ARTICOLO n. 52 / 2021

DEAR MR. JOYCE

A CURA DI SIMONE TICCIATI

Malta, 1899: lord Muskerry (al secolo Hamilton Matthew Tilson Fitzmaurice Deane-Morgan, 4° Barone Muskerry) nota la carena di un piroscafo del Lloyd Austriaco, priva di molluschi e alghe. Scopre che è verniciata con l’intonaco antivegetativo Moravia, prodotto dalla «Fabbrica Vernici e Intonaci Sottomarini Gioachino Veneziani» di Trieste, e non perde tempo. Adotta l’antivegetativo italiano per il suo yacht «Rita», e ne attesta la qualità in una lettera alla ditta che si chiude così: «sono persuaso che se la vostra pittura fosse meglio conosciuta in Inghilterra, i proprietari di yachts ne farebbero uso su larga scala. Pel bagnasciuga il vostro agente mi fornì una vernice grigia del pari eccellente. Con stima Lord Muskerry».

Verità o leggenda (altrove si parla di un ammiraglio inglese, e l’episodio è retrodatato al 1890), è certo che la vernice Moravia – il cui segreto è gelosamente custodito dai Veneziani – già copre gli scafi della più importante compagnia di navigazione del Mediterraneo, e di lì a poco proteggerà gli yacht degli Arciduchi Ludovico Salvatore e Carlo Stefano Absburgo, del Re d’Italia, del Sultano, nonché lo «Shamrock» di Sir Thomas Lipton. E l’agente di Malta della ditta Veneziani non è un semplice travet: è Arthur Kohen von Hohenland, console generale austroungarico a Malta e agente del Lloyd Austriaco. Muskerry con la sua lettera e il suo ruolo politico (come pari d’Irlanda nella Camera di Lord) e Kohen come console in un territorio appartenente alla corona britannica possono facilitare lo sbarco della Veneziani su quel mercato.

Rimane solo lo scoglio dell’inglese ma un neoassunto trentottenne della Veneziani, Aron Hector Schmitz, sembra portato per le lingue; ha insegnato per molti anni corrispondenza commerciale tedesca alla Scuola Superiore «Pasquale Revoltella», e legge senza problemi il francese. Comincia così a prendere lezioni di inglese da Philip Francis Cautley, suo collega al «Revoltella», dove è professore straordinario di lingua e letteratura inglese. Schmitz è cugino di Olga Moravia, moglie del titolare Gioachino Veneziani, e ne ha sposato la figlia, Livia Veneziani.

Nel frattempo c’è bisogno di un agente commerciale in Gran Bretagna e la ditta comincia a sondare il terreno in più direzioni. Si mette in moto lo stesso Schmitz: a marzo 1901 un suo parente che lavora a Venezia gli presenta Salvatore Arbib, console onorario della Liberia e membro della vasta famiglia di mercanti ebrei sefarditi originari di Tripoli. Il fratello e il cugino di Salvatore sono Edoardo ed Eugenio, titolari di una importante ditta di import-export e pionieri del commercio tra Gran Bretagna ed Egitto e Sudan. Ma quello degli Arbib si rivela un abboccamento senza esito e Schmitz se ne lamenta con la moglie: «sono andato in città a parlare fino a sfiatarmi con due impiastri i quali non sanno che cosa io voglia da loro e dei quali non so neppure io che cosa vogliano da me. Mi viene persino il sospetto che mi accettino in loro compagnia per passare meglio una mezz’ora della loro stupida vita».

Ma il tempo stringe perché a giugno bisogna essere a Londra per discutere con la Marina britannica i termini e le condizioni dell’accordo. Così, la ditta Veneziani trova un primo agente (un certo Frantzen) che accoglie Schmitz a Londra, ma che al momento cruciale non può accompagnarlo all’Ammiragliato perché impegnato agli arsenali militari di Portsmouth. Così, Schmitz – che appena arriva in Gran Bretagna si rende conto che il suo inglese non è sufficiente («L’inglese va maluccio, sai. Non solo io non capisco loro, ma essi non capiscono me»; «La più semplice parola d’inglese che dico crea dei malintesi e dei dubbî. Se ne dico poi di più complicate allora rinunziano di comprendere e mi lasciano») – si ritrova da solo a Whitehall, nel cuore del potere politico e militare dell’Impero britannico.

L’avventura però – nel suo divertito racconto agli amici triestini – risulta assai più semplice di quanto temesse: in una stanza «squallida e disadorna», un ufficiale della marina britannica in borghese lo invita a sedersi, gli offre «una sigaretta molto profumata» e gli dice che l’affare è «virtualmente concluso». Nella lettera alla moglie del 21 giugno le conseguenze dell’accordo stipulato con la Royal Navy sono subito chiare: «L’essenziale per noi è che assolutamente pretendono la fabbrica in Inghilterra. All’ammiragliato sono stato accolto magnificamente; tutto va bene ma bisogna fare la fabbrica! Ne sono molto agitato perché certamente la famiglia che verrà a stabilirsi qui sarà la nostra, o molto probabilmente».

Per la succursale della fabbrica di vernici, i Veneziani scelgono Anchor and Hope Lane a Charlton, un quartiere di Londra nei pressi del Royal Arsenal. Poco distante dalla fabbrica, al 67 di Charlton Church Lane, affittano una casa per le esigenze dei membri della famiglia che si recano in Gran Bretagna per lunghi periodi per sovrintendere alla realizzazione e commercializzazione della pittura sottomarina. Schmitz continua a seguire le lezioni di Cautley ancora per qualche anno, forse fino al 1903: i frequenti soggiorni a Charlton (una o due volte l’anno per almeno un mese) sembrano bastare per il momento a colmare le sue lacune linguistiche.

Certo è che dalla primavera del 1907 si è trasferito a Trieste un certo James Augustine Aloysius Joyce. Non è ancora quel Joyce: è appena riuscito a pubblicare a maggio, con fatica, il suo primo libro, Chamber music, e sbarca il lunario insegnando inglese alla Berlitz School e poi a partire dall’autunno facendo ripetizioni private, diventando in breve «l’insegnante di moda presso la ricca borghesia triestina». Schmitz che «oltre ad apprendere la lingua, desiderava trovare un’esperta guida per la migliore conoscenza della moderna letteratura anglosassone» diventa uno degli allievi di quel «mercante di gerundi» (la definizione è sua). E nel corso del 1908 ciascuno dei due svela all’altro il proprio segreto: la scrittura. Schmitz ha già pubblicato a sue spese due romanzi nel 1892 (Una vita) e nel 1898 (Senilità), sotto lo pseudonimo di Italo Svevo, che non hanno avuto pressoché circolazione al di fuori di Trieste; Joyce sta lavorando ai racconti di Dubliners, nonché al Ritratto dell’artista da giovane (che rielabora parte del materiale di Stephen Hero).

Svevo e Joyce si scambiano le opere: Svevo regala le copie dei romanzi, ricevendone un giudizio più che lusinghiero, specialmente per Senilità, e Joyce dà in lettura il manoscritto dei primi tre capitoli del Portrait che Svevo legge tra la fine del 1908 e l’inizio del 1909, e ne scrive – come esercizio di scrittura – una lettera-recensione in inglese il 9 febbraio 1909 («Dear Mr. Joyce, Really I do not believe of being authorised to tell you the author a resolute opinion about the novel which I could know only partially…»).

È l’inizio di un rapporto di circospetta amicizia e di reciproca stima e riconoscimento che si interromperà solo con la morte di Svevo nel 1928; un rapporto che, specialmente per la sua prima fase, può essere ricostruito solo indirettamente. Svevo, oltre a pagare in anticipo le lezioni di Joyce, offre spesso il suo sostegno non solo economico all’amico insegnante che specialmente negli anni a cavallo tra il 1908 e 1915 è in difficoltà. Nel maggio 1909 gli facilita l’incontro con il capocomico di una compagnia teatrale, perché Joyce vuole mettere in scena la sua traduzione italiana di un dramma irlandese; nel giugno 1910 scrive un biglietto di raccomandazione per il «Prof. James Joyce». Ancora nel giugno 1915, quando Joyce – in quanto cittadino britannico – è costretto con tutta la famiglia a lasciare il territorio dell’Impero austroungarico per rifugiarsi a Zurigo, Svevo gli presta 250 corone. Joyce tornerà nuovamente a Trieste dopo la prima guerra mondiale per un breve periodo, tra l’ottobre 1919 e il luglio 1920, quando lascerà definitivamente l’Italia per Parigi.

Ma il rapporto non è affatto sbilanciato: Joyce tenta (inutilmente) di promuovere l’opera dell’amico-allievo tra i suoi studenti triestini, e probabilmente nel suo breve ultimo soggiorno triestino avrà avuto modo di incrociare Svevo e di parlare nuovamente con lui di letteratura, essendo i due scrittori impegnati rispettivamente nella stesura di Ulysses e di La coscienza di Zeno. È Joyce a spedire a Svevo i suoi libri appena pubblicati, come Dubliners nel giugno 1914, e a fornire nel febbraio 1926 due biglietti per la prima rappresentazione a Londra di Exiles. È Joyce, infine, ormai divenuto quel James Joyce, a mettere in contatto Svevo prima con Valery Larbaud nel 1924 e poi con i più importanti letterati contemporanei, promuovendo l’opera dello scrittore italiano senza risparmiarsi e contribuendo a creare il «caso Svevo» che dal 1925 in poi rallegrerà col suo portato di successo e relazioni gli ultimi anni di Ettore Schmitz.

È a questa fase che risale giocoforza la maggior parte delle lettere superstiti tra Svevo e Joyce (14 delle 19 complessive): ed è comunque un epistolario limitato non solo dai problemi di vista dello scrittore irlandese ma anche dal fatto che Svevo, oltre a non voler disturbare («A Joyce non scrivo mai se non ho argomenti importanti», come scrive a Montale nell’agosto 1926), preferiva incontrarlo a Parigi, da dove passava andando a Charlton o tornandone in Italia. La sorte di queste lettere, scambiate in italiano, inglese e dialetto triestino, una delle tante lingue praticate da Joyce, è stata curiosa: la maggior parte è conservata al Fondo Svevo di Trieste (comprese alcune lettere di Svevo che Joyce due anni prima di morire inviò alla vedova); il resto è disperso, come è successo all’intero epistolario joyciano, che ammonta a quasi 4000 lettere conservate in circa cinquanta fondi archivistici in Europa e Nord America.

Durante il lavoro per la nuova edizione dell’epistolario di Svevo, che uscirà a fine anno per Il Saggiatore, ho cercato di mettere ordine in questa che è forse la sezione più importante (insieme a quella delle lettere scambiate con Eugenio Montale). Grazie alla disponibilità ed efficienza delle biblioteche statunitensi che ho contattato, sono riuscito a recuperare non solo l’originale di una lettera già pubblicata sulla base di una trascrizione erronea, ma soprattutto cinque documenti inediti di Svevo: tre lettere, una cartolina e un biglietto da visita usato come lettera di raccomandazione per Joyce. Sono importanti sia per il contenuto (perché illuminano aspetti finora sconosciuti del rapporto Svevo-Joyce), sia per il periodo cui appartengono, tra il 1909 e il 1912, che è quello in cui quel rapporto si consolida e del quale finora possedevamo solo tre lettere, oltre a un altro esercizio di scrittura inglese, il noto ritratto di Joyce (Mr. James Joyce described by his faithful pupil Ettore Schmitz).

I documenti sono stati pubblicati integralmente sulla Nuova Rivista di Letteratura Italiana e compariranno anche nell’edizione delle Lettere: ne presento qui una scelta.

Simone Ticciati

Italo Svevo a James Joyce (5 agosto 1909, Vallombrosa)
James Joyce collection, #4609. Division of Rare and Manuscript Collections, Cornell University Library.

How are you dear Mr. Joyce? Here are two Englishmen who do not speak at all. I hope you enjoy your holydays among your family.

Arrivederci in Settembre

Suo aff.o

E. Schmitz

[Come sta caro signor Joyce? Qui ci sono due inglesi che non parlano affatto. Spero che si goda le vacanze con la sua famiglia.]

Nell’agosto 1909, mentre Joyce è in Irlanda presso la famiglia, Svevo gli spedisce a Dublino una cartolina illustrata da Vallombrosa dove è andato in vacanza con la moglie su consiglio di un collega della ditta Veneziani, Ario Tribel. L’inglese di Svevo è ancora malcerto (holydays) – ed è impossibile fare esercizio con i due inglesi che soggiornano a Vallombrosa, ma il grado di confidenza tra i due scrittori è già alto. Va registrato qui che Joyce non si stava affatto godendo le vacanze: era a Dublino, oltre che per far conoscere il figlio Giorgio alla famiglia, per cercare di pubblicare Dubliners e per tentare di ottenere una cattedra di italiano (che poi si rivelerà un semplice lettorato di italiano commerciale) all’Università Nazionale d’Irlanda. Ma soprattutto il 6 agosto incontra un vecchio amico d’infanzia, Vincent Cosgrave, che gli fa credere che la compagna, Nora Barnacle, lo abbia tradito con lui cinque anni prima. Joyce ne è sconvolto, e arriva a dubitare che il figlio nato nel luglio 1905 sia suo. La crisi si ricomporrà nel giro di pochi giorni e a settembre Joyce rientrerà a Trieste.

Italo Svevo a James Joyce (15 giugno 1910, Charlton)
Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University; James Joyce Collection

Charlton 15.6.1910

My dear Mr. Joyce, I am sorry indeed that I could not take leave from you in a proper manner. On Saturday I did not know yet that I had to start so soon. Be so kind to excuse me. You were so excited over the cynematograph – affair that during the whole travel I remembered your face so startled by such wickedness. And I must add to the remarks I already have done that your surprise at being cheated proves that you are a pure literary man. To be cheated proves not yet enough. But to be cheated and to resent a great surprise over that and not to consider it as a matter of course is really literary. I hope you are now correcting your proofs and not prepared to be cheated by your publisher. Otherwise the book could not be a good one.

We are here in good health. I am working and my wife is enjoying the new surroundings.

By and by she will be caught by her Anglomania and you will have a hard live to speak to her against your oppressors.

Please remember me most kindly to your brother.

I am, dear Mr. Joyce

Yours very truly

Ettore Schmitz

[Mio caro signor Joyce,

mi dispiace davvero di non essermi congedato da lei in modo adeguato. Sabato non sapevo ancora che dovevo partire così presto. Sia così gentile da scusarmi.

Lei era tanto agitato per la vicenda del cinematografo che per tutto il viaggio ho avuto sempre davanti agli occhi il suo volto sconvolto da tanta cattiveria. E devo aggiungere alle osservazioni che ho già fatto che la sua sorpresa per essere stato imbrogliato dimostra che lei è un letterato puro. Essere imbrogliati non prova niente. Ma essere imbrogliati e serbare risentimento per la sorpresa non considerandola una cosa tanto ovvia, è veramente cosa da letterati. Spero che ora lei stia correggendo le bozze e che non sia disposto a farsi imbrogliare dal suo editore. Altrimenti non ne verrebbe fuori un buon libro.

Noi siamo qui in buona salute. Io lavoro e mia moglie si gode il nuovo ambiente. Presto sarà presa dalla sua anglomania e lei avrà vita dura a parlarle male dei vostri oppressori.

La prego di ricordarmi molto caramente a suo fratello.

Sono, caro signor Joyce

il suo molto affezionato

Ettore Schmitz]

Quando Joyce rientrò a Trieste a metà settembre, decise di portare con sé una delle cinque sorelle, preoccupato per la situazione difficile in cui si trovavano. Eva Joyce, appena arrivata a Trieste, fece notare al fratello che la città era piena di sale cinematografiche, tutte frequentatissime, mentre Dublino ne era completamente priva. Joyce si lanciò immediatamente nell’impresa di portare il cinema in Irlanda, proponendo l’apertura di un cinematografo a quattro imprenditori triestini: Giuseppe Caris e Giovanni Rebez che gestivano già il «Cineografo Americano» in Piazza della Borsa e il «Salone Edison – Cinematografo Ideal» in via del Torrente; Antonio Machnich, proprietario di un cinematografo ambulante; e il commerciante Giovanni Rebez. La società, creata il 16 ottobre 1909, e il «Cinematograph Volta» di Dublino, inaugurato il 20 dicembre 1909, ebbero vita brevissima: il 18 aprile 1910 i soci deliberarono la vendita dell’attività a causa delle ingenti perdite, dovute alla cattiva gestione e alla scelta di titoli non graditi dal pubblico dublinese, e il 14 giugno il «Volta» venne ceduto al «Provincial Cinematograph Theatre». Joyce – pur non avendo investito personalmente nell’impresa – lamentò il mancato introito di 1000 corone.

In questa lettera Svevo chiosa l’appena conclusa avventura dell’amico: alla rabbia dell’irlandese oppone una morale che si intuisce essere non solamente personale ma – se così si può dire – imprenditoriale. Svevo, forte della sua esperienza, sa che in affari questi rovesci sono merce comune; e mostra all’amico la lezione che è necessario ricavarne. Non bisogna serbare risentimento (to resent a great surprise over that) proprio perché si tratta di una cosa così ovvia (a matter of course); ma anzi, è bene far tesoro subito dell’esperienza, e dimostrare coi fatti di non essere più disposti (prepared) ad essere imbrogliati. Proprio resent e prepared sono due delle lezioni ristabilite sull’originale manoscritto della lettera; mentre le precedenti (present e frightened) proiettavano una luce di taglio sulla personalità di Svevo, queste – oltre a denotare il suo livello di competenza linguistica, sia pur tra incertezze e costruzioni sintattiche ardite – indicano anche la qualità della lezione che Svevo offre a Joyce a partire dallo sfortunato affare del cinematografo.

Forse non si può credere fino in fondo a certe affettazioni di modestia («Io non sono un letterato», Lettera ad Attilio Frescura del 10 gennaio 1923); Svevo era certamente un letterato, ma altrettanto certamente un letterato «sa sempre di essere composto di due persone». Una di quelle due persone, Schmitz, era uno scaltro commerciante e industriale che, ad esempio, durante la prima guerra mondiale riuscì a opporsi con successo alla pretesa da parte della Marina da guerra austro-ungarica di requisire la ditta Veneziani e di farsi consegnare la ricetta della vernice sottomarina. Molte delle lettere di Svevo sono andate perdute: ma quelle di cui forse più posso lamentare la scomparsa sono proprio quelle che l’impiegato Schmitz inviava alla ditta e ai colleghi-cognati (due mariti delle sorelle della moglie erano impiegati nella Veneziani). Se si eccettuano alcuni accenni all’interno di alcune lettere alla moglie, se ne può avere un’idea dall’unica integralmente sopravvissuta, quella spedita da Charlton al cognato Marco Bliznakoff il 24 febbraio 1924; qui Schmitz spiega con dovizia di particolari e altissima precisione la modalità di realizzazione di un sistema per ridurre i fumi prodotti dalla fabbrica: «Il fumo delle caldaie ha da passare per tre torri irrorate d’acqua, quadrate, alte 10 piedi larghe 6; tutte di legno meno la bacinella su cui poggiano ch’è di una pietra resistente ad acidi e che costa Lst. 3»…

Italo Svevo a James Joyce (13 marzo 1912, Charlton)
James Joyce collection, #4609. Division of Rare and Manuscript Collections, Cornell University Library

Charlton, Kent,
Church Lane, 67

Dear Mr. Joyce,

I am a little late in writing to you and present you my best compliments for the lectures you have hold at Trieste. Here in this country are – I am told – about 1.000.000 of workers unemployed. Unhappily I am not one of them and I have to work every day.

I thaught very often of my Irish friend delivering lectures surely a bit at a higher level than the audience but I never reached a pen to tell him that I did. That bit is put there only in order to indulge in my patriotic feelings.

You will know by the papers that we are here starving and freezing. If you have some spared coal you may make a splendid bargain by sending it to Newcastle where is at present the greatest need. I must say I am here curiously watching what this people will do to stop all the disorders which threaten the Empire. And then we shall discuss quietly the question if they did well or not. I shall deliver speaches on the question which will bore you and Mrs. Schmitz (who reads what I am writing and wants to be remembered to you most kindly).

I hope, dear Mr. Joyce, we shall meet within three weeks.

I remain yours truly

E. Schmitz

[Caro signor Joyce,

con un po’ di ritardo le scrivo e le presento i miei migliori complimenti per le conferenze che ha tenuto a Trieste. Qui in questo paese ci sono – mi dicono – circa 1.000.000 di lavoratori disoccupati. Purtroppo io non sono uno di loro e devo lavorare ogni giorno.

Ho pensato molto spesso al mio amico irlandese che teneva conferenze sicuramente a un livello un po’ più alto di quello del pubblico ma non ho mai preso la penna per dirglielo. Quel po’ è messo lì solo per assecondare i miei sentimenti patriottici.

Saprà dai giornali che qui stiamo morendo di fame e di freddo. Se ha del carbone da parte potrebbe fare uno splendido affare spedendolo a Newcastle dove c’è al momento il maggior bisogno. Devo dire che sto qui a osservare con curiosità cosa farà questo popolo per fermare tutti i disordini che minacciano l’Impero. E allora discuteremo tranquillamente se hanno fatto bene o no. Terrò dei discorsi sulla questione che annoieranno lei e la signora Schmitz (che legge quel che scrivo e domanda di esserle ricordata cordialmente).

Spero, caro signor Joyce, che ci incontreremo di qui a tre settimane.

Resto il suo devoto

E. Schmitz]

La chiave di questa lettera è nello sciopero nazionale che i minatori britannici avevano indetto il 1° marzo 1912 per ottenere un salario minimo garantito. In pochi giorni un milione di lavoratori perse il lavoro e ci furono pesanti conseguenze sui trasporti e quindi sugli approvvigionamenti di generi alimentari (oltreché ovviamente di carbone). Lo sciopero si concluse con successo il 6 aprile 1912, perché il Parlamento approvò il Coal Mines Act che per la prima volta fissava un salario minimo garantito per i minatori. In questa lettera Svevo, oltre a scherzare sulla situazione, approfitta dell’occasione per complimentarsi con Joyce per le conferenze su Daniel Defoe e William Blake da lui tenute il 27 e 28 febbraio per l’Università popolare di Trieste, e insieme per alludere allo scarso livello dell’uditorio, sicuramente non all’altezza dell’oratore.

Qui (I shall deliver speaches on the question which will bore you and Mrs. Schmitz), come nella precedente lettera (you will have a hard live to speak to her against your oppressors), è evidente il riferimento all’abitudine presa da Svevo e Joyce di conversare sui più diversi argomenti, in italiano, inglese e triestino, nei caffè di Trieste, a Villa Veneziani, o nelle molte case che Joyce prese in affitto; e di cui resta in queste frasi e in queste lettere una debole, scolorita traccia.

Le informazioni e le citazioni sono tratte sia dalle lettere di Svevo sia dai seguenti volumi:

Fulvio Anzellotti, Il segreto di Svevo, Pordenone, Studio Tesi, 1985.

Umberto Saba, Italo Svevo all’Ammiragliato britannico, in Prose, Milano, Mondadori, 2001.

Livia Veneziani Svevo, Vita di mio marito, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1958.

Brian Moloney, Friends in Exile: Italo Svevo and James Joyce, Leicester, Troubadour Publishing, 2018.

Italo Svevo, Racconti e scritti autobiografici, Milano, Mondadori, 2004.

Le lettere inedite di Svevo a Joyce sono state pubblicate integralmente in Simone Ticciati, Cinque lettere inedite di Italo Svevo a James Joyce (e una nuovamente edita), «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», a. XXIV, n. 1 (2021), pp. 119-136.

ARTICOLO n. 88 / 2024