ARTICOLO n. 42 / 2023

PLAGIO O ISPIRAZIONE?

Arte Activa Volume 2

Dopo un po’ di tempo che si indossano gli occhiali non ci si accorge di averli sul naso, perché il cervello considera l’informazione inutile. La vita d’altronde è faticosa e richiede il massimo del risparmio energetico, motivo per cui non amiamo mettere in discussione schemi comportamentali e convinzioni acquisite, al punto da non percepire nemmeno la loro presenza. È il caso degli occhiali, ma anche quello del diritto d’autore, una serie di norme che, nonostante siano relativamente giovani e in continuo mutamento, vengono spesso date per scontate.

Proviamo a percorrerne velocemente la storia: la paternità dell’opera è un’idea antica e già Marziale si lamentava di chi imitava i suoi versi, sebbene l’aneddoto più famoso veda come protagonista Giordano Bruno, scoperto a plagiare quasi parola per parola alcune opere di Marsilio Ficino durante le sue lezioni a Oxford. Al tempo non era prevista una pena e la condanna consisteva per lo più nella vergogna: Bruno, ad esempio, fu cacciato da Oxford. Questi diritti diventano più precisi in parallelo a mutamenti politici e tecnologici legati alla nascita della stampa, e nella tarda metà del quindicesimo secolo apparvero a Venezia le prime forme di tutela di editori e stampatori. Per avere qualcosa di vicino al copyright contemporaneo però si deve aspettare l’Inghilterra e lo Statuto di Anna del 1710, e in seguito la Francia della rivoluzione. Quest’ultimo è un momento interessante su cui vale la pena dilungarsi, perché per strappare i diritti intellettuali dalla gestione della (smantellata) monarchia, la proprietà delle opere dell’ingegno vennero trasferite ai rispettivi autori. Era l’idea del filosofo illuminista Diderot, cui si opponeva parzialmente un altro intellettuale, Condorcet, che nei suoi Fragments sur la liberté de la presse (1776) sosteneva che un’opera, in quanto vettore di idee, non doveva essere considerata privata, e che la legge doveva permettere a più uomini contemporaneamente di usare le stesse idee, perché figlie di un processo collettivo. Si tratta forse di una delle prime formulazioni nella direzione dell’idea di “pubblico dominio”, ma ebbero la meglio furono le idee di Diderot e il 13 gennaio 1791 la legge Le Chapelier garantì i diritti d’autore per cinque anni dopo la morte, che nel 1793 vennero prolungati a dieci con la legge Lakanal. Questo limite temporale nei secoli si è sempre più allungato, anche per difendere gli interessi di potenti detentori di diritti come la Disney Company, che, nel 1998, a ridosso della scadenza di un’opera di Topolino, riuscì a far estendere i diritti postumi fino a settant’anni, con quello che ironicamente è stato chiamato il “Mickey Mouse Protection Act”. A tutto questo si aggiunge l’invenzione del concetto di trademark, che ha una diversa e complessa sfera di applicabilità e che non possiede limiti di tempo al rinnovo.

Negli anni molti studi hanno messo in dubbio il valore dell’attuale regolamentazione del diritto d’autore, sia per la sua efficacia che per la sua equità, ma non entrerò nel merito di un dibattito molto complesso e combattuto. Se volessimo estrapolare l’essenza delle critiche, potremmo dire che per molti le attuali legislazioni del copyright limitano la creatività e l’innovazione, non garantiscono una giusta remunerazione per gli autori ma vanno solo a vantaggio delle grandi aziende, limitano l’accesso alle opere culturali, non tengono conto della natura collaborativa e collettiva della produzione culturale, sono inadeguate alle tecnologie digitali, limitano la ricerca e ostacolano i cambiamenti sociali. Sono critiche che in larga parte condivido, ma com’è ovvio hanno subito anch’esse delle contro-critiche. Quel che mi interessa però non è proporre un’indagine sul diritto d’autore, ma sugli effetti che questo mutevole concetto filosofico e legislativo ha avuto sull’arte e sugli artisti.

Come dicevo in precedenza, i plagi hanno una storia antica. Nel caso della scrittura, che è un linguaggio notazionale in cui può essere ambiguo il riferimento (il significato delle parole) ma non la formulazione del testo (la posizione delle lettere) è da sempre molto facile individuare quando e quanto un’opera viene copiata. Più complesso, ma comunque verificabile, è il caso della musica, anch’essa legata a un linguaggio notazionale, cui però va aggiunto l’aspetto performativo. Girolamo De Simone ne tratteggia una bella storia, che ci insegna come nella musica il plagio sia una prassi molto comune sin dall’antichità. Un esempio su tutti: «il grande Mozart, amato dagli dèi e filmicamente odiato da Salieri per il suo genio, si divertì a copiare temi di altri compositori. Nella Ouverture del Flauto magico vi sono temi di Cimarosa e di Clementi, considerato il “padre della musica pianistica”. Mozart, come ricorda Luciano Chailly, “ebbe molte accuse di plagio per ‘prestiti’ da Gluck, Haydn, Paisiello, J. Christian Bach, Sarti, ed altri”». Non sono un esperto di musica ma ricordo che mio padre, un melomane dall’orecchio quasi assoluto, riconosceva dopo pochi istanti chi aveva preso da chi e cosa. I casi erano innumerevoli, spesso tra celebrati maestri. Ecco che sorge il problema del plagio, che da un punto di vista formale è irrisolvibile: quand’è che si tratta di plagio e quando di legittima ispirazione? O, per tradurlo nei termini legali, quando un’opera è sufficientemente trasformativa? Il caso dell’arte visiva, che a differenza di musica e scrittura non ha (quasi) mai un linguaggio notazionale di riferimento, può essere d’interesse nell’esplorare questo difficile discrimine.

Come nella musica, anche in quest’ambito le accuse di plagio hanno una storia antica che non possiamo ripercorrere, ma basta aprire un libro di storia dell’arte per riconoscere e scoprire gli innumerevoli plagi – o ispirazioni – di cui ha vissuto e vive l’arte. A uno sguardo severo ogni -ismo della storia dell’arte potrebbe essere una forma di plagio, data la somiglianza interna tra diverse opere appartenenti al barocco, al neoclassicismo, l’impressionismo, l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo, la pop art, l’arte povera… queste opere vengono accomunate in -ismi appunto per la presenza di somiglianze riconoscibili. Il problema è stabilire quando si tratta di plagio e quando di ispirazione e il problema del problema, per così dire, è che questo criterio non è in alcun modo oggettivo, ma cambia con il mutare della sensibilità culturale, storica e geografica. Giovanni Carlo Ballola scrisse che «se Mozart fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe dovuto passare molto tempo, per i suoi plagi, in un’aula di Pretura». Eppure oggi non facciamo a meno delle sue opere.

Di esempi di vere e proprie denunce nell’arte se ne possono fare moltissimi. Jeff Koons ne ha subite (e perse) diverse, Isgrò ne ha vinta una contro i Rolling Stones, Shepard Fairey è stato messo in difficoltà dalla Associated Press, Damien Hirst è stato spesso accusato di plagio e ha provocatoriamente confessato che tutte le sue opere sono copiate, anche se spesso non ricorda da chi. Anche l’arte astratta è soggetta a plagio, come dimostra il caso in cui Emilio Vedova ha sconfitto Pierluigi De Lutti – e in effetti nell’osservare i loro quadri qualcosa mi fa dire che sono molto simili, cosa che non direi per la foto di Obama e l’opera di Fairey. Nel caso Vedova-De Lutti la fama del primo sopravanza quella del secondo, ma pensiamo a Mimmo Rotella, che anni dopo l’artista francese Jacques Villeglé ha utilizzato senza subire denunce la tecnica inventata da quest’ultimo, il décollage, per quadri molto simili e per di più molto più quotati.

La legge non è il mio ambito e a essere sincero mi dispiace solo quando una persona più ricca di un’altra pretende del denaro da quest’ultima per aver violato una proprietà intellettuale, dato che non ci vedo alcun vantaggio collettivo. Certo, la legge vale per tutti, ma permettetemi di storcere il naso verso l’avidità di alcune denunce. Sappiamo inoltre che le leggi possono cambiare, così come le sensibilità e i rapporti di potere cui fanno riferimento. Il professore di Diritto Privato Roberto Caso scrive in alcune preziose slide a proposito del plagio che «il giudizio deve seguire una valutazione complessiva e sintetica, non analitica, incentrata sull’esame comparativo degli elementi essenziali delle opere da confrontare, dovendosi cioè valutare il risultato globale o l’effetto unitario». Parafrasato nel mio impreciso linguaggio mi sembra significare che non esiste una regola precisa e bisogna valutare caso per caso secondo criteri comuni. Già, ma quanto sono comuni questi criteri?

Qui entra in gioco la nostra sensibilità – nostra come quella degli artisti – e come questa sia cambiata nel tempo. È esemplare l’esempio della Brillo Box di Andy Warhol. La grafica della scatola Brillo di cui si appropriò Warhol era stata creata nel 1961 dal pittore espressionista astratto James Harvey (1929–65), che si guadagnava da vivere anche come grafico commerciale. Durante una lezione a un gruppo di studenti americani, prima di rivelare la reazione di James Harvey a Brillo Box ho chiesto come avrebbero reagito al posto suo: pongo la stessa domanda a chi mi legge, se non conosce l’aneddoto. La totalità (sottolineo, la totalità) degli studenti avrebbe denunciato Andy Warhol. Secondo il resoconto del filosofo e critico d’arte Arthur Danto, Harvey era presente al vernissage di Warhol presso la Stable Gallery. «Harvey rimase sconcertato… si rese conto che aveva progettato delle scatole che la Stable Gallery vendeva per diverse centinaia di dollari, mentre le sue non valevano nulla. Ma Harvey certamente non considerava le sue scatole opere d’arte». scrive Danto. Il mercante d’arte newyorkese Joan Washburn, che aveva già organizzato due mostre di Harvey presso la Graham Gallery, era al vernissage con l’artista. «Fu sopraffatto», ricorda Washburn. Quando gli viene chiesto se Harvey fosse arrabbiato, rispose: «No. Lo trovò divertente. Tutti quelli che entrarono alla Stable Gallery quella sera si divertirono». Io la penso come James Harvey, e se anche volessimo ascrivere la cosa a una casuale comunanza caratteriale è innegabile che molta della grande arte del Novecento sarebbe ora a rischio di denuncia, se non proprio illegale. Per fortuna le gallerie d’arte sono ancora terra franca, a patto che i lavori siano pezzi unici venduti come opere d’arte, ma non siamo più nei primi del secolo scorso, e gli artisti vivono anche (se non soprattutto) di altri ambiti editoriali, dove le leggi sono diventate sempre più restrittive. Anche la sensibilità degli stessi artisti è cambiata, assecondando sempre più l’individualismo della società occidentale a discapito del collettivismo che pur è vitale per ogni creazione artistica. Può sembrare strano, ma gli artisti sono tendenzialmente animali possessivi e conservatori.

Per tornare a stile e diritto d’autore, vale la pena analizzare il caso del musicista Robin Thicke, che è stato considerato colpevole di plagio e condannato a rimborsare oltre sette milioni di dollari per Blurred Lines, un brano del 2013 che la famiglia dello scomparso Marvin Gaye aveva trovato troppo somigliante a Got To Give It Up del 1977. In questo delicato caso, se consideriamo che a essere protetta dal diritto d’autore era solo la sequenza di note e che questa è differente nelle due canzoni, ci potrà stupire che Thicke abbia perso la causa per via della somiglianza stilistica tra i brani. Lasciamo ora perdere le leggi, che come dicevamo possono cambiare, e ascoltiamo semplicemente le due canzoni: Blurred Lines e Got To Give It Up. In base alla nostra sensibilità potranno sembrare troppo simili o sufficientemente diverse, ma non c’è nulla di oggettivo cui appellarsi. Per me vale la seconda, senza contare che trovo assurdo che a lamentarsi siano stati gli eredi e non l’artista, dato che questi non hanno creato un bel nulla ma solo ereditato dei diritti. Ma soprattutto concordo con Tim Wu, quando, commentando questo caso, scrive: «Provate a considerare quanti artisti sarebbero danneggiati se una tale sentenza fosse emessa con maggiore frequenza. Tutti sanno che i Rolling Stones hanno copiato lo stile di Chuck Berry e di altri artisti R’n’B. I primo album dei Rush ricorda molto i Led Zeppelin – che, tra gli altri, si erano rifatti a Robert Johnson. E questo non vale solo per la musica. Georges Braque e Pablo Picasso portarono avanti le idee di Paul Cézanne per sviluppare il Cubismo, uno stile che, a sua volta, è stato imitato da diversi altri pittori. Ci sono centinaia di esempi simili. Suggerire che questo verdetto incoraggerà un cantautorato migliore significa mal interpretare la storia delle arti. La libertà degli artisti e di altri creatori di copiarsi a vicenda è legata al principio che le idee non possono essere soggette a copyright, una nozione essenziale per la libertà d’opinione e per l’espressione artistica».

Sia in Italia che all’estero si susseguono ormai da decenni critiche politiche ed economiche alla gestione del diritto d’autore, che in modi diversi argomentano la tesi che chi fa arte non trae alcun vantaggio dalla limitazione della diffusione delle proprie opere e che i vantaggi vadano solo ad autori affermati e grandi aziende. Ciononostante queste norme si sono fatte sempre più restrittive e forse in futuro lo diverranno ancora di più. Di recente, per esempio, si parla molto della liceità o meno dell’uso di materiale protetto da copyright per addestrare i sistemi di machine learning, liberi o proprietari che siano. In Europa si sta già votando per costringere le aziende a rendere trasparente il proprio dataset, che al momento è tale solo per i software open source. La trasparenza è sempre la benvenuta (al netto della difficoltà dei controlli, perché il dataset non è contenuto nel software), ma per molti questa decisione va nella direzione di vietare il training su materiale non proprietario. Se questa fosse la strada e se fosse adottata globalmente, il futuro delle intelligenze artificiali sarà probabilmente nelle mani dei monopoli delle big tech che possono permettersi o già possiedono i diritti di grosse moli di dati, come suggeriscono i progetti AI di Adobe e di Shutterstock. Anche le varie alleanze in corso (Adobe con Google, Shutterstock con Microsoft) sembrerebbero confermare questa ipotesi. Fa comunque eccezione l’industria bellica, che per sviluppare sistemi di riconoscimento iper-umani non può certo farsi problemi di copyright – ma evidentemente per molti gli usi militari sono il pericolo minore. Un altro caso notevole è la recente vittoria in tribunale della Galleria dell’Accademia contro una casa editrice che aveva usato l’immagine (sottolineo: l’immagine) del David di Michelangelo senza pagar loro un canone. Un bene comune fuori dal diritto d’autore da secoli di fatto non è più comune. La notizia ha ricevuto sia critiche che lodi, tra cui quelle del Ministro della Cultura, ma a mio parere queste ultime testimoniano come la sensibilità nei confronti dei beni pubblici si sia distorta negli anni. Per quale motivo non posso guadagnare usando un bene che è patrimonio dell’umanità da cinquecento anni? Dovremmo pagare i diritti agli eredi o agli autoproclamati custodi di ogni invenzione, opera e tecnologia che utilizziamo a partire dalla ruota? Purtroppo questo è il segnale che abbiamo perso qualunque idea di “patrimonio dell’umanità”, un bene trasversale alle nazioni e agli usi, parte della storia di ciascuno di noi e su cui nessuna persona, azienda o nazione può accampare primati.

Nel parlare di copyright risulta evidente che la ragion d’essere di queste norme è economica più che ontologica. Come Kirby Ferguson infatti, credo che l’arte sia sempre un remix e un’operazione collettiva. Se Picasso fosse nato cinquecento anni prima sarebbe forse diventato un pittore, ma di certo non quello che conosciamo, perché non avrebbe avuto accesso alle rivoluzioni artistiche e tecnologiche dei secoli a venire. Non solo Picasso non ha alcun merito per le scoperte passate, ma non può neanche arrogarsi quello di moltissime a lui contemporanee, che lo hanno aiutato a plasmare la sua poetica – sua come quella di chiunque altro. Togliamo da Guernica quello che non è possibile imputare all’estro creativo del Maestro: l’invenzione di materiali e tecniche usate, quella del linguaggio attraverso cui sono state apprese, delle opere d’arte che ne hanno influenzato la genesi, delle persone e delle cose che gli hanno suggerito alcune idee, del contesto culturale che altri hanno costruito, della guerra, eccetera – del quadro rimarrà ben poco. Riprendo qui con piacere alcune affermazioni di Condorcet, che pur con i limiti del contesto culturale in cui si inseriva era giunto a intuizioni molto interessanti: «C’è un’incertezza inevitabile nel limite da cui si deve cominciare a considerare come nuovo, come frutto del genio, il risultato di un’operazione dell’intelletto umano», scrive il filosofo, che poi oltrepassa il problema dichiarando che il genio non è un dono fatto dalla natura a qualche essere umano privilegiato, ma una facoltà comune inegualmente ripartita. È forse il momento di accorgerci che gli occhiali che indossiamo senza accorgercene stanno diventando così scuri da nasconderci il truismo che ogni opera dell’ingegno è collettiva.

ARTICOLO n. 32 / 2024