ARTICOLO n. 15 / 2024

MADRI MOSTRO

Il mito della mostruosità femminile - i

A causa di alcuni problema di salute, la Presidente del consiglio Giorgia Meloni ha rimandato la consueta conferenza stampa di fine anno ai primi giorni di gennaio. Si tratta di un appuntamento importante in cui l’esecutivo è chiamato a confrontarsi con la stampa in merito alle attività svolte durante l’anno appena concluso. Com’era prevedibile, molto tempo è stato dedicato a rispondere alle domande sulla natalità e sulle misure utili a favorirla. Il cosiddetto “inverno demografico”, espressione utilizzata per descrivere lo stato di preoccupante denatalità che caratterizza i paesi europei e in particolare l’Italia, è infatti un tema molto avvertito dall’attuale Governo, che non a caso vi ha dedicato ampio spazio sia nella manovra di bilancio che nelle iniziative pubbliche, come per esempio nell’ultima edizione di Atreju, la festa organizzata dalla Sezione Giovanile di Fratelli d’Italia. Gli esponenti politici non perdono occasione per ricordare alle donne la necessità di adempiere alla propria funzione biologica. Lo ha fatto, tra le altre, la senatrice Lavinia Mennuni in un programma televisivo proprio sul finire dell’anno, quando ha ricordato alle istituzioni di agire per avvicinare le diciottenni alla maternità, rendendola di nuovo cool.

In un puntuale articolo su Valigia Blu, la scrittrice Giulia Blasi ha ricordato che la maternità (e non la “genitorialità” o la “paternità”, i tre termini infatti non sono propriamente sinonimi perché inseriti all’interno di una cornice narrativa che attribuisce loro, socialmente, valori differenti) non è mai stata cool, perché l’aggettivo si riferisce a una moda, e far figli non dovrebbe esserlo. Se fosse una moda, aggiungo, essa colpirebbe un po’ tutti gli strati della popolazione come accade quando un accessorio diventa incredibilmente richiesto e tutti cercano di accaparrarselo nella versione luxurycheap o fake a seconda delle possibilità.

Il mito della maternità, di cui abbiamo già parlato in uno dei nostri precedenti appuntamenti, invece, è uno strano mostro multiforme che si manifesta in modo differente a seconda della soggettività in cui si incarna. Come ricorda la giornalista Ilaria Maria Dondi in Libere, «la questione per una donna non è tanto o solo avere o non avere figli, ma averli o non averli in un modo preciso». Le campagne volte a contrastare la denatalità sembrano riguardare tutte, ma in realtà si rivolgono a un target specifico: le destinatarie dell’invito a procreare devono essere giovani, bianche, abili, possibilmente economicamente autosufficienti e inserite in relazioni monogame ed eterosessuali. Tutto ciò che fuoriesce da questo identikit è escluso dal discorso, non importa se anche queste soggettività siano in possesso degli organi necessari alla riproduzione e del desiderio – di cui troppo spesso ci dimentichiamo – che dovrebbe sostenerla. 

Rebekah Taussig è una scrittrice e docente, oltre che una persona con disabilità. Nel suo volume Felicemente sedutautilizza la propria esperienza personale per mostrare come certi temi, tanto cari al femminismo, colpiscano il corpo di una persona disabile in modo del tutto diverso. Mentre le sue sorelle crescevano e diventavano madri confrontandosi sui rimedi contro le nausee mattutine e i vestiti premaman, nessuna le chiedeva se avrebbe voluto figli. Lei per prima, afferma, non sarebbe riuscita a immaginarsi in quel ruolo a causa di una totale assenza di modelli. Nel 2020 la scrittrice e il suo compagno sono diventati genitori. Nei post su Instagram in cui si mostra con il pancione e, successivamente, con suo figlio tra le braccia ha sottolineato spesso come la sua maternità sia stata considerata un’anomalia, qualcosa di inconsueto che sembrava autorizzare chiunque a porre indebite domande sul futuro: come lo avrebbe gestito? Come avrebbe fatto a rincorrerlo, sostenerlo, proteggerlo dai pericoli, seduta su una sedia a rotelle? 

La curiosità morbosa nei confronti della maternità di una donna con disabilità può trasformarsi in vero e proprio disprezzo quando lo spauracchio di una possibile gravidanza coinvolge i corpi delle persone nere e disabili. Negli Stati Uniti, la sterilizzazione coatta ha colpito diffusamente le donne immigrate: se agli inizi del Novecento questa pratica avveniva nelle istituzioni totali, come per esempio nelle carceri, intorno agli anni Settanta è stata condotta apertamente con l’inganno, facendo credere alle persone coinvolte di sottoporsi a sperimentazioni o terapie per presunte malattie che le affliggevano. Celebre è la storia di Katie Relf, una donna analfabeta e povera, proveniente da un sobborgo dell’Alabama, che, convinta di approvare un semplice intervento per l’inserimento della spirale intrauterina, ha in realtà autorizzato i medici a compiere un’isterectomia sulle sue figlie minorenni e disabili.

C’è un altro caso, tuttavia, in cui la maternità è un’eventualità da rimuovere, impedire e nascondere: quella che riguarda le persone trans. Se guardiamo oltreoceano troviamo alcune storie di uomini trans (cioè persone AFAB, assegnate femmine alla nascita, che hanno compiuto una transizione verso il genere maschile) che hanno scelto di portare avanti una gravidanza. Il primo è stato Thomas Beatie, che nel 2008, in seguito alla scoperta della sterilità della sua compagna, ha deciso di interrompere le terapie ormonali e ricorrere alla procreazione assistita per dare alla coppia un figlio. Le persone che ricorrono a questa pratica si definiscono seahorse dad, cioè “papà cavalluccio marino” perché in questa specie sono gli individui maschi a covare le uova fino alla schiusa. Il fatto che ci sia un termine per descrivere questa condizione fa pensare che non sia poi così rara; è indubbio però che le istituzioni cerchino di contenerla e stigmatizzarla.

Se guardiamo all’Europa, sono sette i paesi in cui le persone trans possono accedere alla rettifica anagrafica solo previa intervento di sterilizzazione. Giulia Senofonte, endocrinologa esperta di terapie gender affirming, ricorda che in Italia, fino al 2015, per poter procedere al cambio del nome sui documenti anagrafici era necessario sottoporsi a un intervento di rimozione delle gonadi. Questa pratica persiste per legge in altri paesi europei (dalla Finlandia alla Romania). Il recente caso di Marco (nome di fantasia), uomo trans che ha scoperto di essere in stato di gravidanza mentre si preparava a un intervento di isterectomia, rivela quanto questa condizione sia impensata, imprevista e stigmatizzata. Essa risulta inattesa sia da un punto di vista medico, dato che non si conoscono le conseguenze della terapia ormonale sul feto, sia da un punto di vista legale – Marco infatti ha già provveduto a fare la rettifica anagrafica e pertanto non potrebbe ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, né è chiaro in che veste potrà riconoscere suo figlio, se in qualità di padre o madre. 

Nel saggio Il mostruoso femminile, J. E. Sady Doyle ci ricorda che definire le donne a partire dalla gravidanza o viceversa è ingannevole: ci sono donne che non partoriranno mai, ci sono persone appartenenti al genere maschile che possiedono un utero e per questo potrebbero, ce ne sono altre che, pur rientrando in quello femminile, sono impossibilitate per cause biologiche o pregressi interventi sanitari. A ben guardare «non si tratta di quale sia la realtà, ma di come insegnano a immaginarla». Dare la vita è un gesto potente e mostruoso perché potenzialmente potrebbe violare le norme sociali su cui il patriarcato si regge, per questo, sostiene Doyle, «la creatura che esiste al di là dei ruoli e dei confini che riteniamo accettabili deve essere uccisa, altrimenti il sistema collasserà».

In quanto sistema di potere, il patriarcato è una struttura complessa e articolata, apparentemente immutabile. In realtà, non lo è affatto. La sua organizzazione scricchiola e viene messa a rischio dalle storie di tutte quelle soggettività che fuoriescono dai canoni e si appropriano di funzioni vietate. «Finché il mito della famiglia, il mito della maternità e l’istinto materno non verranno soppressi, le donne saranno oppresse», scriveva De Beauvoir a Betty Friedan. La libertà delle donne, oggi, va di pari passo a quella di tutte le altre categorie marginalizzate e, per questo, mostruose.

ARTICOLO n. 34 / 2024