Diletta Sereni

ARTICOLO n. 4 / 2023

IMPARARE A NUOTARE, ANCORA UNA VOLTA

L'anno che verrà

Doveva esserci una luna piena appesa sopra la vasca, ma il bagnino mi dice che l’hanno tolta da tempo, che era un’installazione temporanea. C’è ancora però l’enorme donna di Maurizio Cattelan, un murale che copre una parete intera della struttura già di suo monumentale. La donna è distesa sotto al pelo dell’acqua come se fosse sotto a una coperta. Di lei emergono solo le mani, pacificamente poggiate sulla coperta-acqua, e il viso, che è rivolto verso l’alto mentre le pupille sono rovesciate di lato, cioè verso chiunque entri in piscina, e anzi è uno di quegli sguardi che fissano l’osservatore in qualunque punto si trovi. Mi avevano parlato della piscina Cozzi alcuni amici che la frequentano, uno di loro la chiama “il mare” per via della profondità della vasca che arriva a cinque metri dal lato dei trampolini per i tuffi. Costruita in epoca fascista, con la conseguente grandeur architettonica, mi è sembrata abbastanza solenne per frequentarla senza fare troppo caso a me e al mio proposito per l’anno in cui compirò quarant’anni, che è il prossimo, ed è anche l’anno in cui voglio imparare di nuovo a nuotare.

Per molto tempo, l’ipotesi di frequentare una piscina per il nuoto libero amatoriale mi è parsa impraticabile, a causa dell’affollamento sentimentale che cova dentro a ogni cosa, nell’odore di cloro e vapore, nel segno del costume sulla pelle, in quel particolare tipo di rimbombo delle voci nelle vasche coperte. Sono stata una nuotatrice per una manciata di anni, che a pensarci adesso sembra trascurabile, ma che l’economia della memoria tende a far pesare più di tutti gli altri nella costruzione di sé. Ho cominciato da piccola, in una piscina affacciata sull’Arno, a Firenze, in un settembre degli anni Ottanta, come tanti bambini costretti a buttarsi in acqua controvoglia perché ai loro genitori era stato raccontato che “il nuoto è lo sport più completo”. Avrò avuto quattro anni quando fui iscritta al primo corso, che aveva la sola pretesa di insegnarci a gestire la respirazione dentro e fuori dall’acqua o, nel gergo dei maestri di nuoto per bambini, a fare le bolle. Prima attaccata al bordo e piano piano, galleggiando sorretta da qualche adulto di cui ho rimosso il nome e le sembianze, facevo dunque le bolle con la faccia sott’acqua, spingendo fuori l’aria con impegno, e riemergendo con la disperazione che preme alla fine di ogni respiro, prima che l’ossigeno rientri in circolo. La bambina ha un’ottima confidenza con l’acqua, dicevano a quanto pare le figure preposte, e questa apparentemente laterale caratteristica della mia persona finì per inchiodarmi al nuoto per i dieci anni successivi, e rendere la piscina un paesaggio costante di quel periodo di straordinarie trasformazioni in cui da bambini si diventa adolescenti. Una volta entrata nella squadra agonistica mi allenavo tutti i giorni e d’estate, appena finiva la scuola, due volte al giorno, mentre nei fine settimana c’erano spesso le gare regionali, che mi regalavano risvegli alle sei del mattino per essere alle otto a Carrara, a Livorno, a Certaldo. Facevamo il riscaldamento nell’acqua fredda di queste vasche di provincia, dove tutte le squadre si allenavano in contemporanea in un drammatico carnaio, e poi convivevo per le ore seguenti con un misto di noia e tensione in attesa della convocazione ai blocchi. Non ho mai provato gioia o divertimento a gareggiare, anzi, la descrizione più accurata vista da qui è che ero insofferente a ogni cosa di quelle giornate campali, e desideravo solo il momento in cui dopo la doccia piazzavo la testa sotto i phon a parete degli spogliatoi, e chiudendo gli occhi nel getto di aria calda sapevo che era finita. Detestare le gare non mi impediva di continuare a nuotare e di passare le estati insieme ai miei compagni di squadra a ciondolare sul bordo della piscina affacciata sull’Arno, quando finalmente la scoprivano e il fiume si vedeva davvero. Era riservata ai soci della squadra anche quando diventava una piscina di svago ed era il nostro territorio, ci sentivamo al centro del mondo, veneravamo Aleksandr Popov e odiavamo Gary Hall Jr., guardavamo le pubblicità di automobili con Franziska van Almsick e ci sembrava che il nuoto esaurisse l’universo del conoscibile, o almeno di quello che contava. Lasciai la squadra a quattordici anni, appena la vita liceale mi parò davanti altre più interessanti forme di intrattenimento, e non ci furono drammi perché ero dopotutto una nuotatrice media, senza speranze di diventare professionista. In qualche modo sotterraneo, però, mi sono sentita una nuotatrice sempre, per la forma che il nuoto aveva già dato al mio corpo, delle spalle larghe quasi maschili, perché è intorno a una piscina che ho iniziato a sperimentare alcune emozioni di base e, più di tutto, per quella confidenza con l’acqua che è rimasta intatta, nonostante io abbia evitato di frequentarla.

La donna di Cattelan mi fissa mentre rincalzo i capelli dentro la cuffia di silicone, e poi mentre regolo gli occhialini, e poi mentre deposito le ciabatte vicino al bordo e cerco di individuare la corsia meno affollata. Le prime vasche vanno via come niente e mi danno il tempo di illudermi che sia tutto ancora lì, l’arco della bracciata, la spinta delle gambe, c’è un istinto dei movimenti che si è conservato, li riconosco. Il problema, me ne accorgo quasi subito, è la respirazione: mi tocca accettare l’idea che non so più fare le bolle. La massa di acqua scura che si apre sotto di me dove la vasca è profonda cinque metri (eccolo, “il mare”) mi dà una specie di vertigine e mi porta a cercare l’aria dopo ogni bracciata. Dopo pochi minuti, sono in affanno. Non riesco a nuotare piano come vorrebbero i miei polmoni, e il respiro si spezza, si fa irregolare, manca. Due vasche e ferma, due vasche e ferma. La Cozzi inoltre non incoraggia il fermarsi a riposare: non si tocca da nessuna parte, il bordo è molto alto rispetto al livello dell’acqua, bisogna proprio appendersi, e i cordoni che separano le corsie (in realtà si chiamano corsie anche quelli, è scarno il lessico del nuoto) sono troppo grandi e tesi per potercisi sbracare sopra come fa ogni nuotatore da ogni tempo quando vuole riprendere fiato. Nel quadro di sottili prevaricazioni dimensionali che la grandeur architettonica esercita su di me c’è anche ovviamente la lunghezza della vasca, trentatré metri, una taglia anacronistica dagli anni Cinquanta in poi, e che risulta, nella prospettiva psicologica del nuotatore, una normale vasca da venticinque metri dove però lui è diventato più piccolo.

La prima settimana della nuova vita da nuotatrice se ne va col fantasma della me adolescente attaccato addosso: è nella pelle che sa di cloro anche dopo la doccia, nell’acqua nelle orecchie, nel solco che gli occhialini mi lasciano sulla faccia. E mi ricorda anche quanto nuotare in piscina comporti mischiarsi con gli altri, condividere l’acqua in cui speriamo sempre che nessuno pisci ma in cui di sicuro tutti sudano e sputano. Vuol dire mettersi quasi nudi in mezzo a sconosciuti e nella fatica diventare un tutt’uno.

Charles Sprawson era un autore inglese che all’inizio degli anni Novanta scrisse un libro per ripercorrere la vita e le imprese di alcuni scrittori e poeti che sono stati anche nuotatori intrepidi – e nella cui scia si inserisce volentieri, raccontando di essersi cimentato lui stesso nella traversata dello stretto dei Dardanelli e del fiume Tago. Il libro, che si intitola Haunts of the Black Masseur (tradotto con L’ombra del massaggiatore nero da Adelphi nel ‘95), racconta come il nuoto, celebrato in epoca classica, cadde poi in disgrazia, per essere riscoperto solo all’inizio dell’Ottocento, quando in Europa, e in particolare gli inglesi, impararono di nuovo a nuotare. La rinascita del nuoto passò anche dal diventare attività prediletta di alcuni poeti romantici come Byron, Shelley, Swinbourne, e un esercizio di sfogo e libertà per altri letterati successivi, tra cui Flaubert, Zelda Fitzgerald, Tennessee Williams. Il nuoto che racconta Sprawson non è lungo le corsie di una piscina, ma attraverso mari e fiumi o sotto le cascate, è una fonte di ribellione e di scoperta, di estasi e rischio, è una materia per avventurieri e sperimentatori.

Leggendo le storie dei nuotatori eccentrici mi sono ricordata di un episodio, verso la fine del mio periodo di agonismo. Durante una gara, credo i duecento stile libero, la cuffia cominciò a scivolarmi via. Nuotai una parte della gara con la cuffia calata a metà testa, una cosa che mi innervosì moltissimo, finché interruppi le bracciate e mi fermai per sfilarmela del tutto, scaraventandola via insieme agli occhialini come si potrebbe lanciare un pallone da pallanuoto. Feci ovviamente un tempo pessimo, anche per questo gesto che non aveva alcun senso e che ancora oggi non riesco a spiegarmi, e mi trascinai piena di vergogna davanti all’allenatore che se non ricordo male non infierì, forse anche lui spiazzato dalla mia teatralità estemporanea. Non mi stupisce che sia uno dei ricordi più nitidi del mio passato sportivo, ma è curioso che al di là del gesto mi ricordi la sensazione di quelle ultime due vasche senza cuffia e occhialini, l’adrenalina della gara sommata a quella del comportamento irregolare e la sensazione di sentire l’acqua molto meglio di prima. La sola ad avere il coraggio di rivolgermi la parola in merito fu la madre di un mio compagno di squadra che vedendomi passare mi disse, è stato un lancio bellissimo, come una danza. Allora mi parve una forma di commiserazione perché avevo poca fiducia nella fantasia degli adulti, ma col senno di poi quel gesto mi sembra l’unico squarcio di ribellione del mio periodo agonistico, e l’unico punto di contatto tra la nuotatrice di allora e quella che vorrei essere nell’anno che verrà.

Parlando di nuoto con un amico che frequenta la Cozzi da anni, lui mi dice che mentre va su e giù per le vasche ha lunghi dialoghi con se stesso e che ne ricava degli effetti meditativi. La ripetitività del nuoto si addice a questo uscire dal corpo, ne sono certa, e mi fa pensare che i nuotatori amatoriali si possano distinguere in chi mentre nuota pensa ad altro, vaga per le altezze dei pensieri, e chi pensa solo ai movimenti, al corpo che sente l’acqua. Per me, che appartengo ai secondi e che non sentivo l’acqua da più di vent’anni, si tratta di rientrare nei gesti vecchi con un corpo nuovo, che non è solo invecchiato ma che rispetto alla nuotatrice ragazzina a cui tutto doveva ancora succedere, ha vissuto dolore, eccitazione, depressione, amore e che da tutte queste cose è stato trasformato. Che deve imparare a prendere aria e buttarla fuori, e poi a vivere il nuoto come una danza. Mi sembra una cosa tutto sommato avventurosa. Non c’è uno stretto da attraversare ma almeno ho “il mare”, una donna gigante che mi fissa e qualche ombra con cui fare pace.

ARTICOLO n. 43 / 2022

STORIA DEL VINO AMBRATO CHE MI FECE INNAMORARE

Mondo naturale: il vino

Una sera d’estate di dieci anni fa mi trovavo seduta in un locale a Milano con davanti a me un calice di vino di colore ambrato, che mi era stato presentato come un vino naturale. Allora le mie cognizioni sul vino erano basilari, possiamo dire che il vino mi interessava solo per le sue proprietà di sciogliere la conversazione, per il resto mi risultava piuttosto indifferente e con un contorno rituale noioso. Ero insomma molto ignorante in materia, e proprio in virtù di quella ignoranza mi scopro spesso a citare quella serata nel locale di Milano come una specie di illuminazione. Quel vino ambrato e molti altri che seguirono toccarono nuove corde della mia attenzione, e mi dico che è stato per via delle loro qualità tangibili: i colori, gli odori, i sapori non somigliavano a quelli dei vini già registrati dal mio cervello. Forse avranno contribuito le circostanze felici di quella sera o l’atmosfera di quel locale spartano, che in realtà era un negozio alimentari, trasformato dopo la chiusura in un posto dove si beveva, e riconoscibile solo da una piccola scritta al neon rossa. Fatto sta che per la prima volta il vino mi sembrò non solo buono, ma interessante. È difficile dire adesso quanto contribuì la parola naturale, ma da quella sera il vino ha guadagnato sempre più spazio nella mia vita; e per una concatenazione di fatti che faccio fatica a definire casuale, il produttore di quel vino ambrato, che allora conoscevo a malapena di nome, è stato lo stesso che mi ha assistito e consigliato quando mi sono cimentata a fare il vino anch’io. 

Scherzo spesso sul fatto che il vino naturale è una specie di religione, per via della combinazione tra la parola naturale, col suo bagaglio mistico, e il più affidabile fomentatore di entusiasmi, l’alcol. Ad ogni modo, se così fosse io stessa avrei percorso tutte le varie tappe del cammino spirituale, con nel mezzo un discreto repertorio di viaggi, articoli, bevute, ritualità. Dico di me, perché credo sia un percorso condiviso da molti, che a partire da età, luoghi e mestieri diversi, finiscono nella rete dei vini naturali. E quando vanno in giro si ritrovano a sbirciare i tavoli degli altri, in cerca di alcuni segni di riconoscimento, un’etichetta più vivace, un calice più torbido, sapendo che sarà abbastanza per attaccare bottone. Una persona mi ha ricordato che qualcosa di simile succede ai lettori del Manifesto, quando scorgono sotto il braccio di qualcun altro il titolo dell’adorato giornale, e si scambiano quegli sguardi di ammirazione solidale che gli esponenti di una minoranza riservano ai propri simili.

Una delle prime cose che si imparano del vino naturale è che non c’è accordo su cosa si intenda per vino naturale. Come sappiamo il linguaggio è arbitrario per definizione, le parole ritagliano sul mondo dei contorni sfumati, eppure, nel caso nel vino, l’aggettivo naturale è carico di un’urgenza, una perentorietà, che rende i diversi intendimenti motivo di baruffa. Senza addentrarmi in dettagli tecnici, posso dire che tutto gira intorno all’ideale di un vino fatto usando l’uva come unico ingrediente, e un approccio agricolo almeno biologico, che evita i trattamenti sistemici o altra chimica di sintesi, e si occupa della salute del suolo e della biodiversità nella vigna. A partire da questi elementi incontestabili, la coperta resta abbastanza elastica da farsi tirare dove fa più comodo, e di fatto tiene insieme una varietà di produttori e bevitori che sarebbero disposti a definirsi a vicenda come «finti naturali» e «talebani naturali» – epiteti che fra l’altro incoraggiano la mia metafora religiosa. 

Con tutti i suoi limiti, il termine naturale ha espresso in qualche modo una sintesi felice e si è depositato, di fatto traghettando una nicchia frammentaria e disorganizzata fino all’affermazione commerciale. Così oggi esistono, in tutto il mondo, locali, fiere, e-commerce dedicati ai soli vini naturali, che non esistevano vent’anni fa. E, per quanto minoranza, è stata abbastanza rumorosa da innescare una riflessione più ampia sulle prassi di produzione, di valutazione e in fin dei conti di potere che hanno retto il settore del vino negli ultimi cinquant’anni o giù di lì. C’è il merito indiscutibile di aver riavvicinato, anche a livello simbolico, il vino all’agricoltura, da cui l’industria lo aveva alienato. E c’è il fatto che il vino naturale ha rotto un canone, o almeno lo ha ammaccato, rendendo praticabili ampie zone sensoriali che prima erano relegate nel repertorio dei difetti; non a caso il contrario del naturale è detto vino convenzionale, una scelta che indica dove – almeno semanticamente – stia la stranezza.

Il vino ambrato che mi fece innamorare nella serata milanese di dieci anni fa mi appariva strano per molti versi, a cominciare dal colore. Solo in seguito avrei scoperto che la gamma degli arancioni è una sorta di segno di riconoscimento del vino naturale, se non addirittura un elemento di provocazione; ma si tratta di un errore di prospettiva. In realtà, un vino arancione non è altro che un vino da uve bianche tenuto a fermentare sulle bucce, proprio come si fa coi rossi. Non ha niente di stravagante, bensì delle precise ragioni produttive: mantenere le bucce col mosto aiuta a proteggere le fasi iniziali della fermentazione. Prima dell’avvento dell’enologia industriale i vini bianchi si facevano soprattutto così, è la nostra memoria corta che lo fa sembrare una novità.

Per recuperare prospettiva, in questi anni sono andata spesso a trovare il produttore di quel vino ambrato, che si chiama Giulio Armani e abita in Val Trebbia, nel piacentino. Tempo fa scrissi anche un lungo ritratto su di lui per una rivista anglofona, un pezzo faticosissimo, perché Giulio parla quel poco che gli basta a sopravvivere e affida il resto della sua comunicazione alla mimica facciale. Cavare dalla sua reticenza delle frasi articolate è stato un supplizio, e solo in seguito, col passare degli anni e l’approfondirsi della nostra conoscenza, sono riuscita a mettere insieme i pezzi della sua biografia, che funziona bene anche come lezione sulla storia dei vini naturali. Giulio ha sessant’anni e ha iniziato a lavorare in cantina a diciotto, risalendo tutta la catena dei mestieri possibili fino a essere la mente enologica di una delle cantine più prestigiose d’Italia, naturali e non, che si chiama La Stoppa. Ha vissuto dunque il moltiplicarsi di prodotti e di consulenti che vendevano l’ideale di un vino «performante», soprattutto in termini commerciali, e che, soprattutto nei territori meno noti come il piacentino, spingevano i produttori a emulare i vini di zone più prestigiose, per lo più francesi, visto che la tecnica lo rendeva possibile. Per lo stesso principio di progresso, tra gli anni Settanta e Novanta in Italia si sono piantanti tanti vitigni internazionali (chardonnay, pinot nero, sauvignon blanc, merlot, cabernet sauvignon…) sostituendo le varietà locali. Negli anni Novanta, ormai trentenne, Armani ha iniziato a mettere in discussione i suoi stessi vini e, con la proprietaria dell’azienda, Elena Pantaleoni, hanno cominciato a togliere: lieviti industriali, filtrazione, conservanti (cioè solfiti); a cambiare metodo agricolo ed espiantare buona parte delle uve internazionali per rimettere le più bistrattate barbera e bonarda e malvasia. Oggi la loro inversione appare come una cosa di buon senso, ma allora queste scelte potevano tradursi in un suicidio commerciale, oltre che nell’essere emarginati e derisi da tutta la comunità di esperti. Benché nessuno dei due protagonisti ne parli volentieri, credo che siano stati anni difficili.

Vent’anni dopo, la parola naturale si è depositata e ha dato ai loro vini un senso nuovo, fresco, non conservatore ma semmai innovativo, o almeno lungimirante. La natura, come concetto, aveva nel frattempo raggiunto il punto più alto di idealizzazione, capace di alludere a cose vaghe ma sempre auspicabili, di aprire scenari bucolici e ammiccare in modi diversi all’idea di purezza. In Italia, ma anche in Francia, i produttori che facevano vino naturale prima che si chiamasse così, e che negli anni precedenti erano stati bocciati dalle DOC e rifiutati dai ristoranti, iniziano a essere celebrati dai locali più chic del pianeta e sono in grado di vendere le loro bottiglie a un prezzo molto più alto di quello delle DOC che li avevano rifiutati, tutto questo senza aver cambiato praticamente nulla nel loro modo di fare il vino. Infine, la nuova onda celebra i produttori naturali come dei divi: a Montreal c’è un ristorante molto in, che si chiama Elena in onore proprio di Elena Pantaleoni; in Corea, dei miei amici vignaioli abruzzesi hanno firmato autografi sulle magliette, sulle braccia, sulle schiene degli avventori di una fiera.

Siamo esseri volubili e le mode ci tengono svegli. La popolarità del vino naturale si inserisce però in un riassestamento più ampio, legato in parte all’oggettiva necessità di ripensare tutte le filiere agricole in modo meno devastante per l’ambiente, e in parte al fatto che l’argomento natura è diventato seducente, un buon modo per venderci le cose. Tre generazioni di benessere hanno cioè sovrascritto la memoria di chi vedeva nella natura soprattutto la terra, dura bassa e faticosa, vi associava povertà e sporcizia, e in ogni caso niente di desiderabile. Allo stesso tempo, rubricare i vini naturali a fenomeno hipster o radical chic, qualsiasi cosa voglia dire, è una prerogativa di chi ne conosce solo la superficie, le etichette colorate e poco più.Il vino ambrato di quella sera estiva milanese era fatto con uve miste, soprattutto malvasia di Candia aromatica e ortrugo, le due varietà bianche più radicate in Val Trebbia, proveniente da una vigna scoscesa a 400 metri di altitudine, un punto nel paesaggio che cercavo spesso con lo sguardo quando, un paio di anni fa, mi sono trovata a gestire un piccolo vigneto non troppo distante, cioè quando io e il mio compagno, più per gioco che per progetto di vita, abbiamo provato a fare il vino anche noi. Per una di quelle coincidenze che rendono le nostre vite più facili da raccontare, l’abbiamo fatto con le stesse varietà di quello di Giulio Armani scoperto dieci anni prima, e col privilegio dei suoi consigli. Gli amici che lo hanno bevuto mi chiedono se quindi questo è un vino naturale, e io rispondo che è più che altro un vino corporale, perché da principianti improvvisati, avevamo come unici strumenti le mani, i piedi, un paio di tini e qualche secchio, e ce li siamo fatti bastare. E che la parte naturale di fare il vino è stata invece la più difficile, poiché ha comportato un rapporto ravvicinato e prolungato con ragni, zecche, vespe, caprioli e cinghiali, muffe e parassiti dai nomi esotici, la paura della grandine, un giugno piovosissimo e un luglio bollente che mi ha bruciato la pelle e compromesso parte dell’uva. Se c’è una cosa che distingue il vino naturale da quello convenzionale, per me, è forse la capacità di tradurre tutte queste cose nella lingua misteriosa e universale del vino, di portare in giro per il mondo vicende umane altrimenti marginali, raccontarne la vulnerabilità e la fatica, senza coprirle o correggerle sotto una facciata rassicurante, o cercare di farle somigliare a un’altra storia di successo.