probabilmente sarebbe stato rieletto nel 2020. Se fosse riuscito a costruire le infrastrutture che aveva promesso sarebbe ancora alla Casa Bianca. Ma non le ha costruite e ha perso. Però non è detto che non ce la faccia a vincere nel 2024. Allora tutto quello che abbiamo detto subirà un influsso radicale. Ma ciò sta accadendo in tutto il mondo. Come, per esempio, questo Milei in Argentina, che non ha alcuna esperienza politica ed è probabilmente instabile mentalmente quanto Trump, anche se è probabilmente meno corrotto, ma non è per niente escluso che vinca le elezioni. Gli italiani che conosco dieci anni fa non avrebbero mai pensato di avere Meloni al governo. Non è solo Orban. È tutto il mondo, mi pare, che va in quella direzione.

C. P. Ma tornando in America, se i giovani del Sud globale rivolgono lo sguardo verso gli Stati Uniti come esempio da seguire nel paradigma democrazia-autocrazia, la possibile “sfida della terza età” tra Trump e Biden nel 2024, in un contesto dove a Hollywood gli anziani Spielberg e Scorsese comandano ancora… be’, dov’è finito quel vigore giovanile americano che si pensava dovesse ispirare il Sud globale? L’America è invecchiata ed è gestita da anziani. Non è un messaggio che propone un futuro molto dinamico.

D. R. Certo, la politica democratica Dianne Feinstein è morta a 90 anni, rifiutando di andare in pensione fino al capezzale. Qualcuno ha fatto la battuta dicendo: non si capisce perché la sua morte debba in qualche modo danneggiare la sua carriera politica! Certo, siamo in una gerontocrazia, qui in America. Gli anziani leader sovietici sono tutti morti o sono andati in pensione molto prima dell’età che hanno oggi Trump o Biden. Brezhnev se ne andò a 75 anni. E molti leader nelle altre parti del mondo sono più giovani.

C. P. Trudeau, Sunak, Meloni, Macron…

D. R. Gli Stati Uniti assomigliano ormai a Paesi come l’Egitto, una volta al potere non te ne vai più. Ma, mi scusi, quest’idea del vigore giovanile dell’America forse ce l’aveva suo nonno, a me pare sia scomparsa da molto…

C. P. Beh, Barack Obama mi sembra lo rappresentasse bene, quest’illusione del cambiamento che viene dai giovani.

D. R. Sì, simbolicamente, nonostante non sia stato un grande presidente. Ma da allora è finita. 

C. P. Quest’invecchiamento pare che tocchi anche la cultura, non solo la politica. La crisi di identità dell’Occidente di cui lei parla va mano nella mano con la sua crisi culturale. Forse il modello occidentale è stato da esempio troppo a lungo, risentendo di una normale stanchezza storica. Le famose crisi delle élite di Vilfredo Pareto… Non crede che il vuoto che l’America sta lasciando in campo culturale, nonostante l’hardware della comunicazione sia ancora in mani americane come la Apple, Microsoft, Meta, Alphabet ecc., sia sempre più evidente? L’America ispirava il mondo politicamente, ma anche culturalmente. Non è più così.

D. R. Sì e no. Capisco cosa intende. Ma chi è interessato alla cultura alta, di certo viene qui a New York, non va nella Corea del Sud.

C. P. A dire il vero, per quanto riguarda la musica K-Pop, la letteratura più originale e il cinema di qualità, negli ultimi anni la Corea del Sud ha proposto opere più innovative e creative che la ricca fabbrica culturale degli Stati Uniti.

D. R. Però c’è l’accumulo nel mondo di tutte queste idee woke, se vogliamo definirle così… anche se il movimento woke è una critica all’ordine costituito americano, o meglio, così si considera, in realtà il fatto che sia stato adottato così velocemente da Buenos Aires fino al Sudafrica, mi fa pensare che l’egemonia culturale americana, anche se negativa, continua a essere molto più potente di quanto avrei pensato.

C. P. Però mi chiedo se la cultura woke non sia da considerare più come propaganda politica e sociale che non cultura, in questo contesto. Cioè, la sua missione è di trasformare la società, ma l’espressione artistica che ha prodotto finora sembra aver raggiunto un livello qualitativo piuttosto scarso, non trova? Il problema è che se scrivi un libro, giri una serie, un lungometraggio, oppure crei un’opera d’arte o un brano musicale con l’intenzione di promuovere un messaggio politico allora si rompe l’incantesimo, un fenomeno già visto nella produzione culturale sovietica o fascista. Il Minculpop non funziona. L’artista impegnato se si impegna troppo crea opere inefficaci, perché il messaggio sovrasta il racconto, l’opera stessa, ed è li che si scorge la propaganda. Così in film come Barbie o nelle serie come BridgertonDear White PeopleWhite LotusSex Education, quando incappiamo negli ormai obbligatori monologhi salmodianti sull’importante e per me condivisibile messaggio woke, la magia muore in un istante ed è subito comizio.

D. R. Sì, su questo sono completamente d’accordo. Per me l’impatto della cultura woke è quello di “rendere il mondo sicuro” per il kitsch. Perché non c’è alcuna obiezione politica al kitsch, c’è però un’obiezione politica alla cultura alta.

C. P. Certo, perché la cultura alta riesce a integrare un messaggio più profondo in una narrazione spontanea.

D. R. Sì, invece il woke è tutto molto naïve. Per esempio il fatto che tutti i dibattiti sul tema hanno luogo solo tra persone che parlano in inglese e quindi parliamo di emancipazione mono-linguistica, non inclusiva di tutte le altre lingue. 

Ma non credo nemmeno che il movimento woke sia una minaccia politica, di certo non è una minaccia al capitalismo. Woke è una bandiera politica di convenienza per il trionfo di forme alternative di cultura popolare. Forse non era l’intenzione del movimento woke, ma è l’impatto che ha avuto finora. Non penso sia una minaccia al sistema. Altrimenti tutti questi business e queste corporations, se avessero pensato che poteva intaccare i loro profitti, non sarebbero saliti sul carro del capitalismo woke. Certo, c’è della gente di destra che è terrorizzata dagli studi queer all’Università della California, ma, onestamente, non fanno paura al sistema vero, al potere. Tutt’altro.