Karolina Chernoivan

ARTICOLO n. 92 / 2023

SONO UCRAINA E SONO UN SOGNO SPEZZATO

Cronache dal fronte

La strada, nonostante sia una via del centro, è deserta, non si sente un rumore, solo quello dei miei passi. Cammino con la busta della spesa tra le mani, i miei passi sono pesanti e il mio cuore lo è ancora di più. Vorrei correre, ma so che è meglio non farlo. Cammino velocemente, guardo a destra e guardo a sinistra. Cerco con gli occhi ogni possibile movimento. All’improvviso un suono lancinante, come un grido atroce e inumano, perfora i miei timpani. Il rumore assordante di un missile che avvolge tutto lo spazio attorno a me chiudendomi in una bolla. Credevo di esserci abituata, ma non è così: mi stringo nelle spalle, abbasso la testa e chiudo gli occhi. Resto pietrificata. La busta di plastica della spesa si contorce tra le mie dita che stringo fino a graffiarmi con le unghie i palmi delle mani. Dentro di me spero che non sia ora e che non sia qui, ma se deve succedere che sia rapido e indolore. Poi invece come venuto il rumore passa, riapro gli occhi: è solo una macchina che scivola grattando il fondo sulla strada dissestata di pietra. È durato meno di un secondo il ricordo dei giorni nella zona di guerra, poi è passato, ma la paura no e il dolore nemmeno. Riprendo fiato e il cuore si placa. Respiro, respiro piano.

Succede in ogni angolo del mondo, che mi trovi a Odessa – la mia città natale – o a Roma. Vivo sempre come se fossi in zona di guerra. Un rumore e dentro di me prende vita quel macabro rituale di morte. Un areo squarcia il cielo e io mi butto a terra con il cuore che esplode mentre con le mani cerco disperatamente di tapparmi le orecchie. Mi illudo di sfuggire a un frastuono che è ormai per me solo un sinonimo di morte imminente. 

La mia mente dal 24 febbraio 2022 vive in un tormento perpetuo dentro al quale si mischiano immagini e suoni che vogliono sempre e solo dire una cosa: morte. Non so se riuscirò mai a tornare a quella che era la mia apparente stabilità emotiva, non so se tornerò mai ai giorni prima della guerra, a quella pace che ora ricordo a malapena. La pace ha vissuto fuori e dentro di me, mentre ora per me e per milioni di altri ucraini è svanita nella voragine terrificante della guerra che ha deformato la nostra quotidianità in un incubo perenne. Lo chiamano PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) e a quanto pare ci dovrò convivere per molto tempo.

La guerra ha inciso indelebilmente sui nostri corpi e sulle nostre menti facendoci convivere con lo stress, con gli attacchi di panico e con una costante paura per noi stessi e per i nostri cari. Non importa quanto lontani o vicini siamo dal fronte, solo chi ha vissuto eventi traumatici come sono quelli che stanno sotto la parola “guerra” può sapere. Solo chi è sopravvissuto può capire e forse raccontare. 

Irrequietezza, flashback improvvisi, incubi, insonnia, depressione e il pensiero continuo della morte che tutto domina, sono solo alcuni dei sintomi del PTSD. La prossima crisi si materializzerà di sicuro sempre senza preavviso e non si sa mai quale abisso della mente sarà in grado di risvegliare.

Anche quando ritorno in Italia la mia apparente quiete può essere facilmente interrotta dall’innocuo rombo di un aereo civile, ma anche da un palloncino colorato che scoppia all’improvviso. O peggio ancora dall’odore di fumo e carne bruciata che risveglia in me ben altre sensazioni da quelle che normalmente avevo un tempo. Il fumo intravisto all’orizzonte, magari frutto di qualche sterpaglia raccolta in un campo, mi terrorizza perché per me ormai tutto questo vuole dire morte e basta. Il PTSD s’insinua nell’anima, inganna il cervello costringendolo a rievocare ricordi rimossi. Le tragedie vissute in questi mesi mi accompagnano ogni giorno ritornando vivide nella mia mente in modo sempre imprevedibile.

Così all’improvviso mi ritrovo rannicchiata a terra, immobile. Il respiro affannato e il cuore che batte all’impazzata. Quelli che sono rumori diventano urla che esplodono dalla mia testa fin dentro le mie orecchie. Subito cerco un angolo dove ripararmi, perché con un’esplosione le finestre si potrebbero trasformare in schegge di vetro mortali.

Alcuni vincono il terrore e riprendono il controllo di sé stessi dopo poco, ma per me non è così. Spesso il terrore si dilata in un attacco di panico che mi dilania. È una battaglia contro i miei ricordi, una battaglia che odio perché si nutre di ogni mia energia vitale e ultimamente di questa energia ne ho sempre di meno.

Ogni giorno che passa ho sempre più paura di essere sconfitta. Il nemico si nasconde ora nella mia mente. Più volte penso che la morte potrebbe essere l’unica soluzione per me: morire per mettere fine a questa sofferenza costante che strazia la mia testa. Morire per mia mano. Decidere la mia morte invece di aspettare che il fischio di un missile mi strappi via dalla vita. Mi fa paura la brutalità della morte. Ho già visto troppe volte le vittime dei bombardamenti, i loro corpi straziati e bruciati. Resisto solo pensando agli amici caduti in prima linea, loro sono la mia unica arma, la mia possibile salvezza. Hanno sacrificato la vita anche per me e io non posso buttare via un dono così prezioso. In guerra si vive anche e soprattutto per chi non c’è più. Si vive così per realizzare i sogni che furono di altri e per rendere l’Ucraina un posto migliore di come lo avevano immaginato e desiderato anche loro.

In Italia torno sempre più raramente, l’ansia si fa strada dentro di me anche solo passando nelle vicinanze di quelli che in Ucraina chiamiamo obiettivi sensibili: ospedali, presidi militari e infrastrutture. L’integrazione che mi ero conquistata in Italia dagli anni della scuola fino a quelli dell’Università è ormai un ricordo lontano. Allo stato attuale è per me addirittura un’impresa impossibile per quanto mi sento sommersa da paure e incubi continui. Non riesco più a comunicare per davvero con chi era mio amico, con i miei coetanei e i compagni di studi. Tutto mi appare superficiale e vacuo. In Italia e in quello che è stato un tempo il mio mondo si discute di cinema e di libri, di aperitivi e di feste. In Ucraina si lotta invece ogni giorno contro la morte. E anche io non posso mai smettere di combatterla, nemmeno quando sono in Italia. Vivo all’interno di un’ombra che mi circonda e mi isola da chi ancora può permettersi di immaginare e di fare una vita diversa.

La morte in sé non ci spaventa più, non spaventa me e non spaventa gli ucraini. Dopo quasi due anni di guerra l’abbiamo sfidata ormai troppe volte. La paura è tutta per i nostri cari e per i sogni che potrebbero non realizzarsi mai. Il 24 febbraio 2022 i nostri sogni sono stati congelati. Anche se a volte, di notte, mi sembra di ritrovarli. I miei sogni sono come i fiori della steppa ai primi freddi: cristallizzati nella loro corazza di ghiaccio, immutabili. Sogno i miei sogni che non mi appartengono più. I sogni di ora invece sono urgenti e pressanti, sono tutto quello che abbiamo. Sogniamo la fine della guerra, il ritorno dei nostri cari dal fronte, la smilitarizzazione della Russia e la restituzione dei territori sottratti agli altri popoli.

Quando sento dire che in Ucraina non vogliamo la pace e che dovremmo semplicemente cedere i territori occupati provo un senso di infinito smarrimento. E anche in Italia molti sembrano confondere la resa con la pace. Noi ucraini desideriamo la pace, ma una pace giusta, senza cedere nulla. Senza che nulla di nostro ci venga più tolto perché abbandonare i territori occupati vorrebbe dire svilire il sacrificio di chi credeva nel nostro paese al punto da perdere la propria vita in una guerra di resistenza. Nei territori occupati rimangono persone che attendono il nostro ritorno e abbandonarli sarebbe semplicemente un atto disumano. Mi torna in mente il giorno in cui incontrai una donna fuggita dai territori occupati. Al centro di accoglienza, quando scese dal pullman, piangeva disperata. Toccava la terra ucraina con amore e abbracciava chiunque le fosse vicino. Per quella donna vedere la bandiera ucraina dopo mesi di occupazione è stata una gioia straziante. Quello che ho visto nei suoi occhi ha un solo nome: libertà.

Cedere territori significherebbe per noi entrare in una morte lenta, vorrebbe dire accettare in poche parole di estinguerci. Sarebbe come mettere in pausa la guerra attuale per vivere nelle continue provocazioni russe dai territori occupati. La Russia avrebbe poi modo di rinforzarsi ulteriormente e lanciare un’escalation ancora più devastante e probabilmente definitiva. Chiedere a noi la pace è una vigliaccheria basata sulla paura di affrontare la realtà. Chi ci chiede questo preferisce semplicemente non complicarsi la vita, perché è facile evitare d’imporre alla Russia il ritiro dai territori. Ed è francamente ancora più facile illudersi che noi ucraini potremo mai arrenderci a questa invasione.

Non incolpo nessuno, anche perché non ne ho la forza e quella che ho a disposizione è già tutta in una guerra che mi ha stravolto la vita. Capisco anche il bisogno di allontanarsi dalle notizie e dalla brutalità, perché proprio quella brutalità può schiacciare l’anima, esattamente come ha schiacciato la mia. Non incolpo nessuno, ma l’indifferenza e il silenzio uccidono. Lo so perché l’ho visto, lo so perché lo vedo tutti i giorni.

Mi chiamo Karolina, ho 23 anni, e fino alla fine del 2021 ero una studentessa universitaria in Italia, una ragazza come tante altre. Ora quella vita per me non esiste più. La vostra normalità è un mondo straniero in cui io non posso più vivere. Sono ucraina e sono un sogno spezzato.