Giorgio Falco

ARTICOLO n. 17 / 2024

LA DISTANZA PIÙ BREVE

Quando si è laureato non pensava di dover sparare. 

Si era iscritto ad Agraria come se non avesse alternative, futuro laureato per soddisfare i suoi desideri e le aspettative dei genitori. Aveva scelto la facoltà legata all’attività della famiglia paterna: la terra. Il presente universitario omaggiava la tradizione, il passato, ma soltanto per distanziarsi e ipotizzare il futuro, il futuro come manager nella Grande Distribuzione Organizzata. 

Prima di arrivare a sparare, aveva studiato alternando i libri ai laboratori; aveva studiato, annoiandosi, la storia dell’agricoltura, che gli era parsa troppo astratta rispetto alla smania di vivere, alla dipendenza dal quotidiano. Certo, occorreva conoscere la storia dell’agricoltura, il pensiero degli agronomi nel corso dei secoli per comprendere il lungo processo grazie al quale miliardi di esseri umani si erano affrancati dalla fame, ma il problema della fame, così come quello della guerra, non si era risolto in tutto il mondo, e allora lui preferiva concentrarsi sul benessere smemorato, su ciò che aveva trasformato la storia dei popoli in vicende individuali. 

Il suo ruolo sarebbe stato quello: soddisfare la fame del singolo cliente.

Aveva studiato le teorie per analizzare la conformazione degli animali, allo scopo di quotare le funzioni economiche delle esistenze, poiché ogni animale offriva, in potenza, qualcosa, e spettava all’essere umano trasformare la potenza animale in prodotto: carne, grasso, latte, uova. Aveva studiato la chimica organica, la metodologia per ispezionare e stimare i rischi degli alimenti di origine animale, le tecniche di trasformazione e conservazione. Ma soprattutto aveva studiato come valutare il cosiddetto benessere animale, le procedure relative all’allevamento e alla macellazione, o meglio, al ciclo di macellazione di bovini, suini, polli, pesci.

Ecco, ciclo di macellazione. Sia da studente che da manager della Grande Distribuzione Organizzata aveva utilizzato locuzioni tipiche – qualità nutrizionale, regime alimentare – perché così imponeva, e impone, ogni linguaggio tecnico ripetuto in modo meccanico. 

Ogni linguaggio tecnico utilizza parole condivise con linguaggi tecnici di altri settori; da alcuni decenni, per esempio, sembra sia impossibile sottrarsi al sostantivo filiera: filiera del libro, filiera della carne. 

Nella seconda metà degli anni Novanta, subito dopo la laurea, era stato assunto presso la sede centrale di un’azienda di supermercati. Il suo ruolo era adeguato alla laurea in agraria e all’indirizzo scelto durante gli studi: era diventato il buyer junior della carne. 

Il suo capo cinquantacinquenne – il buyer senior – aveva iniziato come compratore della carne quando la parola buyer non era di uso comune. Il buyer senior lavorava per quella azienda di supermercati da trent’anni, aveva comprato carne in ogni angolo del pianeta senza parlare inglese. Durante la sua carriera era stato affiancato da numerosi buyer junior i quali – dopo pochi anni, a volte dopo pochi mesi e perfino dopo poche settimane – avevano cambiato lavoro, passando alla concorrenza o a un altro settore. 

Eppure quando il buyer senior aveva visto il nuovo buyer junior, aveva pensato che quel trentenne potesse essere la scelta giusta; il buyer junior conosceva davvero la carne; il buyer junior, durante i mesi estivi della giovinezza, aveva coltivato la terra nell’azienda agricola dello zio e, fin da bambino, aveva assistito all’uccisione degli animali sull’aia della cascina. Ma quello era il passato.

Il buyer senior aveva notato la voglia di crescere, il desiderio, in prospettiva, di diventare buyer senior al suo posto. E allora il buyer senior aveva organizzato, in accordo con il presidente dell’azienda, un addestramento specifico, che necessitava di dieci giorni – due settimane lavorative – all’interno di un macello. 

Il buyer junior aveva guidato l’auto aziendale, una Fiat Punto bianca utilizzata in precedenza da un altro collaboratore. Aveva percorso la tangenziale e un tratto di autostrada fino al macello, pensando di analizzare capi di bestiame, di verificare la macellazione, la filiera della carne, appunto. 

Appena arrivato, era stato accolto dal responsabile della macellazione che gli aveva mostrato un foglio, il disegno raffigurante la testa di un bovino. Il responsabile della macellazione aveva indicato con un pennarello l’obiettivo al centro del cranio; poi gli aveva mostrato una pistola e i proiettili captivi, punte acuminate d’acciaio. 

Il responsabile della macellazione aveva condotto il buyer junior alla finestrella che si affacciava su un breve tunnel, il punto in cui attendere l’animale; si trovava un po’ più in alto rispetto al passaggio del bovino, come se il buyer junior si affacciasse al davanzale di una finestrella al piano terra, e quella leggera posizione rialzata servisse ad avvicinarsi meglio alla testa. Il bovino era entrato nel breve tunnel, aveva compiuto pochi passi, al buyer junior la testa era sembrata grande. Il responsabile della macellazione aveva sparato, colpendo il punto mostrato poco prima sul disegno. 

Il bovino era stramazzato incosciente a terra, nella condizione tra lo stordimento e la morte, morte che sarebbe avvenuta pochi secondi dopo, nella giostra di macellazione. 

Adesso toccava al buyer junior. Il bovino successivo era entrato nel tunnel, al buyer junior la testa non era sembrata grande, semmai più simile al disegno del foglio che alla realtà sopraggiungente, sì, lo spazio in cui colpire era davvero minimo, come se la testa del bovino si fosse ristretta, diventando la testa di un ovino, un agnellino di tre chili. 

Aveva sparato, il bovino era stramazzato a terra, incosciente, pronto alla macellazione.

Se ci fosse stato il tempo per porsi domande, il buyer junior avrebbe risposto che lui non uccideva l’animale, lo stordiva, lo inviava alla macellazione in uno stato di incoscienza per evitare sofferenze, e farlo morire meglio. Ma poco dopo il primo bovino, ne era uscito un altro, e poi un altro, e un altro ancora.

Alla fine del primo giorno, il buyer junior, salendo sull’auto aziendale, aveva sentito un indolenzimento al braccio destro, tenuto per quasi tutto il giorno in posizione di sparo. Così aveva guidato la Fiat Punto bianca in autostrada e poi in tangenziale usando la sola mano sinistra. Ma quei giorni, e il dolore al braccio destro, erano passati. 

Non tutti i buyer junior erano riusciti a sparare in fronte ai bovini. Lui sì, e questo lo aveva fortificato. Sparare nella fronte di un essere vivente, di centinaia e centinaia di esseri viventi, significava aderire davvero al processo di apprendistato e a qualcosa di più grande della carriera aziendale. Tra l’altro, un apprendistato di quel tipo non era necessario a un buyer junior, ma lui non si era sottratto, e l’azienda aveva così testato le doti di resistenza fisica e mentale. La promozione da buyer junior a buyer senior poteva essere valutata anche attraverso gli spari all’inizio della carriera. 

Dopo quei giorni, il buyer junior aveva comprato la carne che lui stesso aveva anestetizzato prima della macellazione, la carne che il consumatore italiano avrebbe trovato in vendita al supermercato. 

Il buyer junior sarebbe diventato buyer senior e avrebbe avuto una carriera manageriale ancora più significativa se, una decina d’anni dopo, non si fosse ammalato di cancro. 

E tuttavia, poiché aveva aderito fino in fondo al proprio ruolo, a quarant’anni, da malato terminale, era andato in Scozia per partecipare a una fiera del bestiame, conscio che sarebbe stata l’ultima fiera della sua vita, durante la quale aveva premiato un allevatore scozzese per la miglior carcassa

Era morto poche settimane dopo. 

Il buyer junior era un mio caro amico ai tempi del liceo e della giovinezza. Ventidue anni fa, sei anni prima che morisse, avevo scritto un monologo su un buyer della carne. 

Di recente ho ripensato a ciò che mi aveva raccontato a proposito della macellazione ebraica e della macellazione islamica. 

Gli addetti alla macellazione kosher erano tre, rabbino compreso. Ciascuno aveva un compito preciso. Uno leggeva ad alta voce ciò che sembrava una preghiera. Uno effettuava la visita dell’animale. Uno sgozzava. L’animale era infilato in una gabbia rotonda, quasi al buio. Il meccanismo della macchina spingeva l’animale verso una finestrella aperta, così l’animale sporgeva la testa, e allora la macchina manovrata dall’uomo si stringeva intorno al collo, ribaltava la bestia e la sgozzava, uccidendola per dissanguamento. La macellazione halal era molto simile. Avveniva durante la recita del Corano. L’animale era imprigionato in una gabbia ricoperta da un telone nero. La gabbia doveva essere rivolta verso La Mecca; anche se la macellazione avveniva nei pressi di Lodi, ciò che contava era La Mecca, la direzione verso cui l’animale, adagiato su un fianco e sgozzato da specifici coltelli, rivolgeva lo sguardo prima di morire dissanguato.

In entrambi i casi, il personale che tagliava e disossava la bestia era sempre ebreo o musulmano. La macellazione kosher e la macellazione halal avvenivano soltanto una volta la settimana, poiché bisognava allestire la parte del macello che, di solito, era pronta secondo i metodi di uccisione stabiliti dall’Unione Europea.

Oltre alle storie che raccontava il mio amico a proposito della macellazione kosher e della macellazione halal, mi è tornato in mente un piccolo, prezioso libro che avevo letto quando era uscito in Italia, nel 2011: Esecuzioni a distanza, di William Langewiesche (Adelphi). Il libro era composto da due brevi testi: il primo narrava di Crane, tiratore scelto statunitense che aveva combattuto in Afghanistan e in Iraq, eccellendo, diciamo così, per la precisione della mira grazie alla quale aveva ucciso afgani e iracheni; il secondo testo raccontava la vita dei militari che pilotavano i Predator, piccoli aerei pilotati dalla base di Alamogordo, New Mexico; i Predator restavano in volo fino a ventiquattro ore, viaggiando alla velocità di circa cento chilometri orari; erano sensibilissimi alle intemperie, tanto che una semplice pioggia poteva causare loro danni; i Predator erano utili nella raccolta dati e aiutavano le truppe di terra ma, all’occorrenza, potevano sparare e uccidere in Afghanistan o in Iraq, a tredicimila chilometri di distanza dal punto in cui erano pilotati.

Il tiratore scelto Crane, a differenza di molti soldati semplici, non sparava all’impazzata. Se fosse stato un pessimo tiratore, si sarebbe comportato come il soldato britannico che sparava a casaccio e recriminava di aver “ucciso più asini che talebani”: disappunto mitigato in parte dal fatto che, a giudizio del soldato britannico, si trattava comunque di “asini talebani”. Crane era invece un tiratore serio, professionale, e questo fatto implicava un altro tipo di inquietudine. «A quanto sembra Crane ha colpito sempre e solo bersagli giusti. Ciò significa che in varie occasioni ha rinunciato a sparare». Langewiesche evitava qualsiasi sbavatura epica guerresca e ci costringeva a un calcolo balistico, una cifra che tuttavia racchiudeva anche la responsabilità del gesto. Crane, per esempio, si era trovato a 806 metri di distanza da un altro uomo, un afgano nascosto dietro una roccia e inquadrato nel mirino del tiratore scelto statunitense. Non sappiamo nemmeno dire se 806 metri siano tanti o pochi: 806 metri sono due giri di una pista d’atletica, più quei sei metri in cui di solito, al termine della gara, si crolla a terra ansimando per lo sforzo. L’essere umano più veloce impiega circa un minuto e quarantuno secondi per compiere 806 metri; un proiettile impiega pochi istanti. Ammettiamo che in quella circostanza Crane abbia deciso di sparare, come possiamo definire la morte dell’uomo? Si può considerare un’uccisione remota oppure è la giusta distanza per sentire ancora la responsabilità del corpo di un altro uomo, l’idea che quell’uomo stesse rifiatando dietro una roccia, poco prima di essere colpito?

Mentre Crane prendeva la mira sotto il sole, in mezzo alla polvere, altri militari, a tredicimila chilometri di distanza, nella cittadina di Alamogordo, in un anonimo edifico di mattoni rossi, erano seduti su “una poltroncina di vinile marrone” e pilotavano aerei che volavano a oltre quattromila metri d’altezza, nel cielo afgano. «Oggi ci hanno dato l’Afghanistan, ma possiamo avere mappe di qualsiasi parte del mondo».

Già da buyer junior il mio amico aveva molta libertà di azione. Poteva comprare carne in ogni zona del pianeta, ma per ovvi motivi logistici privilegiava l’Italia e alcune nazioni europee, come la Francia e l’Irlanda. E poi, quando possibile, preferiva visitare i macelli, gli animali che sarebbero diventati le bistecche del consumatore. E tuttavia, con il passare degli anni, il suo lavoro era diventato più simile a quello dei militari di Alamogordo e quindi molto simile alla maggior parte dei gesti che compiamo ogni giorno. 

Cosa ci infastidisce di più? Chi uccide a distanza, con un Predator o un drone? Chi bombarda e uccide con un caccia F35? Oppure ci fa più orrore chi entra nelle case armato di fucili mitragliatori, guarda negli occhi le vittime e ascolta le urla prima di sparare? Oppure ci fanno orrore tutte queste situazioni, consci che nulla possa essere come i videogame dell’infanzia ininterrotta, perché ci pongono nella condizione di spettatori e complici? 

«L’addestramento non lo aveva preparato a niente del genere. Era come se gli avessero insegnato a uccidere in astratto», scriveva Langewiesche.  

Il buyer senior aveva mostrato al buyer junior il processo attraverso il quale si giungeva alla fettina di carne nel supermercato. Ma le uccisioni non sempre avvenivano secondo le procedure, in apparenza così ineccepibili come quelle stabilite dall’Unione Europea. 

Un essere umano si stancava di affacciarsi alla finestrella nel tunnel del macello, stravolto dal dover sparare con quella frequenza, stravolto dal dover mirare la piccola parte della testa di un altro essere vivente; e quindi accadeva che il proiettile captivo non centrasse il punto esatto per stordire l’animale, e l’animale giungeva alla macellazione ancora cosciente.

Raid. Operation Enduring Freedom. Farm to Fork. 

Mettiamo una ulteriore pellicola tra il linguaggio che depista, i gesti e le loro conseguenze. Quando i nostri corpi ci parlano, troviamo giustificazioni, utilizziamo sotterfugi, come guidare l’anonima Fiat Punto bianca con la mano sinistra in autostrada, dopo centinaia di colpi sparati in fronte ai bovini, il braccio destro indolenzito.

«Tra i movimenti del controllo e la risposta del Predator c’è un intervallo di due secondi, il tempo necessario a trasmettere il segnale attraverso le fibre ottiche in Europa, e da lì, via satellite, all’aereo in volo sull’Afghanistan». Il tempo necessario affinché il pilota, dall’altra parte del pianeta, possa correggere le oscillazioni.

Vorrei credere che due secondi di lieve discrepanza satellitare tra l’istante di Alamogordo e l’istante dell’aereo nel cielo afgano – come la breve riflessione di Crane a 806 metri di distanza, la sensibilità dei Predator alle gocce d’acqua o il dolore al braccio destro del mio amico ventisette anni fa – siano una forma residuale di resistenza anomala, forse nemmeno troppo consapevole, ma grazie alla quale possiamo ancora definirci, insomma, qualcosa.

ARTICOLO n. 69 / 2023

PICCOLE FRAGILITÀ QUOTIDIANE

La temperatura dell'estate

L’uomo aveva passato l’estate nella casa al mare. Quando l’aveva comprata, tre anni prima, non avrebbe mai immaginato di godersi così tanto il suo nuovo bene immobile, settanta metri quadrati disposti al piano terra, oltre al giardinetto. Dall’inizio dell’estate era rimasto quasi sempre steso su un lettino che pareva prelevato da uno stabilimento balneare frequentato da vip. Il lettino era in un angolo del giardinetto, accanto alla rete di recinzione che divideva la proprietà dell’uomo da una delle proprietà confinanti. L’immobile era all’interno di un residence edificato nella seconda metà degli anni Settanta, dieci anni prima che l’uomo nascesse. Il residence era costituito da una serie di villette bifamiliari, che contenevano appartamenti al piano terra e al primo piano, cosicché poteva capitare – e nel caso dell’uomo era accaduto – che un giardinetto fosse al centro degli sguardi di altre quattro proprietà confinanti. Il giardinetto dell’uomo era il cuore di questa porzione di residence.

L’uomo aveva acquistato un ombrellone a palo decentrato, il palo in alluminio grigio sormontato dal telo in poliestere bianco, che durante i pomeriggi assolati irradiava una luce abbagliante verso l’aria ferma attraversata soltanto da moschini e zanzare; ecco la prova che le indicazioni del libretto di istruzioni – trattamento di protezione anti UV – erano vere, il telo attirava tutta la luce disponibile che rimbalzava via, il telo proteggeva l’uomo, scacciava altrove calura e raggi ultravioletti, mitigando la temperatura percepita. 

Il braccio laterale permetteva di inclinare l’ombrellone in rapporto alla posizione del sole, assicurando l’ombra e un po’ di frescura anche nelle giornate più torride. 

Bastava che l’uomo si alzasse dal lettino per girare la manovella, e quei giri di manovella, giorno dopo giorno, avevano segnato l’estate come il sottofondo di un motivetto orecchiabile, e la luce era mutata con il passare delle settimane e in particolare all’inizio di settembre, quando il buio aveva conquistato tre o quattro minuti di ogni giornata, occupazione sottolineata dal cigolio della manovella, segnale della fine di stagione.

E tuttavia la temperatura, anche a settembre, rimaneva al di sopra della media; il prato artificiale del giardinetto – in polietilene e polipropilene – scottava le piante dei piedi, l’uomo passava il tempo sdraiato sul lettino o seduto all’ombra, su una delle due sedie in teak, i piedi appoggiati al tavolino abbinato, lo smartphone tra le mani, la testa china verso il piccolo schermo. Forse l’uomo sentiva la mancanza della moglie, una coetanea con la quale si era sposato una decina di anni prima; dal loro matrimonio erano nate due bambine, una di dieci anni e l’altra di dieci mesi. 

A settembre, la moglie e le figlie erano ritornate in città, ma durante i tre mesi precedenti la donna era andata in spiaggia assieme alle bambine. L’uomo invece non era mai andato in spiaggia, era rimasto nel suo solito spazio ricavato in un angolo del giardinetto, e nessuna delle figlie si era chiesta come mai il padre non andasse in spiaggia, nemmeno la più piccola aveva ripetuto, pa-pa, allungando le braccia verso l’oggetto del suo amore. 

I giorni settembrini erano passati senza le discussioni dei mesi precedenti, discussioni che l’uomo aveva sostenuto con la moglie stremata dalla sua presenza continua nel giardinetto. I litigi avvenivano sulla soglia tra il giardinetto e i settanta metri quadrati, in corrispondenza dello stipite della portafinestra che metteva in comunicazione il soggiorno con il giardinetto; quel punto della casa, osservato dalla finestra di uno dei vicini, era coperto dalla presenza di due albicocchi, che con le loro foglie occultavano l’origine delle discussioni coniugali, come se il tono sempre più alto delle voci, le accuse reciproche, gli insulti, le bestemmie – ripetute per lo più dalla donna, e non dall’uomo – fossero un elemento naturale, il frutto generato da quello stesso venticello che smuoveva le foglie verdi in accordo alle parole, prima della caduta autunnale. 

Ma nonostante fosse settembre, l’autunno pareva ancora lontanissimo, l’uomo si distendeva sul lettino, alternando la visione dello smartphone a una consultazione molto accurata, un’ispezione, del proprio corpo, quasi che il corpo osservato non fosse del tutto suo: il corpo tatuato sulle braccia, sulle gambe, e forse anche in corrispondenza delle caviglie; si scrive forse poiché, osservato dalla finestra di uno dei vicini, erano visibili soltanto il volto, il busto, le gambe fino alle tibie; i malleoli e i piedi erano preclusi allo sguardo. 

L’uomo si difendeva dalla luce con i Rayban da aviatore, la montatura dorata, le lenti blu, che a seconda della torsione della testa ricordavano il mare calmo e cristallino di un dépliant pubblicitario, o l’imbrunimento pomeridiano reale, tipico dell’alto Adriatico.

Il taglio di capelli era simile a quello di molti calciatori: corti, ma non troppo, sulla parte superiore della testa; sfumati sulle tempie e sulla nuca. Un taglio banale ma molto curato, incongruo per un uomo che, all’apparenza, era rimasto chiuso in casa almeno tre mesi. Forse l’uomo aveva ricevuto a domicilio un parrucchiere, che gli aveva sistemato i capelli in soggiorno. 

A settembre, rimasto solo nel vuoto ancora assolato, forse l’uomo sentiva la mancanza della famiglia: dal lettino non vedeva più la figlia maggiore, non vedeva la moglie girare attorno al perimetro del giardinetto spruzzando, con la piccola in braccio, insetticida contro le reti e le siepi divisorie, mentre la bambina indirizzava la mano verso il getto di veleno, credendo fosse un gioco. 

Forse l’uomo sentiva la mancanza delle bestemmie coniugali, la pienezza delle urla domestiche. Quando litigavano, l’accento di entrambi era un miscuglio di Nord e Sud, ma, a seconda dei picchi di intensità, una delle due zone geografiche prendeva il sopravvento; lei, in particolare, aveva un accento bolognese, eppure nell’incrinatura della voce, durante i litigi, rivelava un’inflessione segreta, custodita dentro di sé: un Sud generico, televisivo, blasfemo, le due inflessioni trovavano l’equilibrio perfetto soltanto quando la donna bestemmiava; ecco che allora, il suo banale e personalissimo dio porco, il suo banale e personalissimo dio cane, il suo ancor più banale e personalissimo e sostitutivo dio canta, non erano più davvero soltanto suoi: erano l’Italia, la nazione.

In una calda serata di metà settembre, l’uomo era rimasto da solo al buio, nel giardinetto a stento illuminato dalla luce gialla di una lampada. Oltre alla moglie e ai figli, tutti gli altri villeggianti avevano lasciato il residence. O almeno, così credeva l’uomo, sprofondato nella sedia in teak. Aveva scritto una serie di messaggi, poi era andato in bagno, aveva aperto il rubinetto dell’acqua e composto un numero di telefono azionando il vivavoce, tanto che il pigiare sui numeri si era avvertito in tutta la porzione del residence, così come la voce della moglie. All’inizio la voce non era sembrata proprio quella della moglie, e non soltanto a causa della differente percezione tra una voce ascoltata dal vivo e una voce ascoltata tramite un apparecchio che, grazie alle finestre spalancate a causa del caldo anomalo, rimbombava ogni sillaba, provocando la leggera distorsione rispetto all’originale; la voce della moglie era sembrata diversa anche a causa del tono; la conversazione, infatti, era molto affettuosa, intervallata da continui amò, ripetuti sia da lei sia da lui; quelle loro schermaglie amorevoli erano destabilizzanti, sembravano senza lingua, senza città, senza origine, senza destinazione: parole incuneatesi dentro gli apparecchi, al momento della fabbricazione.

L’affetto telefonico si era alternato a consigli pratici e i consigli pratici avevano riportato la coppia nel mondo.L’uomo aveva chiesto alla moglie delucidazioni a proposito della procedura relativa al suo rientro a casa, in città. Aveva ricevuto una lettera grazie alla quale era autorizzato a uscire dalla casa al mare. Era agli arresti domiciliari, portava il braccialetto elettronico alla caviglia.

La conversazione tra i due coniugi era durata ventisette minuti passati dall’uomo sotto la doccia, un getto di cui si era percepito lo scroscio molto forte, che dalla schiena dell’uomo scendeva verso lo scarico, e forse la donna aveva ripetuto più volte le stesse raccomandazioni poiché la conversazione era stata disturbata dall’acqua entrata nelle orecchie dell’uomo, il quale, non è da escluderlo, teneva gli occhi socchiusi o chiusi, quasi per difendersi dalle parole della donna, e dall’acqua. 

Il 10 aprile 2023, Lunedì dell’Angelo, mi è tornata in mente la storia che ho scritto qua sopra. Avevo un dolore molto forte alla caviglia sinistra. Non riuscivo a camminare o ad appoggiare il piede a terra, e anche restando immobile e sdraiato la caviglia era attraversata da una serie di fitte dolorose, sia al malleolo laterale, sia al mediale. Sono rimasto a letto, non riuscivo a leggere, a scrivere, non riuscivo a guardare un film o un po’ di sport. Guardavo il piede adagiato su due cuscini, il gonfiore doloroso, espanso al di là del mio stesso corpo, e allora ho ripensato al braccialetto elettronico dell’uomo. 

Se l’uomo avesse avuto il mio stesso problema fisico, non avrebbe potuto indossare il braccialetto elettronico. La caviglia era così gonfia che il braccialetto elettronico si sarebbe trasformato in una tortura. Forse la pressione tra il gonfiore e la stretta del dispositivo avrebbe spaccato il braccialetto elettronico, trasformando l’uomo in un evaso. Dovevo avere qualche linea di febbre mentre pensavo alla storia dell’uomo, e mi rimbombavano in testa, a distanza di una decina di mesi, le bestemmie della donna, e, soprattutto, il suono dell’acqua, ventisette minuti di doccia durante una calda serata di settembre. Quanti litri d’acqua servono per una doccia di ventisette minuti? Quanti minuti dura la doccia in un carcere? Quale tipo di reato aveva commesso l’uomo? Furto? Truffa? Ricettazione? Spaccio di droga?

Sette giorni dopo il Lunedì dell’Angelo, ho acceso riluttante l’auto per andare al supermercato e ho guidato con più prudenza del solito, rimpiangendo di non avere il cambio automatico. Ogni volta che premevo la frizione, sentivo una fitta al malleolo, come se avessi qualcosa attorno alla caviglia, qualcosa che appesantiva, indolenzendo non solo il malleolo, ma anche tibia e perone; cambiavo marcia e mi ritornava in mente l’uomo agli arresti domiciliari e quello che ripetevo a proposito dello sguardo nella scrittura: ovvero quello che mi capitava da ragazzo, allorquando, dopo una partita amatoriale di basket, sentivo un dolorino al polso, e ogni volta che cambiavo marcia, quel dolorino si trasferiva dal polso allo sguardo, e influenzava il modo in cui fissavo ciò che accadeva al di là del parabrezza, la mia percezione. 

Stavolta l’epicentro del dolorino era in basso, vicino alla frizione, ma non era un dolorino, era un dolore in potenza lancinante, appena sotterraneo, pronto a manifestarsi.

Ho fatto la spesa e all’uscita, mentre spingevo il carrello nel parcheggio, ho sentito una fitta, che mi ha costretto a una smorfia e ad appoggiarmi al carrello. Ho iniziato a zoppicare trascinando il carrello dalle rotelle cigolanti verso l’auto parcheggiata. Ho sollevato lo sguardo e notato che, accanto a un’auto a pochi metri dalla mia, era fermo un cinquantenne, mi fissava molto interessato alla zoppia e alla mia smorfia sofferente. 

Ho ricambiato lo sguardo, sapendo che nel suo interesse non c’era nulla di caritatevole. Mentre caricavo la spesa nel bagagliaio, è arrivato un vigilante del supermercato e l’uomo interessato alla mia zoppia è andato via. Sono uscito dal parcheggio e, sul bordo della strada, c’era l’auto dell’uomo, ferma, i finestrini abbassati. Anch’io ho abbassato i due finestrini, avevo caldo. Al mio passaggio ho sentito un forte botto, tipico dei ladri-truffatori che da anni usano questo metodo in tutta Italia. Di solito lo usano con anziani e anziane, o con persone fragili. A volte funziona. 

Secondo il truffatore, ero una persona fragile. Dopo il botto si è accodato a pochi centimetri, poi si è accostato mentre procedevamo a trenta all’ora, ha urlato insultandomi, accusandomi di essere la causa del botto. 

Gli ho detto, senza urlare e accelerare, senza chiudere il finestrino: non rompere il cazzo. 

E gli ho mostrato il telefono. È schizzato via, veloce, e nella svolta seguente ha messo la freccia per girare a sinistra, e ho resistito alla tentazione di fotografare la sua auto da dietro, la sua freccia ineccepibile e lampeggiante, non volevo distrarmi alla guida utilizzando il telefono. Bene, ho pensato al semaforo successivo, ecco due cittadini modello, questa è educazione stradale. 

Quando sono ripartito, ho premuto il pedale della frizione e sentito riacutizzarsi la fitta alla quale non avevo mai pensato durante quei pochi secondi precedenti.

Quest’anno, l’uomo al mare non è più agli arresti domiciliari. Dal lunedì al venerdì è fuori casa. La prima figlia ha undici anni, la madre la accusa di non prendersi cura della sorellina, le ripete, ha due anni. A volte, ripete, ha due anni, dio cane. 

Un giorno, rivolgendosi alla bambina più piccola, ha detto, hai due anni di merda. 

La madre sembra identica a ciò che era l’anno scorso: magra, tatuata, abbronzata, proprio come il padre. Non ha perso l’abitudine di urlare e bestemmiare circondata da oggetti costosi, ma a differenza dell’anno scorso urla e bestemmia soprattutto dal lunedì al venerdì, quando il marito è assente. Non ha perso nemmeno l’abitudine di spruzzare l’insetticida contro le reti e le siepi divisorie; prende la figlia in braccio, agita prima dell’uso la bomboletta multinsetto, la bomboletta color fucsia adatta a ogni tipo di insetto, volante e strisciante: spruzza, spruzza, spruzza, spruzza, gira lungo il perimetro come le lancette, il meccanismo di un orologio che si prende tutto il tempo per agire meglio, per uccidere meglio. La figlia minore forse ha capito il senso dei gesti materni ma vuole partecipare fingendo che sia un gioco, e in quell’oscillare tra verità e menzogna sta la perdita di innocenza. La madre inclina la bomboletta spray verso il male invisibile. Quando spruzza nell’aria diffonde una piacevole fragranza fresca, tace e ha il volto rasserenato.

Elimina anche gli insetti che non vedi.

Dal giorno del Lunedì dell’Angelo ho smesso di correre, ignoro quale sia la causa del problema e non voglio saperla: posso solo camminare, conscio che il dolore stia sottotraccia, pronto a manifestarsi anche quando non corro. 

Eppure quanta soddisfazione dopo il tentativo di truffa subito fuori dal supermercato: in quei pochi metri alla guida non ho sentito alcun dolore, non ho sentito più niente, non sapevo nemmeno chi fossi e dove mi trovassi. 

Talvolta, a piccole dosi, un po’ di odio fa bene.

ARTICOLO n. 56 / 2023

QUASI ZERO

in memoria di g. detto p.

All’inizio di questa primavera è morto un uomo di novant’anni. È stato uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento e dei primi ventitré anni del nuovo millennio, sebbene non abbia mai pensato di essere un rivoluzionario. Il suo stile di vita, se fosse stato diffuso in tutto il mondo e soprattutto in Occidente, forse avrebbe cambiato le sorti del pianeta, ma il suo stile di vita era eversivo, inaccettabile proprio per l’Occidente.

L’uomo era nato e cresciuto nell’hinterland sudovest di Milano, quando hinterland esisteva come parola ma non ancora come zona periferica estesa intorno alla città. 

Negli anni Sessanta, la cittadina nella quale l’uomo viveva offriva tutto ciò di cui un essere umano, nel Novecento, necessitava: case, scuole, un ospedale, fabbriche, uffici, autobus, treni, campi coltivati, cascine, orti, un mercato trisettimanale, supermercati, sedi di partito, circoli dopolavoristici, bocciofile, campi da calcio, una piscina, una biblioteca.

L’uomo aveva conosciuto una coetanea, si era fidanzato e sposato. La moglie faceva la casalinga, non si sa se per scelta, poiché in quel periodo era abbastanza semplice trovare un lavoro. L’uomo lavorava come operaio in un’azienda che produceva lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, scaldabagni e altri elettrodomestici.

Il loro primo e unico figlio era nato nel 1962. La coppia viveva in affitto, all’ultimo piano di una palazzina di quattro. Era una di quelle palazzine senza ascensore, costruite negli anni Cinquanta, l’intonaco beige, le tapparelle nocciola, le finestre al piano terra con affaccio sulle auto parcheggiate rasente il muro condominiale, e i piccoli balconi punteggiati dalle tende blu, rosse, verdi, indispensabili durante i mesi estivi. 

Una vita condominiale tranquilla, vivacizzata soltanto dalla musica che il vicino di casa ascoltava a un volume ritenuto, dall’uomo, troppo alto. Allora l’uomo percorreva due metri sul pianerottolo e bussava alla porta del vicino. Preferiva bussare al posto di suonare il campanello: forse in quella scelta, che prevedeva l’uso di una parte del proprio corpo, sentiva una intenzionalità, una responsabilità, un rigore morale. 

E tuttavia, al tempo stesso, si infastidiva poiché doveva bussare forte, picchiare le nocche su quel legno modesto, rivaleggiando, nella scala del rumore, con le canzoni di Mina, Celentano, gli acuti di tutta la musica leggera italiana. 

Il vicino apriva la porta e dopo i rimproveri abbassava il volume, per il quieto vivere. A volte, invece, non si alzava dalla poltrona: riconosceva il suono delle nocche sulla porta e abbassava il volume, lasciando all’uomo la sensazione che tutto fosse una specie di allucinazione prodotta dalla sua mente, dal suo battito accelerato davanti alla porta di un estraneo.

L’uomo considerava il vicino amante della musica leggera come qualcosa di vago, un giovane, un giovanotto, o meglio, un giovinotto, sebbene il vicino avesse soltanto quattro anni meno di lui. 

Dopo un decennio in affitto, la coppia aveva deciso di acquistare un appartamento al quinto piano di un palazzo di nove. Il figlio avrebbe avuto una stanza tutta per sé. 

L’uomo lavorava in un’azienda solida, le pubblicità delle lavatrici e delle lavastoviglie apparivano su alcuni quotidiani, a volte perfino sul giornale del Partito Comunista Italiano. L’uomo non comprava mai il giornale del Partito Comunista Italiano: non era comunista, ma anche qualora fosse stato comunista, non avrebbe comprato il quotidiano del Partito Comunista Italiano; se fosse stato socialista, non avrebbe comprato il giornale del Partito Socialista Italiano, e se fosse stato democristiano non avrebbe comprato il quotidiano della Democrazia Cristiana. L’uomo aveva uno stipendio dignitoso, ma comprava pochissime cose, evitava di lasciarsi sedurre dagli slogan e dalle esigenze indotte dalla pubblicità. La pubblicità degli elettrodomestici prodotti dall’uomo esaltava la qualità di lavatrici e lavastoviglie, arrivando a sostenere: Danno rilievo alla vostra personalità.

La coppia aveva acquistato l’appartamento, l’aveva arredato in modo frugale, comprando pochi mobili e gli elettrodomestici indispensabili – il frigorifero e la lavatrice – ma non la lavastoviglie, sebbene la producesse proprio l’uomo lavorando alla catena di montaggio. E invece, dopo cena, l’uomo lavava i piatti, anzi, pretendeva di lavare i piatti: dopo otto ore di lavoro in catena di montaggio, amava riempire il lavandino di detersivo e immergere le proprie mani nell’acqua calda mimetizzata nella schiuma bianca, per allontanare e dimenticare – nel calore che diventava molto in fretta tepore e freddo in pochi minuti – il motivo per cui aveva passato tutte quelle ore dentro la fabbrica. Una lavastoviglie, invece, glielo avrebbe ricordato sempre.

Del resto, come anticipato all’inizio di questo omaggio a uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento, l’uomo si era distinto per la frugalità quasi assoluta, che rasentava il fanatismo mistico, se soltanto l’uomo fosse stato incline al misticismo religioso. 

Non aveva mai voluto prendere la patente di guida e quindi non aveva mai comprato un’automobile. La distanza dalla casa alla fabbrica era di 1300 metri. L’uomo percorreva quel tragitto quasi sempre in bicicletta, a volte a piedi, impiegando, a seconda della scelta, quattro o sedici minuti. Usava la bicicletta in qualsiasi stagione dell’anno, quando pioveva pedalava proteggendosi con un ombrello; qualora nevicasse, davanti a una decina di centimetri sull’asfalto decideva di andare al lavoro a piedi. Indossava la tuta da operaio fornita dall’azienda, un giubbotto blu in autunno-inverno, e calzava scarpe antinfortunistiche. 

In primavera-estate, non appena tornava a casa scendeva nel proprio orto. L’uomo coltivava un piccolo pezzo di terra ricavato nel campo adiacente al condominio: lattuga, pomodori, zucchine, melanzane. Indossava un paio di jeans, una canottiera bianca, e calzava sandali di plastica, marrone, quel tipo di sandali che abbiamo visto in luoghi marini fin da quando siamo nati, quasi sempre di colore rosso, e invece l’uomo li aveva acquistati marroni, forse perché marroni, di plastica, non li voleva nessuno. 

Cenava presto, verso le 18.30, poiché dopo aver lavato i piatti scendeva in cortile – di lunedì, mercoledì e venerdì – per occuparsi del giardino condominiale. È un mistero immaginare cosa pensasse mentre fissava l’acqua uscire dalla canna. A volte ripeteva frasi che sembravano originati da un discorso rimasto incastrato nella propria mente e centellinato da un gocciolare in dialetto milanese.

Incoue (oggi). E poi taceva.

Vegna chi (vieni qui), come se parlasse a un insetto che gli girava intorno disturbandolo, come se parlasse all’aria, a una parola. E poi taceva.

Giüga no a la bala (non giocare a pallone). E poi taceva.

Il sabato, una volta al mese, tagliava l’erba del giardino condominiale. Non è chiaro se lo facesse per guadagnare qualcosa oltre allo stipendio. In quel periodo storico, un operaio guadagnava abbastanza per mantenere una famiglia di tre persone. 

L’amministratore condominiale era contento della sua disponibilità. Quando la fabbrica di elettrodomestici chiudeva per ferie – quattro settimane in agosto, come era consuetudine in quegli anni – l’uomo non andava in vacanza. Si alzava all’alba, pedalava per sette chilometri e raggiungeva la sponda del fiume. Se andava bene pescava alborelle, un paio di trote, tornava subito a casa, la moglie cucinava il pesce. Dopo pranzo l’uomo abbassava a tre quarti la tapparella della camera da letto e si addormentava in penombra. 

A differenza della maggioranza degli altri condomini, non aveva montato sul balcone le cosiddette veneziane, quei serramenti di listarelle verdi, di plastica, collegate da nastri e orientabili in modo da variare il flusso luminoso. Non aveva acquistato nemmeno un piccolo ventilatore. Usufruiva della corrente d’aria fresca generata dal lasciare aperte tutte le finestre. Quando si alzava, beveva un caffè con la moglie e andava nell’orto. Innaffiava utilizzando l’acqua di una roggia che scorreva a pochi metri. 

Dopo cena, lavava i piatti, scendeva in cortile tre volte alla settimana, per innaffiare il giardino condominiale.

Può sembrare noioso passare così le quattro settimane di ferie, o meglio, la vita; eppure le quattro settimane di ferie passavano davvero in fretta, proprio come novant’anni, proprio come la vita; e a settembre ricominciava il lavoro alla catena di montaggio delle lavastoviglie. 

In autunno e in inverno, l’uomo indossava il giubbotto blu sopra la tuta da operaio. La moglie, quando usciva per andare al mercato o al supermercato, indossava un giaccone e calzava scarpe basse stringate. Difficile dire se, almeno all’inizio del matrimonio, avesse desiderato un altro stile di vita; difficile dire se la sobrietà rivoluzionaria dell’uomo fosse condivisa e incentivata dalla moglie casalinga, oppure se la donna subisse le scelte estremiste del marito. A ogni modo, la donna usciva quasi sempre in bicicletta, una Graziella con la quale ritornava a casa traballante, poiché infilava due sacchetti della spesa ai lati del manubrio.

A differenza di molti operai, che si indebitavano per acquistare a rate la pelliccia desiderata dalle mogli, desiderata da loro stessi per avere una moglie impellicciata, l’uomo non aveva mai comprato una pelliccia.

Eppure avrebbe potuto subire le pressioni sociali, le convenzioni conformiste che, nelle giornate festive e prefestive si manifestavano in modo evidente. Capitava che la coppia uscisse di sabato pomeriggio nel centro della cittadina, proprio come altre coppie. 

Nel centro affollato incontravano anche i colleghi dell’uomo, operai e impiegati che passeggiavano assieme alle mogli impellicciate: pellicce per lo più di opossum, ma non mancavano, tra gli impiegati, chi aveva scelto la pelliccia di volpe bianca, e non mancavano, tra i capireparto, chi aveva scelto, per distinguersi sia dagli operai sia dagli impiegati, una pelliccia di visione. Ecco allora che le parole ascoltate durante la pausa pranzo – opossum, volpe, visone – avevano un senso, in particolare opossum, che l’uomo identificava con un desiderio più accessibile di altri, un desiderio che, a maggior ragione, riteneva superfluo.

Eppure, nonostante la parata di animaletti uccisi che si muovevano lenti o stazionavano davanti alle vetrine dei negozi, l’uomo non aveva mai ceduto, e la donna neppure: avanzano in quella carneficina stretti nei loro giacconi di panno.

La domenica, nessuno dei due andava a messa, sebbene avessero seguito i normali riti cattolici: si erano sposati in chiesa, avevano battezzato il figlio, lo avevano mandato a catechismo per la comunione e poi per la cresima.

Il figlio nei primi anni di vita si era adeguato allo stile di vita austero imposto dal padre, ma già durante le scuole elementari aveva sperimentato quanto fosse difficile confrontarsi e competere con le vite degli altri: nessuna vacanza al mare, in montagna, nessuna immersione, nessuna camminata, nessuna nuova città, nessun monumento, nessuna avventura vacanziera da raccontare, e crescendo, nessuna nuova ragazzina incontrata al mare, in montagna. E così, dopo la terza media, forse per allontanarsi dallo stile di vita imposto dal padre, il figlio aveva deciso di abbandonare gli studi. Era andato a lavorare come operaio in una piccola fabbrica, molto più piccola di quella in cui lavorava il genitore. Aveva comprato un motorino, un Garelli. È plausibile credere che il padre si fosse opposto all’acquisto, ma così come aveva accettato la decisione del figlio di interrompere gli studi, allo stesso modo aveva accettato l’acquisto del Garelli. E tuttavia aveva imposto alcune restrizioni: il figlio poteva guidare il Garelli soltanto di sabato e domenica, non poteva usarlo durante la settimana. Il figlio andava al lavoro in bicicletta, proprio come il padre.

Quando era diventato maggiorenne, il figlio aveva pensato di comprare un’auto, e il padre non si era opposto. Il figlio aveva scelto una Fiat Ritmo, ma il padre, ancora una volta, aveva imposto di non utilizzare l’auto durante la settimana, e il figlio, benché fosse maggiorenne, aveva obbedito. 

Padre e figlio continuavano ad andare al lavoro in bicicletta. 

L’azienda di elettrodomestici non andava bene come dieci, vent’anni prima. L’azienda era stata acquisita da un’azienda più grande che aveva pianificato molte acquisizioni in Italia e all’estero, e come un impero troppo smanioso di ingrandire la propria influenza, alla fine era crollata, trascinando con sé le aziende controllate. 

L’uomo aveva fatto appena in tempo ad andare in pensione. Il figlio si era sposato e il padre, grazie alla liquidazione, aveva aiutato il figlio a comprare una villetta.

L’uomo aveva continuato a vivere come nei decenni precedenti, se si eccettua la libertà conquistata andando in pensione dopo trentacinque anni di fabbrica.  

Nessuna vacanza. La pesca. L’orto. Poi aveva smesso di coltivare l’orto e di pescare. Usciva in bicicletta un paio di volte al giorno. Fino a novant’anni. 

Come a volte capita in questi casi, marito e moglie sono morti a distanza di pochi giorni.

Qualche settimana fa ho visto un trentenne davanti al condominio, stava appendendo un cartello, l’annuncio di un’agenzia immobiliare con la scritta vendesi. 

Poteva essere l’appartamento acquistato dalla coppia mezzo secolo prima, l’appartamento che il figlio ha deciso di vendere; forse il figlio ha perlustrato la casa arredata come cinquant’anni fa, la cantina quasi vuota, il garage quasi vuoto, se si eccettuano le due biciclette dei genitori.

Sarebbe troppo facile equiparare lo stile morigerato di quest’uomo e di questa donna con quello di molte persone più o meno giovani che si preoccupano delle sorti del pianeta; persone che, in pochi anni di vita, hanno prodotto più CO2 di quanta ne abbia prodotta quest’uomo in novant’anni di esistenza.

Ha usato la stessa bicicletta negli ultimi cinquant’anni. Non ha mai preso un aereo. Mai una nave. Mai un autobus. Mai un treno. Non ha mai guidato un’automobile. Non ha mai usato il Garelli del figlio. Lo hanno trasportato sull’ambulanza che lo ha condotto in ospedale. Lo hanno trasportato sul carro funebre che lo ha condotto al cimitero. 

Ha vissuto novant’anni, in Occidente, muovendosi dalla casa alla fabbrica in bicicletta o a piedi, come un cinese del Novecento di Mao, ma resistendo a molte più tentazioni. Se tutti gli abitanti dell’Occidente novecentesco avessero adottato il suo comportamento, forse ci sarebbe stata una disoccupazione di massa. Ignoro quanto sia desiderabile una vita come la sua. Ignoro quanti miliardi di persone sarebbero disposte a vivere come lui. 

E chissà se uno stile di vita come il suo avrebbe potuto salvare il pianeta. 

Alle scuole elementari, la maestra ci aveva portato a visitare la fabbrica di elettrodomestici. Avevo visto l’uomo concentrato lungo la catena di montaggio, senza che potesse sollevare lo sguardo. Come capita quando una scolaresca visita un luogo con intenti pedagogici, anche la catena di montaggio si era fermata per alcuni istanti. L’uomo aveva sollevato la testa e, riconoscendomi, aveva abbassato lo sguardo, colpito dall’assenza di rumore, dal silenzio artificiale coperto dalle voci di chi ci accompagnava. Credo che non fosse contento di essere esposto a un gruppo di bambini, e in particolare, a me, che lo conoscevo. Una sorta di pudore per la propria condizione, per la mia impudenza infantile che immaginava di poter guardare tutto, di avere davanti ancora tanto tempo, di essere lì, nel 1974, fuori dal tempo, poiché perfino il tempo produttivo si era inchinato per qualche istante all’afflato educativo; poi i macchinari erano ripartiti, avevo fissato l’uomo e non mi era sembrato più lui, come se il rumore in sottofondo e i gesti necessari componessero un’altra persona, e non l’uomo che innaffiava l’orto, il giardino condominiale, l’uomo che non desiderava nulla. 

Mi ero allontanato assieme al resto della classe, ero bambino e mi sentivo mortale, avevo guardato i miei compagni, le mie compagne: bastava poco, per non essere più noi, mezzo secolo fa. 

ARTICOLO n. 37 / 2023

TRA ARTIFICIO E ARTIFICIO

A ripensarci sembra passato molto più tempo, forse perché l’interesse è durato pochi giorni, durante i quali, tuttavia, pareva non esistesse nient’altro. 

Era la fine d’autunno, un autunno mite che sarebbe diventato un inverno altrettanto mite; telegiornali, quotidiani, settimanali riproponevano le immagini di un uomo risalenti a un periodo estivo, immagini che suggerivano l’allestimento della felicità accaduta in estate.

L’uomo era ritratto spesso da solo. In una fotografia era pronto alla guida di una cabriolet. La fotografia era stata scattata da una posizione poco al di là dello specchietto retrovisore destro. La cabriolet era ferma in un parcheggio, l’uomo sorrideva e guardava davanti a sé portando le nocche della mano destra al mento incorniciato dalla barbetta chiara; i capelli sembravano di un biondo naturale, eredità degli anni d’infanzia; l’uomo indossava una maglietta blu della stessa tinta del sedile; due palme erano riflesse, rimpicciolite, nel parabrezza pulitissimo. Poteva essere la scena pubblicitaria di una qualsiasi merce: shampoo, auto, finanziamento a tasso agevolato necessario per acquistare un desiderio. 

E invece era la vita dell’uomo.

In altre fotografie l’uomo era in barca, navigava in un punto del Mediterraneo, la Grecia o l’Italia; erano selfie in costume, gli occhiali da sole con una montatura bianca, una catenella d’oro scendeva dal collo, il crocifisso d’oro adagiato sul petto; capitava che qualcuno scattasse le fotografie in barca, e allora l’uomo appoggiava una mano al timone; sullo sfondo, un’isola o un promontorio, il paesaggio allontanato da qualsiasi tentazione omerica: il mare blu, ancestrale, certo, ma la schiuma bianca a poppa era abbinata alla camicia altrettanto candida, le maniche arrotolate, i bermuda panna.

A volte l’uomo era in compagnia della donna con la quale aveva una relazione. Alcuni giornali hanno evidenziato la differenza d’età inserendola tra parentesi – (9 anni), (nove anni) – per sottolineare ciò che, di solito, è trascurato qualora un uomo abbia nove anni più di una donna. 

La donna ricopriva un’importante carica nel Parlamento Europeo; l’uomo, invece, lavorava come assistente di un parlamentare europeo. 

Nelle fotografie pubblicate, loro due, assieme, non comparivano mai durante le rispettive attività al Parlamento Europeo. Le immagini privilegiavano la vita quotidiana. Un po’ di vacanze, un selfie di coppia nel deserto o forse su una spiaggia così sabbiosa da sembrare un angolo di deserto; e poi lo shopping, la foto di una conversazione effettuata sui gradini di una scala, l’uomo stringeva il sacchetto contenente – a giudicare dal marchio impresso sul sacchetto – un costume da mare di alta qualità. La maison, fondata a Saint-Tropez nel 1971, “crea pezzi estivi per ogni istante e per ogni personalità. Che si tratti di costumi da bagno o short chic, questi costumi da uomo, di alta qualità esprimono sempre il motto senza tempo della maison: lusso, sole e libertà”.

Lusso, sole e libertà. In quest’ordine. Adesso, dopo alcuni mesi di prigione, l’uomo e la donna sono agli arresti domiciliari. L’uomo indossa il braccialetto elettronico, poiché, oltre alle fotografie della cabriolet, della barca, delle vacanze, dello shopping, sono arrivate le fotografie di valigie piene di soldi, di tavoli colmi di banconote suddivise a seconda del taglio: 10, 20, 50 (la maggioranza), 100, 200 euro. E tuttavia qui l’interesse non è investigativo e giudiziario, ma per un altro selfie dell’uomo. Un selfie vicino al punto in cui ho edificato l’immaginario luogo letterario di Cortesforza. 

Doveva essere pomeriggio. A giudicare dagli alberi carichi di foglie verdi sullo sfondo destro dell’immagine, è probabile che fosse un pomeriggio primaverile, e a giudicare dalla luce, è probabile che fossero le 17:30 di un pomeriggio d’aprile, e a giudicare dalla quantità di persone lungo la stradina agricola costeggiante il naviglio – stradina agricola che è considerata, in modo improprio, pista ciclabile – è probabile che fossero le 17.30 di una domenica d’aprile, una domenica d’aprile dalla meteorologia variabile. 

L’uomo indossava un maglione azzurro, di cotone, con lo scollo a V e un marchio indistinguibile a sinistra, poco al di sopra del cuore. L’uomo ha scattato il selfie restando sul bordo della stradina agricola, lungo la linea bianca continua. Alle spalle dell’uomo, un campo appena seminato, e in cielo, una nuvola gigantesca sopra i capelli biondi mossi dal vento. Il lato destro dell’immagine era riempito dal naviglio: in quel punto l’acqua è bassa e scorre placida. La vegetazione lungo l’argine era riflessa sulla superficie. Sfuocati, lungo la stradina agricola, a una cinquantina di metri alle spalle dell’uomo, alcuni passanti ignari, anonimi, una macchia finita sui giornali di tutto il mondo. La luce, nonostante la nuvola enorme nel cielo, consolidava la sensazione di un’esistenza serena, domenicale. E per quanto l’uomo fosse lo stesso delle foto in barca o alla guida della cabriolet, qui, nel selfie di Cortesforza, sembrava più giovane, un giovane uomo carico di promesse, quasi ragazzo, che voleva farsi un selfie attraversando i luoghi in cui è nato e cresciuto, luoghi così diversi da Bruxelles, dal Parlamento Europeo, dal timone di una barca nel Mediterraneo. 

Nel 2007, quando ho inventato Cortesforza, ho pensato a Elio Pagliarani. Come è noto Elio Pagliarani (1927-2012) era nato a Viserba, a pochi chilometri da Rimini. Ce lo ricordava lui stesso, nel testo Pagliarani Elio, pubblicato in Autodizionario degli scrittori italiani (Leonardo, 1990), ripubblicato nel 2019 da Il Saggiatore, in Tutte le poesie (1946-2011), a cura di Andrea Cortellessa. Leggiamo a pagina 475: «Romagnolo di nascita (…) Nel frattempo però il suo paese natale (Viserba di Rimini, 1927) non c’è più, è scomparso (…) Adesso non c’è più soluzione di continuità tra Rimini e Viserba, è tutto un Rimini Nord, tutto alberghi e pensioni, una zona balenare un po’ più popolare di Rimini centro, con ignoranza e presunzione rubiconde di benessere». 

Molti anni fa, ripetevo è tutto un Rimini Nord se mi smarrivo in svincoli caotici, o se infilavo le mani dentro lo zaino, alla ricerca, vana, di qualcosa; e allora è tutto un Rimini Nord, ovvero è tutto uno svincolo, una bretella, una rampa di raccordo, una rotatoria indistinta dalla quale è impossibile uscire.

Ho cercato la mia Rimini Nord sapendo che prima o poi sarebbe stata distrutta da una delle molte autostrade e superstrade lombarde. 

Cortesforza, plastico immobiliare, ridimensionamento della Storia – minuscola di Sforza unita a una corte inesistente – e luogo smemorato, di transito, luogo interstiziale di una comunità posticcia, appartenenza nello sradicamento; Cortesforza e la casa, unico bene, la casa e nient’altro, luogo nel quale non serve nemmeno più il desiderio della merce, poiché il luogo è diventato merce.

Ora, dentro quel luogo immaginario, la realtà sta per arrivare sotto forma di superstrada. La realtà asfalta la letteratura.

L’ubicazione del beneuscito per Einaudi nel maggio 2009, è il libro ambientato a Cortesforza. Dopo la seconda edizione, il libro non è più stato ristampato, da quattordici anni è reperibile solo in ebook. Forse, per essere coerente con quanto accadrà a quel luogo immaginario nella realtà, dovrei interrompere la pubblicazione anche degli ebook, in modo che Cortesforza scompaia.

In attesa di essere distrutto, il luogo immaginario di Cortesforza sarà ancora per qualche tempo un’area topografica precisa, la zona del selfie dell’uomo, il selfie finito su tutti i media d’Italia e del mondo. Per Cortesforza, in particolare, ho pensato a un campo ubicato a metà strada tra il condominio in cui ho vissuto – da bambino e ragazzino – e il ponte dove Michelangelo Antonioni ha girato, nel 1950, la splendida scena di Cronaca di un amore, durante la quale i personaggi interpretati da Massimo Girotti (Guido) e Lucia Bosè (Paola) progettavano l’omicidio del marito di Paola, laddove alcuni operai lavoravano, pochi metri più in basso –  a un centinaio di metri di distanza – all’interno del naviglio in secca. 

Il giorno in cui l’uomo si è fatto il selfie, il naviglio non era in secca. L’irrigazione di questa zona è un sistema di chiuse progettato, tra gli altri, da Leonardo da Vinci. Ma il reticolo di rogge, fossati e fontanili, risale all’opera dei monaci cistercensi francesi del XII secolo, le cosiddette marcite, terreni irrigati in permanenza: la temperatura dell’acqua protegge l’erba, che cresce anche nei mesi invernali, assicurando cibo fresco per gli animali.

I campi sono delimitati secondo un ordine millenario, costituito da filari di pioppi e da coltivazioni stagionali. I filari degli alberi, disposti lungo i fossati, appartengono a un criterio, a una trama, con al centro le cascine o ciò che resta delle cascine, le stalle dei pochi animali allevati, i fienili, le coltivazioni. 

L’armonia ereditata si percepiva alle spalle dell’uomo, ma tutto ciò che era alle sue spalle nel selfie già da molti anni è destinato alla distruzione, per trasformare quei luoghi agricoli in una superstrada diretta all’aeroporto di Malpensa; progetto ventennale eppure desueto, che tuttavia distruggerà un millennio di civiltà umana, distruggerà la terra per sostituirla con altri capannoni, altri centri commerciali, il vero obiettivo della superstrada: ciò che nella spietata lingua burocratica italiana, intrisa di gergo aziendale, diventa “valorizzazione massima delle aree infrastrutturali, comprese le aree connesse”.

Chissà come parla l’uomo del selfie a Cortesforza, quali sono i tic verbali, le parole abituali, cosa pensa della superstrada e della zona in cui è nato e cresciuto, la zona del selfie a Cortesforza. Di lui si conoscono soltanto le fotografie. Non ricordo un’intervista, una dichiarazione ai cronisti dopo un interrogatorio. Del resto, prima delle disavventure giudiziarie l’uomo esisteva nell’anonimato mediatico come assistente di un parlamentare europeo. L’uomo era uno di quei collaboratori senza nome, quelli che si notano appena al fianco dei politici durante le riunioni, collaboratori che suggeriscono qualcosa accostandosi all’orecchio. E tuttavia, l’uomo esisteva nel piccolo ecosistema del Parlamento Europeo in quanto fidanzato della donna che ricopriva l’importante carica in quella istituzione; forse, la disparità di posizione all’interno della coppia ha autorizzato i media italiani a dare, come sempre, il peggio di sé, senza che nessuno avesse qualcosa da dire, poiché le medesime dinamiche linguistiche, per molti decenni, sono state applicate alle donne, e allora le guardiane e i guardiani del linguaggio contemporaneo hanno taciuto, a proposito di: “il bel fidanzato”, “il biondo 35enne”, “il biondo 35enne istruttore di vela”, “scopatore inflessibile”, “Mister Europarlamento”, “il surfista dell’Idroscalo”, colui che “sogna di comprarsi una barca da emiro”. 

Ma questo appartiene alla tristezza passeggera italiana, sempre pronta a farsi ammaliare da una nuova tristezza, tristezza nazionale che distrae. 

Pensiamo invece alla tristezza definitiva, la fine di questa piccola parte del pianeta.

«Il popolo italiano è sempre stato un grande costruttore di strade perché è un popolo a tendenza universale. Le strade consolari che partivano da Roma e arrivavano fino agli estremi limiti del mondo conosciuto erano le strade sulle quali correva la grande civiltà. Esaltiamo il lavoro. Esaltiamo coloro che lavorano col braccio. Tutto il nostro Paese deve diventare un cantiere, un’officina». 

Così parlava Mussolini, in un giorno di marzo, nel 1923. Subito dopo aveva affondato il piccone nel terreno della campagna di Lainate, in modo che i fotografi potessero ritrarlo. Era la prima zolla del cantiere autostradale della Milano-Varese. 

Dopo il gesto dimostrativo, quattrocento sterratori armati di badili e picconi avevano iniziato a lavorare, i cavalli avevano trainato rimorchi carichi di frammenti di pietra provenienti da rocce un tempo compatte, quasi indomabili, che sarebbero divenute grani del catrame: era nata così l’Autostrada dei Laghi, considerata la prima autostrada del mondo.

È passato un secolo, l’inaugurazione di un’autostrada o di una superstrada contemporanea non è molto diversa da quella del settembre 1924. La banda suona l’inno nazionale. Le forbici d’oro tagliano il nastro tricolore. I fotografi urlano, presidente, per favore, si giri da questa parte, presidente, grazie! 

Eccolo, giacca e cravatta e casco da operaio dei cantieri, il politico contemporaneo, sottomesso alla retorica del nuovo e alla lingua del passato (“Tutti voi che siete qua, autorità tutte”) con l’aggiunta di un surrealismo deresponsabilizzante (“È l’asfalto che passo dopo passo è andato avanti”) e di anglicismi prelevati dalle aziende (“project financing”)

E così, a parte l’imbellettamento anglofono, le strade comunali e provinciali sono punteggiate di buche o rattoppi frettolosi, come se il potere, anche quello locale, attendesse una grande opera per occultare incuria, indolenza, incapacità.

Le grandi opere di questi anni italiani sanciscono il ritorno alla monumentalità che bilancia, in apparenza, la spinta inesorabile verso il frammento, la disintegrazione, la scomparsa. La massima visibilità, o niente. Chi ha voglia di occuparsi della manutenzione dell’ordinario, del piccolo? La grande opera è il potere esposto, il marchio, il logo dell’autorità. La grande opera, anche qualora sia banale ed equivalente ad altre, è riconoscibile, ma è sempre una riconoscibilità di cui si perde il senso originario. La grande opera rimanda, come tutti i marchi, a sé, conquista l’immaginario, la parola, e ammutolisce il resto. 

La superstrada anacronistica interesserà il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud Milano. La superstrada voluta dai politici – locali, regionali, nazionali – che più di tutti ripetono parole come radici, valori, tradizioni. È la lugubre destra italiana. Ma l’altra parte politica? L’altra parte politica, che amministra il Comune di Milano, dovrebbe occuparsi anche della Città Metropolitana di Milano coinvolta dal progetto della superstrada, e invece è disinteressata a tutto ciò che accade appena al di là dei confini cittadini, e si preoccupa che le auto non entrino in città per gratificare il sogno progressista del proprio elettorato: credere di trovarsi in una metropoli davvero internazionale.

E così, mentre il Comune di Milano ipotizza un limite di velocità di trenta chilometri orari, e pubblicizza la nuova edizione di Milano Green Week, “una manifestazione bella, ricca, partecipata (…) una manifestazione di play street sul modello del Parking Day”, ecco che a quindici chilometri dal confine comunale, nella Città Metropolitana di Milano, continuano gli espropri dei terreni delle aziende agricole, gli espropri di ettari ed ettari da asfaltare per la superstrada e ciò che seguirà: transito di camion e furgoni e auto che peggioreranno, se possibile, la già pessima qualità dell’aria più inquinata d’Europa; aria che peggiorerà anche dentro il capoluogo, poiché l’aria, per fortuna, non conosce confini.

È una visione molto simile a quella di Jovanotti. In un post su Facebook, del 10 agosto 2022, Jovanotti ha risposto a una lettera di Mario Tozzi, il quale, con toni molto accondiscendenti, aveva sottolineato alcuni aspetti negativi del Jova Beach Party. «Le spiagge dove suoniamo sono luoghi popolari sempre pieni di gente (…) fosse per me la spiaggia di Budelli (…) e simili andrebbero proprio rese inavvicinabili, tipo Gioconda al Louvre, guardare non toccare».

Ha ragione Jovanotti nel dire che sono luoghi popolari, anche se nessuno di quei luoghi sostiene, di solito, cinquantamila persone pigiate, che saltano e ballano in poche ore di concerto, senza contare il lavoro invasivo di preparazione e smantellamento, prima e dopo l’evento. 

È ovvio, un concerto di Jovanotti non è devastante come una superstrada.

Ma quella di Jovanotti – l’intoccabilità dei luoghi Gioconda a discapito di altri – è la stessa concezione contemporanea del paesaggio alla milanese, che propone un nuovo piatto, anzi, piattino: zolla alla milanese – biologica – coltivata all’interno dei confini comunali (meglio ancora se all’interno dei Bastioni).

Il problema non è soltanto l’uso dell’automobile, dei furgoni, dei camion, non è soltanto gli aerei che volano in questo cielo. È qualcosa di più profondo. L’occultamento del paesaggio, ciò che circonda la figura umana. 

C’è una centralità assoluta del personaggio ritratto, ma il personaggio contemporaneo è isolato dal contesto, si accontenta di essere il protagonista di un monologo che ha la consistenza di un coro stonato, in cui ognuno parla per proprio conto, diventando comparsa, rumore di fondo, come è accaduto all’uomo del selfie di Cortesforza.

Oggi è l’ultimo giorno di secca nel naviglio. Tra poche ore l’acqua tornerà, con una portata molto minore a causa della siccità, ma tornerà, come l’uomo del selfie di Cortesforza, quando finirà di scontare la pena. 

E tuttavia, oggi il naviglio è ancora in secca. Una giovane coppia, a una trentina di metri da me è appoggiata al parapetto di cemento. Apprezzo il loro impulso per nulla sentimentale – chissà se davvero consapevole o casuale – di sbaciucchiarsi presso l’incrocio di due canali vuoti. 

Il ragazzo estrae dalla tasca uno smartphone, i due si fotografano abbracciati, escludendo tutto il resto, il punto in cui arriveranno la superstrada e la campata del ponte di seicento metri che squarcerà Cortesforza. Si guardano nel piccolo schermo, poi fissano per qualche istante il vuoto, la realtà. Forse, liberate dall’immagine, le carezze della coppia racchiudono una speranza più forte dell’immediata gratificazione personale. 

«Predicano sempre il molteplice che sta alle loro spalle», avrebbe detto Zanzotto. Un tempo avrei detto, certo, la ricerca di un equilibrio tra artificio e natura.

Ora non più. È troppo tardi per quello.

La ricerca di un equilibrio. Tra artificio e artificio.

ARTICOLO n. 15 / 2023

RAGAZZO A CASO

Non guardo video di quel genere, ma volevo scrivere questo pezzo e allora non ho potuto esimermi. Ecco come è andata, almeno, dentro lo schermo. 
Prima del video su RepTv, però, uno spot pubblicitario esaltava i prodotti tipici liguri. 
La focaccia con il formaggio. Un po’ di dialetto – la fùgassa co formaggio – la musica rilassante in sottofondo, la constatazione, ancora dialettale, di quanto sia buona la focaccia ligure e l’invito finale – gusta anche tu la focaccia della Liguria con stracchino italiano – dell’azienda francese Carrefour: il marchio Terre d’Italia.
Poi, l’avvertimento.

Attenzione. Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità.

Forse le aziende che comprano gli spazi pubblicitari su RepTv o su CorriereTv li acquistano molto in anticipo, per ottenere un prezzo migliore. Acquistano spazi pubblicitari a pacchetti, ignare del contenuto trasmesso dopo il proprio prodotto. 

Un video che ritrae il tragico utilizzo di un’auto e la morte di due persone è un buon investimento commerciale per l’azienda Carrefour e il marchio Terre d’Italia? Oppure Manzoni Advertising, concessionaria di pubblicità esclusiva di Gedi Gruppo Editoriale Spa, in rapporto al video caratterizzato dalla morte di due persone, ritiene interessante proporre quello spazio a un certo tipo di azienda? 
Oppure, come spesso capita, è tutto casuale?
Per verificare quale azienda, oltre Carrefour, sponsorizza un filmato con due morti, ho visionato ancora il video, soltanto l’inizio, il giorno seguente: Mulino Bianco, Barilla. 

Forse la pubblicità, come la morte, ha stancato, la duplice morte ha stancato, e perfino la duplice morte causata da un’auto Tesla a guida assistita – benché sia un tipo di morte ancora poco diffusa, quasi inedita, la morte novità del mercato – ha stancato. 
Il video, dopo una settimana, non era tra i primi dieci più visualizzati.
L’incidente è avvenuto in Cina. Una Tesla Model Y – auto elettrica a guida assistita – di colore bianco ha accostato senza fermarsi del tutto, sul margine sterrato di una strada, la strada periferica di una cittadina nella provincia meridionale del Guangdong.
L’orologio, in alto a sinistra, segnava le 6:42.

A bordo della Tesla c’era soltanto il proprietario cinquantacinquenne. Un uomo in sella a uno scooter ha sorpassato l’auto. Allora la Tesla si è immessa di nuovo sulla strada. 

Un’altra telecamera ha mostrato la visione d’insieme: due palazzi, il dorsale di una montagna in lontananza. La Tesla è rimasta per un paio di secondi alle spalle dell’uomo in scooter, ha accelerato sfiorandolo in modo enfatico. L’uomo in scooter ha proseguito ignaro di quanto sia andato vicino all’essere investito e ucciso. 

La Tesla ha aumentato l’andatura, il tratto percorso è stato ripreso dalle telecamere posizionate ai bordi della strada e in prossimità degli incroci. A un incrocio, la Tesla ha sorpassato una monovolume bianca, poco dopo si è ritrovata davanti un’altra persona a bordo di uno scooter. Se la Tesla avesse schivato la persona in scooter sterzando come nel primo caso, è probabile che si sarebbe ribaltata, vista la velocità alla quale viaggiava. E invece ha investito la persona, colpendola alle spalle. Nell’inquadratura successiva, la Tesla è passata ancora a grande velocità, portando con sé un pezzo dello scooter o del proprio cerchione. Nell’inquadratura successiva, l’auto viaggiava a sinistra, pur essendo una strada a doppio senso di circolazione. Una persona, forse una donna, procedeva in bicicletta, poco al di là della banchina. È probabile che questa persona abbia visto sopraggiungere la Tesla fuori controllo e impaurita abbia tentato di scostarsi. Avrebbe potuto scostarsi di più, perché in quel punto c’erano almeno sei o sette metri di sterrato davanti alla saracinesca chiusa di un negozio. È probabile che la persona in bicicletta non abbia fatto in tempo, mai avrebbe immaginato che l’auto sopraggiungesse a una tale velocità. La Tesla ha preso di striscio la persona in bicicletta. Forse non l’ha presa di striscio. Forse l’ha solo sfiorata. Forse la persona, che ha tentato di rialzarsi, era traumatizzata. Forse la Tesla l’ha colpita quel tanto che basta per non ucciderla. Forse l’ha colpita quel tanto che basta per provocarle una lesione interna, un’emorragia lenta, ma letale. 

Le cronache dalla Cina riferiranno, oltre alla morte di un motociclista – credo l’uomo in scooter – di una persona morta in sella a una bicicletta. 

La Tesla è arrivata a un incrocio un po’ più trafficato. In mezzo all’incrocio, un piccolo camion carico di sabbia e, a sinistra del piccolo camion, un motocarro a tre ruote. Dietro il piccolo camion carico di sabbia, una ragazza in bicicletta. La Tesla ha colpito la parte anteriore destra del motocarro a tre ruote, distruggendolo. Ha sfiorato la ragazza in bicicletta che si è scansata per non essere colpita. L’impatto con il motocarro ha provocato la sbandata che ha condotto la Tesla a schiantarsi contro ciò che ha incontrato sul margine destro della strada: soltanto oggetti. Polvere, fumo sollevato, il cauto avvicinarsi di alcuni passanti, come se l’auto potesse ancora nuocere, anche immobile e semidistrutta. Illeso, o quasi, il conducente.

Tesla Model Y, accelerazione da 0 a 100 km/h in 3,7 secondi, ma è presumibile che, durante quel mezzo minuto di tragitto, l’auto sia andata molto più veloce. 

Dall’accelerazione allo schianto: la vecchia Cina, persone tranquille, in bicicletta; la Cina di ieri, persone tranquille, in scooter, sul piccolo camion carico di terra, sul motocarro a tre ruote; e infine il presente e il futuro, non solo della Cina, ma di tutti: monovolume bianca ferma all’incrocio, e auto a guida assistita, fuori controllo.

In questi anni è diventata abituale la definizione di auto a guida autonoma. Bisognerebbe capire il motivo per cui i media hanno insistito su questo concetto e non sulla guida assistita, che prevede ancora la partecipazione e la responsabilità umana. 

Il sistema di guida assistita, il cosiddetto Autopilot, era attivato o disattivato sulla Tesla Model Y in questione? Il 55enne cinese, cosa faceva, durante quei secondi? C’è stato un guasto meccanico? Un malfunzionamento del software o un banale guasto ai freni? Oppure, come sostenuto da alcuni, il 55enne cinese, ex-camionista proprietario della costosa automobile, ha confuso, preso dal panico, il pedale dell’acceleratore con quello del freno, visto che mai, durante il breve tragitto, i fanali posteriori si sono illuminati di rosso? È plausibile pensare che un ex-camionista, con milioni di chilometri percorsi alla guida di un camion tradizionale, possa disimparare come si guida, confondendo il pedale del freno con quello dell’acceleratore? 

Non sono i primi morti causati da un’auto a guida assistita. Una volta ho detto che se fossi uno scrittore infatuato di trame distopiche sarei un po’ in crisi. Alludevo alla morte di Joshua Brown, il primo essere umano deceduto il 7 maggio 2016 in un incidente stradale causato da un’auto a guida assistita. Non c’è già tutto nella follia che viviamo ogni giorno? Abbiamo davvero bisogno di spostare le storie un po’ più in là, nel tempo e nello spazio, per rappresentare un futuro-presente indesiderabile e angosciante, quasi per innalzare a qualcosa di grande e misterioso la banalità del nostro morire contemporaneo? Anni fa, in Ipotesi di una sconfitta, guardando un gruppo di persone nella sala fatiscente di un ambulatorio pubblico, a Milano, tutte con una benda sull’occhio dopo un intervento di cataratta, avevo definito quello che viviamo come “fantascienza dell’oggi pomeriggio”. Joshua Brown si era schiantato a bordo della sua Tesla contro un camion che attraversava un incrocio. L’Autopilot, benché attivo, non aveva riconosciuto la lunga e mastodontica struttura bianca che ingombrava il centro di quella strada in Florida. Joshua Brown non si era accorto poiché, secondo la polizia accorsa sul luogo dell’incidente, è probabile che stesse guardando un DVD di Harry Potter, dato che il lettore, anche dopo l’impatto, aveva continuato a trasmettere quel film. L’Autopilot non aveva riconosciuto la fiancata bianca del camion “sullo sfondo luminoso del cielo”, così aveva ribadito il comunicato Tesla, in un afflato lirico. Ribaltando la questione, potremmo dire che il cielo sopra una strada a scorrimento veloce in Florida ha il colore della fiancata di un camion lungo una ventina di metri: insomma, è simile al cielo milanese di Elio Pagliarani, “questo cielo colore di lamiera”, “questo cielo d’acciaio che non finge”. 

Ma le immagini scattate dall’auto stessa poco prima dell’impatto mostravano un cielo tipico dell’alba o del tramonto: infatti le auto che sopraggiungevano in direzione opposta avevano i fari accesi. 

Joshua (Salvatore inviato da Dio) Brown aveva sperimentato una nuova tecnologia automobilistica guardando il film di Harry Potter attraverso la tecnologia morente dei DVD, e così si era sacrificato per il progresso dell’umanità. 

Nel 2018, un’altra auto a guida assistita aveva investito una donna di cinquant’anni, Elaine Herzberg, la prima vittima pedonale. 

La morte di Elaine Herzberg ci rimanda all’incidente della Tesla Model Y in Cina e al quarto episodio di Quella bestia gigante che è l’economia globale, la docuserie con Kal Penn trasmessa da Prime Video.

Nell’episodio dedicato all’Intelligenza Artificiale, ci si chiede come debbano comportarsi le auto senza conducente in presenza di un ostacolo umano. 

Penn intervista Louis Rosenberg, dirigente dell’azienda Unanimous AI. Rosenberg stabilisce un legame tra la capacità dell’Intelligenza Artificiale nell’analizzare i dati, la conoscenza umana e l’unione tra le due intelligenze, unione capace di creare un’intelligenza superiore, o meglio, un’intelligenza collettiva, che trae ispirazione dagli stormi di uccelli, dai banchi di pesci, dagli sciami di api: animali che, in gruppo, pensano come fossero un tutt’uno. 
L’intelligenza del gruppo supera quella del singolo, sostiene Rosenberg.

Certo, ma allora, nel caso dell’essere umano, anche la stupidità del gruppo supera la stupidità del singolo che, anzi, può aumentare nascondendosi dentro la stupidità di gruppo, e più il singolo diventa stupido trincerandosi dentro il gruppo, più la stupidità collettiva del gruppo ne beneficia. 

L’azienda diretta da Rosenberg seleziona gruppi di persone, pone loro alcune domande alle quali rispondere sfiorando un tablet. Non è un vero e proprio sondaggio, è piuttosto l’azione di un piccolo magnete che, grazie alle anonime dita umane, appare sullo schermo e si sposta, spinto dal volere del singolo verso una delle possibili risposte, in modo che anche le altre persone possano vedere la dinamica di scelta. 
Questi incontri si chiamano swarm

Un’applicazione interessante, dice Rosenberg, è rappresentata dalle domande con implicazioni morali. Quale morale deve avere un’auto a guida assistita, definita, ahimè, anche nella docuserie, auto che si guida da sola?
Ammettiamo che l’auto non si fermi ma, finendo fuori strada, possa mettere a repentaglio la vita del passeggero e ucciderlo per salvare un bambino. 
È questo che vogliono davvero i produttori di auto? Salvare la vita di un bambino o preservare l’esistenza di un cliente che ha speso 100.000 dollari per quel prodotto? 

Certo, in teoria, le aziende vorrebbero privilegiare, nella progettazione e costruzione delle loro auto semi-indipendenti, valori umani che rappresentano un campione significativo della popolazione, del sentire comune, o almeno, ciò che farebbe una persona alla guida.
Allora Kal Penn, in accordo con Louis Rosenberg, propone un quesito a un gruppo di persone riunite in una stanza.

“Un’auto che si guida da sola non riesce a frenare in tempo e deve sterzare investendo uno tra sei diversi pedoni”.

1.   Un bimbo su un passeggino
2.   One boy (nella traduzione italiana scrivono ragazzino).
3.   One girl (nella traduzione italiana scrivono ragazzina).
4.   Una donna incinta
5.   Due medici uomini
6.   Due medici donne

Chi deve morire tra queste persone?

Ciascuno dei partecipanti manovra il cursore del tablet, il magnete al centro dello schermo, il magnete sospinto dal vociare in sottofondo, dal brulichio di manine digitali, che indirizzano il magnete verso la decisione. Oh my God, dice una voce femminile. Risate in sottofondo, una specie di giochino, di videogame.

E infine, l’esito, quasi unanime. 
Il prescelto è il ragazzino, o meglio, il ragazzo. 
Il ragazzo deve morire.

Analizziamo i pro e i contro delle alternative.

Il bimbo su un passeggino. Molti anni davanti a sé. È normale e umano salvare un bimbo su un passeggino. Certo, potrebbe diventare un fascistello che entra in una scuola armato e uccide a caso una trentina di studenti. Ma potrebbe essere anche colui che serve i pasti alla mensa dei poveri…

La donna incinta. Per alcuni giudici statunitensi sarebbe come uccidere due persone in un colpo solo. La donna incinta è più al sicuro del bimbo sul passeggino…

I due medici donne, i due medici uomini. Sono medici, possono salvare altre vite umane, possono salvare la vita del bimbo sul passeggino, della donna incinta e del nascituro…

La ragazza. È coetanea del prescelto, ma è di sesso femminile, e dopo secoli di discriminazioni, il sentire comune è pronto a salvare la ragazza al posto del ragazzo, sebbene in molte zone del pianeta le persone di sesso femminile siano più numerose delle persone di sesso maschile. 

È significativo il fatto che questo quesito sia stato posto negli Stati Uniti.

Nelle domande non c’è traccia di età precisa, né tantomeno di origine etnica o di classe sociale. Ma due medici donne e due medici uomini sono comunque un indizio sulla classe sociale di appartenenza. Eppure se questa domanda fosse stata rivolta ad alcuni abitanti di Fagnano Olona, Varese, ovvero a coloro che avevano manifestato ostilità alla nomina di un medico nero nato in Camerun, a tal punto da restare senza medico pur di non averne uno africano, ecco, credo che molti residenti di Fagnano Olona avrebbero salvato il ragazzo al posto del medico uomo, purché, beninteso, il medico fosse africano.

E così il ragazzo è sacrificabile. Un diciottenne, un ventenne. Uno qualsiasi. Ragazzo a caso. Aveva ancora molti anni davanti, più tempo dei medici. 

Questo filmato risale al 2018. Vista la situazione bellica perdurante dal febbraio 2022, e il desiderio guerresco diffuso in modo quasi unanime a un anno di distanza, è probabile che oggi ci sarebbero ancora meno esitazioni nella scelta. Sono soprattutto i ragazzi ad andare in guerra. Di solito, i ragazzi degli altri.

E se in guerra ci andasse tuo figlio? E se il ragazzo sacrificato dal gruppo fosse tuo figlio? E se la l’auto a guida assistita decidesse di ammazzare tuo figlio?
Torniamo all’incidente della Tesla Model Y e ricapitoliamo il comportamento dell’auto.

L’auto ha evitato, quando procedeva a velocità ancora ridotta, la prima persona in scooter; ha evitato il monovolume bianco fermo all’incrocio; ha travolto e ucciso la seconda persona in scooter, forse perché, ripeto, se avesse sterzato a quella velocità la Tesla si sarebbe ribaltata e avrebbe ucciso il passeggero-proprietario dell’auto; ha sfiorato la persona in bicicletta, forse uccidendola; ha travolto il motocarro a tre ruote; e infine si è schiantata. Tra tutte le varie opzioni, la Tesla ha evitato l’impatto più pericoloso per l’incolumità del passeggero-proprietario: lo schianto contro il monovolume. 

Forse, tra qualche anno, l’intelligenza collettiva riunita in una stanza potrebbe aiutare davvero i produttori di auto a guida assistita e l’auto sarà a guida autonoma. 

Forse, tra qualche anno, al posto del cinismo contemporaneo, una dimensione etica dedicata all’umano sarà prevalente e non minoritaria e derisa, come oggi. 
Ma a quel punto, cambiare la sensibilità di un’auto progettata anni prima, secondo i parametri del sentire comune attuale, sarà troppo costoso. 
E molte persone, anche le più sensibili e consapevoli, avvaloreranno la decisione aziendale ripetendo, sì, però, è un costo, è un costo, è un costo…
E allora lo scrittore infatuato di trame distopiche si rassegnerebbe, ma avrebbe già l’incipit del suo testo. 

Goditi il viaggio in tranquillità e sicurezza. La tua auto ha già ucciso venti ragazzi.

ARTICOLO n. 71 / 2022

ANDATA & RITORNO

Lo spaccio di droga riguardava soprattutto l’area metropolitana: zone centrali, semicentrali e periferiche, all’interno di parchi cittadini, attorno alle panchine, alle fontanelle d’acqua. L’area di spaccio era la piazza di spaccio.
I consumatori erano i drogati, per lo più giovani. Difficile immaginare un drogato trentenne: in quel periodo storico, un trentenne non era più considerato giovane; e inoltre, dopo una dozzina d’anni di eroina, i drogati o smettevano o morivano poiché, molto spesso, l’unico modo per smettere era morire.
I drogati raggiungevano i luoghi dello spaccio utilizzando tram, autobus, metropolitana; capitava che arrivassero in motorino o in auto, ma quasi tutti, non soltanto per una questione economica, preferivano i mezzi pubblici: dopo la dose, gli effetti duravano fino a sei ore, era difficile e rischioso guidare un motorino o un’auto. I drogati acquistavano eroina dallo spacciatore abituale. Se non avevano il denaro, consegnavano un braccialetto d’oro, una catenina d’oro, oppure un’autoradio, e pagavano la dose con quella mercanzia. 
I drogati spaccavano i finestrini delle auto parcheggiate pur di rubare un’autoradio nascosta sotto il sedile. Un’autoradio di qualsiasi marca. E tuttavia, nonostante le pubblicità dell’epoca, ho sempre associato le autoradio Pioneer ai minuscoli frammenti di finestrino sparsi sui marciapiedi, ho sempre associato le autoradio Pioneer all’eroina, ai drogati, agli spacciatori, ai ricettatori. 
Certo, non era colpa dell’azienda Pioneer, ma forse non era nemmeno colpa dei drogati. Applicando la logica neoliberale, già così seducente alla fine degli anni Settanta, il rapporto tra eroina e Pioneer era soltanto un meccanismo di mercato, di richiesta e offerta.
I drogati si allontanavano di pochi metri dallo spacciatore, desideravano drogarsi subito. Sceglievano una panchina accanto alla fontanella. Stagnola, cucchiaino, limone, accendino, siringa. E tuttavia, alcuni preferivano un angolo meno frequentato, si sedevano appoggiandosi al tronco di un albero, forse per meglio assecondare, in quella natura allestita dall’istituzione comunale, l’effetto dell’eroina. Poi gettavano le siringhe a terra. A volte capitava che i drogati infilzassero le siringhe nel tronco dell’albero, e allora, da ragazzino, pensavo che la droga iniziasse a circolare nel resto dell’albero, salendo ai rami, alle foglie, e scendendo alle radici, e dalle radici al terreno. L’albero si sarebbe intossicato di eroina. La droga era l’elemento fondamentale della terra su cui camminavamo.

Drogarsi. Poi, crescendo, i più confidenziali farsibucarsi, spruzzarsi: il primo implicava una creazione, o almeno, una trasformazione non soltanto fisica; il secondo implicava il corpo, la ricerca della vena, il sangue, il flash rapido; il terzo, poco utilizzato, sembrava un gioco d’infanzia, superficiale e senza conseguenze. Ancora oggi, è scritto su alcuni dizionari: i bambini si spruzzano nell’acqua. Non con il significato di drogarsi, credo. Il significato gergale di spruzzarsi come drogarsi non è contemplato dai dizionari.
I drogati, smaltito a malapena l’effetto della dose, ritornavano a casa con i mezzi pubblici. Salivano sui tram, sugli autobus, sulle metropolitane, avanzavano trascinando i piedi, a volte barcollavano e biascicavano qualcosa, la bocca impastata, i denti e le gengive sofferenti. I drogati si addormentavano sui sedili, appoggiando la tempia al finestrino. 
A volte, quando un drogato moriva, un articolo di giornale cercava di ricostruire chi fosse la vittima. In quel periodo, i giornali pubblicavano nome, cognome, età, indirizzo, professione. Se la famiglia del morto era proprietaria di un bar, i giornali pubblicavano il nome del bar, l’indirizzo del bar, i nomi e i cognomi dei genitori del morto, ovvero, i nomi e i cognomi dei proprietari del bar. Il giornalista ricostruiva le ultime ore di vita grazie alle informazioni ricevute dai poliziotti. L’acquisto incongruo di un limone in trattoria. L’incontro con lo spacciatore. Il buco. L’overdose. Il corpo disteso a terra, raggomitolato su se stesso, sotto un cavalcavia della tangenziale, mentre il traffico scorrevole continuava sopra la testa.
Ma poiché morivano molti drogati, i giornali, da metà anno in avanti, si limitavano a un breve articolo, a un trafiletto di cronaca: ricordavano soprattutto il numero dei tossicomani morti dall’inizio dell’anno. I giornali additavano la responsabilità ai fisici indeboliti dopo anni di eroina, alla droga tagliata con stricnina, alla droga tagliata bene ma utilizzata assieme ad altre sostanze – alcol, anfetamine, benzodiazepine, metadone – assunte prima della dose letale. Non si trattava quindi di overdose ma di una semplice dose, di usura del corpo.
Tra l’altro alcuni morti non entravano nemmeno nel computo: i morti di epatite, debilitati da decenni di droga. 
Ogni epoca ha i propri bollettini.
Ogni epoca interpreta i numeri dei propri morti.

La città, per motivi di logistica e distribuzione, è ancora al centro dello spaccio di droga connesso alle mafie, alle tifoserie ultrà delle squadre di calcio legate alle mafie, oltre che a gruppi neofascisti; ma da alcuni anni, assieme alla moltiplicazione dei tipi di droga è iniziata una diffusione molto più capillare rispetto ai decenni scorsi. In Lombardia, è come se la droga seguisse l’andamento immobiliare e urbanistico, lo sprawl suburbano introdotto proprio negli anni Settanta; è come se la droga seguisse la trasformazione dei luoghi, di ciò che resta della natura relegata, tra tangenziali e capannoni, all’interno di parchi regionali e aree protette di interesse sovracomunale. 
In Lombardia, l’istituzione di queste aree protette – sarebbe più idoneo definirle finte aree protette circondate dalla distruzione – risale alla seconda metà degli anni Settanta. Negli anni Settanta, queste zone erano luoghi che non avevano bisogno di alcuna definizione, erano zone frequentate da famiglie durante i picnic domenicali per le cosiddette gite fuoriporta. Oggi sono diventate zone di spaccio di droga. Spacciare eroina in una zona protetta, circondati da fossati, fontanili, all’ombra di pioppi, robinie, betulle. Spacciare cocaina con il sottofondo del canto degli uccelli, del rumore dei picchi che perforano le cortecce degli alberi. Spacciare hashish spostandosi all’interno dei boschi per evitare comunque i rarissimi controlli della polizia, seguendo i sentieri evidenziati dagli opuscoli e dai siti per le passeggiate salutari. Spacciare tutto, ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, come impone la logica contemporanea. Vivere, se necessario, proprio all’interno dei boschi, dentro capanne, occultando la droga altrove. 
Le ordinazioni avvengono tramite WhatsApp. Gli spacciatori si spostano in punti prestabiliti, ai margini dei boschi, consegnano la droga, intascano i soldi, ritornano all’interno dei boschi. 
Se leggiamo le cronache locali o quelli dei quotidiani nazionali, i drogati degli anni Settanta e Ottanta non esistono più: i drogati sono diventati i clienti o i consumatori, anche a seguito della differente modalità di acquisto della droga, una modalità automobilistica plasmata dall’espansione suburbana. Insomma, non più giovani in astinenza che arrivano con i mezzi pubblici, ciondolano attorno alle panchine metropolitane, ma auto anonime nonostante i numeri di targa, auto che costeggiano i bordi, i margini, dove l’asfalto lambisce le aree protette, auto guidate da invisibili, veloci acquirenti, che frenano, abbassano il finestrino, pagano, prendono, ripartono ancora più veloci, vanno al lavoro e quella è la droga per passare la serata. Qualora le zone di spaccio siano prossime al confine svizzero, ecco che i giornali preferiscono scrivere clienti svizzeri o clientela svizzera
Mi rendo conto: scrivere drogati svizzeri o tossicomani ticinesi suonerebbe comico quasi quanto clientela svizzera
Nell’intersezione tra spaccio, capannoni, aziende, aree residenziali costituite per lo più da palazzine e villette, è capitato che, nella stessa strada, si verificassero due situazioni in apparenza contrapposte: sul lato sinistro della strada, i tir entravano in retromarcia nelle piattaforme di logistica aziendale per caricare e scaricare le merci; davanti a un’azienda destinata alla chiusura a seguito delle solite delocalizzazioni internazionali, gli operai ai cancelli si aggrappavano a quanto restava del loro lavoro; sul lato destro della strada, invece, le vedette controllavano il flusso di auto di coloro che accostavano ai margini del bosco, in attesa degli spacciatori. Non è difficile immaginare, tra operai e spacciatori, quale delle due professioni abbia più futuro.

La diffusione capillare della droga, così come la dispersione suburbana abitativa e produttiva, non è meno cruenta delle dinamiche metropolitane degli anni Settanta.
I conflitti tra spacciatori, sebbene si svolgano in zone che la propaganda regionale lombarda vorrebbero idilliache e dedicate a sport, famiglie, bambini, finiscono, a volte, con gli omicidi. Dopo un omicidio, ecco la retata della polizia, qualche arresto, e poi lo spaccio di droga ricomincia. A differenza di un parchetto cittadino, controllare un’area estesa come un parco regionale o un’area protetta di interesse sovracomunale è un’operazione molto più complessa e dispendiosa, che necessita di parecchi poliziotti, carabinieri, finanzieri, cani antidroga. Ma al di là di questo aspetto economico, il vecchio quesito resta quanto mai attuale. Interessa davvero la lotta alla droga, in Italia? No. I partiti di destra lanciano saltuari e ipocriti proclami elettorali volti a militarizzare i boschi lombardi – anche perché, a differenza degli spacciatori neofascisti collegati alle curve ultrà, la maggioranza degli spacciatori boschivi è nordafricana, clandestina, e non vota – la droga, ancor di più che negli anni Settanta, è liberalizzata anche se non legalizzata. 
Questa intenzionale opacità legislativa è la fortuna di organizzazioni criminali, di spacciatori grandi e piccoli. Questa opacità è possibile anche perché è cambiato il tipo di consumatore, tanto che è diventato difficile definirlo drogato o tossicomane, e non certo per un uso consapevole della lingua giornalistica. 
Centellinare le vacanze, gli acquisti, la droga. 
Centellinare per durare di più, per drogarsi più a lungo, sempre.
Le immagini del giugno 2022, di due ragazzi – definiti ragazzini da alcuni media – che sniffano cocaina su un vagone della metropolitana milanese ci ricordano i viaggi transoceanici della droga, la diffusione capillare in ambito urbano e suburbano, il ritorno alla metropoli. I due potrebbero essere seduti sulla panchina di un outlet. Indossano bermuda, magliette, calzano Nike e Diadora. Non sniffano nell’angolo di un parco cittadino milanese o ai margini di un bosco suburbano lombardo; sniffano seduti nel vagone Atm, vagone in leggero movimento, accanto a decine di altre persone.
Drogarsi con la certezza di essere ripresi dallo smartphone di qualcuno, di essere protagonisti indefiniti, immessi nel flusso della rete. Il ciclo è compiuto.

ARTICOLO n. 39 / 2022

CONOSCERE DI VISTA

Quando vado nel luogo in cui sono nato e cresciuto, il quartiere in cui sono stato bambino e ragazzo, incontro persone che non vedevo da dieci, vent’anni, in alcuni casi da trenta, quarant’anni. Queste persone mi erano così familiari eppure non riesco ad associarle ai volti che pensavo di ricordare. Ma sono davvero loro? Quello è davvero il macellaio dell’infanzia? Quello è davvero il panettiere dell’infanzia? Quella è davvero l’insegnante di matematica delle scuole medie? Oppure è qualcuno di somigliante? È cambiata la persona o è cambiato il mio sguardo? Se cerco un altro indizio, nella postura o nell’andatura, è inutile, poiché gli anni e l’invecchiamento hanno mutato la postura e l’andatura di queste persone, gli anni e l’invecchiamento hanno cambiato il mio sguardo in generale, e nello specifico, il mio sguardo in rapporto alle aspettative nei confronti della postura e dell’andatura di queste persone. 

Quando vado al cimitero, mi fermo davanti alle tombe, ogni giorno che passa mi fermo sempre di più davanti alle fotografie dei defunti, persone che avevo incontrato o conosciuto, come si diceva un tempo, di vista;guardo le fotografie sulle tombe e penso, è davvero lui, è davvero lei? È davvero la persona che – sigaretta in bocca, incolonnata in una domenica pomeriggio di primavera, la mano destra sul volante – aveva sventolato, con la mano sinistra, la bandiera dell’Inter fuori dal finestrino di una Fiat Uno 45 S grigia metallizzata, durante i festeggiamenti per lo scudetto 1988-1989, quando, quella persona, aveva ventidue anni? In teoria, il nome e il cognome dovrebbero saldare l’immagine funebre all’essere vivente che ha attraversato il mondo per alcuni decenni, saldare il mio ricordo in un unico processo con quell’immagine semovente, saldare la persona all’istante nel quale è accaduto un piccolo, irripetibile fatto; e invece, anche davanti al nome e cognome, davanti alla fissità dell’immagine funebre, si crea uno slittamento inaspettato: mi sembra di dubitare di quasi tutto ciò che è stato, guardo e non sono così sicuro di ricordare davvero quella persona alla guida di una Fiat Uno 45 S, forse era una Fiat Uno 55 S, e non era grigia metallizzata ma canna di fucile, però almeno sul fatto che fosse interista sono sicuro; non ero in auto, ma fermo su un marciapiede, e avevo visto il braccio di questa persona spuntare dal finestrino abbassato, avevo visto la bandiera in parte accartocciata agitarsi a seguito del movimento della mano sinistra, e poiché l’auto era ferma, intrappolata nella gioia del festeggiamento, la persona alla guida, ora defunta, aveva lasciato il volante e approfittato della mano destra per fare un tiro di sigaretta; infine, aveva stretto il mozzicone tra i denti, per suonare il clacson in segno di gioia, senza smettere di agitare la bandiera.

Forse non sono un vero tifoso, o sono un tifoso anomalo, poiché ciò che ricordo meglio di quel campionato è questa immagine e non un traversone di Andreas Brehme.

Da alcuni anni, una direttiva europea ha introdotto, per le aziende del tabacco, l’obbligo di stampare, su ogni pacchetto di sigarette, una fotografia che, unita a un breve slogan, dovrebbe scoraggiare i fumatori dal continuare a fumare o i potenziali fumatori dall’iniziare. Le immagini sono state scelte secondo parametri stabiliti dall’Unione Europea e occupano il 65% della superficie di ogni pacchetto. 

Chissà perché proprio il 65% e non il 60% o il 70%.

La commissione che si occupa di selezionare le immagini ha scelto vari filoni narrativi.

Il filone con bambino prevede alcune fotografie con il bambino e alcune senza bambino qualora il bambino non sia mai nato o sia appena morto, insomma, qualora il mancato bambino sia comunque protagonista. 

La fotografia di un bambino. Il bambino avrà circa quattro anni e una notevole somiglianza con Vladimir Putin. Indossa una polo azzurra e stringe tra le mani una sigaretta rivolta verso l’alto.

I figli dei fumatori hanno più probabilità di cominciare a fumare.

La fotografia di una giovane donna, seduta su un divano bianco. La donna sta accendendo una sigaretta. Ha un accendino in mano, lo sguardo abbassato, concentrato sull’accensione. Al suo fianco, un bambino di un paio d’anni fissa la sigaretta, allunga il braccio, mette la mano appena al di sotto della sigaretta spenta. 

I figli dei fumatori hanno più probabilità di cominciare a fumare.

La fotografia di un bambino. Sembra lo stesso bambino. È in braccio a una giovane donna. Sembra la stessa donna. La donna è in piedi e fissa il pavimento. Il bambino scruta un punto imprecisato, opposto. E tuttavia, né la madre né il bambino guardano il cadavere di un uomo in una cassa da morto.

Smetti di fumare. Vivi per i tuoi cari.

La fotografia di due giovani donne e di una bambina. Sono sedute, entrambe. Una abbraccia la figlia, una bambina di un paio d’anni. L’altra donna, la non mamma, con una sigaretta stretta tra le dita, assiste alla scena, ha un’espressione a metà tra invidia e tristezza.

Il fumo riduce la fertilità.

La fotografia di un giovane uomo. L’uomo ha in braccio un bambino. Il bambino avrà poco più di un anno. L’uomo, che si dà per scontato sia il padre – ma potrebbe essere anche uno zio o il nuovo compagno della madre del bambino – stringe tra le dita una sigaretta e, al tempo stesso, tiene in braccio il bambino. L’uomo espira il fumo in faccia al bambino. Il bambino strizza gli occhi, fa una smorfia schifata e sofferente, appoggia la mano sinistra sulla gola dell’uomo, ma la pressione della mano infantile, per quanto minima, pare addirittura stimolare, più che bloccare, l’emissione del fumo. A differenza di altre fotografie ambientate in casa o in un obitorio, lo sfondo è nero, l’ambientazione è da agenzia fotografica. Ma l’aspetto più significativo è la scomodità alla quale l’uomo si sottopone pur di tirare. Infatti, poiché sorregge il bambino, deve avvicinare la bocca alla sigaretta, e la sigaretta, al bambino. Il bambino rischia di essere bruciacchiato a ogni tiro, e se l’abitino acrilico, infiammabile, prendesse fuoco, il bambino rischierebbe di morire bruciato.

Il tuo fumo può nuocere ai tuoi figli, alla tua famiglia e ai tuoi amici.

È l’unica didascalia nella quale il fumo non è un fumo generico, ma è il tuo.

La fotografia di una giovane coppia accanto a una piccola bara bianca. L’uomo stringe la donna. Sono in piedi. Lui le appoggia una mano in testa. Lei gli appoggia la testa tra il braccio e il petto, come a farsi consolare. È la tipica postura ereditata dal cinema, dalla rappresentazione dei media, dall’immaginario scolpito nei secoli. È il cliché della donna da consolare e dell’uomo che è lì per quel motivo. 

Anche l’uomo è triste, eppure, per la commissione dell’Unione Europea che ha scelto l’immagine, l’opposto è impensabile, è impensabile l’uomo che, alle soglie delle lacrime, si lascia consolare dalla donna.

Il fumo può uccidere il bimbo nel grembo materno. 

I bambini hanno i capelli chiari, biondi o castani, come impone la logica pubblicitaria basata sulla supremazia bianca, di derivazione o aspirazione anglosassone, anche qualora il bianco si comporti in modo negativo.

La fotografia più grottesca del filone con bambino è l’immagine di una mano che spegne un mozzicone di sigaretta in un posacenere bianco; la cenere si è raggruppata e ha formato un disegno, un feto composto da cenere. 

Il fumo riduce la fertilità. 

Poi c’è il filone dell’uomo solo.

La fotografia di un uomo di cui si vede soltanto il busto, di profilo. L’uomo ha lo sguardo rivolto verso il basso. Sembra la tipica espressione di chi, ossessionato dalla propria forma fisica, fissa, con sgomento, i chili sulla bilancia dopo un eccesso alimentare. 

E invece la didascalia ci invita a pensare che l’uomo stia guardando il proprio cazzo. 

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Ecco allora che il filone dell’uomo solo ha un sottogenere: L’uomo e il proprio cazzo.

La fotografia di un uomo nudo, ritratto dall’alto, in un letto matrimoniale. L’uomo è accovacciato in posizione fetale; le lenzuola, in parte stropicciate, danno l’idea di un utilizzo, o meglio, di un parziale utilizzo cui è seguito un abbandono; forse, fino a pochi minuti prima c’era una donna, ma adesso l’uomo abbandonato è davvero l’essere umano più solo al mondo, e siccome non è mai stato così solo e affranto, appoggia una mano sulla propria testa.

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Nella terza fotografia del sottogenere L’uomo e il proprio cazzo, è come se l’uomo del pacchetto di sigarette diventasse L’uomo vitruviano di Leonardo ma senza alcuna necessità del cerchio e delle due figure: basta uno zoom sul ventre e, al posto del cazzo, un buco bianco. 

Il fumo aumenta il rischio di impotenza.

Analizziamo ora il filone dei moribondi e il filone dei morti, così torniamo alla prima parte di questo testo. Da alcuni anni, infatti, una fotografia presente su un pacchetto di sigarette è diventata un’ossessione europea. Il fumo causa ictus e disabilità.

Vi è ritratto un uomo di circa 70 anni, sdraiato in un letto d’ospedale. Il degente, intubato, ha gli occhi chiusi. L’uomo è stato riconosciuto da un 48enne di Orbassano che sostiene di essere il figlio dell’uomo ritratto e ricoverato in ospedale, deceduto diciotto mesi dopo l’ictus; l’uomo della fotografia è stato riconosciuto da un altro uomo come se stesso, un uomo di Ischia che era stato ricoverato in Colombia a seguito di un’insufficienza respiratoria; l’uomo del pacchetto di sigarette è stato riconosciuto come il parente di un belga, di un tedesco, di uno spagnolo, e come il padre di una cittadina britannica. 

Possibile che un uomo non riconosca il proprio padre?

Possibile che una donna non riconosca il proprio padre?

Possibile che un uomo non riconosca se stesso?

Sì, è possibile. Dobbiamo chiederci fino a che punto la malattia, il dolore e il tempo devastino il corpo di chi ci è vicino, o meglio, devastino il modo in cui guardiamo, a tal punto da renderlo irriconoscibile a noi stessi, a tal punto da renderci irriconoscibili anche ai nostri occhi.  

Non è interessante sapere chi fosse davvero quell’uomo. 

Secondo The Guardian, un uomo, per recitare la propria morte da imprimere su milioni di pacchetti di sigarette, ha guadagnato 300 euro. Sarebbe utile chiedere all’anonima comparsa-protagonista: ti riconosci? 

Quanto abbiamo bisogno del falso per essere veri?

E infine, mi scuso per l’autocitazione.

A un certo punto de La gemella Huna delle due gemelle protagoniste, dice: «Avrò la tua stessa faccia anche da cadavere?»

Se lo chiede Helga, all’obitorio, davanti al corpo della gemella Hilde. È come se Helga vedesse, per la prima volta, il volto di Hilde; ma al tempo stesso, è come se Helga si allontanasse dal volto abituale per ricomporsi, unita alla gemella, nell’imminente eternità. 

La morte è liberazione, la morte è prigionia.

E l’immagine, che sta a metà tra vita e morte, presenta questa contraddizione.

Non a caso, davanti allo specchio, è come se scattassimo fotografie immaginarie, una breve sequenza di istantanee che contengono l’immediatezza di qualcosa di perduto. 

In quei frangenti, l’atto di presenza è guardarsi dubbiosi, come qualcuno che conosciamo di vista, qualcuno che abbiamo conosciuto di vista.

ARTICOLO n. 28 / 2022

L’ENERGIA DI UNA MONETA

L’11 marzo 2022, alle 10.06, su un treno Tilo, tra la stazione di Lugano e Lugano Paradiso, ho pensato a Franco Cordelli. Premetto che non ho mai incontrato Franco Cordelli e tantomeno Franco Cordelli attraversa, di solito, i miei pensieri. Quante volte avrò pensato a Franco Cordelli, nella mia vita? Quattro, forse cinque. Ho cercato di leggere un paio di libri e di articoli. E tuttavia, guardando uno spicchio di lago la mattina dell’11 marzo 2022, ho pensato a Franco Cordelli. 

Franco Cordelli, il 25 maggio 2014, sul numero 131 de la Lettura, in un articolo intitolato La palude degli scrittori aveva evidenziato alcune frasi scritte da me e da Giorgio Vasta, additandole come esempi di cattiva scrittura; Franco Cordelli non riusciva a capacitarsi, «a me sembra incredibile che questi due scrittori possano essere esaltati», aveva scritto; poi, partendo da lì, aveva diviso la letteratura italiana in varie tribù e recitato il declino della narrativa e della critica.

Un tipico articolo da chiacchiericcio domenicale, la domenica di un’altra epoca unita alla domenica contemporanea, come se la parodia della critica novecentesca si innestasse in lungo post di Facebook. Nel 2014 avevo preferito non replicare. Ma otto anni dopo, davanti all’invitante grigiore dell’acqua alla fine di un inverno afoso, ho pensato a un’abitudine della mia infanzia correlata a una delle frasi stigmatizzate da Franco Cordelli: l’abitudine di guardare, assieme a mio padre, il Lago di Lugano utilizzando un cannocchiale a gettone.

La frase evidenziata da Franco Cordelli era l’energia di una moneta, estratta da un capitolo-racconto intitolato Un altro ancora, contenuto in un mio libro uscito per Einaudi nel 2009: L’ubicazione del bene.

L’energia di una moneta si riferisce al tempo concesso se inseriamo una moneta in un cannocchiale a gettone. Volevo scrivere una storia su un cannocchiale a gettone, evitando di citare quell’abitudine tra me e mio padre. Allora per scrivere quella storia ero partito da una fotografia che non mi convince, di Luigi Ghirri, per giungere a una fotografia che amo molto di più, una fotografia di Allan Sekula: insomma, dalla fotografia del cannocchiale posizionato sul belvedere italiano alla fotografia del cannocchiale che, dietro una vetrata, inquadra un cargo nell’oceano.

Nella celebre fotografia di Ghirri siamo immersi in una intenzionale cartolina. La divulgazione della visione è tutto. C’è una sensazione di benessere nel guardare quell’immagine, come accade quasi sempre con le fotografie di Ghirri. Davvero non abbiamo bisogno d’altro?

Nella fotografia di Sekula, oltre a un cannocchiale, c’è anche una vetrata, uno schermo tra noi e il mare. E al posto del Mediterraneo blu idilliaco di Ghirri, l’acqua è grigiastra, come il cielo, e c’è un cargo. Grazie alla presenza della vetrata, una parte del cannocchiale si riflette nel mare, proprio in direzione del cargo. Inoltre, il cannocchiale, con i suoi due occhietti meccanici, non sta soltanto puntando il cargo, ma sembra fissare noi, che stiamo per avvicinarci a quella che immaginiamo sia la sorgente della visione. Insomma, il nostro sguardo soggiace alle stesse leggi dell’economia. Perfino quando guardiamo da un cannocchiale a gettone, soprattutto in una zona turistica, dobbiamo porci alcune domande. E sono quelle del testo Un altro ancora. Perché un ente, un’azienda del turismo o un’istituzione hanno deciso dove posizionare il cannocchiale a gettone. Quindi noi paghiamo, pensiamo di avere la libertà derivante dal denaro ma qualcuno ha scelto per noi cosa farci vedere.

Ho studiato sia Ghirri che Sekula, ma Sekula mi interessa di più, mi pone dubbi, il punto è proprio quella vetrata tra il cannocchiale e il cargo.

Un altro ancora è un testo diviso in due parti. La seconda parte narra di una coppia di sposi, Monica e Michele. Sembrano felici durante il banchetto nuziale, il fotografo li ritrae nel giardino del ristorante ma la pioggia interrompe il lavoro del fotografo. I due sposi devono partire per il viaggio di nozze proprio l’indomani, allora concordano con il fotografo un appuntamento al loro ritorno, per scattare le fotografie che mancano al completamento dell’album. Indosseranno gli abiti della cerimonia nel giardinetto della loro casa di Cortesforza. Certo, saranno abbronzati, avranno i capelli un po’ più lunghi rispetto al giorno del matrimonio, forse nel loro viaggio di nozze sarà accaduto qualche screzio rivelatore di traumi più profondi. 

Riuscirà la fotografia a mentire – e a dire la verità – come al solito?

È una domenica mattina, a Cortesforza, il luogo immaginario ubicato lungo il Naviglio Grande, diciotto chilometri a sud-ovest di Milano, il luogo nel quale ho ambientato le storie di quel libro. Monica, in abito bianco, è nervosa, cammina avanti e indietro dal soggiorno alla finestra della cucina, in attesa del fotografo. Michele, vestito come il giorno delle nozze, è stravaccato sul divano di casa. Ha acceso il televisore, guarda una partita di rugby, in diretta dalla Nuova Zelanda.

Ho usato questo espediente narrativo per creare l’ulteriore sfasamento tra spazio e tempo. Ecco perché ho scelto la Nuova Zelanda; è una questione di fusi orari, poiché quando in Italia sono le otto di mattina, lì, in estate, è già passato il tramonto, e volevo che la partita fosse in diretta.

La Nuova Zelanda ha una grande tradizione nel rugby, volevo che Michele guardasse una mischia nella quale il pallone scompare sotto i corpi degli atleti, così come le immagini ipotetiche del suo matrimonio erano scomparse due settimane prima.

La Nuova Zelanda è proprio dall’altra parte del pianeta rispetto all’Italia.

E infine, in Nuova Zelanda piove spesso, desideravo ricreare le condizioni climatiche che avevano impedito le fotografie durante il giorno delle nozze, quindici giorni prima, in Italia, così che la pioggia televisiva e satellitare live stridesse con il presente dell’inutile sole italiano, creando un ulteriore cortocircuito psichico.

Insomma, tutto in ordine per allestire la finzione: ma il fotografo utile al falso documentario arriverà davvero?

Questi elementi sono visibili sottotraccia. Un lettore attento o una lettrice attenta dovrebbero percepirli. Certo, da molti anni, leggere davvero, con attenzione, ed effettuare i collegamenti tra le varie parti di un testo e i riferimenti ad altre arti, senza fermarsi gongolando all’effetto immediato, eroico sentimentale, è più faticoso.

Il Metodo Franco Cordelli consiste, almeno per ciò che concerne quell’articolo, nell’isolare una frase e additarla, oppure citare un aggettivo, alla sesta riga di un libro di 350 pagine e chiuderlo, senza parlare dell’opera, senza analizzare gli intrecci, i richiami da un libro all’altro, dalla fotografia alla letteratura, dimenticando una ovvietà: un libro è qualcosa di più delle frasi che lo compongono. Ma per gli amici e le amiche di Franco Cordelli, per i simpatizzanti e le simpatizzanti di Franco Cordelli, quello di Franco Cordelli era «un atto di libertà», «un esempio di rigore», «un gesto etico», perché Franco Cordelli è «magistrale».

La prima parte del mio testo Un altro ancora, è un breve saggio narrativo. Parto dal cannocchiale del belvedere che funziona con una moneta. Dopo aver inserito la moneta abbiamo tre minuti di tempo. 

«Cosa posso vedere in tre minuti? Tre minuti, in molti processi produttivi, è ciò che distingue una cosa buona, utile, che ha senso, da una cosa cattiva, inutile, priva di senso. Ci interessa la produttività del nostro guardare, raggiungere un obiettivo qualsiasi…»

Quindi, dopo aver inserito la moneta, dobbiamo catturare un pezzo di paesaggio che giustifichi l’investimento. In tre minuti cerchiamo di catturare qualcosa, non importa cosa. Siamo clienti, abbiamo pagato, in teoria abbiamo diritto a qualcosa, di utile o inutile, qualcosa che a volte non dura nemmeno tre minuti, poiché, già dopo un minuto e mezzo, siamo stanchi, annoiati dal guardare e non siamo nelle condizioni fisiche né di guardare né tantomeno di vedere. Ignoriamo che quel pezzo di mondo è concesso non soltanto dalle scelte dell’azienda produttrice, ma anche dalla Pro Loco e dall’Azienda del Turismo che hanno deciso di posizionare il cannocchiale in un punto e non in un altro. 

Il cannocchiale – la base esagonale, la sua lente – è prodotto dai lavoratori di un’azienda. Altri lavoratori, con le sembianze momentanee da turisti, inseriranno una moneta per acquistare la quantità di tempo necessaria a vedere qualcosa. Infine, un altro lavoratore ritirerà il denaro.

L’energia di una moneta: ecco cosa ne pensava Franco Cordelli.

«Qualunque cosa sia, una simile espressione, metafora o che altro, non è un bello scrivere. Al più (ovvero al meno) è un modo di scrivere che ha il merito di mostrare l’intenzionalità, la volontà d’essere originali, il mettersi in posa».  

Se utilizzassi il Metodo Franco Cordelli, dovrei prendere una frase scritta da Franco Cordelli, una frase a caso. Per esempio, «alzare i tacchi». Ah, non la sentivo dalle cattive traduzioni dei noir americani anni Quaranta o dai doppiaggi dei film western della stessa epoca: ehi, Frank, bevi questo cicchetto, alza i tacchi e smamma. Ma sarebbe ingeneroso demolire la scrittura di Franco Cordelli per una frase, sebbene, alzare i tacchi, non sia ripetuto dal personaggio di un libro di Franco Cordelli, ma proprio da Franco Cordelli in un suo testo. Eppure, Franco Cordelli ha adoperato con l’energia di una moneta il Metodo Franco Cordelli sottolineando, «non è un bello scrivere». Eh, sì, siamo ancora a «non è un bello scrivere». Quando ho letto la sottolineatura di Franco Cordelli, mi sono immaginato a otto anni, in pantaloncini corti, mentre scrivevo alla lavagna, per punizione.

Non è un bello scrivere. Non è un bello scrivere. Non è un bello scrivere…

Sono stato fortunato, ho avuto una ottima insegnante alle elementari e non il magistrale maestro Franco Cordelli. Non è un bello scrivere. Più si ripete e più diventa una frase ridicola, eppure perde presto il suo aspetto ridicolo e diventa soltanto straniante. Non è un bello scrivere. Un bello scrivere. 

Io amo un bello scrivere. Tu ami un bello scrivere. Noi amiamo un bello scrivere.

La letteratura è tutta lì, secondo Franco Cordelli. Ma la sua critica – ininfluente dal punto di vista letterario e poetico – è deludente dal punto di vista visivo e politico, e quindi, dal punto di vista di un artista. È ciò che ho pensato guardando lo spicchio del Lago di Lugano, la mattina dell’11 marzo 2022. Significa negare il fatto che per guardare una fetta di mondo con il cannocchiale occorra pagare. Significa esaltare l’ideologia dell’evento, l’evento avulso da un qualsiasi contesto che non sia quello turistico e commerciale, per evidenziare la centralità del belvedere da magazine, l’ideologia del paesaggio privo di conflitto, la visione ripulita, a pagamento. Significa negare che per guardare e avere l’illusione di guardare, serva introdurre una moneta, e quella moneta è guadagnata con il lavoro, un qualsiasi lavoro, come quello di mio padre quando ero bambino, o quello di Franco Cordelli, che scrive un articolo per la Lettura. Nel mio caso, l’energia di una moneta è un omaggio all’energia profusa (profusa la utilizza anche Bufalino, forse non sarò sanzionato per questo) da mio padre nel lavoro, la vita che passa, la morte; e ciò che resta, a volte, è anche qualche immagine guardata e vista, vista assieme: e quindi, resta moltissimo. E nulla quanto alcuni oggetti analogici mi sembrano adatti al passaggio dal Novecento al capitalismo dell’attenzione, o meglio, al capitalismo della disattenzione, e al meccanismo grazie al quale le persone non leggono davvero, non guardano davvero, e non vedono, mai.

Quando ero bambino, andavo con i miei genitori e mia sorella su un belvedere in provincia di Como. Questo luogo era a metà strada tra la sponda occidentale del Lago di Como e il Lago di Lugano: Vetta Sighignola, ribattezzata dal Comune di Lanzo d’Intelvi, Balcone dItalia. Era un piazzale, un parcheggio balconato dal quale, a 1300 metri d’altezza, si vedeva il confine, la vicinissima Svizzera, il Lago di Lugano. C’era un cannocchiale a gettone, chiedevo a mio padre una moneta. Ero sempre emozionato e ansioso, non appena la moneta precipitava nell’oggetto di ferro; ero anche triste, mi sentivo in colpa, stavo utilizzando una porzione del tempo di mio padre, l’energia di mio padre per guadagnare denaro, l’energia trasferita dal corpo al denaro: l’energia di una moneta

E così la mattina dell’11 marzo 2022, più che a Franco Cordelli e ai suoi tacchi, ho pensato a mio padre, alla fine degli anni Settanta, a quando guardavamo assieme il Lago di Lugano alternandoci al cannocchiale, ma in fretta, per non consumare il poco tempo che ci era concesso. Sprecavo una moneta, avevo l’illusione di guardare un pezzo di Svizzera, l’illusione di fuggire, o meglio, di evadere per qualche secondo, almeno con lo sguardo, dall’Italia. 

(«Allora ritorniamo alla nostra utilitaria. Siamo già altrove. Immaginiamo l’uomo che passa ogni lunedì mattina, apre la pancia del cannocchiale per raccogliere le monete. Se fossimo diversi da come siamo, ci piacerebbe pensare che, oltre ai soldi, l’uomo possa raccogliere anche i nostri minuti di immagini guardate, per metterle nel retro del furgone e portarle nel mondo. Ma noi non siamo così. Ci basta vedere l’uomo fermo, al semaforo, mentre impreca, dice qualcosa, un’invocazione o una bestemmia che non udiamo, l’uomo ha i finestrini chiusi, serrato nell’aria condizionata del furgone, e allora sentiamo una voce che nemmeno ci parla, è precedente alla parola, all’immagine: strano essere qui, adesso»).

ARTICOLO n. 18 / 2022

UN OTTIMO BILOCALE

All’inizio degli anni Novanta, vivevo in un monolocale soppalcato. Il padrone di casa lo definiva ottimo bilocale: angolo cottura, tavolino da picnic, bagno minuscolo e soppalco, ovvero una piccola nicchia sospesa alla quale accedevo salendo una breve rampa di sei gradini. Il soppalco comprendeva un materasso da una piazza e mezza, un comodino, quattro mensole che schiacciavano ancora di più lo spazio tra il letto e il soffitto. Dovevo spostarmi ricurvo in quell’area angusta flettendo le gambe per raggiungere l’altezza media di un bambino di otto anni: soltanto così quel microcosmo diventava vivibile. Eppure, il padrone di casa considerava il soppalco una stanza. Da qui, la definizione di ottimo bilocale

Il padrone di casa, durante la firma del contratto, mi aveva detto di essere amico di Zvonimir Boban, il calciatore del Milan. A distanza di trent’anni, non ricordo il motivo per cui, forse parlando della caldaia e delle spese condominiali irrisorie – le spese condominiali ancora oggi sono definite irrisorie e non ridicole: benché quasi sinonimi, il ridicolo, più che l’irrisorio, potrebbe svalutare un immobile – aveva detto, sono un amico di Boban. Credo che quella confessione non richiesta mi sia costata almeno 100.000 lire in più d’affitto al mese. Come avrei potuto difendermi? Avrei dovuto replicare con un’affermazione altrettanto roboante. Ma non ero amico di Lothar Matthäus, non ero amico di nessun giocatore dell’Inter e non volevo ribattere con una menzogna. Il padrone di casa aveva vinto, meritavo di pagare 100.000 lire in più di canone.

A volte scendevo al bar per guardare le partite in televisione, erano i primi anni del calcio a pagamento. Il Milan era la squadra migliore in quel periodo, tifavo e tifo Inter ma guardavo volentieri le partite del Milan. Inoltre, il fratello milanista di un amico milanista, si era fidanzato con una ragazza che abitava a quattrocento chilometri di distanza, così programmava i weekend amorosi in rapporto al calendario del Milan, raggiungeva la fidanzata quando il Milan giocava fuori casa, in modo da non perdere le partite casalinghe per le quali aveva pagato l’abbonamento; a volte, capitava che la raggiungesse anche quando il Milan giocava in casa: ah, l’amore. 

Il fratello milanista dell’amico milanista mi lasciava la tessera, regalandomi la possibilità di vedere il Milan a San Siro. Ero a disagio sull’autobus, mi sentivo una mezza spia, un impostore, uno che tifava Milan senza tifare Milan, un abbonato che aveva la tessera in tasca e aveva esultato per le vittorie in Coppa dei Campioni negli anni precedenti.

Si dice che il calcio serva a dimenticare gli affanni della vita quotidiana. Non ci ho mai creduto. Il calcio peggiora la propria condizione esistenziale. Boban giocava nel Milan, il padrone di casa sosteneva di essere un amico di Boban, e quel riferimento a Boban, più che ricondurmi al Milan, al calcio, allo svago, mi riportava alla condizione di giovane poco più che ventenne relegato in un monolocale soppalcato definito ottimo bilocale.

Boban era stato acquistato dal Milan a ventitré anni. In precedenza, aveva giocato nella Dinamo Zagabria. Oltre che per le sue doti tecniche eccellenti, è ricordato per il calcio tirato in pancia a un poliziotto federale jugoslavo – scambiato per un poliziotto serbo, in realtà pare fosse bosniaco – durante gli scontri avvenuti prima della partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado, giocata a Zagabria il 13 maggio 1990. 

Immagino che oggi, il calcio di Boban rifilato al poliziotto federale jugoslavo sarebbe divenuto, come si dice, virale, e il video avrebbe avuto milioni di visualizzazioni, e la sequenza sarebbe stata commentata in milioni di post. Ma era un’epoca analogica, a maggior ragione per ciò che riguarda l’aggettivo jugoslavo, e di quel periodo sono state riversate in digitale poche immagini, nelle quali si vede comunque Boban prendere la rincorsa e colpire il poliziotto che, sorpreso dall’azione del calciatore, chiude gli occhi per attutire il calcio e perde il caschetto protettivo. A volte, mi capita di pensare al fotoreporter nella sua camera oscura a sviluppare il rullino, quando già sapeva come era andata a finire la partita.

La partita, a causa degli incidenti avvenuti sulle tribune e in campo, era stata rinviata, e il calcio tirato da Boban al poliziotto sarà considerato, a posteriori, una premessa della guerra civile jugoslava e del disfacimento di una nazione. 

Boban, ventiduenne, aveva pagato il gesto con la squalifica e la mancata partecipazione ai Mondiali di calcio, in Italia.

Il Milan aveva acquistato Boban nel 1991 e lo aveva prestato al Bari. Poi l’arrivo a Milano e lì, in poco tempo, era diventato, oltre che un giocatore del Milan, amico del mio padrone di casa. Durante la guerra civile jugoslava, Boban era un tesserato del Milan. Giocava poco, il Milan di Berlusconi aveva una squadra di campioni e Boban era ancora abbastanza giovane per restare in panchina. L’abbonamento del fratello milanista dell’amico milanista prevedeva un posto al secondo anello. Visto dall’alto, Boban, quando entrava in campo, pareva un bambino, ma dall’alto tutti i giocatori sembravano bambini, anche Gullit. Se avessi avuto la tessera della tribuna centrale, i calciatori mi sarebbero apparsi come calciatori e forse mi sarei distratto davvero. Il piccolo Boban, invece, mi rispediva dentro il monolocale soppalcato, il piccolo Boban sarebbe stato adatto a muoversi senza sforzo nel microcosmo del soppalco.

Il padre di Boban non ho mai capito se fosse un colonnello o un generale. Ignoro se abbia partecipato o meno alla guerra civile jugoslava, se abbia avuto simpatie per gli ustascia e i loro nipotini fascisti. Leggevo con sgomento le notizie provenienti da quella nazione così prossima a noi, ma come spesso capita, gli affanni della vita quotidiana soverchiavano qualsiasi vera compartecipazione ai drammi dell’umanità. Insomma, pensavo alla mia piccola vita, all’amore, all’arte, alla letteratura, al lavoro e al non lavoro, ai soldi, al monolocale soppalcato e quindi al padrone di casa, al calcio e a Boban: non pensavo alla politica internazionale, o almeno, così credevo.

Ricordo di aver letto qualcosa riguardante il programma edilizio del Terzo Reich pianificato nel 1941, immagino prima di giugno, insomma, qualche settimana antecedente l’invasione nazista dell’Unione Sovietica. Mi impressionava il fatto che Hitler e i suoi collaboratori pensassero all’edilizia del dopoguerra vittorioso, al benessere dei tedeschi, allo spessore dei muri delle nuove case, e alle, direbbe un agente immobiliare contemporaneo, tipologie di appartamenti, mentre, con le loro scelte, Hitler e i gerarchi sancivano la morte di milioni di persone.

Trilocale über alles & Unternehmen Barbarossa.

Hitler e i gerarchi nazisti erano convinti di costruire centinaia di migliaia di appartamenti e casette suburbane nel corso dei dodici mesi successivi alla fine del conflitto bellico. I morti in guerra sarebbero stati sostituiti dai nuovi nati, e allora sarebbe stato necessario investire nella famiglia tedesca cominciando dalle abitazioni. Se consideriamo una famiglia composta da cinque persone, il piano edilizio hitleriano, in un anno, avrebbe assicurato la casa a un milione e mezzo di persone. In seguito, il Terzo Reich avrebbe espropriato altri campi, pagato indennizzi ai proprietari terrieri e proseguito l’edificazione di nuove case.

In Italia, all’inizio degli anni Novanta, non eravamo in guerra, eppure nessun partito immaginava e tantomeno pianificava qualcosa di significativo per la vita degli italiani. La fine del comunismo nell’Est europeo e la guerra civile jugoslava rafforzavano la fede nell’azione correttiva e spontanea del libero mercato, la finzione con la quale siamo cresciuti. Mi impressionava il fatto che, secondo il programma edilizio del Terzo Reich, l’affitto dell’abitazione tedesca dovesse essere stabilito in rapporto al reddito del cittadino al quale la casa era destinata. Non c’è bisogno di Hitler per capire certe cose, pensavo appollaiato sul soppalco buio del monolocale, mentre sfogliavo la rivista in cui apparivano le graziose case del vittorioso dopoguerra hitleriano. Ciò che guadagnavo serviva, a stento, per pagare l’affitto e comprare il cibo. Nient’altro. Niente cinema. Niente pizzeria. Niente viaggi. Libri soltanto dalla biblioteca. La vecchia Citroen, in vendita. E per fortuna che il fratello milanista dell’amico milanista si era fidanzato con una ragazza che viveva a quattrocento chilometri di distanza, così avevo l’ingresso gratuito allo stadio. Ma il benefit milanista e la visione sfuocata del piccolo Boban mi riconducevano al monolocale soppalcato. 

Ikea aveva appena aperto un punto vendita, a Corsico. Non avevo acquistato nulla – anche perché il monolocale non poteva contenere nient’altro – ma afferrato i gadget gratuiti: un foglio marchiato Ikea, un metro marchiato Ikea, una piccola matita marchiata Ikea. Tornato a casa, avevo misurato il monolocale con quel metro stropicciato e comparato la mia condizione abitativa al progetto edilizio nazista. Secondo Hitler, otto case su dieci avrebbero avuto un soggiorno e tre camere da letto; una casa su dieci avrebbe avuto quattro camere; una casa su dieci avrebbe avuto due camere. Per tutte le varie tipologie di appartamento era previsto un ripostiglio, oltre che una dispensa, un bagno e un gabinetto separato dal bagno. La metratura delle case naziste sarebbe andata da poco più di sessanta metri quadrati a quasi novanta metri quadrati. Il monolocale in cui vivevo aveva una superficie complessiva inferiore alla cucina hitleriana del trilocale più piccolo. D’accordo, non ero un nazista con moglie e figli, ma non potevo credere alle condizioni in cui era considerato normale vivere, nell’Occidente vittorioso, meno di mezzo secolo dopo Hitler. L’unica consolazione era il microcosmo del soppalco, che da emblema di oppressione fisica diventava, se paragonato al periodo nazista, uno spazio di libertà. Hitler, infatti, non aveva pensato alla possibilità di un soppalco in ogni abitazione. Aveva pensato, però, alla costruzione dei rifugi antiaerei anche in tempo di pace.

Dal secondo anello di San Siro ho assistito a molte partite vittoriose del Milan. 

Ma tutte le cose finiscono e, poco prima di lasciare il monolocale soppalcato, e poco prima che il fratello milanista dell’amico milanista si lasciasse con la fidanzata, il Milan aveva perso dopo cinquantotto partite: 1 a 0 per il Parma, gol di Asprilla, su punizione. Quel pomeriggio ero defilato alla destra della curva sud rossonera. Avrei voluto esultare al gol di Asprilla, ma non ero un tifoso del Parma, forse non ero più nemmeno un tifoso interista, non so, già a partire da quel periodo, più passavano i giorni e meno mi sentivo qualcosa. 

Negli ultimi minuti di gioco – sulle note di The Entertainer di Scott Joplin, la colonna sonora de La stangata – i tifosi del Milan avevano cantato perché il Milan è forte alé, perché il Milan è forte alé, perché il Milan è forte, perché il Milan è forte, perché il Milan è forte alé. Un canto durato parecchi minuti, al quale non avevo partecipato. Ero rimasto seduto, mentre intorno a me i milanisti si erano alzati applaudendo e intonando quelle parole. Una bel canto oratoriano, rilassante. Credo fosse un metodo scaramantico, che nascondeva la speranza di segnare un gol negli ultimi istanti della partita e confermare l’imbattibilità, oppure un buon modo per celebrare la forza della propria squadra. Non ricordo se Boban abbia giocato o meno e non voglio sbirciare un file con il tabellino di trent’anni fa.La guerra civile jugoslava era in pieno svolgimento e Boban di lì a poco sarebbe diventato croato o forse era croato fin dalla nascita e il passaporto jugoslavo era stato, per lui, un equivoco, una finzione, un peso insopportabile durato venticinque anni. Il Milan aveva perso e io, di sicuro, non avevo vinto, ero soltanto un ragazzo, e la guerra mondiale, meno di mezzo secolo prima, era finita come tutti sapevamo: in Italia avevano vinti i palazzinari o gli amici di Boban, quale che fosse il loro orientamento politico poco importa. E infatti ancora oggi, soprattutto oggi, nazisti o non nazisti, un trilocale costa caro.

ARTICOLO n. 10 / 2022

CINQUE MINUTI

Sono morto per cinque minuti, ha detto Christian Eriksen. Il calciatore danese si riferiva al malore avuto il 12 giugno 2021, al 43esimo minuto del primo tempo, durante Danimarca-Finlandia, valevole per gli Europei. Eriksen pare che soffrisse – e soffra – di un problema cardiaco dovuto a una predisposizione genetica, una cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro. Ora vive con un defibrillatore sottocutaneo, ma poiché il problema è ereditario, l’arresto cardiaco potrebbe capitare nella normale vita quotidiana, mentre Eriksen apre il frigorifero o cammina su un marciapiede. Ma, soprattutto, potrebbe accadere ancora poiché il calciatore ha deciso di riprendere l’attività agonistica. 

Nato a Middelfart nel 1992, ha iniziato a giocare nella locale squadra di calcio, si è trasferito all’Odense e poi in Olanda, nelle giovanili dell’Ajax: proprio ad Amsterdam ha intrapreso la sua carriera professionistica, prima di essere ceduto, ventunenne, al Tottenham. Ha giocato per sette stagioni nel campionato inglese, eccellendo in due statistiche: assist e gol da fuori area. 

Al momento del malore, Eriksen era un tesserato dell’Inter. E tuttavia, al suo arrivo nel campionato italiano (gennaio 2020, a metà della stagione 2019/2020), il calciatore danese ha attraversato numerose difficoltà e subìto umiliazioni prima di diventare uno dei protagonisti dello scudetto 2020/2021.

L’Inter ha acquistato Eriksen per assicurare all’allenatore Antonio Conte un giocatore di qualità a centrocampo. Ma a qualcuno interessa la qualità? Eriksen è – forse sarebbe meglio dire era, dopo l’arresto cardiaco è plausibile che non riesca più a esprimersi al livello degli anni precedenti – un giocatore capace di calciare con entrambi i piedi, senza perdere precisione o potenza; dava il meglio di sé agendo in posizione avanzata, in modo da servire passaggi geniali agli attaccanti o ai compagni di squadra che sopraggiungevano alle sue spalle. 

E invece, all’Inter, Eriksen è stato relegato in panchina per quasi un anno. Capitava che Conte gli dicesse, preparati per entrare. Eriksen si scaldava lungo la linea laterale: corsetta, scatti, esercizi, lo sguardo rivolto al rettangolo di gioco, a immaginare se stesso all’interno dell’azione; poi entrava a due minuti dalla fine, a risultato acquisito. Parecchi giocatori meno forti di lui, dopo umiliazioni di quel genere si sarebbero rifiutati di entrare in campo, avrebbero detto, grazie, preferisco la panchina. Eriksen con grande professionalità, ha sempre obbedito all’allenatore e giocato i pochi secondi concessi. In quelle circostanze, usciva dal campo con la maglia e i pantaloncini come nuovi. Quando andava bene, toccava un paio di palloni ininfluenti e la partita terminava. 

Giornalisti sportivi, commentatori, ex calciatori divenuti opinionisti affermavano che Eriksen fosse un acquisto sbagliato. È lento, dicevano, compassato. L’amministratore delegato dell’Inter, Giuseppe Marotta, lo ha definito, nel dicembre 2020, «non funzionale» al gioco della squadra. Quello di Marotta era un invito esplicito ai dirigenti di altre squadre affinché acquistassero il cartellino del giocatore danese. Un invito poco lungimirante che avrebbe deprezzato il valore del cartellino. Ma nessuno ha voluto investire su Eriksen, nemmeno acquisirlo in prestito, per sei mesi, e così il calciatore è rimasto a Milano.

Il 26 gennaio 2021, Eriksen è entrato a due minuti dalla fine sul punteggio di 1 a 1, stavolta durante l’incontro di Coppa Italia contro il Milan. Ha segnato, nei minuti di recupero, il gol della vittoria su punizione, calciando una parabola perfetta terminata all’incrocio dei pali. Da allora è diventato titolare, fondamentale per lo scudetto 2020/2021 e sarebbe stato – a maggior ragione con Simone Inzaghi, nuovo allenatore dell’Inter – uno dei protagonisti della squadra. Ma ha avuto un arresto cardiaco il 12 giugno 2021. Dopo alcuni mesi di convalescenza, ha chiesto la rescissione consensuale del contratto con l’Inter. Infatti, secondo le regole del calcio italiano, chi ha un defibrillatore sottocutaneo impiantato nel torace non ha l’idoneità sportiva per giocare in Serie A o nei campionati minori. Altre nazioni, in casi come questi, sono tolleranti al limite dell’irresponsabilità, e così Eriksen giocherà, per sei mesi, nel campionato inglese, in una squadra londinese di bassa classifica: il Brentford. Poi si vedrà.

Ma il tema qui è un altro. Come può, un giocatore considerato lento, compassato, inadatto, non funzionale al calcio italiano e per questo motivo umiliato, ecco, come può aver giocato per sette anni nel campionato di calcio inglese, noto per la competitività e il ritmo forsennato? Perché Eriksen, un calciatore generoso, altruista, intelligente, di qualità, era considerato lento e inadeguato? Quale è la percezione della velocità e della lentezza, in Italia? Qual è la percezione della qualità, in Italia, non solo in ambito calcistico?

Il calcio è uno sport spesso ingiusto e sempre diseguale. Alcune squadre giocano molti più minuti rispetto ad altre. Cinque anni fa, per esempio, la Fiorentina era la squadra che giocava più minuti reali: 55 su 95 in media. Il Torino, invece, era la squadra che giocava meno minuti reali: 47 su 95. Dove finivano i 40 minuti non giocati dalla Fiorentina? Dove finivano i 48 minuti non giocati dal Torino? Dove finivano gli 8 minuti di differenza tra Fiorentina e Torino? Cosa si può fare in 8 minuti? A volte, moltissimo. Nel caso di Eriksen, segnare un gol all’incrocio nel derby, oppure avere un attacco cardiaco, morire per cinque minuti e riprendersi nei successivi tre.

Non c’è niente di meglio della Serie A per assistere allo spettacolo della perdita di tempo. I detentori dei diritti televisivi non dovrebbero mostrare gol sottolineati dalla musica percussiva ma, nel silenzio, giocatori a terra che fingono infortuni accompagnati da slogan di questo tipo: sei pronto a perdere tempo guardando il grande spettacolo della perdita di tempo? 

Da alcuni anni, quando guardo un incontro di calcio di Serie A, amo osservare lo sviluppo delle azioni, certo, ma amo guardare, non di meno, i modi in cui i raccattapalle perdono tempo, i modi in cui i calciatori perdono tempo, i modi in cui gli allenatori perdono tempo, i modi in cui gli arbitri non recuperano tempo, avallando così le perdite di tempo complessive di un sistema che invece fa della falsa frenesia un valore. 

Basterebbe introdurre il tempo effettivo, come nel basket. Ma così finirebbe l’aleatorietà del calcio e in particolare del calcio italiano, e finirebbe parte del potere arbitrale e, soprattutto, la gigantesca perdita di tempo. 

In media, un arbitro del campionato italiano recupera al massimo 2 minuti nel primo tempo e 5 minuti nel secondo. Quindi, se va bene, un arbitro italiano di Serie A recupera 7 minuti. Se un arbitro volesse recuperare 40 minuti, ovvero il tempo perso, sarebbe radiato dall’Associazione Italiana Arbitri. Eppure questo sistema, basato su una spaventosa messinscena, ha definito Eriksen lento, inadatto, non funzionale.

Nel calcio italiano ti insegnano a gestire il tempo fin da bambino. I raccattapalle, per esempio, in Serie A hanno in media quattordici anni, giocano e sognano, molto spesso, di diventare calciatori professionisti. Appartengono alle categorie giovanili della squadra ospitante o a società satelliti, affiliate alla squadra di Serie A che ospita la partita. Da quando in ogni incontro si utilizzano almeno un paio di palloni – per ridurre, in teoria, le solite perdite di tempo -, la funzione dei raccattapalle è diventata ancora più significativa. 

Ecco le prime cose che i dirigenti ripetono a un raccattapalle prima della partita.

Se perdiamo o siamo in parità, tieni sempre il pallone tra le mani, in modo da passarglielo subito al nostro calciatore quando rimette la palla in gioco; se vinciamo, non tenere mai il pallone tra le mani, lascialo dietro i cartelloni pubblicitari e fa’ con calma, anzi, non passare il pallone al calciatore avversario, così lui deve scavalcare il cartellone pubblicitario e recuperare il pallone. 

Questa strategia ritarda l’azione di alcuni secondi, secondi che finiscono nella grande discarica di tempo che è ogni partita del campionato italiano di Serie A.

È bello guardare tutta questa simulazione.

Fingere di subire un fallo.

Subire un fallo, accentuare l’esito del colpo, urlare, cadere a terra toccandosi la caviglia e lamentarsi stringendo, a causa del dolore, il malleolo; quasi piagnucolare a occhi chiusi, sbirciare schiudendo un occhio, per vedere se l’arbitro, oltre ad aver fischiato il fallo, ha pure ammonito il giocatore avversario; attendere l’entrata in campo del medico, del massaggiatore, bramare la bomboletta di ghiaccio spray pronto all’uso quasi fosse un medicinale salvavita, fissare la nuvoletta del ghiaccio spray e poi rialzarsi come un reduce, sbattere la suola sul terreno, fingere di zoppicare per alcuni secondi e, infine, riprendere a correre come se nulla fosse accaduto.

Battere la rimessa del fallo laterale ma, prima, chiedere un paio di volte all’arbitro se quella è la posizione giusta per ricominciare l’azione. In questo modo, non soltanto si perdono alcuni secondi: si gratifica l’ego dell’arbitro. 

Recuperare il pallone, se si è in vantaggio, mimando una specie di corsa da fermo, come sul tapis roulant.

Impossessarsi del pallone, battere la rimessa laterale al posto dell’avversario e poi, fingendo di non aver capito, scusarsi con l’arbitro, per evitare l’ammonizione.

Frapporsi fra l’avversario e il pallone prima di un calcio di punizione.

Afferrare il pallone, farselo cadere dalle mani sulla punta delle scarpe, in modo che il pallone rotoli a tre metri, e recuperarlo con calma.

Sistemare il parastinchi prima di calciare una punizione o un calcio d’angolo.

Rallentare ogni minimo gesto.

Le parole invecchiano e infine muoiono proprio come noi. 

Manfrina è la parola che identificava, fino a pochi decenni fa, una patetica perdita di tempo in ambito calcistico: finti infortuni o ripetute ostentazioni di falso zelo, come la corsa da fermo per recuperare il pallone. Manfrina, parola coniata nel XIX secolo, è una danza piemontese, del Monferrato, diffusasi poi, in diverse varianti, in altre regioni. Forse, se la parola manfrina non fosse stata utilizzata nel linguaggio calcistico, avrebbe avuto una vita più lunga.

Viviamo quest’epoca basata sulla perdita di tempo, sulla dissoluzione del confine tra lavoro e svago. Mi è capitato di guardare una partita in compagnia e constatare la propensione, nei più giovani ma non solo, ad alternare la visione della partita allo smartphone, ai social.

Le tecnologie introdotte per limitare gli errori e il potere decisionale dell’arbitro e dei guardialinee, hanno apportato qualche miglioramento, ma bisogna ricordare che la consultazione della tecnologia comporta un investimento di tempo. Rivedere un caso controverso al video implica fermare il gioco per almeno un paio di minuti; aggiungiamo tutto il resto, e si conferma la voragine di tempo smarrito a ogni partita.

Quando Eriksen, umiliato, entrava a due minuti dalla fine, giocava quei pochi secondi comprensivi del recupero. Ma poiché anche durante i tre, quattro, cinque minuti di recupero si perde tempo, ecco che il tempo effettivo giocato da Eriksen si limitava davvero a pochi istanti. 

Ogni tanto riguardo un’azione in cui Eriksen non segna e nemmeno fa un vero e proprio assist. Risale al breve periodo in cui Eriksen ha giocato con continuità nell’Inter. È un’azione, quattro mesi prima del malore, in cui risplende la sua intelligenza calcistica grazie alla quale l’Inter ha segnato il secondo gol, al 57esimo minuto di Milan-Inter, il 21 febbraio 2021. 

La partita è finita con la vittoria dell’Inter per 3 a 0.

Lukaku, a metà campo, defilato sulla destra, spalle alla porta, circondato da due milanisti, attende l’inserimento di Hakimi. Hakimi resiste a una carica e, grazie alla sua velocità, salta i difensori e passa il pallone, in orizzontale, a Eriksen. Eriksen, infatti, segue l’azione, è in posizione centrale, tra la metà campo e il limite dell’area milanista. È in piena corsa quando riceve il pallone che ballonzola: lo stoppa con il sinistro, mandandolo in avanti e arriva al limite dall’area di rigore, un po’ defilato sulla sinistra. Un giocatore egoista, da quella posizione, tira in porta. Un giocatore altruista, da quella posizione, passa il pallone, nella fattispecie, a Lautaro Martinez, che si è smarcato sulla sinistra. Eriksen invece attende, suggerisce a Lautaro Martinez di posizionarsi al centro dell’area; l’attaccante argentino non capisce subito le intenzioni del compagno, allora Eriksen si prende il tempo necessario – alcuni decimi di secondo – affinché Lautaro Martinez comprenda l’idea, e affinché Perisic, che arriva di corsa da dietro, possa inserirsi sulla fascia sinistra. A questo punto, Eriksen serve una palla precisa, rasoterra, tra il difensore milanista che cura Lautaro Martinez e Lautaro Martinez che è in movimento e sta andando in mezzo all’area di rigore.

Il pallone finisce a Perisic che, sopraggiunto di corsa, serve un assist rasoterra a Lautaro Martinez che, da cinque metri, segna.

Da quando Lukaku tocca il pallone a quando Lautaro Martinez segna, passano 9 secondi. Eriksen tocca il pallone per poco più di 2 secondi, comprensivi del suggerimento non recepito da Lautaro Martinez.

A proposito di questa azione, mi è capitato di sentire, da alcuni giornalisti sportivi: Eriksen arriva al limite dell’area, è indeciso, non sa cosa fare, e passa a Perisic. L’ottusità davanti alla bellezza è impressionante. Del resto, sempre più persone si annoiano e non comprendono un’azione calcistica basata sul fraseggio, o un tipo di scrittura che privilegia l’indugio, il tempo giusto per aprire un varco e arrivare, quanto più possibile, alla frase esatta.

Non a caso, secondo la maggioranza dei giornalisti sportivi o dei commentatori il calcio è la somma di locuzioni alla moda – attaccare lo spazio, attaccare la profondità – sostituibili dai prossimi tic verbali.

Eriksen, in quell’azione, crea lo spazio, e questo grazie al suo lucido, intenzionale tergiversare per pochi istanti, un tergiversare che non è indecisione ma necessario atto sorgivo.

Dopo il gol, Lautaro Martinez ringrazia a malapena Perisic, autore dell’assist, e corre verso la panchina a gioire. Niente di nuovo: il normale egoismo dell’attaccante. È invece commovente la corsa di Hakimi verso Eriksen, l’abbraccio di Barella a Eriksen e la gratitudine di Eriksen a entrambi e a Perisic, che ha capito l’intenzione e assecondato il fluire dell’azione.

Un’azione sublime, che avviene senza pubblico a causa delle restrizioni anti-covid. E per una volta, l’assenza del pubblico non è negativa, anzi, San Siro vuoto evidenzia meglio la geometria dell’azione.

Meno di quattro mesi dopo, la morte di cinque minuti e la sopravvivenza.

Ottenuta la rescissione del contratto dall’Inter e prima di ritornare nel campionato inglese, Eriksen si è allenato da solo. Partiva da Milano e, come un frontaliero diretto in Canton Ticino, varcava la dogana e raggiungeva lo stadio di Chiasso, dove gioca la squadra che milita nella terza serie svizzera. 

Ricominciare da uno stadio marginale, sul confine: correre, palleggiare. Chissà se mentre si allenava, Eriksen riusciva a pensare soltanto al calcio, alla simulazione di un’azione che avrebbe voluto orchestrare. Forse il calcio gli servirà ancora a questo, a non pensare ai cinque minuti di morte, al conseguente defibrillatore sottocutaneo. O forse il calcio, a maggior ragione, lo riporterà al dispositivo elettrico grande come un orologio da taschino che protegge la vita e crea, dall’invisibile, qualcosa: il piccolo apparecchio sottopelle, sempre pronto ad adattarsi al battito umano, a correggere le aritmie, cercando di plasmare, in un tempo rinnovato divenuto anche suo, lo spazio.

ARTICOLO n. 2 / 2022

MANGIARE LA REALTÀ

La trasmissione televisiva di cucina oscilla tra il reportage e la divulgazione popolare. L’inviato è uno scrittore-giornalista. La televisione, alla fine degli anni Cinquanta, si preoccupa di educare i telespettatori al cibo genuino. 

Cibo genuino è un’invenzione televisiva che non significa nulla, una locuzione per formare i prossimi borghesi e piccolo borghesi.

Milioni di italiani non comprendono cosa significhi cibo genuino: mangiano la verdura del proprio orto, mangiano le uova delle loro galline, mangiano le loro galline. Questo è il cibo. Il cibo è il rispetto e il terrore per la fame patita fino a una dozzina d’anni prima. La fame patita a causa del fascismo non esiste nella trasmissione televisiva di cucina, la fame patita a causa del fascismo non è mai esistita, e se è esistita, è associata alla guerra, non al fascismo: il cibo televisivo serve a dimenticare. Il rispetto per il cibo esige da un lato l’occultamento della miseria causata dal fascismo, dall’altro lo svelamento non soltanto delle ricette, ma anche di ciò che compone i piatti. La trota non è già pronta e servita, la trota si agita mentre il pescatore le toglie l’amo dalla bocca.

L’inverno è la stagione della riproduzione che, al massimo, si prolunga all’inizio della primavera. Le uova si trasformano in avannotti. Gli avannotti sono piccoli pesci, conservano qualcosa delle larve che sono stati ma presentano qualcosa dei pesci che saranno: sembrano quei quattordicenni che non vogliono tagliarsi la peluria spuntata sul labbro, considerata come qualcosa di estraneo con cui convivere. Gli avannotti finiscono dentro i laghetti artificiali, le sponde in cemento, e lì crescono, prima di morire giovani. 

Lo svago di una domenica italiana. La domenica, gli operai e gli impiegati pagano una quota d’ingresso per accedere alle vasche di cemento; il proprietario fornisce la canna da pesca in bambù, gli operai e gli impiegati divenuti pescatori domenicali devono soltanto contare quante trote catturate in un’ora: tre, quattro, cinque. Alcuni proprietari non chiedono nemmeno la quota d’ingresso, i pescatori domenicali pagano quanto riescono a estrarre dal laghetto. In teoria, le trote delle vasche di cemento sono meno buone delle trote di torrente, ammesso che le trote di torrente non siano intossicate dalla chimica.

Il primo supermercato italiano apre nel 1957, l’anno della trasmissione dello scrittore-giornalista. Lo scrittore-giornalista mostra la cartina dell’Italia e indica la zona mostrata durante la puntata. La cucina inizia ad abbinarsi al turismo, diventa, essa stessa, turismo: il metodo migliore per viaggiare è mangiare. 

Più ci allontaniamo da noi stessi, più la cucina assume una falsa connotazione popolare. 

Lo scrittore-giornalista mostra quanto gli agricoltori si stiano motorizzando. Agricoltore è la parola utilizzata al posto di contadino. Nessuno pensa che, un agricoltore, si possa definire, poco dopo, imprenditore agricolo. La motorizzazione è la nuova realtà, ma la compravendita del bestiame avviene ancora al mercato. 

La pesa. I corpi degli animali. I corpi degli uomini. I soldi. I soldi, in contanti. Al massimo, gli assegni, firmati con le calligrafie incerte, prima il cognome del nome, come insegnano i maestri elementari, prima e durante e subito dopo il fascismo. Lo scrittore-giornalista dice che la povera gente cucina la fonduta, ma la fonduta può cucinarla anche la contessa vestita con un sobrio abito nero e un’elegante collana di madreperla. L’odore è buono, il sapore è meglio. Lo scrittore-giornalista pensa che sia possibile mangiare bene a casa dei miliardari e della povera gente. La cucina è uguale per tutti. La cucina è democratica. La cucina non fa sentire i poveri povera gente

L’importanza di abbassare la testa in un piatto, di identificare lo sguardo con il cibo. Basta avere tempo per il brasato. Mettere una coscia di manzo in umido, nel barolo, e cuocere per abbrustolirlo in superficie, così da impedire al succo interno della carne di disperdersi nel proseguimento della cottura. Il segreto è tutto qui: il barolo, la vita trattenuta dall’animale morto, quando la carne morbida si rilassa aumentando di gusto. Vedete i maiali? Ecco, questi sono quelli che abbiamo visto prima; già ammazzati, sventrati, ridotti nella forma desiderata: prosciutto cotto o crudo, salame, salsicce, salamelle, lardo per mortadella, cubetti di lardo trattati con pepe, sale, aromi. E le rane? Davanti a tutti, la monda delle rane, tagliare la testa, le zampe, togliere la pelle. Oggi nessuna trasmissione mostrerebbe il taglio della testa, delle zampe, l’asportazione della pelle, la faccia soddisfatta di chi mangia ossa croccanti. Impressiona, certo. E tuttavia, pochi decenni dopo, schiacciamo le rane con le ruote delle auto, quando torniamo dal supermercato dopo aver acquistato gamberi argentini surgelati.

Più di quindici anni dopo, la cucina diventa spettacolo, c’è il pubblico in studio. La trasmissione è alle sette di sera. A casa, le madri, ai fornelli, cucinano non troppo concentrate, si voltano, una posa a tre quarti verso il televisore, senza smettere di girare il mestolo; le madri ripetono le parole del televisore girando il mestolo nella pentola; i padri guardano il programma seduti in cucina, rispondono alle domande dei conduttori chiedendo consiglio alle mogli; i figli giocherellano con le briciole nei piatti ancora vuoti, edificano architetture con la mollica del pane. 

Sembra di essere in televisione.

Due conduttori, un uomo e una donna: l’uomo, figlio di un industriale chimico, ex editore, curioso, colto, generoso nel tentativo di una pedagogia che vada al di là della divulgazione; la donna, figlia di un imprenditore, attrice di cinema, poi di teatro, impegnata soprattutto in ruoli nei quali la donna ha un’origine popolare; l’attrice, alla fine della carriera, recita nel ruolo di una casalinga investigatrice. 

In ogni puntata, i conduttori presentano due personaggi noti che cucinano il loro piatto preferito. Poi rivolgono domande al pubblico in studio. È l’epoca dei quiz, il cibo bisogna guadagnarselo rispondendo alle domande. Che cosa è bene usare, per preparare un buon brodo di carne? Acqua fredda o acqua calda? Quali sono le verdure adatte a un brodo vegetale? Si usa ancora moltissimo la parola pastasciutta. Quanta acqua occorre ogni cento grammi di pasta per preparare una buona pastasciutta? Quando mia moglie non prepara la pastasciutta a mezzogiorno sono demoralizzato. È un medico che parla. Cento grammi non ingrassano nessuno, perché dovrebbero ingrassare me? Qual è il criterio per capire se uno gnocco è buono? La semola? Il colorito? Salire sul tavolo della cucina e spiaccicarlo per terra? Qual è il riso migliore per le cotture al forno? Qual è il riso più adatto alle minestre? Il riso povero di amido è consigliato per l’insalata di riso? Qual è il metodo migliore per mantenere bianco il riso dell’insalata di riso? È un valore, per il riso, essere bianco, o lo è per noi che mangiamo il riso bianco? Noi italiani mangiamo quattro chili di riso all’anno, in media, perché soltanto in Lombardia se ne mangiano dodici. Dodici chili sembrano tanti, ma in Cina ne mangiano centocinquanta all’anno. Un quintale e mezzo di riso dentro un corpo. Moltiplichiamo per un miliardo di cinesi. Centocinquanta miliardi di chili di riso. 

In Lombardia occorre lavorare ancora molto per diventare cinesi. 

Questi, invece, sono due cuochi cinesi che vivono a Milano, guardate, due veri cinesi. Voi siete specialisti di riso. Non solo. Patate impastate con farina di gamberi. Si immergono nell’olio fritto. C’è anche la carne, dentro? Ah, questa è una specialità, ogni specialità ha il suo segreto. 

Come si stacca la crosta della polenta dal paiolo? Un coltello può servire a molte cose, ma non è detto che sia la soluzione migliore. Questo riso, invece, arriva dagli Stati Uniti. Si chiama wild rice. Non diciamo che è loglio, una graminacea detta zizzania, che cresce accanto ai cereali, altrimenti, come possiamo lanciare il prodotto in Italia? È una zizzania buona, non è la discordia, non è la zizzania della Bibbia, e poi zizzania è una parola che scomparirà, resterà soltanto nella Bibbia, che ormai non legge quasi nessuno. Persa la parola di Dio, ci rimane il prodotto riso selvaggio, wild rice, basta dire che arriva dagli Stati Uniti, mettere wild nel nome e sarà un successo. Questo invece è riso italiano, per gente che ha molto appetito, diciamo pure, fame. Quando abbiamo fame, una frittata è meglio di una scatoletta. S’intende, una scatoletta di carne. Qui sul tavolo abbiamo tre tacchini morti, non ancora spennati, una natura morta su un tavolo degli studi Rai di corso Sempione, a Milano, la morte in serie. Tralasciamo la decorazione e diventiamo pragmatici. Questo tacchino, secondo voi, è buono? E questo? E questo? Qui invece abbiamo due oche: una ha le zampe giallo pallido, l’altro giallo acceso. Qual è l’oca più buona? La freschezza dell’agnello si riconosce dal rognone. Scegliete un rene rosa pallido o rosso vivo? Comprereste un pesce con la testa nera?

Nell’Ottocento si scrivono manuali sull’arte di usare gli avanzi. Due secoli dopo, il segreto per non lasciare avanzi è preparare porzioni minime, porzioni da bambini. Il segreto per non lasciare avanzi a sé stessi è alimentare gli altri. Impariamo dalla conduttrice del nuovo millennio, la donna magra, contemporanea, che pare entrata in cucina dopo una giornata di lavoro passata in uno studio televisivo trasformato in cucina. Cucina asettica, nessuna natura morta e tantomeno monda delle rane. La donna non mangia mai ciò che prepara. Al massimo, un assaggio, un assaggino. Eppure qualcosa rimane, sempre. Una magia: l’avanzo di un assaggino nemmeno assaggiato. 

Coraggio, bambini. C’è tempo per crescere, ma non poi così tanto. 

Un vecchio, solo, scola la pasta, la versa nel piatto, si siede al tavolo, guarda il fumo salire dai cento grammi di pasta: ha un malore, si accascia, la fronte appoggiata accanto al piatto, il fumo sale ancora per qualche secondo. 

Non sapremo mai se la macchia sul tavolo sia vino o sangue.