Howard Phillips Lovecraft

ARTICOLO n. 72 / 2021

NYARLATHOTEP

Traduzione di Massimo Berruti

Nyarlathotep…il caos strisciante…Io sono l’ultimo…Dirò al vuoto in ascolto… 

Non ricordo esattamente quando tutto ebbe inizio, ma accadde alcuni mesi fa. La tensione generale era al massimo. A un periodo di disordini politici e sociali si era aggiunta la strana, minacciosa sensazione di un orrendo pericolo fisico incombente. Un pericolo diffuso, che gravava su tutto, un pericolo quale si può immaginare solo nelle visioni più angosciose della notte. Ricordo che la gente andava in giro con facce pallide e preoccupate, e sussurrava avvertimenti e profezie che nessuno osava ripetere volontariamente o ammettere a se stesso di aver udito. Un mostruoso senso di colpa pervadeva la nazione, e dagli abissi fra le stelle soffiavano gelide correnti che facevano tremare gli uomini in luoghi bui e solitari. Un’alterazione diabolica aveva colpito il ciclo delle stagioni – il calore dell’autunno persisteva in modo preoccupante, e tutti sentivano che il mondo e forse l’intero universo erano sfuggiti al controllo di forze o dèi conosciuti per passare sotto quello di forze o dèi sconosciuti. 

Fu allora che, in Egitto, apparve Nyarlathotep. Nessuno sapeva chi fosse, ma nelle sue vene scorreva il sangue antico di quella terra, e aveva le sembianze di un faraone. I fallah si inginocchiavano al suo passaggio, ma non avrebbero saputo dire il perché. Diceva di provenire dall’oscurità di ventisette secoli, e di aver udito messaggi provenienti da luoghi non di questo pianeta. Scuro di carnagione, magro e sinistro, Nyarlathotep fece la sua comparsa nei paesi civilizzati, e si procurava senza sosta strani oggetti di vetro e di metallo, che poi assemblava in strumenti ancora più bizzarri. Parlava molto di scienza – di elettricità e psicologia – e nei suoi spettacoli dava dimostrazioni di un potere capace di ammutolire gli spettatori, e che tuttavia gli procurò una notorietà eccezionale. La gente raccomandava di andare a vederlo, eppure tremavano. Dovunque arrivasse Nyarlathotep, finiva la pace – perché le ore che seguono la mezzanotte erano lacerate da grida d’incubo. Mai prima d’allora le urla provocate dagli incubi avevano rappresentato un problema di ordine pubblico: ma ora i saggi quasi avrebbero voluto proibire alla gente di dormire durate le ore che seguono la mezzanotte, così che le urla delle città non turbassero tanto orribilmente la luna pallida e pietosa mentre illuminava le verdi acque che scorrevano sotto i ponti e le antiche guglie cadenti sullo sfondo di un cielo malato. 

Ricordo quando Nyarlathotep arrivò nella mia città – la grande, antica,  orribile città dai crimini infiniti. Un amico mi aveva parlato di lui, dell’irresistibile fascino e attrazione che esercitavano le sue rivelazioni – e io morivo dal desiderio di scoprire i suoi misteri piùreconditi. Il mio amico sosteneva che fossero impressionanti e orribili, e superassero l’ardire della mia più sfrenata immaginazione; sosteneva che quanto veniva proiettato sullo schermo in una sala buia rivelava cose che solo Nyarlathotep osava rivelare, e che nel succedersi dei fotogrammi venisse rubato agli uomini ciò che mai prima era stato loro rubato – e che tuttavia solamente negli occhi si rivela. E venni a sapere che all’estero si vociferava che chi aveva conosciuto Nyarlathotep fosse capace di vedere cose che agli altri erano precluse. 

Fu in una notte di quel caldo autunno che mi unii a una folla agitata, per recarmi a vedere Nyarlathotep; attraverso un calore opprimente risalii gli interminabili scalini che conducevano in una sala affollatissima. Sullo schermo vidi sagome incappucciate muoversi tra cumuli di rovine, e volti crudeli e gialli che sbirciavano dietro monumenti caduti. Vidi il mondo lottare contro l’oscurità, contro il montare della distruzione proveniente dallo spazio estremo – lo vidi vorticare, agitarsi, sfrenato, attorno a un sole sempre più debole e freddo.Poi le fiammate di luce compirono degli strani movimenti attorno alle teste degli spettatori, e i loro capelli si rizzarono, mentre ombre più bizzarre di quanto io sappia descrivere apparvero dal nulla e si acquattarono sulle nostre teste. E quando io, che ero più lucido e razionale degli altri, provai a lamentare con un brivido che si trattava di «impostura»,  di «elettricità statica», Nyarlathotep ci condusse tutti fuori, giù per le scale ripide e nelle strade umide, afose e deserte di mezzanotte. Gridai con tutte le mie forze che non avevo paura, che mai ne avrei avuta, e altri gridarono con me per farsi coraggio. Ci rassicurammo l’un l’altro che la città era esattamente la stessa, che era ancora viva – e quando le luci cominciarono a spegnersi più volte maledicemmo l’azienda dell’elettricità, e ridemmo delle strane espressioni sui nostri volti.  

Poi, credo, avvertimmo qualcosa scendere dalla luna verdastra, perché quando rimase solamente la sua luce, cominciammo inconsciamente a marciare in curiose formazioni che sembravano conoscere la propria meta, sebbene nessuno osasse pensarci. A un certo punto notammo che i blocchi della pavimentazione scivolavano via e venivano sostituiti dall’erba, e solo una debole traccia di metallo arrugginito indicava il vecchio percorso dei tram. Vedemmo la carrozza di un tram, staccata dal resto, senza vetri, in rovina e quasi adagiata su un fianco. Guardando verso l’orizzonte non vedemmo più il terzo grattacielo vicino al fiume, e notammo che la sagoma del secondo era sbrecciata sulla cima. Quindi ci dividemmo in gruppi più piccoli, ognuno dei quali pareva trascinato in una direzione diversa. Uno scomparve in un vicolo angusto sulla sinistra, lasciandosi alle spalle soltanto l’eco di un gemito di terrore. Un altro, risucchiato da un’entrata della metropolitana ricoperta di erbacce, ululò una risata folle. Il mio gruppo fu invece attirato verso l’aperta campagna, e immediatamente tutti noi avvertimmo un brivido gelato che non aveva nulla a che fare con quel caldo autunno, perché mentre procedevamo nella cupa brughiera ci accorgemmo che attorno a noi il chiarore infernale della luna si rifletteva in luccichii malvagi sulla neve. Neve inspiegabilmente intatta, spazzata dal vento in un’unica direzione, verso un abisso reso ancora più nero dalle sue pareti luccicanti. Il mio gruppo sembrava ridursi mentre s’incamminava a fatica, come in un sogno, verso il baratro. Io indugiavo in fondo al gruppo, perché l’abisso nero immerso nella neve verdastra era spaventoso, e credetti di udire un lamento inquietante man mano che i miei compagni scomparivano; ma ormai non avevo piùfacoltà di trattenermi. Come attirato da quelli che mi avevano preceduto, fluttuai fra le possenti raffiche di neve, terrorizzato e fremente, per poi precipitare nel cieco vortice dell’inimmaginabile.

Se gridassi lucidamente, o fossi preda di un muto delirio, solo gli dèi che furono saprebbero dirlo. Sono un’ombra malata e sensibile che si contorce in mani che non sono mani, e vortica ciecamente oltre le mezzanotti popolate di fantasmi d’un cosmo in putrefazione, oltre cadaveri di mondi morti infettati da piaghe che furono città, oltre venti d’ossario che spazzano stelle sbiadite e ne attenuano il chiarore. Al di là dei mondi, immagini indistinte di cose mostruose, pletore confuse di templi blasfemi che si ergono su rocce senza nome sotto lo spazio, e svettano fino a vuoti vertiginosi sopra le sfere della luce e della tenebra. E attraverso questo ripugnante cimitero dell’universo, si ode un folle, ovattato rullìo di tamburi, e un sottile e monotono lamento di flauti blasfemi provenire da stanze inconcepibili e oscure al di là del Tempo; quei suoni e rullii osceni al cui ritmo danzano lenti, goffi e insensati i giganteschi, tenebrosi ultimi dèi – i ciechi, muti, dementi orrori la cui anima è Nyarlathotep. 

Il racconto sarà presente nell’antologia I Racconti dell’apocalisse curata da Andrea Esposito prossimamente in uscita per il Saggiatore.