Elena Stancanelli

ARTICOLO n. 52 / 2025

DAVID FOSTER WALLACE E IL TENNIS

Di cosa parliamo quando parliamo di sport

Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato.

Il tennis è geometria piana, scrive David Foster Wallace. Un campo da tennis è come una scatola di cartone con i lembi ripiegati all’infuori. «La rigida esattezza delle divisioni e delle delimitazioni, unita al fatto che – a parte il vento e gli effetti anomali – le palle possono viaggiare solo in linea retta, fa sì che il tennis da manuale non sia altro che geometria piana. È come giocare a biliardo con palle che non ne vogliono sapere di star ferme. È come giocare a scacchi correndo. Sta all’artiglieria e agli attacchi aerei come il football sta alla fanteria e alla guerra di trincea».

Impossibile trovare una definizione migliore per questo sport psicotico di «giocare a scacchi correndo». David Foster Wallace, per esperienza personale e per ossessione letteraria, conosceva il tennis alla perfezione. Era stato un quasi campione in adolescenza, poco dotato sul piano fisico – lo racconta lui stesso nello stesso saggio da cui è tratta la citazione precedente, intitolato Tennis, trigonometria e tornado e pubblicato per la prima volta su Harper’s nel 1991.  Contenuto poi nella stessa raccolta – A Supposedly Fun Thing Ill Never Do Again negli Stati Uniti, in Italia in Tennis, tv, trigonometria, tornado (minimumfax) – in cui si trova anche Labilita professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, lassurdità e la completezza dellessere umano (eh, sì, questo è il titolo). Dove lo scrittore ribadisce: «Mi sento di affermare che il tennis è lo sport più bello che esista e anche il più impegnativo. Richiede controllo sul proprio corpo e, coordinazione naturale, prontezza, assoluta velocità, resistenza e quello strano miscuglio di prudenza e abbandono che chiamiamo coraggio». È qui che spiega come il suo fosse uno stile di gioco difensivo, «una strategia che Martin Amis descrive come vile recupero», cioè nell’abilità a rimandare sempre la palla di là, aspettando che l’avversario compia un errore. Un gioco vigliacco, insomma, ma per il quale è necessaria una eccellente propensione per la matematica intuitiva.

Dunque DFW non era un tennista di strabiliante qualità muscolare, ma un giocatore intelligente, un giocatore a tutto campo. Considera la sua più grande dote tennistica il sentirsi a proprio agio tra linee rette e spiega che come giocatore era in grado di calcolare non soltanto le angolazione prodotte dai suoi colpi, ma anche le angolazioni di risposta alle sue angolazioni, in un crescendo di anticipazioni che comprendeva persino le variabili impresse dal vento. Di questo in particolare, di vento, lo scrittore sente di essere maestro. Tanto da riuscire a incanalare tiri curvi dentro folate trasversali per non farli finire fuori e di aver brevettato uno speciale servizio a vento con un effetto tale che la palla «diventava ovale in aria».

Ma poi i ragazzi intorno a lui crescono, si irrobustiscono, maturano e diventano più forti. E la sua potenza fisica, già scarsa, aumenta la distanza dai migliori. Oltre al fatto che la sua abilità di adattarsi perde valore quando, salendo di categoria, iniziano a diminuire le difficoltà a cui adattarsi, tra le quali i capricci del meteo. «La mia carriera tennistica nel Midwest si arrestò nel momento in cui vidi il mio primo telone antivento», scrive. Accantonate le velleità di atleta, si iscrive all’università e a venticinque anni pubblica il suo primo romanzo, La scopa del sistema. Ma resta un tifoso e un cultore del tennis. Nel 1992 scrive Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore (che si trova adesso nella raccolta intitolata Considera laragosta) e subito dopo un saggio intitolato Democrazia e commercio agli Us Open. Dieci anni dopo pubblica Federer come esperienza religiosa(2006), forse il più bello degli scritti dedicati al tennis e tra le migliori cose di non-fiction della sua intera carriera. 

Roger Federer, svizzero, tra i più importanti tennisti di tutti i tempi, incarna l’ideale estetico di DFW. Lo scrittore si sofferma a lungo proprio sulla bellezza, una bellezza particolare che definisce cinetica. Ma in cosa consiste?

L’incontro che sta al centro di questo saggio è la finale maschile di Wimbledon: Federer vs Nadal. Due perfetti esemplari di categorie opposte. Rafael Nadal con il suo il machismo passionale del sud Europa, marziale, mesomorfo, dai bicipiti smanicati e le grida belluine di auto-incitamento. Roger Federer, biondo, elegante, silenzioso, la maestria clinica e intricata del Nord. Apollo e Dioniso, bisturi e accetta. Sono due giocatori eccellenti, inutile dirlo, ma lo svizzero ha una cosa in più, una dote “metafisica”, secondo DFW, che costituisce la sua particolare bellezza. 

Il rovescio a una mano, il servizio flessuoso e sobrio, il gioco di gambe ineguagliabile che gli deriva, anche, dall’esser stato da bambino un prodigio del calcio… Tutto vero, ma non basta. Federer, spiega DFW produce angolazioni, quelle famose angolazioni che erano state la specialità dello scrittore, che arrivano da lontano, da tre, quattro colpi prima. Solo così può permettersi di spedire da una parte all’altra del campo avversari fortissimi. Ma ancora non basta. La verità è che Federer è uno di quei pochi geni dello sport preternaturali, come Muhammad Ali o Michel Jordan o Maradona, che riescono a smarcarsi da alcune leggi della fisica. Non è mai sbilanciato e quando la palla gli va incontro sembra rallentare, rimanere in aria una frazione di secondo di più per aiutarlo a colpirla nel modo giusto. Proprio come Jordan che saltava ben oltre il possibile e rimaneva sospeso più di quanto consentirebbe la gravità, o Alì che assestava tre jab nel tempo richiesto da uno solo. È’ grazie a questa virtù, metafisica, che riesce in imprese inaccessibili a chiunque altro, sorprendendo gli spettatori e gli avversari in quelli che DFW chiama “Momenti Federer”, cioè quei punti per i quale vale un’unica domanda: ma come diavolo ha fatto?

Il 12 settembre 2008 DFW scrive un lungo messaggio di addio, corregge le bozze del suo ultimo romanzo Il re pallido, e si impicca a una trave del suo salotto. Ha 46 anni e soffre da sempre di depressione. Potremmo dire che è stato un fantastico commentatore di questo sport, un acuto osservatore, un giocatore di matematico talento ma sprovvisto di eccellenza atletica… Potremmo dire che quanto ha scritto sul tennis è incredibilmente interessante e liquidarlo come un ottimo critico. Se nel 1996 non avesse scritto Infinite Jest.

Non ci metteremo qui a dire cosa sia questo romanzo di più di mille pagine e quasi quattrocento note, questo Karakorum letterario sul quale si sono spaccati la testa critici e lettori dal giorno della sua uscita. Non lo faremo perché qui ci limitiamo a parlare di tennis, e dentro Infinite Jest, insieme a moltissime altre cose, di tennis ce n’è parecchio. A cominciare dall’ambientazione, nella Enfield Tennis Accademy di Enfield, Massachusetts (ETA), fondata dal dottor James Orin Incandenza, esperto di fisica ottica e autore del perduto film Infinite Jest, capace di indurre nello spettatore un piacere fisico tale da generare dipendenza. All’inizio del romanzo il giovane Hal Incandenza, figlio di Orin, viene ammesso nell’Accademia. L’Allenatore capo e direttore atletico della quale è Gehrardt Schtitt. Austriaco, occhi azzurri, capelli bianchi tagliati a spazzola, carnagione chiara e alcuni segreti nel suo passato, Schtitt è logorroico e saccente, ma è a lui a farci capire perché è proprio il tennis l’ossessione di uno scrittore titanico e in parte spaventoso come DFW.

«La cosa più importante è la ripetizione», spiega ai suoi ragazzi, fare sempre le stesse cose ripetere gesti e movimenti fin quando quei gesti e quei movimenti sprofondano dalla coscienza e «diventano parte del linguaggio macchina, della parte autonoma che vi fa respirare e sudare». Il linguaggio macchina dei muscoli che libera la testa e consente di passare dalla bravura all’eccellenza. Lo stesso allenamento, viene da pensare, che consente a uno scrittore di liberarsi della tecnica per ottenere l’altrove, la magia, l’arte. Inoltre, spiega, il tennis è l’arte delle varianti, delle infinite possibilità di risposta, e di risposta a quella risposta: la progressione algebrica delle angolazioni. Proprio come avviene in tutti i romanzi di DFW, che sono appunto geometrie su geometrie su geometrie, chilometri cubi di variabili. Ma tutto questo, spiega Schtitt consegnandoci l’ultima e cruciale tessera per comporre il mosiaco, non ha a che fare con l’avversario, ma con se stessi. «C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti». L’altro, l’avversario è dunque un pretesto, l’occasione per incontrare e sfidare il proprio io. Impossibile trovare una definizione migliore per questa attività psicotica che è la letteratura.

ARTICOLO n. 32 / 2025

JULIE HA UN SEGRETO

In collaborazione con I Wonder pubblichiamo un testo di Elena Stancanelli su Julie ha un segreto, nelle sale cinematografiche dal 24 aprile.

Il cinema si è accorto dello sport. Forse per la stessa ragione per cui si assoldano attori contando i loro follower sui social: lo sport ha tifosi e appassionati che si pensa possano essere trasformati facilmente in pubblico di cinema. Ma il passaggio non è così scontato. Raccontare lo sport è difficile, ogni gara riprodotta ha un coefficiente di interesse minore della gara originale. Nei biopic, come quello sulle sorelle Williams o su Niki Lauda e James Hunt, il pubblico deve accettare che l’adrenalina dello scontro è quasi azzerata dal fatto che conosci già il risultato. Non a caso tra i meglio riusciti ci sono quelli i cui originali non sono così noti, come per esempio Tonya, storia della pattinatrice Tonya Harding.  Il cui interesse, oltretutto, è non tanto nell’epica della gara ma nella disperata vicenda umana della protagonista.

Lo sport va costeggiato, tenuto sullo sfondo, usato per raccontare qualcos’altro. Come in Moneyball di Bennet Miller, il film nel quale Brad Pitt interpreta un allenatore che riesce a mettere insieme una squadra di baseball vincente con pochi soldi, andando a cercare i giocatori non sulla base della loro fama ma perché corrispondono a elementi di un modello matematico. Questo schema, lo sport che regge un altro tema importante, è lo stesso di Julie ha un segreto, opera prima di Leonardo Van Dijl. Lo sport in questione è il tennis. Che, rispetto per esempio al baseball o al calcio o a qualsiasi altro sport di squadra, non può contare neanche sull’emozione della squadra.

Il tennis, lo racconta benissimo David Foster Wallace, è infatti una nevrosi. Perché si gioca da soli, stando lontanissimi dall’avversario con il quale non si ha mai un contatto fisico, e perché è sottoposto a una tale quantità di varianti ambientali che, se affrontate, possono farti uscire di testa. La superficie: tra la terra battuta, l’erba e il cemento ci sono enormi differenze di gioco. O i venti, come spiega sempre Foster Wallace in un racconto intitolato Tennis, trigonometria e tornado. E poiché il tennis è una nevrosi, è nello stesso tempo anche una religione. Roger Federer come esperienza religiosa è infatti il titolo di un altro racconto di Foster Wallace, nel quale si teorizza l’epifania dei cosiddetti “Momenti Federer”, in cui «spalanchi la bocca, strabuzzi gli occhi e ti lasci sfuggire versi che spingono tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene».

Sono i momenti nei quale il tennista svizzero fa cose impossibili, e la pallina prende traiettorie che non si vedono neanche nel film Matrix. Per questa ragione il film di Luca Guadagnino, Challengers, nonostante racconti la storia di tre giovani tennisti, non ha niente a che fare con il tennis. Il tennis non si presta alla baraonda visiva che il regista gli attribuisce oltre al fatto che gli attori, bravissimi, non sanno giocare a tennis. Non abbastanza da essere credibili. Diversamente da quello accade in questo film, interpretato da una giovane promessa del tennis, Tessa Van den Broeck, che se la cava egregiamente anche come attrice. Questo consente al regista di filmare allenamenti e incontri senza dover forzare per consentire a noi di credere che si tratti davvero di una giovane tennista che frequenta un’Accademia prestigiosa e che di questa Accademia è la stella.

Le scene sui campi sono tutte molte belle, di grande precisione formale che, appunto, è opposta alla frenesia del film di Guadagnino. Se esistesse un Edward Hopper del tennis, sarebbe il riferimento visivo ideale. Panchine, angolature, riprese dei campi sono composte come quadri. Ma non sono solo le immagini a essere eleganti e quasi sospese. Il modo in cui la storia viene raccontata, attraverso una continua ellissi del centro, produce nello spettatore una affezione particolare. Come se ci venisse concesso di entrare nell’argomento, di cui si intuisce la scabrosità, lentamente e senza sforzo. La stessa lentezza con cui, scopriamo alla fine, la giovane Julie elabora quello che le è accaduto.

Il film si apre con la rivelazione che una allieva dell’Accademia, un’altra promessa del tennis, si è uccisa. E che il suo coach, lo stesso di Julie, è indagato per qualcosa che non sappiamo e quindi sospeso dalla sue funzioni. Tutto il resto, lo svolgersi della vicenda e della consapevolezza, lo vediamo accadere nella composta emotività della giovane tennista. C’è quindi una vicenda in superficie, come dicevamo accadere spesso nei racconti dello sport, e un’altra che si muove sotterranea, misteriosa. Che quasi “matura” nella durata temporale del film. Intorno a Julie il vivaio di giovani promesse comprende l’inevitabile carico di invidie e gelosie, ma, sottoposto all’urto degli eventi, si rivela anche una fortezza nella quale rifugiarsi. Julie, come chiunque passi attraverso una vicenda che coinvolge fiducia e ambizione, ha una ferita difficile da sanare. Ha bisogno di tempo, elaborazione e una rete che la sorregga. La famiglia, gli amici, il tennis.

Julie ha un segreto è anche il racconto di chi cerca le parole per dirlo. Non è un caso che sia ambientato in una zona del mondo dove le lingue si sovrappongono, dove è necessario conoscerne almeno un paio per destreggiarsi tra le persone. Julie gioca a tennis meglio di chiunque nella sua scuola, ma il linguaggio del campo, quello costruito nella relazione con il suo allenatore, le viene sottratto. Non le rimane che tacere, a lungo, aspettando di ritrovare la strada per comunicare con gli altri. Nella sua solitudine, lontano dalle pressioni di tutti, Julie trova finalmente il modo per rivelare il suo segreto, senza che questo segreto la distrugga.

Julie ha un segreto non somiglia alla grossolana volontà pedagogica del cinema di questi anni, che sceglie un tema e poi si accerta di aver restituito il giusto messaggio, pena l’espulsione dal mondo dei buoni. Ha una sceneggiatura raffinata, rifugge le scene madri, indugia su particolari che sembrano insignificanti, come i momenti nei quali, nel suo silenzio, Julie porta fuori il suo cane bassotto. Ma è proprio in quella sospensione, in quella intelligenza profonda delle cose, che il film rivela la sua anima gentile ma non per questo meno risoluta. E la domanda, che sottende la storia: com’è possibile che abbiamo dimenticato la prossemica dei rapporti tra adulti e adolescenti?

Trova il film nelle sale vicino a te.