ARTICOLO n. 21 / 2024

PANICO WOKE

Anatomia di un'offensiva reazionaria

C’è un’ondata di panico nel dibattito pubblico globale sul termine wokismo. È nato con l’omicidio, nel febbraio 2012, di Trayvon Martin, un adolescente afroamericano uscito dalla sua casa in una città della Florida per comprare caramelle in un negozio di alimentari. Fu ucciso da George Zimmerman, un uomo di razza mista bianca e latina che faceva parte di un’organizzazione di “vicini vigilanti”. Il governo federale non ha immediatamente perseguito l’aggressore. In Florida, la legge “Stand Your Ground” consente a chiunque ritenga ragionevolmente che la propria sicurezza, o quella della propria proprietà, sia minacciata di sparare alla persona che la sta minacciando.

L’omicidio di Trayvon Martin è avvenuto nel 2012, in un’epoca in cui le reti sociali erano sviluppate: Twitter, Facebook, Instagram, Tumblr, e altri. Furono organizzate mobilitazioni digitali per chiedere giustizia, spingere lo Stato della Florida a perseguire l’assassino e reclamare lo spazio pubblico per le persone di colore. I genitori di Trayvon Martin, Tracy Martin e Sybrina Fulton, lanciarono una petizione, sostenuta da celebrità come Janelle Monae e LeBron James. Il processo si è tenuto durante l’ondata di emozione per l’omicidio. L’assassino si difese sostenendo di essersi difeso contro un diciassettenne disarmato. Una giuria composta da sei donne, cinque bianche e una latina, assolse Zimmerman nel 2013. Le conversazioni trapelate sulla stampa indicano che, secondo la giuria, Zimmerman “temeva per la sua vita”. Tuttavia, si scoprì che il vigile volontario aveva preso l’iniziativa di seguirlo con la sua auto, sebbene il 911 [il numero per le emergenze negli Usa, ndr.] gli avesse proibito di farlo.

Stay woke

È stato a questo punto che è dilagato lo slogan “stay woke” sui social network. Era un’indicazione alle persone mobilitate di restare vigili di fronte alla violenza della polizia. Stay woke esprimeva anche la sfiducia nei confronti della copertura mediatica tradizionale degli eventi, riecheggiando la famosa frase di Malcolm X: «Se non sei vigile, i media ti faranno odiare gli oppressi e amare coloro che li opprimono». 

L’espressione deriva dall’African-American Vernacular English, l’inglese sviluppato dai neri americani. È stata diffusa sui social network e irritò gli utenti conservatori che l’hanno subito ridicolizzata. Allora venne realizzata un’operazione di rovesciamento semantico e di ricolonizzazione del senso di un’espressione concepita per liberare gli oppressi. Wokismo, oggi, si riferisce a chiunque sia coinvolto in lotte sociali progressiste: contro la “negrofobia”, la transfobia e così via. Ormai “wokeism” non è una parola che indica un contenuto, ma va considerata a partire da una funzione censoria e stigmatizzante che serve a contestare tutto ciò che gli oppressi hanno da dire quando sono uccisi, sfruttati o umiliati.  

A differenza di Stay wokewokismo non ha una definizione precisa. L’acquista quando si tratta di colpire, con il cinismo aggressivo dell’ironia social o il disprezzo di classe, qualcuno che osa dire di non volere essere malmenato. Stiamo parlando di una chimera come altre nate quando le guerre di religione sono state secolarizzate nei conflitti sulla proprietà dell’immaginario. La sua peculiarità è data dal fatto che il wokismo è azionato quando si tratta di bloccare un principio di organizzazione dei dannati della terra.

Per chi indaga le culture politiche contemporanee, questa strategia indica l’esistenza di uno scontro e permette di comprenderne la logica spesso oscura e quasi mai esposta in maniera razionale. Alla base delle discussioni che occupano la sfera pubblica digitale c’è un’intuizione della teoria critica della razza, quella di Angela Davis ispirata alla connessione tra classe-genere-razza, Questa prospettiva denuncia la criminalizzazione degli uomini e delle donne di colore e il loro alto tasso di incarcerazione negli Stati Uniti. Un’altra ricercatrice, Kimberlé Crenshaw, ha sviluppato questo lavoro e ha parlato di “intersezionalità della violenza”, soffermandosi in particolare sulle lotte femministe contro la misoginia, l’ipersessualizzazione e la criminalizzazione dei corpi neri.

Insieme queste teorie sono state usate dai movimenti statunitensi a partire da quel 2012 per creare uno spazio politico liberato e denunciare quello occupato dalla “supremazia bianca”. Questa opera di costruzione politica procedeva insieme allo sviluppo di un movimento a Miami, Oakland, New York e Detroit e in tantissime altre città. Un’attivista afrofemminista, Alicia Garza, scrisse un post su Facebook in risposta all’assoluzione dello sparatore Zimmermann: BLACK LIVES MATTER. Lo slogan è stato ripreso come hashtag ed è stato urlato da folle di manifestanti. Attivismo, teoria critica, creazione di uno spazio politico, anche attraverso i social network, dunque. Questo, a oggi, è lo schema seguito per costruire un movimento.

Cancel culture

Un’analoga strategia di contro-rovesciamento di una pratica militante è avvenuta nel caso della cosiddetta cancel culture. L’abbattimento delle statue raffiguranti personaggi razzisti, prove del colonialismo e l’imperialismo degli Stati Uniti, è stato interpretato come una volontà nichilista di cancellare il passato della “nazione” e imporre in maniera totalitaria una verità di minoranze pericolose e riottose. In realtà si è trattato di atti simbolici, profondamente conflittuali, realizzati sia per contestare la violenza del passato che l’oppressione del presente ai danni di una moltitudine di soggetti amplissima, non limitabile nemmeno ai discendenti degli schiavi. 

L’enorme differenza tra un atto politico è un altro banalmente distruttivo è stata strumentalizzata per fare dire a questi movimenti ciò che non pensano. Questa strategia ha unito, nel medesimo empito di legge e ordine, liberali reazionari e destre estreme oggi al potere, o che aspirano a vincere le prossime elezioni. Il senso comune è diventato un campo di battaglia attraversato dalle scorribande degli editorialisti negli spazi mediatici centralizzati come la televisione, la radio e la stampa scritta. La comunicazione tra il livello mediatico e quello politico-organizzativo ha bisogno di una continua manutenzione e di un costante rilancio, proseguendo la strategia di base: quella di occupare il terreno dell’avversario e cambiare radicalmente il senso delle sue azioni, e dei simboli, al fine di delegittimare e patologizzare la sua stessa esistenza. 

Contraccolpo, contrattacco

Alex Mahoudeau ha analizzato le caratteristiche della “offensiva reazionaria” nel libro La Panique woke. Per l’autrice la denuncia del wokismo è un esempio di “panico morale”, cioè “una serie di aneddoti più o meno esagerati o inventati [che] alimentano la sensazione di una grande minaccia”. Aneddoti decontestualizzati che caricaturano la realtà. Ecco perché le scienze sociali, o le filosofie, che descrivono una realtà diversa sono sempre il primo bersaglio di queste operazioni. Il loro scopo è creare un consenso su una presunta minaccia rappresentata da gruppi di subalterni accusati di essere responsabili di comportamenti “devianti”. 

La “devianza” è l’esito dell’affermazione di una norma, considerata naturale e accettata dalla maggioranza, mentre in realtà è l’espressione della volontà di un’élite che ha interesse a mantenere un “dominio” e a stigmatizzare chi lo insidia come responsabile di un’irrazionalità rispetto all’ordinato decorso del mondo.Strategie come il wokismo servono ad alimentare l’ostilità diffusa verso persone classificate come “nemiche” nel dibattito pubblico. L’operazione è astuta perché usa il linguaggio della democrazia liberale, quello ispirato alla libertà di opinione, per negare una visione diversa della società attribuendole una minaccia all’integrità sociale.

Il panico woke è dunque l’espressione di una reazione a difesa di uno dei rapporti di poteri sui quali è costruita una società maschilista e bianca. Il binomio è tornato con forza all’attenzione dello scontro. Un simile ritorno è stato spiegato da Susan Faludi nei termini di un backlash, cioè di un “contraccolpo” o di un “contrattacco” dopo le conquiste sociali delle lotte femministe degli anni Settanta e Ottanta. Faloudi ha descritto una proteiforme mobilitazione maschilista che ha portato nel dibattito pubblico l’idea che le donne controllino tutto, mettano la museruola anche a una sana opposizione e prosperino a spese degli uomini, della famiglia e del mondo del lavoro.

Una simile torsione, osservabile anche nella retorica acchiappatutto del “politicamente corretto”, non è nuova. Susan Faludi sostiene che si verifica dopo la manifestazione di una nuova soggettività rivoluzionaria che impone, anche in maniera contraddittoria e non lineare, un “progresso sociale” che incrina i rapporti di potere, a cominciare da quelli nelle relazioni. A quel punto scatta un’operazione che potremmo definire di “sussunzione”: gli avanzamenti vengono parassitati e modificati anche nel significato da teorie concorrenti, e apparentemente assonanti, che tendono a espropriare le soggettività associandole a teorie come quella dell’“empowerment” femminile, per esempio. Quest’ultima è una teoria che riduce le nuove libertà e le nuove uguaglianze al mercato. Contemporaneamente si diffonde una paura che contribuisce a destabilizzare le persone escluse dai cambiamenti e a colpevolizzare coloro che li hanno formulati, rimproverandole per la sconfitta o per la crisi dello status quo che è all’origine dell’ingiustizia.

Problematizzare l’universalismo

Il campo non è tuttavia occupato solo da due forze opposte. In mezzo si trova l’universalismo degli Stati costituzionali, che conosce diversi sviluppi nei singoli paesi. Per esempio in Francia, dove l’universalismo “repubblicano” e “laico” è fortissimo, le istituzioni restano in una posizione apparentemente neutrale. Una posizione usata sia per addomesticare lo scontro, sia per “regolarlo” in termini consensuali, di “patto sociale”, o di normalizzazione. 

Questo universalismo si basa sull’idea che il popolo sia “uno e indivisibile”, composto da individui indistinguibili e indistintamente rappresentati. Allo stesso tempo l’universalismo è un principio costituzionale della Repubblica, basato su un individualismo mediato socialmente. La contraddizione entra in fibrillazione quando emergono i conflitti scatenati dal genere, dalla razzializzazione o dalla religione. Da un lato, lo stato costituzionale cerca di garantire una differenza positiva di trattamento; dall’altro lato, conferma l’esistenza di differenze oggettive. 

Quando un governo, come quello francese guidato da Jean Castex nel 2021, ha iniziato a polemizzare contro un grottesco, e inesistente, “islamogauchismo”. Con questa formula arzigogolata si è cercato di attribuire alla sinistra, e al pensiero critico, posizioni simili al fondamentalismo islamico. Così facendo si è cercato di stigmatizzare ogni forma di opposizione, a cominciare da quelle espresse da una generazione fortunata del pensiero politico: per esempio Derrida o Foucault, le cui opere sono state oggetti di interpretazioni distorsive e parodistiche.

Il conflitto sull’universalismo, e nell’universalismo, ha investito anche il campo cosiddetto “decoloniale”. Con questa espressione si intende un ampio lavoro, sia teorico che politico, che in Francia (e non solo, evidentemente), lavora su più fronti al fine di estendere la critica del passato coloniale di questo paese nelle relazioni sociali e di potere in cui sono imbrigliati i soggetti “razzializzati”.

Ci sono state violentissime polemiche, seguite anche da minacce di violenza contro le attiviste impegnate in questa prassi. Hanno riguardato in particolare la tendenza al separatismo, definito anche “non-mescolanza” [non-mixité, ndr.]. Tale pratica conflittuale è uno strumento usato in maniera occasionale dallə attivistə oggettədelle discriminazioni. Offre un sostegno per rielaborare il senso della propria posizione in una società in cui la contraddizione non è ancora stata accettata dalle autorità pubbliche come problema politico. Spesso questo tipo di oppressione viene negata o minimizzata, a cominciare dalle sue vittime. In più, com’è accaduto più volte, l’organizzazione di tali momenti di “non mescolanza” è stata attaccata come una manifestazione di “razzismo anti-bianchi”. Invece, sostengono lə attivistə, è in realtà una tattica per contrastare il “razzismo strutturale”.

La critica dell’universalismo è un argomento molto delicato in un momento in cui l’universalismo è usato, in maniera del tutto destoricizzata, per sostenere le ragioni di una “democrazia occidentale” senza distinzioni contro quelle di tirannie e altri “illiberalismi” in un mondo multipolare e ostile. Su questo spartito si esercitano sia le fabbriche dell’opinione conservatrice e che quelle delle estreme destre che saccheggiano la storia del “liberalismo” in maniera capziosa e strumentale, espellendo da essa proprio gli aspetti legati al colonialismo e all’imperialismo. 

Il punto debole 

Una delle ragioni per cui l’offensiva reazionaria continua ad avere presa sembra essere dovuta al fatto che colpisce uno dei luoghi più problematici dei pensieri critici, a cominciare dal marxismo. L’obiettivo è fornire nuove ragioni per consolidare la separazione tra razza, genere, lavoro, mercato e Stato. Si intendono così dividere i diritti della libertà da quello dell’uguaglianza, la struttura dalla sovrastruttura, la verità dall’ideologia, le lotte sulla produzione da quelle sulla redistribuzione, la materialità dalla cultura, la sessualità dal simbolico, e così via. 

Contro questo dualismo molti pensieri materialistici, femministi o spinozisti si sono battuti. Ma, in tempi di debole connessione tra teoria e prassi, la loro lotta è indebolita. Rinascono invece identificazioni fantasmatiche, ispirate all’ontologia dell’autenticità e dell’identità. Si creano nuove gerarchie. Ad esempio, quella di una classe lavoratrice con bianchi maschi eterosessuali separati, e spesso ostili, a una forza lavoro migrante composta sia da uomini che da donne. Su un dualismo tra minoranza e maggioranza è costruita anche la parodia secondo la quale le richieste di giustizia avanzate dalle minoranze sono una difesa dei loro “privilegi”. 

Queste e altre pratiche fanno parte di una guerriglia ideologica, realizzata nei perimetri dei pensieri critici tra loro in conflitto. Il loro scopo è screditare ed eliminare la possibilità stessa che i subalterni si organizzino in maniera efficace e di massa. Si tratta di avvelenare i pozzi ai quali si abbeverano le soggettività che cercano di creare una nuova condizione politica in comune. Bisogna riuscire però a riconoscere le strategie di resistenza, e di contropotere, usare per interrompere questa aggressione sistematica. Tali strategie incontrano spesso un limite storico, intensamente combattuto, ma perdurante: il dualismo, appunto. Tra i diritti, le identità, le priorità politiche: viene prima l’anticapitalismo oppure la lotta per l’ecologia? Viene prima la libertà o l’uguaglianza? L’oppressione patriarcale o lo sfruttamento del lavoro? La centralità della dinamica razziale oppure quella sessuale?

Su queste opposizioni la controrivoluzione in atto va a nozze e si diverte a dividere i suoi avversari a seconda delle priorità del momento. Questa azione risponde a una priorità: bisogna impedire con ogni mezzo la ricomposizione dei soggetti e la riscoperta di una dialettica tra teoria e prassi che permetta di coniugare nuovamente, in contesti diversi, la critica dell’economia politica con i conflitti di classe, di razza, di sesso e ambientali. Sono numerosi i tentativi sia teorici che pratici di ricombinare questi elementi, individuando nuove forme politiche e organizzative.

Rispetto a questi obiettivi abbiamo riscontrato diversi passaggi a vuoto. Non ha giovato la diffusione del populismo, nelle sue diverse declinazioni. Si tratta di una politica che contrappone i “ricchi” e i “poveri”, ma non pensa la lotta di classe, e istituisce una nuova gerarchia tra diritti sociali e civili. Non ha giovato nemmeno la svolta neoliberale e autoritaria del sistema mediatico che è più pronto a rielaborare le parole d’ordine delle destre estreme (“prima gli italiani” ecc., o migranti = pericolo invasione) che le istanze femministe, anticapitaliste, anti-razziste. Un’evoluzione che è andata di pari passo con la chiusura all’elaborazione più avanzata e diffusa dei pensieri critici nell’accademia come nella scuola. 

Questi mutamenti strutturali e istituzionali sono gli effetti materiali, e sistemici, della controrivoluzione che si è rafforzata in coincidenza con il moltiplicarsi delle crisi dal 2008 a oggi. Gli spauracchi del wokismo, della cancel culture o del “politicamente corretto” non sono mere ideologie, ma effetti discorsivi prodotti da un potere reale.

Rivoluzione passiva

La tesi di una “guerra non dichiarata contro le donne” (Faludi) in nome di un “contrattacco” condotto per riaffermare il “dominio maschile” (Pierre Bourdieu) e la “bianchezza” (Paul Gilroy) è molto interessante nella prospettiva di una genealogia della politica contemporanea. Sono usati cioè i valori del liberalismo politico (la libertà, l’universalità, il diritto all’opinione, la tolleranza, e altri ancora) per affermare il contrario e ristabilire un’egemonia dei dominanti giudicata sotto attacco. Ciò avviene in un momento, per di più, in cui il presunto attacco è più debole rispetto ad altri, come quello degli anni Sessanta e Settanta, oltre che di natura difensiva. 

Ciononostante il conflitto si basa sull’uso delle parole dell’avversario (le donne, i neri, i subalterni, gli sfruttati e gli oppressi), e della loro storia “minoritaria”, per evidenziare come le “maggioranze” artificialmente costruite siano in pericolo. In nome di tale emergenza si evoca l’antica legge del “bisogna difendere la società” per colpire i soggetti e la loro presunta volontà di destabilizzare il sistema.

In Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista ho definito questa strategia nei termini di una “rivoluzione passiva”. Termine che ho rielaborato da Antonio Gramsci, con il quale il filosofo comunista italiano ha inteso descrivere un lungo periodo di “contro-rivoluzione” moderata e classista nel XIX secolo in Italia. Questa politica ha strumentalizzato i contenuti di una rivoluzione politica e sociale – di segno diverso: quella francese prima, quella sovietica poi – riconoscendo ai popoli solo i diritti decisi dalle classi dominanti e negando ogni forma di partecipazione e trasformazione ai movimenti di autodeterminazione. Dal punto di vista della logica politica, l’offensiva reazionaria in corso si esprime allo stesso modo. Prolunga cioè la reazione a un ciclo rivoluzionario che ha modificato i rapporti sociali, di genere o razziali nelle società capitalistiche, attacca i soggetti che si ispirano necessariamente a quella storia e usa contro di essi i principi che, in linea teorica, dovrebbero liberarli. 

Così funziona l’egemonia. Diversamente da come la intendeva Gramsci, una certa corrente della destra al governo l’ha intesa come una “guerra culturale” priva però di lotta di classe. Questa “guerra” intende consolidare un sistema basato su un triplice potere: economico (il potere di possedere la maggior parte della produzione di ricchezza e di stabilire una divisione razziale del lavoro); normativo (il potere di stabilire le regole della società su scala internazionale – in un mondo globalizzato); simbolico (il potere di attribuire un valore e di valutare unilateralmente i corpi e le pratiche dei “non bianchi” per definire la loro umanità). 

Un simile assetto dei poteri è rivoluzionato incessantemente, in maniera antitetica a chi si oppone, al fine di consolidare l’ordine della proprietà, dei confini e del capitale. La rivoluzione passiva oggi è un ribaltamento postmoderno dei principi classici della rivoluzione: la reazione è libertà, l’uguaglianza è sfruttamento, il capitale è natura. In questo regime paradossale, i soggetti restano subalterni. Di solito, questo processo è considerato un blocco unico insuperabile, un grande Leviatano indistruttibile. Quando accade, come oggi, è difficile trovare un’alternativa, mentre risorgono culture dell’apocalisse e della fine del mondo. In queste fasi si perde di vista il carattere reazionario dell’offensiva, cioè la sua mancanza di autonomia. Essa non può fare a meno del “nemico” che si è scelta per giustificare la propria esistenza. Quanto ai suoi avversari, continuano a dividersi, obnubilati da un’intelligente operazione politica che sembra avere saturato ogni spazio di libertà nel presente. Ma questo è l’effetto derivato della loro autonomia che persiste nel mondo rovesciato della rivoluzione passiva.

ARTICOLO n. 88 / 2024