ARTICOLO n. 93 / 2022

AIUTA I VECCHI

Vortex di Gaspar Noé

Stanco ed eccitato da non riuscire a dormire: così in certe occasioni mi capita di sentirmi, e così mi sono sentito una notte della settimana scorsa, quando – scanalando – sono incappato nella visione di Vortex di Gaspar Noè. Il film è uscito l’anno scorso ed è adesso disponibile su Mubi, e Noè è autore amato sia dalla critica che dai giovani cinephiles; viene spesso citato come reference, e sovente nominato nelle conversazioni (un collettivo di registi con cui ho lavorato di recente mi ha proposto per l’appunto “un’inquadratura alla Gaspar Noè”) e forse proprio per questo motivo da me snobbato. 

Ho dunque cominciato a vedere il film con molti pregiudizi, diffidente come verso le cose troppo chiacchierate o troppo di moda. 

Ho capito presto che mi sbagliavo.

La storia è quella di due anziani che vivono in una casa disordinata e zeppa di libri nella zona Nord di Parigi. Lui è un cineasta, sta scrivendo un libro sul rapporto fra cinema e sogno, lei è un medico. Nella prima scena sono a letto, dormono, l’uno accanto all’altra. Poi lei apre gli occhi, come in preda a un terrore ignoto, lui, accanto, continua a dormire. Dall’alto del frame dell’immagine una lacrima nera di nero extra-cinema comincia a colare verticalmente, lentamente, dall’alto verso il basso, fino a dividere l’inquadratura in due. Comincia così il racconto split-screen di una terrificante disgiunzione fra esseri umani. La signora non si ricorda più chi sia il marito, confonde nomi e facce, esce per far compere e si perde nel quartiere. I sintomi di una malattia oramai diffusa e nota, la patologia di quelli il cui cervello muore prima del cuore. Mi ha colpito il realismo con cui la malattia viene rappresentata, merito sicuramente di Francoise Lebrun, attrice di culto della Nouvelle Vague, qui in una prova attoriale incredibile, e di Dario Argento, bravissimo anche lui nel ruolo dell’anziano intellettuale italiano di cinema (interpreta se stesso, in fondo, verrebbe da dire, non c’è bisogno di particolare abilità; ma l’argomento è mal posto: non è in questione il fatto che interpreti se stesso quanto il coraggio di portare il se stesso reale dentro una cornice di questo genere, il coraggio di affrontare nudo, senza gli schermi dell’attore, la tempesta di dolore di una sceneggiatura siffatta). Il francese maccheronico di lui, la sua premura, il suo continuare ad amare la moglie attraverso piccoli gesti quotidiani, quelli contrari all’epica dell’innamoramento, i gesti ordinari e squallidi nelle cucine disordinate e nei bagni sporchi, l’eroismo della convivenza dentro gli spazi chiusi. Commuove, l’oscuro neorealista scrutare di immagini e dialoghi all’interno di una distruzione per logorio di due esseri umani vecchi e malati, in lenta discesa verso la morte. Commuove come il film racconti senza troppi simboli la folle innaturale volontà di auto-conservazione dell’uomo di fronte allo scorrere del tempo, rappresentata da lui che non vuole lasciare la casa, quando il figlio propone il trasferimento in una clinica, e che crede ancora in una patetica relazione extraconiugale con una collega, e incarnata dall’abbandono al vortice della morte da parte di lei, che, in un momento di lucidità, sussurra «la cosa più sensata sarebbe sopprimermi».

Non sopporto l’estetica digitale dell’immagine dei nostri tempi, la freddezza del mezzo, la grana del cinema non girato in pellicola e lasciato senza una color correction che lo riporti alla pastosità dell’analogico. Mi piace ogni forma di saturazione, filtraggio, modifica della realtà fotografica. Mi rassicura pensare che ciascuno di noi possa trasformare un’immagine fredda da telefonino, con la giusta app, in un frame di Nicholas Ray o Sergio Leone (bisognerebbe capire poi meglio il perché, a livello cognitivo, ma questo è un altro discorso). Mi rassicura che l’orrore del reale e del mondo possa essere manipolato dal cinema, mi rassicura che persino il cinema e la fotografia, due mezzi così specchio del reale, possano andare in direzione contraria alla realtà, “ridipingendo” anch’essi, come un pittore, il mondo.

Vortex ha una poetica contemporanea, avrebbe in questo senso tutti i vestiti giusti per non piacermi: è girato in digitale e si vede. Certo, la luce degli interni è molto ben studiata (c’è una palette di colori uniforme, ci sono i marroni, il grigio, il buio, l’ocra della pelle degli esseri umani, tutto tende all’ingiallimento e alla decomposizione) ma nonostante la coerenza cromatica ci si accorge della povertà, ci si accorge che nulla è stato colorato o manipolato in post. E, eccezione alla regola, questa nudità, questa verità di camera digitale presentata per quello che è, lasciata alla sua vetrosità senza pasta, senza calore, mi piace. Si tratta dello stesso tipo di sincerità rispetto al reale che poteva avere il filmino in VHS di un matrimonio degli anni ’80. Forse amo le immagini di Vortex perché anch’esse, in fondo, più che essere realistiche lo sono eccessivamente! Sono contro il mondo per iper-realismo, quindi fantastiche. 

E di diritto, dentro a una poetica del fantastico, Vortex ci entra pure per la banda nera che divide lo schermo in due. L’elemento grafico che consente l’accostamento di due punti di vista diversi della stessa scena è il motore primario dell’anti-realismo del film. Nella realtà non ci è dato vedere campo e controcampo insieme, l’occhio non coglie in contemporanea chi cerca e chi è scomparso, è impossibile far coesistere presenza e assenza. Vortex lo fa, e, a uno sguardo attento, è una elegantissima forma di fantascienza.

Il mondo che abitiamo è fatto di anziani. Anziani dalla vita sempre più lunga, ed è per questo che viviamo l’epoca della demenza. Abbiamo sempre più quotidianamente a che fare con l’Alzeheimer, come se dovessimo pagare lo scotto dell’innalzamento dell’aspettativa di vita. Le statistiche dicono che oggi i malati di demenza sono circa 55 milioni nel mondo, e che nel 2050 saranno assai probabilmente raddoppiati. Ci sono previsioni attendibili di raddoppio di numero ogni venti anni. L’eternità, un prezzo, pare avercelo: l’obnubilamento delle nostre menti, per esempio. Si tratta di un triste paradosso: l’uomo prolunga la propria vita sulla Terra con i progressi della medicina, della tecnologia e della scienza, ma intanto la Terra si popola di vecchi che si ammalano lentamente e lentamente entrano in un vortice di oblio in cui si perde la memoria della ragione profonda per cui si è voluto sconfiggere la morte. 

Help the aged, diceva una canzone intelligente dei Pulp, «aiuta gli anziani perché son stati giovani prima di te, perché hanno sniffato colla prima di te». Bisognerebbe aggiornare aggiungendo: aiuta gli anziani, dai loro una moneta e condividi con loro un pezzo di pane, prima che i costi sociali sempre più alti della demenza (nel mondo senza giovani) ti travolgano e portino te e il tuo Paese all’impoverimento e al collasso. Aiuta gli anziani, aiuta te stesso. A qualche fanatico di governo, alla retorica del razzismo, bisognerebbe rispondere che non saranno orde di barbari a mandarci in rovina, ma il deterioramento delle cellule cerebrali nostrane.

Eugenio ebbe un ictus che lo costrinse a una vita di vegetale. Ottantaseienne, cadde una mattina di novembre mentre lavorava come ogni mattina nell’orto di casa. Lo portarono all’ospedale, dove entrò in coma. Dopo due giorni si svegliò, ma quasi completamente paralizzato (la mano sinistra aveva ancora libertà motoria, e i muscoli della faccia). Apriva la bocca per parlare, ma non riusciva a emettere suoni comprensibili, solo rantoli strozzati, grugniti bestiali. Muoveva a volte le pupille a destra e a sinistra, velocemente, e inarcava le sopracciglia folte. La moglie Dina – che insieme all’infermiere lo accudiva – capiva che in quei momenti Eugenio stava per piangere. E in effetti poi piangeva, a dirotto, con singhiozzi soffocati, come potrebbe piangere un uomo sott’acqua, senza respiro. Le lacrime scorrevano sulle rughe delle guance, sulla pelle che dopo l’ictus si era ritirata, accartocciata. La accarezzavi e sembrava di legno. Le lacrime la bagnavano e capivi quanto Eugenio in quei momenti fosse invaso da un terrore assoluto: il terrore dei sepolti vivi. Era un vivo dentro un corpo di morto.

L’infermiere mi ha raccontato che una volta Eugenio una frase riuscì a dirla. «Tanto terribile», disse l’infermiere, «che fatico a ripeterla e prego il buon Dio che me la sia sognata». Lo tartassai così tanto che me la ripeté, bianco di paura. «Le medicine. Dammi le medicine per morire».Quando Eugenio morì, calò una barra nera nel film della vita di Dina. Che era una donnina angelica, buona, intelligente. Forte come un manovale. Una barra nera la divise in due immagini: la Dina di sempre, acuta, sveglia, presente, dolce e una Dina nuova. Feroce, cattiva, senza memoria. Questa Dina nuova compariva con sempre maggiore frequenza nel film della Dina vecchia, con violenza. Urlando, bestemmiando, maledicendo il mondo. Non si ricordava chi fosse. A volte diceva di essere una bambina, e mi implorava di riportarla a casa. «Che ci faccio qui? Questa non è mica casa mia», diceva. Fino a che lo split screen della Dina vecchia non rimase un’inquadratura vuota da una parte e l’inquadratura di una Dina nuova silenziosa stesa senza vita su un letto di ospedale, neanche tre mesi dopo dalla morte del marito, dall’altra. Dina ed Eugenio erano i miei nonni, si sono amati per sessant’anni, senza separarsi mai, e io li ringrazierò per sempre per avermi insegnato come si possa con eroismo e dignità portare sulle spalle il peso dello squallore del mondo.

ARTICOLO n. 74 / 2024