Geoff Dyer

ARTICOLO n. 35 / 2022

FACING HIM

Un ritratto di Keith Jarrett

Siamo così abituati a vedere Keith Jarrett con i capelli grigi, perfettamente tagliati, che è bene ricordare il tempo in cui aveva una delle più lussureggianti chiome di chiunque, bianco o nero, abbia mai suonato jazz. La sua capigliatura ebbe la massima estensione negli anni ’70, quando era a capo di due band telluriche: il Quartetto Americano con Charlie Haden, Paul Motian e Dewey Redman, e il più lirico Quartetto Europeo con Palle Danielsson, John Christensen e Jan Garbarek. Dal 1980 in poi, i suoi stretti collaboratori furono il batterista Jack DeJohnette e il bassista Gary Peacock (scomparso nel Settembre 2020). Questa band era conosciuta come Trio Standards, sebbene per me la loro versione di I Fall in Love Too Easily o altre, risultano meno rapinose di quando hanno lasciato queste riconoscibili e molto amate pietre miliari nella loro scia. Celebrato come pianista, Jarrett è in realtà un polistrumentista.

Al Deer Head Inn jazz club, alla fine degli anni ’60, Stan Getz gli mise una mano sulla spalla e gli chiese se sarebbe andato in tour con lui, dopo che lo stesso Jarrett ebbe finito un assolo con la chitarra elettrica. Eyes of the Heart, un sottovalutato album live del 1979, comincia con un lungo assolo di sassofono soprano. In Spirits e No End Jarrett suona ogni genere di percussione. I suoi lavori solistici al piano includono sia le proverbiali improvvisazioni, che registrazioni del repertorio classico. 

In confronto, pochi musicisti jazz hanno deviato in quest’ultima categoria. Si può pensare a Wynton Marsalis, ma il ruolo della tromba nel repertorio classico è piuttosto marginale. La tromba non ha raggiunto il suo potenziale espressivo come strumento solista fino a quando non ha trovato la via fra le mani di Louis Armstrong. 

Il piano, invece, è il centro della tradizione classica occidentale. Se i critici buttafuori all’entrata del Pantheon dei pianisti classici hanno esitato ad ammettere Jarrett, è in parte dovuto al fatto che lui non ha dedicato se stesso al canone con la risolutezza e l’esigenza dovute. Mentre le sue registrazioni de Il clavicembalo ben temperato sono spersonalizzate fino all’austerità – «questa musica non ha bisogno del mio aiuto» –, Jarrett sottolinea sempre che Bach era un improvvisatore. E Beethoven non poteva essere più felice di quando annientava potenziali rivali in quello che il lessico del jazz avrebbe definito cutting contests (battaglie musicali NdT). 

Per certi versi, quindi, il genio dell’improvvisazione di Jarrett, lo porta vicino allo spirito di questi, più che verso una devota aderenza ai loro spartiti. Paragonato ai maggiori concertisti di sempre, Jarrett ha coperto solo una minima frazione del repertorio. Non ha mai registrato una sonata per pianoforte di Beethoven. Perché Beethoven lo avrebbe messo alla prova e imposto un tributo in modo diverso da Bach o Shostakovich? Non importa, ci sono così tante registrazioni di Beethoven, ma esiste solamente un Köln Concert.

Se, in seguito a un cortocircuito cosmico, fossero cancellate dagli archivi tutte le interpretazioni di Beethoven eseguite da Alfred Brendel, sarebbe una perdita, ma avremmo comunque le versioni di Kempff o di altri. E anche se perdessimo tutte le registrazioni di Beethoven mai fatte, avremmo comunque gli spartiti: i documenti fondamentali su cui poggia la conoscenza. Ma se perdessimo Jarrett, avremmo perso la musica che lui soltanto era capace di creare, comporre e suonare.

Il Köln Concert è sia occasione che esempio iconico; molte delle sue registrazioni soliste successive sono più forti, anche se meno seducenti melodicamente. Le meravigliose melodie di Jarrett sono inseparabili dalla sua duttile potenza ritmica.

Ora, il ritmo è terreno di molti confronti, basta pensare a McCoy Tyner, alla sua devastante mano sinistra, ma Jarrett ha il talento di scatenare impennate ritmiche radicalmente eccessive in rapporto a ciò che sta facendo. Un elemento cruciale delle performance soliste, che diventa ancor più evidente con il trio – basta ascoltare i primi due accordi di Flying, Part 2 in Changes – dove lui, DeJohnette e Peacock rimbalzano da uno all’altro con effetto estatico. Sebbene sia un leggero peccato che Jarrett negli ultimi decenni non abbia collaborato maggiormente con altri, si è rassicurati da come il suo trio fosse infintamente flessibile. Sono stati funky, hanno suonato calypso, e addirittura il ragtime (purtroppo). Suonavano liberi, danzavano. 

Alla costante qualità di Jarrett su tutta la gamma di stili, corrisponde una longeva creatività. Chiaramente, il contributo di Ornette Coleman è storicamente più importante. Anche se Coleman non avesse registrato niente dopo il 1960, il suo lascito sarebbe stato al sicuro. Il rovescio della medaglia è che, nonostante l’attività frenetica, molto di ciò che Coleman ha fatto da allora somigliava ad un postscriptum. Per quanto riguarda la costante e variegata qualità di produzione nel tempo, nessuno potrà competere con Miles Davis, con cui Jarrett e DeJohnette hanno suonato nei primi anni ‘70. Tranne la pausa iniziata nel 1996, quando Jarrett fu frenato dalla ME (Myalgic Encephalomyelitis, in italiano Encefalomielite Mialgica, NdT) – i primi tentativi di recupero sono documentati in modo struggente in The Melody at Night, with You del 1999 – non ci sono stati altri momenti di aridità nella sua carriera. 

Ogni anno ECM pubblica materiale stupefacente dagli immensi archivi storici di Jarrett. Non è mai esistito un periodo in cui si andava a sentire Jarrett suonare solo perché era Jarrett, nello stesso modo in cui, in molti momenti, uno sarebbe potuto andare a sentire Bob Dylan (la cui My Back Pages, Jarrett, Haden e Motian registrarono nel 1968). Ci si andava consapevoli di avere buone probabilità di sentire qualcosa di irripetibilmente memorabile. È possibile che quei giorni siano davvero passati? C’è una traccia su Belonging del 1974 chiamata The Windup ma alcuni dei miei passaggi preferiti avvengono in quello che verrebbe chiamato il wind-down, la calma dopo i momenti di climax. In realtà, spesso è difficile essere esattamente sicuri di quando il picco sia stato raggiunto. La musica è sempre capace di scuotersi ancora, anche dopo molti climax. Il vocabolario sfortunatamente sessualizzato che si è intrufolato qui, almeno ci permette di affrontare il tema dei contorcimenti e dei gemiti di Jarrett. A volte i gemiti coincidono con i momenti di estasi. In altri momenti non sembra che stia facendo finta, giusto, ma che sia più l’irrefrenabile espressione di rapimento, le urla potrebbero essere il supremo sforzo di raggiungere una trascendenza che si dimostra sfuggente.

Si consideri Somewhere/Everywhere dall’album del 2013, Somewhere. Il trio comincia con il brano di Bernstein e poi scivola nella trance collettiva di un originale di Jarrett. Cresce, cresce e poi, avendo raggiunto la massima intensità e complessità, comincia la sua discesa finale intorno al quindicesimo minuto. Ma nei rimanenti quattro minuti, che avrebbero potuto felicemente estendersi a quattordici, come quaranta, il meglio deve ancora venire. Anche mentre scivola e si affievolisce nel silenzio, la musica contiene sempre la possibilità che potrebbe riprendere, di nuovo. Ecco perché l’applauso, il nostro apprezzamento, dovrebbe sempre essere ritardato.

Facing him di Geoff Dyer è tratto da Keith Jarrett, a portrait di Roberto Masotti. Prima edizione 2021 – Ristampa 2022 © Seipersei Books.

ARTICOLO n. 17 / 2022

NOTTE BOREALE

Traduzione di Katia Bagnoli

Poco tempo dopo il nostro ritorno dallo Utah, a Jessica venne l’ossessione dell’aurora boreale. Ne parlava da qualche anno, ma ora non parlava d’altro, e mi spiegava che per alcuni suoi amici aver visto l’aurora boreale era stata «un’esperienza unica». Altri argomenti erano soltanto il preludio all’argomento dell’aurora boreale e del fatto che moriva dalla voglia di vederla. A un certo punto sostenne che con tutta probabilità eravamo le uniche due persone al mondo a non averla vista, e non capiva perché non la portassi a vederla. Anch’io volevo vederla, dissi. Solo che non riuscivo a immaginare quando avremmo avuto l’occasione di andarci.

«Potremmo andarci in agosto» propose lei.

«Questa dev’essere una delle cose più stupide che siano mai state dette» dissi. Anch’io dico cose stupide. In realtà ci sproniamo a vicenda per vedere chi riesce a dire le cose più stupide, quindi il mio era una specie di complimento. «Bisogna andarci d’inverno» spiegai. «Quando è buio. In estate è il paese del sole di mezzanotte. È il vecchio aut/aut di Kierkegaard. O l’aurora boreale o il sole di mezzanotte. Non puoi averli tutti e due.»

«Ah, capisco. Siccome non possiamo averli tutti e due non avremo nessuno dei due. Questo sì che è stupido, secondo me.»
«Questo è il commento di una persona assolutamente incapace di capire la logica, secondo me» dissi.

Questo succedeva a maggio. Fare l’esperienza del sole di mezzanotte non ci interessava molto, benché ci piacesse sentirne parlare dal nostro amico Sjon, che vive a Reykjavík.

«Da piccolo in estate non riuscivo a dormire» ci disse mentre cenavamo in un ristorante indiano di Londra. «A vent’anni restavo sveglio tutta la notte a fare festa. Adesso ho messo delle tende molto spesse.» 

I mesi passarono in fretta, le giornate si allungarono e poi, appena ebbero raggiunto la loro massima lunghezza, iniziarono ad accorciarsi, fino a quando il giorno durò soltanto mezza giornata, e quest’anno diventò l’anno scorso e il prossimo quest’anno e all’improvviso piombammo nel quinto anno di quello che Jessica aveva definito, a beneficio di Sjon, «un matrimonio senza sole, in buona sostanza». Quanto al clima, era stato il dicembre più rigido che Londra avesse conosciuto negli ultimi cent’anni. Nevicò presto, con il conseguente «collasso del traffico» del sistema stradale e delle reti ferroviarie. Heathrow andò in crisi. I voli venivano cancellati, ma noi ce ne stavamo tranquilli a casa, a mangiare biscotti e a guardare la neve che scendeva al di là delle finestre senza tende o a sentire i notiziari in tv, contenti di non essere accampati come profughi a Heathrow, ad aspettare che il traffico aereo tornasse alla normalità, assillando il personale aereo con richieste di voucher per cibo e bevande ai quali avevamo sicuramente diritto. Poi, in gennaio, dopo che la neve se n’era andata e il paese si era rimesso in sesto, eccoci a Heathrow, in attesa di un aereo che ci portasse a nord, a Oslo, poi ancora più a nord, a Tromsø, e poi nel cuore del Circolo Polare Artico, fino alle Isole Svalbard.

Avendo optato per l’Avventura Aurora Boreale e non per l’Avventura Sole di Mezzanotte, la probabilità di fare l’Esperienza Aurora Boreale era più alta, perché era buio tutto il giorno. Avremmo potuto passare ventiquattro ore al giorno a vedere l’aurora boreale, avendo scelto l’Esperienza Aurora Boreale, ma prima facemmo l’Esperienza Conto Spese a Oslo. Come dev’essere bello vivere lì e viaggiare altrove, arrivare a Londra, Tokyo o persino a Papeete e stupirsi di quanto tutto sia tanto conveniente. Il treno dall’aeroporto al centro città costò una fortuna. Poi raggiungemmo a piedi il nostro costoso albergo attraversando la città ghiacciata, con il laghetto ghiacciato o la pista ghiacciata dove tutti stavano pattinando con grande perizia, e mangiammo al ristorante più caro del mondo anche se, per gli standard di Oslo, aveva prezzi ragionevoli. Il freddo e il salasso ci intontirono, ma non al punto da farci ignorare il primo barlume di rammarico per essere venuti in un aese che era gelido e buio e scelleratamente costoso. 

Al mattino, a un costo esoso, tornammo in aeroporto a prendere il volo per Tromsø e le Svalbard. Era in corso una tempesta di neve che in Inghilterra avrebbe paralizzato il paese per sei mesi, e forse portato alla dichiarazione dello stato di emergenza e all’imposizione della legge marziale. A Oslo i norvegesi la prendevano con grande calma. Parte della ragione per cui la nostra cena era stata così costosa, immaginai mentre sedevamo in aereo, guardando le ali che venivano sghiacciate, dovevano essere le tasse necessarie per far funzionare l’intera rete ferroviaria e stradale anche durante le tormente e con la temperatura sotto zero, eventi così normali da quelle parti che il nostro decollo fu ritardato di soli cinque minuti. 

Quando decollammo era giorno, e quando arrivammo a Longyearbyen, diverse ore dopo, era notte. Se anche fossimo atterrati alla stessa ora del decollo a Longyearbyen sarebbe stata comunque notte; avremmo potuto atterrare a qualsiasi ora nelle sei settimane precedenti e sarebbe stata notte fonda lo stesso e ci sarebbe stato lo stesso gelo, più gelido di qualunque altro posto in cui fossi mai stato, più freddo e più buio di qualsiasi altro posto che una persona sana di mente avrebbe mai visitato. Eravamo appena scesi dall’aereo, diretti al terminal, quando Jessica disse esattamente quello che stavo pensando.

«Perché siamo venuti in questo posto infernale?»
«Perché tu volevi vedere l’aurora boreale» dissi, anche se in quel momento non si vedeva altro che notte boreale, oscurità ovunque, tutto intorno a noi, senza alcuna speranza di luce.

Un autobus tetro ci portò dal terminal fino a un villaggio abbandonato da dio. Da vedere c’erano soltanto le luci che brillavano nell’oscurità, illuminando – per quanto sia difficile da credere – gente che lavorava all’aperto, a costruire edifici in condizioni in cui tutto ciò che serviva per costruirli doveva essere stato reso inservibile da un freddo inconcepibile.

Il Basecamp Trapper’s Hotel era volutamente grezzo, confortevole ma abbastanza improvvisato da conferire un tono da spedizione di Shackleton al soggiorno in quelle lande ghiacciate. Alla parete della sala per la colazione era appesa la pelle di un orso bianco, come una specie di tigre al tempo della dominazione britannica in India, però messa in verticale. Ma la parte migliore era la zona con il soffitto vetrato dove potevi rilassarti e sballare guardando l’aurora boreale. Era un angolino bellissimo, perché dieci minuti a Longyearbyen erano bastati a farci ricredere: nel paese da cui venivamo l’inverno non era stato per niente rigido. In realtà venivamo da un’isoletta con un clima temperato, straordinariamente economica e con miti inverni mediterranei. Ciononostante, facemmo quello che si fa quando si va in una città europea per una breve vacanza: uscimmo per una passeggiata, una delle peggiori passeggiate della nostra vita. La migliore traduzione norvegese per «passeggiatina» è «feroce battaglia per la sopravvivenza»: roba da Base artica Zebra, con alcuni elementi della ritirata napoleonica da Mosca. La temperatura era di mille gradi sotto zero, senza contare il vento gelido, che sospingeva nelle strade buie raffiche di neve che sembravano fuggire da un esercito invasore. Riuscimmo ad arrivare al supermercato illuminato da luci violente, comprammo delle birre, poi tornammo in camera e ci sedemmo sul letto senza parlare. Intuii che le chance di fare sesso durante la nostra permanenza qui erano, come la temperatura, molto al di sotto dello zero. Eravamo arrivati da poco più di un’ora e il morale era già notevolmente più basso rispetto a Oslo, per non parlare di Londra, che ricordavamo con nostalgia, come la-felicità-perfetta-di-quell’alba.

Quella notte, la notte del nostro arrivo, dell’aurora boreale nessuna traccia. Dico «notte», ma eravamo arrivati nella terra della notte perpetua, l’oscura notte dell’anima norvegese che sarebbe durata come minimo ancora un mese. Il problema dell’aurora boreale, spiegò una delle simpatiche giovani addette alla reception che volle chiarirci la situazione prima che andassimo a cena, è che in quel periodo dell’anno poteva apparire in qualsiasi momento, senza preavviso. Richiedeva tuttavia uno stato di allerta continua benché, a dire il vero, su una scala da 1 a 9 le probabilità che apparisse l’indomani arrivavano soltanto a 2. Però il giorno dopo schizzavano a 3. E in fondo l’aurora boreale non era l’unica attrattiva del villaggio. È vero che eravamo arrivati fin lì, fino a quell’«inferno ghiacciato del cazzo», come lo chiamava Jessica, per vedere l’aurora boreale, ma c’erano anche altre cose da fare. La mattina dopo, per esempio, una mattina indistinguibile dalla notte e dal pomeriggio, avremmo potuto guidare una slitta trainata dai cani. 

Dopo la gita al supermercato ci eravamo bardati per andare a cena come se dovessimo affrontare la cima del K2. Per una gita in slitta evidentemente era necessaria un’attrezzatura professionale: tre paia di calzettoni, maglia e mutandoni termici, due magliette, una camicia da taglialegna, un maglione pesante – con una molto appropriata bandiera norvegese sulla manica – un berretto di lana, i guanti e un’enorme giacca a vento. Questa era la biancheria intima, per così dire. Un furgone venne a prenderci all’albergo e ci portò, nell’orribile oscurità, fino al grande quartier generale della spedizione, dove indossammo tute da neve, passamontagna integrali da terroristi, occhialoni da sci, stivali da neve e muffole. Così vestiti e immensamente calzati, a malapena in grado di muoverci, risalimmo sul furgone e partimmo per il recinto dei cani. In tutto eravamo sei: Jessica e io, una coppia romena che viveva in Danimarca e le nostre due guide, Birgitte e Yeti.

«Yeti?» dissi. «Che nome abominevole!»

L’entrata del centro di addestramento dei cani era contrassegnata da pelli di foca appese su forcelle triangolari come una gelida opera d’arte moderna nello stile di un wigwam scheletrico. Nel recinto di ghiaccio macchiato di pipì e imbrattato di cacca c’erano novanta cani, novanta alaskan husky, legati e uggiolanti. Luci, recinzione e neve davano l’impressione che fossimo finiti in una specie di gulag canino. Non che le bestiole fossero infelici o trascurate. Ma erano agitate e impazienti, tiravano i guinzagli. Facevano a turno per le uscite, e ognuna di quelle creature uggiolanti sperava che oggi toccasse a lui, o a lei. E c’era dell’altro. Per quanto sembrasse poco plausibile in un simile gelo, le femmine erano, chissà come, in calore, e i maschi non vedevano l’ora di saltar loro addosso. Con noi erano più amichevoli che arrapati, erano tenerissimi, comunque l’uggiolio sembrava lo stesso la colonna sonora di un incubo canino. Avevano nomi adorabili. Junior, Fifty, Ivory, Mara, Yukon e – ma forse avevo capito male – Tampax, furono tra i fortunati scelti per accompagnarci in quel giorno indistinguibile dalla notte più scura. Sebbene fosse buio, vedevo gli strani occhi degli husky, così chiari e opalescenti da sembrare indipendenti dai corpi che li ospitavano: pianeti in un universo a forma di cane. Presumibilmente questo significava che ci vedevano anche di notte ed erano in grado di vedere per chilometri nella notte più buia. Ero circondato da quegli occhi, freddi e lampeggianti, così chiari da sembrare privi di intelligenza o persino di vita. Parte del nostro compito – cioè del divertimento reclamizzato, anche se, proprio come veniva chiamato giorno quel che in realtà era notte fonda, detto divertimento rappresentava per noi la più assoluta delle infelicità – consisteva nel prendere i cani selezionati, mettergli l’imbragatura e attaccare la linea di traino alla slitta, sei cani per slitta. I guaiti mi facevano impazzire, e il freddo mi aveva già intorpidito le dita dei piedi. Siccome stavo pensando ai piedi insensibili e controllavo costantemente che nemmeno un centimetro della mia pelle rimanesse esposto all’aria, non ascoltai con attenzione le istruzioni su come fissare l’imbragatura, e comunque non era facile sentire qualcosa con il parka e il cappuccio della tuta da neve alzato e nella testa i guaiti di novanta alaskan husky, metà dei quali in calore e tutti disperatamente ansiosi di correre o scopare o tutte e due le cose insieme. I cani alzavano le zampe anteriori per facilitare l’impresa piuttosto complessa di entrare nell’imbragatura. Era come infilare la gamba di un neonato in una tutina, un neonato che aveva alle spalle l’esperienza di una vita passata a prepararsi per le spedizioni in slitta nell’Artico ghiacciato. Per preparare tre mute ci volle un secolo, anche perché con gli strati multipli di indumenti sotto la tuta da neve potevamo muoverci soltanto alla velocità dei palombari in fondo al mare. A ogni modo io sono alto, ma con tutta quella roba addosso incombevo nella notte polare come la morte stessa. Morte, non essere orgogliosa! Mi trovai talmente imbrigliato tra una quantità di imbragature e corde, spesso misteriose, con i cani che si saltavano addosso, che scivolai sulla schiena, atterrando sul duro ghiaccio che, grazie alla mia imbottitura, sembrò morbido come un pan di Spagna striato di urina. Da questo si può trarre una lezione: nella profondità della notte più buia e nell’oscurità del freddo più intenso, il bisogno di ridere dell’uomo non si estinguerà mai del tutto.

Finalmente eravamo pronti. Ogni volta che noleggiamo un’auto, Jessica si mette al volante ed esce dal parcheggio guidando con molta prudenza per i primi chilometri, perché non si è mai sicuri dei comandi e il rischio di un incidente è alto. Adesso invece c’ero io alla guida della slitta. Dissi che avrebbe dovuto guidare lei, ma Jessica rispose che toccava a me, visto che ero un uomo, e si lasciò cadere di peso nella slitta, su un tappetino blu dall’aria comoda. Qualche momento dopo eravamo in viaggio. Nessun mossiere ci aveva dato il via, eppure eravamo partiti. Via la prima muta, via la seconda… e poi noi, in coda, in un inseguimento subito serrato. Gli husky facevano sul serio, nessun dubbio in proposito. Tenevo in mano l’ancora a doppio uncino della slitta e mi sforzavo di agganciarla sul fianco in modo che non trafiggesse la testa di Jessica come un amo nella guancia di un grande pesce umano. D’un tratto la velocità diventò pazzesca, senza nulla che potesse controllarla. Eravamo lanciati in discesa, inclinati, e dovevamo tenderci all’indietro per evitare di capovolgerci. Sentivo l’uggiolio dei cani nonostante il cappuccio, anche se ormai ne avevo la testa talmente piena che avrebbe anche potuto trattarsi dell’eco dell’uggiolio dei cani nel recinto, non l’uggiolio estatico di husky al galoppo nell’oscurità artica. Manovrare la slitta era un lavoro faticoso, abbastanza faticoso da farmi sudare. Era bello sentire un po’ di caldo, ma sudare non era bello per niente, perché – l’avevo letto in Notte senza fine, titolo quanto mai indovinato, di Alistair MacLean – appena finito lo sforzo il sudore si sarebbe congelato. Filavamo a tutta birra giù per il pendio. Persi il controllo della slitta, controllo che peraltro non avevo mai avuto, e caddi di schiena nella neve profonda. La slitta si rovesciò, ma l’ancora – che avrebbe dovuto servire da freno – non si era sganciata e gli husky non si fermarono. Non erano stati liberati dalla cattività perché la loro gita finisse così presto. Attraverso il cappuccio sentivo Jessica urlare «Stop!». Fu trascinata per una cinquantina di metri, aggrovigliata sotto la slitta e, per quel che ne sapevo, con l’ancora conficcata nel cranio. Mentre la rincorrevo, senza pensare ad altro che a salvarla, mormoravo in silenzio «Te l’avevo detto che dovevi guidare tu». Ci volle un’eternità per richiamare l’attenzione delle altre squadre, perché erano partiti a una velocità maggiore della nostra. Alla fine, Birgitte e Yeti tornarono indietro e staccarono la slitta da Jessica. Lei era incolume, ma abbastanza scossa da dichiarare che non voleva proseguire. In realtà a me era piaciuto essere stato buttato giù dalla slitta, così come mi era piaciuto, anni prima, venire lanciato fuori dal gommone mentre facevo rafting sullo Zambesi in condizioni che, dal punto di vista meteorologico, erano agli antipodi di queste, nella notte profonda dell’anima artica. Eravamo tutti in piedi con il fiato che creava piccole tormente alla luce delle lampade frontali, intenti a sbrogliare le linee di traino e i cani dentro un groviglio inestricabile. Dico «noi» ma io mi limitavo a restarmene lì, nullafacente, sudato e con il respiro affannoso, a preoccuparmi del fatto che se mi fossi affaticato di più sarei finito sepolto come il mostro di Frankenstein in un ghiacciaio di sudore congelato. Per la verità ci provai a fare qualcosa: cercai di fare delle foto di quello che definii «il luogo dell’incidente», ma mi si era congelata la macchina fotografica. Non c’era niente in quell’habitat che fosse adatto alla fotografia, all’insediamento umano, al turismo o alla felicità. Anche Jessica non ne poteva più, e venne convinta a proseguire solo a condizione che a guidare fossero Yeti o Birgitte, e non «quell’idiota».

«È sotto shock» precisai. «Non sa quel che dice.» Poiché nemmeno io avevo voglia di guidare, entrambi viaggiammo come passeggeri, ognuno su una slitta, con una guida a testa. In questo modo andò tutto molto meglio.

E mi resi conto che non era buio pesto. C’era un accenno di luce scura intorno ai profili bui delle montagne, o qualunque cosa fossero, e un barlume di stelle, però avevo l’indubbia impressione che non ci fosse altro da vedere. Le dita dei piedi erano ancora insensibili, e nonostante la paura del sudore congelato avevo stranamente caldo, soprattutto quando scoprii che il tappetino blu sul quale sedeva Jessica era in realtà un mini sacco a pelo e potei aggiungere l’ennesimo strato isolante. Così infagottato, simile a una mummia congelata, fu piuttosto divertente attraversare le aride lande a rotta di collo. Non pensavo a niente, se non che sarebbe stato molto meglio farlo in un mistico crepuscolo di febbraio, quando almeno riesci a vedere dove vai, comunque adesso nel cielo c’era una traccia di luce, anche se parlare di luce forse era esagerato, dato che era tuttora nero come la pece. Ah, e ormai mi ero innamorato degli husky. 

A prescindere da ciò che il lavoro implica, io amo chiunque – uomo o animale – sia in grado di svolgerlo bene, e questi husky, chiamati a tirare una slitta, erano nel pieno della loro huskità. Avendo letto della spedizione di Amundsen al Polo Sud sapevo che, quando la situazione si metteva male, gli husky si nutrivano dei loro compagni di muta. Yeti li guidava con la sua bella cantilena di istruzioni e incoraggiamenti, che per quanto ne sapevo magari ricordava costantemente ai cani proprio questo dettaglio, cioè che il debole sarebbe diventato cibo per il meno debole. Così è sempre stato e sempre sarà! Visto che lei cantava, mi misi anch’io a cantare una delle canzoni ritmate di Full Metal Jacket: «I don’t know but I been told… I don’t know but I been told… Eskimo pussy is mighty cold». Poi pensai al film Atanarjuat il corridore che, fra le sue molte virtù, confuta con veemenza questa affermazione. La mia mente vagava, poi tornava alla realtà immediata, cioè che ci trovavamo all’aperto, in un’oscurità assoluta – il breve periodo in cui un barlume di luce scura era comparso all’orizzonte si era concluso ed era diventato ormai soltanto un ricordo –, con un gelo polare, e che dell’aurora boreale non c’era alcuna traccia. 

Impiegammo un’ora per tornare al recinto dei cani, all’infernale ma adorabile abbaiare dei cani, sia di quelli che erano stati fuori, e avevano avuto il loro giorno di gloria, sia di quelli che invece potevano solo sperare che il giorno di gloria arrivasse presto. Era previsto che staccassimo i nostri dalla slitta e li riportassimo al recinto, ma non finsi nemmeno di aiutare. Rimasi nei paraggi, a pensare ai miei piedi congelati, a lasciare che fossero le guide a occuparsi di quel lavoro ingrato, per il quale dopotutto venivano pagate… e pagate bene, se riuscivano a sopravvivere al costo punitivo della vita in Norvegia, anche se prendevano il minimo salariale, che doveva essere sui centomila all’anno. Una volta riportati i cani al recinto arrancammo fino all’accogliente bungalow dei cacciatori di pelli. Nello stesso modo in cui la cosiddetta luce nel cielo era buia, secondo gli standard normali nel bungalow faceva un freddo terribile, ma, relativamente parlando, si crepava di caldo. Bevendo caffè bollente parlammo dei sintomi del congelamento. Se ti si congela una guancia, ci metti sopra una mano ma non devi sfregare, tieni la mano calda sulla guancia e basta, sempre che, naturalmente, anche la tua mano non sia un solido blocco di sangue coagulato. Birgitte e Yeti avevano entrambe poco più di vent’anni e amavano passare l’inverno lassù.

«Perché?» chiesi, e ovviamente quell’unica parola era tacitamente seguita da un’altra: diavolo, nel senso di perché diavolo uno vorrebbe passare del tempo in questo luogo infernale? Be’, ne apprezzavano la vita sociale, e apprezzavano il lento ritorno della luce. E quel giorno per loro era stato un’esperienza gioiosa. Birgitte era tornata da una vacanza di una decina di giorni. L’ultima volta che era stata qui non c’era nessuna luce; oggi c’era stato un barlume. Così la notte polare, per quanto ancora immensa, si stava accorciando. C’era luce alla fine del tunnel. 
«Il che rende inevitabile chiedersi» disse Jessica in seguito «perché mai uno dovrebbe scegliere di vivere in un tunnel.»

Passammo in camera il cosiddetto pomeriggio. Jessica mi parlò del saggio di Annie Dillard che stava leggendo sugli esploratori polari e sul riserbo solenne della prosa con cui venivano narrate le loro avventure. Dillard si chiede se ciò sia dovuto al processo di selezione naturale. «O se per caso qualche eminente vittoriano, esaminando lo stile della propria prosa, si fosse reso conto, magari con sgomento, che dato il risultato sarebbe stato meglio darsi all’esplorazione polare.» Ricordo di essermi fatto un appunto mentale in via precauzionale – Evitare la solennità – dopodiché non so che cosa feci. Forse avevo dei danni da congelamento al cervello o qualcosa del genere, perché rimasi seduto lì a scongelarmi – a scongelarmi dal nulla – fino a quando fu ora di andare a mangiare al bar del Radisson Hotel poco distante. In qualsiasi parte normale del mondo sarebbero bastati dieci minuti a piedi per raggiungerlo, ma ormai l’idea che esistessero luoghi dove il semplice atto di uscire non richiedeva preparativi particolari e un’attenta programmazione mi sembrava stranamente poco plausibile. Era la notte più nera e più fredda del pianeta, forse di tutti i pianeti. Di tanto in tanto alzavo lo sguardo nel caso si palesasse l’aurora boreale, ma per lo più tenevo gli occhi a terra per paura di scivolare.

Al bar del Radisson circolavano voci e informazioni di ogni tipo sull’aurora boreale. Turisti e residenti avevano tutti la loro storia da raccontare. L’aurora boreale poteva essere vista in qualsiasi momento, però di sera era molto più probabile. Dalle sei in avanti. Secondo altri, le probabilità di attività erano maggiori dalle undici circa in poi. Mi piaceva la parola «attività», con il suo richiamo al paranormale, e soprattutto mi piaceva il modo in cui veniva detta all’interno di un ristorante. Poi qualcuno sostenne che in realtà eravamo troppo a nord per vedere l’aurora boreale. Eravamo confusi e alquanto demoralizzati, perciò fu rassicurante sentire il barman annunciare che avrebbero trasmesso, su una tv a grande schermo, una partita in diretta della serie A inglese. Arsenal-Manchester City! ’Fanculo l’aurora boreale e le sue apparizioni non programmate e forse persino favoleggiate. La partita illuminata a giorno era programmata e si giocava all’ora fissata, esattamente come annunciato. Il bar si riempì. A metà del secondo tempo, la cameriera, che era uscita a fumare una sigaretta, ci disse che era in corso l’aurora boreale. Ci precipitammo fuori. C’era un debole lucore nel bagliore notturno generale, comunque l’inquinamento luminoso della città non ci avrebbe permesso di vedere quasi niente. Rientrammo a guardare la fine della partita di calcio, non sapendo se sentirci sollevati perché eravamo di nuovo dentro, al riparo dal freddo, o depressi, perché le partite potevamo guardarle in qualsiasi momento, mentre questa era la nostra unica possibilità di vivere l’esperienza dell’Esperienza Aurora Boreale. 

Il cosiddetto «mattino» dopo, l’allegra receptionist del Basecamp chiese se la sera prima avessimo visto l’aurora boreale.

«No,» dissi «però abbiamo visto la partita!» Scherzavo, anche se, a rigor di termini, non scherzavo per niente. In realtà io ero profondamente deluso, e in un bizzarro capovolgimento nordico eravamo diventati noi una fonte di delusione per i nostri anfitrioni. L’implicazione era chiara: non aver visto l’aurora boreale non era il risultato della sua mancata comparsa bensì del nostro fallimento, dovuto a un’incapacità di percezione e a un atteggiamento sbagliato. Avendo qualche difficoltà a digerire la cosa, mi ritrovai a dire che la sua pretesa mi «adombrava», parola che di norma non uso. Era come dire Se ha intenzione di fare la norvegese mistica con me, signorina, allora io farò con lei il turista inglese medio, anche se questo equivaleva a stare lì a testa bassa con l’aria da cane bastonato. Volevamo vedere l’aurora boreale. Avevamo fatto tutta quella strada fino a questo luogo inaridito per vedere l’aurora boreale. Ci eravamo venuti in quello che, da tutti i punti di vista, era il periodo più ostile dell’anno proprio per vederla. Invece pare che vedere l’aurora boreale sia una faccenda molto più indefinita di quanto le fotografie – un vorticare di geyser di un verde psichedelico – ti inducano a credere. A volte è così sfumata che prima si devono sintonizzare occhi e mente. Vedere è credere: e credere è vedere. Dopo aver visto l’aurora boreale – quando sai che cosa stai cercando – ti convinci di poterla vedere di nuovo. In questo mi ricordava i primi tentativi di sballo (il che mi ricordò che esiste un famoso ceppo di cannabis pura chiamato Northern Lights). Non potevi stonarti – questo accadeva prima della skunk, prima di avere l’assoluta certezza che sei in procinto di farti scoppiare il cervello – fino a quando non sapevi che cosa significava essere stonato. Più ne parlavamo, più l’aurora boreale – che, presumevo, era la normalità in questa parte del mondo, in questo periodo dell’anno – acquistava parte del fascino non verificabile del mostro di Loch Ness o dell’abominevole uomo delle nevi. 

Il nostro umore peggiorò. Sembrava esserci una correlazione fra la mancanza di attività percepita nel cielo e la nostra sempre più crescente inattività. Ci rintanammo in camera, sempre più depressi e scoraggiati. La spiegazione avrebbe potuto essere che non avevamo saputo adattarci a quel freddo estremo e a quella notte infinita, ma era vero il contrario. Molti visitatori sembravano gradire molto la novità di tre giorni di notte artica, pur avendo difficoltà a credere che qualcuno potesse vivere lì a lungo. Su di noi l’effetto delle isole Svalbard era stato così forte che avevamo saltato la fase della luna di miele, vivendo i tre giorni come se fossero tre anni, ed eravamo piombati a capofitto nella tetraggine che può logorare chi qui ci ha passato davvero molto tempo. Alla terza o quarta mattina – che avrebbe potuto benissimo essere la trentesima o quarantesima – Yeti bussò alla porta della nostra stanza perché ci preparassimo alla gita in motoslitta alla quale ci eravamo iscritti. Scesi dal letto, aprii la porta, solo una fessura, e le dissi che non ci saremmo andati, alla sua gita. 

A che scopo? dissi quando la vidi alla reception più tardi nella giornata. Lo stesso freddo polare, la stessa oscurità in cui non c’era niente da vedere, come durante la nostra sventurata escursione con la slitta tirata dai cani. No, grazie tante, dissi, prima di girare i tacchi e trascinarmi di nuovo fino al letto. Stare chiusi nella stanza era deprimente, ma sempre meglio che non stare chiusi nella stanza.

«Se in questo momento l’aurora boreale bussasse alla nostra porta,» dissi a Jessica «mi girerei dall’altra parte.»

Passammo in camera tutto il cosiddetto giorno, depressi e scoraggiati, e poi, nella cosiddetta «sera», ci sforzammo di alzarci e uscire nella notte artica. Scarpinammo fino al ristorante ai limiti della città nel freddo polare e nella completa oscurità. Nella zona c’erano orsi bianchi, comunque ci avevano detto che restando sulla strada saremmo stati al sicuro, e inoltre gli orsi bianchi erano l’ultima delle nostre preoccupazioni. Ovviamente tenevamo gli occhi aperti, sia per gli orsi sia nel caso apparisse l’aurora boreale. Guardavamo. Eravamo ancora pronti a crederci. Eravamo pronti a vederla. Avevamo ancora la capacità di credere, ma in fondo avevamo cominciato a credere che l’aurora boreale, se esisteva, non si sarebbe fatta vedere da noi. Rosicchiammo le nostre bistecche di renna e di nuovo ci trascinammo faticosamente fuori, nella notte polare e nel gelo implacabile. Non c’era niente da vedere e l’unico scopo della passeggiata era quello di finirla, di sapere che ne eravamo usciti vivi, che eravamo sopravvissuti per raccontare la storia, la storia che alla fine è diventata questa storia.

Ripartimmo il giorno dopo, a mani vuote e a occhi vuoti. I rapporti con le persone che gestivano il Basecamp erano diventati freddini. La mia battuta sul nome di Yeti aveva avuto talmente successo che Jessica e io ci riferivamo a lei come all’«abominevole Yeti», e in questo modo non ci eravamo certo attirati la sua simpatia, e se niente di quello che era successo l’aveva incoraggiata a mostrarsi più cordiale con noi, diverse cose – non ultima il tema di Full Metal Jacket – avevano contribuito ad aumentare la sua freddezza. Eravamo come due scettici fra i fedeli a Lourdes e furono contenti che ci levassimo dai piedi. Il che non era un problema, perché anche noi eravamo contenti di levarci dai piedi e andarcene da un luogo al quale ci riferivamo solo come a «questo posto nefando» o «questo posto infernale del cazzo» prima di passare ad «abominevole» come aggettivo preferito. Avevamo fatto un’esperienza unica, anche se non quella che avevamo sperato; era stata come una vita intera di delusione condensata in meno di una settimana, che in realtà sembrava la parte più lunga – nel senso di più brutta – di tutta una vita. 

Il tetro autobus ci riportò al terminal attraversando l’abominevole villaggio. Ci si sarebbe aspettati che una simile esperienza creasse una certa tensione fra noi due; invece il fatto di essere così abbattuti e scoraggiati ci aveva avvicinato, benché forse potesse non essere evidente a un estraneo che ci vedesse seduti in silenzio in quel terminal deprimente, in attesa dell’aereo, che, rendiamo onore al merito, decollò in perfetto orario. Quando atterrammo a Tromsø una coppia inglese che avevamo conosciuto al bar del Radisson disse: «Avete visto l’aurora boreale?». A quanto pare l’aurora era comparsa fuori programma mentre noi eravamo in volo… ma sull’altro lato dell’aereo. Forse un influsso malefico ci perseguitava. Anche se avevo ritenuto che fosse impossibile essere più di malumore di così, l’umore peggiorò ulteriormente e poi, dopo l’ennesimo cambio di aereo, a Oslo, precipitò. Mi ritrovai rattrappito su un sedile senza spazio per le gambe, nonostante mi avessero garantito un posto nella fila dell’uscita d’emergenza. L’assistente di volo – una ex bionda norvegese sui cinquanta – venne a chiederci se gradivamo qualcosa. Si riferiva a cibo e bevande, ma dopo tutte quelle ore rinchiusi in camera a Longyearbyen io mi misi a sproloquiare sul mio posto a sedere, l’abominevole sedile senza un minimo di spazio per le gambe, dove stavo come un pollo in batteria a rischio di trombosi venosa profonda. Jessica, ormai catatonica, non diceva niente, invece io per la prima volta dopo diversi giorni, come un arto che si è congelato e sta tornando dolorosamente in vita, mi sentivo rinvigorito dalla rabbia e dallo sdegno. Al contrario dell’abominevole Yeti e delle altre ragazze del Basecamp, che ci avevano preso in antipatia per il nostro atteggiamento negativo, l’assistente di volo si mostrò totalmente solidale, concordando con me e disse che viaggiare in quelle condizioni era davvero intollerabile per un uomo così alto. Mi offrì del succo d’arancia – gratis! – e io mi calmai, anche se, mentalmente, continuai a pronunciare parole di indignazione per il torto che avevo subito. E poi, mentre iniziavamo la discesa su Heathrow, accadde qualcosa di straordinario. L’hostess ritornò e si inginocchiò nel corridoio posando la mano sul mio ginocchio. Mi guardò negli occhi abbattuti, gli occhi che non avevano visto l’aurora boreale, e ripeté che dovevo stare proprio scomodo, che le dispiaceva molto. Senza staccare gli occhi dai miei, disse che un giorno avrei sicuramente avuto il posto che meritavo e, ascoltandola, le credetti.

© Il Saggiatore, 2017

ARTICOLO n. 36 / 2021

D. H. Lawrence: Un canone inesatto

Ricordo molto chiaramente la prima volta che mi sono imbattuto in D. H. Lawrence come scrittore di qualcosa di diverso dalla fiction. A scuola stavamo studiando Amleto, e leggevamo le solite analisi critiche di A. C. Bradley, G. Wilson Knight e quella, un po’ più di moda, di Jan Kott (Shakespeare nostro contemporaneo). Ma il mio professore mi ha indirizzato anche su uno strano scritto di Lawrence intitolato Il Teatro, in Crepuscolo in Italia 1, che riguardava una rappresentazione di Amleto. Volevo ridurre il saggio alla stretta utilità dell’esame ma non sapevo cosa fosse né come doveva essere letto. Ovviamente era su Amleto (una «dichiarazione della più importante posizione filosofica del Rinascimento»)2, ma era anche una sorta di racconto, una reinvenzione di un’esperienza e di un luogo reali. I saggi critici che avevo letto fino a quel momento sembravano tutti degli esempi accurati e compiuti di ciò per cui li stavo leggendo, ovvero i compiti a casa. Eppure, in Teatro non c’era ombra dell’accuratezza forzata dei compiti a casa, e se ciò aveva un certo fascino, sollevava però dubbi sulla legittimità e sul valore dello scritto. Riflettendoci, quello che mi mancava, penso, era la monotonia istituzionalizzata che pervadeva così tanto la critica giunta a definire lo studio dell’Inglese all’università. Era davvero enorme il distacco, in termini di divertimento, tra i romanzi e le poesie e le cose che ci si aspettava di leggere su di loro. Almeno fino a quando, nella settimana dedicata a Thomas Hardy, Lawrence non irruppe di nuovo e improvvisamente non ci fu più alcun distacco. Prima sottolineava, nel suo modo piuttosto semplice, che i personaggi di Hardy «scoppiano inaspettatamente e fanno qualcosa che nessuno farebbe», e dopo faceva dichiarazioni metafisiche sul «grande potere tragico» di Egdon Heath. Ho letto Study of Thomas Hardy per la luce che riversava su Hardy ma anche come espressione rivelatoria del suo autore: tanto specchio quanto finestra. Fino ad allora la non-fiction esisteva o come una disciplina completamente diversa (la Storia, per esempio) oppure come una sorta di scaletta per aiutare a padroneggiare poesie e romanzi. Questi lavori di Lawrence rappresentarono il primo barlume di un rapporto più ambiguo tra critica e fiction, tra le necessarie restrizioni della disciplina accademica e la vita nomade della mente. (Lawrence si è spinto notoriamente oltre, rifiutando l’angusta vita della mente per «un credo nel sangue, nella carne, perché più saggi dell’intelletto»).

La combinazione di commento e scrittura creativa raggiunse la piena espressione – o, in lawrencese, «fu consumata» – in Classici americani che resta una delle imprese più selvagge di mappatura critica mai tentate – non solo dei maggiori rappresentanti di un canone nazionale ma dell’anima di un’intera nazione. Questi primi scritti su Amleto e su Hardy – relativamente precoci nella vita di scrittore di Lawrence e molto precoci nella mia vita di suo lettore – furono rivoluzionari. Quarant’anni dopo resta sempre sorprendente la vicinanza dei saggi di Classici americani con la mia vita adulta. A venticinque anni Philip Larkin era troppo giovane per sapere se fosse valida la sua prematura affermazione per cui «nessuno che sia davvero trasalito per Lawrence potrebbe mai abbandonarlo»; ma si è dimostrata esatta nel mio caso.

Poco prima di scrivere questo saggio ero ospite a casa di un amico a Joshua Tree. Nel tardo pomeriggio abbiamo fatto una passeggiata su una collina nelle vicinanze, sotto il sole cocente, fino a un camper abbandonato dal suo proprietario. Dentro c’erano escrementi di topi e di ratti ovunque, sul pavimento, sul letto e su tutta la cucina. I resti sparsi di ciò che un tempo era stata una vita domestica si mescolavano ai detriti della successiva dipendenza da droghe fino a trasformare i diversi spazi di quella casa in «un’orribile galleria sotterranea dell’animo umano». Immutati per milioni di anni, il paesaggio dorato circostante e il profondo blu del cielo erano incredibili. Su un tavolo da picnic fuori da quella discarica di camper, c’erano le pagine di un’edizione tascabile degli scritti di Edgar Allan Poe. Era impossibile sapere ‘quale orribile storia dell’animo umano nei suoi violenti spasmi’ avesse preso luogo lì ma, per me, il mistero stesso aveva preso forma nei pensieri di Lawrence su Poe. Due settimane prima, nel Colorado, avevo visto il film western Hostiles – Ostili, che riprende la sua epigrafe dal saggio di Lawrence su Fenimore Cooper: «Il vero animo americano è duro, isolato, stoico e omicida». Entrambe le esperienze – una volutamente, per mano del regista Scott Cooper, l’altra per caso – erano state plasmate da ciò che Lawrence aveva scritto.3

C’era un tempo in cui ciò non era affatto insolito. Nel 1945 Larkin con entusiasmo diceva a un amico che Lawrence era «il più grande scrittore del secolo, e per molti aspetti il più grande scrittore di tutti i tempi». Nato cinque anni dopo Larkin, il narratore di Il Mago (1965), scritto da John Fowles alza ancora l’asticella e lascia la scuola considerando Lawrence «il più grande essere umano del secolo». E non erano soltanto ragazzi. Visitando il ranch e il santuario di Lawrence a Taos, nel 1939, W. H. Auden notò come «auto di donne in pellegrinaggio arrivavano ogni giorno per starsene lì in ossequio e immaginare come sarebbe stato andare a letto con lui».

La risposta, secondo Kate Millett in La politica del sesso (1970), era probabilmente spiacevole e sicuramente deludente. La sua analisi devastante e arguta mise a nudo le sciocchezze stucchevoli e il «fasto liturgico» proprio di ciò che rese Lawrence famoso, ossia scrivere di sesso. Aggiungiamo la sua deplorevole – sebbene temporanea infatuazione per un culto protofascista del «leader con seguito» ed è facile capire perché la reputazione di Lawrence abbia avuto un declino più o meno stabile dagli anni Settanta. Per un periodo che è durato tanto quanto la sua breve vita, Lawrence è riuscito a restare pervicacemente fuori da qualsiasi fascinazione critica del momento – ma questo non significa che non abbia avuto i suoi devoti.  Da qui la frustrata passione di Tony Hoagland, nella sua poesia Lawrence, in cui ricorda come

In due occasioni negli ultimi dodici mesi

non sono riuscito, quando qualcuno a un party

ha parlato di lui con sdegnoso disprezzo,

a difendere D. H. Lawrence.

Qualsiasi tentativo di difendere quest’«uomo che bruciò una torcia ad acetilene / da una parte all’altra della sua vita» dovrebbe cominciare dall’ammettere non solo la bassa qualità di romanzi come La verga di Aronne o Il serpente piumato ma anche che alcune dell’opere canonizzate sono, nelle incomprese parole di George Orwell, «difficili da finire». Come romanziere, potremmo dire che Lawrence ha raggiunto l’apice precocemente, con Figli e amanti. Il suo ex-amico amico John Middleton Murry si spinse più lontano sostenendo in una recensione di Donne innamorate che Lawrence fosse uno di quei romanzieri che «sembrano aver superato il proprio apice ben prima di averlo raggiunto». Da lì in poi, come ha detto Raymond Williams con commozione, «ciò che ha perduto lungo la strada – ciò che penso lui sapesse aver perso e tentò di recuperare – potrebbe in effetti essere tanto importante quanto ciò che indubbiamente guadagnò». Un modo per ribilanciare i conti è quello di estendere l’area di interesse critico oltre i canali fittizi della «grande tradizione» di F. R. Leavis per includere forme di scrittura che sono considerate secondarie e minori. Se Lawrence oggi rimane un grande scrittore, ciò è dovuto in gran parte alla freschezza duratura e alla forza che si trova nei suoi libri di viaggio, nelle poesie che erano a malapena poesie, e nei suoi saggi sparsi. Per Lawrence il romanzo, «l’unico luminoso libro della vita», era la sfida suprema; ciò su cui aveva giocato la propria vita. Ma molti dei suoi doni spiccavano meglio altrove. Sotto questo aspetto, nella sua incapacità di confinare se stesso nell’arena a cui più teneva, appare come uno scrittore chiaramente contemporaneo: Lawrence visto come canone inesatto, per così dire.

Un curatore di una selezione di saggi di Lawrence, Richard Aldington, aveva deciso che «Saggi» fosse una «parola piuttosto povera per questi scritti così brillantemente vari».

In realtà, Aldington forse sottostima la questione, perché brillantezza e varietà spesso coesistono all’interno di un singolo saggio. (Dean Young, nel suo poema Shield of Moon Dust, restringe ancora di più il campo e rappresenta Lawrence come qualcuno capace di scrivere orribilmente e magnificamente nella stessa frase). Saggi sugli scrittori sono anche saggi sui luoghi; saggi sui luoghi sono anche pezzi di autobiografia e così via. Rebecca West, nella sua Elegy, composta dopo la morte di Lawrence, ricorda il loro incontro in Italia dove lui stava «battendo a macchina un articolo sulla condizione di Firenze». Più tardi lei si accorse che in realtà stava «scrivendo sulla condizione della propria anima in quel momento», usando la città come simbolo di comodo. Persuasiva e in parte vera, l’analisi di West rischia di sminuire l’inquietante capacità di Lawrence di rendere ciò che Mabel Dodge Sterne ha chiamato «l’atmosfera, il contatto e l’odore dei luoghi» – che è la ragione per cui lei lo invitò in New Mexico nel 1921. Durante il viaggio tortuoso che dalla Sicilia doveva condurlo lì e poi in Australia nel maggio successivo, lui sembrò intuire immediatamente un altro mondo, una sorta di tempo del sogno: «una ‘quarta dimensione’ e i bianchi vi nuotano come ombre sulla superficie». Sebbene menzioni solo di sfuggita la politica, la sua Lettera dalla Germania registra qualcosa – qualcosa «che non è ancora accaduto» – soffiare tra gli alberi della Foresta Nera nel 1924: «Dalla stessa aria arriva un senso di pericolo, uno strano sentimento che sussurra un inquietante pericolo». Sensazioni guizzano e accendono idee, esposte come fossero dati di qualche strumento calibrato su una frequenza di percezione così estrema da essere anormale o addirittura patologica. Il divario tra l’oggetto apparente della ricerca e la direzione presa dall’investigazione spesso è vasto, le conclusioni di solito drastiche. Ogni cosa ha la possibilità di diventare qualcos’altro. Le parti migliori di Art and Morality non riguardano l’arte o la morale ma – attraverso una incredibile divagazione intellettuale sulle vite degli antichi Egizi – descrivono come la moda ‘Kodak’ di fotografare se stessi in continuazione abbia fondamentalmente cambiato la percezione di noi stessi: una profetica diagnosi del malessere distintivo dell’era dell’iPhone. In una nota editoriale a Introduction to Pictures (da non confondere con Introduction to these paintings) lo studioso James T. Boulton giustamente puntualizza che il saggio «non prende in esame nemmeno una volta le immagini». Questa tendenza a deviare dalle intenzioni annunciate fu espressa nel modo migliore da Lawrence stesso il 5 settembre 1914. «Per pura rabbia ho iniziato il mio libro su Thomas Hardy. Tratterà di tutto tranne che di Thomas Hardy, temo, roba strana – niente male».

Pensato come parte di una serie chiamata Writers of the Day, il manoscritto, che si era molto allontanato da qualsiasi modello, non fu accettato per la pubblicazione. Lawrence, da parte sua, voleva distanziarsi ancora di più dall’obiettivo originale e cominciò a rimodellare qualcosa che era stato «perlopiù filosofeggiante, vagamente collegato ad Hardy» in favore di una più esplicita dichiarazione della sua «filosofia (perdonate la parola)». Il risultato, molto rivisto, fu La Corona ma anche alcuni dei «bozzetti» da cui ebbe origine Crepuscolo in Italia furono ridefiniti per veicolare questo carico filosofico maggiore. Versioni dello stesso tema sorgono in forme disparate e sovrapposte, alcune incomplete o inedite. Quelli che cominciano come «saggi» o «bozzetti isolati» si trasformano in capitoli all’interno di un libro.

Lawrence aveva indubbiamente una propria filosofia, che era sempre entusiasta di condividere con il mondo (per usare un eufemismo), anche se con questa non aveva alcuna dimestichezza.

Amo il modo in cui criticò Bertrand Russell per essere incapace di «accettare nella sua filosofia l’Infinito, lo Sconfinato, l’Eterno, come vero punto di partenza», ma nonostante i propositi di «impartire delle lezioni sull’Eternità» Lawrence dava sempre il meglio quando si occupava del finito e del particolare. Per quanto risultino poco stuzzicanti per i lettori contemporanei, le sue Reflections, mantengono il loro fascino per il modo in cui sono radicate non solo nella «morte di un porcospino», ma nell’agonia del cane con le spine di porcospino nel naso con cui comincia lo scritto. Lawrence si faceva spesso trasportare da discorsi riguardo a un metaforico «fiume di dissoluzione» ma notava, con sorprendente chiarezza di visione, tutta la flora e la fauna della riva letterale. Ritraendosi istintivamente davanti all’Ulisse di Joyce («Ma che sforzo! Che prova!»), Lawrence spesso dava il meglio quando andava a braccio, anche se ciò garantì a sua volta la bassa opinione di Joyce: «Quell’uomo scrive davvero, davvero male». A questo proposito, nonostante abbia riscritto più volte i romanzi più famosi, l’uomo che snobbò Joyce per essere «completamente privo di spontaneità», è come un proto-Kerouac. Poteva predicare senza sosta sull’uomo, la donna e la necessità per loro di essere, come insiste Birkin in Donne innamorate, «due stelle ben distinte, eguali e in perfetto equilibrio, in congiunzione…» (Bur 2009, trad. Adriana Dell’Orto), ma la cosa migliore che abbia scritto su una moglie o una compagna di vita si trova in un verso trascurato nella poesia For a Moment nella quale, mentre si siede e aspetta sulla terrazza di un hotel, lui vede «la donna che cerca me nel mondo». Nessuno ha mai espresso con più chiarezza di quella donna, Frieda 4, ciò che continua ad attrarre i lettori che sarebbero altrimenti stanchi dei lombi delle tenebre di Lawrence, delle fiamme dure come gemme, eccetera: «Per me il suo rapporto, il suo legame con ogni parte della creazione era incredibile, non c’era idea preconcetta, soltanto un incontro tra lui e la creatura, un albero, una nuvola, qualsiasi cosa. Io lo chiamavo amore, ma era qualcosa di diverso – Bejahung in tedesco, il dire sì». 

In effetti, ci sono momenti come questo in tutto ciò che ha scritto, a prescindere dal genere: dalla descrizione dei cipressi in Crepuscolo («Come abbiamo candele per illuminare l’oscurità della notte, così i cipressi sono candele che tengono l’oscurità accesa nel pieno splendore del sole») al canguro con le sue «cadenti spalle vittoriane» nell’eponimo poema, fino a numerose scene e passaggi in ogni suo romanzo. Non puoi mai sapere, con Lawrence, quando o come si manifesterà il prossimo lampo di genio. L’ossessione di calpestare i soliti imperativi dell’autocontrollo editoriale è un piccolo prezzo da pagare per il flusso senza ostacoli di improvvisazioni che otteniamo quando racconta di un sabato pomeriggio passato a Malta in compagnia di Maurice Magnus, in cui esplora «questa isola terribile», «questa sconcertante isola bruciata, essiccata dal sole», «questa isola orribile e smunta», «questa isola bestiale». In passaggi come questo la scrittura di Lawrence galleggia libera dal periodo di composizione, dalle prerogative dell’epoca condivise con angoscia, in una maniera che raramente si trova nei modernisti a lui contemporanei.

L’inizio di Whistling of birds sembra un passaggio da The Peregrine di J. A. Baker: «Il gelo rimase per molte settimane, al punto che gli uccelli cominciavano a morire rapidamente. Ovunque nei campi e sotto le siepi stavano i resti raggrinziti di pavoncelli, storni, passeri, tordi, sperduti mantelli di insanguinati uccelli raggrinziti…» Piuttosto che enumerare potenziali paragoni attraverso il tempo, può bastare questo solo esempio. L’inchiostro sulla prima pagina di Taos pare abbia a malapena avuto il tempo di asciugarsi nei 95 anni da quando Lawrence l’ha scritta.

Molti dei saggi successivi furono realizzati per denaro, quando Lawrence era a corto di energia e voglia di concentrarsi su un duraturo lavoro creativo. «Io penso sia forse uno spreco scrivere ancora romanzi», scrisse a Nancy Pearn dell’ufficio del suo agente letterario Curtis Brown. «Potrei probabilmente vivere di piccoli lavori, per esempio sulle riviste.» La paziente Ms Pearn si dimostrò altrettanto capace nel trovare destinazioni adatte per questi pezzi e di assicurare offerte per scrivere ulteriori «piccoli articoli per i giornali» che lui considerava «il modo di gran lunga migliore per fare soldi».

A dispetto di come abbiano avuto origine queste cose, o delle ragioni di Lawrence nel comporle, l’atto di scrivere invariabilmente restituisce qualcosa – e questa è la parola che usa Hoagland per concludere la sua tardiva difesa – di magnifico. Da nessuna parte ciò è più evidente che nell’introduzione che ha offerto a Memorie della Legione Stranieradi Magnus. Incentrata per lo più sul denaro, fu scritta per estinguere i debiti di Magnus e riguadagnare dei soldi che Lawrence stesso aveva perso, ma la grande estensione del pezzo in effetti ripulisce – o cancella – la ragione di partenza. Più in generale, quando Lawrence buttava giù questi ‘piccoli lavori’ stava in qualche modo giocando a suo vantaggio, alleggerendosi, perché si esprimeva liberamente, anche senza il peso psichico dell’ambizione che aggrava invece L’arcobaleno o Donne innamorate.

In una lettera che riguardava la collocazione di manoscritti dispersi la sua amica Dorothy Brett ha notato intelligentemente che «quando un uomo trascurato come Lawrence diventa accurato – e non dimostra alcuna traccia della sua trascuratezza – è propenso a perdere le staffe». La serena attitudine che lo animava nella scrittura dei saggi aveva dei vantaggi inaspettati. Lungo tutta la sua carriera Lawrence ha gettato bottiglie con dentro messaggi che disdegnavano con forza ciò di cui professava non curarsi in un determinato momento. In uno degli ultimi pezzi che ha scritto, un’introduzione su The Dragon of the Apocalypse di Frederick Carter – un altro esempio di un pezzo che è cresciuto oltre il suo obiettivo iniziale, visto che Lawrence finì per scrivere la sua propria Apocalisse – egli ha esposto alcune delle ragioni e dei modi in cui continuiamo a occuparci di lui. «Non m’importa cosa un uomo tenta di dimostrare, fintanto che riesce ad interessarmi e trasportarmi. Non m’interessa per niente se lui [Carter] raggiunge il suo scopo o meno, fintantoché è riuscito comunque a offrirmi una vera esperienza immaginativa, e non un altro cumulo di idee gonfiate.» E quindi va ad anticipare le nostre potenziali obiezioni: «Che importa se è confuso? Che importa se è ripetitivo? Che importa se in alcune parti non è molto interessante, quando in altre lo è così intensamente, quando d’improvviso apre le porte e lascia entrare lo spirito dentro un mondo nuovo, anche se è un mondo davvero vecchio!».

Pagina dopo pagina i saggi di Lawrence lo rivelano come uno scrittore in eterno rinnovamento: il nostro perpetuo contemporaneo.

© 2019, Geoff Dyer

La traduzione è a cura di Marco Marino