ARTICOLO n. 19 / 2023

IL FEMMINISMO COME LAVORO DI UNA VITA: DEDICA A BELL HOOKS

A cura di Maria Nadotti, traduzione di Camilla Pieretti

Sara Ahmed è attivista, scrittrice e teorica femminista, interessata all’intersezione fra teorie femministe lesbiche e queer con processi di razzializzazione. Durante la sua carriera accademica ha fondato il Centre for Feminist Research e insegnato Race and Cultural Studies al Goldsmiths College di Londra fino al 2016, quando si è licenziata per protestare contro il modo in cui l’università gestiva il problema delle molestie sessuali. Oggi è una ricercatrice indipendente e, fra le altre cose, gestisce un blog dal titolo significativo “feministkilljoys”, da cui – per gentile concessione dell’autrice, che ringraziamo – abbiamo tratto il testo che qui presentiamo in versione italiana: “Femminismo come lavoro di tutta una vita. In onore di bell hooks”. L’originale inglese è stato postato il 20 settembre 2022 su https://feministkilljoys.com/.

Di Sara Ahmed, che ha al suo attivo una decina di titoli su femminismo, colonialità, emozioni, queer e razzismo, è per ora disponibile in italiano solo Vivere una vita femminista (a cura di Liana Borghi e Marco Pustianaz, trad. it. di Matu D’Epifanio, Roberta Granelli, Bea Gusmano, Serena Naim, Edizioni ETS, 2022). Di prossima pubblicazione un suo saggio del 2010, La promessa della felicità (Luca Sossella Editore, 2023) e Il linguaggio della diversità (Fandango Libri, 2023).

Il 3 dicembre 2022 Sara Ahmed ha partecipato al convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere ancora le eredità plurali di Liana Borghi” con un’intervista realizzata in videoregistrazione. Il video, doppiato in italiano, è disponibile sulla pagina Facebook del Giardino dei Ciliegi di Firenze. (Maria Nadotti)

Il “lavoro di una vita” costituisce l’attività principale, se non l’unica, nel corso dell’esistenza o della carriera di una persona. Essere femminista significa fare del femminismo il lavoro della propria vita. Sono profondamente in debito con bell hooks per avermi insegnato tutto questo e molto, molto altro. Questo post è dedicato a lei.

Quando bell hooks è morta non sono riuscita a scrivere di lei, di quanto il suo lavoro abbia significato per me, per gli studenti e le studentesse a cui ho insegnato nel corso degli anni, per coloro con cui condivido un progetto politico e una comunità. Ho letto ciò che è stato scritto da altri, grata che esistano persone a cui il dolore del lutto non toglie la capacità di esprimersi. Nel mio caso ci vuole tempo per far fluire le parole, tempo per arrivare al punto di poter dire qualcosa sulla perdita di qualcuno. Si può perdere qualcuno nel conoscerlo. Oppure si può conoscere qualcuno tramite ciò che ha dato al mondo.

Le parole mi vengono grazie a ciò che tu hai saputo dare al mondo. In Talking Back: Thinking Feminism, Thinking Black, hooks ha scritto di «un modo per catturare il parlato, non lasciarlo andare, tenerselo vicino. Così mi sono annotata spezzoni e frammenti di conversazioni, affidandoli a diari da quattro soldi che in breve si disfacevano per i tanti rimaneggiamenti, esprimendo l’intensità del mio dolore, il tormento del parlare, perché mi trovavo sempre a dire la cosa sbagliata, a fare le domande sbagliate. Non riuscivo a confinare i miei discorsi agli angoli e alle angosce indispensabili della vita. Nascondevo quegli scritti sotto al letto, tra le imbottiture dei cuscini, fra mutande sbiadite» (1988, pp. 6-7). Nella scrittura, nello scrivere, bell hooks si rifiuta di accettare qualunque limitazione. Dissemina le proprie parole, la propria presenza in ogni angolo. Tutta quella intensità deve finire da qualche parte. Le pagine si disfano «per i tanti rimaneggiamenti». Usa quaderni da quattro soldi, quello che ha a disposizione. Se li fa bastare, se la sa cavare. Le pagine si consumano perché sono importanti. Scrivere è il suo modo di sfogarsi, di tracimare, l’intensità del dolore che le riempie, infilate dove può, dove sta, dove vive, sotto il letto, nelle federe dei cuscini, tra la biancheria intima, sotto, tra, fra: ficcate tra i capi più delicati, tra le altre sue cose. Nel nascondere lì i suoi scritti, i suoi pensieri e le emozioni che le si riversano fuori, ciò che sente, «spezzoni e frammenti di conversazioni», trabocca dallo spazio che le è stato dato, dalle preoccupazioni che si suppone che abbia, che le è consentito avere, dagli angoli, i limiti della stanza.

Nell’interrogarci su un mondo che ci limita così tanto, ci facciamo le domande sbagliate.

Negli scritti di bell hooks sulla scrittura, nella sua descrizione di ciò che c’è di usurante nello scrivere, nelle parole, c’è qualcosa di straordinariamente bello. Ma c’è anche molto dolore.

hooks scrive di come si possa essere colti in fallo da chi pensa di aver scoperto qualcosa su di noi leggendo le nostre parole. Racconta come le sue sorelle trovassero quello che scriveva e finissero per «deriderla» (p. 7). Parla del lasciare in giro i suoi scritti come di uno «stendere i panni appena lavati all’aria, sotto gli occhi di tutti» (p. 7). Si noti che non dice “panni sporchi”, espressione spesso usata per riferirsi allo sbandierare segreti in pubblico. I suoi sono panni appena lavati, appesi sotto gli occhi di tutti dopo che ci ha già lavorato sopra. Quando scrivere è un lavoro, lo si fa per dare spazio alle proprie parole, per mettersi in gioco. È comunque un modo di esporre qualcosa, qualcuno, questo arieggiare, questo rendere il proprio mondo interiore vulnerabile allo sguardo altrui.

Protendersi verso l’esterno può voler dire tornare indietro nel tempo, uscire allo scoperto facendo leva su chi è venuto prima di noi. hooks racconta come, da giovane ragazza nera, ha dovuto imparare a non cedere terreno, a sfidare l’autorità genitoriale, a rispondere. Inoltre, descrive come è arrivata ad assumere la propria identità da scrittrice: «Uno dei tanti motivi per cui ho scelto di scrivere sotto lo pseudonimo di bell hooks, un nome di famiglia (madre di Sarah Oldham, nonna di Rosa Bell Oldham, mia bisnonna)» (p. 9). Scegliere uno pseudonimo può essere un modo per rivendicare un’eredità nera femminista. I discorsi ribelli un altro. Altrove, hooks spiega che la nonna era «nota per la lingua audace e scattante» (1996, p. 152). Scrivere può essere un modo per rispondere, ma anche per riprendere qualcosa, essere audaci e scattanti nel recuperare le fila di una storia.

In Talking Back, hooks parla anche della memoria, condividendo un ricordo sul modo di ricordare della madre: «Mi è tornato in mente il “baule della speranza” di mia mamma, con quel meraviglioso odore di cedro, e ho ripensato a quando prendeva gli oggetti più preziosi e li riponeva al suo interno per tenerli al sicuro. Certi ricordi per me sono altrettanto pregiati. Vorrei poterli mettere da qualche parte per tenerli al sicuro» (p. 158). Un odore è in grado di viaggiare nel tempo e di far rivivere in noi delle memorie quando lo annusiamo. Un oggetto ci aiuta a trattenere i ricordi, li conserva per noi, perché ci possiamo ritornare. Per hooks, ciò che ricordiamo non è sempre chiaro o neppure vero. Dice di ricordare «un carretto che io e mio fratello abbiamo condiviso da bambini» (p. 158). Ma poi aggiunge che secondo la madre «non c’era mai stato nessun carretto. Quella che condividevamo era una carriola rossa». 

Un carretto, una carriola rossa. La domanda non è quale fosse l’oggetto giusto. Le cose tendono ad acquisire colori e forme diverse a seconda di tanti fattori. Nella scrittura è lo stesso: gli oggetti acquisiscono colori e forme diverse a seconda di tanti fattori. Uno può essere una carriola rossa o un carretto. La domanda non è quale dei due. A volte, allentando la presa sulle cose (e su noi stessi) infondiamo loro vita. In una conversazione con Gloria Steinem, bell hooks si descrive circondata dai propri oggetti preziosi, oggetti femministi. Sono la prima cosa che vede quando si sveglia. Dice: «Gli oggetti della mia vita mi chiamano». E aggiunge: «[ho] Litania per la sopravvivenza di Audre Lorde proprio di fronte quando mi alzo dal letto; ho tante bellissime immagini di donne che mi guardano nel corso della giornata».

Il femminismo diventa un modo di crearsi il proprio orizzonte, di circondarsi di immagini che ci rimandano qualcosa di vero e prezioso sulla vita che stiamo vivendo o che abbiamo vissuto.

Una storia di sopravvivenza, di perseveranza, anche di amore.

Anche scrivere, ci dimostra hooks, può essere il nostro modo di circondarci.

Scriviamo per darci alla luce. Scriviamo, in compagnia. Scriviamo per reagire a un mondo che, in un modo o nell’altro, ci rende difficile esistere alle nostre condizioni. Quando penso a quel che ci vuole per scrivere per reazione, a chi ci vuole, penso a quanti, prima di noi, hanno contribuito ad aprire delle strade che potessimo seguire. E penso a te. Trovarti può essere una vera fortuna. A volte mi toglie il fiato pensare a quanto poco ci voglia per mancarsi.

Scriviamo perché ci manca qualcosa. Scriviamo per aiutarci a ritrovarci l’un l’altro. Nel riflettere sul suo irrinunciabile libro Il femminismo è per tutti, bell hooks racconta come il suo impegno verso il femminismo sia maturato nel corso di tutta una vita. La prefazione alla seconda edizione comincia con la frase: «Dedita da più di quarant’anni alla teoria e alla pratica del femminismo, sono orgogliosa di affermare che il mio impegno nei confronti di un movimento femminista, rivolto a sfidare e cambiare il patriarcato, si è fatto ogni anno più risoluto» (2014, p. 15). Trovo molto bello che tu non abbia scritto «il movimento femminista» ma «un movimento femminista». Senza «il» si riesce a sentire il movimento. Penso a quanto sia incoraggiante per noi che tu abbia condiviso questa testimonianza. Mi hai insegnato che si può trovare una via in mezzo alla violenza di questo mondo, ribadendo il nostro impegno a cambiarlo. Portare avanti (o persino intensificare) la nostra attività a sostegno del femminismo è un atto politico, considerato che ciò che noi mettiamo in discussione e cerchiamo di cambiare altri lo difendono, altri che hanno le risorse per trasformare la propria difesa in un ordine. Esprimere la propria adesione ai principi femministi ha delle implicazioni che durano tutta la vita, perché si finisce per essere in contrasto con tante cose e persone. Mi hai insegnato anche che essere «in contrasto» non riguarda solo ciò che è doloroso o difficile, ma può essere anche un’apertura, se non addirittura un invito. In fondo è così che hai definito l’essere queer, come un «contrasto». Quello che può sembrare il lato negativo della critica, nominare ciò a cui siamo contrari, mostrare come la violenza sia implicata nelle forme culturali più amate, così diventa un modo costruttivo di fare spazio, per permetterci di vivere in un altro modo.

Nel raccontare la storia del suo impegno lungo una vita nei confronti del femminismo come di una politica con cui cambiare il mondo, bell hooks si rivolge a noi, al suo pubblico. Sottolinea che i suoi libri, per quanto «poco recensiti», hanno comunque «trovato un pubblico». Si dice «sbalordita» che il suo lavoro «trovi ancora lettori, che educhi ancora alla coscienza critica» (p. 16). Se un libro femminista non viene recensito dai giornali ad ampia diffusione né esposto nelle vetrine delle librerie perché dissidente e progressista, come lo si trova? hooks sostiene che i suoi libri si siano diffusi tramite «passaparola» o perché «adottati come libri di testo». Io l’ho scoperta proprio così. Una delle sue opere ci è stata assegnata durante un corso che ho frequentato nel 1992 (l’insegnante che ce l’ha assegnata si chiamava Chris Weedon, grazie Chris per avermela fatta conoscere). Così, tramite il passaparola o i corsi femministi, i libri di bell hooks hanno trovato i loro lettori e ci hanno salvato la vita.

Il modo in cui si scopre bell hooks è legato a ciò che lei ha da insegnarci. Scoprire il femminismo non significa seguire le strade convenzionali che portano a un premio, a un riconoscimento. Tu definivi il femminismo come «un movimento per mettere fine al sessismo, allo sfruttamento e all’oppressione sessuale» (2000, p. 33). Una definizione estremamente istruttiva. Il femminismo è necessario per combattere ciò che ancora persiste: sessismo, sfruttamento e oppressione sessuale. In più, per hooks, «sessismo, sfruttamento e oppressione sessuale» sono un tutt’uno con il suprematismo bianco e il capitalismo. Ecco perché è importante continuare a dare un nome a ciò a cui ci si oppone. In Outlaw Culture, hooks fa uso del termine «patriarcato capitalista suprematista bianco» per ben diciotto volte! Per forza poi mi hai ispirato a diventare una guastafeste. Gli hai dato un nome, cogliendo nel segno, ogni singola volta!

Cogliere nel segno può avere un costo. Ripenso a quanto hooks si sia stupita che i suoi libri abbiano trovato dei lettori. In quel suo stupore si può intravedere la storia di ciò che bell hooks non ha fatto per “trovare” il suo pubblico. In un dialogo aperto con Marci Blackman, Shola Lynch e Janet Mock alla New School nel 2019, hooks ha dichiarato: «Dico ai miei studenti: decolonizzate. Ma decolonizzare ha un prezzo. Non si diventerà mai ricchi. Non si riceveranno premi per geni finanziati dai militaristi e imperialisti della fondazione MacArthur». hooks ci tiene a chiarire che non ha nulla contrario verso coloro che accettano quei premi, ma che vuole solo sottolineare come decolonizzare la nostra dipendenza sia un modo per crearsi i propri standard di vita. Ricevere finanziamenti, premi o borse di studio da organizzazioni che devono il proprio potere a un sistema che critichiamo significa accettare una limitazione. Persino quando pensiamo di riuscire ad aggirare il sistema è difficile non finire a darsi da fare per far girare il sistema. Tu mi hai insegnato che per cambiare il sistema bisogna impedirgli di funzionare. Penso a quanto ci costa, al prezzo da pagare per ciò che facciamo.

Il femminismo può diventare un modo per evitare di pagare quel prezzo. Bisogna trovare un’altra strada. Penso a come le critiche di bell hooks al femminismo bianco ci abbiano offerto tanti strumenti, come per esempio la critica alla soluzione di Betty Friedan all’infelicità delle casalinghe, il «problema senza nome» (senonché, ovviamente, tu un nome glielo hai dato). Hai scritto: «[Friedan] non ha spiegato chi verrebbe chiamato a prendersi cura dei bambini e della casa se ad altre donne come lei venisse consentito di lasciar perdere i lavori domestici e di accedere alle professioni lavorative al pari degli uomini bianchi» (2000, pp. 1-2). Mi hai insegnato anche a «fare della teoria femminista» nel riflettere su cosa succede quando si «fa del femminismo». Hai scritto: «Un gruppo di attiviste femministe bianche che non si conoscono può partecipare a un incontro per discutere delle teorie femministe, sentendosi legato dalla condivisione della condizione femminile. L’atmosfera, tuttavia, cambia radicalmente se nella sala entra una donna di colore. Le donne bianche diventano più tese, meno rilassate, meno festose» (2000, p. 56). Questa descrizione rivela una straordinaria capacità di comprendere ogni cosa. Basta che una donna di colore entri nella stanza perché l’atmosfera si faccia tesa. Un’atmosfera sembra quasi sempre intangibile. Se però si è causa di tensioni, quella stessa atmosfera può diventare un muro. La donna di colore finisce per sentirsi esclusa dal gruppo, un intralcio a una solidarietà verosimilmente condivisa.

Esistono molti modi per essere esclusi da una conversazione. Tale esclusione aiuta a dare una sensazione di unità. Il fatto che alcuni spazi femministi vengano percepiti come più uniti di altri può essere la misura di quante persone ne sono tagliate fuori. Tu mi hai insegnato a notare chi manca, che è il nostro modo di diventare guastafeste, di opporci all’occupazione dello spazio.

Mi hai insegnato a volermi mettere in mezzo.

Mi hai insegnato a insegnare.

Insegnare è il nostro modo di imparare, ma anche il nostro modo per cambiare le cose. Scrivi dell’insegnamento come di un modo per dare forma al cambiamento sociale, come della «pratica della libertà […] che ci consente di vivere appieno, liberamente» (1988, p. 172). Ho sempre presentato le tue opere nei miei corsi. L’ho fatto per tutti gli anni in cui ho insegnato, osservando gli studenti venire trasformati da ciò che apprendevano. Spesso abbiamo letto il tuo articolo «Eating the Other». L’ho anche usato come ispirazione per uno dei miei primi libri, Strange Encounters, in un capitolo dal bizzarro titolo «Going Strange, Going Native». Tu scrivi: «La mercificazione dell’Alterità ha avuto successo perché la si è presentata come un piacere tutto nuovo, più intenso e soddisfacente del nostro classico modo di fare e sentire. Nella cultura del commercio, l’etnicità è una spezia, un condimento utile a dare sapore a quel piatto insipido che è la cultura bianca mainstream» (1992, p. 21). L’etnicità come spezia è forse una delle descrizioni più azzeccate di come funziona il razzismo nella cultura consumista. Con quell’articolo mi hai insegnato a teorizzare la bianchitudine, quel suo modo di non essere solo un’assenza ma una neutralità, un piatto insipido, per cui le persone di colore diventano spezie, supplementi, sapori, qualcosa da aggiungere, da metterci sopra.

Non hai mai smesso di trasmettermi insegnamenti.

Te l’ho mai detto?

Non ho mai comunicato direttamente con bell hooks. Un giorno le ho inviato un messaggio scrivendo al suo editore, South End, nel 2009. Il testo recitava: «So che avete pubblicato le opere di una delle studiose e attiviste contemporanee che ammiro di più: bell hooks. Io stessa sono una femminista di colore che opera all’interno e dall’interno dei contesti inglese e australiano. Le opere di bell hooks hanno avuto una forte influenza sul mio lavoro, in particolare sul mio libro Strange Encounters (2000), che riprende la sua splendida critica dell’esoticizzazione dell’alterità. È stato un privilegio, oltre che un piacere, poter lavorare sulle sue opere». Mi hanno detto che ti avrebbero trasmesso il messaggio, ma non so se lo abbiano fatto davvero. Vorrei averti scritto ancora. In ogni caso, penso che avesse più senso comunicare con te tramite scritti indirizzati non alla tua persona ma a «un movimento femminista».

Noi siamo quel movimento.

È stato solo durante la stesura di Vivere una vita femminista che ho percepito fino in fondo la profondità del mio debito nei tuoi confronti. Quel libro portava le tue impronte su ogni pagina, segno di ciò che io ero riuscita a fare grazie a ciò che tu ti sei adoperata a mostrare, a ciò che hai lasciato sotto gli occhi di tutti. Ricordo di aver messo il tuo nome in cima all’elenco degli studiosi che speravo di coinvolgere nella promozione del libro, senza immaginare che potessi accettare. La prima volta che ho letto le tue parole sulla mia opera sono quasi caduta dalla sedia. Sapere che non solo l’avevi letta, ma l’avevi anche caldeggiata, mi ha commosso profondamente. Poi il mio editore ha deciso di mettere una tua frase in copertina.

Diceva: «Un libro che tutti dovrebbero leggere».

Vedere quella copertina mi provoca ancora oggi una profonda emozione, perché ogni volta che la guardo vedo il tuo nome. La guardo e vedo te. Sto per mandare alle stampe un altro libro, The Feminist Killjoy Handbook [Guida pratica per guastafeste femministe], sempre rivolto al movimento femminista. Tu fai capolino in ogni pagina, soprattutto nel capitolo su come sopravvivere come guastafeste, sulle guastafeste femministe come poetesse, le guastafeste femministe come attiviste. Quell’ultimo capitolo è dedicato a te.

Ci sono molti modi di trasmettere per iscritto il nostro amore per il mondo che siamo abbastanza audaci da desiderare l’una per l’altra.

Grazie, bell, per quello che mi hai aiutato a vedere.

Per essere abbastanza audace da desiderare.

Da una guastafeste all’altra,

Sara


Bibliografia

hooks, bell (2014), Il femminismo è per tutti: una politica appassionata, trad. di Maria Nadotti, Tamu, Napoli 2021.
hooks, bell (2006), Outlaw Culture: Resisting Representations, Routledge, New York.
hooks, bell (2000), Feminist Theory: from Margin to Centre, Pluto Press, London.
hooks, bell (1996), «Inspired Eccentricity: Sarah and Gus Oldham» in Sharon Sloan Fiffer e Steve Fiffer (a c. di), Family: American Writers Remember Their Own, Vintage Books, New York.
hooks, bell (1992), Black Looks: Race and Representation, South End Press, Boston.
hooks, bell (1988), Talking Back: Thinking Feminism, Thinking Black, South End Press, Boston.

ARTICOLO n. 72 / 2024