ARTICOLO n. 54 / 2021

LA SCATOLA

«Il signor Landolfi? Lorenzo Landolfi?…»
«Sono io, con chi parlo?»
«Commissariato di zona.»

Era una mattina lattiginosa e pesante, la cappa di calore che opprimeva da giorni la città non mollava la presa, come un serpente che soffoca piano piano la sua preda. Mi sentivo spossato e con i riflessi rallentati, dovetti chiedere alla voce nella cornetta di ripetere una seconda volta la frase asciutta e lapidaria che non lasciava dubbi alla sua interpretazione: «Dovrebbe recarsi nel nostro ufficio». Malgrado la perentorietà della richiesta, il tono era gentile e ciò fu sufficiente a stemperare lo stato di allerta che sentivo crescermi dentro. Provai a richiedere maggiori informazioni ma il funzionario replicò che si trattava di «una faccenda delicata» e che sarebbe stato meglio parlarne a voce, infine mi ricordò l’indirizzo del commissariato sottolineando che si trovava «a due passi dalla sua abitazione», il che significava: non perdiamo tempo al telefono, venga qui e saprà di cosa si tratta.

Nel breve tratto di strada che conduceva alla mia destinazione provavo a elencare i possibili motivi della convocazione. L’ultima volta che mi ero presentato in commissariato era stato per denunciare il furto dell’ennesimo motorino, l’avevano forse ritrovato? Scartai subito l’ipotesi, non solo perché erano già trascorsi due anni e ritenevo pressoché impossibile l’eventualità di un ritrovamento, ma perché definire «faccenda delicata» il recupero di un motorino suonava inappropriato oltre che ridicolo. Ero incuriosito e infastidito in eguale misura, diviso fra la certezza di avere la coscienza a posto e l’inconscia possibilità di non averla affatto.

Per misteriose ragioni l’ufficio era privo di aria condizionata e i due ventilatori impolverati piazzati all’interno risultavano inspiegabilmente spenti, sicché la temperatura raggiungeva picchi incommensurabili. Non era cambiato nulla dall’ultima volta, l’odore stantio, le pareti sudicie e le voci che rimbombavano da una stanza all’altra. Rimasi in attesa qualche minuto, poi l’usciere mi disse di salire al primo piano, «stanza 5, ufficio armi».

Ufficio armi?

Bussai alla porta socchiusa. L’uomo seduto alla scrivania fece cenno di entrare senza distogliere lo sguardo dal computer acceso che riverberava una luce bluastra sul suo volto. Diede un ultimo colpetto sulla tastiera e finalmente mi rivolse la parola. Riconobbi la voce che mi aveva parlato al telefono.

«Dunque, signor Landolfi» cominciò, come dando seguito a un discorso da poco interrotto, mentre con la mano frugava i fascicoli accatastati. «Il dottor Carlo Landolfi è suo padre, giusto?»

«Sì, certo…»

«Ecco. Ci risulta che suo padre possiede…» e qui prese a leggere: «una pistola semiautomatica Beretta, modello 31 calibro 7,65 con relativi proiettili…»

Lo interruppi esibendo un sorriso forzato: «Ci deve essere un errore, mio padre ha quasi novant’anni e sinceramente non credo…». Mi interruppe a sua volta: «È proprio questo il punto. La pistola è stata regolarmente denunciata dal signor Carlo Landolfi, suo padre, nel 1976, non si tratta dunque di detenzione illegale. Ora però il denunciante ha ottantanove anni e a questa età non è più consentito detenere armi nel proprio domicilio. Dobbiamo recuperarla il prima possibile.» Il tono si era fatto sbrigativo, il fascicolo «Landolfi» rappresentava solo una delle mille pratiche da sbrigare. Quello che c’era da dire era stato detto, ora la rogna passava a me. «Ci parli, gli spieghi la situazione e poi si metta in contatto con noi.» Accompagnò l’ultima frase con la mano tesa in segno di congedo. Avevo le mani sudate, ma le sue lo erano ancora di più.

Carlo Landolfi, classe 1929. L’uomo più mite che abbia mai conosciuto. Non l’ho mai sentito alzare la voce e men che meno le mani su noi fratelli, non ricordo una litigata degna di questo nome con mia madre, o un amico, un collega. Se dovessi associare mio padre a un’immagine mi viene in mente un laghetto di montagna, limpido, placido, immobile. Non riuscivo a trovare un motivo plausibile che giustificasse il possesso di una pistola. Mai stato cacciatore papà, ha sempre odiato la violenza e tutto ciò che la rappresenta. Per anni ha votato repubblicano evitando schieramenti e polemiche, si è visto surclassare da colleghi più scaltri senza mai provare risentimento, accontentandosi di una carriera lenta ma sicura alla Corte dei Conti che gli ha garantito stima, rispetto e una dignitosissima pensione: che diavolo ci faceva con quella pistola, e perché non ci ha mai detto niente? Aveva forse a che fare con il suo lavoro? Con il suo passato? L’ipotesi difesa personale (rapinatori/ladri) non l’ho presa in considerazione neanche per un secondo.

Decisi di andare a casa sua, la casa dove eravamo nati e cresciuti e che ora divideva con mia madre, che invece avrebbe voluto vivere altrove. «Troppo grande e troppo vuota» diceva sempre.

Stava seduto sulla sua poltrona, la stessa di sempre, con un plaid sulle gambe rinsecchite malgrado il caldo e lo sguardo rassegnato di chi sa che la sua unica, vera occupazione, consiste nell’attesa. Non è mai stato un tipo loquace mio padre, mai sprecato una parola. Un atteggiamento che ha trasmesso a noi figli e al quale nostra madre si è pervicacemente sottratta, lei ama parlare povera donna, quante volte l’ho sentita farlo da sola, tanto per assecondare la smania insoddisfatta di un interlocutore. Tempo fa le ho regalato una radio e da allora non è mai successo che entrando in casa la trovassi spenta. Passa il tempo così, e non se ne lamenta. Quel giorno le note del «Concerto del mattino», il suo programma preferito, aleggiavano per le stanze vuote insieme al profumo di un caffè da poco consumato.

«Ciao papà» dissi, sfiorandogli la testa con un bacio.

«Lollino…» (non ha mai smesso di chiamarmi così) «qual buon vento?».

Ero passato a trovarlo alcuni giorni prima e ogni volta mi accoglieva come fossero trascorsi dei mesi. Inforcò gli occhiali per guardarmi meglio, lasciando che la realtà degli affetti lo riportasse nel presente. Da tempo viveva in un mondo distante fatto di pensieri e forse di ricordi, e pur essendo ancora lucido e padrone di sé, non si interessava degli accadimenti mondani, ciò che avveniva fuori dalla sua stanza non aveva importanza, non l’aveva più. Mi capitava a volte di provare invidia per la condizione esistenziale nella quale si era rifugiato, considerando che gran parte degli affanni altro non sono che logorio, inutile consumo di energia. Forse il distacco è la vera intelligenza.

«Hai qualcosa da dirmi?» come avesse intuito che la mia presenza non era casuale.

Gli raccontai della telefonata e di ciò che ne era seguito. Ascoltava in silenzio, senza fare domande. Sembrava sereno, non manifestava alcun stupore. Fui io a stupirmi della sua reazione quando gli dissi che avrei contattato il funzionario per comunicargli l’assenso alla consegna dell’arma. Non so davvero perché lo ritenessi scontato.

«È fuori discussione. La pistola non si tocca.»

Esibì un tono perentorio che non ricordo avergli mai sentito, e addirittura la voce, la sua voce, pareva artefatta, come fosse incisa su un nastro. Provai a farlo ragionare, gli dissi che non poteva tenere in casa una pistola, era pericoloso. Mi guardava come fossi un estraneo, e continuava a fare no con la testa. Più insistevo più aumentava la sua insofferenza, cominciò ad agitarsi sulla poltrona, poi, per mettere fine alla discussione sussurrò: «Sono stanco, finiamola qui. Riferisci pure al tuo commissario che la pistola resta a casa.»

«Ma perché? Che cos’ha ’sta pistola di tanto speciale?…»

Lo vidi trasfigurare, stringeva le mascelle per non dire quello che avrebbe dovuto dire, dirmi. Gli occhi si fecero lucidi e l’insofferenza lasciò posto alla rabbia: «Non insistere Lorenzo, la questione è chiusa».

Soltanto in quel momento mi resi conto di quanto poco sapessi di lui, della sua storia. I nostri genitori non esistono prima del nostro arrivo, non riusciamo a immaginarli bambini, giovani. E nelle fotografie che li ritraggono ragazzi sono i nostri tratti che cerchiamo, non i loro. Chissà quante cose non conoscevo, e se è vero che mio padre ha omesso di raccontarci episodi della sua vita, altrettanto vero è che a nessuno di noi è venuto in mente di chiedere. E anche adesso, non chiesi nulla. Non feci più domande. Nonostante la curiosità decisi di rispettare il suo silenzio e mi pentii dell’arroganza dei miei anni.

Il giorno successivo chiamai Castelli, il funzionario dell’ufficio armi. Gli spiegai la situazione. A dire il vero spiegai ben poco, non avendo argomenti da sostenere. Mi limitai a riferire le intenzioni di mio padre. Forse condizionato dal mestiere del mio interlocutore, mi aspettavo una serie di domande alle quali non avrei saputo rispondere, ma quello non insistette, e anzi, mi offrì una soluzione: «Se suo padre ha intenzione di detenere l’arma è necessario inertizzarla». Confesso la mia ignoranza, non avevo mai sentito prima d’ora il verbo inertizzare. Castelli intuì la mia lacuna e si affrettò a colmarla:

«Deve farla disattivare, renderla inerte, appunto.»

«Ah… e come si fa?»

«È una faccenda piuttosto lunga, se mi dà la sua mail le invio il procedimento per gli adempimenti burocratici.»

Il termine adempimenti burocratici mi provocò un sentimento di sconfitta, la sensazione di trovarmi di fronte a una montagna da scalare a piedi scalzi. Quando lessi la mail lo sconforto fu definitivo:

La disattivazione delle armi da fuoco è regolamentata, per quanto concerne le procedure tecniche, dal Reg. UE 2403/2015 come da ultimo modificato dal Reg. UE 337/2018.

Per quanto concerne gli adempimenti burocratici, bisogna invece consultare il D.M. 08.04.2016, che all’art. 5 rubricato   Disposizioni procedurali e adempimenti per la disattivazione” dispone che il possessore dell’arma deve comunicare per iscritto alla questura competente che intende attivare la relativa disattivazione. La comunicazione deve indicare i dati identificativi e tecnici dell’arma medesima, ovvero tipo, marca, modello, calibro e numero di matricola, nonché i dati identificativi del soggetto che effettua la disattivazione (pertanto l’interessato avrà già preso contatti con l’armeria che poi effettuerà la disattivazione). Entro quindici giorni dalla ricezione della comunicazione, la questura informa il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, rivolgendosi alla Soprintendenza per i beni storici, artistici e demoetnoantropologici competente per territorio, al fine di verificare se si tratti di un’arma antica, artistica o rara d’importanza storica o comunque di interesse culturale e, all’esito degli adempimenti, la questura medesima provvede, entro i trenta giorni dalla ricezione della comunicazione, a rendere nota al richiedente la presa d’atto (quindi l’assenso a procedere alla disattivazione).

Eccetera eccetera eccetera…

Mi girava la testa. Rilessi un paio di volte senza riuscire a trattenere un sorriso di scherno riguardo allo stile grottesco dello scritto che raggiungeva il suo apice nell’espressione: «… che intende attivare la relativa disattivazione» o nel termine «demoetnoantropologici». Cristo santo, mi ero ficcato in una bella rogna.

Spensi il computer, mi accesi una sigaretta e rimandai il problema all’indomani, confidando sul potere dissuasivo dello spettro burocratico, forse più efficace, alle orecchie di mio padre, delle mie sagge ma inascoltate parole.

Lasciai passare due giorni. Volevo dare tempo a papà di riflettere sulla questione, sarei tornato da lui con spirito diverso rispetto alla precedente visita, più accondiscendente e meno intransigente. Pensavo inoltre che la proposta dell’inertizzazione, sebbene complicata, potesse ammorbidirlo nei miei confronti, avrebbe se non altro apprezzato le mie buone intenzioni.

Stava seduto al solito posto, nella penombra del pomeriggio, lo sguardo rivolto alla finestra. Appena mi vide entrare fece scivolare sul lato del cuscino un quadernetto scuro, poi mi rivolse un sorriso. «Ciao Lollino, che bello vederti». Non vi era traccia di ostilità nei suoi occhi, sembrava più rilassato del solito, e felice, sinceramente felice di vedermi. Si capiva, dai suoi gesti, il desiderio di cancellare l’amarezza del nostro ultimo incontro.

«Siediti qui» disse «accanto a me.»

Restammo in silenzio qualche minuto. Dalla cucina proveniva il sonoro ovattato della radio e dalla strada lo sfilare veloce di qualche automobile.

«Mi dispiace per l’altro giorno papà. Non volevo turbarti… io non so nulla di quella pistola, non so da dove viene né perché la tieni in casa, però ho capito che per te è importante e se davvero non vuoi consegnarla, esiste una possibilità… si tratta di riempire un modulo… tu non devi fare niente, me ne occuperò io…». Mi alzai per recuperare il foglio nella tasca della giacca e quando mi voltai, lui stava piangendo.

In oltre quarant’anni non lo avevo mai visto in lacrime.

Non smise di piangere fino alla fine del racconto.

«È successo tanto tempo fa… Avevo quattordici anni, ero un ragazzino. C’era la guerra, ma io quasi non me ne accorgevo perché vivevo nella grande casa che tu ben conosci, distante da tutto. All’epoca non avevano ancora costruito nulla intorno a noi e la villa pareva davvero isolata dal mondo. Passavo le mie giornate in giardino o chiuso nella mia stanza, dovevo fare silenzio, non potevamo disturbare mio padre… tuo nonno… Era molto malato. Leucemia… che brutta parola, vero? Vedevo i dottori che entravano nella sua stanza e subito si chiudevano la porta alle spalle e io li sentivo sussurrare e non capivo cosa stesse succedendo. Ogni tanto provenivano dei lamenti e io mi tappavo le orecchie o canticchiavo una canzone, per non ascoltarli. Non ho mai chiesto nulla a mia madre, non so se era per non sapere, o perché già sapevo. Non avevo voglia di entrare in camera di mio padre, non è bello per un figlio vedere il proprio padre indebolirsi, i padri non possono ammalarsi, non devono… Ero triste, certo, ma facevo finta di niente. Un giorno però fu lui a chiamarmi. Sentii distintamente pronunciare il mio nome, nonostante la voce flebile. Carlo!… vieni… e poiché non rispondevo alzò leggermente il tono. Entrai in punta di piedi. La stanza era semibuia. Ricordo un odore che non mi piaceva. Stava steso nel letto, il corpo avvolto dalle coperte, tranne un braccio che fuoriusciva dal lenzuolo. Era così magro, così… piccolo. Diede un paio di colpetti con la mano sul lato del letto, per invitarmi a sedere accanto a lui. E poi, la mano, la poggiò sul mio ginocchio. Devi fare una cosa per me Carlo. E non devi dirlo a nessuno. Promesso?… Dissi di sì, anche se preoccupato. Cosa stava per chiedermi? Ero incuriosito, e orgoglioso che avesse scelto me.

Vai nel mio studio, e apri il secondo cassetto a destra della mia scrivania… in fondo troverai una scatola, una scatola marrone… portamela. Non farti vedere da nessuno, mi raccomando, è un segreto fra te e me… È importante figlio mio, è una cosa importante… mi alzai dal letto, ubbidiente, ma lui mi afferrò la mano. Carlo, non dimenticarti mai le cose belle. Non dissi una parola, ricordo che il suo sguardo, quei suoi occhi dolenti e folli, e il suo corpo così fragile, mi facevano paura… ma al tempo stesso avevo una gran voglia di abbracciarlo… non riuscivo a mettere in ordine i sentimenti che mi stringevano la gola e mi paralizzavano.  Su, adesso vai, fai quello che ti ho detto. Per raggiungere lo studio dovevo attraversare il corridoio e passare dal salotto. Ci arrivai a passi felpati, come fossi un ladro. Non ci entravo quasi mai in quella stanza, la porta era sempre chiusa ma questo non aveva mai solleticato la mia curiosità. Era un luogo che non mi apparteneva e io sto bene attento a non sconfinare in territori altrui… era tutto in ordine, un ordine definitivo, che non aveva nulla di provvisorio, perché chi avrebbe potuto scombinarlo non ne aveva più facoltà. Frugai in fondo al cassetto e trovai la scatola. La soppesai, più per istinto che per calcolo. Uscii in fretta, ma quando arrivai in corridoio incrociai il dottore che si dirigeva, accompagnato da mia madre, verso la stanza di mio padre. Nascosi la scatola sotto al maglione, salutai il dottore, e mi avviai verso la mia camera, in attesa di un momento più propizio. Li osservai avanzare dalla mia soglia, non si curarono di me. Bussarono e scivolarono dentro la stanza. Mi rimase nell’orecchio il rumore secco della porta che si richiudeva. Se chiudo gli occhi lo sento ancora quel rumore. Non avevo intenzione di scoprire il contenuto della scatola, ma quando la posai sul mio letto, la curiosità fu più forte del mio senso del dovere. Si trattava in fondo di sollevare un coperchio… Penso tu abbia capito di cosa si trattava. Io invece non me lo sarei mai immaginato. Quando la vidi, quella piccola pistola lucente, capii immediatamente, e mi mancò il respiro. Provai un terrore freddo e benedissi il cielo per l’arrivo del dottore che aveva salvato mio padre, sì, ma anche me… Come gli era venuto in mente di chiedermi una cosa del genere? Come avrei vissuto il resto dei miei giorni con quel peso sul cuore? Ero arrabbiato, arrabbiato e disperato. Chiusi la scatola e la nascosi sotto il letto, ricordo che la seppellii sotto altri oggetti per cancellarne ingenuamente la presenza, e poi di notte, non riuscendo a dormire la spostai di nuovo e la ficcai in fondo a una cesta dove ancora erano conservati i miei giocattoli di bambino. Da allora, quella scatola non mi ha mai lasciato, e quel giorno, quel maledetto giorno, fu l’ultimo in cui vidi mio padre. Non sono mai più entrato in camera sua, mai più. Per tre lunghissimi mesi, il tempo che gli era rimasto. E sai perché non l’ho fatto? Perché, per quanto ritenessi giusta la mia azione, mi sentivo in colpa. Avevo paura di guardarlo negli occhi, di vedere la sua pena. Quei tre lunghi mesi di dolore hanno pesato sulla mia coscienza per tutta la vita. Lui voleva mettere fine alla sua sofferenza, era un suo diritto… E io gliel’ho impedito. Ero davvero nel giusto? Cos’era più importante, la sua salvezza o la mia? E poi, ci siamo forse salvati?…  Pensavo fossero i miei quattordici anni a impedirmi di capire, ma tutti questi anni non mi hanno illuminato. Io ancora non so… Ecco, adesso sai perché possiedo quella pistola. Sei la sola persona a cui l’ho raccontato.»

Non ebbi paura di abbracciarlo come accadde a lui tanti anni addietro, e lo strinsi forte fra le mie braccia. «Hai fatto la cosa giusta papà, la sola che potessi fare.»

Il primo pensiero che mi venne in mente fu associativo: padri che dividono un segreto con i figli, poi la simmetria mi parve ancora più incredibile dal momento che anche io, come lui, ero stato prescelto. Anche mio padre aveva dei fratelli. Tre, come me. Ieri lui, oggi io, entrambi depositari di un segreto. A quasi settantacinque anni di distanza si replicava una scena familiare analoga.

«Chiama il commissariato e di’ che possono venirsela a prendere. Adesso.»

Non provai a rilanciare l’ipotesi inertizzazione, e non perché volessi risparmiarmi una scocciatura, ma perché avevo capito. Quel racconto sofferto, tenuto a lungo nascosto nel profondo del suo cuore, lo aveva liberato. E furono le sue parole a rendere inerte la pistola. Non c’era più motivo di nasconderla.

I poliziotti arrivarono poco dopo. Erano in due, uno molto alto con mani affusolate da pianista, l’altro più tarchiato ma scattante, nervoso. Non indossavano la divisa e di questo fui intimamente grato. Si rivolsero a mio padre con garbo e gentilezza, lui disse loro che voleva fossi io a recuperare la pistola, poi mi diede una chiave, sfilata dalla tasca della vestaglia.

«Vai alla mia scrivania, e apri il secondo cassetto a destra. In fondo troverai la scatola marrone…». Di nuovo, la storia si ripeteva: la scrivania, il secondo cassetto, la scatola marrone.

Tutto si svolse in silenzio, come durante una cerimonia. Di questo si trattava, in fondo. Eseguii gli ordini di mio padre e consegnai la scatola nelle mani del poliziotto alto, il quale, dopo aver sollevato il coperchio e afferrato l’arma, mi chiese se fosse stato possibile trasferirsi in un posto riparato (disse proprio così) della casa, «magari all’aperto». Scambiai uno sguardo con mio padre, che abbassò la testa in segno di assenso. «Certo», risposi, e invitai l’uomo a seguirmi in terrazza.

Le tapparelle erano abbassate per via del caldo e quando aprii la porta finestra la luce abbacinante e il calore mi riportarono alla realtà di quei giorni infuocati.

«Rimanga dentro», mi intimò il poliziotto.

Osservai la scena dall’interno. L’uomo si guardò intorno alla ricerca del «riparo».  che individuò in un grosso vaso dietro al quale si accucciò. Vedevo la sua sagoma imponente stagliarsi fra le fronde dell’oleandro. Rimase lì ad armeggiare (è il caso di dirlo) qualche istante per poi rientrare in casa rivolgendomi un mezzo sorriso di soddisfazione. «C’era un colpo in canna».

Un colpo in canna, uno solo.

ARTICOLO n. 74 / 2024