Edoardo Albinati

ARTICOLO n. 26 / 2024

ROMA VISTA DAL GAZOMETRO

Pubblichiamo un estratto dal volume Architetture inabitabili (Marsilio Arte) a cura di Chiara Sbarigia e Dario Dalla Lana. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Alto quasi novanta metri, tre tonnellate di ferro e due milioni di chiodi per costruirlo, chilometri di tubazioni. Scendendo viale Aventino, lo avvisti da piazza Scanderbeg che sovrasta le chiome dei pini, poi riappare da mille altri punti di vista, meravigliosamente incongruo nello skyline frastagliato di cupole, ville patrizie, torrette. Quando ero ragazzo lo si vedeva anche pieno per un terzo, o a metà, o vuoto del tutto, e nessuno di noi capiva come effettivamente funzionasse, nemmeno ce lo domandavamo: più è complessa, più la tecnica la si accetta come una specie di implicito miracolo. Un mondo sottinteso. A parte chi ci lavora, i macchinari che mandano avanti una città come sono fatti, chi li conosce?

E poi, la z nel suo nome vi aggiungeva un ulteriore tocco esotico. 

Molto è stato scritto e ancora di più filmato sul carattere impiegatizio, ministeriale e burocratico della città di Roma. Solo qui è stato possibile che si creasse un milieu artificialmente interclassista così capiente da mescolare palazzinari, gente di spettacolo, stimati professionisti, personaggi televisivi e politici, artisti e artistoidi, insieme a una variopinta fauna umana, che impropriamente veniva chiamato “generone”, capace di riprodursi in modo proteiforme avvicendando i suoi protagonisti eppure mantenendo quasi immutato il suo codice morale, e cioè un radicale e umoristico scetticismo, nei confronti di tutto e tutti (persone, istituzioni, idee), e persino verso un valore che in altre città viene, se non adorato, quanto meno rispettato: il denaro. La RAI, il tifo calcistico, er Cinema, i Palazzi della politica, i Circoli sul Tevere e sull’Aniene, le redazioni dei giornali e le caste dell’amministrazione pubblica sono legati dai fili di una rete più o meno visibile, come quella che salva gli acrobati del circo quando sbagliano, su cui sta sospeso un mondo al tempo stesso surreale e fatto di interessi concreti, di frivolezza e candore e opportunismo e miscredenza, dove, a momenti, i soldi sembrano contare un po’ meno che altrove, poiché, a tirare le somme, nulla conta veramente, tutto è transitorio, il potere, il successo, la considerazione o la riprovazione altrui, il sesso, la politica, insomma a farla breve la vita; e dunque, perché dannarsi l’anima a inseguire uno di questi obiettivi? Meglio lasciar andare il tempo, e l’anima (se qualcuno ancora ce l’ha) affidarla alla sua corrente… 

Secondo gli schemi del mio rigido moralismo di ragazzo, il corpo sociale della città in cui da sempre abito mi sembrava insomma formato da sonnolenta e retrograda borghesia, zozza plebe e aristocrazia spompata, con una preponderanza della prima categoria sulle altre. Qualcosa di analogo aveva scritto Stendhal quando ironicamente sosteneva che la città fosse abitata per un terzo da preti, per un terzo da donne e per un terzo da statue: a lui queste percentuali non sembravano dispiacere, forse perché trapassavano le epoche assicurando una sorta di precaria stabilità all’assetto cittadino. 

Suonerà bizzarro, ma da queste parti, infatti, permanenza e pungente senso dell’effimero si scambiano di continuo i ruoli: si confida nella prima a causa del secondo, o meglio, è la maestosità della prima (rappresentata plasticamente dalle immani rovine antiche) a indurre incredulità nei confronti di qualsiasi realizzazione attuale. L’immobilismo diventa così garanzia di eternità.

Ma ecco il Gazometro a smentire tutto ciò. Ferro, e non soltanto marmo. Chiatte cariche di carbone invece che pini e fontane. Tecnica e industria, e non turismo (ossia quell’attitudine che induceva Joyce a scrivere: “Roma mi fa pensare a un uomo che campa mostrando ai visitatori, in cambio di un soldo, il cadavere di sua nonna”). In altre parole, modernità, che non cancella l’antico anzi serve a mantenerlo vivo, a illuminarlo. Con la sua grandiosa incastellatura metallica, nulla come il Gazometro a Roma rammenta l’avanguardia del Novecento, che oggi è anch’essa divenuta a suo modo archeologia, certo, ma che contorna di un opaco splendore il profilo estetico della città esattamente come, in certi quadri, il paesaggio sullo sfondo fa risaltare ancora di più le figure in primo piano. Nel quadrante sud, là dove il Tevere serpeggia una volta sgusciato fuori dalle mura, la città era anche questo, soprattutto questo, emanante l’“acre e strano fascino” industriale, e lo ricordano le lugubri descrizioni nei documentari che venivano girati lì dentro. La stentorea voce fuori campo avrebbe potuto fungere da didascalia a un film su qualche fuligginosa città operaia inglese o addirittura all’incubo di Metropolis, con il “ventre insaziabile” delle sue fornaci. “Nell’atmosfera squallida ai margini della città… le officine del gas sembrano esprimere… coi loro tetri profili… tutta la tristezza della periferia…”. Centinaia di operai si aggirano intorno alle “costruzioni affumicate e untuose” di questo “mondo nero e pulsante”. E poi, con un tono ancora più esaltato: “si irradia dai tozzi gabbioni dei gazometri… il calore necessario alla vita dell’immensa città!”. Eh sì, perché in realtà i gazometri sono quattro, gli originari più piccolini, e poi quello monumentale aggiunto nel 1937 dall’Ansaldo, il più grande d’Europa, assai più titolato a rappresentare l’autentico Colosseo novecentesco in luogo di quello (quadrato) dell’EUR. 

Colgo l’occasione che oggi mi viene concessa di entrarvi. Da molti anni è stato svestito delle paratie telescopiche che si alzavano e si abbassavano a seconda della quantità di gas stoccato (fino a duecentomila metri cubi), quindi ne rimane il guscio, il “fantastico castello d’acciaio” come lo definiva il cinegiornale d’epoca. Ammetto di essere piuttosto emozionato: come quando visitai il cuore della centrale nucleare mai attivata a Montalto di Castro, e mi piazzai dove avrebbero dovuto essere le barre di plutonio (unico luogo al mondo, credo, Montalto, dove sia possibile far questo…). 

L’impressione, accerchiante, e che mozza il fiato, è di stare in un incrocio tra una plaza de toros e una vertiginosa proiezione di effetti optical verso il cielo, con in alto il tondo azzurro e tutt’intorno la trama leggera delle travature. Mi sembra di cogliere in modo palpabile la volumetria del manufatto anche se essa, di fatto, non esiste, è aria. L’architettura consiste soprattutto di quello che in cinese si dice wu, particella dalle mille possibili traduzioni: l’assenza, il nulla, il non avere o forse il non essere, l’apertura, il vano. Ciò che arretra, che esiste per sottrazione, insomma, e così offre spazio alla vita, come appunto i vani di un’abitazione. Volendo proseguire con analogie forse stravaganti, ma senza le quali non potrei rendere minimamente le mie sensazioni, è come quando mi ritrovai, a Bamiyan, davanti alle nicchie dei Buddha giganti distrutti dai Talebani: non c’erano più, eppure c’erano. Il vuoto suggeriva la loro presenza. Vi alludeva, la significava.

Poco più in là, oltre la recinzione, scorre il fiume, lo si intuisce dalle cime degli alberi scossi dal vento che ne segnano l’argine. È dal Tevere che veniva scaricata la materia prima. Quindi, negli “immani bracieri” dei forni, bruciava il carbone a mille e trecento gradi, per trasformarlo in gas, che poi doveva subire altri passaggi, lavaggi, purificazioni, sublimazioni, prima di essere adatto all’uso. Insieme a un buon sistema fognario, l’illuminazione segna il vero scatto in avanti della vita urbana. Qualcuno dovrà pur fare il lavoro sporco perché alla comunità sia concessa un’esistenza più pulita.

Persino a Roma, città simbolo di svagatezza e approssimazione, le fondamenta poggiano su sangue sudore e lacrime: ipocrita nasconderle o porle fuori vista. Il traforato castello del Gazometro, anche se ora è un immateriale disegno in cielo, una specie di miraggio calviniano, sta ancora lì a rammentare della base materiale dell’esistenza: come il fossile che segnala, in negativo, con il suo solco vuoto, il corpo dell’animale vivo. 

Le immagini degli operai che lavorarono lassù, sospesi in aria, tra il 1935 e il 1937, ricordano quelle famose dei grattacieli americani in costruzione, con i carpentieri che fanno uno spuntino seduti sulle putrelle d’acciaio appena imbullonate. Ora mi piacerebbe arrampicarmi sulla scaletta metallica che sale a zigzag fino in cima; ma soffro di vertigini, so che non arriverei a dieci metri. Dall’alto penso si allarghi il panorama fino all’osteria “Al Biondo Tevere” che sta un chilometro più in giù sulla via Ostiense. Be’, ci andrò in motorino.

ARTICOLO n. 43 / 2023

KAFKA. L’ADESIONE AL MONDANO

Pubblichiamo un’anticipazione dalla raccolta di saggi Kafka: (Mimesis) a cura di Riccardo Panattoni e Rocco Ronchi in libreria da oggi. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Schiacciato dall’ammirazione. È quel che provo oggi leggendo e rileggendo Franz Kafka. Da ragazzo ero entusiasta e sfrontato, e invece di ammutolirmi venivo eccitato dalla scoperta di quel modo di raccontare che non somigliava a nessun altro. La lettura mi riempiva di desiderio, un desiderio tanto pungente quanto imprecisato era il suo oggetto. Dire che era la letteratura sarebbe troppo vago: leggerla, studiarla, scriverla, insegnarla? O tutte queste cose insieme? Come impadronirsene? Da dove cominciare? 

Esattamente come si apre il Meridiano Mondadori dei Racconti di Kafka (a quell’epoca di Meridiani se ne trovavano a metà prezzo o anche meno nel Remainders di piazza San Silvestro e nelle librerie dell’usato a via del Pellegrino, a Roma), e cioè con la Descrizione di una battaglia, così ebbe inizio la mia ondivaga carriera di scrittore. 

Già verso la mezzanotte alcune persone si alzarono, sinchinarono, si strinsero le mani, dissero che era stato molto bello e passarono poi dallampia porta nellanticamera per infilarsi il soprabito. 

Fu la struttura della frase a farmi incamminare. Cinque principali coordinate infilate una appresso all’altra, una oggettiva subordinata alla quarta principale e una finale subordinata alla quinta: semplicissimo e funzionale, una partenza subito movimentata, promettente. Ho ancora preciso il ricordo di me che sfogliavo il Meridiano con crescente meraviglia: Smascherato un gabbamondoInfelicità dello scapoloRiflessioni per un cavaliereLa condannaIl cruccio del padre di famigliaSciacalli e arabi (da quel momento e ancora adesso, per me, il culmine assoluto della prosa narrativa) e poi il testo letterario che ho riletto più volte in vita mia, vale a dire Un medico di campagna, fin quasi a mandarlo a memoria nella versione italiana di Rodolfo Paoli, a cui resto irrimediabilmente affezionato. Quindi il mio preferito proprio perché minore nel suo formato, eppure così commovente e comico, Il cavaliere del secchio. Ah, Il cavaliere del secchio! Quando la moglie del carbonaio si stringe al petto il lavoro a maglia, quel gesto domestico inequivocabile… 

Un amore fisico, sensuale, verso il dettaglio.

O quando, racconta il medico di campagna, poggiato l’orecchio sul petto nudo del ragazzo malato, per auscultarlo, questi »rabbrividisce a contatto della mia barba bagnata». 

Ecco, più che per le sue massime insuperabili (se tento di riprodurle mi confondo e parafrasandole le sciupo) o per le sue visioni profetiche, è per questo, precisamente per questo, cioè per aver dato nome al brivido del ragazzo malato, che Kafka merita il titolo di “veggente”. 

Sul fianco destro, verso lanca è aperta una ferita grande come il palmo di una mano; di color rosa, in diverse gradazioni, scura in fondo, più chiara verso gli orli, leggermente granulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aperta come la bocca duna miniera. Vista da lontano è così. Ma da vicino appare ancora più grave. E come guardarla senza ansar lievemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei di suo, spruzzati anche di sangue, brulicano, trattenuti nellinterno della ferita, colle testine bianche e le numerose zampine tendenti verso la luce. Povero ragazzo, nessuno ti può aiutare… 

(N.B. Volevo chiudere la precedente citazione, ma non sapevo dove, non trovavo le connessure, il discorso formava un tutt’uno, inarrestabile… come un nastro di Moebius.) 

Ho scoperto la sua orrenda ferita; questo fiore nel tuo fianco ti farà morire. La famiglia è felice, perché mi vede allopera; la sorella lo dice alla madre, questa al padre, il padre ad alcuni ospiti che entrano, in punta di piedi, tenendosi in bilico con le braccia distese, dalla porta rischiarata dal lume della luna. »Mi salverai?» sussurra singhiozzando il giovane, abbagliato dalla vita che ferve nella sua ferita. Così è la gente del mio paese. Chiedono dal medico sempre l’impossibile… 

Sgombro il campo dall’equivoco: per me “veggente” è colui che vede la realtà, nella realtà, non oltre di essa, poiché ciò che si trova oltre di essa è comunque realtà. Il veggente riesce a sopportare la visione di ciò che semplicemente è, e a reggerla insieme (per uno scrittore vuol dire nella gabbia della pagina – che non è solo un formato tipografico). Nessun elemento di ciò che il suo sguardo contempla è irrilevante, dunque gli occorre pazienza e un notevole coraggio per accettare la dismisura del compito di indagarla. La sua eventuale attitudine mistica consiste, semmai, in questa accettazione integrale dell’esistenza, di cui nulla va deprezzato come residuo o scarto. 

Ed ecco un narratore che la vulgata vorrebbe ripiegato su se stesso, introverso e sognatore, timoroso della vita che costantemente lo elude e lo mortifica e dunque proiettato verso mondi interiori o ulteriori – insomma un simbolista, un cabalista, uno scrittore di incubi – e invece risulta implacabilmente fattuale, fisico, sensuale, attivo. Kafka incalza il suo lettore investendolo con una serie ininterrotta di gesti, ambienti, abiti (tantissimi abiti minuziosamente illustrati, nella sua prosa, come nemmeno in Francis Scott Fitzgerald…), gente che si veste e si spoglia, entra ed esce, protesta, minaccia col pugno chiuso, cappelli che si levano nel saluto, pozze di birra in terra, chiodi sporgenti che graffiano le scarpe, cavalli irrompenti, ferite, frustate, asce, lanterne, carbone, sciacalli che bevono sangue, gambe doloranti, baci a cameriere, sottane che scivolano sul pavimento. E poi cinghie, catene, forbici, pulci, dadi… 

Lasciano attoniti le descrizioni come quella che dà inizio al Cacciatore Gracco, con quelle frasi allineate una appresso all’altra, come fosse l’ekphrasis di un paesaggio fiammingo, per due pagine di pura registrazione visiva, fino a spezzarsi con la secca domanda che l’uomo in barella rivolge al sindaco (il quale, va notato, ha in testa »un cilindro listato a lutto»: ma perché “listato a lutto”? come gli sarà venuto in mente, a Kafka, questo dettaglio?): »Chi sei?» 

Dunque l’effetto spiazzante e inebriante che scambiavamo per onirismo e per un attributo della letteratura fantastica, catalogandolo secondo l’equivoca formula del “realismo magico”, si deve, al contrario, proprio alla cocciuta resistenza di Kafka ad alterare la realtà, ad apportare una qualsiasi modifica al suo dettato, per esempio arricchendola o stilizzandola alla maniera primitiva o stravolgendola oppure ancora scavalcandola per volare chissà dove, secondo le ricette e i manifesti programmatici di una delle tante baldanzose avanguardie della sua epoca. È singolare come Kafka vi resti totalmente estraneo: non ostile (Kafka non è ostile a nulla), bensì, alieno. Forse deriva da qui il turbamento che tuttora si prova nel leggerlo, mentre, tanto per fare un esempio, ci suonano innocuamente scontati, oramai, i cari tartagliamenti futuristi o il déréglement programmatico di Breton, Aragon e soci, che allora destavano scandalo. Siamo talmente disabituati a questa nettezza, a questo aderire senza ritegno al lessico minimo di cui sono formate la lingua e la vita, da scambiare il brivido che ci comunicano per una deformazione onirica. Come quella coniugale, la fedeltà al reale è in effetti un’ossessione più morbosa ancora del desiderio di evaderne.

Di “magico” la scrittura di Kafka ha piuttosto il carattere della vocazione, della più elementare nominazione. »La magia non crea, bensì chiama»: è dunque una forma di appello, di classificazione e certificazione dell’esistente, grazie a cui si rende manifesto e, per così dire, glorioso, tutto ciò che normalmente resta negletto. L’esatto opposto della trascuratezza. Nominando – allinea, giustappone, mette ordine, illustra. È un mezzo di contenimento. Edifica un equivalente verbale del mondo, per renderne lo splendore che sarebbe altrimenti opacizzato. Mentre la musica potenzia le emozioni, la scrittura le mette in chiaro. 

Sono tornato, ho attraversato lingresso e mi guardo intorno. È la vecchia fattoria di mio padre. Lo stagno nel mezzo. Vecchi attrezzi inservibili, aggrovigliati luno sullaltro, impediscono di passare alla scala del solaio. Il gatto è appostato sulla ringhiera. Un panno mezzo strappato, legato una volta per gioco attorno a un palo, si agita al vento. Sono arrivato. Chi ci sarà ad accogliermi? Chi aspetta dietro luscio di cucina? Dal camino esce fumo, stanno preparando il caffè serale. Sei a tuo agio, ti senti a casa tua? 

Talvolta questo inventario magnifica lo “splendore della vita” da cui siamo circondati, talvolta invece suscita un pungente senso di estraneità – che però fa risaltare in modo ancora più tagliente il profilo delle cose. L’estraneità come una pellicola di smalto. 

È la casa di mio padre, ma le cose vi stanno freddamente luna accanto allaltra, come se ognuna di esse fosse intenta alle proprie faccende che io ho in parte dimenticato e in parte non ho mai conosciuto.

Può darsi che la sorprendente e inesausta “adesione al mondano” di Kafka derivi, come sostiene Ferruccio Masini, da una radice spirituale ebraica, secondo la quale non si può e non si deve svalutare l’immanenza poiché è in essa che si rinviene la possibilità stessa del miracolo. Il mondo visibile include il mondo invisibile, esattamente come l’amore sensuale include quello celeste: e proprio perché lo contiene, la materia trova nello spirito le forze necessarie a nasconderlo in sé fino a farcelo scordare. Quel che chiamiamo “romanzo” (e la ragione per cui resta distinto dalla “poesia” e della “filosofia”) non è che una sfrenata, sacrificale dedizione al mondano, una devozione assoluta verso il visibile e le sue figure (umane, animali, naturali), al fine di renderne evidente il mistero costitutivo senza bisogno di ipotizzarne e indagarne un altro che si nasconda dietro le sue apparenze. Se un dio si degna di abitare il romanzesco, si tratta di un Augenblicksgott, una divinità momentanea, un dio del batter d’occhio, che esaurisce la sua funzione in ogni singolo accadimento, e scompare una volta compiuto il suo miracolo, miserabile oppure portentoso, che ora potrà essere una festa da ballo, ora un convegno amoroso o una grande battaglia, una visita medica, un paio di orecchini rubati, venduti, impegnati, smarriti e poi riapparsi, la scrittura di una lettera maliziosa o straziante, una vendetta tra bande di ragazzi, una sbronza, un naufragio, l’uccisione di un mostro e quella di un innocente, un atto di coraggio e uno di codardia – alcuni di questi eventi clamorosi, altri senz’altro banali, ma tutti egualmente decisivi, nessuno irrilevante – per il romanzo, intendo, solo per il romanzo, e non per la storia o per la morale o per la legge, che invece avanzano la giusta pretesa di soppesare e discriminare. Il grano e il loglio nelle pagine di romanzo hanno pari valore e pari opportunità – e così i buoni, i cattivi, i mediocri. Non stupisce nelle conversazioni di Kafka il persistente richiamo a Goethe, allo scrittore olimpico per eccellenza (»Goethe ha detto quasi tutto ciò che può essere detto su noi uomini»), e ancora di meno stupisce quello a Kleist, e alla sua lingua »chiara e universale», alla sua prosa »senza acrobazie verbali, senza commenti e senza elementi di suggestione».

Molti tuttora si affaticano a interpretare allegoricamente l’impenetrabile Davanti alla legge; mentre io fin dalle prime letture ne trascuravo il significato (troppo arduo per me da scandagliare e comunque inattingibile – e chissà, almeno in parte una beffa, addirittura una parodia, un pastiche di parabola chassidica), mentre mi sentivo irresistibilmente attratto dalla pura sciarada delle frasi, quella concatenazione implacabile che invano avrei cercato per tutta la vita di riprodurre, riuscendo tutt’al più a simularla.

E siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell’oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. 

Sto dicendo soprattutto della seconda parte del racconto, la cui prodigiosa progressione si incrocia, a canone inverso, con la regressione del povero uomo di campagna verso la vecchiaia e la morte. Le ultime quattordici frasi del racconto, da »Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano senza interruzione» al rintocco fatale di quell’«Ora vado a chiuderlo» formano una sequenza che è pura Ἀνάγκη, Ananke, qualsiasi forza per i Greci si nascondesse in quel nome: la necessità, ciò che non può che essere, ed essere esattamente così – insomma, l’ineludibile, l’inesorabile. E tutto come effetto di una sciarada di frasi! Che si leggono d’un fiato con la sensazione di esservi costretti.

La lettura di Kafka rappresenta spesso un’esperienza punitiva e soverchiante, ma proprio per questo fonte di godimento. Il disagio è causato dalla elementarità dell’incardinamento sintattico, dalla linearità quasi disumana del discorso e dalla sua capacità di avvincere malgrado la storia stia conducendo, obiettivamente, a una delusione, a un fallimento, o a una vera e propria catastrofe: come nella discesa nel Maelstrom descritta da Poe, quello sprofondare nel vortice, ecco, suscita ammirazione, e persino una paradossale forma di sollievo. Perché, insomma, se ha da essere per forza così, che sia. Se alla fine K. deve morire senza aver mai saputo di cosa era accusato – ebbene, che muoia! 

(Per una volta non suona enfatica l’espressione francese “je suis ravi”: una lettura di questo tipo è a tutti gli effetti un rapimento). 

“Inesorabile” vuol dire, alla lettera, che è inutile rivolgergli preghiere (in-ex-orare), non cederà alle suppliche, se è scritto che deve accadere accadrà comunque, spazzando via l’ostacolo di ogni parola superflua – ma non di colpo, bensì per gradi, una frase dopo l’altra. Invece che risalire in superficie si sta scendendo nel cerchio inferiore, anzi si è oramai scesi. Inesorabilmente. Come appunto nel Maelstrom. 

Proprio per la sua gradualità, la sua sconcertante progressione (sconcertante appunto perché imperturbabile, si direbbe quasi burocratica – in definitiva una “pratica da sbrigare”, come quelle che Kafka si ritrovava sulla sua scrivania di impiegato presso l’Istituto di Assicurazioni per gli Infortuni sul Lavoro), il cambiamento di livello non viene immediatamente avvertito, le ombre si allungano proiettate in un altrove (il futuro? il destino? o semplicemente le proposizioni che seguiranno?), seminando un’inquietudine calma, come nelle pagine di apertura del Processo, o nella minuziosa descrizione della macchina ad aghi che infligge la pena al condannato ne La colonia penale, o nell’intero impianto di un romanzo esasperante come è Il castello. La sintassi in perenne movimento, ma mai per un istante in subbuglio, sempre ben allineata e sommessa, talvolta persino scolastica, infila i quadri degli episodi l’uno nell’altro sicché risulta impossibile scollarsene – sei costretto, sì, costretto ad andare avanti, spinto in avanti. E intanto le ombre si allungano, cambiano forma…

Anche per questo fu geniale l’idea di Orson Welles di commissionare il prologo del Processo all’animatore Aleksandr Alekseev, con la sua magica tavola di spilli, una complicatissima macchina produttrice di visioni ondeggianti, ombre, immagini in metamorfosi perenne e senza spiegazioni – perfetta dunque per Davanti alla legge come per Il naso di Gogol’ o Una notte sul Monte Calvo. Fantasmagorie create da una tecnica certosina. Un milione di spilli che perforano lo schermo cambiando inclinazione, simili a quelli che iscrivono la sentenza nella carne del condannato. 

Una macchina romanzesca automatica come quella di un feuilleton ottocentesco e indifferente come il congegno che infligge il supplizio al condannato ne La colonia penale viene applicata da Kafka (impersonalmente – ma stavolta sul serio, assai più sul serio che presso naturalisti e veristi, che quella macchina avevano inventato) per narrare sequenze di fatti a prima vista poco significativi, puntando esclusivamente sulla chiarezza della concatenazione sintattica, che risulta trascinante appunto perché insindacabile, non soggetta ad alcuna trattativa. L’effetto comico che ormai molti sostengono essere la chiave giusta in cui vada letto Kafka, sostituendo un nuovo dogma a quello canonico dell’angoscia, dell’incubo e dell’assurdo che ancora imperava ai tempi in cui iniziavo a leggerlo io (e da cui discende l’infelice e abusato aggettivo “kafkiano”), sta tutto in questa millimetrica impassibilità, che al cinema negli stessi anni veniva raggiunta e perfezionata da Buster Keaton, un altro autore che lascia sbigottiti per la ritrosia a farsi catalogare. Che cosa infatti sarebbe il suo cinema – esistenzialismo, surrealismo, slapstick? Fa ridere, non fa ridere, oppure fa pensare – ma a che cosa, esattamente? Insomma, cosa produce, a cosa conduce la sfilza di disavventure inanellata da quell’uomo perplesso in camicia e pork-pie hat messo di traverso? 

Kafka si ritaglia un ruolo laterale nel processo della vita: diceva di non essere un giudice, semmai uno sottoposto al giudizio – anzi no, ancora meno, »un semplice usciere ausiliario». Anche per questa, chiamiamola così, modestia, bandisce dalla sua pagina ogni tipo di virtuosismo narrativo o linguistico, poiché «il virtuoso adopera la sua destrezza per porsi al di sopra delle cose». Mentre Kafka non è mai “al di sopra”, non può essere al di sopra di niente e di nessuno. La corda della realtà non è tesa in aria, ma vicino a terra: la terra su cui saltella un po’ goffamente la grigia cornacchia del suo cognome. Sarebbe sciocco e artificioso dunque sforzarsi a »introdurre miracoli negli avvenimenti quotidiani»: «è la normalità a essere già di per sé miracolosa!» avvisava Kafka a beneficio del giovane amico Janouch, il segreto si nasconde qui vicino, »ce l’abbiamo sotto il naso», non ha bisogno di nascondersi »dietro avvenimenti straordinari» né noi di alonarlo con effetti poetici o magici. Basta attendere, e il mondo »ti si torcerà davanti in estasi», in attesa di essere semplicemente descritto. »La quotidianità è il più grande romanzo di gangster che ci sia…». 

L’azione prosegue magari tortuosa ma imperterrita in una specie di presente assoluto (anche quando i verbi si coniugano al passato remoto), un susseguirsi che non s’interrompe mai con flashback, antefatti, riprese, come se la mano non si staccasse mai dal foglio per un ripensamento, o meglio, come se la mente che in realtà è torturata senza posa dai ripensamenti non rinunciasse mai a darne subito ragione sulla pagina, qui e ora, pur continuando il suo cammino. Una mente in movimento, in perenne trattativa con se stessa. 

Si porti a esempio lo strepitoso capitolo ottavo del CastelloAspettando Klamm. È inutile che io qui ne riassuma la circostanza: sono nove pagine di pura frustrazione lavorata all’uncinetto, non si potrebbe tirarne via un filo o una frase che si smaglierebbe tutta, e culminano nella scena del cocchiere che dalla sua slitta offre un po’ di cognac e di ospitalità all’agrimensore infreddolito e deluso – e subito K. si sente rivivere, si rianima nel morbido delle pellicce che ricoprono l’interno della slitta, e al profumo dolce e caldo del liquore. Così la sua mortificante attesa si è trasformata per miracolo (il miracolo del cognac?) in esultanza, e in un sentimento assurdo quanto autentico di invulnerabilità. 

Allora parve a K. che qualsiasi collegamento con lui fosse stato interrotto e che egli fosse più libero ora di quanto fosse mai stato, e potesse stare lì, in quel luogo altrimenti vietato, ad aspettare tutto il tempo che voleva, e avesse conquistato tale libertà come nessun altro sarebbe forse stato capace di fare, e a nessuno fosse lecito toccarlo o scacciarlo, anzi neppure dirgli una parola, solo che (questa convinzione era almeno altrettanto forte) nulla fosse tanto insensato, tanto disperato, quanto questa libertà, questa attesa, questa invulnerabilità.

È probabile che oggi qualsiasi casa editrice rifiuterebbe il manoscritto del Castello, qualsiasi consulente lo mollerebbe dopo averne “annusato” (si dice così nel gergo editoriale) qua e là gli smisurati dialoghi, le sfinenti tirate su chi è Klamm, dove sta Klamm, cosa desidera Klamm, e quando arriva Klamm – cioè il tipo di questioni che, alleggerite e stralunate, trent’anni dopo l’uscita del romanzo avrebbero fatto la fortuna del teatro di Samuel Beckett. Eppure di quel libro ostile e inclemente resistono per me come puri oggetti di venerazione innumerevoli pagine, paragrafi e periodi come quello che qui sotto riporto, formato da dodici proposizioni, con le subordinate che si aggrovigliano intorno a uno spunto semplicissimo (»Il padre cercava intanto di spogliarsi da sé…») per cedere poi al passo spedito delle tre coordinate che chiudono l’azione – per il sollievo del lettore. 

Il padre, sempre scontento che la madre fosse accudita per prima, cosa che però succedeva solo perché la madre era ancor più bisognosa daiuto di lui, cercava intanto di spogliarsi da sé, forse anche per punire la figlia della sua presunta lentezza, ma sebbene avesse cominciato dalla cosa più semplice e superflua, dalle enormi pantofole in cui i suoi piedi quasi nuotavano, non riuscì assolutamente a sfilarsele, dovette ben presto rinunciarci con un roco rantolio e si appoggiò di nuovo rigido alla sedia.

Questa era la mia lavagna, il mio esercizio, a questo tipo di scuola l’apprendista scrittore andava pieno di voglia di imparare ed emulare, mettendoci tutta la diligenza possibile, quella a cui lo stesso Kafka fa cenno quando parla dei »compiti a casa ben fatti».

»Alla scrivania, lì è il mio posto, la testa fra le mani, quella è la mia posizione». Tutto qui il mestiere dello scrittore. Ci vogliono anni per tirar su il secchio, e un istante solo perché esso ripiombi giù nel pozzo. 

Il principio comunque è elementare: va nominato anche ciò di cui non varrebbe la pena parlare, anzi soprattutto quello, »per non tralasciare nulla, affinché dopo non nascano discussioni» – lo stesso atteggiamento, beffardo ma in definitiva onesto, che tiene il guardiano della Porta della Legge, quando intasca i doni con cui l’uomo di campagna tenta di corromperlo affinché lo lasci entrare: »Li accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa». La prosa di Kafka è egualmente imparziale: accetta tutto, alla maniera dei grandi scrittori realisti, e dei santi. A torto si crede che questi ultimi rinuncino a tutto pur di scalare i cieli: in verità se li guadagnano accogliendo tutto.

Dicevo che non esistono passato e futuro nella prosa di Kafka, non nel senso dei tempi verbali, ma dell’eventualità che la narrazione possa spostarsi avanti e indietro, o arrestarsi per poi riprendere da un punto remoto dopo lo stacco, oppure cambiare voce, come la letteratura ha imparato a fare dal nono libro dell’Odissea, nel momento in cui Ulisse comincia a narrare in prima persona le sue passate disavventure. Unità di tempo e di azione caratterizzano i racconti e i romanzi di Kafka come (credo) in nessun altro scrittore moderno, il che rende spaventosamente semplice la struttura complessiva che li regge: una pura sequenza di fatti. Basterebbero a illustrare questo principio le ultime inarrestabili pagine del Processo, di abbacinante nitore fattuale, o (un esempio come un altro), i Fragmente dell’autunno 1920. 

Due uomini sedevano a un tavolo di rozza fattura. Una lampada a petrolio vacillante pendeva sopra di loro. La mia patria era lontana. 

«Sono nelle vostre mani», dissi. 

«No», disse uno dei due uomini, che si teneva ben dritto e affondava la mano sinistra nella barba piena, «sei libero e per questo sei perduto». 

«Allora posso andare?» chiesi. 

«Sì» disse l’uomo e mormorò qualcosa al suo vicino mentre gli carezzava benevolmente la mano. 

»Il sospetto costante è che si tratti di Verismo», ha scritto Roberto Calasso, e non dello “straordinario” nel senso dei racconti di Poe. Le mie impressioni di lettura di questo ultimo anno concordano con quelle di Calasso: in controluce appare Dickens, piuttosto che Hoffmann – anche perché all’interno dell’impianto solidamente realistico in Dickens è presente e incluso anche lo straordinario, il bizzarro, l’eccentrico, persino il delirante. Del resto non vi è nulla di più palpabile e concreto del delirio. La vita di noi uomini ne è la prova. Per cui mi sono messo a caccia di pagine e spunti dickensiani, ed eccone di seguito un paio, dai Quaderni in ottavo

Sopra una panca di pietra accanto alla porta, stava seduto un uomo gigantesco, le gambe accavallate, le mani incrociate sul petto, la testa appoggiata indietro, con lo sguardo rivolto al cespuglio di fronte a lui, che gli toglieva tutta la visuale. Guardai involontariamente, con aria interrogativa, la donna. »Questo è il mammalucco», disse lei, »non lo sai?». Scossi la testa, guardai di nuovo l’uomo con stupore, specialmente il suo alto berretto di pelo d’agnello, ma poi venni fatto entrare in casa dalla vecchia. In una piccola stanza sedeva a un tavolo coperto di libri ben ordinati un vecchio signore con la barba, in veste da camera, che di sotto la campana del lume da tavolo guardò verso di me. Naturalmente pensai di essermi sbagliato, e mi volsi per uscire dalla stanza, ma la vecchia mi sbarrò la strada, e disse al signore: »Il nuovo ragazzo del latte». »Vieni qui, piccolo marmocchio», disse il signore ridendo. Io mi sedetti allora su un panchettino vicino al suo tavolo, e lui accostò il suo viso vicinissimo al mio.

Potrebbe essere un capitolo espunto da Grandi speranze, l’atmosfera di mistero è la stessa di quando Pip incontra i forzati lungo il Tamigi. O ancora leggete questa: 

Un gran berretto tondo di agnello gli stava ben calcato sulla testa. Dei folti baffi gli si aprivano, rigidi, sul viso. Quanto al vestito, portava un largo cappotto marrone tenuto raccolto da un poderoso sistema di cinghie che ricordavano i finimenti di un cavallo. In grembo aveva una corta sciabola ricurva dentro un fodero pallidamente rilucente. I piedi erano infilati in un paio di stivali di montone provvisti di speroni, un piede era posato su una bottiglia di vino rovesciata, l’altro, sul pavimento, era un po’ rialzato, e col calcagno e lo sperone puntato contro il legno.

Di nuovo il berretto di agnello! Be’, se non si tratta di vero e proprio realismo, è il romanzo di avventure, che dal realismo discende. Abbiamo detto che nulla appare mai cruciale, nelle storie di Kafka. Si procede gradualmente per intensificazione, ed è questo forse l’unico elemento davvero fiabesco, il tratto comune con lo schema antico di costruzione dell’avventura (oggi dei videogiochi), vale a dire un modello a gradini, col superamento (o il fallimento) di prove in successione sempre più difficili, una sequela di controlli, ostacoli, di porte e di guardiani sempre più ostili, man mano che scemano le forze per affrontarli e aumenta quella che in Kafka sembra la condizione umana più diffusa: la stanchezza. Sentirsi venir meno, eppure continuare, continuare… continuare. Avevo cominciato ad appuntarmi i brani in cui si di- chiara l’invincibile stanchezza dei personaggi di Kafka, ma poi, a mia volta stanco, ho smesso, sono innumerevoli, se ne potrebbe riempire un intero quaderno. Ho immaginato lo stremo di questo insonne che riempie incessantemente i suoi, di quaderni, in vista di un’opera che secondo lui avrebbe dovuto restare privata e quindi cessare definitivamente di esistere, pagine di »documenti personali di debolezza umana» da cui invece gli amici »si sono messi in testa di cavare letteratura». 

Com’era possibile che lui dovesse sentirsi così invincibilmente stanco proprio in quel luogo, dove nessuno era stanco o dove piuttosto tutti erano continuamente stanchi, senza che però il lavoro ne risentisse, ma anzi, pareva che ne traesse giovamento? Se ne poteva dedurre che si trattava di una stanchezza di tutt’altro genere da quella di K. Lì era stanchezza nel bel mezzo di un lavoro felice, qualcosa che all’esterno pareva stanchezza, ma che in realtà era quiete indistruttibile, pace indistruttibile. Se a mezzogiorno si è un po’ stanchi, questo fa parte del felice corso della giornata. 

Le prove da superare in successione del Castello ricordano avventure come quella di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, l’enigmatico poemetto anonimo del XIV secolo: e anche lì il vanaglorioso Galvano non le superava, anzi falliva, ritirandosi pieno di vergogna. In verità, il romanzo cavalleresco fin da sempre, e non solo al suo tramonto con il Don Chisciotte, inanella sconfitte e umiliazioni. Il fallimento dunque non è affatto una peculiarità “moderna” (Onegin, Oblomov, Zeno Cosini, Madame Bovary, gli Indifferenti, il console Firmin, Lily Bart, l’agrimensore K.), anzi, sembra essere fin dall’antichità il destino segnato degli eroi, e non appannaggio degli anti-eroi contemporanei. Sterilità, nevrosi, vergogna, impotenza, indecisione, lacrime copiose, involontaria comicità, solitudine, follia e ripiegamento sono iscritti nel codice dei miti millenari. Il Re Pescatore non se l’è inventato Eliot per The Waste Land, sanguinava da secoli, forse da sempre. Sarebbe un’occasione d’oro riconsiderare le categorie dell’Antico e del Moderno servendosi di Kafka come guida, facendo luce sulle epoche in vista di una loro riconfigurazione. 

(Nell’Edda di Snorri Sturluson, il castello del Gigante che ha beffato Loki, l’astuto dio beffatore, e umiliato lo strapotente Thor, facendolo battere nella lotta da una vecchietta, si rivela vuoto, illusorio. Quando sconfitti e derisi gli dèi lo abbandonano, alle loro spalle il castello si dissolve). 

Ho detto che la costruzione a gradini tipica di molte sue storie (dalla singola pagina lavorata delle brevissime prose come Il rifiuto, al grande formato del Processo e del Castello, e anche del picaresco America) ha di fiabesco soprattutto il principio dell’intensificazione. Intensificazione di cosa? Del dolore, della sensualità, dello spirito avventuroso, della mesta allegria, del distacco oppure, sul lato opposto dello spettro emotivo, del riso compassionevole – quel tipo di mitezza caratteristico di chi ha doppiato il capo della conoscenza ma depone ogni tentazione di compiacersene. Non più contrastanti tra loro, convergono in un medesimo punto compimento e distruzione, quasi come fossero sinonimi, e forse in effetti lo sono. »Vi è un punto oltre il quale non vi è ritorno. Questo è il punto da raggiungere». Stupiscono il coraggio di un’affermazione tanto perentoria, e, persino nel culmine dell’angoscia, la mancanza di tragicità. Il tragico è stato prosciugato dalla stessa tragedia in corso, come le lacrime consegnano a chi le ha versate il sollievo dell’aridità. Il dissidio viene composto dalla precisione con cui lo si prende su di sé, lo si fa proprio in modo integrale. Non so se abbia senso parlare di rassegnazione, o stoicismo, o di sublime saggezza, o di semplice assunzione di responsabilità artistica verso la vasta materia della vita. Si potrebbe persino sostenere che vi sia maggiore compiutezza artistica in certi appunti da quaderni e fogli sparsi, che si rinvenga, cioè, una suprema per quanto paradossale finitezza nel non-finito kafkiano. Forse perché nell’ossessività circolare dei frammenti più ancora che nello svolgimento romanzesco (il quale necessita sempre di qualche aggiustamento di tiro in vista di ciò che seguirà) è presente in purezza il realismo radicale di Kafka, cioè la registrazione senza interferenze o diaframmi, sino al limite della tollerabilità, di ciò che appare vivente: figure, forme e gesti. Tutto reso attuale e stagliato in una transitorietà assoluta che, a ben pensarci, sta agli antipodi del progetto romanzesco. Certi incipit formidabili restano per forza sospesi, e interrotti, appunto perché a loro modo compiuti, esausti, perfezionati e dunque liquidati dalla loro stessa perfezione. Compimento e distruzione, compimento nella distruzione. 

Prendiamo alcuni dettagli gratuitamente esatti come, ad esempio, questo che segue: il bambinesco gioco al rialzo del trombettiere. 

All’ombra dell’albero, sedeva un giovane che si dondolava sulla sedia, incurante di tutto ciò che accadeva intorno, lo sguardo perduto in cielo a seguire il volo degli uccelli, e che si esercitava in segnali militari su un corno da caccia. Era una cosa utile come qualsiasi altra, ma ogni tanto il comandante ne aveva abbastanza, e allora, senza alzare gli occhi dal lavoro, faceva cenno al trombettiere di smetterla; e quando questo non serviva, si girava e gli urlava qualcosa; allora per un po’ c’era silenzio, finché il trombettiere, solo per provare, ricominciava a soffiare piano e, vedendo che lo si lasciava fare, a poco a poco riportava il suono all’intensità precedente. 

Ah! Andrebbe mandato a memoria questo periodo zeppo di incisi che suonano ironici ma sono il contrappeso di un’azione con un’altra azione, che serve a completare la precedente, a campire poco alla volta il quadro, passando da un senso all’altro, dall’udito alla vista e viceversa, come si passa dal suono dello strumento (il corno) alla voce umana (dello spazientito comandante) e poi di nuovo al suono – il quale monta poco alla volta, subdolo e impertinente, fino a tornare allo stesso livello di prima. Il trombettiere soffia e guarda gli uccelli, il comandante in maniche di camicia redige il suo piano di battaglia e intanto strilla al soldato di smetterla. 

L’accostamento sinestetico più azzardato e violento che io conosca, dopo quello di Inferno, XIII (“sì de la scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue”), l’ho trovato in Kafka: »Dalla finestra accanto alla porta di casa, che era ricoperta di assi, salvo una piccola fessura, uscivano fumo e baccano» (il corsivo è mio). 

E forse solamente in Kafka (e in un modo minore e posato, in Raymond Roussel, o prima ancora, con la pedanteria dell’illuminista perverso, in Sade, oppure nella Morgue di Gottfried Benn – che era suo coetaneo, ma con un surplus di estetismo) troviamo questa imperturbabilità nella narrazione di ciò che è perturbante: come se fosse proprio l’imperturbabilità della descrizione, il suo andamento distaccato, procedurale, ad accentuarne l’effetto inquietante. 

(Forse non è inutile rammentare come su alcune modalità rappresentative escogitate da Kafka ci abbiano campato intere squadre di movimenti letterari e non letterari, legioni di scrittori e singoli autori, fino all’École du regard e a Peter Handke, passando per la Neue Sachlichkeit. Solo che il suo non era precisamente uno stile letterario, bensì il precipitato di una forma peculiare di esistenza, una postura umana a cui concorrevano troppi fattori perché non fosse inimitabile.) 

Continuare a scrivere si trasforma nello scrivere continuamente. Rivela il suo carattere coattivo, di Ananke, costrizione, necessità. Forse solo a un primo livello il meccanismo cieco e inarrestabile che agisce nel Processo è quello della legge, che spinge K. attraverso mille peripezie (alcune delle quali sfiorano il ridicolo, ed è infatti lui il primo a riderne) fin nella cava dove verrà giustiziato. Piuttosto, si tratta della scrittura. La macchina che procede inesorabile, malgrado le sue lentezze, i suoi giri a largo, i periodi di latenza per cui ci si dimentica persino di quello che si è fatto e detto, è la scrittura, è la scrittura il demone meschino e il nobile lottatore che non abbassa mai la guardia, che non chiude mai occhio, mai, costringendoti a pagare “una bolletta della luce molto alta”, come diceva Kafka al diciassettenne Janouch, a causa delle notti passate a leggere e scrivere. Per quanto ci vada cauto con le letture allegoriche (credo di averlo dimostrato sin qui), sono considerazioni strettamente letterarie a farmi avanzare questa ipotesi. Ad incalzare autore e personaggio del romanzo sono le Erinni del romanzo stesso, della necessità di scriverlo, e scriverlo in quel modo. 

Io molto di rado anzi quasi mai sono riuscito a lasciarmi trascinare così, o piuttosto, trainare, come fosse un dispositivo meccanico, dal puro potere della lingua in cui scrivo; mai sono riuscito a tapparmi le orecchie e a non prestare ascolto alle continue interferenze, prima fra tutte quella della mia stessa intelligenza che finiva per costituire un intralcio con le sue pretese analitiche e la saccenteria, laddove la sola necessità sarebbe stata di procedere senza indugi nella connessione verbale; e poi tutte le altre suggestioni che è il talento medesimo a disseminare come trappole lungo il cammino – la finezza psicologica, il gusto di una pagina ben riuscita, le bellezze proprie della lingua adoperata, la duratura influenza delle letture compiute e persino il fatto di porsi modelli alti di letteratura (come quello di Kafka, appunto) che se almeno un poco possono fungere da argine contro la mediocrità, quella personale come quella del tempo a cui si appartiene, alla stessa stregua ostacolano il dettato, lo inceppano, sciupandone la trasmissione. E poi l’orgoglio, la debolezza, le fissazioni, il carattere, la volontà un po’ ingenua di far fruttare le ore passate in solitudine, non ammettendo neanche morti di averle sprecate. »Nessuno può sbarazzarsi di sé».

La scrittura oscilla sempre tra i poli della pretesa di dominio e della propria esistenziale impotenza, tra la discutibile concretezza del risultato e gli sforzi penosi per raggiungerlo, tra la gravità solenne del compito e il sospetto di una sua totale superfluità, che niente e nessuno potrà riscattare, nemmeno col conseguimento di elevate vette artistiche, le quali, in definitiva, rischiano di suonare persino più futili e decorative dei risultati mediocri. I cosiddetti capolavori non riscattano chi li ha realizzati, anzi, non di rado, lo dannano. Lo scrittore è perciò un ibrido, »la sua stanchezza è quella del gladiatore dopo la lotta, il suo lavoro è stato imbiancare l’angolo di una stanza d’impiegato» (negli Aforismi di Zurau). Non si può quindi impedire a nessuno di ridere alle spalle di un’attività così opinabile, svolta da una figura tanto controversa: gladiatore, circense, imbianchino, impiegato. 

C’è una porta in casa mia a cui finora non avevo fatto attenzione. Si trova in camera da letto, nel muro che confina con la casa accanto. Non me ne ero fatta alcuna idea, anzi non sapevo neppure che esistesse. Eppure è ben visibile, anche se la sua parte di sotto è nascosta dai letti […]. Ieri è stata aperta… 

Prendiamo la morbosa fissazione per le porte, segrete o monumentali, che segnano l’accesso ad altre sale ed altre porte, in infilata. Stanze private in cui però si aprono innumerevoli accessi. Solo nell’indice tematico di Aforismi e frammenti figurano ventiquattro voci relative alle porte. Un’ossessione simile a quella che mezzo secolo prima aveva covato Lewis Carroll e mezzo secolo più tardi infesterà l’immaginazione di Hitchcock, Polanski, del Kubrick di Shining. »Era una porticina bassissima, quella che conduceva in giardino, non molto più alta degli archi di metallo che si piantano in terra nel gioco del croquet». Le svolte narrative sono porte che in una storia si aprono e si chiudono, da lì irrompono sconosciuti, o Gregor Samsa riesce a fatica a uscire dalla sua stanza diventata una tana. Dietro a una porticina che si era sempre pensato immettere in un ripostiglio, un uomo vestito come un macellaio (»indossava un indumento di cuoio scuro, aderente, che lasciava nudi il collo fino a mezzo petto e tutte le braccia») ne sta bastonando altri due. Sono le inquietanti e sofistiche icone della possibilità, dunque una risorsa per infinite variazioni narrative. Le porte non sono in verità simboli di nulla. 

… corro di là e vedo che la porta, la porta a me finora sconosciuta, viene aperta lentamente e che nello stesso tempo i letti vengono scostati con forza straordinaria. Io grido: »Chi è? Cosa volete? Pia- no! Attenti!» e mi aspetto di vedere entrare una squadra di uomini violenti, ma è solo un giovane esile che, appena la fessura è sufficiente, scivola dentro e mi saluta lieto. 

La condizione è la seguente. Da questa condizione occorre, comunque, ripartire. 

Egli ha sete, e dalla fonte è separato solo da un cespuglio. Lui però è diviso in due: una parte abbraccia con gli occhi l’insieme, vede che egli è lì e che la fonte è a un passo, ma una seconda parte non nota nulla, ha tutt’al più la vaga intuizione che la prima parte veda tutto. Ma poiché non nota nulla, egli non può bere. 

Ecco, quando sento di scadere, che il mio dono nello scrivere lo sto, più che buttando via, utilizzando solo per difendermi o farmi bello, per temporeggiare e per ingannare me stesso prima che gli altri, allora torno a leggere qualche pagina di Kafka, qua e là, che mi ripesca, mi riporta in una zona di aria rarefatta eppure stranamente respirabile. Non voglio dire che mi salvi, anzi, in un certo senso, aumenta il mio sconforto, mi scoraggia con le sue formulazioni vertiginose ed esatte, di cui sono appena in grado di accarezzare la superficie. Quella sì, è in grado di riprodurla e imitarla chiunque abbia un minimo di talento, e io da giovane quel minimo lo avevo, e infatti la imitavo, indulgendo a un virtuosismo da cui proprio Kafka mette in guardia perché un artista lo adopera »per porsi al di sopra delle cose», dunque per mettersi al sicuro. Essendo l’insicurezza forse il vizio più temibile ma anche la principale virtù di uno scrittore.