Vanessa Ambrosecchio

ARTICOLO n. 42 / 2021

RESTI

ESTATE A PALERMO

Ho ritrovato guanti da giardinaggio e una cesoia, una vanga e sacchi condominiali. Ho cominciato dalla strada di casa. Ho prelevato immondizia, rasato aiuole, spalato escrementi di cani e guano di strada, quelle stratificazioni di rifiuti da asporto che sole e pioggia impastano e solidificano, qui, fino a farne una crosta, una seconda pavimentazione a bordo marciapiede, dove pure fiorisce una flora informe, sterile e furiosa di vivere. A fine giornata, la strada di casa era sgombra di tutto.

Ho dormito come il primo giorno, dopo la fatica di nascere. Oggi ho attaccato le vie circostanti, le traverse. In poco tempo, ho riempito tutti i sacchi: dieci in un giorno e mezzo! Ma ovunque, agli angoli, agli incroci, si accatastano ante dismesse, divani in attesa di prelievo, stazionano cassoni di camion zeppi di detriti, braccia e gambe di stoffa fuori dai contenitori e il resto a mucchi a terra, fra reflussi di fogna e rami di palma venuti giù da cinquanta metri e rimasti a impedire il transito, come barricate. Prima camminavo a testa bassa, adesso che non c’è più nessuno da cui difendermi ho aperto gli occhi.  

I primi ad andarsene sono stati quelli di casa. È già successo. Aspetta e vedrai, gridano. Hai il potere di allontanare tutti! E  spariscono. Tre, cinque, dieci ore. A tarda notte rientrano, i grugni, gli occhi a terra. Ognuno in camera sua. Così non mi sorprende più trovare la casa deserta, rientrando dal lavoro. Tardi, come sempre.

Dopo il lavoro, vado nell’unico posto della città senza città: il Tribunale. Qua, finestre senza voci e senza panni. Strade lisce. Auto niente. Niente fantasmi d’alberi, stracci di aiuole, balconi carichi, colori, immondizia niente qua, e i rancori del traffico arrivano lontani. Pochi passanti, tra un corpo e l’altro degli uffici. Simulazioni di strade: via del Lume, via dell’Altare, via dei Quattro Coronati. Sono corridoi a cielo aperto, li interrompono doppie porte a vetro per l’accesso controllato alle aule. In via dei Quattro Coronati si può arrivare fino al cancello. Sono contento di trovarmi di qua, come si guarda il leone dentro la gabbia.

Di là, auto sequestrate fatte tana e cassonetto. Frigoriferi a bocca aperta, lavelli e water divelti, accanto a lattine mezze vuote con la cannuccia dentro, carcasse di bestie maciullate da un’auto in corsa o integre, le pance enfiate, le zampe stecchite, ronzanti nugoli di insetti. Di qua, attendo che il ringhio si plachi, che la città si faccia di nuovo percorribile. E torno a casa.

A casa, apro il mio barattolo e la mia bottiglia, poi annego. In piena notte rumori di chiave, di porta. Tornano, mi dico. Ma i rumori non concludono, così mi alzo. Nessuno, all’ingresso. Allo spioncino inquadro i vicini che, senza accendere la luce, carichi, lasciano il pianerottolo.

Tempo di ferie. In ufficio siamo in due da una settimana. Una mattina una mail mi avvisa che il collega è in malattia. È stato male fuori città, e ci resta. Seguono istruzioni su come aprire, attivare e disattivare l’allarme, dove lasciare le chiavi. Non posso fare io tutto il lavoro, ho replicato. Nessuna risposta. Ma la mia non era una domanda. Neanche una mail. L’ho detto al muro, ad alta voce.

Non sono più tornati. Neanche i vicini. Il palazzo sembra deserto. Tempo di ferie. O merito mio. Prendo il mio barattolo e la mia bottiglia e la pulsazione torna regolare, il cervello è imbottito di silenzio. Poi all’improvviso un lampo mi taglia la testa. Mi sveglio. Mi guardo intorno. La solitudine mi assale sotto forma di euforia. Mi precipito al supermercato sotto casa. Dentro, solo una commessa alle casse, una guardia giurata poco aitante al cellulare si fa gli affari suoi. Prendo il primo barattolo e la prima bottiglia che mi capitano e li faccio passare sul nastro: – Che fa stasera? – La donna solleva le palpebre cariche di nero, la stoppa bionda. – Roba pronta. Non ho tempo, io.  – E alza il piombo sulle palpebre: – Parto. Lei no? – Così pago e l’aspetto all’uscita del personale. Il fragore delle saracinesche in chiusura copre il fracasso che facciamo, perché all’inizio reagisce, e il mio barattolo e la mia bottiglia vanno a terra. 

Non ho voglia di tornare a casa, dopo. Ho daccapo la nausea e l’ovatta nel cervello. Barcollo fino al Tribunale. Fisso gli ultimi passanti, di ciascuno pensando che stia per aggredirmi. Poi non passa più nessuno, si accendono le luci sui nomi dei caduti per mafia, sulle colonne in acciaio e granito che stanno a rappresentare le ferite dello Stato. Fino a quando non noto un movimento ai piedi di una vetrata. Scatto in guardia. Un grosso uccello. Un gabbiano? Ci minacciano a stormi, ci gridano furiosi, scendono in picchiata in cerca di cibo. Lo fisso. Non ne so nulla di pennuti. Ma è troppo grigio, picchettato, il capo spelacchiato, gli occhi tutta pupilla: precipitato da un’era aborigena. La punta ricurva del becco tocca la vetrata. A ogni soffio di vento, ogni sospetto di vita, zampetta, si assesta. Non accenna a volare, ma non pare infortunato, piuttosto instupidito davanti a quell’altro riflesso nello specchio. Grrrgnau, faccio. Lui trema, zampetta, non si leva, incantato. M’incanto anch’io. Non può finire così. 

Così ho preso l’auto. Ho cominciato dal quartiere. È vero che è notte, ma i palazzi hanno le orbite cave, tutti. Non una festa, un insonne. Sono andato oltre, verso i quartieri nuovi. Qua e là ancora qualcuno, pochi. Così riprovo l’indomani, e l’indomani ancora. Mi acquatto agli angoli. Passo la notte a controllare, prendere nota. Tengo il conto. Hai il potere di allontanare tutti, tu. 

E notte dopo notte i conti tornano, soltanto loro. Le luci che si spengono nel buio corrispondono alle auto in meno, ai parcheggi disponibili, ai negozi serrati, gli uffici chiusi. Ai semafori che cambiano solo per me. Fortuna che esistono i distributori automatici, mi dico ogni notte, facendo rifornimento. Di diesel, cibo. Di bibite e caffè. Farmaci. Sigarette. Fortuna o questione di tempo. Ho perlustrato la città quattro volte in modo da ripercorrere le stesse zone in quattro fasce orarie diverse. Ci ho impiegato dieci giorni e adesso ci credo. Il silenzio per le strade su cui la mia auto fila senza intoppi mi sfila la garza dal cervello: Palermo emofiliaca, finalmente.

Così ho ritrovato vanga e sacchi, e ho incominciato dalla strada di casa. Il mio lavoro inizia adesso! Ma oggi mi vien voglia di morire come ieri l’ebbi di nascere. La città vuota mi appare aumentata, ingigantita, elevata a potenza dalla merda che la ricopre a strati da secoli e lasciata lì a seccare, a farsi nuovo cemento, contro me solo. Getto vanga e guanti. Mezzogiorno di sole implacabile e di sega nel cervello. Se almeno fossimo in cento, penso, in dieci, o anche in due… Poi ripenso all’uccello incantato dal suo riflesso e accelero verso il Tribunale.

Ma sono passati giorni ed è ancora là. Non ha bevuto, né mangiato. Non ha lasciato lo specchio che lo incanta e con la punta del becco sfiora come se scottasse. In fondo al buco nero della pupilla registra la mia presenza, e zampetta avanti e indietro, avanti e indietro come in un nastro che s’inceppa, un singhiozzo del presente. Così prendo una pietra da un’aiuola, la liscio, la scaglio, un’altra, un’altra ancora. Il buio sbarrato nella pupilla lo fa zampettare freneticamente avanti e indietro ma niente, non vola e non lo prendo. No, non può finire così. E mi rialzo come un albero che cresca a vista d’occhio: se fossimo in cento, in dieci o in due, sarebbe solo peggio.

Non dispongo di camion e ruspe, e i corpi bozzoluti dei sacchi che ho riempito nereggiano agli incroci. La città sulla città, l’architettura di scarti umani, vegetali e minerali che ha costruito edifici sugli edifici, che rovescia le case sulle strade e popola i marciapiedi di carcasse di plastica e latta è lì immobile, come avesse messo radici, come un’immensa blatta letargica, sorda, morta su tutto. Ma l’ultima pietra che avevo raccolto e non ho scagliato la lascio andare e rotola. La fisso. Palermo è in discesa.

Così cerco su internet, ma su internet si trova poco o niente. Decido di entrare negli uffici dell’Amap, è un edificio antico e dopo tre calci ben assestati spacco un’anta, ci entro. Ci passo giorni a fracassare vetrine di archivi, rovesciare tutto. A trovare, leggere, capire.

Il secondo atto è procurarmi una chiave di manovra. Entrare in un centro commerciale non è come all’Amap. Quando spacco il vetro d’ingresso aiutandomi con un ferro e l’allarme scatta, corro in un angolo a tremare. Vengo fuori mezzora dopo che tace, e tacciono gli ululati dei cani tornati randagi, tutto intorno. Ne prendo di varie misure. Ora devo solo studiare la mappa trovata e aspettare.

Il giorno lo deciderò incrociando le previsioni meteo di tutti i siti: non posso permettermi di sbagliare. Comincerò dalle periferie di nord-ovest, quelle ai piedi di Monte Pellegrino e della Piana dei Colli. Poi correrò a Passo di Rigano, che è ai piedi di Bellolampo, e in via Pitrè, che è ai piedi di Baida, e in corso Calatafimi, che scende da Monreale. Da Altofonte e Villagrazia invaderò Pagliarelli, da Monte Grifone Falsomiele, da Gibilrossa Ciaculli e la Bandita, da Villabate Acqua dei Corsari e Ficarazzi. La mappa parla chiaro, e i punti di attacco li so fradici, è il caso di dirlo. E allora rido. Palermo ai miei piedi, finalmente.

Ma la notte prima non ho dormito. Alle cinque ero pronto, e anche il cielo lo era, carico, furibondo. Mappa alla mano, ho raggiunto uno a uno gli idranti indicati, soprasuolo, sottosuolo, quartiere per quartiere. Il primo di ogni tipologia mi ha richiesto uno sforzo da levarci mano e buttarsi a mare, per la smania di rinfrescarsi e farla finita. Poi ho capito il verso. E ho acceso una a una le luci. Palermo incoronata. Ogni polla schizza come una fontana imbizzarrita, una cascata invertita, una gioia pazza di devastare. Ma non c’è tempo per contemplare. Corro in auto, schivo il lago che cresce, slitto sul fango, attacco il prossimo. Il cronometro mi insegue, minuti 54 secondi 35, incluso il tempo per mettermi in salvo, ma ce la faccio, sì. È quando apro l’ultimo a Villabate che trasalgo.

E guido contro la fiumana che cresce, sbando e riprendo, sbatto fiancate e me ne fotto, solo bado a non morire, devo arrivare, adesso. 

Al Tribunale risaia e palude fermo l’auto. L’uccello aborigeno è ancora là, mezzo sommerso, ma non vola e non nuota, è l’uccello del non. Ho l’acqua alla cintola quando senza esitare piego un braccio, lo prendo, e lui ritira le zampe, si accovaccia come se lo aspettasse. 

Contro l’acqua del cielo, che adesso scende sempre più fitta sull’acqua di terra, scavalco onde e mi schermo, schermo lui che non fugge. Raggiungo il rifugio preparato nei giorni come un nido: è in cima al grattacielo INA che scopro accarezzandolo che sotto le piume grigie ne spuntano di bianche, che anche la testa sbianca e il becco si fa giallo. Guarda con me, cucciolo.

Ai nostri piedi, l’acqua del cielo gonfia l’acqua di terra e tutte insieme insorgono le acque di ogni tempo, i cinque fiumi che questa città interrò premono contro il tetto d’asfalto, sboccano dalle fogne mentre la città romba sotto il loro straripamento. E mentre il temporale infuria, la pressione sotto si fa incontenibile, come uno spirito evocato in pieno sonno eterno si adiri d’essere destato e s’infoia di tornare al mondo, non fosse che per rabbia, per portarci via tutti. E tutto freme intorno: crolli e voragini erano nel conto. Ma lo spettacolo migliore non è questo: l’acqua che ora scende a marosi dalle colline trascina con alberi e case frigoriferi e cassonetti, strappa radici alla jungla di netturbe, gratta l’antico fondo di scorie e fecce, e il galoppo delle correnti va dove tutto va quando non sa dove, a mare. Se fossimo stati in cento, in dieci, anche in due, non si sarebbe fatto. 

E tu crescerai, bianco e potente, le zampe ferme, il becco giallo, il candido piumaggio, e imparerai senza paura a volare sul Cassaro rinnovato, sulla Cattedrale splendente, sui tetti che specchiano il cielo, sulle facciate ritinte, sulla città spogliata fra il mare e la Conca, ora timida e linda sotto il sole che spunta, che ho cambiato per te, Palermo appena nata, lucida e salva.