Carolina Cavalli

ARTICOLO n. 1 / 2023

NON SO PERCHÉ STO PRENDENDO QUESTO TRENO

L'anno che verrà

Sto comprando questo pane bianco pieno di mollica che si chiama pane per toast e non c’è nessun umano per pagare al supermercato della stazione, devo farlo con la voce robot della cassa, che ha solo la voce, non dorme, non mangia, non sa neanche che cazzo sto comprando, non sa la differenza tra una scatoletta di tonno e un sogno. 

C’è poco tempo prima che parta il treno, tipo 8 minuti. Ora saranno 7. Sto pensando di lasciare giù la confezione ma non ci riesco perché ho il cervello in granelli e c’ho fame. Ho scelto questo pane perché è quello più vicino alle casse, si chiama pane per toast e sta dentro a un contenitore di plastica, a forma di baule, non so come dire, a forma di armadillo visto dall’alto senza testa, senza coda, senza squame, non ha niente di vivo, non sembra neanche che lo puoi mangiare, sembra fatto di cera e gel per capelli. 

Penso di rubarlo, di non pagare, per una volta. L’ho già fatto da piccola, da Body Shop, avevo rubato delle palline di bagnoschiuma che si sciolgono nella vasca. Le avevo nascoste nella borsa di mia nonna così se qualcosa andava storto, beccavano lei. In quel periodo se avessi avuto della droga le avrei messo in borsa pure quella, alla stazione, così la mettevano in prigione e io potevo farmi i cazzi i miei per tutti i pomeriggi da lì in poi. 

Alla fine pago sti 330 grammi di pane chimico e corro con il pane, le valigie, il cellulare in mano tutto scarico, io mezza rotta con uno strappo alla spalla, c’ho il ciclo che è appena arrivato quindi è più forte di me, più forte di tutto quello che posso mettere tra lui e il mondo, chissà cosa sta succedendo lì sotto, chissà cosa percepisce il mondo di quello che sta succedendo lì sotto, è meglio non chiedere, è meglio non sapere, è meglio proseguire con l’arroganza della fretta e l’innocenza della ferritina sempre più bassa fino a svenire.

Devo salire le scale mobili, arrivare alle porte meccaniche che si aprono solo se scannerizzo proprio bene il biglietto del treno, che è sul mio cellulare, che ha il due per cento di batteria. Mi trascino dietro ‘ste due valigie che porca puttana mi pare si odino, all’inizio non era così, ma adesso che sono state insieme parecchio, una sopra l’altra, una sbattuta sull’altra, porca troia non si sopportano più, era ovvio che non potevano innamorarsi, non mi aspettavo questo, né scopare, perché appunto sono delle valigie e le valigie non fanno queste cose, le valigie rotolano se hanno delle ruote, e queste due in particolare rotolano sempre una da una parte e una dall’altra. 

Ai binari e mi accorgo che il mio treno è in ritardo di 120 minuti. Controllo il cartellone luminoso e c’è scritto davvero 120, non 12, non 0,12 perché non è un compito di chimica di quando andavo al liceo e mi piastravo i capelli, c’è scritto proprio 120. Nell’economia di una vita due ore non sono poi così tante, ne ho sprecate tantissime, riempite di ogni cosa che trovavo per terra, che trovavo a caso, che mi facevano niente e ora mi fanno vergogna, ma non so perché queste due ore mi fanno proprio girare le palle. Così incazzata, piena di pane, di pesi, di stracci, di strappi e di sangue, mi reco al piccolo chiosco per i cambi last minute. Quando mi indicano l’infopoint, lo chiamano proprio chiosco: io lo so che non l’ha fatto apposta il capo dei biglietti a chiamarlo così, ma porca puttana, ci sono due gradi e sto sudando dal freddo, se dici chiosco è perché stai per comprare un gelato fior di fragola o una Piña colada, dovevo restare piccola e andare al chiosco dei giornalini, chiedere se è già uscito W.I.T.C.H. di questa settimana, potevo aprire un chiosco delle limonate e fare un sacco di soldi, ma non potevo restare piccola, siamo sicuri che non potevo? Forse qualcuno ha trovato un modo e nessuno gli crede perché è piccolo.

Non sento più niente per un attimo, poi un altro brivido di freddo, la voce metallica che annuncia un altro treno in ritardo dopo il mio – giuro, non ne sono felice, non sono fatta così –, le luci della profumeria Douglas, menomale che ci sono un sacco di profumerie perché forse puzzo, l’adrenalina, il pile, gli ormoni. Mi metto in coda all’infopoint come una appena morta, tanto c’ho 120 minuti da aspettare, non 12, né 0,12 porca puttana. Succede questa cosa: che davanti a me c’è un signore di 70 anni con la sua mamma, e la sua mamma ne ha 95 e fa fatica a stare in piedi. Il signore chiede a due tipi davanti se può passare perché la sua mamma ha 95 anni e lui deve solo cambiare il biglietto, il tipo risponde che anche lui deve solo cambiare il biglietto, poi si gira dall’altra parte. 

Allora penso che forse potrei ficcargli su per il culo il suo biglietto, così che mentre prova a toglierselo, i miei due nuovi amici possano superarlo; l’immagine diventa troppo grafica da sostenere e quindi smetto. Guardo il tipo cattivo e mi sembra sempre più disgustoso, con quel naso patetico, quel cappellino patetico, vorrei dirgli che non me lo scoperei neanche se fossi un criceto. Poi posso dire, lo so che non tutti hanno il lusso di 120 minuti da aspettare, però merda c’è modo e modo di rispondere, ma poi chi cazzo ti aspetta per Natale che sei così patetico? Mi dedico alla signora di 95 anni, perché anche io avevo una nonna, anche se le avrei messo la droga nella borsa, ora che sono più matura e lei è morta, ho cambiato idea. Quando li sento parlare immagino tutto quello che c’è prima: che hanno preparato quel viaggio da tanto tempo per fare una visita al San Raffaele di Milano, e hanno fatto la valigia per bene senza dimenticare niente come fanno le nonne, che poi non riescono a dormire quando lasciano la loro casa e mettono dentro anche le saponette, e sono saliti sul regionale da Anzio a Roma e ora sono lì in quel limbo in cui hanno perso il treno perché porca merda è tutto elettronico, lui c’ha gli occhi grossi con le ciglia lunghe e sembra un bambolotto rovinato. 

La signora non sa dove sedersi allora chiedo alla commessa di Douglas se può darle una sedia e lei la piazza accanto a una renna. Il figlio resta stordito, non sapeva che se si perde il treno si devono comprare due biglietti nuovi e costano 90 euro l’uno, e per un attimo mi dispiace di non essere una che c’ha i pony e una terrazza con i limoni perché sennò avrei rimediato. La signora dell’infopoint mi dice che l’unica soluzione è aspettare, grazie Buon Natale. Chi mi ha fatto il biglietto ha incluso pure l’accesso alla lounge per l’attesa, è un pensiero carino oppure mi ha portato sfiga. 

Arrivo in ‘sta lounge e sono emozionata e penso sia tipo un luna park dell’attesa, che c’hanno allestito dentro una mostra interattiva e posso farmi fare un massaggio alle tempie e ci sono dei gruppi di lettura, invece ci sono solo delle prese, dei divani che sembrano fatti di pelle umana e delle pizzette omaggio, tipo insieme uno studio dentistico e un Battesimo con le pizzette. 

Allora sai che c’è? Fanculo pizzette, io mi mangio il mio pane e apro la confezione con i denti ed esce un odore chimico che a ficcarci dentro le narici secondo me ti sballa di brutto, di brutto, finalmente. Giuro, lo mangio tutto, una fetta dopo l’altra, mentre mi viene sempre più da vomitare. Guardo un ragazzo seduto di fronte a me, ha un cane e un maglione enorme che potrebbe avvolgermi come fossi una piccola tarma, nella lana dolcissima. Ma non lo fa. Lo guardo insistentemente per vedere cosa succede. Succede che arriva la sua ragazza che torna dal cesso e anche questo tentativo di essere nel mondo è rovinato da una che era andata a pisciare, allora mi metto a guardare il loro cane. Manco al cane interesso. Entra un gruppo di turisti tedeschi, non gliene frega niente di me. 

Ma dico, è questo lo spirito del Natale? Ma cosa ci sta succedendo? Non so neanche perché sto prendendo questo treno. So che è Natale e quindi dovrei tornare da qualche parte, per questo ho chiesto di prenotarmi un treno anche se non so dove tornare. Un uomo lavora al suo laptop mentre perde i capelli, una pelliccia con una donna dentro si versa del succo all’ananas. Mi ficco in bocca l’ultima fetta di pane, sono piena da vomitare e vuota da morire, mi accorgo che c’è un controllore all’ingresso che può guardare con una macchinetta quanti minuti mancano: mi sembra la cosa più divertente qui dentro. Tiro fuori il cellulare e la macchinetta non dice niente. Ci riprovo, non dice niente. 

«Non funziona ‘sta roba.»

A quel punto sento chiaramente che la macchinetta fa: 

«Sei tu che non funzioni, puttana.»

Io sinceramente non me l’aspettavo. Ma non solo non me l’aspettavo: non me lo meritavo proprio. È difficile far finta di niente in queste situazioni. Spero di non aver sentito bene, perché comunque ho avuto l’otite da poco e l’ho curata in un modo che ho letto su internet, quindi magari non sono guarita bene. Riprovo a scannerizzare il biglietto: niente.

«Non funziona ‘sta macchinetta.»

La provoco.

«Non funzioni lo dici a tua sorella, puttana.»

Le tiro una manata addosso, la macchinetta cade a terra.

Purtroppo, colpisco anche il braccio del controllore che, probabilmente complice, comincia a lamentarsi. Prima con me. Poi con la collega. Poi una scenata assurda davanti a tutti, come se io fossi matta e volessi solo attenzioni. Finalmente il tipo con il cane mi nota. Poi arrivano altri colleghi e io comincio ad aggredire per difendermi. 

Faccio per andarmene, ma questi sono così caricati che manco io ieri notte stavo così carica, ormai hanno creato una specie di squadra contro di me e dicono che non posso lasciare la stanza perché sta per venire la polizia. Non ho paura dei poliziotti. Perché sono nel giusto. Solo che non posso dimostrarlo. Mi chiedono se ho fatto uso di stupefacenti e mi invitano a seguirli. Perdo il treno perché devo far vedere i documenti alla polizia della stazione, che credo si chiami la stazione della polizia della stazione. 

«Sai che me ne frega, tanto non avevo niente da fare a Natale.»
Dico.

C’è un panettone sulla scrivania, mi viene voglia di tirarci una manata ma alla fine non lo faccio.