ARTICOLO n. 58 / 2022

NON LO SO ANCORA, MA CONFIDO NEL LIETO FINE

Dove sarò questa estate?

Sono ormai otto anni che appena mi sveglio accendo il telefono e leggo i messaggi che mi sono arrivati dall’Italia mentre dormivo. In genere mi viene subito voglia di rispondere, ancora prima del caffè, come se il fuso orario della East Coast americana mi trasmettesse un automatico senso di colpa per il ritardo; per chi è di là dall’Atlantico, io arrivo sempre e solo nel pomeriggio.

Quando al mattino di qualche settimana fa, ancora con la testa sul cuscino, ho letto la proposta di scrivere questo pezzo mi è quasi venuto da ridere. Ho pensato a uno scherzo. Il contributo doveva rispondere alla domanda Dove sarò questa estate? Esattamente la questione senza risposta con cui avevo passato buona parte delle ore della notte che avrei voluto destinare al sonno. Il fatto di sapere con certezza solo che ad agosto non sarei più stata in questa casa, non più in questo paese, non più in questo continente, non era bastato come prospettiva rassicurante per potermi addormentare in pace. Meno che mai sapere che il letto in cui mi stavo rigirando sarebbe stato quest’estate in un container surriscaldato in mezzo all’oceano. So da dove parto, questo sì, ma il dove della domanda con il futuro dentro implica di indicare in un mese preciso uno stato in luogo del quale non ho ancora nessuna contezza.

Sapevo e so ancora oggi soltanto che la mia casa, i miei libri, gli oggetti che uso e dai quali sono circondata quotidianamente saranno inscatolati e lontani, non geolocalizzabili, destinati ad arrivare in un posto che al momento non è che un indirizzo, una casa dove non sono mai stata, che non ho ancora visto dal vivo, né calpestato, né annusato, in una città dove non ho mai vissuto, Milano, dove inizierò ad abitare solo alla fine dell’estate. Nel frattempo ad agosto sarò nomade con una grossa valigia, ma molto lontana dall’essere libera e leggera come avessi vent’anni e l’Interrail o davanti e un futuro da decidere a settembre in totale libertà. Ci sono delle zavorre che il tempo piano piano mette addosso, alcune sono volute, altre sono inevitabili, sono materiali, mentali, emotive, di diversa natura ognuna con il suo ingombro ognuna con il suo peso. Per esempio: il trasloco avviene da una casa grande verso un appartamento più piccolo. Nella casa che lasciamo abbiamo vissuto in quattro per otto anni. Anni in cui per almeno due di noi è cambiato tutto per svariate volte: dalle taglie di vestiti e scarpe ai libri da tenere sulle mensole, dagli oggetti con cui intrattenersi ai poster attaccati sulle pareti. Quindi che fare dei vecchi giocattoli che adesso sono nella cantina? È fuori discussione riempire un container di cose che di sicuro non useremo più, al tempo stesso come si fa a disfarsi di tutto senza rimpianti? A non sentire di aver sottratto qualcosa ai miei figli avendoli portati da Roma a Washington da bambini e sradicandoli di nuovo adesso, ormai ragazzi, buttando via tutto quello che gli è appartenuto, il mondo che è stato il loro durante questi anni di crescita? Come ci si libera della zavorra dei ricordi a cuor leggero? E dei sensi di colpa di trasformarli in cose da eliminare? (La lingua italiana è più gentile di fronte a questi dilemmi: in genere si usa un verbo meraviglioso e leggero come liberarsi, quando in inglese “getting rid of something” è proprio sbarazzarsi, ha dentro l’antipatia e il peso dell’ingombro). A questa zavorra dei ricordi dei figli, emotiva e materiale insieme, se ne aggiungono mille altre che hanno a che fare con la consapevolezza che tutto quello che faccio in questi giorni ha il sapore malinconico dell’ultima volta, un lungo ed estenuante saluto a questa vita americana. E forse è questo il motivo per cui si dice che il trasloco sia il secondo evento più traumatico della vita dopo un lutto, si tratta comunque di una forma molto attenuata di un evento simile, in cui dici addio per sempre.

Eppure da qualche giorno, anche se alla domanda di cui sopra non so ancora rispondere, di fronte a me ho liste di cose da fare che non si accorciano mai, alle mie spalle ho ancora tutto da inscatolare, mille cosa di cui sbarazzarmi (da buttare o da dare via, sempre troppa la fatica per parlare di liberazione), la casa da affittare, le persone da salutare, una fila indiana di ultime volte che mi aspettano fuori dalla porta, ho ricominciato a dormire serenamente. Inizialmente non ho capito bene cosa sia scattato perché l’ansia sia diminuita invece di salire, ho pensato che fosse perché a un certo punto mi sono arresa alla paura del futuro, dato che ci sono già dentro: domani è estate e l’estate mi troverà dove sarò, ancora qui, con tutte le mie incertezze, con tutti gli scenari ancora aperti e non potrò fare niente altro che trovarmici dentro e affrontarla.

Però piano piano ho maturato un altro pensiero: che la risposta abbia in fondo molto a che fare con questa cosa che scrivo storie di finzione.

Tempo fa mi ero iscritta a un ciclo di lezioni di mindfulness organizzato dalla scuola di mio figlio, dove indefessi genitori si prestano a queste attività che non si capisce se siano di volontariato o auto promozione. Ho fatto una lezione poi non ci sono tornata più. Ma in quella prima ora introduttiva ho imparato la cosa che mi interessava: che la mente umana è progettata con l’obiettivo della sopravvivenza della specie e non quello della felicità, e che siccome viviamo in una sorta di atavica allerta dai tempi in cui eravamo animali molto fragili come gli altri, in balia delle decisioni di una natura totalmente incontrollabile e di una società poco addomesticata e molto violenta, la mente umana è ancora abituata a costruire scenari possibili, si racconta storie dell’orrore, inferisce informazioni false su cui elabora possibilità drammatiche per le quali predisporre una difesa, in un lavorio incessante di pensieri – perlopiù negativi – che in genere produce solo molta ansia. Ho riflettuto sul fatto che questo lavorìo di partire dal reale e costruire scenari con informazioni false in fondo è il mio lavoro. È bastato togliere quella ì accentata per ottenere gli stessi effetti di un ciclo di mindfulness. Se questo faccio, costruire in continuazione scenari, tanto vale che ne inizi a costruire qualcuno di convincente per il mese di agosto, prepararmi alle eventualità e il gioco è fatto. 

Ma ingannare se stessi è difficile tanto quanto ingannare i lettori. Gli scenari devono essere credibili, le geografie riconoscibili e le storie verosimili (le rime sono volute). E non è detto che i racconti rassicuranti, quelli con il lieto fine che arriva subito, emendati dal male, funzionino bene rispetto ai nostri meccanismi mentali (ricordiamoci, anche narrativamente il fine è la sopravvivenza, non la felicità: tendiamo a smettere di credere alle favole molto presto).

Il fatto è che questa è anche l’estate in cui esce il mio terzo romanzo, che si intitola Erosione (lo pubblica e/o). È il primo libro che scrivo ambientando la storia negli Stati Uniti (tutto si svolge in una casa nella Chesapeake Bay, un luogo molto vicino a dove vivo adesso) e alla fine, anche se parla di tante cose (dal climate change alle difficoltà relazionali all’interno di una famiglia) il racconto si concentra su un solo episodio: un ultimo trasloco. Ci sono tre fratelli adulti, Anna, Geoff e Bruno che dopo anni di fallimentari tentativi di salvare la loro casa al mare, sempre più minacciata dal progressivo innalzamento delle acque, colpita una stagione dopo l’altra da allagamenti e uragani, riescono a venderla. Nel romanzo li troviamo che passano insieme le ultime ore nella villa nella quale hanno trascorso ogni estate della loro vita giovane, prima di consegnare le chiavi; ognuno di loro deve riempire una e una sola scatola con gli oggetti che vuole salvare: un’occasione per fare i conti con il tempo, con l’infanzia, il distacco definitivo da un luogo molto amato e poi odiato. Il romanzo è diviso in tre capitoli, uno per ogni fratello o meglio, uno per ogni scatola che ciascuno riempie con i diversi oggetti che vorrà portarsi via alla fine di quel rito che compiono al contrario (quando erano piccoli la madre gli faceva riempire le stesse scatole prima dell’estate per andarealla casa sul mare). La prima stesura aveva come titolo provvisorio Three boxes, tre scatole: quelle che ho adesso alle mie spalle, nella loro ancora ansiogena vuotezza.

Solo recentemente ho messo bene a fuoco che i fatti raccontati nel romanzo si incastrano profondamente con quelli che sto vivendo in questo esatto periodo. Ma il libro l’ho scritto nel 2020, l’anno immobile. L’ho iniziato durante il primo lockdown, il periodo più fermo del mondo, in cui era inimmaginabile anche solo l’idea di viaggiare, figuriamoci quella di traslocare, di trasferirsi in un altro continente. Eppure, potenza delle coincidenze, il romanzo esce nello stesso giorno del mio volo per l’Italia (questa volta solo andata). Come un’autofiction al contrario. In cui è il racconto a fare la vita e non viceversa.

Quando ho iniziato a scrivere pensavo che la storia che volevo raccontare avesse come centro tematico principale il cambiamento climatico e l’impatto che ha già sul tempo presente, sugli esseri umani in ogni parte del pianeta, adesso, non in un futuro che necessita di essere raccontato attraverso distopie. Non sapevo che sarebbe venuto fuori un romanzo che parla di scatole, di traslochi, di oggetti da conservare, di fatica nel gestire i ricordi. Dell’eterna paura del distacco che ritroviamo in ogni fase della vita che prevede un passaggio, e non sapevo che in un certo senso sarebbe stato anche questo un coming-of-age novel, pure se i protagonisti sono tutti adulti. Perché alla fine non si sfugge al tema del tempo, del cambiamento, del passaggio di età, intesa in senso lato come epoca della vita, (non per forza quella che riguarda la fine dell’infanzia o la perdita dell’innocenza). Erosione è la storia di una transizione importante e difficile che prevede la capacità di lasciar andare, il doloroso sforzo di girare le spalle e salutare per sempre un posto dove hai piantato delle radici, seppur precarie e sottili. Non sapevo che mi sarei ritrovata nei panni di un cinico avvocato italoamericano che crolla di fronte a una porta da aprire e poi richiudere per sempre. Avendo scelto di raccontare tre personaggi diversi tenendo tutti e tre molto lontani dalle tracce di una possibile autobiografia, è molto interessante ritrovarmi a posteriori dentro questa coincidenza di eventi, constatare di essere dentro la storia che ho inventato in un momento in cui non prevedevo per me niente di simile. La storia di un trasloco definitivo e di un addio. È questo che probabilmente mi ha aiutato a placare l’ansia. Quello che ho scritto, in qualche modo l’ho già vissuto. I tre fratelli alla fine ce la fanno a chiudere quella porta e andarsene. Ce la farò anch’io. E se non sarà felicità sarà sopravvivenza. Ma confido comunque nel lieto fine.

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