Mark Fisher

ARTICOLO n. 91 / 2023

PERCHÉ VOGLIO FOTTERE RONALD REAGAN

Pubblichiamo un’anticipazione dal volume Non siamo qui per intrattenervi (Minimum Fax, traduzione di Vincenzo Perna) da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Alla convenzione del Partito Repubblicano svoltasi nel 1980 a San Francisco, alcuni burloni fotocopiarono e distribuirono la riproduzione di un capitolo di La mostra delle atrocità intitolato «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», eliminando il titolo e inserendovi il simbolo del Partito Repubblicano. «Mi è stato detto», riferisce Ballard, «che è stato accettato per quello che sembrava, e cioè una presa di posizione di tipo psicologico sulle attrattive subliminali del candidato, commissionata da una combriccola di cervelli bislacchi».

Cosa ci dice quest’atto neo-dadaista di inefficace provocazione? Da un certo punto di vista il gesto va salutato come il perfetto atto di sovversione. Ma da un’altra prospettiva indica che la sovversione oggi è ormai impossibile. Il gesto mette in discussione un’intera progenie di interventi ludici, dai dadaisti ai surrealisti fino ai situazionisti.

Se un tempo i dadaisti e i loro eredi potevano sognare di invadere il palco, interrompendo quello che Burroughs (ancora parte di tale tradizione in modo piuttosto ovvio) definisce lo «Studio della realtà» con bombe logiche/di logica, oggi non esiste più nessun palco da invadere – nessuna scena, direbbe Baudrillard. Per due ragioni: in primo luogo perché le zone di frontiera dell’ipercapitale non cercano più tanto di reprimere, quando piuttosto di assorbire l’irrazionale e l’illogico, e in secondo luogo perché la distinzione tra palco e retropalco è stata soppiantata da un loop di finzione più distaccata e inclusiva: la carriera di Reagan supera di gran lunga qualunque tentativo di prendersene gioco, e dimostra la crescente flessibilità dei confini tra il reale e le sue simulazioni. Per Baudrillard, proprio gli attacchi alla «realtà» inscenati da gruppi come quello dei surrealisti hanno la funzione di mantenere in vita la realtà (fornendole un mitico mondo onirico a prima vista alternativo in tutto e per tutto, ma in realtà dialetticamente complice del mondo quotidiano, del reale). 

«Il surrealismo è ancora solidale con il realismo che contesta, ma raddoppia con la sua irruzione nell’immaginario». Nelle condizioni di terzo (e quarto) ordine di simulacri, la vertigine travolgente dell’iperrealtà banalizza un’atmosfera gelida e allucinogena, assorbendo tutta la realtà all’interno della simulazione. La finzione è ovunque – e quindi, in un certo senso, scompare come categoria specifica. Se un tempo il ruolo di attore-presidente di Reagan sembrava «originale», nella sua successiva carriera, dove momenti della storia del cinema (nella memoria confusa del Presidente e nei resoconti mediatici) si mescolavano come in un fotomontaggio con i ruoli cinematografici interpretati da Reagan, il ludico si trasforma in ridicolo. 

L’apparente accettazione da parte dei delegati repubblicani dell’autenticità del testo di «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» è al tempo stesso scioccante e stranamente prevedibile, ed entrambe le reazioni testimoniano in effetti la forza delle finzioni di Ballard, che non risiede più tanto nell’abilità di riflettere in termini mimetici una realtà sociale preesistente, quanto nella capacità di ribaltarla in modo creativo. 

Il risultato ottenuto da Ballard è piuttosto ciò che Iain Hamilton-Grant chiama «realismo dell’iperreale», una partecipazione omeopatica alla media-cibernetizzazione della realtà del tardocapitalismo. Lo shock nasce nel momento in cui ci rendiamo conto di (ciò che sembrerebbe) l’aberrazione radicale del materiale di Ballard. «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», come varie altre parti di La mostra delle atrocità, specie verso la parte conclusiva del romanzo, viene presentato come una relazione su esperimenti di studio delle reazioni del pubblico a stimoli mediatici preconfezionati. 

Ronald Reagan e il disastro automobilistico concettuale. Su pazienti paretici allo stadio terminale sono stati effettuati numerosi studi, nei quali Reagan compariva in una serie di scontri d’auto simulati, per esempio tamponamenti multipli, collisioni frontali, attacchi a colonne d’auto (le fantasie di assassinii presidenziali hanno continuato ad essere al centro dell’attenzione, e i soggetti hanno mostrato una marcata fissazione polimorfa su parabrezza e tubi di scappamento). L’immagine del candidato presidenziale è stata oggetto di forti fantasie erotiche a carattere sadico-anale (J.G. Ballard, La mostra delle atrocità, cit., p. 211. 41).

Ma lo shock è controbilanciato da un senso di prevedibilità che nasce dalla fredda eleganza delle simulazioni di Ballard. Il tono tecnico della sua prosa – l’impersonalità e l’assenza di inflessioni emotive – svolge la funzione di neutralizzare o normalizzare un materiale apparentemente inaccettabile. 

Questa simulazione delle operazioni delle agenzie di ipercontrollo vuole costituirne una satira, oppure le loro attività – e l’intera scena culturale di cui sono parte – rendono ormai impossibile la satira in quanto tale? E qual è, dopotutto, il rapporto tra satira e simulazione? Per tentare di rispondere a questa domanda bisogna confrontare il testo di Ballard con altri testi più marcatamente «satirici». Ma occorre prima di tutto tenere presente i commenti di Jameson sull’eclissi della parodia ad opera del pastiche, che prenderemo qui brevemente in esame. 

In questa sede eviteremo di interrogarci sulle differenze tra parodia e satira: partiremo invece dal presupposto che, indipendentemente da ogni differenza tra loro, parodia e satira abbiano sufficienti elementi in comune per essere sottoposte insieme all’analisi di Jameson. 

La parodia, sostiene Jameson, dipendeva da un insieme di risorse un tempo disponibili al modernismo ma oggi scomparse: il soggetto individuale, il cui stile idiosincratico «inimitabile», come osserva ironicamente lo studioso, poteva per l’appunto dare origine a imitazioni; un forte senso della storia, che ha come necessario contraltare la convinzione che esista un mezzo d’espressione autenticamente contemporaneo; e una dedizione ai progetti collettivi, capace di motivare la scrittura e di conferirle un intento politico.

La scomparsa di questi elementi, indica Jameson, implica la scomparsa dello spazio della parodia. Lo stile individuale cede il passo a un «terreno di eterogeneità stilistica e discorsiva priva di una norma», esattamente come scompare la certezza del progresso e la fede nella possibilità di descrivere i tempi nuovi in termini nuovi, rimpiazzata dall’«imitazione di stili morti, […] un discorso condotto attraverso tutte le maschere e le voci immagazzinate nel museo immaginario di una cultura ormai globale». La «postalfabetizzazione» del tardocapitalismo, nel frattempo, indica «l’assenza di un qualche grande progetto collettivo». 

Il risultato, secondo Jameson, è un’esperienza priva di profondità, dove il passato si trova ovunque nel momento stesso in cui scompare il senso storico: ci ritroviamo con una «società spogliata di ogni storicità» che è al tempo stesso incapace di offrire qualcosa che non sia una versione riscaldata del passato. Il pastiche sostituisce la parodia: 

In questa situazione, la parodia si ritrova priva di una propria vocazione; ha fatto il suo tempo, e quella strana cosa che è il pastiche viene a prenderne lentamente il posto. Come la parodia, il pastiche è l’imitazione di uno stile peculiare e unico, idiosincratico, è una maschera linguistica, un discorso in una lingua morta. Ma di questa mimica costituisce una pratica neutrale, senza nessuna delle motivazioni recondite della parodia, monca dell’impulso satirico, priva di comicità e della convinzione che accanto a una lingua anormale presa momentaneamente in prestito esista ancora una sana normalità linguistica. Il pastiche è dunque una parodia vuota, una statua cieca…

Nonostante ciò che Jameson stesso scrive di Ballard, una delle differenze rilevanti tra l’opera dell’autore inglese e il pastiche descritto sopra è l’assenza di «nostalgia» o della «maniera nostalgica», che secondo Jameson costituisce invece un’insistente presenza in numerosi testi della fantascienza postmoderna. 

Al contrario, l’interesse di Ballard per le innovazioni testuali sorprendenti – come testimonia lo stesso layout delle pagine di La mostra delle atrocità – lo identificano come una sorta di anomalia in termini jamesoniani: quantomeno da tale prospettiva, Ballard sembra ricollegarsi al modernismo nell’accezione utilizzata dallo studioso americano. 

Da altri punti di vista, invece – specie nei termini del collasso della soggettività individuale e del fallimento dell’azione politica collettiva – Ballard appare emblematico della postmodernità di Jameson. Ma contrariamente al pastiche di Jameson, Ballard non imita «uno stile peculiare e unico, idiosincratico». Lo stile che l’autore simula in «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», e verso cui nel complesso tende tutto La mostra delle atrocità, manca appunto di qualsiasi personalità: se esistono dei caratteri idiosincratici, si tratta qui di aspetti che appartengono al registro tecnico del reportage (pseudo) scientifico, non alle caratteristiche di un soggetto individuale. Il fatto che il testo riguardi un leader politico mette in evidenza l’assenza di ogni ideologia politica esplicita (o implicita, fatto ancor più rilevante quando si dibatte di satira e parodia) nella scrittura di Ballard. In questo senso in «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan», così come nel pastiche di Jameson, non c’è «nessuna delle motivazioni recondite della parodia». 

Ciò costituisce senza dubbio uno dei motivi per cui «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» differisce profondamente da classiche opere satiriche come per esempio Una modesta proposta di Jonathan Swift (1729). 

Quest’opera di Swift è paradigmatica di ciò che Joyce definiva «kinetic art», ovvero un’arte prodotta in particolari circostanze politiche e culturali e con il particolare fine di incitare il pubblico all’azione. Il proposito politico di Swift – la sua critica alla crudeltà di determinate reazioni inglesi alle carestie irlandesi – è contrassegnato da un certo eccesso stilistico e tematico (eccesso che alcuni lettori di Swift notoriamente non colsero, prendendo invece il testo alla lettera), mentre lo scritto di Ballard – emerso anch’esso, esattamente come quello di Swift, da una situazione socioculturale del tutto particolare – può essere contraddistinto dalla sua piattezza. 

Ciò costituisce un progresso (persino) rispetto a Burroughs. Con tutta la loro inventiva linguistica, routine umoristiche come «L’americano deansiogenizzato» di Burroughs restano nel solco classico della satira a causa dell’uso dell’esagerazione e dell’evidente agenda politica: attraverso l’uso di tropi eccessivi, Burroughs schernisce i costumi amorali della tecnoscienza americana. Ciò che per converso «manca» nel testo di Ballard è una qualsiasi chiara intenzione riguardo al lettore, una «motivazione recondita» in termini jamesoniani: mentre il testo parodistico ha sempre conferito un’importanza fondamentale al parodista che vi sta dietro, alle sue opinioni e ai suoi atteggiamenti impliciti ma evidenti, «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» appare freddo e anonimo come i testi che imita. 

Mentre nell’«Americano deansiogenizzato» si percepisce chiaramente Burroughs ridacchiare degli assurdi eccessi degli scienziati, la reazione di Ballard agli uomini di scienza di cui simula l’opera risulta indecifrabile. Cos’è che «Ballard» vuol far provare al lettore? Disgusto? Ilarità? Non è chiaro, e come afferma Baudrillard a proposito di Crash, la sovracodifica, da parte dell’autore Ballard, dei propri testi nelle note autoriali della prefazione, risulta piuttosto falsa, con tutto il tradizionale bagaglio di «avvertenze» che poi le note stesse eludono chiaramente. 

La modalità adottata da Ballard in «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» non è quella dell’enfasi (satirica), ma di una sorta di estrapolazione (simulata). Lo stesso genere testuale del sondaggio e dello studio, come suggerisce Baudrillard, rende il problema privo di risposta, irrisolvibile. 

A dispetto di quanto suggerito sopra dallo stesso Ballard, ciò che conta non è tanto la (plausibile) somiglianza tra «Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan» e (plausibili) rapporti scientifici, quanto la circolazione di simulazione cui tali rapporti già contribuiscono. Analizzando il pastiche, Jameson s’imbatte nel concetto di simulazione, anche se lo attribuisce a Platone piuttosto che riferirlo (perlomeno qua) alla sua reinvenzione da parte di Baudrillard. 

L’intuizione di Jameson sul rapporto tra pastiche e simulazione resta tuttavia importante. Si potrebbe forse suggerire l’esistenza di una correlazione tra il terzo ordine di simulacri di Baudrillard e il pastiche di Jameson da un lato, e il testo di Ballard dall’altro. La simulazione nel senso del terzo ordine di Baudrillard, come abbiamo più volte osservato, implica il crollo della distanza tra simulazione e ciò che viene simulato. 

La satira, nel suo senso classico, si potrebbe probabilmente collocare nel territorio del «primo ordine di simulacri»: una simulazione che rassomiglia all’originale, ma con alcune differenze rivelatrici. Mentre Ballard simula la simulazione (l’indagine, lo studio).