Dacia Maraini

ARTICOLO n. 78 / 2023

LA LIBERTÀ DEL SOGNO

Pubblichiamo un’anticipazione da Vita mia di Dacia Maraini, in libreria da oggi per Rizzoli. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

Approfittando del fatto che ero piccola e le guardie non facevano molta attenzione ai miei movimenti, mi ficcavo fra i fili spinati e me ne andavo dai contadini per aiutarli nella coltivazione dei bachi da seta oppure a cogliere pomodori.Alla fine mi regalavano due patate o dei pomodori che io portavo al campo trionfante per dividerli con le mie sorelle, i miei genitori e gli altri prigionieri. La regola che ci teneva uniti era proprio questa: ogni piccola conquista si divideva prima in cinque, e se c’era più roba, si divideva per diciotto.

Inoltre ogni decisione veniva presa da tutti, in maniera democratica, attraverso la pratica del voto. Vinceva la maggioranza e gli altri non protestavano, stavano alla decisione maggioritaria. Solo verso la fine della prigionia, quando i bombardamenti, le malattie, i terremoti e il beri-beri ci avevano ridotti in uno stato esasperato di stanchezza e nervosismo, abbiamo smesso di dividere ogni bene. Ciascuno si accaparrava quello che poteva e se lo mangiava da solo, magari di nascosto.

L’egoismo ha vinto sul sentimento condiviso di solidarietà. Per fortuna non definitivamente, perché appena sono scappate le guardie e gli americani hanno gettato tanto cibo dagli aerei, sono tornati anche la voglia di democrazia, il senso di solidarietà e l’orgoglio comunitario.

Ma ricordo ancora quella volta che Kasuya mi ha visto strisciare sotto il filo spinato e ha chiamato immediatamente i miei genitori per fare loro una scenata. “Il capo dei poliziotti aveva tirato fuori la sciabola e mentre urlava rivolto a Fosco teneva la lunga lama sotto la sua gola. Eravamo terrorizzati, ma restammo immobili come ci aveva insegnato Weilschott.” Anche io avevo assistito alle lezioni del vecchio Weilschott: mai muovere le mani, mai voltare la schiena o mettersi a parlare a voce alta. «La prenderebbero per una provocazione e in quel caso possono anche ucciderti.»

Weilschott era dentro perché ebreo. “Era molto colto e intelligente, di grande temperamento” scrive Topazia. “Conosceva bene gli arcani della guerra asiatica e la mentalità giapponese. Fu spesso di aiuto nel capire cosa stava succedendo. […] Commentava l’andare geopolitico della guerra ma anche quello che succedeva all’interno della nostra comunità. Esortava a non perdere mai la calma davanti ai poliziotti, a non reagire alle loro angherie, ai loro insulti.” Era sposato a una giapponese che all’inizio aveva avuto il permesso di portargli del cibo, ma poi era sopraggiunta la proibizione delle visite e il povero professore aveva preso a dimagrire, mentre le gambe gli si gonfiavano di edemi dovuti al beri-beri.

Weilschott, racconta mia madre, “fu sempre generoso con voi bambine. E la moglie vi portò anche dei piccoli regali per il Natale del ’43”. Poi glielo hanno proibito e lui è stato costretto, come noi, a frugare nell’immondizia, a dividere, in cambio di una postazione di vigilanza, qualche go di riso rubato nel chiesino e diviso pignolamente per diciotto. Lo chiamavano Incio-san, ovvero capo. Perché era il più anziano. “Ma proprio come capo, gli dedicavano le peggiori crudeltà. Per esempio arrivavano delle lettere per lui che i poliziotti lasciavano in vista nella guardiola senza dargliele. E lui piangeva per la disperazione.”

Ad un certo punto l’ansia per la mancanza di notizie aveva aguzzato l’ingegno. “Bino e Villa”, un altro giovane prigioniero intraprendente, racconta mia madre a mia sorella Toni, “la sera, mentre i poliziotti si facevano il bagno, si calavano dal tetto per ascoltare le notizie della radio rimasta accesa nella guardiola.” In questo modo si capì che i nazifascisti stavano perdendo e le truppe alleate stavano avanzando. Ma per i dettagli non c’era tempo. Erano notizie rubate al volo, così come venivano sottratti, una volta aperta la porta con la chiave del vecchio Dentici, i sacchetti di riso, di fagioli, qualche mela e qualche patata. Ma divisi per diciotto risultavano sempre pochi. D’altronde non si poteva portare via più sacchetti, ci avrebbero scoperti e puniti severamente con altre restrizioni alimentari.

Il bagno lo si faceva una volta alla settimana. Nella unica sala dal pavimento di legno con al centro una grande vasca di legno, rotonda. Secondo le gerarchie giapponesi, prima si lavavano le guardie, poi gli uomini, poi la donna e infine le bambine. Le quali dovevano immergersi in una acqua che intanto era diventata tiepida e sporca. Mio padre aveva provato a dire che le bambine avrebbero dovuto avere la precedenza, ma gli risposero che quelle erano le regole e dovevamo ubbidire. Ricordo che una volta Toni è caduta a testa in giù in quell’acqua sporca e stava per affogare. Al solito, mia madre l’ha tirata fuori con un solo gesto rapido e preciso. Poi l’ha consolata raccontandole una favola.

La voce di Topazia era profonda e limpida. Nonostante il beri-beri e lo scorbuto che le gonfiavano le gambe, le facevano perdere i capelli e le facevano sanguinare le gengive, quando raccontava le favole, entrava in un gioco magico che la trasfigurava e noi restavamo mute e incantate ad ascoltare le sue parole. Quando finiva, ricordo che chiedevamo con insistenza che ricominciasse da capo. La sua voce aveva il potere di portarci lontano dal campo, in Paesi sorprendenti, in mezzo a gente che correva, mangiava, amoreggiava, ballava, dormiva in pace.

Ricordo la favola del re che aveva un giardino con un albero che faceva le mele d’oro, ma qualcuno rubava quelle mele preziose e la storia diventava quasi un poliziesco per la ricerca del ladro che poi risultava essere un uccello stregato. Un’altra fiaba raccontava di una bambina che piantava un fagiolo e questo fagiolo cresceva tanto e tanto che diventava una altissima pianta su cui si arrampicava la bambina e, dopo molto scalare, finiva per arrivare in un mondo favoloso fra le nuvole, fatto di alberi carichi di frutti, di fiumi colmi di pesci, di mucche che davano latte e galline che facevano uova freschissime, bianchissime, dalla forma perfetta.

«Ancora, mamà, ti prego, racconta!» Ma lei voleva che dormissimo, perché la mattina Kasuya ci buttava giù dal letto alle sei. E per farci addormentare ci cantava l’aria del coro muto della Butterfly. Ancora ora, se mi ripeto il motivo di quell’aria, mi commuovo. Era una madre dalle mille risorse e non posso pensare che se ne sia andata. Il mio cuore ormai è diventato un piccolo cimitero: mia sorella Yuki, mio padre, mia madre. Se ne sono andati per sempre. Sarei felice che fossero dietro l’angolo, come vuole la tradizione giapponese, pronti a intervenire per aggiustare le cose strampalate che fanno gli umani, pronti a dare buoni consigli, a ridere quando si ha voglia di piangere, a suggerire pensieri gentili quando si è arrabbiati e si vorrebbe urlare contro il mondo. Ma ne dubito. Conoscere l’universo, per quel poco che riusciamo, ci porta a fare sempre più domande, anziché cullarci nelle certezze. Dove va la Terra rotolando nel cosmo in mezzo a milioni di stelle costituite di minerali che si trasformano, prendono fuoco, si sciolgono, esplodono, creano buchi neri? Dove va l’universo e perché? Cos’è il tempo? Ce lo stiamo creando noi con quella bella e commovente invenzione dell’orologio o esiste veramente? Cos’è la realtà e perché non riusciamo a capirla? Cos’è l’essere umano e che rapporti ha con il passato e col futuro, e come ci dobbiamo comportare con gli animali, che pure esistono da prima dei sapiens e sono parte di questo mondo? Tante domande a cui non trovo risposte. Forse la sola libertà che abbiamo è quella del sogno: sogniamo che i nostri amati morti siano nelle vicinanze, che si parlino fra di loro, che, sebbene trasformati in radici, foglie e fiori, abbiano la capacità di entrare nei nostri respiri e nei nostri sogni più belli.

Andati dove? mi ripete una piccola voce di bambina dal fondo dell’anima. Non staranno passeggiando felicemente fra quelle nuvole che scopre la piccola della fiaba arrampicandosi sulla pianta del fagiolo? Sarebbe bello se fosse così. Vedo la faccia di mio padre che sorride malizioso. “Pensare che siamo eterni è una presunzione ridicola. Dopo morti qualcosa di noi passa nelle piante, nel terreno, ma poi tutto si dissolve e non rimane niente.”

«Ma papà, Okachan diceva che uno quando muore rinasce in un altro corpo. Non è così?»

«Magari fosse così, bambina mia. Sarebbe troppo bello. Noi finiamo come tutto finisce. Ma il mondo continua e noi dobbiamo essere contenti che vada avanti con le sue stagioni, il suo giorno e la sua notte, le sue bellezze e le sue bruttezze».

«E questo mondo durerà sempre?»

«No, tesoro, il mondo finirà quando il sole avrà finito di bruciare. Allora il mondo si rattrappirà, diventerà una piccola palla gelata e rotolerà nell’universo finché non sparirà. Ma non ti preoccupare, ci vorranno ancora milioni di anni».

Questa storia di un mondo ridotto a una pallina bruciata persa nell’universo mi angosciava, anche se Fosco insisteva che era una prospettiva lontanissima, mi procurava crampi allo stomaco. Sapevo che era un sapiente conoscitore delle leggi dell’universo, ma a me piaceva pensare che sarei rinata in forma di gatto, o di piccolo elefante, «che dici, papà, sei sicuro che non può assolutamente essere vero?».

«Se ti piace pensarlo, fallo pure, ciascuno ha le sue fantasie. Ora il tempo ti sembra lungo ma poi si accorcerà, man mano che crescerai, e da anziana ti sembrerà cortissimo. In realtà il tempo non esiste, bambina mia».

Infatti invecchiando mi sono resa conto che il tempo è una creazione affettuosa e struggente dell’essere umano. Noi abbiamo inventato quella cosa poetica e commovente che è l’orologio, per consolarci contando le ore, i minuti che ci rassicurano sul tempo che passa, ma con ordine e regolarità. Il tempo invece è un caos, non ha un principio e una fine, ma gira vorticosamente come girano i corpi celesti nell’universo. Già da bambina mi chiedevo perché le stelle, i soli, corrono rotolando senza sosta nello spazio. Perché? chiedevo a mio padre, ma lui non aveva una risposta.

Si dice che l’universo sia nato da un Big Bang, che vuol dire una esplosione colossale, e che i frammenti di questa esplosione stiano correndo per l’universo, ma questa è una parte della spiegazione. E prima del Big Bang cosa c’era? E da dove nasce la materia e cos’è l’universo nessuno sa dirlo.

«Noi diamo un nome a questo mistero, lo dividiamo e lo calcoliamo, lo attribuiamo a un Dio creatore, ma le nostre dolci spiegazioni esprimono un sentimento, nessuna certezza» mormorava mio padre con la voce sfiancata dalla fame. Quindi noi, riprendevo io rimuginando, rispetto ai tempi dell’universo viviamo quanto un moscerino che dura solo pochi minuti… Anche il moscerino divide il tempo della sua piccola vita e, sezionando e stirando, gli sembra di vivere a lungo. Così anche noi ci illudiamo, sezionando e dividendo il tempo, di vivere a lungo, ma è solo un attimo, la vita, e appena solleviamo la testa per guardare le stelle, siamo già morti, è così, papà?

A questo punto del nostro chiacchierare sul tempo interveniva mia madre rimproverando Fosco che ci rattristava con la sua razionale e spartana visione del mondo. Lasciale nelle loro illusioni, diceva lei, senza rendersi conto che quelle idee paterne erano come semi gettati nella terra fresca e avrebbero germogliato anni dopo in forma di un severo e sereno pensiero illuministico. Quando ho letto di Socrate e delle sue parole ci ho ritrovato le riflessioni di mio padre. Non era un caso, come raccontava mia madre, che lui e il nonno Enrico si fossero subito intesi parlando dei discorsi di Budda. Se lo osserviamo bene, il mondo è un teatro coinvolgente e amato, ma una volta spariti gli attori e tolta la scenografia, cosa resta? Un sogno, un gioco di ombre?

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