ARTICOLO n. 52 / 2023

IL MOSTRO NON SI NASCONDE NEI BOSCHI

Il Mostro come corpo culturale

La notte tra l’8 e il 9 gennaio del 2018 al Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills va in scena la 75° edizione della cerimonia di premiazione dei Golden Globes. Guillermo del Toro, in gara come migliore regista per The Shape of Water, sale sul palco dopo aver sentito pronunciare il suo nome per la prima volta in venticinque anni di carriera. La forma dell’acqua, il titolo in italiano, racconta una storia visionaria e in mille sfumature di verde, ambientata durante la Guerra Fredda, nel pieno degli esperimenti militari. Elisa è una ragazza muta addetta alle pulizie di un enorme laboratorio governativo dove avvengono manipolazioni genetiche a scopo bellico. Durante un turno di pulizia, Elisa e la collega Zelda scoprono per caso una creatura antropomorfa anfibia chiusa in una teca di vetro piena d’acqua. Il rapporto che si instaura tra Elisa e il mostro è una storia d’amore gentile e potente, un amore che vive oltre la barriera dei corpi apparentemente incompatibili e che sfocia nel delta dell’eternità. La mostruosità della storia passa di significato dalla creatura che indossa un corpo totalmente aderente alla categoria mentale che abbiamo di “mostro” ai comportamenti dei personaggi che ricoprono il ruolo di antagonisti del racconto, lasciandoci con la domanda – forse più retorica che reale – su chi sia effettivamente il Mostro delle nostre storie. 

Il mostruoso ha una vita millenaria, con radici mitologiche accertate fin dalla cultura accadica, anche se sospettiamo che già nelle società di caccia e raccolta ci fosse una proto-narrazione ben indirizzata in quella direzione. Fin da bambini, infatti, ascoltiamo racconti che ritraggono il mostro col corpo e poi attraverso comportamenti crudeli: golem, vampiri, lupi mannari, calamari giganti, fantasmi, alieni, l’uomo dell’ombra, la strega che rapisce i bambini per mangiarli, pupazzi assassini, draghi, demoni. Tutte queste rappresentazioni hanno lo scopo di creare un antagonista visivamente identificabile, un simulacro di nefandezza, qualcosa che ammonisce chiunque intraprenda un viaggio eroico: alla fine della storia, se sei il protagonista, devi uccidere il mostro per poter consacrare la tua gloria. Viviamo quindi in una costante dicotomia tra l’Eroe e il Cattivo da sconfiggere, eliminando tutte le sfumature che intercorrono necessariamente nella creazione di questi due personaggi. Se l’eroe deve avere successo alla fine del suo viaggio, è norma che nel corso del racconto tutti gli accadimenti e i modi di affrontarli appartengano alla categoria del Bene. Ma se è vero che ogni cosa succede all’interno di una virtù morale che giudichiamo positiva e, di conseguenza, appendiamo la coccarda del meritevole al protagonista, dove finiscono le ombre? E ancora, se tutte le ombre giacciono nelle strutture cognitive e comportamentali del mostro, la condanna è già scritta fin dalla prima parola della storia. E ancora, se la condanna è già scritta, quale curiosità possiamo avere di indagare gli strati che compongono il mostro? Quando ci fermiamo all’assolutismo del “è fatto così e deve morire” se già partiamo imboccati di questo orientamento? Infatti, le dimensioni della mostruosità non vengono mai indagate in profondità, lasciando davanti ai nostri occhi un modello in carta velina che è poco consistente, ma comodissimo da applicare su qualsiasi superficie si voglia inserire dentro la categoria del mostruoso. Ma è altrettanto pericoloso perché la definizione di mostro viene via via svuotata del suo significato rivelatore e livellata all’esigenza di additare velocemente, con uno solo sguardo, ciò che è impuro e per questo deve essere eliminato. Ma il mostro delle narrazioni ha anche una matrice biologica che concorre alla sua definizione, una predeterminazione che passa dal corpo informe e deforme e che manifesta fin dalla vista il suo essere privo di morale, discernimento e regole sociali. E proprio in questo passaggio, nel modo in cui il suo corpo riflette la mancanza di umanità e di virtù morali, si spiega il suo essere antagonista assoluto. Il mostro è tale perché non può fare altrimenti, non ha altre possibilità, è una bestia feroce con un obiettivo – unico – chiaro: distruggere e uccidere.

In Monster Theory Jeffrey Cohen ci regala sette chiavi di lettura per andare in profondità e svelare le sfumature che compongono il mostruoso. Secondo Cohen, il Mostro è quello che altre volte qui abbiamo definito come “corpo culturale”. Quel suo corpo respingente è il prodotto di un complesso intreccio tra tempo, sentimento e luogo, un’applicazione moderna della teoria di Taine. Il mostro incorpora la paura, l’ansia, l’immaginazione, la sperimentazione e il desiderio del suo tempo, avverte il mondo che queste cose esistono e apre una finestra sul prato di fiori appassiti che indossa. Ma proprio per questo motivo, proprio perché è un corpo culturale, il mostro modifica se stesso a seconda del momento in cui viene letto, ma anche di quello in cui viene utilizzato. Per questa capacità camaleontica, il mostro non smette la sua attività alla fine di una singola storia, ma si volatilizza per tornare più avanti, in un altro tempo e in un altro luogo. Questo fa sì che sotto lo stesso nome esistano una serie infinita di creature che non stanno mai ferme e immobili, ma anzi agiscono per logorare i lembi della categoria più grande. Cosa è mostruoso, cosa non lo è? Non serve aspettare molto tempo prima che una categoria così ampia e rassicurante scenda dai racconti e si depositi nel mondo reale, sovrapponendo in modo maldestro il fantastico con la nostra necessità di distacco da eventi truci che non riusciamo a guardare come possibilità del nostro comportamento. Così, la parola “mostro” ha assunto nel linguaggio comune un’accezione ancora più ampia, mettendo in ombra addirittura le creature fantastiche che conosciamo e arrivando in soccorso dell’opinione pubblica di fronte a casi di cronaca che presentano dinamiche ben lontane dallo schema di “buono e giusto” che conosciamo e di cui abbiamo imparato anche ad assorbire le sbavature, certo, ma sempre nei limiti del plausibile. Così diventano mostruosi assassini, femminicidi, pedofili, torturatori, perché se non inseriamo queste persone nell’immaginario fantastico, quali domande dovremmo farci su noi stessi? E quale sguardo stiamo utilizzando?

Perché, vedete, quando parliamo di mostri restiamo sempre aggrappati alla dinamica del viaggio dell’Eroe dove il Buono e il Cattivo sono due personaggi ben distinti. E questo è molto facile perché ci rassicura, a suo modo. Se non siamo noi quelli che finiscono sui giornali, allora significa che siamo dalla parte dei buoni, sulla riva giusta del fiume.Ma se cambiamo le lenti attraverso cui esploriamo le storie e torniamo alla teoria di Cohen, non possiamo più pensare in termini binari, ma dobbiamo iniziare a utilizzare latitudine e longitudine del nostro sistema culturale. E visto che ognuno di noi è un prodotto culturale, formato e riformato su una secolare stratificazione, l’indagine del mostruoso non può avvenire fuori da noi, con delle comparse che indichiamo come mostri nel racconto e che mettiamo sulla riva opposta del fiume, ma nelle nostre profondità. Siamo composti ineluttabilmente da ampie vetrate colorate da cui filtra il sole e da stanze buie in cui proliferano i divieti, le atrocità e la possibilità di compiere qualsiasi gesto. E queste stanze sono chiuse a chiave da una struttura educativa e culturale che ci cresce stabilendo cosa è giusto e cosa è sbagliato, tutto minuziosamente dettagliato e spiegato non tanto dal motivo per cui certe cose non bisogna farle, ma da cosa capita a chi le fa. Il Michel Foucault della Storia della follia nell’età classica ci dice che la punizione per chi devia dalla norma – e per deviazione dalla norma intendiamo qualsiasi tipo di comportamento che esponenzialmente si allontana dalla virtù morale assoluta – ha lo scopo di eliminare il colpevole, ma anche di educare chi osserva dagli spalti la pubblica gogna. Così, in questo spazio metaforico tra la ghigliottina e il posto in sala, si confondono colpe e necessità, origini e spiegazioni, perché la nostra prima reazione non è mai capire il motivo, ma è sempre prendere le distanze. Così, quando leggiamo sui quotidiani che è stato catturato un mostro e continuiamo a indicarlo in questo modo, quello che facciamo non è comprendere l’avvenimento nella sua matrice, ma rimarcare il prima possibile che noi non facciamo parte di quella storia. Non impariamo nulla agendo in questo verso, perché restiamo sul pelo dell’acqua. E al prossimo femminicidio, al prossimo omicidio, alla prossima vittima e al prossimo carnefice resteremo costantemente immobili nel cercare disperatamente di trovare un punto di distacco, un gesto che ci porti a dire “noi non siamo come loro”. Ma il Mostro non è mai là fuori, non si nasconde nei boschi. Il mostro è la lente attraverso cui possiamo comprendere il nostro tempo e chi siamo, solo se distruggiamo questa distanza e iniziamo a indagare la nostra struttura iniziale, per cercarlo.

ARTICOLO n. 88 / 2024