Vinicio Capossela

ARTICOLO n. 73 / 2023

TE LO VUOI FOTTERE IL WEST

Pubblichiamo un estratto dal volume Come li pacci. Un racconto a più voci di dieci anni di Sponz Fest (Baldini+Castoldi) a cura di Luca Sebastiani e Irene Sciacovelli. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Era una ventina di anni fa e andavamo con il fratì, Franco Fiordellisi – detto «Ernest Borgnine» per citare Il mucchio selvaggio di Peckinpah – sopra un vecchio furgone Mercedes 405, un ferro con un vetro di guida ampio come uno schermo in technicolor, senza muso davanti, che sotto mangiava la strada, e che il piccolo rilievo bombato di carrozzeria faceva somigliare al furgone del lattaio. 

Quel mezzo lo battezzammo all’uso dei paesani, che l’autobus, la corriera, il pullman, tutti i mezzi a più posti, li chiamavano indifferenziatamente «il postale», quasi fosse la diligenza da assaltare lungo quei tornanti di frontiera tra civiltà e selvatico. 

Ecco, noi sul postale già una volta ce ne eravamo andati in un viaggio memorabile, cercando musica e musicanti oltre regione, al di là del Vulture, il vulcano spento dal nome di avvoltoio, dietro al quale sorge il sole dalle terre dei basilischi.

Ma poi avevamo stretto il cerchio e sulle note di Pat Garret e Calexico avevamo preso a indagare strade più locali, a volte sterrate, che portano a masserie, a rupi e dirupi, come quella della «ripa spaccata» che una volta fece dire ad Antonietta: «Te lo vuoi fott’ lu West».

Era una strada che passava in mezzo alla rupe da cui partiva la discesa per la Frascineta, dove erano spine, ginestre, rovi e pietre, dove l’erba era poca e bassa, che d’estate diventava secca e d’inverno il fango ti arrivava alle ginocchia dietro ai calci dei muli, e quando arrivavi lì… altro che la conquista del West… te lo vuoi fottere il West! Disse così con la sua arguzia volpina, Antonietta. E ci suonò come un titolo. Un titolo di cui sarebbe stato bello fare un film, un western all’antica, fatto di facce e paesaggi muti, parlato in dialetto calitrano stretto, ma coi sottotitoli in inglese. Che poi, più che un western, sarebbe stato un «estern», che sono contrade queste su cui spira il vento dei Balcani più che quello d’America. Come in quel western fallimentare di Milčo Mančevski, Dust, girato nella Macedonia di Prima della pioggia.

Di tutta questa celluloide sapeva quel paesaggio dal cielo sempre fuggente e mutevole, in cui mandrie di nuvole di animali immaginari pascolano veloci. Branchi nell’azzurro che in un attimo può volgere al nero e portare via tutto nella tempesta livida e nei molinelli d’aria che si alzano da terra, di fronte ai quali bisogna sempre sputare, che è possibile siano anime di morti senza pace che non trovano riposo e poi si buttano in corpo al primo che passa. 

Ecco, quei cieli in cui la luce cambia ogni momento, quei paesaggi che passano dalla quercia al roveto, alla steppa, dalla ginestra al calanco argilloso, dal crepaccio al declivio delle coste granose in cui la bestia nel grano corre nel vento, nascosta tra le messi nella stagione del raccolto; in quei paesaggi, che scene si possono animare, quali nuvole spandere, quali idee e quali pensieri? 

Perché il vuoto dà spazio per prendere il volo e si diventa poi metafisici e allora vale tutto. L’antropologia si mescola con la politica, la gastronomia, la filosofia, il cinema, la religione, il gesto artistico, il «cunto» e la poesia e la musica.

«Sì, ma quali musiche si possono alzare da questa terra insieme alla polvere? Quali frontiere?», ci chiedevamo con Borgnine mentre torcevamo le ruote del postale arando strade sbrecciate per i tornanti che furono di Scatozza – il vecchio e irridente domatore di camion che traghettava vivi, morti e brecciolino tra le draghe dell’Ofanto. Ma poi, perché mettere tutto questo in un film da guardare supini? E se ognuno il film se lo facesse da sé? Con una scenografia del genere basta mettere la musica e ognuno la pellicola se la gira per conto suo. La trama la dettano gli incontri e per ognuno andrà come è destino che vada.

E così, come in un lungo fotogramma, ci vennero incontro davanti al vetro anteriore del postale, le immagini di una panoramica srotolata lungo gli anni a venire. 

Apparvero le vecchie sale da veglioni, le «case dell’Eco», dove i paesani ballano fino a «sponzare», e poi i binari della ferrovia che corre lungo il fiume tra i ponti di ferro e bulloni. Le stazioni abbandonate, gli scali, gli scambi e la ruggine. E poi il treno che riappare su quei binari come un miracolo e i cavalli e gli asini e i muli e le notti di luna e il «mululare» del lupo. E i paesi aggrappati ai picchi come costellazioni. La cometa al rovescio di Cairano, «il paese dei coppoloni», e il Formicoso battuto dai venti e il monte Airola di Andretta, e l’episcopio dei «santandriani scorciacani» e il grande scalo abbandonato sotto le rovine di Conza. L’alta rocca dei morresi, i querceti e i pascoli del «casone dei briganti», dove i seguaci di Carmine Crocco arroccavano, e il «sierro» di San Zaccaria dove è sepolto il tesoro di quei briganti. Il casello abbandonato di San Tommaso sull’Ofanto, l’Aufidus tauriforme di Orazio che sorge da Torella, il paese di Sergio Leone, e va a finire a Barletta, davanti al Bar Conchiglia di Peppe Leone! 

E poi ancora le rovine a cielo aperto dell’abbazia del Goleto, il castello di Bisaccia, la gentile, che vigilia sulla discesa daunia, verso est. 

E da est vedere arrivare la luce dell’alba. E con quale musica fare risuonare quell’alba?

La musica che viene dai Balcani, assieme al sorgere del sole. La fanfara che saluta e fa a pezzi il mattino. 

E poi e poi… quali altre musiche? 

La musica ballabile che fa alzare la polvere. La tarantella, il «bottaculo» e il «luquarè», gli strumenti in disarmo di quei balli ripristinati dai banditi della Banda della Posta, che languidamente trillano i mandolini davanti all’ufficio postale dove fanno la guardia alla pensione. 

E poi la musica tex-mex, l’Arizona, la frontiera, l’atlante subsahariano, il rebetiko e le madinades cretesi, il kasapico e il sirtò. La zampogna, il tamburo, la tammorra e il tamburello. L’ipnosi della trance da Antonio Infantino ad Alfio Antico, e poi il twist cromato dei figli di Celentano e le voci di donne che cantano a sonetto e scacciano il demone meridiano. E poi i mariachi con gli ampi sombreri e le medaglie sulla costa dei calzoni, e i suonatori zingari che le medaglie le vogliono in banconote appiccicate sul petto e tra i pistoni e le corde degli strumenti. Il canto a tenore di Ciccillo che risuona tra la selva e le acque, alla conquista dell’inutile come in Fitzcarraldo, portando l’aria d’opera nelle sale abbandonate e nei fiumi intossicati. 

E le serenate e le lamentazioni funebri, e il canto delle prefiche, e quello del raccolto. E il canto da simposio delle «cumversazioni», che a Calitri fa risuonare le grotte del paese «sottaterra»; e poi la musica suonata e cantata nella barberia del gran sacerdote Giovanni Sicuranza e l’organetto quattro bassi che fa alzare la polvere e unire le voci, e l’acre violino di Matalena. Gli spettri sonori e le voci dei fantasmi del «sentiero della Cupa» e le ninne nanne delle sue creature. Tutte insieme risuonavano. 

Ed ecco, come in una visione, l’eco di queste musiche percorse valloni, cime di monti, letti di fiumi, binari abbandonati, grotte e case di paesi vuoti, cieli, albe e selve. 

Come «li pacci» andava per pozzacchi, laghi e roveti, e tutti rendeva «pacci»…

Davanti a noi, davanti al gran vetro del postale, vedevamo quelle strade deserte affollarsi. Torme di genti accorrevano, andavano a sperdersi, intente a cercare luoghi introvabili, non segnati sulle cartine, in corsa con orari non segnati sull’orologio. Accorrevano per quei tornanti alla fine di agosto. Abbandonavano la certezza dell’autostrada e della statale e si gettavano fuori campo, nella mischia, a quadriglie, a cinquiglie verso «l’incontrè», fino a cadere tutti sponzati… «Sponzati» come il baccalà. 

E questa pellicola che ognuno si sarebbe girata a piacere, sui titoli di testa del vetro del postale illuminato dalle luci di una catena di lampadine colorate, aveva per titolo Sponz Fest.