Jennifer Guerra

ARTICOLO n. 18 / 2024

FREEDA, COME FREEDOM

Il femminismo non è un brand

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo saggio di Jennifer Guerra Il femminismo non è un brand (Einaudi). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Nel gennaio del 2017 avevo 21 anni. Scrivevo sul blog di «Soft Revolution Zine» da tre e avevo appena concluso un breve stage in una rivista di moda di Milano. Avevo già un lavoretto, ma ero sempre in cerca di opportunità per scrivere su altri blog o riviste, magari ricavandoci anche qualche soldo. In una bella giornata di gennaio, su Facebook mi imbattei in un annuncio: «Stiamo cercando autrici che si interessino di femminismo per un nuovo progetto editoriale». Sono sicura che c’erano molti più inglesismi nel testo, ma il senso era quello. Non ci potevo credere: una rivista che tratta di femminismo in Italia, oltre a «Soft Revolution Zine», e che pagherebbe pure? Mandai subito la mia candidatura. Mi rispose una persona molto gentile per chiedermi di inviare il mio portfolio, ma poi la cosa si fermò lì.

La «rivista» si chiamava Freeda. 

Oggi sono 2 milioni le persone che seguono la pagina Facebook e 1,7 milioni i follower su Instagram. Freeda ha anche due divisioni estere, una versione spagnola e una inglese, per un totale di 7 milioni di persone raggiunte. Secondo la pagina LinkedIn, l’editrice Freeda Media oggi conta 200 dipendenti in tutto il mondo e ha raccolto investimenti pari a 13 milioni di euro per i suoi progetti futuri. «Freeda – come freedom, al femminile – è un progetto editoriale che celebra la libertà e i tanti modi di essere di una nuova generazione di donne», recita la sezione delle informazioni su Facebook. A settembre del 2021, l’azienda ha lanciato un nuovo progetto, Freeda Platform, «una piattaforma che mira a innovare il mercato della consulenza di marketing e dell’analisi dei dati provenienti dai social, fornendo alle aziende un servizio a 360° finalizzato allo studio delle community e dei comportamenti online dei più giovani», come ha spiegato il cofondatore Andrea Scotti Calderini in un’intervista.

Da un paio d’anni è in corso un fenomeno curioso negli ambienti antifemministi e della maschiosfera italiana, «i siti e i gruppi di discussione di internet che si occupano dell’interesse e dei diritti degli uomini in opposizione a quelli delle donne, spesso collegati all’ostilità verso il femminismo o al disprezzo delle donne». In rete sono spuntate pagine, interventi, video e articoli che criticano Freeda perché lo identificano con il movimento femminista e, cosa ancor più strana, con una sua variante «estremista». Su Instagram esistono diversi profili dedicati alla contestazione di Freeda e Marco Crepaldi, divulgatore italiano che si occupa di «discriminazione maschile», le ha dedicato ben tre video sul proprio canale YouTube: Tutta l’ipocrisia di FreedaFreeda: il business del femminismo I pericoli del femminismo moderno. Nel corso di questi video, pur riconoscendo la natura profittevole che sta dietro al progetto Freeda, Crepaldi sovrappone più volte gli intenti della pagina al movimento femminista nel suo insieme, specialmente nell’ultimo video. 

Ma Freeda è oggetto di critiche anche da sinistra o dall’interno del movimento femminista. Il primo tentativo di smascherare i reali intenti di Freeda fu un articolo di «Dinamo Press», da tempo cancellato dal sito ma ancora reperibile in rete, intitolato Ecco cosa c’è dietro Freeda, pubblicato meno di due mesi dopo l’avvio del progetto editoriale. L’articolo parlava della nascita di Freeda e dei suoi legami con la famiglia Berlusconi e all’epoca aveva scatenato grande indignazione e stupore. L’azienda proprietaria del marchio Freeda, Ag Digital Media, è stata infatti fondata da Gianluigi Casole, che ha lavorato per il family office di Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi H14, e da Andrea Scotti Calderini, ex di Publitalia 80, concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset. Tra i suoi investitori, insieme a diverse figure legate alla galassia Mediaset, c’è anche Ginevra Elkann, nipote di Gianni Agnelli. Se nel 2017 quello di «Dinamo Press» sembrava un vero e proprio scoop, dal momento che agli esordi Freeda poteva benissimo essere scambiato per un progetto nato dal basso, oggi si tratta di informazioni note a tutti e che di certo non vengono tenute nascoste. Insomma, sul fatto che dietro Freeda si celino interessi diversi dalla lotta transfemminista o dalla rivoluzione proletaria nessuno nutre alcun dubbio. Eppure, moltissime persone degli ambienti femministi si sentono ancora in dovere di prendere pubblicamente le distanze da Freeda, non solo per la sua vicinanza alla famiglia Berlusconi, ma anche e forse soprattutto per l’idea di femminismo che la pagina propone: la Libreria delle donne di Milano, spazio storico del femminismo della differenza italiano, ha scritto un post sul proprio sito per ribadire che quello di Freeda è «sedicente femminismo rassicurante e mai controverso». Sono inoltre innumerevoli gli articoli che tentano di differenziare il «vero» femminismo da quello del marchio, con argomentazioni più o meno condivisibili: Freeda non è una pagina femminista («Medium»), Freeda: un femminismo confuso («La colonna infame»), Il doppio volto di Freeda («The Password», rivista degli studenti dell’Università di Torino), Freeda è solo un altro strumento del capitalismo? («Excentrico»), per citare i più recenti. 

Tale confusione sulla natura di Freeda ha generato qualche episodio che mi ha personalmente coinvolta e mi ha fatto riflettere sul ruolo che questo progetto sta avendo nel mondo femminista italiano. Durante una presentazione del mio primo libro, Il corpo elettrico, due ragazze molto giovani mi hanno chiesto cosa dovessero rispondere a chi sosteneva che Freeda fosse «femminismo radicale». Un’altra volta mi è stato chiesto, sempre da adolescenti, se fosse giusto o sbagliato seguire quella pagina. Se dovessi dire qual è una delle domande che mi vengono rivolte più spesso durante le interviste o gli incontri di fronte a un pubblico giovane, sarebbe proprio un commento su Freeda e sull’autenticità dei suoi contenuti.La mia impressione è che queste lettrici cercassero una conferma sul fatto che Freeda, come mi è stato detto più volte, «è il male». Mi sono interrogata a lungo sull’impatto che Freeda ha avuto sulla vita di chi si avvicina in adolescenza al movimento delle donne. Perché le giovani femministe sentono il bisogno di prendere una posizione così netta nei suoi confronti? Perché le più anziane intervengono per condannarla apertamente? Perché Freeda è diventata lo Zeitgeist del discorso femminista contemporaneo nel nostro Paese? 

Freeda non ha, ovviamente, nulla di estremista, sovversivo o pericoloso: è una pagina dai contenuti inoffensivi, con una grafica curata da una palette viola e fucsia, che alterna post e storie motivazionali – che hanno spesso per protagoniste le minoranze sessuali, etniche o le persone con disabilità – a inserzioni pubblicitarie. Il suo target sono le adolescenti o le giovani adulte e il progetto mira a promuovere cose del tutto innocue come la «realizzazione femminile, lo stile personale e la collaborazione tra donne». Basterebbe ribadire che si tratta di un’azienda per dimostrare che Freeda non ha molto a che vedere con il movimento femminista in quanto tale. Eppure, il motivo per cui si dibatte tanto su Freeda, arrivando a sovrapporla con quello che fanno le militanti e attiviste femministe, non è affatto banale né marginale.

La domanda da porsi infatti è questa: pagine come Freeda rappresentano una variante del femminismo o sono una variante del capitalismo che si appropria del linguaggio, della retorica e dell’estetica femminista?

La recente riemersione del soggetto politico femminista in un paradigma economico che non si fa scrupoli a capitalizzare i temi sociali in nome del profitto ci pone di fronte a delle sfide nuove. Il primo nodo da sciogliere è se le aziende e i brand si meritino il «patentino» del femminismo e il secondo, la cui risposta pare meno scontata, è come tale nuova postura della brand identity influenzi la pratica femminista. Per tentare di dare una risposta a queste domande, è necessario capire come si è arrivati a questo punto. 

© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

ARTICOLO n. 93 / 2023

UNO SPAZIO LIBERO DALLA PRESENZA MASCHILE

Nel 2020, un video virale su TikTok chiedeva alle ragazze che cosa avrebbero fatto se gli uomini fossero spariti dalla faccia della terra per 24 ore. I commenti e le risposte erano piuttosto deprimenti. Le ragazze desideravano fare cose banali, normalissime: “Uscirei di casa alle tre di notte”, “Andrei a fare una passeggiata da sola la sera”, “Mi sentirei sicura anche indossando una minigonna”. Il tema delle molestie di strada è forse uno dei più ostici da affrontare quando si parla di violenza di genere. Da un lato, le risposte securitarie rischiano di esasperare paura e xenofobia, dall’altro la risposta femminista secondo cui “le strade sicure le fanno le donne che le attraversano” pone un difficile contro-argomento: gli uomini possono continuare ad attraversarle, quelle strade, oppure sarebbe meglio non ci fossero proprio, come sognano le utenti di TikTok?

In certi Paesi, in effetti, la segregazione di genere è stata l’unica risposta istituzionale al problema delle molestie di strada. Il Giappone vent’anni fa ha deciso di predisporre dei vagoni ferroviari riservati alle sole donne, ma l’efficacia di questa iniziativa è dibattuta. Anche in Italia si è discusso più volte di adottare questa soluzione, che torna ciclicamente ogni volta che si consuma una violenza su un mezzo pubblico. Nel 2021, si parlò molto di una petizione su Change.org iniziata da un gruppo di pendolari per chiedere a Trenord vagoni per sole donne e che raccolse in poche ore migliaia di firme.  

Il trend di TikTok e la richiesta di mezzi pubblici separati per uomini e donne sono due manifestazioni della paura che le donne nutrono nei confronti degli uomini, una paura che spesso viene taciuta per il timore di risultare esagerate, vittimiste o addirittura misandriche. Eppure quella paura c’è, è reale, ed entrambe le soluzioni si aggrappano a un’idea affascinante per quanto perturbante: un mondo in cui gli uomini non esistono, per 24 ore, per il tempo di un viaggio in metropolitana o addirittura per sempre. Non si tratta di una novità nell’immaginario femminista: negli Anni ’70 le femministe si trovarono a fare i conti con il problema dell’autonomia. La dipendenza dal modello maschile investiva ogni ambito: molte femministe si erano sbarazzate degli uomini nella propria vita affettiva e relazionale, i maschi erano interdetti dal partecipare alla pratica dell’autocoscienza, ma la questione si estendeva dal piano esistenziale a quello ontologico. Come possiamo, si domandavano le femministe, pretendere che la donna diventi soggetto autonomo se la sua identità è comunque decisa dall’uomo? Per Valerie Solanas la risposta era molto semplice: una convivenza armoniosa tra i generi è destinata al fallimento, quindi i maschi vanno eliminati, simbolicamente e concretamente. 

Nel suo manifesto del 1968 S.C.U.M. (dove l’acronimo sta per Society for Cutting Up Men), Solanas immaginava un piano di distruzione del genere maschile, identificandolo come il vero sesso debole. Senza alcuna pretesa di rigore scientifico o filosofico, con un uso spregiudicato della rabbia e del turpiloquio, il manifesto S.C.U.M. va letto non come una parodia o una provocazione, ma come un’utopia dove i maschi non sono più un problema per nessuno e dove non ci si vergogna di desiderarne la sparizione. A causa delle sue posizioni estremiste, per anni Solanas è stata una pària del pensiero femminista, specie dopo che sempre nel 1968 sparò ad Andy Warhol per vendicarsi del suo rifiuto di produrre il suo dramma teatrale Up Your Ass. L’opera di Solanas, e in un certo senso la sua vita, furono una contestazione tanto del machismo quanto del femminismo pacifista che pensava di poter mettere dei fiori nei cannoni del patriarcato. 

Oggi però quel sentimento misandrico che Solanas espresse in maniera così sboccata e inaccettabile si è fatto largo nel mainstream, pur in una versione più edulcorata e quasi sempre relegata alla fantasia. Gli uomini di Sandra Newman (Ponte alle Grazie) è solo l’ultimo romanzo che ha come tema un mondo senza maschi. Mentre si trova in campeggio, Jane perde improvvisamente il marito e i figli, spariti nel nulla. E così Ji-Won, mentre guarda la TV, si accorge che improvvisamente al posto dei presentatori c’è solo uno sfondo blu. Tutte le donne di questo romanzo hanno un rapporto ambivalente con gli uomini dentro e fuori dalla loro vita. In certi momenti hanno desiderato che sparissero, forse addirittura che morissero, ma li hanno anche amati profondamente e senza di loro si sentono perse. Di fronte al mondo caotico lasciato dalla loro scomparsa, non sanno cosa provare, non capiscono se sia effettivamente meglio o peggio così, un mondo senza uomini.  

La serie Y – L’ultimo uomo, tratta dall’omonimo fumetto DC Vertigo di Brian K. Vaughan e Pia Guerra e cancellata dopo la prima stagione, si basa sulla stessa premessa. Il cromosoma Y scompare, portando via con sé tutti gli individui maschi e persino gli embrioni e i campioni di sperma, rendendo vana la possibilità di ripopolare la Terra. Solo due individui si salvano: il giovane Yorick Brown e la sua scimmia domestica, Ampersand. In questo caso, la prospettiva di un mondo popolato da sole donne prende subito la piega di una catastrofe che condurrà l’umanità all’estinzione, da cui solo Yorick potrà salvarla. Anche il fortunato romanzo Ragazze elettriche di Naomi Alderman (nottetempo), anch’esso trasposto in una serie TV, esplora a suo modo il tema, nonostante la sparizione degli uomini sia più simbolica che concreta, nel momento in cui le donne scoprono di possedere il potere di emanare scosse dal proprio corpo. Nel giro di pochi giorni, le donne sottomettono i maschi in una spirale di violenza, vendetta o più prosaica sete di potere.

Tutte queste opere hanno qualcosa in comune. Il mondo senza uomini è infatti un mondo indesiderabile, terrificante, che precipita nel caos e nella disperazione. L’unica eccezione sembra essere quella di Barbie di Greta Gerwig, dove Barbieland è un mondo perfetto in cui la presenza dei maschi è del tutto irrilevante. Anche se è Barbie Stereotipo ad aver causato la frattura fra Barbieland e il mondo reale, è solo quando i Ken cercano di imporsi usando il patriarcato importato da Ken che si instaura un vero regime di distruzione, spezzando la perfezione del matriarcato delle bambole. Barbie è stato letto da alcuni come un film misandrico, in cui gli uomini sono rappresentati come degli inetti costantemente puniti. In effetti, quando le Barbie riescono a rimpossessarsi di Barbieland, devono adeguarsi a un mondo in cui la presenza degli uomini è contemplata, rinunciando all’utopia compiuta che avevano realizzato in precedenza.

Che sia il mondo plasticamente idilliaco di Barbie o l’apocalisse paventata da Gli uomini e da Y, il fantasma di un mondo senza maschi continua comunque a tornare, non solo nella fantasia. Il discusso pamphlet Odio gli uomini di Pauline Hermange (Garzanti), oggetto di un boicottaggio feroce anche da parte di un funzionario del Ministero delle Pari Opportunità francese, auspica il ritorno di una certa forma di separatismo che non si vergogna di dire di non voler avere nulla a che fare con gli uomini. Intanto, in Corea del Sud, uno dei Paesi con i tassi di violenza di genere più alti al mondo, si è costituito il movimento 4B, dove 4 sta per “no” e le B stanno per “matrimonio”, “figli”, “relazioni romantiche con uomini” e “rapporti sessuali con uomini”. Le militanti di questo movimento rifiutano il contatto maschile e i canoni estetici dominanti, lottando per un mondo senza uomini. 

La pervasività della fantasia di uno spazio libero dalla presenza maschile ci deve far interrogare sulla direzione del femminismo contemporaneo. Dopo l’egemonia di quello che Jessa Crispin chiama “femminismo universale”, un femminismo privo di conflittualità che si adatta a ogni tipo di esigenza, e di appelli per un “femminismo di tutti”, qualcosa sembra cambiare. Gli eclatanti casi di violenza sessuale che si sono verificati negli ultimi mesi in Italia, grazie ai quali abbiamo visto fin dove può spingersi l’“uomo qualunque”, hanno contribuito a diffondere la consapevolezza che non sono soltanto i mostri a commettere violenza sulle donne. In un certo senso, l’elaborazione collettiva di questi casi ha portato alla luce quella paura innominabile e nascosta, senza il timore di passare per pazze se ogni tanto si pensa a cosa succederebbe se gli uomini sparissero dalla faccia della terra per 24 ore. Per il momento, un mondo senza uomini resta solo un’ipotesi di finzione o al massimo un progetto teorico irrealizzabile. Ma, anche se catastrofici, scenari del genere ci consentono di esorcizzare quella paura.

ARTICOLO n. 96 / 2022

IL FEMMINISMO SECONDO BELL HOOKS

Speciale bell hooks

Durante la campagna elettorale, l’opinione pubblica si è scervellata per mesi per rispondere a una domanda mal pensata e mal posta: Giorgia Meloni è femminista? Una questione che dovrebbe far saltare dalla sedia chiunque pratichi il femminismo, non tanto perché Meloni, contrariamente alla sua collega francese Marine Le Pen, non ha mai cercato di associarsi a questa parola (anzi, ne ha preso spesso le distanze, attaccando un po’ genericamente “le femministe”), ma perché è davvero assurdo attribuire il femminismo a qualcuno, a maggior ragione a una persona che lo ha sempre disprezzato. Ma questa domanda negli ultimi anni è diventata sempre più popolare nonché rivolta ai soggetti più disparati.

Chiedersi se qualcuno sia o non sia femminista a prescindere da ciò che la persona pensa o fa è la conseguenza di un grande fraintendimento: il femminismo è una caratteristica dell’individuo, non più una pratica o una teoria politica. Basta esistere in quanto donne in un contesto patriarcale per essere femministe. Non contano le idee, i fatti, il posizionamento politico. Il femminismo è per tutti, vero, e non ci sono barriere per chi voglia abbracciarlo. Ma il percorso ora è inverso: qualcuno da fuori decide chi è e chi non è femminista, cercando prove, facendo congetture. In un discorso, in una decisione e a volte soltanto in un’esistenza si cerca un legame con il femminismo.

Quello che ha portato a questo fraintendimento è stato un processo lungo, passato anche da una rilettura spesso superficiale della vita di donne eccellenti del passato. Figure che avevano senz’altro una grande consapevolezza della subalternità femminile, che hanno lottato per uscire da uno stato di minorità, ma che non facevano parte di un movimento. Se oggi essere femministe è una qualità apprezzata, quasi desiderata, è anche perché il femminismo si è normalizzato e da forza di opposizione e messa in discussione dell’esistente, da questo esistente è stato gradualmente inglobato. Questo processo era già stato registrato da bell hooks nel suo libro del 1984 Feminist Theory: From Margin to Center

Nella prefazione alla terza edizione, hooks racconta che cominciò a scrivere questo volume quando avvertì, nella sua militanza, che il femminismo era incapace di produrre una pratica che si prendesse cura dei bisogni di soggetti diversi dalla donna bianca della classe media. Non solo, la voce delle femministe nere era ignorata o ghettizzata. Il loro destino era quello di parlare esclusivamente dei problemi razziali, come se il colore della loro pelle venisse prima dell’assunto che univa alla radice le femministe: l’esperienza di essere donne. Dopo Ain’t I a Woman, scritto a 19 anni e uscito in quel 1981 che produsse anche Donne, razza e classe di Angela Davis, hooks tornò sul tema con uno sguardo ancora più radicale.

Il tema del libro, infatti, non è soltanto l’assenza di chi sta ai margini dal discorso, ma un’analisi più generale di come il femminismo si sia gradualmente allontanato dall’essere pratica della vita, per diventare uno status symbol o al peggio una parola come tante altre. bell hooks, richiamandosi all’analisi di Zillah Eisenstein, parla di un femminismo che ha adottato inconsciamente l’“ideologia competitiva e atomistica dell’individualismo liberale”, che riproduce gli interessi di classe della borghesia che da sempre si è imposta al centro del movimento. Questi interessi si riflettono nella definizione di femminismo come semplice “parità di diritti”. Parità con chi?, chiede hooks. Una donna bianca della classe media scambierebbe il suo posto con un uomo nero? Vorrebbe essere considerata una sua pari?

Il femminismo raramente si è posto questa domanda, arenandosi su concetti come “parità” o, ancora peggio, “uguaglianza”, o al contrario forzando una situazione comune a tutte le donne, per altro segnata dalla sofferenza e dalla minaccia della violenza sessuale. Nel 1984, anno in cui uscì Feminist Theory, la concezione di femminismo come parità stava diventando egemonica persino nelle tradizioni della differenza sessuale. Si era alla conclusione del “decennio delle donne” proclamato dall’Onu e inaugurato con la Conferenza mondiale delle donne di Città del Messico nel 1975.  In queste conferenze, le rappresentanti politiche di tutto il mondo (e le varie first ladies) si riunivano per discutere i problemi delle donne e creare una strategia di sviluppo per quello che era considerato il “terzo mondo”. Se queste conferenze hanno avuto un ruolo fondamentale nell’implementazione delle politiche di genere a livello globale, per certi versi hanno contribuito anche all’istituzionalizzazione del femminismo e alla sua trasformazione, specie in ottica umanitaria, da forza politica a forza morale. 

hooks aveva intuito la direzione in cui stava andando questo processo: la cooptazione da parte di chi detiene il potere, favorita da una certa cecità del movimento femminista nel riconoscere che esistono altre oppressioni oltre a quella sessuale e che gli uomini non sono i veri nemici del femminismo. Il femminismo non è più una forza che mette in discussione il potere, lo rigetta o lo utilizza per mettere fine al dominio, come il Black Power, ma una forza che vuole impossessarsi di quel potere per farne ciò che vuole. Per avere, in altri termini, pari diritti nell’esercizio del potere, compreso quello del dominio. 

Il percorso che hooks comincia ad abbozzare nelle pagine di Feminist Theory oggi è arrivato a una sorta di punto di non ritorno. Politici di ogni ideologia, da Pedro Sanchez a Marine Le Pen, si dichiarano femministi e, quelli che non lo fanno vengono resi tali, anche contro la loro volontà. Le aziende di qualsiasi settore fanno i salti mortali per proporsi come parte di un movimento che dovrebbe essere fatto dalle persone e non dalle società per azioni. Sarebbe troppo facile addossare tutta la colpa al femminismo, ipotizzare un suo tradimento o addirittura un suo fallimento. 

Il problema, piuttosto, sta in questa cooptazione che hooks cita più volte nel suo testo. Di cui il femminismo detiene una certa responsabilità, che la filosofa non nega: “I gruppi maschili dominanti sono stati in grado di cooptare le riforme femministe e renderle utili agli interessi del patriarcato suprematista bianco e capitalista perché le attiviste femministe hanno ingenuamente creduto che le donne erano in opposizione allo status quo, avevano un sistema di valori diverso da quello degli uomini e avrebbero esercitato il potere nell’interesse del movimento femminista. Questo assunto le ha portate a prestare poca attenzione nel creare sistemi di valori alternativi che includessero nuovi concetti di potere”. Oggi che il femminismo è tornato al centro del dibattito politico, con un’adesione senza precedenti a livello globale, è necessario che produca un nuovo discorso sul potere. Non più in termini di empowerment o del superamento individuale della paura nei suoi confronti, ma provando a immaginarsi qualcosa di radicalmente diverso. 

ARTICOLO n. 89 / 2022

SENZA AMORE NON CI PUÒ ESSERE COMUNITÀ

Speciale bell hooks

Sarebbe ingeneroso e probabilmente falso dire che figure come quella di bell hooks non esistono più. Ma la percezione che il 15 dicembre del 2021 il mondo abbia perso una delle sue intellettuali più luminose è piuttosto fondata. In poche righe del suo Insegnare a trasgredire si trovano le prove a sostegno di questa affermazione: «Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me è nel mio intimo. Più di ogni altra cosa, desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione».

In queste righe hooks non vuole fare un elogio della sofferenza, ma perorare la causa di una teoria diversa, una teoria che serve a «immaginare futuri possibili, dove la vita [può] essere vissuta in modo diverso». L’autrice ha tradotto questo radicamento nell’esperienza non soltanto elaborando una teoria debitrice della vita, ma anche particolarmente democratica. La sua attenzione per il quotidiano, per i rapporti umani, per i fatti concreti dell’esistenza postula che tutti possono fare filosofia e che anzi, forse sono proprio quelli che si trovano ai margini a elaborare le proposte più originali. Non serve essere colti o intellettuali per partecipare a questa produzione filosofica e, allo stesso tempo, la cultura deve essere accessibile a tutti.

Nel suo Il femminismo è per tutti, hooks scrive che anche se non sembra, «tutto ciò che facciamo nella vita si fonda sulla teoria. Che esploriamo consapevolmente le ragioni che ci portano ad avere un determinato punto di vista o a compiere un determinato gesto, o meno, c’è sempre un sistema soggiacente che plasma pensiero e pratica». L’autrice sta spiegando le origini della coscienza critica femminista, illustrando come il movimento sia riuscito a elaborare una teoria complessa e articolata non basandosi, ma addirittura rifiutando, l’eredità dei pensatori del passato e ancorandosi in quelle zone dell’esistenza che sono sempre state considerate irrilevanti.  

Nella produzione di bell hooks, questo ha significato scandagliare il proprio vissuto. È proprio nelle sue pagine più personali, dove mette a nudo se stessa e la sua vita, che la prosa di hooks si eleva. Tutto sull’amore, un libro intimo e al contempo profondamente politico, è il perfetto esempio dell’unione strettissima tra prassi e teoria e della grande accessibilità del pensiero dell’autrice. Uscito nel 2000, Tutto sull’amore potrebbe essere facilmente scambiato per uno dei numerosi libri di self-help sentimentale che tanto andavano di moda in quegli anni. hooks ne cita diversi, da Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (1992) di John Gray a The Road Less Traveled (1978) di Morgan Scott Peck, tradotto in italiano con il titolo di Voglia di bene. La popolarità di questi libri, secondo l’autrice, è il sintomo della mancanza di un discorso politico sull’amore.  

Ho incontrato la concezione politica dell’amore di hooks grazie a un testo contenuto nell’antologia Outlaw Culture: Resisting Representations, intitolato L’amore come pratica di libertà. Qui, partendo proprio dal libro di Scott Peck, hooks comincia a delineare l’interdipendenza tra la dimensione privata dell’amore e quella pubblica, esemplificata nella figura di Martin Luther King. King ha fondato la sua pratica politica nell’amore, o meglio, ha fatto una vera e propria dichiarazione d’amore. Di fronte all’odio, alla violenza e all’oppressione, King «ha deciso di amare», fornendo al razzismo e al colonialismo una risposta del tutto inaspettata. È questa qualità decisionale della politica dell’amore di King, che per usare una espressione femminista potremmo definire come un «io che dice io», che rende la sua prassi di liberazione qualcosa di completamente nuovo. 

Intorno a lei, hooks osserva una cultura del disamore, che disprezza l’amore o lo mercifica, schiacciandolo tutto sulla dimensione dell’io. Non è una semplice questione di egoismo. L’io diventa il perno intorno a cui concettualizziamo lo stare insieme, mettendo al primo posto i nostri bisogni anziché quelli altrui, ma anche attribuendo solo a noi stessi il fallimento delle nostre relazioni. Al contrario, nell’esperienza amorosa esiste un riconoscimento, un «interessere» dirà hooks, che è anzitutto un riconoscimento politico. La dimensione politica entra nell’amore perché ha il potenziale di riprodurre o di mettere in discussione le gerarchie del potere, perché la famiglia continua a essere l’impianto su cui viene costruita la società, perché chi sta ai margini ha meno possibilità di amare, ma soprattutto perché manca la consapevolezza dell’amore, quella che fece dire a King «ho deciso di amare».

Per hooks, «possiamo risvegliarci all’amore solo se abbandoniamo la nostra ossessione per il potere e il dominio», ovvero se smettiamo di avere paura. Molte delle nostre convinzioni sull’amore si radicano infatti sulla paura, in primis quella del diverso. La paura diventa il catalizzatore dell’oppressione, perché ci impedisce di riconoscere quell’interessere che è invece fondamentale nell’etica dell’amore. Questo non significa specchiarsi in chi è uguale a noi, trovare – per usare un’espressione del gergo romantico – «la nostra anima gemella», ma al contrario apprezzare la differenza. Un processo che Luce Irigaray traduceva in un «amare a qualcuno», dove quell’a significava la rinuncia al possesso.

La presenza della politica nell’amore non è solo negativa, è un dato di fatto: senza amore non ci può essere comunità e senza comunità non si può sconfiggere la paura che attanaglia i nostri rapporti con l’altro. Per hooks un amore che si fonda su queste premesse è un amore produttivo, ma non in senso capitalista. È un amore che genera, che crea, che spariglia. Attraverso l’incontro con l’altro e con il mutuo riconoscimento delle differenze, attraverso l’accettazione paziente della dimensione politica dell’amore, si creano energie nuove. 

Quando hooks parla di un femminismo per tutti o di una teoria democratica, si riferisce proprio a questo processo generativo, che non prevede alcun requisito identitario o culturale, ma solo la disposizione a mettersi in discussione, a decostruirsi. È nella convinzione che tutti siano in grado di produrre pensiero critico che risiede la forza della filosofia di bell hooks. Molti altri autori e autrici hanno propugnato una filosofia accessibile o di massa, ma lo hanno comunque fatto assumendo una posizione di guida, se non a volte di vero e proprio dominio culturale. hooks non è la saggia filosofa che ci illustra il cammino da intraprendere, men che meno la studiosa che mette a disposizione le sue ricerche con un linguaggio semplificato. È piuttosto una compagna di viaggio che crede davvero che la teoria fiorisca nelle pieghe della nostra esistenza, nelle cose che ci accadono e nei nostri desideri, «per renderci liberi di essere ciò che siamo, liberi di vivere una vita in cui sia possibile praticare l’amore per la giustizia, in cui sia possibile vivere in pace».

ARTICOLO n. 40 / 2021

LEGGERE È UN GESTO POLITICO?

C’è un piacere segreto che deriva dal leggere i diari degli scrittori. Non è quello intrusivo di chi scava nel dolore degli altri. È piuttosto quello della coincidenza, della sincronicità, del potersi rispecchiare non tanto nelle vite di chi scrive, quanto nelle sue letture. Questo senso di meraviglia per me ha raggiunto un picco nei diari di Susan Sontag che vanno dal 1947 al 1963, raccolti nel volume Rinata. In quasi ogni pagina, dai 13 ai 30 anni, Sontag registra soprattutto le sue letture e il rapporto con gli autori. Scoprire di aver letto o di stare leggendo, proprio ora, lo stesso libro che in un certo momento ha letto anche Susan Sontag è una gioia indescrivibile. I suoi diari sono anche pieni di liste: libri da comprare, libri letti, libri da leggere. Anche io, scrivendo Il capitale amoroso, sono partita da una lista. Le liste di libri sono uno strumento imprescindibile per lo scrittore, a patto di non seguirle per davvero. Si comincia con il primo volume, che rivelerà una verità inaspettata, che a sua volta richiede una lettura inaspettata. Così ho scritto questo libro, ma soprattutto così mi sono sempre rapportata con le cosiddette letture di impegno: dall’una dipendono tutte le altre.

In Italia, il dibattito su letteratura e impegno sta conoscendo una nuova fioritura, testimoniata anche dall’uscita del dibattuto libro di Walter Siti Contro l’impegno, che mette in discussione l’uso del bene in letteratura a partire dalla critica di alcuni autori impegnati, come Roberto Saviano e Michela Murgia. In un momento di transizione (e polarizzazione) come quello che sta vivendo la società italiana, con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti, è normale e necessario che gli scrittori prendano posizione riflettendo sulla propria funzione. Ma ben poca attenzione si rivolge al di fuori del perimetro della finzione: che ne è di tutti quegli autori e delle autrici che hanno come unico fine, dichiarato e inequivocabile, quello dell’impegno? Se qualcuno percepisce come un problema il fatto che non esista più una letteratura nuda, capace di esistere senza alcun secondo fine, allora bisogna riconoscere anche l’assenza della sua controparte, una saggistica militante che sceglie da che parte stare.

Oggi le letture che faceva Susan Sontag a vent’anni non sono affatto comuni (ma non ho dubbi che lo stesso valesse anche in passato) e il piacere della sincronicità si è fatto più raro. Le motivazioni di questo fenomeno sono tante e complesse: la più immediata è che è venuta meno la necessità di maturare una coscienza politica. La mia generazione è cresciuta nella convinzione di avere a portata di mano tutti gli strumenti necessari per affrontare il mondo, missione tutto sommato facile se si è ben organizzati e volenterosi. Nonostante le continue evidenze di questa fallacia, siamo portati a credere che il nostro destino, di esseri umani e di società, dipenda esclusivamente dalla responsabilità individuale. In questa prospettiva di progettualità, dove all’apparenza non esistono ostacoli se non quelli che ci auto-imponiamo, è chiaro che maturare una coscienza politica non serva a granché.

Le occasioni di confronto e di dibattito politico a partire dai testi sono poi diventate sempre più rare, persino in ambito accademico, dove il ritmo delle lezioni è talmente serrato da non lasciare alcuno spazio per questioni che esulino dal programma d’esame. Tralasciando l’ormai proverbiale «corso sul marxismo» promosso dagli inarrendevoli militanti fuori dalle facoltà umanistiche, non riesco a ricordare un solo momento in cui mi sia stata proposta una lettura impegnata al di fuori della bibliografia d’esame all’università. Può darsi che sia stata sfortunata io, ma non ho motivo di dubitare che questa versione possa essere confermata dalla maggior parte delle persone che hanno frequentato l’università negli ultimi anni.

L’assenza di questi momenti di confronto pesa anche al di fuori dell’ambito accademico. Gli unici luoghi che mi vengono in mente che sono adibiti a un ruolo simile sono i club del libro, che sempre più di frequente scelgono di analizzare la saggistica, e gli spazi militanti, soprattutto femministi, dove l’analisi dei testi teorici ha un ruolo imprescindibile per l’attivismo politico. A questo proposito, non posso che ripensare alla mia storia di coscienza politica femminista, che di fatto è coincisa con la lettura d’impegno. Il mio primo incontro con il femminismo non è stato con qualche femminista o con qualche circolo, ma con i libri. E ho cominciato proprio dal libro più difficile, non per pretenziosità, ma perché era il primo della lista, di ogni lista: Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Mi ero consapevolmente imbarcata nella più impegnativa delle letture femministe perché sentivo che senza la direzione che de Beauvoir poteva indicarmi da sola non ce l’avrei mai fatta. E infatti ancora oggi quel libro faticosissimo per me rappresenta l’unico punto di partenza possibile.

Il rapporto particolare tra il femminismo, l’impegno politico e le letture d’impegno si riflette in ciò che il femminismo, di fatto, è: una teoria che è anche prassi, e viceversa. La teoria femminista è parte integrante dell’essere femministe e, allo stesso tempo, è l’esperienza delle donne e dei soggetti marginalizzati che informa la teoria femminista. Le letture che il femminismo mi ha permesso di fare rispecchiano la concezione di letteratura impegnata che Elio Vittorini formulò sul primo numero del Politecnico: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenza, che le combatta e le elimini». Questo è possibile perché le sofferenze che hanno innescato l’elaborazione teorica delle donne – non solo personali, ma collettive, sistemiche – non sono mai state considerate come un torto da riparare o come una pena da alleviare, ma come un «tentativo di evadere dalla sfera loro finora assegnata», come scriveva Simone de Beauvoir. Ciò che non smetterà mai di stupirmi e affascinarmi della letteratura femminista è proprio questo senso di trascendenza: non è mai fine a se stessa, non è mai proiettata verso l’interno, non è mai solipsistica, pur partendo dalle questioni più intime e marginali della vita delle donne.

Forse è proprio questa tensione verso l’esterno a rendere le letture di impegno così inattuali in un momento in cui la saggistica mainstream consiste quasi del tutto in libri di self help e manuali di crescita personale. I libri sui temi sociali non mancano, ma spesso finiscono col ricadere nella trappola del sé, costruendo un rapporto verticale tra autore e lettore che non ammette spazi di condivisione. I conflitti politici, dalle questioni di genere a quelle razziali, vengono letti solo nell’ottica dell’autorealizzazione: cosa posso fare per essere meno razzista? Quali comportamenti adottare per essere meno sessista? Interrogativi legittimi, ma dalla prospettiva molto limitata. In fondo, è letteratura che consola nelle sofferenze: prendo coscienza di un problema (ed è già qualcosa) che nuoce agli altri ma soprattutto a me, che mi rendo conto così di essere una cattiva persona, e provo a rimediare nell’orizzonte del privato. A volte, anche solo leggere un determinato libro che parte da queste premesse, ci sembra un atto politico eccezionale.

Molti libri femministi muovono da questa prospettiva, ma hanno anche la capacità di oltrepassarla criticamente. Un ottimo esempio è Tutto sull’amore di bell hooks, uno dei libri che più mi sono stati utili nella stesura de Il capitale amoroso. bell hooks è un’autrice prolifica che ha scritto più di trenta libri su femminismo, razza, classe, marginalità, pedagogia. In tutti vi è un punto di partenza imprescindibile: bell hooks parla sempre di sé, della sua famiglia, del suo matrimonio, della sua educazione, delle sue condizioni economiche. Ma lo fa per instradare la lettrice verso un discorso molto più vasto, dove il personale è solo un pretesto e mai un punto di arrivo. Nei suoi libri, hooks usa il suo piccolo vissuto per parlare dei problemi più grandi che ci siano. Tutto sull’amore a prima vista sembra un libro di self help, a maggior ragione perché tratta dell’argomento che in quelle pubblicazioni va per la maggiore, ma finisce con l’essere tutt’altro, un libro militante che rivendica la centralità dell’amore come azione e come pratica quotidiana di resistenza.

Scrivendo Il capitale amoroso, hooks mi ha ispirata non solo nei contenuti, ma forse ancora di più nella postura. Mi ha mostrato, pur senza mai dirlo esplicitamente, come rompere il meccanismo della singolarità, confutando l’idea che il mondo inizia e finisca con la propria esperienza e l’ha fatto proprio a partire dalla sua. Se la letteratura contemporanea, e la non fiction in particolare, non riesce più nell’intento di incidere sulla collettività e di orientare il cambiamento, è perché spesso manca di questa visione necessaria per uscire dall’impasse dell’antipolitica. Già solo il risvegliare una presa di coscienza, non nell’ottica della crescita personale ma della politica nel senso più ampio, è il miglior intento che un pamphlet, un manifesto, un saggio possa darsi al giorno d’oggi. 

Scriveva Susan Sontag il 20 settembre 1963, in una delle ultime annotazioni di Rinata: «Leggere per me è fare incetta, accumulare, immagazzinare per il futuro, riempire il vuoto del presente. Fare sesso e mangiare sono attività completamente diverse – piaceri in sé, per il presente – che non sono al servizio né del passato né del futuro. A loro non chiedo niente, neppure un ricordo».