Giorgio Fontana

ARTICOLO n. 34 / 2024

CORPI CHE FATICANO

1. Pochi giorni prima di morire — prima di essere deportato dal ghetto di Varsavia verso Treblinka assieme agli orfani che accudiva, rifiutandosi di abbandonarli e anzi premurandosi di vestirli con gli abiti migliori, radunarli in fila e tranquillizzarli come poteva — pochi giorni prima di tutto questo il medico ed educatore Janusz Korczak evocò nel Diario del ghetto un tema per lui molto importante, «una cosa che combatto senza speranze di vittoria, senza una visibile efficacia, ma non voglio né posso sospendere questa lotta». Ovvero:

Combatto affinché nella Casa degli Orfani non ci siano lavori fini e lavori rozzi, intelligenti e stupidi, puliti e sporchi: lavori per signorine di buona famiglia e lavori per la plebaglia. Non ci dovrebbero essere nella Casa degli Orfani addetti esclusivamente al lavoro fisico e addetti esclusivamente al lavoro intellettuale.

Certo l’idea non era affatto nuova: ma colpisce l’insistenza di Korczak in ore così gravi. È il fato che si riserva alle questioni veramente cruciali, il nocciolo di un intero progetto pedagogico e politico.

2. Sul punto mi pare esistano due semplificazioni contrapposte. La prima ritiene che qualsiasi lavoro manuale sia svilente in quanto tale — come se il compimento dell’essere umano fosse una faccenda di mero pensiero. Non è così, e non serve andare molto lontano per comprenderlo: la soddisfazione del fabbro per una ringhiera fatta a regola d’arte o dell’elettricista che risolve — usando ingegno e abilità tecnica, mani e cervello — un difficile problema di impianto. E, perché no, la tranquilla stanchezza dell’operaio che non baratterebbe il suo mestiere con lo studio. Una volta, in provincia, un amico metalmeccanico mi disse proprio così: “Tutto il giorno seduto davanti ai libri da solo, ma non ti rompi i coglioni?”.

La seconda semplificazione è un elogio della manualità in quanto tale fatta da chi non ha mai dovuto svegliarsi alle quattro per caricare carrelli o posare piastrelle dall’altra parte della regione, o anche solo sudare — non metaforicamente — con una cassetta da dodici kg di attrezzi in mano, avanti e indietro per la città. Dunque non merita ulteriori commenti.

Sgombrato il campo da tali equivoci resta quanto distrugge realmente l’essere umano, lo sfruttamento: che nel caso del lavoro manuale è sfruttamento del corpo, con tutto ciò che ne deriva. Ma che cosa, nel dettaglio?

3. Innanzitutto uno sfinimento che il lavoratore intellettuale non può conoscere, e rende subito indegno il paragone fra i due. È la percezione di avere prosciugato ogni energia, di essere ridotto a un guscio e non avere nemmeno più spazio per il desiderio: la privazione di sé come soggetto libero. Tutto ciò spazza via d’un colpo la retorica sul tempo libero da usare per migliorarsi, costruirsi alternative, consumare cultura. Lodevoli propositi, certo, ma che non devono navigare nel vuoto: dopo un turno estenuante di pulizie, un’ora per tornare a casa e un bambino cui badare è molto più comprensibile desiderare di spegnersi.

Lo sfruttamento del lavoro manuale è un’offesa perenne al corpo che soffre e si espone a rischi quotidiani, dagli infortuni alle malattie professionali fino alle morti — morti che gridano vendetta, uno dei maggiori rimossi del Paese. Con l’ovvia aggiunta che l’anima, o come preferite chiamarla, resta altrettanto ferita: ansia, depressione, apatia, sviluppo di dipendenze: con il sovrappiù di difficoltà nel trattare queste patologie quando, appunto, tempo e soldi e conoscenze sono ridotti al minimo.

4. Negli ultimi decenni, dove la centralità della fabbrica è andata sparendo sostituita da una frammentazione del lavoro e dall’irregolarità diffusa, c’è stato come un occultamento progressivo dell’esperienza dei corpi che faticano, specie quando faticano oltremodo. Uso quest’espressione un po’ goffa per comodità, ma mi pare corretta: qui si tratta innanzitutto di fatica fisica, prolungata oltremisura e frutto di dinamiche di asservimento.

Bisogna invece accostarsi a tale vissuto con partecipazione e umiltà. Concentrarsi su tutta una serie di gesti — cucire, lavare, spingere carrelli, imboccare, grattare superfici, dissodare terra, identificare e spostare colli, lavare stoviglie, vendemmiare, cogliere fragole, conciare pelli, stare in piedi a fare la guardia, cambiare pannoloni, trasportare suini, uccidere suini, alzare muri, guidare muletti, spostare altri corpi, vendere il proprio corpo, rimuovere e smaltire amianto, estrarre ghiaia, spazzare foglie, riparare scarichi, sgomberare appartamenti, svuotare cassonetti, condurre camion, stendere asfalti, consegnare pacchi — senza alcun riconoscimento, alla periferia del paesaggio narrativo, in cambio di un compenso mortificante.

La recente inchiesta sull’utilizzo, da parte di Giorgio Armani Operations, di opifici cinesi dove il lavoro era organizzato su turni massacranti con paghe anche di 2-3 euro all’ora ha creato un certo scalpore per l’associazione lusso/sfruttamento; ma non è certo un caso isolato, anzi. Qualunque filiera produttiva è percorsa da questa feroce normalizzazione del dolore. Il lavoro così non educa, non dà occasioni, non è più affare di emancipazione se mai lo è stato; Dal Lago e Quadrelli lo dicevano con chiarezza ne La città e le ombre:

Oggi, l’impiego di forza lavoro servile o semiservile, reclutata tra gli stranieri e marginalmente tra le fasce giovanili locali più deboli, non è contraddizione con la terziarizzazione avanzata, l’economia immateriale o in rete. Anzi, ne è un necessario complemento o meglio un alimento indispensabile. La vita quotidiana delle famiglie di rispettabili professionisti può celare l’attività invisibile, per tutto l’arco del giorno, di giovani donne straniere. Di notte o all’alba, quando i telefoni e i computer di banche, società finanziare o di consulenza hanno smesso di ronzare, un piccolo popolo di ombre, reclutate spesso nei modi descritti sopra, rimuove i cascami materiali del mondo immateriale. […] Il lavoro, che sembrava essere entrato nella sfera dei diritti di cittadinanza, retrocede (per ciò che riguarda almeno una sua componente) in una dimensione pregiuridica, a cui si addicono più le descrizioni hobbesiane della società di natura, dominata dalla sopraffazione, che quelle hegeliane della società civile.

La vulnerabilità e la ricattabilità, con il loro corollario di dolore fisico e mentale, non sono insomma aberrazioni, bensì condizioni necessarie per il funzionamento di questo sistema economico.

5. Per fortuna non mancano racconti in prima persona o indagini di valore sui corpi che faticano: penso nel primo caso a vari testi del catalogo di Alegre e nel secondo a Noi schiavisti di Valentina Furlanetto o Le nostre braccia di Andrea Staid. Nel dettaglio, ciò che ha colpito Staid — e continua a colpire anche me — non è la diffusione della microcriminalità tra le fasce subalterne della popolazione, bensì il fatto che ve ne sia così poca. Andrea commentava così, già dieci anni fa:

Quando ti ritrovi distrutto da un viaggio che ha violentemente cambiato la tua esistenza, internato in un moderno lager, senza nessun tipo di diritti o quando ti ritrovi a lavorare segregato in una fabbrica illegale o sotto il sole cocente di un campo di pomodori del sud Italia per un salario da fame e il rischio di finire in carcere è lo stesso sia che decidi di delinquere, guadagnare più soldi e con meno fatica, che se decidi di lavorare schiavizzato per un salario da fame, ecco a questo punto la cosa più razionale sembra essere quella di scegliere di delinquere. Questo significa che se applicassimo la teoria dell’homo economicus al migrante posto davanti al ristretto orizzonte della scelta tra le possibilità che gli vengono offerte, dato un calcolo basato su costi e benefici, il migrante irregolare dovrebbe essere razionalmente portato a delinquere, ciò che lo frena sono i riferimenti morali, normativi e religiosi.

Dopo questi anni di ricerca non mi stupisce più chi esce dallo stretto confine della legalità, anzi mi stupiscono molto di più tutti quei migranti (la maggior parte) che decidono di lavorare onestamente.

E ci vuole una bella dose di ideologia, o una minuscola esperienza della vita, per non comprendere quanto simili circostanze materiali siano cosa ben diversa dalle condizioni formali cui ci si appella quando si parla di lavoro. In Anche i ricchi rubano la magistrata Elisa Pazé, discutendo lo squilibrio normativo per i cosiddetti reati dei colletti bianchi — la facilità con cui i colpevoli possono ottenere ampi sconti di pena per illeciti tributari o ambientali — scrive:

Per il delitto di caporalato la pena della reclusione è fissata nel massimo a sei anni e nel minimo a un anno, a meno che non vi sia stata violenza o minaccia, nel qual caso il minimo è di cinque anni. Ma non c’è bisogno di usare violenza o minaccia nei confronti di persone disperate, disposte a sottostare a qualunque condizione pur di lavorare; e quindi chi viene incriminato per avere sfruttato gli immigrati ha buone possibilità di cavarsela senza andare in cella.

6. E così l’atteggiamento più diffuso verso i corpi che faticano resta una narrazione paternalistica, gonfia di stereotipi e priva di pudore. Anche quando i corpi vengono mostrati, talora con voyeuristica insistenza e senza contesto, come in certe inchieste televisive, le singole persone con le loro singole storie e aspirazioni vengono ridotte a oggetti narrativi. Alla persona viene sottratta persino la dignità basilare del decidere quando e come mostrarsi.

Un altro automatismo eguale e contrario è insistere soltanto sul linguaggio. Le parole sono tutto ciò che abbiamo, ho sentito spesso dire da colleghi in ottima fede, con un tono tristemente accorato: e dunque vanno difese per prime. Comprendo il punto in astratto, ma così rischiamo di cadere in una vertigine nominalistica. Proprio perché conosco l’importanza della lingua e ne verifico ogni giorno i capricci e le resistenze — quant’è difficile esprimersi in modo chiaro, quant’è difficile governare le parole — ecco: proprio per questo mi sembra una protervia lasciare in secondo piano il mondo delle cose. Gli abracadabra non cancellano i rapporti di subordinazione fondati su una violenza che non ha niente di metaforico: botte, stupri, paghe negate, pance vuote, insulti, minacce, omicidi (il che ovviamente non significa che le parole non siano importanti, sia chiaro).

Camus ne Il pane e la libertà accusava il tradimento «degli intellettuali borghesi che accettano che i loro privilegi siano pagati con l’asservimento dei lavoratori. Costoro dichiarano spesso di difendere la libertà, ma difendono in primo luogo i privilegi che la libertà dà loro, e solo a loro». Era il 1953: in tal senso non è cambiato molto.

7. Torniamo così alla ingombrante, fastidiosa, realissima presenza dei corpi. «Combatto affinché nella Casa degli Orfani non ci siano lavori fini e lavori rozzi, intelligenti e stupidi, puliti e sporchi». Come realizzare il sogno di Korczak? Ci guardiamo attorno e sembra tutto andare in direzione opposta — incluso questo articolo, naturalmente, scritto a una comoda scrivania, esempio manifesto della divisione del lavoro.

Bene, per quanto mi riguarda ho trovato delle alternative reali e non soltanto vagheggiate nelle esperienze che vanno dai centri sociali all’associazionismo di base. Dove persone di ogni tipo si sono messe in gioco perché avvertivano non solo una responsabilità verso chi stava peggio, o il proprio quartiere, o un edificio abbandonato di cui occuparsi: intuivano anche che per nuovi fini occorrono nuovi mezzi; e tra questi il rifiuto di separare la redazione di un articolo dal tirare un cavo, la presa pubblica di parola dall’allestire un palco. In entrambi i casi si tratta di lavori diretti a uno scopo comune, con rotazioni stabilite, senza implicare sfruttamento. Eguale dignità ed eguale umiltà per ogni gesto.

Certo: come sa chiunque abbia a cuore queste esperienze ma coltivi un po’ di solido realismo, non basta. È salutare, è consigliabile — altro che alternanza scuola/lavoro — ma una volta chiusa la porta si ritorna a comprare cose fabbricate da corpi che faticano. Se non vogliamo che questo patrimonio si riduca a un gioco di difesa perenne tocca dunque allargare lo sguardo e unirlo ad altre lotte, anche più istituzionali, che si pongono il medesimo obiettivo. O quantomeno, desiderano combattere l’enorme quantità di dolore che lo sfruttamento universale infligge.

ARTICOLO n. 9 / 2024

DIALOGO TRA UN QUASI-VEGANO E UN NON SO

Un progetto di liberazione

A — Quindi sei passato al veganesimo.

B — Non precisamente: sono vegetariano da anni, ma da qualche mese sono quasi vegano.

A — Quasi?

B — Provo a spiegarmi. Innanzitutto essere vegani al 100% è quasi impossibile: lo sfruttamento animale è così pervasivo da rendere difficile scovarne ogni traccia in ciò che consumiamo.

A — Questo argomento però vale per chiunque.

B — Certo, infatti non giustifica. Per quanto mi concerne continuo a indossare maglioni di lana (ma non ne compro di nuovi), bevo vino anche non vegano, o mangio le uova di un’amica di mia suocera le cui due galline conducono un’esistenza serena. Infine resto aperto sulla questione dei bivalvi allevati, anche se non mi capita quasi mai di mangiarli. Definirmi vegano senza queste precisazioni sarebbe ipocrita; ma non mi sento nemmeno un vegetariano tout court — non mangio più latticini e sto andando in un’altra direzione.

A — Insomma non è una rivoluzione, è una riforma.

B — Se vuoi. Ma il principio di base resta ridurre il più possibile qualsiasi forma di dolore animale, cominciando dall’alimentazione. A mio avviso ragionare in termini più gradualistici (senza che ciò diventi una scusa per indulgere in eccezioni che tornano a essere regola) non cambia in modo irreparabile la sostanza — posto che si continui a tenere d’occhio l’obiettivo e migliorare. È un po’ come dire che fra chi fuma una sigaretta a Capodanno e chi si fa due pacchetti al giorno non c’è alcuna differenza, sono entrambi fumatori.

A — Ti si potrebbe obiettare che un’etica con queste “mani avanti” sulle incoerenze non è una buona etica.

B — O forse la giubilante caccia alla minima incoerenza altrui è uno degli automatismi peggiori di questa società: tu puoi trovare macchie nel mio stile di vita, e ci mancherebbe altro, ma se lo fai mentre ti sbafi una fiorentina non sei molto credibile. Eppure c’è questa sete di assolutismo unita a un atteggiamento da tribunale permanente che va ben oltre la critica. Sono sempre le etiche altrui a dover essere scevre di compromesso, sempre gli altri a dover essere modelli di coerenza morale; forse serve per tranquillizzarsi la coscienza, non so.

A — E se l’obiezione venisse da un vegano rigoroso?

B — Ti direbbe che io non sono vegano, e avrebbe assolutamente ragione: da cui il “quasi”, che spero non risulti un gioco di parole o l’ennesima etichetta inutile. Sarei lieto di discuterne; ma sto discutendo con te. Che sei onnivoro.

A — Avanti, allora: argomenta la tua scelta.

B — Il primo motivo è il grande rimosso del dolore animale. In estrema sintesi, non trovo giustificazioni per far soffrire e uccidere maiali polli e mucche visto che esistono alternative efficaci sia per l’alimentazione sia per il vestiario. La domanda di partenza resta quella di Bentham: “Il problema degli animali non è, possono ragionare? né, possono parlare? ma, possono soffrire?” Quelli di cui ci nutriamo per la maggior parte possono soffrire di certo. E l’allevamento industriale è una sequela di orrori: ti risparmio video e reportage, ormai si trovano ovunque; se vuoi puoi cominciare dal classico Liberazione animale di Singer o da Se niente importa di Foer.

A — Però qui c’è un po’ di antropomorfismo, non trovi? Gli animali non sanno di dover morire, non hanno le nostre aspirazioni e la nostra idea di futuro.

B — Di sicuro quegli animali intuiscono il pericolo e, come detto, possono indubbiamente soffrire: è una questione di sistema nervoso centrale, non del modo in cui valutiamo la loro capacità intellettiva — un tema senz’altro importantissimo, ma che viene dopo l’applicazione del rispetto morale. Il fatto che un pesce non urli non implica che farlo crepare soffocato sia per lui indifferente. Lo stesso vale per costringere maiali in una gabbia, limitare il loro movimento, e più in generale farli nascere per destinare loro una vita di sofferenze con una condanna a morte già scritta. Può sembrare riduzionismo, ma senza questa premessa non si va molto lontano. Non voglio antropomorfizzare loro — voglio animalizzare noi.

A — E se mi nutrissi solo di carni provenienti da allevamenti sostenibili?

B — Sarebbe già meglio, ma dovremmo intenderci sulla presunta “sostenibilità” con dati concreti e fuori da ogni etichetta di marketing. Inoltre anche in questi casi il dolore non manca. Puoi tenere le tue mucche in libertà e non in orribili celle, ma se vuoi latte e formaggio dovranno essere fecondate e ti toccherà separarle dai figli — un evento straziante, come per ogni madre (stavolta non ti risparmio un video che non ho risparmiato a me, quando mangiavo ancora Parmigiano, ma mi voltavo dall’altra parte). Infine dovrai comunque uccidere gli animali di cui ti nutri: la macellazione non è mai stata un affare indolore, e gestirla su scala planetaria — un massacro di quasi cento miliardi di individui, di cui diciotto miliardi sprecati — moltiplica inevitabilmente la sofferenza. Il che ci porta a un altro punto: nutrire la Terra con allevamenti “sostenibili”, qualsiasi cosa significhi, è impossibile. Allora perché non smettere? O almeno, perché non porsi radicalmente il problema?

A — E i bambini, li fai crescere vegani? E la sperimentazione animale? E…

B — Aspetta. Tutti questi sono temi scottanti di bioetica: possiamo e dobbiamo parlarne, ma almeno cerchiamo di raggiungere un accordo di base — il modo in cui consumiamo gli animali, e l’effetto che fa alla Terra.

A — Ecco, a proposito: non pensi che il veganesimo sia un privilegio dei paesi ricchi? Come deve comportarsi chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, se uno di quei pasti è a base di carne o pesce?

B — Ovviamente deve mangiare carne o pesce. Non mi sognerei mai di predicare regimi di vita all’orbe terracqueo senza distinzioni: però vorrei persuadere le persone che possono cambiare e non lo fanno. Inoltre ciò consentirebbe di alimentare meglio anche l’enorme fetta di persone denutrite: invece di coltivare campi per sfamare animali, li coltiviamo per sfamare noi.

A — Quindi non è una moda.

B — Ma no. Forse il vegano modaiolo — potremmo chiamarlo il vegano fighetto: e Milano, dove vivo, è un po’ il suo habitat naturale — il vegano fighetto, dunque, difficilmente si porrà la questione in termini davvero radicali; magari vedrà nel veganesimo una semplice dieta. Ma non è una dieta: è una pratica politica e un progetto di liberazione.

A — Tuttavia è anche una dieta. E l’idea di campare a tofu e insalata…

B — Figurati. A me piace mangiare bene. Del resto già parlare di “cibo vegano” è sviante, quasi fosse un regime triste che rimpiazza i nostri “buoni vecchi piatti tradizionali”: ma la pasta e fagioli, la polenta e funghi, la caponata, le zuppe di legumi, la vignarola, la panzanella, la farinata, i carciofi alla giudia, gli spaghetti al pomodoro — ecco: sono “cibo vegano”?

A — Ammetterai però che cucinare verdure richiede tempo, e non tutti ce l’hanno.

B — Richiede più tempo di sbattere una fetta di pollo in padella, sì. Ma ogni cambiamento significativo ha un costo, per quanto minimo: anche l’idea che si diventi vegani con uno schiocco di dita è parte della tendenza fighetta di cui parlavo.

A — Ma non ti mancano la carne o il pesce?

B — No.

A — E il formaggio?

B — Talvolta. Una mozzarella è sempre appetitosa, ma rinunciarvi non è un grosso sacrificio.

A — E le proteine e tutto il resto?

B — Bisogna fare attenzione all’equilibrio fra cereali, legumi, semi oleosi, frutta e così via; ma non è poi molto diverso da altri regimi alimentari. Ho fatto gli esami del sangue di recente ed era tutto in ordine — incluse le proteine totali e la famigerata vitamina B12.

A — Però la carne è importante.

B — In realtà non è mai stata centrale per la massa se non da metà Novecento in poi, quando la produzione è quadruplicata.

A— Ok, sui diritti degli animali ho capito l’argomento. Poi?

B — Un attimo: preferisco non parlare di “diritti”, che è un termine teoricamente piuttosto impegnativo, quanto di schietta libertà. Qui superiamo Bentham: oltre alla capacità degli animali di soffrire dobbiamo riconoscere loro la capacità di dirigere la propria vita, senza antropomorfizzarli da un lato o ridurli a meri schiavi dell’istinto dall’altro. Evitare di prenderli come nostra proprietà significa anche riconoscere davvero le loro esistenze infinitamente varie e complesse, abbandonando il concetto di una “animalità” generica. Pensiamo solo alla molteplicità sensoriale che le varie specie mettono in campo: ne parla molto bene Ed Yong nel suo affascinantissimo Un mondo immenso.

A — Torniamo al punto?

B — Sì, scusa: il riscaldamento globale. All’incirca il 15% delle nostre emissioni climatiche sono causate dall’allevamento, che occupa anche la maggioranza delle terre agricole; senza contare lo spreco di acqua e il processo di deforestazione che comporta.

A — Ci sono ben altre azioni urgenti da fare per combattere le emissioni, in primo luogo cambiare la produzione energetica e il modo in cui ci spostiamo.

B — Sono d’accordo, ma smettere di sfruttare gli animali è una delle più tattiche più immediate e non contraddice il resto. Posso impegnarmi per le energie rinnovabili anche mangiando lasagne di verdure, no?

A — Ti ricordo però che anche determinate colture sono dannose per l’ambiente — l’avocado per esempio consuma moltissima acqua — senza contare che frutta e verdura possono avere una notevole impronta carbonica a causa del trasporto. Infine certi prodotti vegani sono comunque molto processati.

B — Ma mica mangio avocado tutte le settimane. È ovvio che occorre buon senso, ma in generale simili argomentazioni odorano di cattiva fede: si punta l’indice contro l’impatto di questa o quella singola coltura, dimenticando i danni assai maggiori inflitti dall’allevamento (che, a quanto pare, aumenterà ancora).

A — Be’, è quasi ora di pranzo. Che mi dici se addento un toast al prosciutto?

B — E che ti devo dire? Buon appetito.

A — Non mi insulti?

B — Scherzi? Se selezionassi le persone in base a quel che mangiano dovrei smettere di parlare con quasi tutti i miei cari, e del resto io stesso sono stato felicemente onnivoro per la stragrande maggioranza della mia vita. Si mangia insieme da sempre: in famiglia, tra amici e tra colleghi: immaginare il singolo consumatore scisso da influenze esterne è troppo comodo — e una paradossale concessione al modello capitalistico. Ritengo però che alla lunga, ognuno a modo proprio, tali resistenze possano e debbano essere superate: insomma non ti insulto, ma non ti dico nemmeno che fai bene.

A — Non sei un estremista.

B — Se per “estremismo” intendi un atteggiamento poliziesco, no: oltre a trovarlo sgradevole in generale, credo nuoccia alla causa avvalorandone la caricatura più diffusa — il moralismo, il senso di superiorità. Si è più interessati a difendere la propria immagine invece di persuadere gli altri con le difficoltà che questo implica. Ciò detto, non mi metto a fare lezioni di militanza ad alcuno.

A — Forse lo sdegno è anche una reazione al pregiudizio nei propri confronti.

B — Può darsi. Già quando ero “solo” vegetariano c’era sempre qualcuno che alzava gli occhi al cielo o reagiva come se lo stessi implicitamente accusando; e so quanto sia complicato difendere certe scelte in ambienti diciamo conservatori — la propria famiglia innanzitutto.

A — Su questo tornerò. Comunque l’obiezione di fondo, la mia quantomeno, resta: con tutti i problemi che abbiamo, chi se ne frega delle bestie. La vita implica darsi delle priorità, e così la politica.

B — Certo, è la replica più diffusa e credo vada considerata seriamente, anche perché siamo tutti nati in una società onnivora fondata sull’antropocentrismo. Ma anche questo è un pensiero estremista, no? Giustificare a ogni costo il diritto a sfruttare animali.

A — Ma un certo grado di antropocentrismo è ineliminabile, altrimenti una vita suina varrebbe quanto una vita umana. E finché non sono stati risolti i problemi umani — dubito a breve — dedicarsi agli animali è un’offesa nei confronti del prossimo.

B — Non è un’argomentazione pericolosamente simile a “Finché non sono stati risolti i problemi degli italiani, dedicarsi ai migranti è un’offesa nei nostri confronti”?

A — No. In questo caso siamo tutti umani.

B — Ok. Però il veganesimo non mette affatto in secondo piano il nostro specifico dolore. Anzi: come abbiamo già visto implica un miglioramento del clima, un aumento di cibo per gli umani, e l’abbandono di certi lavori mortificanti e indegni (non è bello passare la giornata in mattatoio o stipare in un camion decine di animali terrorizzati). E certo non ostacola le lotte che hanno come fine un incremento di libertà sostanziale, dal femminismo alla redistribuzione delle ricchezze; anzi, queste forme di attivismo si legano spesso nella pratica dei movimenti. Il veganesimo è anche un’educazione all’eguaglianza, e apre alla ricchezza del mondo naturale senza le lenti rosa della civiltà carnista — che da un lato decanta tale mondo in un’oleografia di piccole fattorie e mucche sorridenti, e dall’altro lo sfrutta industrialmente senza pietà.

A — E se il mondo diventa vegano, gli allevatori che fanno? Del loro dolore non ti importa?

B — Il mondo non diventerà mai vegano così, di colpo, e del resto vale per ogni cambiamento su ampia scala. Si possono studiare strategie. Del resto anche un mondo senza combustibili fossili è quanto mai auspicabile, ma che ne sarà di tutte le persone che lavorano nel settore? È il ragionamento di chi vuole mantenere lo status quo per interesse: in realtà non gli importa affatto dei lavoratori.

A — E se uno decidesse di spendere tutte le sue energie per dedicarsi (e riprendo il tuo esempio) a soccorrere i migranti nel Mediterraneo?

B — Mettere in competizione le giuste lotte è cattiva polemica. Comunque: quante energie davvero richiede cambiare dieta? Tolti i nobilissimi casi, sempre citati come paravento, concordo con Singer: l’idea per cui gli umani vengono prima “è più spesso una scusa per non fare nulla né per gli animali umani, né per quelli non umani”.

A — Però, parliamoci chiaro — e con questo torno al tema dell’ambiente conservatore: se propinassi tutto ciò a uno dei tuoi ex-compagni delle medie, in provincia, la reazione sarebbe: “Ma secondo te non devo sentirmi libero di mangiare quel che mi pare? Dopo una giornata di lavoro? Ma che vuoi da me?” E tralascio le volgarità in aggiunta.

B — Sicuro.

A — Ecco. Davanti a questa risposta, che si fa? Che si dice al pranzo di Natale mentre gli altri affettano il salame, o in pizzeria con quelli della palestra, o in trattoria con i tuoi colleghi? Fuori dalle nicchie più o meno bendisposte, là dove discutere è più difficile ma davvero si può fare la differenza, quali sono le tattiche?

B — Eh.

A — Parlavi del vegano fighetto: e se lo fossi un pochino anche tu, non per fini ma per comodità? Se non fossi più abituato a mangiare fuori dalla tua bolla?

B — Guarda, è il muro contro cui si scontra ogni movimento radicale, e non ho risposte sagaci: occorre valutare caso per caso, avere pazienza, non assumere atteggiamenti sacerdotali. Realisticamente, già instillare il dubbio è un successo. L’alternativa è chiudersi in un ghetto e ripetersi “Ho ragione” allo specchio, senza incidere in alcun modo.

A — Speravo in qualcosa di più.

B — Mi spiace. Intanto spero di convincere te.

A — Un’altra cosa sulle diseguaglianze. Anche nella filiera di frutta e verdura ci sono terribili storture: pensa al caporalato nei campi di pomodori in Puglia. Il business dell’agricoltura non è meno colpevole di quello dell’allevamento, da questo punto di vista.

B — Non solo, il fenomeno è diffuso anche a nord: un report di Terra! parla dello sfruttamento in Lombardia nella produzione di meloni e insalate in busta (oltre che nella filiera dei suini). Ripeto: è un aspetto da tenere nella massima considerazione, ma non lede i principi-base.

A — Ma se a me gli animali non interessano proprio?

B — Nessuno ti chiede di pensare a loro tutto il tempo. Il veganesimo non è l’estensione del concetto di “carino” al regno animale, dalle pecore ai grilli: come ho detto, è un progetto di liberazione. L’aspetto emotivo è una molla fondamentale, ma senza razionalità ha il fiato corto: quasi tutti provano ripugnanza nel colpire un animale, quantomeno un vertebrato, eppure lasciano che altri — spesso persone senza scelta — lo facciano. Perciò diffido un po’ del vocabolario sentimentale: chi dice di amare tutte le bestie, come chi afferma di amare l’intera umanità, mi fa venire i brividi. L’amore è selettivo e capriccioso, e qui abbiamo bisogno d’altro: franco materialismo, azione diretta.

A — Ma secondo te perché è così difficile far passare il tema?

B — Perché non abbiamo un’educazione al riguardo. Ovvio: se portassimo bambini e genitori in gita al mattatoio le conseguenze sarebbero disastrose per il business. Tuttavia c’è anche un motivo più profondo. In un passo poco noto ma davvero sorprendente, Leibniz disse che non percepiamo l’ingiustizia di uccidere le bestie per mangiarle “perché non abbiamo timore che esse cospirano contro di noi”.

A — In pratica perché siamo più forti.

B — Sì. In Dalla predazione al dominio, Gianfranco Mormino commenta così la frase: «Ciò che condanna gli animali alla situazione presente è una dinamica del tutto simile a quella esercitata nei confronti di tutti i deboli, ossia di chi sappiamo non essere in grado di resistere e vendicarsi»; e quindi «intere categorie umane, non sufficientemente minacciose da rendere pericoloso il loro sfruttamento, subiscono una sorte simile a quella degli animali».

A — E vorresti cambiare tutto ciò cambiando la tua dieta?

B — Ma no. Nessuno da solo conta granché: ma la pratica individuale può diventare collettiva, e serve a vivere già ora in un futuro possibile.