ARTICOLO n. 10 / 2024

IL NAUFRAGIO DEL SINGOLARE

Appunti sull’autobiografia italiana

Non ricordo il suo nome: ma qualche anno fa una giurata del Booker Prize, notando che tra i libri giunti in finale c’erano diversi memoir, commentò: – Il fatto è che è sempre interessante ascoltare qualcuno che parla di ciò che conosce bene. – E questo spiega buona parte del piacere di leggere un’autobiografia. Poi c’è l’altra parte.

Mi spiace citare le mie stesse parole, ma devo riprendere le fila di ciò che ho scritto esattamente vent’anni fa in un libro che si chiamava (guarda caso) Perché non possiamo non dirci: «Io sento [in quanto italiano] la mancanza del gesto autobiografico, il peso della penna che si confronta con il problema della verità letterale. Questo gesto, questo peso, è qualcosa di bellissimo. È una posizione, una posizione etica che mi manca dal punto di vista estetico. Mi manca come un colore, come un luogo. Mi manca l’autobiografia, in questo paese pieno di romanzi, così come mi mancherebbe la fotografia in un paese pieno di quadri: non quindi perché una delle due sia arte, o verità, e l’altra no».

Lasciamo stare per ora la diagnosi sull’Italia come paese renitente alla scrittura autobiografica (ci tornerò subito). Il piacere che tentavo di descrivere nasceva dallo spettacolo di una scrittura che lavora per aderire a un impegno di veridicità. “Spettacolo”, perché si tratta di qualcosa di simile al piacere che proviamo a teatro o al cinema, quando – sospendendo temporaneamente la nostra sospensione dell’incredulità – ammiriamo l’attore per il suo sforzo di immedesimazione. Soltanto che sul palcoscenico l’obiettivo è esattamente l’opposto: la finzione. L’autobiografo, invece, non deve fingere – o al massimo deve, come il poeta di Pessoa, fingere ciò che davvero sente. Chi lo legge ammirerà la ginnastica etica (lo dico senza alcuna sfumatura negativa) che gli occorre per dire la verità. Tutti gli stratagemmi del memorialista (semplificare la cronologia, cambiare i nomi, accorpare diverse persone in un personaggio, fino alle tecniche più radicali dell’autofiction contemporanea) sono posti al servizio di questa scommessa: dire il più possibile la verità su di sé. 

Questo è un obiettivo che ha preso forma soprattutto con le Confessioni di Rousseau. È vero che Rousseau, come oggi sappiamo, in realtà ha più volte mentito e taciuto. Tuttavia il suo progetto, la sua entreprise – je forme une entreprise qui n’eut jamais d’exemple et dont l’exécution n’aura point d’imitateur, “mi inoltro in un’impresa senza precedenti, l’esecuzione della quale non troverà imitatori” – lasciata in eredità agli autobiografi contemporanei, era quello di una rivelazione totale del sé. Mi sembra che questa eredità (come del resto quella della semplice biografia) non sia stata raccolta in Italia, non quanto in altri paesi: la Francia, i paesi anglosassoni. (Abbiate pazienza: nei prossimi paragrafi mi concederò diverse altre generalizzazioni).

Qui si potrebbe azzardare una spiegazione in termini, per esempio, di cultura cattolica o protestante, o di penetrazione parziale e orientata della cultura illuministica e romantica; o anche in termini socio-politico-economici – l’entreprise come impresa del nascente capitalismo borghese, produzione di un io a sua volta potentemente produttivo di capitale culturale e sociale. Non svilupperò queste ipotesi. Resta il fatto che dopo le memorie (alcune scritte in francese) di Gozzi, Goldoni, Alfieri, Casanova e Da Ponte, le nostre opere autobiografiche diventano mediamente molto meno rilevanti sul piano letterario. Pellico, Settembrini, D’Azeglio, il taccuino di Abba, i frammenti di Foscolo e Leopardi, non sono paragonabili alle opere di Chateaubriand e Stendhal. C’è un felice egotismo autobiografico che da noi non trova terreno fertile. 

Si potrebbe sostenere che l’Ottocento, soprattutto dopo il suo primo terzo (cioè nel clima del positivismo), sia stato un po’ dappertutto un secolo ingrato per l’autobiografia, troppo spesso privata di spessore letterario e ridotta a mero resoconto di fatti; del resto anche oggi è soprattutto un format editoriale a cui ricorrono le celebrità. E tuttavia dal Novecento in poi autori e autrici come Gide, Duras, Sartre, de Beauvoir, Canetti, Joyce, Nabokov e tanti altri hanno continuato a esplorare nuove vie della scrittura autobiografica intesa proprio come spazio di innovazione letteraria. In Italia questo è accaduto molto meno. Solo negli anni Sessanta i libri di Ginzburg e Meneghello hanno aperto una felice stagione di rinnovamento, a cui ricollegherei anche Se questo è un uomo di Primo Levi (uscito sotto silenzio nel ’47 ma poi ripreso da Einaudi nel ’58). 

Queste opere hanno un tratto in comune. La vicenda del singolo è fortemente inserita in una collettività: il lager di Auschwitz, la famiglia Ginzburg (e il suo milieu), il paese di Malo. È inevitabile, o comunque assai frequente, che un memoir colleghi il privato al pubblico, ma stavolta l’attenzione è portata molto più su queste realtà collettive che sulla persona dell’autobiografo: la quale viene spesso sottratta allo sguardo, per riserbo o per sprezzatura o per un sentimento del sé composto di entrambi. Al centro, fin dal titolo, c’è la famiglia (Lessico famigliare) o il paese (Libera nos a Malo); o se l’individuo, l’individuo indifferenziato (Se questo è un uomo) che rimanda immediatamente alla moltitudine degli oppressi. Più che autobiografie sono autosociografie, per ricorrere a un termine che viene già usato in riferimento alle opere di Annie Ernaux (alcune più di altre, direi) o a Ritorno a Reims di Didier Eribon.

Si pensi, per contrasto, a Lalla Romano, che conosce il maggiore successo in quegli stessi anni, ma per quanto omaggiata di un doppio Meridiano Mondadori rimane una figura anomala e appartata nel nostro panorama letterario. Certo, la dimensione relazionale è ben presente fin dai titoli delle sue opere: InseparabileL’ospite, la prima persona plurale di Le parole tra noi leggere o La penombra che abbiamo attraversato. Eppure il filo conduttore della scrittura è senza dubbio schiettamente autobiografico: è la singolare sensibilità della narratrice, che può dedicare un intero libro (Metamorfosi, l’opera prima!) al racconto dei propri sogni, o assegnare alla sua giovinezza il titolo Una giovinezza inventata. Inventata da chi se non da lei stessa?

Questa diffusa opzione per l’autosociografia, che da noi anticipa di molti anni Gli anni di Ernaux, nasce dalla tendenza italiana a privilegiare la dimensione comunitaria (i chierici rossi o neri di Montale), nonché dalla nostra scarsa inclinazione a ripensare, dopo il romanticismo, il racconto dell’io. Gide e Joyce e Canetti lo mettono in discussione, l’io, e ne incrinano in vario modo la coesione: ma questo non gli impedisce di metterlo al centro – anzi li costringe a farlo. Conducono uno scavo prolungato nella propria intimità, azzardando un’esposizione personale che per uno scrittore italiano saprebbe subito di alfierismo o dannunzianesimo. È come se fosse mancato, da noi, il passaggio attraverso un’autopercezione solida ma non enfatica, analitica ma non compiaciuta: o il fascismo l’avesse sabotato, questo passaggio. Puntare i riflettori sul proprio io sembra brutto. 

Oggi anche scrittori di forte temperamento e tutt’altro che inclini a scomparire entro una realtà collettiva come Edoardo Albinati o Vitaliano Trevisan scrivono memoir come Maggio selvaggioIl ritornoVita e morte di un ingegnere, e Tristissimi giardiniWorksBlack Tulips (notare la completa assenza di pronomi di prima persona): libri che addentano la propria vita da diversi lati, un morso alla volta: il carcere, le missioni delle ONG, il rapporto col padre, la città d’origine, la vita lavorativa, il rapporto con le donne migranti. Raccontano cioè, sia pure con un occhio che può essere ferocemente critico, dimensioni fortemente relazionali o addirittura comunitarie. Sono libri straordinari, beninteso, ed è un bene che queste dimensioni vengano raccontate con una schiettezza che ha pochi precedenti. Eppure mi dispiace un po’ non trovare in Italia un’impresa autobiografica solida e compatta in tre o cinque o sei volumi come quelle in cui Coetzee, Bernhard e Knausgård non esitano a distendersi al centro del vetrino del microscopio. Nella narrazione non solipsistica ma pienamente focalizzata sull’io, nell’autentico gesto autobiografico, c’è un valore specifico che è un peccato perdere.

Vorrei provare a vedere più da vicino come funziona una di queste costellazioni di testi che costruiscono, sommandoli, una sorta di autobiografia (o più esattamente, come ho scritto, autosociografia). E subito incontro una complicazione: non sempre sono testi autobiografici.

Racconterò un’esperienza di lettura. Da ragazzo ho scoperto che il mio autore di fantascienza preferito (alla pari con Asimov) usava uno pseudonimo. In realtà tutti sapevano chi fosse, lui stesso non ne aveva mai fatto un segreto. Ma io ero appunto un ragazzo; e lo appresi solo in un secondo tempo, che quel Damiano Malabaila si chiamava in realtà Primo Levi. Sì, era quel Levi che aveva scritto un libro importante sui campi di concentramento. Su Auschwitz. 

Levi stesso ha a volte rimarcato il confine che separava le due modalità della sua scrittura, ma altre volte ha sottolineato il nesso che le univa (al punto di giustapporle in opere più tarde come Il sistema periodico e Lilìt e altri racconti). E soprattutto ha spiegato che quel bizzarro nom de plume, Malabaila, “cattiva balia”, evocava il “latte girato a male”, e che quel cibo divenuto veleno sapeva “di sofisticazione, di contaminazione e di malefizio”: due termini tecnico-scientifici più uno tratto dal mondo magico. Aggiungeva che il mondo del lager, dove “i professori lavorano di pala, gli assassini sono capisquadra, e nell’ospedale si uccide”, somigliava a quello del Macbeth, e in particolare agli incantesimi delle streghe. 

Così quando, dopo numerose letture delle Storie naturali e di Vizio di forma, arrivai verso i diciott’anni a Se questo è un uomo, l’effetto fu quello che forse aveva preconizzato qualche recensore malevolo (uno di quelli che avrebbero voluto un Levi esclusivamente “testimone”, e fustigavano la commistione di realismo estremo e sbrigliata fantasia in un unico percorso di scrittura): il resoconto del lager mi sembrò una favola nera. Avendo invertito l’ordine di lettura rispetto a quello di pubblicazione, non vedevo nei racconti una modulazione fantastica di temi già presenti nella tragica realtà esperita da Levi. Al contrario, era Auschwitz a sembrarmi una forma di surrealtà. 

Ma è interessante che questa derealizzazione non attutisse in me l’effetto del memoir: tutt’altro. Che si trattasse di eventi effettivamente accaduti era indiscutibile. Che avessero anche un alone maligno, l’indefinito effetto d’eco di una pietra gettata nel fondo buio di un pozzo – be’, questo non faceva che aggiungere al senso di minaccia. Una minaccia tanto più concreta in quanto immaginaria.

Capivo bene, però, la perplessità dei recensori dei due libri di racconti fantastici, perché leggere Se questo è un uomo ti lascia una sensazione di compiutezza, in senso sia estetico che etico: un “non c’è altro da aggiungere”. (La tregua, se viene letta subito dopo, rischia di apparire – ingiustamente – come una coda.) Il fatto è che il memoriale di Auschwitz, uscito nei Saggi Einaudi prima che nei Coralli e già pochi anni dopo riproposto in un’edizione per le scuole, è un’opera rivestita di assoluta urgenza storica e politica e morale, da allineare con quelle di Antelme e Améry: ma – a considerarla come prodotto letterario – è un oggetto impossibile. Non può essere un modello di scrittura autobiografica, perché il dramma che ci consegna non ha paragone. (Le stesse parole dramma e consegnare sono palesemente insufficienti: il dramma è un genere fondato sulla finzione o perlomeno sulla performance; si consegna qualcosa che può essere raccolto, tenuto in mano, fatto proprio.) Non può, d’altra parte, venire apprezzato per i suoi valori puramente estetici: non che manchino (tutt’altro!), ma sarebbe scandaloso staccare i fili con cui lingua, stile e immagini alimentano la missione del testo-testimone. Non ha epigoni. Si costruisce, per così dire, un genere letterario tutto suo e lo esaurisce. Sembra strano – dopo – aprire un altro libro (tanto più se di fantascienza): per leggerlo, o per scriverlo.

Ma naturalmente è ciò che facciamo, aprire altri libri. Una volta letti tutti i libri di Levi che riuscivo a trovare, ho avuto conferma del nesso profondo che avevo intuito (e che, del resto, è cosa ben nota): il reale e il fantastico lavoravano bene insieme, non c’erano da una parte le opere d’invenzione e dall’altra quelle autobiografiche. Molte delle prime mettono in scena un mondo in cui ha trionfato la logica del lager, o meglio, i temi che quella logica sottende, dalla genetica al sadismo, dalla memoria alla mente animale. Molte delle seconde prevedono, per contro, un certo grado di “arrotondamento”, come ha spiegato molto bene Martina Mengoni. In Vanadio, uno dei racconti del Sistema periodico, Levi spiega che la storia del dottor Müller (un chimico alle cui dipendenze aveva lavorato nel lager) «non [era] inventata, e la realtà è sempre più complessa dell’invenzione: meno pettinata, più ruvida, meno rotonda». Ma in altra sede ammetteva di aver cambiato non solo il nome del personaggio (si chiamava Meyer) ma anche diversi aspetti della vicenda che aveva portato al loro secondo incontro nel dopoguerra, e perfino alcune caratteristiche personali: «Dopo la sua morte, e mentre scrivevo la ‘sua’ storia, ho avuto la sensazione che l’impatto sul lettore sarebbe stato maggiore attenuando le sue peculiarità individuali, e cumulando nel personaggio Müller un di più che della borghesia tedesca nel suo complesso…». Riassumendo: la fantasia letteraria è contaminata dall’esperienza, mentre il memoir, pur fedele, si lascia aggiustare dall’invenzione.

Non esiste un’autobiografia di Levi. Esiste un complesso di testi narrativi, composti in varia misura di testimonianza e d’invenzione (ma anche testi saggistici e poetici, che ho tralasciato per non dilungarmi); tutti insieme circondano e delimitano un nucleo di vita vissuta. Si disegna un campo di forze. La scelta della metafora del campo non è qui uno scherzo di cattivo gusto. In fisica il campo è la regione di spazio dove per ogni punto è definita una data grandezza o proprietà; anche i campi di concentramento o di internamento sono spazi in cui vigono proprietà specifiche, fondate sullo stato di eccezione. Tutta l’opera di Levi è lo sforzo di definire queste proprietà, che tuttavia non si lasciano cogliere fino in fondo, perché prive di una logica (il famoso Hier ist kein warum!, “qui non c’è alcun perché!”) o perché ripugnanti allo sguardo. 

La ricerca delle radici, in questo senso, è un manifesto di poetica autosociografica. Raccoglie testi di ogni tipo: da Belli a Conrad, dal manuale di chimica di Gattermann agli alieni di Fredric Brown. All’epoca, il titolo Antologia personale veniva prescelto da poeti come Borges (evocato da Levi nell’introduzione), ma anche da scrittori di fantascienza come Asimov, per raccogliere i propri testi migliori. La scelta di sottotitolare Antologia personale un libro composto ritagliando brani di libri altrui è dirompente: ci dice che nulla è più personale di ciò che appartiene ad altri. L’io è una sommatoria di altri io; è un noi. L’autobiografia si predica come essenzialmente collettiva. Il grafo ellittico posto all’inizio del libro, che ha al polo nord “GIOBBE” e al polo sud i “BUCHI NERI”, è un gorgo di libri, di linguaggi condivisi che ruotano attorno a un centro vuoto. Anche le opere di Levi sono un vortice di libri: una straordinaria costruzione testimoniale e riflessiva, l’evocazione di un inferno e del suo lascito nel nostro mondo. Nel tratteggiarla Levi ci ha raccontato molto di sé, eppure ha mantenuto un ritegno di fondo: il campo dell’io resta un’ellissi. Il tema era un altro.

In questa ruota di testi, ce n’è uno (un po’ Giobbe, un po’ buco nero) che occupa una posizione privilegiata perché corrisponde all’esperienza più sventurata: Se questo è un uomo. Levi è diverso da quasi tutti gli altri autori e autrici, in cui vita e scrittura sono due assi uniti da connessioni seriali come i fili paralleli di un telaio. In lui il reticolo di rapporti assume forma circolare: è un perimetro centripeto (e centrifugo) definito dalla forza di un unico evento biografico, un primum vissuto e sofferto – Auschwitz – che dal suo fulcro o fuoco, con energia incomparabile rispetto a ogni altro vissuto, riverbera in tutti gli scritti come una luce oscura. Se devo pensare a qualcuno che ha dato a una singola esperienza un simile potere di imprimersi su ogni punto della sua opera, il primo autore che mi viene in mente è Petrarca, con Laura e tutto ciò che lei viene a rappresentare. Sembra molto lontano da Levi e dal suo radicale dantismo, ma non dimentichiamo che nel racconto Breve sogno (in Lilìt e altri racconti), il protagonista sogna di essere Petrarca.

Breve sogno è la storia di un risveglio, scandito da una parola sbagliata: sogh-no: così pronuncia “sogno” la ragazza straniera. Come in molti racconti, vi si proietta in forma più leggera l’ombra del lager: il risveglio (da un sogno a un incubo) alla fine della Tregua, con la parola straniera Wstawać, “alzarsi”. Anche il dottor Müller di “Vanadio” viene riconosciuto da un refuso. L’autosociografia contempla molto naturalmente una dimensione linguistica: non è forse la lingua, in primis, a definire una comunità? Altrettanto naturale è però la tensione tra la lingua del gruppo e quella del protagonista, con i suoi sbagli. Ognuno di noi è straniero agli altri.

Non bisogna banalizzare questa “tensione”. Innanzi tutto, uso questa parola non troppo determinata per riferirmi a un ampio spettro di relazioni e atteggiamenti, che includono, per esempio, anche l’affettuosa ironia dei giovani Ginzburg davanti alle immutabili frasi fatte dei genitori, o l’aspirazione del ragazzo Meneghello a capire meglio certi termini veneti. E poi i linguaggi collettivi sono più d’uno (e anche tra loro si instaurano “tensioni” di vario tipo): la lingua d’uso, il dialetto, la lingua letteraria, i gerghi della scienza e della tecnica, le lingue straniere; in Meneghello, per esempio, l’inglese ha certamente un potenziale liberatorio rispetto all’italiano. Inoltre anche l’idioletto più personale è “collettivo”, come lo è sostanzialmente ogni espressione linguistica: perfino il nonsense si produce entro un orizzonte d’attesa. Non esiste la verità del singolo. Ma la verità scaturisce sempre dal cortocircuito tra il singolo e il gruppo.

Rispetto all’idioletto i linguaggi del gruppo hanno inevitabilmente una posizione dominante o pervasiva, che emerge quando vengono descritti in modo metodico o perlomeno molto ampio. È ciò che accade in tutto Lessico famigliare, fino alle pagine finali in cui un’intera conversazione tra padre e madre è costruita come una lorica, agganciando formule come piastrine d’acciaio. In Levi e Meneghello il resoconto (spesso un vero e proprio racconto) dei linguaggi è più disseminato e circostanziale, ma non meno importante. Per quanto riguarda Levi, la matrice sta nella Babele di Auschwitz: il lessico concentrazionario, l’incontro con lo yiddish, il tedesco lingua infernale e salvifica, il russo colonna sonora di una caotica libertà, e poi la ricerca delle parole italiane per dire l’orrore. Ma ancora nel Sistema periodico, per esempio, il primo capitolo (“Argon”) dedicato agli antenati dell’autore è anche un trattatello sul linguaggio giudaico-piemontese. (Del resto la tavola degli elementi, su cui si modella il libro, è in senso lato un linguaggio; il sistema periodico è l’“alfabeto” della materia, e di una vita di chimico; una delle etimologie proposte per il latino elementum vede in questa parola la sequenza delle lettere L, M, N, un po’ come in italiano l’abbiccì deriva da A, B, C).

Non è un caso che negli stessi anni Cinquanta-Sessanta delle grandi autobiografie collettive prenda forma la sociolinguistica moderna, in Francia (Marcel Cohen) e in America (William Labov); verrà portata in Italia da Giorgio Raimondo Cardona negli anni Settanta – e questo è il decennio in cui inizia a scrivere Annie Ernaux… Dietro al progetto di raccontare un corpo sociale attraverso le sue parole c’è il fatto che, dopo tutto, la lingua è essenzialmente comunicazione, dunque comunità; e più specificamente l’idea che il linguaggio sia strettamente legato alla visione del mondo. Secondo quella che (un po’ impropriamente) viene chiamata “ipotesi Sapir-Whorf”, una lingua definisce in modo stringente la cultura di una collettività, cioè di chiunque la parli. Ancora una volta, ciò che abbiamo di più personale appartiene ad altri. 

Ma se l’idea di un rapporto cruciale tra lingua e comunità è largamente accettata, per molti linguisti l’ipotesi Sapir-Whorf, almeno nella sua versione più rigidamente causale e deterministica, può venire ammessa solo con forti limitazioni. A maggior ragione nicchiano gli scrittori, ben coscienti che la letteratura racconta soprattutto storie individuali (un po’ come la mathesis singularis, la “scienza del singolare” di cui ha scritto Roland Barthes) e che ogni personaggio ha un suo linguaggio, evidentemente in rapporto con la lingua condivisa, ma anche dotato di caratteri propri e unici. La domanda, a questo punto, è: l’autobiografia riesce a raccontare anche l’idioletto? E come?

Le autosociografie potremmo considerarle una precoce diramazione del romanzo-sistema postmoderno, cioè di quei romanzi (raramente autobiografici) che negli anni Sessanta-Ottanta disegnano un sistema chiuso e completo, a volte linguistico, una sorta di alfabeto allestito attraverso un ridotto numero di unità basiche. Il sistema periodico, appunto; e Fuoco pallido di Nabokov, Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili di Calvino, La vita, istruzioni per l’uso di Perec, i Sillabari di Parise, l’Enciclopedia dei morti di Danilo Kiš, il “Piccolo dizionario di parole fraintese” nell’Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, Vedi alla voce: amore di David Grossman, il Dizionario dei Chazari di Milorad Pavić, e così via. 

Il romanzo-sistema, però, includeva una deliberata lacuna. Era un omaggio allo strutturalismo, ma anche una critica a certe sue pretese di imperialismo ermeneutico. Incarnava (con tutte le varianti che si possono immaginare) un ragionamento di questo tipo: la realtà è una struttura complessa e in parte arbitraria o casuale; è possibile descriverla, ma mai in modo esaustivo, perché ci sarà sempre un elemento che sfugge al sistema, che lo rende imperfetto o inesauribile. In Fuoco pallido manca l’ultimo verso, perché il poeta Slade viene ucciso. Anche in La vita, istruzioni per l’uso Bartlebooth muore prima di completare la sua impresa, e una stanza resta inesplorata. Nei Sillabari Parise scrive uno o più racconti per ogni lettera dell’alfabeto, ma deve fermarsi alla S – come confessa la celebre Avvertenza: «Nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato… La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei… un poco come la vita, soprattutto come l’amore». Come si vede, l’incompletezza del sistema è sempre riferita alla presenza tenera o tragica del fattore umano. Il sistema periodico, per contro, non contempla strappi alle regole; la chimica è il regno della causalità; e la tavola degli elementi in fondo può essere intesa, nel 1975, come una risposta moderata e oggettivante alle fughe e derive anti-sistema della contestazione.

Ho l’impressione che l’autosociografia italiana abbia fatto poco spazio al linguaggio del singolo. Non era il suo progetto e lo sapeva bene. Se questo è un uomo voleva essere un libro di testimonianza storica, non un diario intimo; La tregua e soprattutto Il sistema periodico hanno tracciato attorno all’esperienza storica un’esperienza biografica. Qualcosa di simile si può dire per il rapporto tra l’affresco di Lessico famigliare e i racconti e ritratti e autoritratti delle Piccole virtù. Ma questo recupero dell’io ha funzionato solo fino a un certo punto. Levi e Ginzburg si fondavano su un paradigma di oggettività, quello del socialismo scientifico o della scienza tout court. Pensiamo, per contrasto, a Ernaux: ha alle spalle e tutto attorno un paradigma di soggettività, il “partire da sé” femminista come ripresa e capovolgimento del tradizionale intimismo femminile. Questo fa sì che in lei la profondità dell’osservazione sociale si accompagni sempre a un immediato, e se necessario disinibito, scavo introspettivo. L’ho detta alla grossa; il pericolo è che queste figure di intellettuali appaiano ridotte alla loro dimensione ideologica. Ma credo che ci sia del vero nella mia analisi, e un po’ me ne rammarico, perché nonostante l’amore per Levi e Ginzburg – tra i miei scrittori preferiti in assoluto – credo che solo puntando il compasso sulla sensibilità personale l’autobiografia possa dire ciò che è nata per dire. 

Per trovare qualcosa di simile dobbiamo guardare altrove. A Meneghello, forse? Ne ho poco parlato qui, dovrei riprendere in mano vecchie letture: ricordo, in certe pagine, un senso di tenera freddezza, l’impressione di una intensa esplorazione dell’insensibilità personale, con gli strumenti di una sprezzatura quasi violenta e di una cultura linguistica e stilistica oggettivante; sì, l’attenzione per il linguaggio può produrre, invece di sensibilità, una forma di distacco. A chi, allora? Ad alcuni libri di Ernaux, per esempio L’evento. Oppure alle opere di Michel Leiris, soprattutto la tetralogia La Règle du jeu, uscita negli stessi decenni delle opere di cui abbiamo parlato. Andrea Cortellessa ha parlato della «pazienza eroica, il vero e proprio stoicismo da palombaro col quale per mezzo secolo Leiris ha scandagliato il mare fondo che si agitava dentro di sé».

Qui potrò fare solo un accenno: e me ne scuso. Dunque all’inizio di Biffures, primo volume della Règle du jeu, Leiris si sofferma a lungo sul proprio linguaggio infantile. Racconta per esempio l’episodio in cui una sua esclamazione, – …Reusement! – (qualcosa come: – Tunatamente! – ), viene corretta dagli adulti in “heureusement” (“fortunatamente”). Una biffure è una cancellazione, ma il titolo allude anche alla bifur, la biforcazione. (Biffures esce pochi anni dopo Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges.) La correzione oblitera l’errore – ma gli concede anche una sopravvivenza virtuale. “Per un momento resto interdetto, in preda a una specie di vertigine. Perché quella parola storpiata, di cui ho appena scoperto che in realtà non è quel che avevo fin allora creduto, mi ha messo in grado di oscuramente avvertire – grazie alla sorta di deviazione, di scarto impresso al mio pensiero – in che cosa il linguaggio articolato, tessuto aracneo dei miei rapporti con gli altri, mi trascenda, protendendo da ogni parte le sue antenne misteriose.” 

C’è quindi un doppio movimento: il riconoscimento del proprio idioletto e della lingua condivisa che lo smentisce. Quest’ultima è insieme “tessuto aracneo” e essere dalle “antenne misteriose”, ragnatela e ragno (o altro minaccioso insetto): ha cioè i caratteri dell’oggettività e insieme della soggettività, il che la rende imprendibile. Quanto all’idioletto, si dichiara “storpiato”, assimilando il giudizio della norma grammaticale. Eppure ha in sè anche una potenza particolare, la forza che svela l’esistenza della norma che la “trascende”. La letteratura ci dice la realtà condivisa, ma non può semplicemente enunciarla: ha bisogno di un liquido di contrasto, lo scarto individuale, l’errore conservato nella memoria a distanza di decenni. Se nulla è più personale di ciò che appartiene ad altri, nulla è più comune dell’eccezione costituita dall’io. Se si perde di vista questo, accadrà ciò che annunciava nel 1967 il poeta George Oppen: 

Obsessed, bewildered
By the shipwreck
Of the singular
We have chosen the meaning
Of being numerous.
“Ossessionati, confusi
per il naufragio
del singolare
abbiamo scelto il senso
dell’essere numerosi.”

Testi citati

Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci: letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, Milano 2004, p. 176; Jean-Jacques Rousseau, Le confessioni, trad. Giorgio Cesarano, Garzanti, Milano 1976; Primo Levi, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi, a cura di Gabriella Oli e Giorgio Calcagno, Mursia, Milano 1992, p. 37; Primo Levi, “Vanadio”, Il sistema periodico, in Opere I, a cura di Marco Belpoliti, intr. Daniele Del Giudice, Einaudi, Torino 1997, p. 928; Martina Mengoni, Primo Levi e i tedeschi, Einaudi, Torino 2017 (in particolare la lettera di Levi a Hety Schmitt-Maass del 6 ottobre 1976, p. 151); Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia, trad. Renzo Guidieri, Einaudi, Torino 2003, p. 10; Andrea Cortellessa, “Parole come brecce per filtrare il mondo”, il manifesto, 15 agosto 2012, poi su Doppiozero il 20 agosto in versione ampliata (“Michel Leiris, la vita e il suo doppio”); Michel Leiris, Biffures, pref. Guido Neri, trad. Eugenio Rizzi, Einaudi, Torino 1979, p. 6; George Oppen, On Being Numerous, trad. Marco Rossi-Doria e Anna Maria Savarese, dalla rivista online Lo Sciacallo, a. I n. 2, luglio-settembre 2000.

ARTICOLO n. 35 / 2024